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FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA ANNO ACCADEMICO 2014/2015 STORIA DELLA FILOSOFIA POLITICA (docente: prof.ssa Annamaria Loche) Schede sui principali concetti analizzati nel corso Il totalitarismo e le forme del potere assoluto

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FACOLTA’ DI STUDI UMANISTICI

CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

ANNO ACCADEMICO 2014/2015

STORIA DELLA FILOSOFIA POLITICA

(docente: prof.ssa Annamaria Loche)

Schede sui principali concetti analizzati nel corso

“Il totalitarismo e le forme del potere assoluto”

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INDICE

Premessa p. 3

Assolutismo p. 4

Autocrazia p. 9

Autoritarismo p. 11

Dispotismo p. 15

Dittatura p. 23

Falangismo/Franchismo p. 33

Peronismo/Giustizialismo p. 36

Tirannide/Tirannia p. 38

Totalitarismo p. 41

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PREMESSA

Si danno di seguito alcune rapide ed essenziali definizioni dei principali termini che hanno

costituito argomento del corso. Il materiale è presentato in forma di rapide voci di dizionario; per

questo motivo alcuni temi ritornano più di una volta, data la difficoltà di separare in modo netto le

argomentazioni e i caratteri dei concetti presi in esame.

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ASSOLUTISMO

Etimologia: dal latino ab-solutus sciolto, libero da quindi senza limiti e controlli

In senso tecnico il termine ASSOLUTISMO sorge nell’ambiente culturale e politico liberale, tra la fine del

Settecento e l’inizio dell’Ottocento, per indicare un tipo di governo privo di limiti e controlli in particolare

in quel contesto storico si intende con ASSOLUTISMO un genere di regime opposto al governo monarchico,

che non può essere ancora definito costituzionale, ma che, in un certo qual senso, è regolamentato e

controllato. Nell’Ottocento, invece, il termine va gradualmente assumendo anche una connotazione positiva,

in quanto segna la contrapposizione tra i sistemi a governante unico, cioè le monarchie quali sistemi

“stabili”, e i governi che derivano dagli avvenimenti rivoluzionari e insurrezionali che si susseguono nel XIX

secolo. In entrambi i casi il concetto di ASSOLUTISMO ha un significato, se non generico, perlomeno non

definibile in senso preciso.

Anche nei tempi attuali il termine viene spesso usato in modo generico per indicare tutti i tipi di governo

o non democratici o, genericamente, autoritari e antiliberali; in questo senso viene spesso utilizzato

indifferentemente come sinonimo di altri sostantivi quali dispotismo o tirannide. Esso ha invece

un’accezione specifica e tecnica che consente di distinguere questo concetto da altri simili e di precisarne il

significato dall’uso che del termine si fa nel linguaggio comune.

In questa prospettiva, è necessario tener conto non soltanto del momento in cui il concetto di

ASSOLUTISMO comincia ad apparire (come si è visto sopra), ma anche del contesto in cui può essere

collocato all’interno dell’esperienza politico-costituzionale dell’età moderna.

È quindi essenziale precisare in via preliminare che il termine ASSOLUTISMO:

a. va inserito nell’ambito cronologico dell’età moderna perché si pone in un orizzonte concettuale

che è del tutto estraneo alle esperienze politiche del mondo medievale;

b. va riferito all’esperienza del mondo occidentale; e ciò consente di differenziarlo dal dispotismo

asiatico e orientale in genere;

c. non può essere compreso al di fuori del processo che ha portato, per quanto concerne gli

avvenimenti storici, all’unità delle monarchie nazionali e, per quanto concerne le elaborazioni

teoriche, alla concettualizzazione dello Stato come centro unitario di potere e quindi alla

determinazione del concetto di sovranità.

In senso tecnico è quindi possibile definire l’ASSOLUTISMO come un potere codificato e quindi non

arbitrario, in cui i poteri del/dei governante/governanti sono sottoposti a forme, seppur blande, di limiti

legali, che hanno come riferimento norme di matrice secolare.

Riassumendo, dunque, si può distinguere l’ASSOLUTISMO da altre categorie di regime politico di tipo

assoluto:

a. dalla tirannide, in forza della presenza di un potere codificato e quindi di limiti noti e riconosciuti;

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b. da quei regimi (alcune forme di regime dispotico, regimi autocratici etc.) i quali cercano la

legittimazione in una dimensione sacrale o più genericamente religiosa, grazie al riferimento a norme

che sono invece di natura secolare.

Il carattere assolutistico di questo tipo di regime consiste dunque nel fatto che il governante è sottoposto

soltanto alle norme fondamentali (“costituzionali”) dello Stato di riferimento e a quelle di origine naturale o

divina. L’assolutismo consiste quindi nel modo della gestione del potere che è ab- solutus, libero da ogni tipo

di limiti che esulino da quelli indicati sopra.

Da ciò appare evidente come il concetto di ASSOLUTISMO, inteso entro i precisi parametri teorici e

storico-geografici che si sono ricordati, debba essere connesso al concetto di sovranità, il quale costituisce

nell’Occidente moderno l’elemento caratterizzante in modo essenziale le monarchie nazionali, le quali – pur

nella diversità dei loro percorsi storici – sono legate almeno da questo dato comune. Infatti la nascita, il

consolidamento e l’affermazione delle monarchie nazionali a sovranità assoluta avviene sulla base dello

sfaldamento dell’universo politico medievale dove possiamo dire che, grosso modo, convivevano elementi

universalistici (il Papato e l’Impero) e elementi fortemente frammentati (il sistema feudale, quello comunale

e i vari tipi di signorie locali). Come è stato giustamente osservato [si veda la voce ASSOLUTISMO, curata

da P. Schiera nel Dizionario di politica diretto da N. Bobbio e N. Matteucci, Utet, Torino] questo processo fu

reso possibile anche da un preciso fenomeno di natura giuridica: la sostituzione di un diritto incerto, di vaga

origine divina e sacrale, con una concezione laica del diritto stesso, sostituzione favorita anche dalla

riscoperta, dallo studio e dalla rielaborazione del diritto romano-giustinianeo.

Ciò comporta l’affermarsi del riconoscimento del princeps come fonte unica dell’elaborazione

dell’apparato legislativo dello Stato: in questo senso il sovrano dello Stato moderno si presenta come

absoluts dal diritto, libero da esso. Il sovrano come persona giuridica è cioè fonte del diritto, è colui che crea

il diritto e, in quanto tale, è al di fuori e al di sopra di esso [in questa direzione sono fondamentali le opere di

filosofia politica di Thomas Hobbes (1588-1679) e, in particolare, il De cive, 1642, e il Leviathan, 1651]. Per

converso il diritto è rivolto ai sudditi e di essi regola il comportamento esterno.

L’ASSOLUTISMO si fonda quindi sui due principi su cui si basa la monarchia nazionale moderna, che si

esprimono con le due note formule: “superiorem non recognoscens” e “quod principi placuit legis habet

vigorem”.

Superiorem non recognoscens grazie a questo principio, il sovrano laico dello Stato nazionale

a. si svincola da ogni interferenza del diritto divino, inteso sia come norma di diritto naturale che

interferisce direttamente nella creazione del diritto positivo (sebbene il limite costituito da un diritto

naturale divino o razionale sia quasi sempre riconosciuto; si veda, però, l’eccezione rappresentata da

Hobbes), sia e soprattutto come norma di derivazione papale;

b. si libera dal dominio secolare del potere imperiale;

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c. oppone la propria sovranità unica e assoluta ad ogni tipo di sovranità in qualche modo limitata e

parcellizzata, come avviene nei complessi rapporti di trasmissione del potere propri delle strutture

politiche feudali.

Quod principi placuit legis habet vigorem si tratta di un principio – sorto e affermatosi soprattutto in

connessione ai problemi nati con la Riforma protestante – che esplicita come la volontà del sovrano

costituisca la legge dello Stato.

A) Jean Bodin

Sul piano storico – lo si è accennato in apertura della voce – il fenomeno dell’ASSOLUTISMO precede

l’utilizzazione del termine in senso teorico; l’affermarsi dell’ASSOLUTISMO come fenomeno storico

è infatti da collegare ad alcuni momenti fondamentali del pensiero politico moderno e si connette

strettamente, come si diceva poco sopra, al delinearsi del concetto di sovranità. Per questo il primo

riferimento d’obbligo è all’opera di Jean Bodin (1530-1596) I sei libri della Repubblica (1576), la cui

composizione si inserisce in quell’ambiente della monarchia francese che vede realizzarsi, pur tra

grandi difficoltà, il primo compiuto progetto continentale di monarchia assoluta. L’operazione che

Bodin compie nel suo trattato è quella di connotare in modo moderno il concetto tradizionale di

sovranità che indicava la summa potestas, cioè quel potere che non ne ha un altro sopra di sé, che non

deve quindi rispondere del proprio operato ad altri che a se stesso. Quel processo, di cui si è già

parlato, grazie al quale, rompendo l’orizzonte politico medievale, alcuni poteri locali ebbero la

possibilità di svincolarsi dalla subordinazione ai poteri universalistici, consente a questi ultimi di non

riconoscere sopra di sé autorità alcuna. In questo senso Bodin definisce la sovranità come “quel potere

assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato” [I sei libri della Repubblica, tr. it. Utet, Torino, p. 345].

Come si vede dunque la sovranità si caratterizza non solo in quanto perpetua, ma anche in quanto

assoluta, anche se è evidente che la perpetuità è, a sua volta, un elemento indispensabile

dell’assolutezza.

Bodin prevedeva tuttavia alcuni limiti per il potere assoluto:

a. le leggi naturali e divine;

b. le leggi fondamentali dello Stato;

c. le leggi della proprietà individuale (“leggi civili”).

Si tratta leggi di tipo diverso:

le leggi fondamentali sono leggi umane, controllabili e correggibili (e, ad esempio, se un sovrano le

viola o le cambia, il suo successore ha il potere, il diritto o il dovere di ripristinarle);

le leggi naturali e divine sono leggi difficilmente determinabili e il sovrano assoluto, se le infrange, ne

risponderà davanti alla propria coscienza o davanti a Dio, non davanti agli uomini né, tanto meno,

davanti ai suoi sudditi.

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le leggi civili sono leggi umane, e la loro presenza tra i limiti posti al sovrano è stato interpretato in

due modi opposti:

a. alcuni studiosi sostengono che quest’ultimo tipo di limiti in realtà è dal filosofo esposto con una

serie di eccezioni che lo vanificano (e deve necessariamente essere così, o il sistema bodiniano

sarebbe autocontraddittorio);

b. altri sottolineano invece il grande rilievo di questo tema che introdurrebbe in modo consapevole la

distinzione, poi fondamentale in tutti i secoli successivi, tra sfera pubblica e sfera privata, tra

società politica e società civile, cosa che anziché indebolire, rafforzerebbe il concetto stesso di

ASSOLUTISMO.

In ogni caso, si noti che attraverso la precisazione di questo concetto di sovranità assoluta arriva a

compimento un processo fondamentale della filosofia politica moderna: il processo che crea una dimensione

autonoma della politica e che già aveva ricevuto un contributo fondamentale dall’opera di Nicolò

Machiavelli (1469-1527). Quindi il tema dell’ASSOLUTISMO e quello della laicità della politica appaiono

strettamente connessi.

B) Thomas Hobbes

Il più importante e più conseguente teorico dell’ASSOLUTISMO e della sovranità assoluta in età moderna

è tuttavia Thomas Hobbes, con le sue principali opere politiche (oltre quelle già citate, si ricordi anche

Elementi di legge naturale e politica, 1640). Hobbes vive in un periodo e in una situazione storica molto

diversi da quelle in cui si muoveva Bodin; ciò comporta una delineazione teorica del concetto di sovranità

assoluta più complesso e teoreticamente più rigoroso. L’ASSOLUTISMO di Hobbes costituisce l’espressione

filosoficamente più compiuta di questo concetto, fondata su una precisa concezione antropologica e su un

metodo di ragionamento estremamente stringente.

Per Hobbes la connessione tra sovranità e assolutezza è necessaria, perché un potere politico non può

essere definito sovrano se non è assoluto ed egli con “assolutezza” intende la reale e totale assenza di ogni

limite.

L’antropologia di Hobbes comporta che tutti gli uomini sono uguali per natura, ma questa uguaglianza

consiste nell’uguale possibilità per tutti di morire di una morte violenta; tale possibilità è altissima nello stato

di natura, perché gli esseri umani, proprio per garantirsi maggiori probabilità di sopravvivenza, si scontrano

per appropriarsi del numero maggiore di beni disponibili (nella speranza di divenire più forti degli altri),

seguendo quello che è il diritto naturale. Hobbes precisa che le leggi di natura – che egli considera semplici

consigli di natura razionale – spingono gli esseri umani a cercare la pace (o, se ciò è impossibile, i mezzi

necessari per la guerra) e indicano l’unico mezzo adatto ad ottenere questo scopo: essi devono stringere tra

loro un patto per il quale tutti cedano contestualmente i propri diritti naturali (tranne quello alla vita) alla

comunità nel suo insieme e in un secondo momento questa – che è diventa così una persona morale, dotata

di personalità giuridica autonoma – trasferisca l’insieme di tali diritti e la personalità ad un sovrano. Questi è

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assoluto (ab-solutus) perché del tutto privo di limiti e controlli da parte di chiunque e non è vincolato da

obblighi pattizi nei confronti di coloro che gli cedono i propri diritti: infatti il sovrano si limita a ricevere i

diritti, che gli vengono conferiti con un atto unilaterale da parte del popolo e, insieme a tali diritti, assume

tutto il potere che essi includono. All’interno dello Stato il sovrano diviene così la fonte del diritto e delle

leggi e non ha quindi senso sostenere che ad esse egli debba “obbedire”; al di fuori di esso, egli è, come tutti,

sottoposto alle leggi naturali, ma queste non sono obbliganti perché, in caso di inadempienza ai loro dettami,

non vi è alcun potere umano che preveda sanzioni contro chi le infranga e quindi costringa a rispettarle.

Inoltre il sovrano è ab-solutus in quanto è la fonte della legge positiva; è quindi “sciolto” dall’obbligo di

obbedire alle leggi dello Stato che emana a proprio piacimento e secondo la propria volontà. Il sovrano è il

solo giudice delle azioni che compie, in tutte le sfere e a tutti i livelli: per questo Hobbes lo definisce come

un grande corpo artificiale (il Leviatano, appunto), che tutto comprende e su tutto comanda, un dio mortale,

il cui assolutismo e la cui illimitatezza di potere derivano dal fatto che nessuno può obbligarlo ad agire in un

modo anziché in un altro, mentre egli ha questo potere verso i membri della società nella loro totalità e nella

loro singolarità.

Riassumendo, il potere del sovrano è per Hobbes assoluto in due sensi:

ab origine, in quanto, pur sostenendo una concezione contrattualistica dell’origine dello Stato, Hobbes

esclude che il sovrano entri in rapporto pattizio con coloro che diverranno i sui sudditi (“sciolto” dal

patto);

nella gestione dello Stato perché il sovrano è l’unico autore delle leggi, che può cambiare a proprio

piacimento e quindi ad esse non deve prestare obbedienza (“sciolto” dall’osservanza delle leggi).

Un simile concetto di ASSOLUTISMO produce nella storia del pensiero politico un altro importante

effetto, perché per la prima volta si nega la distinzione di origine aristotelica tra forme corrette e forme

degenerate di governo: in qualunque modo il potere politico sia gestito, se è assoluto e illimitato, non può

essere giudicato ed è quindi al di là delle categorie di “buono” o “cattivo”, di “giusto” o “ingiusto”.

L’ASSOLUTISMO assume con Hobbes, per un verso, delle caratteristiche di totale estraneità ad ogni

limite (anche di giudizio morale e/o politico) e, per un altro, di garanzia della stessa sopravvivenza degli

esseri umani come singoli e come comunità. Tuttavia in questo modo tale concetto consente di chiarire che

cosa può intendersi in epoca moderna con potere politico, che cosa con Stato come persona morale e

giuridica, che cosa con obbligazione politica, che cosa con autorità e, anche, quale sia il senso del rapporto

tra sovrano e sudditi/cittadini. Sebbene l’esperienza politica dei secoli successivi vada nella direzione della

formazione di forme di potere costituzionali, e quindi in vario modo limitate, il chiarimento teorico della

sfera della politica positiva è possibile solo partendo dal concetto di ASSOLUTISMO teorizzato in epoca

moderna e da Hobbes in particolare.

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AUTOCRAZIA

Etimologia: dal greco αὐτόςκράτος dominio autonomo

Si tratta forse del termine più generico tra quelli che si esaminano in questa sede, poiché non è del tutto

agevole individuarne un significato tecnico preciso. Si noti infatti in proposito che il Dizionario di politica

(cit.) tratta questo concetto sotto la voce “Dittatura”.

In senso specifico lo si è usato per definire il potere degli zar in Russia, perché tende a indicare una

concentrazione massima di potere, assolutamente privo di controllo; l’AUTOCRAZIA comporta anche che il

sovrano sia in un certo qual senso “divinizzato”.

Nell’AUTOCRAZIA manca qualsiasi possibilità di cogestione del potere e pare esclusa persino una figura

stabile di un “consigliere del principe”. In questo senso, tutte le figure che rivestono compiti ufficiali sono

autorità realmente subordinate e quindi totalmente prive di spazio o di autonomia nella gestione di settori

anche limitati dell’organizzazione statuale.

Da quest’ultimo punto di vista, tutti i tipi di potere assoluto trattati in queste pagine possono o meno

essere autocratici.

Nel suo significato più generale, l’AUTOCRAZIA si definisce in negativo, tenendo conto a contrario di

alcuni tratti specifici della democrazia, in quanto indica un modo di gestione del potere in cui si considera il

popolo incapace di capire i reali interessi dello Stato e quindi facile preda dei demagoghi; di conseguenza

l’AUTOCRAZIA comporta:

1. la segretezza nell’esercizio del potere → contro la pubblicità propria della democrazia;

2. l’invisibilità del potere → contro la trasparenza richiesta dalla democrazia

Il potere autocratico ha necessità della segretezza e della invisibilità anche per poter meglio fronteggiare i

nemici esterni; tuttavia spesso il pericolo esterno diventa un pretesto per poter rafforzare il potere interno.

Scrive in proposito Bobbio:

solo il potere segreto riesce a sconfiggere il potere segreto altrui, la cospirazione, la congiura, il

complotto. [...] Il potere autocratico [...] non solo pretende di essere in grado di sventare [il potere]

segreto altrui meglio del potere democratico, ma quando è necessario lo inventa, per potersi

rafforzare, per poter giustificare la propria esistenza. [...] Dove c’è il tiranno, c’è il complotto: se non

c’è, lo si crea (Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999, pp. 355-6).

Le tecniche del silenzio e del segreto consentono al regime autocratico di avvalorare la diffusione delle

notizie false; la “parola” serve all’autocrate soprattutto per mentire e mistificare, cosa che gli riesce tanto più

facile in quanto per definizione nell’AUTOCRAZIA le fonti delle informazioni sono monopolizzate da chi

detiene il potere politico.

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Elemento centrale dell’AUTOCRAZIA è la considerazione del popolo come massa informe, ignorante e, in

ogni caso, “minorenne”. Osserva sempre Bobbio nel testo citato che le due figure a cui ricorre l’autocrate per

definire il proprio ruolo sono quella del padre o quella del medico:

i sudditi non sono cittadini liberi e sani. Sono o dei minorenni da educare o dei malati da curare. [...]

l’occultamento del potere trova la propria giustificazione nella insufficienza se non addirittura nella

indegnità del popolo. Il popolo o non deve sapere, perché non è in grado di capire, o deve essere

ingannato, perché non sopporta la luce della verità (p. 342).

Riassumendo, quindi, le caratteristiche precipue di un’AUTOCRAZIA sono:

la monocrazia;

la segretezza nell’assunzione delle decisioni;

l’invisibilità nell’esercizio del potere;

l’utilizzazione anche strumentale e mistificata del “pericolo esterno” o del complotto interno;

l’utilizzazione costante e programmatica della menzogna e della falsificazione;

la considerazione del popolo come massa informe e ignorante;

il carattere fortemente paternalistico.

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AUTORITARISMO

Etimologia: dal latino auctoritas, autorità

Dal termine latino auctoritas deriva una serie di altri sostantivi, verbi, aggettivi, tutti concernenti la sfera

della politica, ma con significati a volte diversi, se addirittura non divergenti: autorità, autoritarismo,

autorizzare, autorevolezza, autoritario. Tra questi, riguardano in modo specifico l’argomento del corso

AUTORITARISMO e l’aggettivo correlato autoritario.

La connessione con il sostantivo “autorità” implica un’interpretazione specifica di tale termine che lo

riporta a una struttura di comando forte, la quale sottende un’antropologia inegalitaria; è stato infatti detto

che l’AUTORITARISMO

è una manifestazione degenerativa dell’autorità: una pretesa e un’imposizione dell’obbedienza che

prescinde in gran parte dal consenso dei sottoposti e ne opprime la libertà [M. Stoppino, in

Dizionario di politica, cit., p. 84].

Emergono quindi in prima istanza due caratteri costitutivi del concetto:

un’antropologia inegalitaria;

una contrapposizione alla categoria politica del consenso.

La contrapposizione con il concetto di “consenso” mostra come la nozione di AUTORITARISMO oggi

viene letta in senso antitetico alla democrazia, cioè, appunto, alla elaborazione di meccanismi di consenso e

di partecipazione consapevole alla politica e alle questioni pubbliche.

Il termine AUTORITARISMO – sempre secondo Stoppino – ha un’estensione d’uso in tre campi diversi,

seppure tra loro strettamente coincidenti:

il campo della definizione della “personalità autoritaria”;

il campo della tipologia dei regimi di governo;

il campo dell’ideologia politica.

A) La personalità autoritaria

La definizione della “personalità autoritaria” è stata coniata negli anni Trenta del Novecento per

denotare un tipo psicologico tendente allo zelo adulatorio verso i superiori e al disprezzo arrogante verso gli

inferiori, un tipo psicologico che inizialmente ha avuto come campo di indagine personalità definibili come

“fasciste” di individui appartenenti alle classi sociali medio-alte. Gli studiosi hanno definito “personalità

autoritaria” quella dei gerarchi fascisti e nazisti; per altro verso, costoro hanno spesso giustificato le azioni da

loro compiute in assoluto dispregio dei diritti umani come dettate dall’attitudine psicologica a obbedire senza

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discussione ai comandi superiori. Nello stesso tempo da parte di studiosi antidemocratici e antiegalitari si è

sviluppata anche una concezione positiva della personalità autoritaria, intesa come personalità d’ordine.

Il più autorevole studio sulla personalità autoritaria – intitolato, appunto, La personalità autoritaria – è

costituito dal lavoro di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno (1903-1969); pubblicato nel 1950, è condotto

con metodologia prevalentemente psicoanalitica. Lo studio aveva di mira in particolare l’analisi

dell’antisemitismo come aspetto di un atteggiamento psicologico più complesso, caratterizzato da quei

motivi di sottomissione ai forti e di aggressione verso i deboli cui si accennava poco sopra; a questi caratteri,

secondo Adorno, si accompagnano:

a. il conformismo;

b. una scarsa dialetticità mentale;

c. una centralizzazione degli interessi sul potere sia in senso attivo (desiderio di) sia in senso

passivo (indiscutibilità del).

Il lavoro di Adorno, che tuttavia va considerato fondamentale, è stato sottoposto a molte critiche sia di

metodo sia di contenuto; sono stati infatti criticati:

i metodi di indagine per questionari;

una sorta di pregiudiziale ideologica che avrebbe portato a confondere la tendenza a essere

legati a preconcetti con un atteggiamento politicamente di destra;

l’utilizzazione del solo metodo psicoanalitico che non consentirebbe approcci di tipo diverso (ad

esempio sociologico) al problema.

B) La tipologia dell’Autoritarismo

I regimi collegati al concetto di AUTORITARISMO sono sempre posti in opposizione a quelli

democratici; ma non per questo il termine può compiutamente essere riferito sia alle forme di governo

definibili come “totalitarie”, sia a quelle definibili come “dittatoriali” (nel senso specifico che la dittatura

assume nel XX secolo).

I regimi autoritari infatti non lasciano alcuno spazio alle strutture politiche classicamente democratiche: il

parlamento e i partiti politici. In linea di massima nei regimi autoritari tali strutture o sono entrambe assenti o

vengono ridotte a pura forma; il caso che si verifica più comunemente è che i partiti politici siano messi fuori

legge e il parlamento venga reso una parvenza; ad essi si sostituisce con ruolo decisivo il potere esecutivo

che assume in toto la gestione della politica. Nei regimi di tipo autoritario vengono quindi a mancare

organismi in grado di rappresentare a livello politico e “ufficiale” la pluralità delle forze sociali e delle

posizioni ideologiche normalmente presenti in una società economicamente e culturalmente dinamica;

l’espressione di tale pluralità viene in genere incanalata entro istituzioni che possono essere agevolmente

controllate dall’alto, ma che conservano una propria autonomia gestionale, pur venendo private della

possibilità di esprimersi a livello tecnicamente politico.

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Questo elemento pone in luce la più importante differenza tra i regimi autoritari e i regimi totalitari:

infatti, se si può dire che nel totalitarismo lo Stato tende a inglobare la società, nei regimi autoritari

l’annullamento della sfera politica comporta per converso una sorta di autonomia della sfera sociale ed

economica, le cui principali istituzioni (scuola; istituti culturali in genere; gruppi di opinione; forze

economiche di diversa origine e rilievo; istituzioni come la famiglia, la Chiesa ecc.) rivestono un ruolo

parzialmente attivo, sebbene di natura non politica.

Nello stesso tempo i regimi autoritari fanno spesso uso degli organismi statali sia civili (burocrazia,

magistratura) che militari (esercito, apparati di polizia) per guidare e controllare di fatto tali sfere

parzialmente autonome.

Riassumendo, si può dire che l’AUTORITARISMO

è costituito da una struttura di potere accentrato politicamente, ma non necessariamente

monocratica;

comporta l’annullamento o la riduzione a pura forma dei tradizionali canali di espressione

dell’opinione politica organizzata (partiti, parlamento);

mantiene un basso livello ideologico;

consente una parziale ammissione di un pluralismo, estraneo alle organizzazioni tradizionali

della politica;

prevede la scissione tra la sfera della politica e la sfera economico- sociale e culturale;

implica una parziale autonomia di tali sfere che possono esercitare una forma indiretta e non

politica di influenza sul potere centrale;

fa frequentemente uso degli apparati statali sia civili sia militari, anche con lo scopo di

controllare le attività delle organizzazioni culturali e socio-economiche;

ha una durata che può anche prevedere l’avvicendarsi al potere di diverse figure di capi.

Questi caratteri sono propri di alcuni regimi, come quelli di Salazar in Portogallo e di Franco in Spagna,

oppure di quei governi del Terzo mondo, nei quali la presenza di un governo autoritario ha o ha avuto la

funzione di modernizzare e incrementare lo sviluppo economico e il progresso sociale, di contro a una

presenza di classi sociali dominanti sostanzialmente retrograde.

C) Le ideologie dell’Autoritarismo

Per quanto concerne il campo delle ideologie autoritarie, esse vanno comprese in connessione al

problema del mantenimento dell’ordine, conseguito attraverso un’organizzazione fortemente gerarchica della

società. Ne deriva che le ideologie autoritarie implicano una concezione rigidamente inegalitaria degli esseri

umani e comportano la tesi che l’ordine possa essere garantito solamente con il rispetto delle disuguaglianze

che hanno origine naturale e sanzione divina. Si tratta, come è evidente, di ideologie profondamente

antilluministiche, e quindi antirazionalistiche, le quali fanno della disuguaglianza e del mantenimento

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dell’ordine il vero e unico fine della società politica. Esse sono quindi per definizione antidemocratiche e

antiliberali e spesso si accompagnano a un’utilizzazione in senso politico della religione.

Di questo tipo sono le ideologie controrivoluzionarie che nacquero in Francia dopo la Rivoluzione del

1789; tra i massimi esponenti di queste tesi si possono citare Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de

Bonald (1754-1840) o lo spagnolo Juan Donoso Cortés (1809-1853). Più tardi, in pieno Ottocento, le

ideologie autoritarie si svilupparono soprattutto in ambiente tedesco, in antitesi ai tentativi di unificazione

nazionale e di industrializzazione. Nel Novecento il carattere ideologico collegato all’autoritarismo viene

scemando, tanto che, come si è detto più sopra, i regimi autoritari del XX secolo fanno ricorso a un profilo

ideologico volutamente basso.

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DISPOTISMO

Etimologia: dal greco δεσπότης padrone, proprietario, signore

Per comprendere il significato specifico del termine DISPOTISMO è necessario tener conto proprio

dell’etimologia della parola poiché il despota ha nei confronti dei sudditi lo stesso tipo di rapporto che il

padrone esercita nei confronti degli schiavi. Il rapporto padrone/schiavi connota il termine lungo tutta la sua

storia.

Il termine DISPOTISMO è poi venuto a significare in senso generico, come altre espressioni simili, ogni

tipo di governo illegittimo e/o violento ed è stato usato come sinonimo di tirannide, assolutismo o dittatura;

esso ha tuttavia una connotazione tecnica, indicando una determinata forma di governo o, perlomeno, alcune

forme di governo tra loro simili che si sono realizzate in luoghi e tempi diversi e su cui sono state elaborate

teorie e definizioni precise.

A) Il dispotismo in Aristotele

È Aristotele (384-322) a indicare con questo termine nel I libro della Politica tale tipo di relazione, per

distinguerla dal rapporto del marito verso la moglie (potere coniugale) e dei genitori, del padre in particolare,

nei confronti dei figli (potere paterno). Si tratta in tutti e tre i casi di un preciso rapporto di

subordinazione/sovraordinazione che specifica i ruoli all’interno dell’economia della famiglia, considerata

dal filosofo greco il nucleo germinale dello Stato.

Aristotele introduce più avanti anche il concetto di potere politico: questo può assumere, a seconda dei

contesti, varie forme e una di queste forme è definita “dispotica”; si tratta di una forma monarchica legittima

e propria di determinati paesi. All’interno della concezione aristotelica è del tutto pacifico considerare come

dispotica una forma di governo, assegnando al termine lo stesso significato che esso ha nei rapporti interni

alla famiglia: ciò è infatti reso possibile dalla teoria tipicamente aristotelica per la quale esistono esseri

umani schiavi per natura. Sono considerati tali i popoli “barbari”, cioè in non-Greci e in particolare i popoli

asiatici. Gli esseri umani schiavi per natura possono essere governati soltanto tramite una monarchia di tipo

dispotico. La forma di governo per i popoli barbari, scrive Aristotele nel III libro della Politica, è dunque una

delle possibili variazioni della monarchia, cioè del governo di uno solo: si tratta di un governo legittimo e

non degenerato, in cui il governante governa per il proprio interesse e in modo tirannico, ma la popolazione

verso la quale è diretto questo modo di governare non potrebbe concepire e sopportare altra forma di

dominio.

È importante sottolineare che, poste queste premesse, non si deve confondere il DISPOTISMO con la

tirannide, che è invece un tipo di governo non solo illegittimo e degenerato, ma, soprattutto, secondo il punto

di vista aristotelico, imposto a popolazioni libere per natura.

In prima istanza dunque le caratteristiche del DISPOTISMO nella versione aristotelica possono essere

considerate le seguenti: esso è una forma di governo

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legittima;

monocratica;

autoritaria;

non finalizzata alla salus populi;

propria delle popolazioni “schiave per natura”;

duratura;

dotata di regole stabilite di successione al trono;

determinata da precise condizioni oggettive.

Nella sua descrizione, Aristotele introduce un elemento che rimane fondamentale in gran parte delle

successive elaborazioni sul concetto e cioè la connessione tra il DISPOTISMO e la natura dei popoli

orientali; nasce così la categoria del “DISPOTISMO orientale”.

Come tutta la catalogazione delle forme di governo proposta da Aristotele, anche la descrizione del

DISPOTISMO perdura nel tempo ed è, ad esempio, presente anche in alcuni pensatori politici del Medioevo,

come Tommaso d’Aquino (1225-1274) che ripropone la tesi per cui i popoli orientali accettano questa forma

di governo perché risponde alla loro natura; o Marsilio da Padova (1275ca.-1343ca.) che sottolinea sia il

carattere legittimo del DISPOTISMO sia il fatto che esso si manifesti presso i popoli che hanno una natura

servile.

La tematica connessa al concetto di DISPOTISMO continua a svilupparsi nella storia del pensiero politico

parallelamente alla questione concernente le forme di governo e, dal momento che la tipologia aristotelica

rimane a lungo dominante, la concezione di DISPOTISMO che è stata delineata nelle righe precedenti, come

forma di potere monocratico, legittimo e assoluto si conserva nel tempo; di conseguenza, le variazioni di

significato che il termine subisce sono connesse alle variazioni o anche alle radicali innovazioni che la teoria

delle forme di governo subisce, sebbene con molta lentezza e cautela, in età moderna.

B) Il dispotismo in Machiavelli

Una prima importante variazione si ha nel Principe di Nicolò Machiavelli, dove le forme di governo

vengono ridotte a due: la repubblica, che unisce la democrazia e l’aristocrazia della tipologia tradizionale, e

il principato. Quest’ultimo è di fatto la monarchia, di cui Aristotele aveva indicato cinque forme (la

monarchia dei tempi eroici, la monarchia spartana, la monarchia degli esimneti o tiranni elettivi, la

monarchia di tipo paterno, la monarchia dispotica); Machiavelli, invece, individua solo due forme di

principato:

una in cui il potere è nella mani di un principe, cui si affiancano dei nobili di sangue;

una in cui domina un principe mentre tutti gli altri sono servi, anche quando ricoprano cariche di

amministrazione pubblica, perché devono il loro incarico unicamente alla volontà del principe. L’esempio

di quest’ultimo tipo di principato è quello del regno turco, dove il potere del principe è assoluto, senza

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mediazioni, senza nessuna norma o limite [Il principe, libro IV]. Quest’ultimo tipo di governo non è che

una forma di DISPOTISMO, perché di questo riproduce alcune importanti caratteristiche quali la legittimità,

la durata nel tempo, l’assolutezza; da notare come anche Machiavelli introduca in questo modo un richiamo

ai popoli orientali, che possono o devono essere governati in modo efficace proprio con un regime

dispotico. Tuttavia egli non fa riferimento alla natura “servile” di questi popoli e utilizza invece il rimando

alla Turchia come un semplice esempio tratto dalla storia, come un puro dato di fatto. Inoltre Machiavelli

sottolinea come in questo tipo di principato viga una forma di uguaglianza tra tutti i sudditi: si tratta, però,

di un’uguaglianza che tende a considerare tutti i sottoposti al dominio del despota come fossero “nulla”,

cioè di un’uguaglianza in negativo, che viene ripresa in molte teorizzazioni di regimi assoluti e niente ha a

che fare con il concetto di uguaglianza in senso moderno, “liberale” e “democratico”.

Le caratteristiche del principato dispotico machiavelliano possono essere riassunte come segue: si tratta di

un tipo di governo

monocratico;

legittimo;

assoluto;

egalitario;

storicamente realizzatosi nei paesi orientali.

C) Il dispotismo in Bodin

Questo concetto è ancora più evidente in JeanBodin, che introduce altre e significative innovazioni nella

teoria delle forme di governo. L’innovazione più importante consiste nel fatto che egli non utilizza più, in

generale, una distinzione qualitativa tra forme buone e forme corrotte, mentre distingue tra forme di Stato e

forme di governo:

la forma di Stato è determinata dal riferimento alla titolarità del potere e non comporta un giudizio

di valore;

le forme di governo si differenziano in base all’esercizio della titolarità e ciò può implicare un

giudizio di valore e quindi prevedere la degenerazione.

Le forme di Stato previste da Bodin sono quelle tradizionali:

il governo di uno (monarchia),

il governo di alcuni (aristocrazia),

il governo di molti (democrazia).

Date le premesse della sua concezione della sovranità, la differenza tra le forme di Stato passa attraverso

la distinzione su chi esercita il potere legislativo.

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Le forme di governo riguardano invece l’esercizio del potere (e quindi la sfera esecutiva) e in esse è

possibile individuare generi diversi. Poiché per ciascuna forma di Stato Bodin individua tre tipi di governo,

arriviamo a una serie di nove tipi di governo:

la monarchia può essere regia, dispotica, tirannica;

l’aristocrazia può essere legittima, dispotica, faziosa;

la democrazia può essere legittima, dispotica, tirannica.

Come si vede, la forma dispotica costituisce in tutti e tre i casi la forma intermedia tra quella buona e

quella massimamente degenerata. La definizione che Bodin dà di essa è più o meno la stessa per tutti e tre i

casi; è caratterizzata fondamentalmente da due elementi: 1) il potere assoluto del principe anche sui beni dei

sudditi, che sono costituiti da popolazioni vinte in una “guerra giusta”; 2) nel DISPOTISMO non si ha un

abuso del potere, come nella tirannide.

È quindi evidente che se la monarchia regia costituisce un regime legittimo, teso alla salus populi, e la

monarchia tirannica non è altro che la forma di una tirannide quoad exercitium, la seconda rappresenta una

forma intermedia tra le due, legittima come la prima e autoritaria come la seconda, cosa che le permette di

essere un regime a lunga durata; quindi per Bodin la monarchia dispotica:

è un tipo di regime che nasce da una conquista in guerra giusta;

è un tipo di regime legittimo;

è un tipo di regime in cui il rapporto tra sovrano e sudditi è come quello che intercorre tra

padrone e schiavi;

è un regime di lunga durata.

Sparisce quindi in Bodin il riferimento diretto all’Oriente, ma permane quello etimologico del rapporto di

schiavitù; si inserisce inoltre il tema della guerra giusta. Emerge dunque che per il filosofo francese il regime

dispotico è quello che si instaura in uno Stato quando questo viene sconfitto da un avversario che ha

intrapreso nei suoi confronti una guerra giusta, con la conseguente riduzione dei suoi abitanti in schiavi. Si

tratta, precisa N. Bobbio, di una schiavitù che deriva non ex natura, ma ex delicto [La teoria delle forme di

governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 1976, p. 99]. Non si deve dimenticare che

l’unica forma di schiavitù che in età moderna poteva essere ammessa nell’ambiente culturale cristiano era

proprio quella derivante dall’esito di una guerra giusta: colui che consegue la vittoria in una guerra giusta ha

il diritto di ridurre in schiavitù i suoi avversari, proprio perché si rende esecutore di una punizione divina e

interviene per correggere una volontà malvagia, corrotta. Il cristianesimo non può invece ammettere, per

ovvie ragioni, una teoria come quella aristotelica che prevedeva l’esistenza di essere umani schiavi per

natura e quindi l’unico modo per concepire un tipo di governo dispotico rimane quello indicato.

Tuttavia anche in Bodin è presente, pur in modo larvato, il riferimento ai popoli orientali; inoltre egli

utilizza la categoria del DISPOTISMO per giustificare il governo coloniale. Nasce così un secondo settore in

cui il DISPOTISMO esercita la sua funzione, un settore di grande rilievo nell’Europa moderna.

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La connessione tra conquista in guerra e DISPOTISMO è ripetuta sia da Hobbes (che però non fa

differenza tra guerra giusta e ingiusta) sia da John Locke (1632-1704), che riprende le caratteristiche

proposte da Bodin e ne aggiunge un’altra, collegata al tema della proprietà. Egli infatti precisa che se il

potere legittimo è quello in cui l’individuo è proprietario per natura dei propri beni e il governo paterno è

quello che connette la proprietà al raggiungimento della maggiore età, è dispotico quel regime nel quale i

sudditi non hanno alcuna proprietà, essendo questa tutta nelle mani del signore.

D) Il dispotismo in Montesquieu

Un’ulteriore riflessione originale sul DISPOTISMO si ha con Montesquieu (1689-1755), nella cui opera

principale, l’Esprit des lois (1748), si introducono importanti innovazioni nella teoria delle forme di governo.

Tali innovazioni si delineano su diversi piani di discorso.

In primo luogo nell’opera vengono distinti tre tipi di governo:

il governo dei molti o repubblica, che si distingue in governo di alcuni (aristocrazia) e in governo di

tutti (democrazia);

il governo di uno solo che governa secondo leggi fisse e stabilite (monarchia);

il governo di uno solo che governa senza alcun freno e controllo (DISPOTISMO).

In secondo luogo Montesquieu classifica i governi in:

moderati, che prevedono l’esistenza di organismi “costituzionali” i quali, in vario modo, trasmettono il

potere dal vertice alla base (la repubblica e la monarchia);

non moderati, che implicano un rapporto diretto e immediato tra il signore e i sudditi (il

DISPOSTISMO).

In questo modo il DISPOSTISMO diviene per la prima volta una forma autonoma di governo (quindi né

una forma particolare di monarchia e neppure una forma degenerata) e la tipologia aristotelica viene

radicalmente modificata. Infatti Montesquieu non usa più la duplice discriminante che distingue il numero di

coloro che detengono il potere e il modo in cui lo esercitano; di conseguenza la tipologia delle forme di

governo corre trasversalmente al numero di chi governa e non comporta il concetto di degenerazione.

Gran parte dell’Esprit des Lois è dedicata a un’analisi particolareggiata dei governi e dei regimi che si

sono avuti nelle varie realtà geografiche in diversi tempi storici, perché è convinzione di Montesquieu che un

governo è efficiente ed efficace se risponde a quello che egli definisce “lo spirito” della nazione nella quale è

istituito; Montesquieu non utilizza quindi più un procedimento valutativo, ma ne utilizza uno descrittivo; dal

materiale che raccoglie deduce una normativa generale secondo la quale ad ogni nazione, in ogni specifico

periodo storico deve corrispondere una determinata forma di governo che funzionerà correttamente se

rispetterà lo “spirito” della nazione stessa. Quest’ultimo è determinato da una complessa serie di fattori che

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comprendono la natura geografica del luogo, il clima, la religione dominante, il carattere dei popoli, la loro

storia e cultura e così via. In questa prospettiva il DISPOSTISMO si caratterizzerà come un governo adatto a

certe nazioni e non ad altre e in questo Montesquieu in un certo qual senso riprende il tema introdotto da

Aristotele, quando questi sostiene che i popoli “barbari” non potrebbero essere governati se non da una

monarchia dispotica.

La delineazione generale delle forme di governo viene operata da Montesquieu attraverso due criteri di

massima: egli infatti sostiene che ogni forma di governo si caratterizza grazie a due elementi: la natura e il

principio:

la natura di un governo è determinata dal numero di coloro che governano e costituisce un criterio

puramente formale;

il principio è definito come la “molla” che lo fa agire.

Ciascun tipo di governo ha un proprio principio specifico; ciò che qui ci interessa sottolineare è che per

Montesquieu il principio del governo dispotico consiste nella paura, elemento che ricorda il principio del

terrore utilizzato da molti studiosi per caratterizzare il totalitarismo. A Montesquieu il principio della paura

serve in quanto indicativo della natura estremamente irrazionale del regime.

Si possono riassumere nei punti seguenti quelle che Montesquieu considera le caratteristiche principali

del DISPOSTISMO: esso

è un governo monocratico;

non prevede leggi di natura costituzionale (“leggi fondamentali”) e, particolare, le leggi che si

occupano della mediazione nella trasmissione del potere (il despota fa sentire il proprio dominio

sui sudditi in modo diretto);

assegna un compito puramente esecutivo a un primo ministro, privo di qualunque autonomia;

si regge sulla paura;

è di natura puramente irrazionale, del tutto in balia degli umori del principe;

non ha leggi scritte, ma solo tradizioni orali, che possono essere manipolate a piacere dal

despota;

tratta i sudditi come schiavi;

opprime in particolare le classi nobiliari, che aspirerebbero a porsi in funzione intermediaria tra

il deposta e gli altri sudditi;

prevede un’assoluta uguaglianza tra tutti i sudditi, uguaglianza che però è il segno del loro

annullamento civile e politico;

è tipico degli Stati a grandissima estensione territoriale (l’esempio che Montesquieu usa più

frequentemente è quello della Cina);

è più facilmente istituibile in paesi dal clima caldo e dal terreno fertile;

richiede una popolazione di indole pigra;

è tipico di paesi a religione musulmana;

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non vi si può prevedere nessuna seria pianificazione economica né pubblica né privata.

Come si vede, l’utilizzazione della categoria del DISPOTISMO orientale è qui portata alle estreme

conseguenze e in qualche modo codificata; nello stesso tempo il riferimento alla schiavitù delle popolazioni è

posto in termini diversi da quelli visti fino ad ora. Infatti Montesquieu per un verso ritiene che il

DISPOTISMO si instauri in paesi dove la popolazione ha un’indole debole, pigra, facile da dominare; per un

altro verso precisa che è il despota a trattare i sudditi, tutti i sudditi, come schiavi, utilizzando la paura e il

potere, ma ciò non significa né che essi siano schiavi per natura, né che un essere umano possa diventare

schiavo per una qualunque causa esterna (come quella della guerra giusta).

E) Il dispotismo illuminato

La categoria del DISPOTISMO orientale delineata in questi termini da Montesquieu viene ripetuta

ampiamente nel Settecento, dove però troviamo altri due interessanti significati del termine.

In primo luogo nel XVIII secolo viene elaborata la categoria del “DISPOTISMO illuminato”: per la prima

volta il termine viene utilizzato in senso positivo, a indicare quel tipo di regime in cui un monarca governa

senza alcun controllo, ma con l’ausilio e il consiglio di uomini colti e competenti, che lo indirizzano verso

una politica tesa alla salus populi; ciò perché il popolo da solo non sa capire quale sia la strada che gli può

procurare benessere e felicità. Questa concezione politica è parte integrante della teoria economica della

fisiocrazia e infatti uno dei suoi primi teorici è stato proprio François Quesnay (1694-1774), il principale

teorico delle teorie fisiocratiche.

In secondo luogo nel XVIII secolo il concetto di DISPOTISMO viene utilizzato in senso più generico e

polemico, come strumento per criticare il governo esistente; in questo senso è forse più appropriato parlare di

disposizione dispotica del governo, poiché coloro che fanno ricorso a questa accezione del termine non

usano nessuno dei caratteri tecnici ad esso assegnati dagli altri filosofi che sono stati citati.

F) Il dispotismo in Hegel

La categoria di DISPOTISMO orientale è ripresa da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) che,

come nota Bobbio, la utilizza in quella “sublimazione dell’eurocentrismo” che è la sua filosofia della storia

(Dizionario..., cit., p. 334); ma con Hegel, che ripete con maggiore finezza di analisi filosofica le posizioni di

Montesquieu, la riflessione su questa categoria può dirsi conclusa.

G) Il dispotismo in Wittfogel

Il concetto di DISPOTISMO orientale tuttavia viene ripreso alla metà del Novecento in un testo che ha

suscitato interesse e una discussione di un certo rilievo.

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Si tratta dell’opera Oriental Despotism di Karl A. Wittfogel (1896-1988), scritta nel 1957 e tradotta in

italiano nel 1968. Wittfogel si sofferma sul fatto che i grandi Stati orientali hanno sempre conosciuto un tipo

di governo

monocratico;

accentrato;

in cui la società civile ha avuto poco spazio;

ove è stato ampiamente usato il terrore come sistema di controllo;

che ha sempre trovato il modo di garantirsi un’ampia durata;

che ha sviluppato un enorme apparato burocratico;

dove si attua una sottomissione totale dei sudditi;

dove si è spesso avuta una stretta connessione con motivi teocratici.

Questo stato di cose si spiega, secondo Wittfogel, con il fatto che gli Stati ad amplissima estensione

territoriale hanno sempre avuto la necessità di controllare e regolamentare la distribuzione e canalizzazione

delle risorse idriche; per questo egli definisce queste società con l’aggettivo “idrauliche”.

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DITTATURA

Etimologia: dal verbo latino dicto prescrivere; da cui

dictator supremo magistrato; e

dictatura magistratura suprema

Tra quelli esaminati in questa sede, il termine DITTATURA è quello che ha più radicalmente cambiato di

significato nel corso del tempo: originariamente la DITTATURA è una magistratura legittima della repubblica

romana, che veniva attivata in circostanze eccezionali e con scopi ben precisi e determinati; oggi il termine

indica i regimi assolutistici antidemocratici e si contrappone, in quanto tale, alla democrazia. Come osserva

Norberto Bobbio [Stato, governo, società, Einaudi, Torino 1985, p. 50],

oggi è invalso l’uso di chiamare ‘dittature’ tutti i governi che non sono democrazie e che

generalmente sorgono abbattendo democrazie precedenti.

Questa contrapposizione

in un universo di discorso in cui democrazia ha assunto un significato prevalentemente eulogico, ha

finito per fare di “dittatura”, contrariamente all’uso storico, un termine con significato

prevalentemente negativo, che era proprio nella filosofia classica di altri termini come “tirannia”,

“dispotismo” e, più recentemente, “autocrazia” [Ibidem].

Così oggi vengono generalmente definiti con il termine DITTATURA tutti i regimi che dalla fine della

prima guerra mondiale si sono sviluppati prima in alcune nazioni europee e, in seguito, negli altri continenti

(Asia, America latina, Africa). Nel percorso del significato del termine è tuttavia individuabile un ulteriore

momento intermedio, legato al problema dello sviluppo delle rivoluzioni degli ultimi tre secoli e alla loro

gestione, dove, pur con connotazioni diverse, esso ha continuato a rivestire un significato positivo.

A) La dittatura romana

Tra il VI e il III secolo a.C. (ma, in modo problematico, anche successivamente fino all’avvento

dell’impero) nella repubblica romana venne chiamato dictator un magistrato straordinario, nominato da uno

dei due consoli per far fronte a circostanze eccezionali. Queste potevano essere causate

da gravi pericoli esterni la carica comportava la guida della repubblica in caso di guerra ( dictator

rei publicae gerendae causa);

da torbidi interni la carica aveva come fine il soffocamento della sommossa ( dictator seditionis

sedandae causa).

Il dicator era dotato di potere pressoché assoluto, in quanto non sottoposto alla distinzione tra il comando

sovrano esercitato in quella che potremmo chiamare la politica interna (imperium domi) che a Roma era

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regolata da precise norme definibili con un termine moderno come “costituzionali”, e il comando militare

rivolto all’esterno (imperium militiae) di per sé (ma solo in quell’ambito) privo di limiti. Tuttavia il potere

della DITTATURA era limitato

a. nel tempo: infatti il dittatore poteva rimanere in carica solo fino all’espletamento del compito per cui

era stato scelto; in ogni caso, anche ove il problema non fosse stato risolto, decadeva con la fine della

carica del console che lo aveva nominato o, al limite massimo, dopo sei mesi dalla nomina;

b. nelle funzioni: infatti il dittatore non aveva alcuna possibilità di cambiare le norme “costituzionali”, di

dichiarare guerra, di imporre nuovi tributi; quindi aveva un ambito d’azione nella sfera esecutiva e non

in quella legislativa e costituzionale.

Riassumendo, la DITTATURA romana si presenta come un regime

monocratico;

straordinario;

finalizzato al perseguimento di un fine specifico;

privo di poteri di tipo legislativo;

privo di poteri di tipo costituzionale;

legittimo;

temporaneo.

Questo istituto era essenziale in una costituzione come quella della Roma repubblicana dove una pluralità

di magistrature, tutte di breve durata, di struttura collegiale e dotate di poteri di veto incrociati, se garantiva

da avventure tiranniche, creava problemi in caso di pericoli gravi di natura interna o esterna, quando era

necessario procedere con decisioni rapide e ove fosse necessaria un’ampia disponibilità di potere. Per questo

motivo la DITTATURA fu efficiente fino a che Roma non ampliò troppo il proprio dominio; infatti, a partire

dal III secolo questa magistratura andò perdendo di efficacia sia perché l’aumento delle situazioni di

emergenza moltiplicò i motivi della sua istituzione sia perché, in relazione a ciò, si accrebbe il numero delle

limitazioni che era necessario porre alle sue funzioni. A parte dunque un periodo di nuovo fulgore durante le

guerre puniche, alla fine del III secolo l’istituto può considerarsi decaduto e, quando viene riesumato nel I

secolo sia per Silla che per Cesare, di esso non è rimasto che il nome.

B) Le dittature rivoluzionarie moderne

L’uso tecnico, “romano”, del termine era ben presente ai filosofi dell’età moderna, come Machiavelli e

Rousseau (1712-1778); e il suo significato comincia a cambiare solo con le grandi rivoluzioni settecentesche.

Durante la rivoluzione francese infatti si affermò un concetto di DITTATURA parzialmente ma

significativamente diverso da quello classico: la DITTATURA diventa un istituto che nasce in momenti

eccezionali, ma non per restaurare l’ordine (interno o esterno) esistente: esso invece deve risolvere una crisi

complessiva dello Stato instaurando un ordine nuovo, quello previsto dai princìpi della rivoluzione. In questo

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caso dunque il potere dittatoriale ha il compito di programmare e istituire una nuova costituzione, ha quindi

un vero e proprio potere costituente che in qualche maniera (prevalentemente simbolica) si considera

derivato dal popolo. In una situazione di tal genere accade frequentemente che la DITTATURA non sia un

incarico nelle mani di una sola persona, ma di un gruppo, più o meno ristretto, che fa parte del partito

rivoluzionario al potere. Ciò implica l’accentuazione della componente ideologica a giustificazione della

imposizione della DITTATURA.

È esempio di DITTATURA di questo genere la dittatura giacobina che sospende la costituzione del

1791, istituendo un regime dittatoriale (il Comitato di salute pubblica) il quale ha il compito di restare in

carica fino al raggiungimento della pace all’esterno e allo stabilizzarsi della situazione creata dalla

rivoluzione all’interno. Durante il periodo della rivoluzione francese, ma anche in seguito, in occasione di

episodi rivoluzionari e controrivoluzionari dell’Otto e del Novecento, si fa ricorso al concetto di

DITTATURA, ma non se ne sottolineano i caratteri di novità e originalità, in quanto si preferisce richiamarsi

al modello della DITTATURA romana.

Questo tipo di DITTATURA ha invece caratteri specifici, che possono essere così riassunti:

è un potere non necessariamente monocratico;

gode di durata temporanea ma non determinata;

viene considerato eccezionale;

deve avere una legittimazione popolare, almeno formale;

detiene i poteri legislativo, esecutivo e costituente;

è dotato di una forte base ideologica;

si tende a consideralo una forma simile a quella romana.

Un altro importante mutamento di significato avviene, sempre nell’ambito della rivoluzione francese,

all’interno della “Congiura degli Uguali” di François-Noël (Graccus) Babeuf (1760-1797): il teorico del

gruppo, Filippo Buonarroti (1761-1837), partendo dalla tesi che il processo rivoluzionario deve essere

progettato e condotto a termine da un gruppo selezionato di uomini, riteneva che, a rivoluzione avvenuta,

dovesse seguire un periodo in cui un’élite di poche persone detenesse in mano poteri eccezionali per

stabilizzare i risultati ottenuti con il processo rivoluzionario. In questo periodo il gruppo di governo non ha

limiti al proprio potere e, ove il caso, è legittimato all’uso della forza sia contro i nemici della rivoluzione,

sia contro il popolo che, spesso, non è sufficientemente illuminato per capirne il senso e cogliere l’utilità

generale dei provvedimenti adottati dall’élite al potere. Il compito precipuo del gruppo dittatoriale è quello di

preparare una nuova costituzione e quindi esso è dotato decisamente del potere sovrano. Come nel caso della

DITTATURA giacobina, anche nella teoria di Babeuf e Buonarroti i motivi ideologici sono fortemente

presenti, come peraltro accade ogni volta che la concezione politica della dittatura è inserita in un

programma rivoluzionario, gestito da un partito.

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Questo tipo di DITTATURA è quindi connotata come segue:

è di natura eccezionale;

gestisce una fase necessaria di transizione;

è nelle mani di un gruppo (non è monocratica);

ha compiti costituenti e quindi sovrani;

è limitata nel tempo, fino alla fine del periodo di crisi e l’instaurazione della nuova costituzione,

ma la durata non è determinata;

ha un carattere fortemente ideologico;

viene teorizzata come forma autonoma e diversa da quella romana;

può legittimamente far uso della forza.

C) La dittatura plebiscitaria

Si tratta di una forma particolare di DITTATURA, legata alla deriva autoritaria che consegue dalla

trasformazione del potere acquisito in modo plebiscitario in una forma assoluta. L’elezione per plebiscito

non comporta di per sé una forma di governo dittatoriale; tuttavia in un certo qual senso la favorisce. Si

origina così un regime “dolce”, almeno in apparenza, e per ciò stesso fortemente mistificante, un regime che

mostra un volto diverso da quello che ha realmente e che si conserva perché l’opinione pubblica è guidata in

modo che le sia impossibile rendersi conto di come l’elemento “democratico” sia divenuto esclusivamente

formale. Essa quindi presuppone, per conservarsi, un uso accorto, da parte di chi detiene il potere, dei mezzi

di diffusione dell’informazione.

Questa forma di governo quindi:

nasce da una metodologia democratica (l’elezione del governante);

nasce da una particolare forma di elezione (l’elezione con un unico candidato);

utilizza l’elezione originaria come giustificazione di ogni decisione, per delegittimare ogni

opposizione;

si mantiene con il consenso popolare, ottenuto con la mistificazione delle informazioni e la

“gestione” dell’opinione pubblica;

la mistificazione dell’ informazione avviene in due sensi: a) il “dittatore” viene presentato come

un capo democratico e interessato alla salus populi; b) si falsificano le notizie che riguardano

l’operato del governo in tutti i settori della politica (interna, estera, economica ecc.).

C) La dittatura del proletariato

Un significato ancora diverso il termine DITTATURA assume negli scritti di Karl Marx (1818-1883) e

Friederick Engels (1820-1895) i quali la utilizzano in relazione al dominio di una classe sociale sulle altre e,

in particolare, al domino della borghesia sul proletariato o del proletariato sulla borghesia. In questo caso,

dunque, la DITTATURA viene riferita non a un individuo né a un gruppo, ma a un’intera classe; inoltre essa

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indica un dominio economico e solo secondariamente sociale e politico. Di conseguenza nelle opere di Marx

ed Engels l’espressione perde ogni significato valutativo, perché si limita a descrivere il fatto che in tutte le

epoche storiche si verifica necessariamente il dominio strutturale di una classe, dominio che poi si riversa in

campo sovrastrutturale e quindi anche politico.

In modo specifico, per quanto concerne la DITTATURA del proletariato, Marx riteneva che essa dovesse

costituire un momento necessario del processo rivoluzionario che avrebbe dovuto portare da una situazione

di dominio e di possesso privato dei mezzi di produzione, a una situazione comunistica: essa doveva

sostituirsi alla DITTATURA della borghesia e sarebbe scomparsa una volta che fossero venute meno le

contrapposizioni di classe, quando il possesso dei mezzi di produzione fosse diventato collettivo.

Se ogni Stato di per sé prevede una DITTATURA, non ha senso determinare la forma politica specifica di

quest’ultima, che può variare a seconda delle circostanze storiche (si pensi all’esperienza della Comune di

Parigi che influenzò molte posizioni di Marx); di conseguenza, la DITTATURA del proletariato, se deve

gestire la fase di transizione rivoluzionaria, che può essere molto lunga, può assumere diverse forme che, in

circostanze particolari, possono costringere i governanti all’uso della forza e comportare la possibilità che il

proletariato rimanga in armi.

Le sue caratteristiche sono dunque:

è il dominio di una classe sociale;

ha natura economica, prima che politica;

non prevede una specifica forma di regime politico;

è transitoria;

non si istituisce in momenti eccezionali;

può far uso della forza.

Il concetto marxiano di DITTATURA trova un’evoluzione nella teoria di Lenin (1870-1924), il quale

matura la consapevolezza che il periodo storico della dittatura del proletariato è destinato a durare nel tempo;

di conseguenza cambia la funzione del partito come elemento guida del processo rivoluzionario. Il partito

diviene così il vero depositario del potere politico e per questo si può forse parlare di una DITTATURA del

partito. Essa gestisce una situazione difficile, ma non eccezionale, sebbene derivi da una situazione di

eccezionalità, qual è ovviamente il processo rivoluzionario; durando però nel tempo, si stabilizza in forme

politiche e giuridiche precise.

L’espressione “dittatura del proletariato” per Lenin continua a designare, in senso specifico, il rapporto

che deve instaurarsi tra la classe proletaria e quella borghese, nella prospettiva futura dell’abolizione delle

classi stesse nella società comunistica; così come nella fase precedente si è avuta la dittatura della borghesia,

anche nella fase di transizione al comunismo la DITTATURA non indica un particolare regime politico, ma,

come già si è chiarito sopra, una forma di dominio in prima istanza economico e sociale. In Lenin, dunque, le

caratteristiche del concetto sono simili a quelle elencate per Marx, con due modifiche significative: quella

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riguardante il ruolo del partito e quella riguardante la durata; quindi la forma della DITTATURA che si

realizza nella società di transizione al comunismo ha le seguenti caratteristiche:

è costituita dal dominio del partito-guida;

in quanto tale, ha una specifica forma politica (in Urss assunse quella dei soviet);

è transitoria, ma di lunga durata;

gestisce una situazione che nasce dalla eccezionalità della rivoluzione, ma non è eccezionale;

utilizza una forma di diritto codificato.

D) La dittatura in Carl Schmitt

Nell’analisi teorica del concetto di DITTATURA non si può fare a meno di ricordare le tesi del filosofo del

diritto e della politica tedesco Carl Schmitt (1888-1985), teorico vicino alle posizioni del nazionalsocialismo,

il quale in un importante teso del 1921, intitolato proprio La dittatura, distingue l’esistenza nella storia di una

DITTATURA “commissaria” e di una DITTATURA “sovrana”. La prima è la dittatura della repubblica

romana e in essa il dittatore svolge il proprio compito entro la “commissione”, l’incarico specifico ricevuto.

La seconda invece utilizza la situazione d’eccezione per scardinare l’ordine costituzionale esistente

dall’esterno. Secondo Schmitt, la DITTATURA sovrana non sospende la costituzione vigente utilizzando un

riferimento legislativo da essa contemplato (e quindi non utilizza un procedimento di per sé costituzionale),

ma ha lo scopo di creare uno stato di cose nel quale sia possibile instaurare una costituzione che viene

ritenuta “autentica”.

In quest’orizzonte di discorso il dittatore non cerca una legittimazione al proprio potere da parte degli

organi esistenti, in quanto crea da sé il proprio potere e, se sente il bisogno di una legittimazione, questa

avviene a posteriori e con organi di consenso opportunamente manipolati.

Questo tipo di rapporto tra il dittatore e il popolo deriva dalla concezione che Schmitt ha della politica

autentica. È infatti sua convinzione che vi sia una netta contrapposizione tra la dimensione concreta della

politica e quella astratta del diritto. Il diritto è, a suo parere, un’apparenza formale e neutrale che nasconde

reali conflitti di interesse e crea fondamentalmente ingiustizie, garantendo il persistere di un pluralismo (il

pluralismo liberale) fonte di confusione e disordine all’interno dello Stato. La politica trova la sua autenticità

al di là del formalismo giuridico nel rapporto diretto tra il capo e il suo popolo, che sceglie il capo mediante

l’acclamazione e non mediante l’astratto e mistificato strumento del voto. Il popolo non sa e non ha interesse

a scegliere all’interno dei complicati meccanismi della politica; esso “vive” la sua realtà quotidiana

affidandosi a un capo che lo difenda dal nemico, poiché la struttura della politica trova la sua verità

nell’antitesi amico-nemico, antitesi semplice e tragica, che solo un capo può gestire con successo. Tra il capo

scelto in questo modo e il dittatore sovrano, che legittima da sé il proprio potere al di là degli organi

istituzionali esistenti, non vi è in realtà nessuna sostanziale differenza. L’importante è la funzione del führer,

che rende vane le mistificazioni liberali del pluralismo, dell’uguaglianza tra i cittadini, del formalismo

giuridico.

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Questo tipo di DITTATURA, dunque, è quello che si è avuto in tempi recenti, a partire dalla rivoluzione

francese e tende a risolvere una crisi totale con un rinnovamento totale dello Stato e delle sue istituzioni. Non

a caso Schmitt può essere considerato uno dei massimi teorici del totalitarismo.

E) Le dittature contemporanee

Dopo le esperienze storiche del periodo che precede e immediatamente segue le due guerre, il significato

prevalente che il termine DITTATURA assume è quello di un regime in cui il potere è concentrato nelle mani

di una sola persona e dove quindi si afferma nuovamente il carattere monocratico. In questo senso il concetto

di DITTATURA viene concepito in contrapposizione ai regimi liberali o liberal-democratici, fondati

sull’assunto di origine montesquieiana della separazione dei poteri. La contrapposizione tra DITTATURA e

liberal-democrazia è valida nella misura in cui si presuppone che nel mondo contemporaneo in ogni caso

svolgano un ruolo i cittadini, prevalentemente attraverso i meccanismi elettorali a suffragio universale. È

chiaro che questo ruolo è reale se nella comunità di riferimento è garantita sia la libertà di esprimere le

proprie opinioni sia la pluralità nella diffusione dell’informazione e se esistono meccanismi elettorali capaci

di garantire la segretezza del voto. Da qui una differenza fondamentale tra i regimi democratici e i regimi

dittatoriali; in questi ultimi, infatti:

le opinioni sono controllate,

l’informazione è gestita da chi ha il potere politico-economico,

le elezioni sono in genere plebiscitarie o in ogni caso prive di garanzie di segretezza.

Il problema è che, in questo modo, il termine rischia di perdere una connotazione tecnica precisa e di

entrare in quella terminologia che genericamente indica i regimi non democratici; nello stesso tempo è anche

vero che DITTATURA è, insieme al termine “totalitarismo”, quello che più specificamente designa i regimi

antidemocratici del Novecento e che molte discussioni sono state fatte e si fanno sulla possibilità di definire

alcuni di questi entro l’una o l’altra categoria. Per questo si elencano qui di seguito alcune differenze

fondamentali tra questo concetto e i principali termini riferiti a regimi assoluti che si esaminano durante il

corso.

Il dispotismo è un regime di natura monarchica, in genere legittimo, che indica più che altro un modo

di governare accentrato, proprio di un δεσπότης di un padrone; esso è spesso considerato il regime

proprio dei popoli orientali o degli Stati ad amplissima estensione territoriale. Sempre in relazione al

significato etimologico, non a caso nel Settecento fu elaborato il concetto di “dispotismo illuminato”

che era connotato positivamente.

L’assolutismo è un potere monarchico legittimo, proprio delle monarchie nazionali del mondo

moderno, in cui il sovrano è dotato di un potere privo (absolutus, sciolto, libero) di ogni legame e

condizionamento; implica un modo di governare che, pur essendo accentrato, non è necessariamente

ostile alla salus populi.

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La tirannide è un tipo di governo illegittimo e non interessato alla salus populi, nato da una situazione

di crisi dei regimi preesistenti; esso, come la DITTATURA moderna, tende a sostituire radicalmente

tali regimi. Il tiranno è capo di una fazione, governa in modo arbitrario, non ha nessun limite al

proprio potere, utilizza senza alcuna remora metodi violenti.

L’autocrazia indica il governo realmente assoluto, dove il detentore del potere non ha reali freni né

interni né esterni, cosa che non sempre si verifica nelle DITTATURE, neppure nel senso moderno del

termine, poiché anche i regimi monocratici possono o prevedere o avere di fatto un piccolo gruppo di

pressione che influisce sul dittatore.

Il totalitarismo si sviluppa nel Novecento e indica un regime in linea di massima monocratico, con un

forte ascendente carismatico del “capo” (duce, führer, caudillo); esso si fonda sul consenso di massa,

ottenuto con la manipolazione dell’informazione e con un uso non pluralista e non libero del

meccanismo elettorale; si mantiene con mezzi che inducono paura e terrore (polizia segreta, tortura,

campi di concentramento e di sterminio). Prevede la’assoluta assenza di pluralismo politico e di partiti

di opposizione; fa ampio uso dell’ideologia.

N.B. Per tutte queste forme di regime si vedano in modo più approfondito le voci relative

Le caratteristiche della DITTATURA contemporanea possono a questo punto essere riassunte come segue:

1. Il potere è concentrato. In questo caso si ha in genere un solo dittatore e quindi una situazione

monocratica, ma è anche possibile l’esistenza di un piccolo gruppo che o cogestisce il potere stesso o,

in qualche modo, è in grado di influire sul dittatore.

2. Il potere è illimitato. La volontà del dittatore è la legge ed egli è al di sopra e al di là di essa;

l’eventuale esistenza di un diritto codificato non ha in realtà alcun valore, perché esso può essere

modificato senza nessuna regola prestabilita e senza alcun controllo e, in genere, è teso alla

salvaguardia degli interessi del dittatore o del suo gruppo di riferimento; non esiste alcun controllo di

costituzionalità.

3. Il potere è illegittimo. L’illegittimità riguarda sia il modo in cui la DITTATURA si istituisce, sia il

modo in cui in essa viene gestito il potere. La DITTATURA è un regime in cui il potere va dall’alto

verso il basso, ma che tende a presentarsi come l’autentica espressione degli interessi popolari; per

questo usa spesso strumenti plebiscitari, sia nel momento della sua istituzione, sia nella gestione del

potere. Essa quindi è il contrario della democrazia (dove il potere va dal basso verso l’alto) e dove i

meccanismi di approvazione o disapprovazione sono complessi e mediati.

4. Non ha regole che determinano la successione al potere e ciò non ne garantisce la durata nel

tempo. Infatti il dittatore non è in grado di assicurare una successione del regime e ciò ha causato

gravissime crisi nei regimi dittatoriali del Novecento, che tendono a scomparire, una volta che il

dittatore, in genere dotato di carisma, sia venuto meno. Nel caso in cui i regimi dittatoriali siano nelle

mani di piccoli gruppi, la gestione della politica avviene all’interno di tali gruppi (in genere un partito

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unico) e assume il potere chi, all’interno del gruppo stesso (e quindi in un bacino di reclutamento

ristretto), riesca di fatto (e non di diritto) a essere preminente.

5. L’ambiente di riferimento sociale è quello della partecipazione “consapevole” della popolazione alla

politica. La DITTATURA sorge, così, in relazione a una crisi grave di questo tipo di partecipazione,

dove si contrappongono posizioni tra loro non conciliabili. La DITTATURA si inserisce in questa

situazione, sfruttando in modo mistificato il principio della sovranità popolare, che in situazioni di tal

genere non è possibile discutere almeno formalmente, e facendo pendere con decisione la bilancia

verso una delle parti i cui interessi sono in gioco.

F) La tipologia della dittatura

Si possono infine individuare alcune tipologie dei vari tipi di DITTATURA: M. Stoppino, nel Dizionario

di politica [cit., pp. 347/350] individua cinque criteri che vengono qui rapidamente schematizzati:

1. In riferimento alla natura del potere si distinguono:

a. la DITTATURA autoritaria o semplice utilizza i mezzi tradizionali del potere coercitivo; non fa

grande uso dei mezzi propagandistici; reprime la sola opposizione aperta; si basa sull’apoliticità delle

masse e si serve di una classe dirigente disposta alla collaborazione (Franco in Spagna, Salazar in

Portogallo, colonnelli in Grecia);

b. la DITTATURA cesaristica si tratta di dittature personali, in cui il dittatore ha necessità di un

sostegno popolare; non vi è il partito unico di massa (esempi: Pisistrato, Cesare, Cromwell,

Napoleone);

c. la DITTATURA totalitaria utilizza i normali strumenti totalitari; fa riferimento al partito unico di

massa; controlla completamente l’educazione e i mezzi di informazione e le istituzioni economiche; ha

una presenza capillare nella vita sociale e nella privacy.

2. In riferimento al fine si distinguono:

a. la DITTATURA rivoluzionaria tende a mutare radicalmente l’ordine politico-sociale esistente,

introducendone uno totalmente nuovo;

b. la DITTATURA conservatrice difende la situazione esistente nei momenti di crisi;

c. la DITTATURA reazionaria cerca di ripristinare un ordine di cose superato;

d. la DITTATURA mista (termidoriana) congiunge le esigenze delle prime due, che vanno molto

spesso di conserva (esempio è il regime di Napoleone);

e. la DITTATURA pedagogica è stato così definito quel regime che tende a creare le condizioni socio-

politiche per l’avvento della democrazia (esempio è il regime di Pisistrato);

f. la DITTATURA di sviluppo si possono distinguere a questo proposito i regimi che legano lo

sviluppo all’avvento della democrazia, come le precedenti (esempio è la Turchia di Ataturk); oppure

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quelli connessi allo sviluppo economico, come avviene in certi paesi sottosviluppati dove piccole

élites cercano di creare le premesse per un decollo economico (Terzo mondo).

3. In riferimento ai caratteri dell’élite dominante si distinguono:

a. la DITTATURA militare riguarda l’origine del personale della classe dominante; è un tipo di

regime che nel Novecento si è particolarmente diffuso in America Latina;

b. la DITTATURA politica riguarda l’origine del personale della classe dominante, che proviene dalle

fila del partito politico al potere, in genere dal partito unico;

c. la DITTATURA burocratica riguarda l’origine della classe dominante e si riferisce ad un regime

che sia arrivato alla seconda generazione, in quanto l’inserimento nell’élite dominante avviene

attraverso cooptazione;

d. la DITTATURA personale riguarda il modo in cui il potere è distribuito, quando questo è nelle

mani di un unico dittatore;

e. la DITTATURA oligarchica riguarda il modo in cui il potere è distribuito, quando esso è nelle mani

del piccolo gruppo che costituisce l’organismo posto al vertice del potere.

4. In riferimento alle proprietà dell’ideologia si distinguono:

a. la DITTATURA totalitaria implica un alto livello di dinamismo nella trasformazione; si tratta però

di un tipo di regime molto instabile (esempi: la Germania nazista, l’URSS ai tempi di Stalin, la Cina di

Mao);

b. la DITTATURA tutelare è un regime dotato di dinamismo più moderato e flessibile con un livello

di controllo più limitato (esempi: la Jugoslavia di Tito, la Turchia di Ataturk)

c. la DITTATURA chiliastica implica uno scarso livello di dinamismo trasformatore e una dipendenza

da forze esterne (esempi: l’Italia fascista, l’Algeria di Ben Bella).

5. In riferimento alla base sociale:

a. la DITTATURA sociologica nasce da una crisi strutturale della società, unita a una crisi di

legittimità del potere politico e corrisponde ai bisogni di gran parte della popolazione;

b. la DITTATURA tecnica nasce da una crisi congiunturale e corrisponde ai bisogni di pochi.

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FALANGISMO/FRANCHISMO

Etimologia: dal greco φάλαγξ schiera di combattimento, falange

e dal nome del dittatore spagnolo Francisco Franco

Il falangismo nasce in Spagna dopo le elezioni del 1931 che segnarono l’avvento della repubblica. Dopo

alterne vicende che videro succedersi maggioranze di destra e di sinistra, nelle elezioni del 1936 si arrivò alla

vittoria del fronte popolare; la vittoria della sinistra provocò una rivolta della destra, capeggiata dal generale

Francisco Franco (1892-1975) e apertamente appoggiata dal governo italiano, cui seguì la guerra civile e la

lunga dittatura franchista.

Dal punto di vista ideologico e teorico, tutto il movimento di destra che segue le elezioni del 1931 – e

quindi la prima sconfitta del fascismo spagnolo – trova il suo punto di riferimento nel movimento politico

detto Falange Española, la quale deve il suo nome alla falange macedone che aveva avuto ragione della

democrazia ateniese. Sorto appunto dopo le elezioni del 1931, il movimento si istituzionalizza nel 1933; nel

periodo che va dal 1933 allo scoppio della guerra civile nel 1936, la Falange, che inizialmente si pone come

espressione della reazione piccolo-borghese alla svolta democratica della politica spagnola, precisa i punti

del proprio programma ispirandosi ampiamente al fascismo italiano. Il programma viene esplicitato in un

documento noto come i “Ventisette punti”, le cui linee principali sono:

1. l’unità politica della Spagna contro i separatismi regionali (soprattutto catalani e baschi);

2. l’abolizione dei partiti politici;

3. l’istituzione di una dittatura nazionale monopartitica;

4. l’alleanza con la Chiesa cattolica;

5. la separazione contestuale di Chiesa e Stato;

6. il sistema corporativo (rappresentanze divise in tre fasce: lavoratori, classe padronale, Stato);

7. la difesa della proprietà privata;

8. l’appoggio all’industria.

Nel 1934 la Falange si fuse con un altro movimento, interessato soprattutto a una politica di stampo

nazionalista e sostenitore di tesi di sindacalismo corporativista, le Juntas de Ofensiva Nacional Sindacalista.

In questo modo il gruppo falangista si pose sempre più consapevolmente come forza catalizzatrice delle varie

frange della destra monarchica e tradizionalista.

La svolta che mutò la natura del movimento si ebbe con la rivolta franchista: la Falange, che nel 1936 non

aveva un vasto seguito ed era travagliata da discordie interne, fu assunta da Franco come il nucleo del nuovo

partito unico che prese il nome di Falange Española Tradicionalista y de la Juntas de Ofensiva Nacional

Sindacalista. Come strumento della rivolta franchista, il partito accentuò i propri presupposti teorici cattolici,

nazionalisti e autoritari e costituì la base su cui si costruì l’ideologia ufficiale del movimento franchista,

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anche quando questo assunse il potere. Franco, che si definì caudillo (= capo) del movimento e dello Stato,

vide nel falangismo la dottrina che gli serviva per rendere coerente il regime; inoltre le affinità della teoria

con il fascismo e il nazionalsocialismo consentivano di rafforzare l’alleanza con Italia e Germania, che erano

state al fianco dei franchisti durante la guerra civile. Nelle vicende politiche di quegli anni, tuttavia, il partito

franchista assunse atteggiamenti diversi verso fascismo e nazismo: se prima della guerra civile il falangismo

aveva cercato una propria autonomia, rifiutando di essere definito “fascismo spagnolo”, durante e dopo la

guerra civile si avvicinò molto ai due movimenti europei, per distanziarsene di nuovo dopo il 1943, durante

l’evidente crisi dei due regimi.

Nel dopoguerra la situazione della Spagna si stabilizza sui principi falangisti; emerge un tipo di regime –

che molti considerano più corretto chiamare, da questo momento in poi, franchismo – con caratteristiche

proprie, le quali consentono di differenziarlo dagli altri regimi fascisti europei e di inserirlo più propriamente

nella categoria della “dittatura” che in quella del “totalitarismo”; esse possono essere riassunte in alcuni punti

di massima:

Una prima differenza rispetto ad altri regimi assolutistici e ai regimi totalitari consiste nella minore

influenza carismatica del capo.

Una seconda differenza sta nel graduale affievolirsi della struttura ideologica del movimento/partito e

in una sua graduale trasformazione in apparato di gestione organizzativa e burocratica.

Una terza differenza è nel dichiarato e in realtà solo apparente atteggiamento aperto e pluralistico,

atteggiamento determinato dalla necessità di stringere, dopo la guerra, rapporti ravvicinati con i regimi

liberal-democratici occidentali.

A ciò si accompagna, però, la messa al bando dei partiti politici di opposizione, resi illegali; di contro,

vengono considerate strutture rappresentative del popolo le istituzioni della famiglia, del municipio e

del sindacato.

Un’ulteriore caratteristica si rintraccia nella funzione parzialmente moderata degli apparati di polizia,

tesi soprattutto a reprimere le spinte di decentramento antinazionalista e le posizioni comuniste.

A questo si affianca la grande importanza decisionale e operativa dell’esercito, che costituisce la vera

struttura di potere dello Stato.

Inoltre è bene notare l’alleanza che si venne a creare con l’Opus Dei, utilizzata sia come strumento

ideologico, sia come mezzo di controllo della popolazione attraverso la propaganda religiosa, sia come

apparato di indagine capillare entro la struttura sociale.

La politica economica si stabilizzò su una ripresa dei motivi più chiusi e tradizionali del liberismo

economico.

Infine si tenga presente che, dal punto di vista costituzionale, Franco stabilì che alla sua morte sarebbe

stato reintrodotto l’istituto monarchico nella persona di Juan Carlos di Borbone, in modo da garantire

una successione pacifica e una conservazione dei principi falangisti.

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Il franchismo cominciò a entrare in crisi negli anni Settanta per l’avvento concomitante di alcuni fattori,

quali l’invecchiamento e la graduale decadenza fisico-psichica di Franco, la fine del regime di Salazar in

Portogallo, la ripresa dei movimenti indipendentistici baschi e comunisti. Questo stato generale di crisi

produsse l’accentuarsi dei caratteri repressivi del regime, cosa che ebbe come conseguenza un graduale

isolamento della Spagna dalle potenze occidentali che l’avevano protetta di fatto fino a quel momento. Con la

morte di Francisco Franco (20/XI/75) e il ristabilimento della monarchia, il regime si indebolisce e comincia

a perdere la propria funzione, sebbene Juan Carlos, una volta salito al trono, in un primo momento dichiarasse

la propria fedeltà ai principi franchisti. La situazione del paese portò però a graduali aperture che

consentirono la rilegittimazione dei partiti, mentre venivano indette libere elezioni.

Si assiste quindi in questo caso alla fine di un regime assoluto e dittatoriale non traumatica, ma lenta e

complessa.

Concludendo si possono riassumere come segue i principali caratteri del franchsimo/falangismo: esso è un

regime

dittatoriale, monocratico, a debole presenza carismatica del capo;

che si regge sul potere organizzativo e effettivamente politico dell’esercito;

a struttura burocratizzata, con graduale affievolirsi delle basi ideologiche;

con basi teoriche nazionaliste, tradizionalistiche, con forte utilizzo di tecniche paternalistiche;

basato su una forte alleanza con la Chiesa cattolica e con l’organizzazione dell’Opus Dei;

in cui è fondamentale la delegittimazione dei partiti politici, messi fuori legge, per garantire

l’ordine e la pace interni;

in cui si dichiara una formale apertura alla libertà di espressione, finalizzata all’esigenza di

mantenere rapporti positivi con i paesi occidentali;

istituzionalmente caratterizzato dalla limitazione della rappresentanza popolare entro gli istituti

della famiglia, del municipio e dei sindacati a struttura corporativa;

costituzionalmente garantito nella successione del potere personale del caudillo attraverso il

riconoscimento del ruolo della monarchia borbonica;

in cui si fa ricorso alla polizia politica, soprattutto in funzione di oppressione dei movimenti

autonomistici e comunisti;

ispirato a un’economia politica di chiuso e arretrato liberismo.

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PERONISMO/GIUSTIZIALISMO

Etimologia: dal nome del dittatore argentino Juan Peron

e dal termine spagnolo justicia giustizia

Peronismo e giustizialismo sono due termini che indicano un movimento che prende il nome da Juan

Perón (1895-1974) il quale fu presidente dell’Argentina dal 1946 al 1955 e, in seguito, dal 1973 al 1974,

anno della sua morte (→ peronismo); e dall’assunzione di un programma di “giustizia sociale” su base non

classista (→ giustizialismo) .

Il movimento diede luogo a un regime fortemente composito e difficilmente catalogabile entro gli schemi

consueti dei regimi autoritari utilizzati fino ad ora. Questa caratterizzazione composita dipende in parte dalla

personalità di Perón, in parte dalle condizioni socio-economiche nelle quali il movimento da lui fondato si

inserì.

Della biografia di Juan Perón è bene ricordare che egli, durante la seconda guerra mondiale, era stato

addetto militare in Italia, dove aveva fatto parte di un gruppo militare fiancheggiatore dell’Asse; si tenga

inoltre conto del fatto che l’Argentina, quando egli ne fu eletto presidente, divenne uno dei paesi che i

gerarchi nazisti, in fuga dall’Europa per cercare di evitare le sanzioni degli Alleati, scelsero come rifugio

privilegiato. Non c’è quindi dubbio che la personalità di Perón non fosse ostile alle posizioni fasciste

europee; tuttavia il suo sistema e la base sociale e ideologica di esso non sono del tutto ascrivibili entro

questo orizzonte. Nello stesso tempo, sebbene nel 1943 Perón fosse stato tra i protagonisti del colpo di stato

militare che aveva rovesciato il regime civile che si manteneva al potere con brogli elettorali da circa 10

anni, la sua elezione alla presidenza nel 1946 avvenne attraverso elezioni regolari con la presenza di una

pluralità di partiti.

Le tesi di fondo sulle quali si sviluppa il movimento peronista possono essere individuate in questi temi:

la giustizia sociale, intesa in senso interclassista, come miglioramento del livello di vita dei

lavoratori;

l’autarchia economica;

neutralismo tra i due blocchi protagonisti della guerra fredda.

La struttura composita e complessa del peronismo dipende anche dal fatto che esso assume alcuni

caratteri da diversi regimi autoritari del Novecento, ma sempre con una certa autonomia e con alcune

importanti differenziazioni; tuttavia la natura del regime, con il passare del tempo, mostrò la tendenza a

divenire sempre più dittatoriale.

Possiamo dire quindi che il peronismo si presenta come un regime:

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legittimo, poiché la prima elezione di Perón avvenne legalmente tuttavia egli si mantenne al potere

con mutamenti legislativi e costituzionali che esularono dalla legalità;

personalistico tuttavia formalmente furono conservate le strutture di governo e parlamentari;

carismatico;

fortemente demagogico e populista;

favorevole ai lavoratori, in quanto non rispondeva alle esigenze e alle aspirazioni della piccola

borghesia (come il fascismo italiano) tuttavia non è da intendere come un sistema socialista,

perché assolutamente contrario alla lotta di classe e, peraltro, andò evolvendo verso un appoggio

sempre più netto agli interessi degli industriali;

nazionalistico;

tendente all’autarchia economica, anche in riferimento alla possibilità di foraggiare le forze armate

senza dover dipendere dall’estero;

fortemente appoggiato dall’esercito (meno da marina e aviazione), anche se non proprio di natura

militare.

Il regime peronista adottò peraltro alcune tecniche tipiche dei regimi dittatoriali, come

la limitazione e poi abolizione della libertà di stampa,

la persecuzione dei capi dell’opposizione,

la lotta fortemente anticomunistica,

la funzione dello Stato come mediatore tra capitale e lavoro e la parallela concezione dei sindacati

come corporazioni,

l’utilizzazione della Chiesa cattolica come strumento di propaganda e ordine.

Riguardo a quest’ultimo punto si noti tuttavia che il rapporto con la Chiesa andò deteriorandosi dopo il

1952 per una serie di motivi: la Chiesa infatti non solo non accettò il tentativo di beatificazione della moglie

di Perón, Eva, ma non ritenne Perón adatto a mantenere l’ordine del paese; favorì di conseguenza il sorgere

di movimenti politici di tipo democristiano. Per parte sua Perón reagì con l’introduzione del divorzio che

pose definitivamente fine all’alleanza con la Chiesa.

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TIRANNIDE/TIRANNIA

Etimologia:dal greco τύραννοςe poi latino tyrannus signore assoluto, re

Preliminarmente è necessario distinguere tirannia da tirannide:

tirannia significa governo di uno solo esercitato in modo tirannico si riferisce quindi al modo in cui

è esercitato il potere; indica, quindi, in un certo qual senso, l’atteggiamento psicologico che sta alla

base dell’esercizio del potere;

tirannide indica una forma di governo.

In questo contesto il sostantivo che bisogna analizzare è TIRANNIDE.

La TIRANNIDE è definibile come il governo di uno solo che esercita il potere in modo arbitrario e

illegittimo. Quindi le caratteristiche di fondo immediatamente percepibili di questo regime sono:

la monocrazia

l’arbitrarietà

l’illegittimità

Come fa osservare Norberto Bobbio [cfr. La teoria delle forme di governo, cit., pp. 9 sgg.], già a partire

dalle Storie di Erodoto (V sec. a. C.) la cultura greca aveva elaborato una teoria delle forme di governo,

distinguendo in vario modo (ma i particolari in questa sede non interessano) il governo di uno, di molti e di

pochi; aveva quindi posto la distinzione sulla base della domanda: chi governa? Fermo restando che nella

cultura greca la TIRANNIDE indica una forma di governo che non è di per sé negativa (e che infatti ebbe un

suo ruolo positivo soprattutto delle colonie), ciò che è necessario sottolineare in questa sede è che alla

distinzione, che deriva da Erodoto, sul chi governa?, Aristotele in seguito affiancherà un criterio basato sulla

domanda: come si governa? Nasce così la teoria delle forme di governo buone e corrotte; la forma corrotta

del governo di uno solo è definita TIRANNIDE.

La distinzione delle forme di governo in buone e corrotte presentata da Aristotele – che rimarrà a lungo

un elemento fondamentale nella filosofia politica successiva – era stata preceduta da un’importante analisi di

varie forme di governo nella Repubblica di Platone (428 o 427 a.c.-348 o 347a.c.). Come è noto, dopo aver

disegnato i caratteri dell’ottima politeia, dell’ottima repubblica – governo guidato da quella che si potrebbe

definire una aristocrazia intellettuale – Platone esamina la possibilità che tale governo ottimo si corrompa e

indica, con un climax di corruzione crescente, i gradi della degenerazione. All’ultimo posto di questa

graduatoria (cui è dedicato il libro VIII dell’opera) sta la TIRANNIDE: ad essa e al tipo psicologico del

tiranno è dedicato tutto il IX libro, a segnare il rilievo, peraltro negativo, che Platone assegna a questo

regime. Questo rilievo deriva dal fatto che nel mondo greco la parola TIRANNIDE indicava i tipi di governo

nati dalla crisi dei governi legittimi, fossero essi democrazie o altri regimi; il tiranno appariva in questi casi

sempre come il capo di una fazione che si imponeva con la forza e governava a vantaggio solo di sé e della

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propria parte, al di sopra di qualunque legge (costituzionale o civile) stabilita. Proprio per questo però, nella

cultura greca il tiranno non è sempre considerato negativamente: egli è infatti anche colui che, in determinate

situazioni, pone fine a lotte intestine e rimette ordine nella città. È questo il giudizio che si dà a volte dei

tiranni delle colonie istituite dalle poleis greche.

L’uomo tirannico di Platone è un tipo psicologico che incarna, in termini totalmente negativi, questo stato

di cose: è violento, demagogico, dominato dalla paura di perdere il potere; in questa direzione di discorso,

già nel primo libro de La repubblica Platone aveva fatto sostenere all’avversario dialettico di Socrate,

Trasimaco, la difesa del tiranno, come colui il quale esercita l’ingiustizia al sommo grado e per questo,

secondo il sofista, è anche sommamente felice.

Si deve poi molti secoli dopo a Tommaso d’Aquino la distinzione di due caratteri della TIRANNIDE,

dalla cui combinazione emergono tre tipi di tiranno; egli infatti distingue:

il tiranno absque titulo è quello a cui manca il titolo legittimo per governare: in questo caso il

tiranno può anche governare bene, in vista della salus populi, sebbene, appunto, privo dei requisiti

legittimi per rivestire la sua funzione;

il tiranno quoad exercitium si tratta di colui che governa in modo tirannico, anche se occupa il

proprio ruolo in modo costituzionalmente inappuntabile;

il tiranno absque tituolo et quoad exercitium è il tiranno vero e proprio, come era stato definito

dalla tradizione classica, che assomma entrambe le deficienze nella detenzione del potere e nel modo

di governare.

Da questo momento in poi la TIRANNIDE è considerata prevalentemente come un tipo di regime del

secondo o terzo tipo, in quanto, più che in base alla legittimità costituzionale, la si definisce in relazione al

modo in cui il governante anche legittimo governa; quindi, se è più difficile trovare la definizione di

TIRANNIDE riferita a un tipo di governo buono, in qualunque modo il potere sia stato ottenuto, è

parallelamente più frequente attribuire il titolo di tiranno a un governante anche legittimo che governi in

spregio alle leggi e alla salus populi.

È anche per questo che il termine, più di altri che si sono esaminati, ha assunto nel linguaggio

contemporaneo una valenza esclusivamente spregiativa, di carattere più morale che tecnico-politico.

Tuttavia, prima di concludere su questa voce è forse opportuno fare riferimento al movimento dei

monarcomachi, movimento sviluppatosi nel XVI secolo in ambiente protestante in opposizione

all’affermarsi delle monarchie nazionali, tendenzialmente assolutistiche. Partendo da una concezione del

potere fondamentalmente contrattualista (ma di un contrattualismo ancora legato ai temi della filosofia

politica medievale) i monarcomachi utilizzano la distinzione tomista riconoscendo nel tiranno absque titulo

colui che ottiene il potere per un atto di guerra (in altre parole, l’invasore che usurpa il potere) e accentrando

la loro attenzione sulla TIRANNIDE quoad exercitium. Il tiranno di questo secondo tipo non rispetta i patti

che lo obbligano a governare per la salus populi e che sono connessi a un vincolo logicamente precedente,

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per il quale esiste una promessa tra il popolo nel suo complesso (magistrato e sudditi) e Dio; in questo caso,

infrangendo tali regole, il re si trasforma in un privato sul quale possono intervenire le magistrature inferiori

che lo possono privare del potere. Su questi temi è esemplare il testo Vindicae contra tyrannos (1579)

attribuito a Philippe du Plessis-Mornay (1549-1623).

Nello stesso periodo si sviluppa anche la corrente dei tirannicidi i quali proclamano la legittimità di

assassinare il governante che si sia reso tiranno. La teoria tirannicida è tipica dell’ ambiente cattolico: il più

noto rappresentante di questa corrente è il gesuita spagnolo Juan de Mariana (1535-1624), secondo il quale è

del tutto legittimo uccidere il tiranno usurpatore, mentre bisogna essere più cauti per quanto concerne

l’assassinio del tiranno di esercizio, che sia però legittimamente al potere. In questo caso il tirannicidio è

consentito ove il privato che lo esegua esprima realmente il sentimento universale del popolo.

Si trovano inoltre importanti riferimenti alla TIRANNIDE ne I sei libri della Repubblica di Jean Bodin e

nel Secondo Trattato sul Governo civile di John Locke.

Con significato non tecnico troviamo infine l’espressione “tirannide della maggioranza” in Alexis de

Tocqueville (1805-1859) e in John Stuart Mill (1806-1873), che individuano in essa uno dei difetti della

democrazia e il maggior pericolo cui porta il conformismo.

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TOTALITARISMO

Etimologia: dall’aggettivo → totalitario

Il termine appare nella teoria politica del Novecento per indicare una situazione politica in cui lo Stato e/o

il governo assumono un controllo assoluto della vita degli individui e delle istanze della società civile. Si

attribuisce al liberale Giovanni Amendola il primo uso dell’aggettivo “totalitario” con questo significato (cfr.

S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 3; ma anche E. Traverso, Il totalitarismo, Bruno

Mondadori, Milano 2003, p. 19), con il quale intendeva designare specificamente il governo instaurato dal

partito fascista appena impadronitosi del potere.

L’aggettivo e il sostantivo TOTALITARISMO si affermano con la voce “Fascismo” presente

nell’Enciclopedia italiana, dove Giovanni Gentile (1875-1944) e Benito Mussolini (1883-1945) si

appropriano dei due termini con i quali vogliono orgogliosamente indicare il carattere del regime. La voce

presenta anche una parte storica stesa da Gioacchino Volpe.

Non vi è accordo tra gli studiosi né sull’autonomia del concetto rispetto ad altri che indicano forme di

potere assoluto, né a quali regimi esso possa essere applicato, fermo restando che, una volta ammesso, esso è

senz’altro riferibile solo al periodo storico non precedente il XX secolo. Sono quindi necessarie alcune

precisazioni:

In primo luogo non si può porre in discussione che:

1. con TOTALITARISMO si intende un tipo di regime assoluto che sorge nel XX secolo;

2. per la sua formazione e per il suo mantenimento sono essenziali i mezzi di comunicazione di

massa, quali quotidiani, radio, cinema e, successivamente, televisione;

3. ha sempre un capo carismatico come guida;

4. implica l’esistenza di un partito unico.

In secondo luogo si deve riconoscere che su di esso esiste una dicotomia interpretativa:

1. alcuni ritengono che esso esprima un concetto generico, utile solo alla propaganda ideologica

2. altri lo considerano un concetto specifico, la cui natura ed essenza vanno ancora precisate e studiate.

In terzo luogo, il concetto di TOTALITARISMO nel secondo dopoguerra, durante la guerra fredda, è stato

utilizzato come strumento di propaganda ideologica: le nazioni occidentali, con sistema politico “liberal-

democratico”, che aderiscono alla NATO e sono sotto l’egemonia degli USA lo utilizzano per designare il

sistema comunista che ha nell’URSS il suo punto di riferimento. Per converso, in questo stesso clima

politico-culturale, da parte comunista si è rifiutato spazio teorico al TOTALITARISMO e si è invece tentato di

estendere in modo ampio alle società capitalistiche il concetto di “fascismo”.

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La tesi più diffusa fa convergere nella categoria del TOTALITARISMO i tre regimi nati nel primo

dopoguerra: fascismo, nazionalsocialismo, stalinismo, distinguendoli da altre forme di regimi assoluti, che

pur a essi si ispirano.

Il concetto di TOTALITARISMO implica una modificazione delle categorie che specificano i regimi di

tipo assoluto. Questa modificazione dipende da alcune cause e implica alcune conseguenze. Si è già ricordato

che il TOTALITARISMO non è concepibile al di fuori del processo di avanzata industrializzazione e

tecnologizzazione verificatosi nel Novecento (con una precisa divisione in classi e quindi una dinamica

sociale ben precisa) e dell’orizzonte politico creato dall’assunzione di partecipazione e protagonismo politico

dell’intera popolazione. Tale esigenza di partecipazione ha portato nel Novecento, da un lato, all’affermarsi

graduale ma deciso dei governi a suffragio universale, dall’altro, all’utilizzazione delle masse, come insieme

indifferenziato e indistinto, quale strumento di legittimazione, a diverso livello e con diverse finalità, dei

regimi dittatoriali e totalitari. Il TOTALITARISMO si inserisce così nel processo che nel Novecento porta

all’affermazione della sovranità popolare la quale esprime il proprio consenso verso un determinato genere

di governo; questo consenso passa attraverso le elezioni a suffragio libero e segreto e all’affermazione del

partito politico come istituzione intermedia tra l’insieme dell’intera popolazione e le istituzioni costituzionali

previste (parlamenti, forme del potere esecutivo).

Alle elezioni libere, segrete e pluraliste il TOTALITARISMO sostituisce

per un verso, un tipo di elezione a partito unico e a schema referendario (scelta netta tra un “sì” e un

“no”);

per un altro verso, le acclamazioni plebiscitarie di piazza dove si crea (si afferma si crei) un legame

diretto tra il popolo come massa (e non come insieme di individui) e il “capo” che in questo modo si

dichiara espressione e garante diretto, senza mediazioni, della volontà popolare.

Storicamente il momento di nascita del TOTALITARISMO nelle sue varie espressioni si pone come

conseguenza delle complesse vicende sociali e politiche generate dalla prima guerra mondiale:

a. in Russia la rivoluzione del 1917 costituisce la premessa di una forma di regime che negli anni Trenta

con Stalin assume la forma di un TOTALITARISMO;

b. in Italia il fascismo utilizza il revanscismo piccolo-borghese e la necessità d’ordine e di garanzia di

supremazia economica degli agrari e degli industriali, dopo i grandi scioperi del 1921;

c. in Germania questi stessi motivi si uniscono al fallimento della democrazia di Weimar fino a

consentire nel 1933 l’ascesa di Hitler al potere.

Altra caratteristica tipica del TOTALITARISMO è la forte connotazione ideologica, che si collega al ruolo

del partito unico e alle finalità che si prefigge (ad esempio, la realizzazione di un’umanità “migliore e più

libera”, grazie alla purificazione della razza, alla libertà della comunità rispetto a una libertà individuale

considerata asfittica ed egoistica, alla propaganda di un avvenire di pace generalizzata, magari da realizzare

con una guerra totale finale).

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Inoltre nel TOTALITARISMO si ha l’assorbimento della società civile nello Stato: mentre nelle dittature a

basso profilo ideologico si verifica la tendenza a sopprimere il livello della società civile, nel

TOTALITARISMO la società civile viene usata e strumentalizzata, in quanto viene privata di autonomia e

utilizzata come canale di indottrinamento completamente inglobato entro la struttura dello Stato. Viene

parallelamente negata l’autonomia individuale, attraverso l’uso della polizia segreta, che è in genere un

apparato separato dello Stato, distinto da altri corpi di controllo ed è alle dirette dipendenze del capo. La

polizia segreta ha lo scopo di controllare gli individui; la sua dipendenza diretta dal capo rafforza, per

converso, il rapporto di costui con le masse, considerate nella loro totalità. Gli individui vengono controllati

con meccanismi e secondo regole di tipo totalmente arbitrario e ciò può comportare la sparizione dei membri

espulsi o la costruzione di processi di propaganda. La polizia segreta utilizza il terrore, in particolare

attraverso il ricorso alla tortura e ai campi di reclusione. I campi a loro volta sono di due tipi:

1. campi che hanno come fine l’esclusione di determinate persone dalla comunità civile e la loro

utilizzazione per lavori condotti con metodo schiavistico, nei quali la morte dei reclusi è

un’eventualità e non un fine;

2. campi che hanno come fine l’eliminazione fisica di alcune classi di persone, come, nei campi di

sterminio nazisti, gli ebrei, gli zingari, i comunisti, gli omosessuali, i disabili, i malati di mente; in

quest’ultimo caso, prima dell’eliminazione fisica, e fino a che le condizioni di sopravvivenza lo

consentono, i reclusi vengono utilizzati o per lavori del tipo sopra descritto o come “materiale” per

esperimenti scientifici e medici.

Questo dimostra che l’annullamento dell’individuo nella massa costituisce la premessa per un possibile

annullamento totale della dignità e/o della vita della personalità singola, nella reificazione delle persone

intese come individui e nel loro riconoscimento solo nella massa messianicamente unita al capo e

completamente succube della sua volontà.

Nei regimi totalitari vi è un controllo o totale o fortemente burocratizzato dell’economia, che implica

anche un parallelo controllo e una gestione centralizzata dei rapporti sociali.

Il TOTALITARISMO ha una duplice caratterizzazione: da un lato si presenta come espressione dello

statalismo monolitico e dell’ordine, dall’altro fa riferimento a un processo rivoluzionario capace di creare le

condizioni di un mondo nuovo; naturalmente nei diversi regimi l’idea di monolitismo e di rivoluzione sono

diverse.

Il TOTALITARISMO sostituisce ai sistemi tipici delle democrazie contemporanee (partiti plurimi, elezioni

a voto segreto, parlamenti) il concetto della delega diretta del potere dalla massa al capo; la delega avviene

con modalità radicalmente diverse da quelle dei sistemi liberal-democratici. Di questi si mantiene il concetto

di partito politico, ma alla pluralità di partiti si sostituisce il partito unico; mentre al Parlamento

rappresentativo delle varie posizioni politiche si sostituiscono altri tipi di organi di “rappresentanza”, come la

Camera delle corporazioni in Italia o il Consiglio dei soviet in Urss. Tuttavia, mentre i regimi fascisti si

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autodichiarano nemici della democrazia, i regimi comunisti in genere fanno riferimento proprio ai concetti

fondamentali e principali di quest’ultima.

Riassumendo:

ha senso utilizzare la categoria di TOTALITARISMO;

tale categoria indica un tipo di regime assoluto che non può essere datato prima del XX secolo;

questo perché:

▪ nasce dalle esperienze storiche del primo dopoguerra;

▪ non può manifestarsi e soprattutto conservarsi se non in società altamente

industrializzate e/o tecnologizzate;

▪ ha necessità di utilizzare i mezzi di comunicazione di massa che vengono monopolizzati

da chi detiene il potere;

sono ascrivibili alla categoria i regimi del fascismo in Italia, del nazionalsocialismo in

Germania, dello stalinismo in Urss;

il TOTALITARISMO si presenta come un regime:

▪ monocratico;

▪ guidato da un capo dotato di forte potere carismatico;

▪ a partito unico;

▪ fortemente ideologizzato;

▪ con un controllo burocratizzato dell’economia;

il TOTALITARISMO utilizza una serie di strumenti tipici quali:

▪ la mobilitazione delle masse;

▪ l’annullamento degli individui nella loro autonomia;

▪ l’assorbimento della società civile nello Stato;

▪ l’uso del terrore come sistema di controllo;

▪ l’uso della polizia segreta, alle dirette dipendenze del capo;

▪ l’istituzionalizzazione dei campi di concentramento e/o di sterminio;

▪ lo sfruttamento a scopo propagandistico di processi politici.