Eugenio de andrade - POLO PSICODINAMICHE · Andrea Galgano. L’ACQUA DI EUGENIO DE ANDRADE. 25...

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FRONTIERA DI PAGINE POESIA CONTEMPORANEA

L’ACQUA DI EUGÉNIO DE ANDRADE DI ANDREA GALGANO

http://polopsicodinamiche.forumattivo.com

Prato, 25 aprile 2012

poesia di Eugénio de Andrade

(1923-2005) è una voce lieve e

chiara di appartenenza. Nato a Póvoa

da Atalaia il 19 gennaio 1923, un piccolo villaggio della

Beira Bixa, si trasferì con la madre prima a Castelo

Branco, quindi a Lisbona, e poi, definitivamente, a

Oporto, città del suo slancio finale, prima della morte

avvenuta il 13 giugno 2005.

La

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II 

Una chiara voce, sottile e lieve, appunto, che ha abitato con purezza e silenzio il XX

secolo; secolo d’oro della poesia portoghese, che ha respirato gli abissi eteronimi di Pessoa,

le lucidità di Saramago o le soavi alture di Camilo Pessanha.

La sua dimensione conosce il silenzio della ritrosia – non sono un caso i trentacinque anni

trascorsi nella dimensione lavorativa dell’ispezione del Ministero della Salute-, quasi che

la poesia si perpetuasse e si tramandasse, nella sua origine e nella sua luce, in uno spazio

vergine e nascosto, in una coltre di interiorità concreta.

Il grande respiro della tradizione barocca e delle grandi esperienze della antica classicità

hanno formato il verso in una elevazione costante, verso un germoglio breve e

improvviso, che ha bisogno di elevare l’essere a una dimensione di fascinazione e

rivelazione, come accade nell’incontro con Pessoa: «il tempo che la scuola mi lasciava

libero lo passavo nelle biblioteche Municipale e Nazionale a copiare su quaderni

scolastici le sue poesie, allora disperse su riviste su cui non avevo mai posato gli occhi

(…)». La parola poetica che mareggia con il suo sangue.

Ed ecco che Garcia Lorca, la brevità orientale dell’haiku, Walt Whitman, Saffo, destano lo

stupore e il fascino di una parola che disocculta le fonti primigenie dell’essere, configura

un ostinato rigore e un impegno morale, verso il riconoscimento di una identità, della

“parola nel tempo”.

Scrive il lusitanista Federico Bertolazzi: “In un’ottica generale si può dire che la cifra

stilistica essenziale di Eugénio de Andrade è la rarefazione. In primo luogo per il

linguaggio fondato su un uso della lingua che cerca pervicacemente di restituire alle

parole la loro originalità, soprattutto grazie all’uso di figure che, come nel caso delle

metafore, si spingono verso un progressivo affrancamento dalla naturale sequenza logica

del piano semantico, imponendo, quando ridotte al loro nucleo, una definitiva letteralità”.

Su questo paziente lavoro di tornitura Eugènio riflette spesso anche nei suoi testi, a volte

come ammaliato dal suo stesso canto, a volte come ad esso condannato, alternando la

“materia solare” all’ “oscuro dominio”.

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III 

Il linguaggio, quindi, scova la sua origine vitale, il processo di mitificazione del luogo

dell’esistere e dei luoghi dell’esistere, laddove l’infanzia e il tempo si uniscono in un

contesto di fondo e sfumatura.

Gli anni della sua infanzia acquistano, non già una memoria, ma una continua nascita

che permane in una soglia di musica e canto, come lui stesso afferma: «è sempre a mia

madre che torno quando mi metto a immaginare in che modo la poesia mi sia confitta a

fondo nella carne. A mia madre e a quel luogo in cui i miei sensi si sono svegliati a una

luce trafitta dal cigolìo di un carro di buoi giù per le mulattiere, diretto alle terre basse dei

pantani. È sempre a quella fonte che ritorno. In essa ho bevuto i primi versi».

Frequentare la scoperta delle origini dell’immediatezza del mondo che si rivela, significa

conoscere la dimensione aurorale di ciò che nasce, l’esempio di ciò che situa la sua fonte

inesauribile in una campitura accesa di essenzialità e figura.

De Andrade percorre i sottili fili dell’essenzialità di flora e fauna, dei «muri bianchi» e

delle «piazze quadrate», in essa egli scopre la sua elementarità e la sua veridicità.

La sua poesia, seguendo gli spasmi architettonici della mitografia di terra e vento, scopre

la vertigine della purezza lucente, riflessa nei muri intonacati e nella gloria del canto

delle cicale, che nel breve attimo sensuale dipinge essenze, compone il suo desiderio.

“poesia del corpo cui si arriva attraverso una depurazione continua”, scriveva Josè

Saramago. In questa visione di depauperamento del superfluo espressivo egli rischiara il

suo candore, la sua immagine emersa.

Nel continente delle distese d’acqua che si declinano e si coniugano, in un’evocazione

elementare, si rinviene la materia marina che disvela il suo scenario mitico, l’adolescenza

di dune, la prepotenza lieve dell’incontro con l’amore, che raggiunge l’umano nella figura

femminile.

Nella figuralità accesa il poeta trova la sua passione luminosa, il suo canto che nomina la

realtà: «Un poeta deve conoscere i nomi delle cose, degli alberi, dei fiori. Un poeta è colui

che, come i contadini, sa nominare la natura. Se non si è capaci di nominare quello che si

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IV 

vede, come si può esprimere la profondità umana, così pura, così difficile, così

luminosa?».

Sillabare il mondo, attraverso le sue forme ‘contadine’, (il sole, l’acqua, la luce, il vento) è

come rinvenire una soglia vigile che si esalta e si anima, perpetuare un canto di purezza

fino all’estremo, come levigatura di terra.

Laddove il desiderio si spinge a guardare la morte, lì nascono gli orizzonti sulle dita, la

velatura d’astri: «Oggi vieni a me incontro/ velata d’astri/ alta e spogliata/ di singhiozzi e

lacrime e grida» o ancora: «Portava con sé la grazia/ delle fonti quando annotta. /Era il

corpo come un fiume /in serena sfida/ con le rive quando fiotta».

La sensualità di corpi tesi tende l’arco della sua profondità e la sua integrità, in un tempio

fisico di metafisica, poiché si rivela l’ampio gesto poetico dell’essere proprio in un

sincretismo di radici e battiti, immediato e gremente.

La donna, pertanto, acquista proprio quel potere rivelativo, soggiace le sue tessiture, in un

arco di sogni e propulsioni verbali: «Respira. Un corpo orizzontale, / tangibile, respira. Un

corpo nudo, divino, / respira, ondula, infaticabile. // Amorosamente tocco quel che resta

degli dei. / Le mani seguono l’inclinazione/ del petto e tremano, / pesanti di desiderio. / Un

fiume interiore attende. / Attende un lampo, / un raggio di sole, /altro corpo».

Nell’incontro di acque, lo spazio aurorale della donna orla la litania del desiderio dell’io,

nel cuore dei giorni e delle notti chiare.

De Andrade ci consegna la sua scena, misura la notte come profilo, il mare come vanto di

orizzonti e la terra come duna di albe, in cui abita la rifulgente sorgente della parola

accesa.

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ADDIO

Come se ci fosse una tempesta

a scurire i tuoi capelli,

o se preferisci, la mia bocca nei tuoi occhi,

carica di fiore e delle tue dita;

come se ci fosse un bambino cieco

a inciampare dentro di te,

ho parlato di neve, e tu trattenevi

la voce in cui con te mi persi.

Come se la notte venisse e ti portasse,

era fame l'unica cosa che sentivo;

ti dico addio, come se non tornassi

al paese in cui il tuo corpo inizia.

Come se ci fossero nuvole su nuvole,

e sulle nuvole mare perfetto,

o se preferisci, la tua bocca pura

ad avanzare largamente nel mio petto.

ADEUS

Como se houvesse uma tempestade escurecendo os teus cabelos, ou se preferes, a minha boca nos teus olhos, carregada de flor e dos teus dedos; como se houvesse uma criança cega aos tropeções dentro de ti, eu falei em neve, e tu calavas a voz onde contigo me perdi. Como se a noite viesse e te levasse, eu era só fome o que sentia; digo-te adeus, como se não voltasse ao país onde o teu corpo principia. Como se houvesse nuvens sobre nuvens, e sobre as nuvens mar perfeito, ou se preferes, a tua boca clara singrando largamente no meu peito. Eugénio De Andrade