Esperienze di Counselling - CNCP · Familiare ad orientamento Sistemico e per il Counselling...

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Esperienze di Counselling ANNO 2014 A CURA DEL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA LOMBARDIA

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Esperienze di Counselling

ANNO 2014

A CURA DEL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA LOMBARDIA

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Esperienze di Counselling

PrefazionePrefazione i

Un po’ di storia 5

La storia del CNCP Lombardia ad oggi

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L’intervento di counselling: potenzialità e prospettive

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CENTRO STUDI GULLIVER, VARESE, SCUOLA DONNA E MADRE, MILANO

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Percorsi per genitori.

Il counsellor per accogliere e facilitare il cambiamento: l’approccio multidisciplinare in un servizio innovativo per le famiglie degli adolescenti

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CENTRO PER LA MEDIAZIONE SISTEMICA “GREGORY BATESON”

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Lifelong counselling: quando non è questione di età

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CENTRO MILANESE DI TERAPIA DELLA FAMIGLIA “MILAN APPROACH” SCUOLA DI COUNSELLING

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Esperienze di Counselling

Proporre il counselling sistemico in un Centro di Formazione Professionale : una scommessa in una terra di confine

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CENTRO STUDI E RICERCHE PER LA MEDIAZIONE SCOLASTICA E FAMILIARE AD ORIENTAMENTO SISTEMICO E PER IL COUNSELLING SISTEMICO RELAZIONALE DI LEGNANO

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Il counselling sistemico relazionale contesto scolastico

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ASSOCIAZIONE ASPIC COUNSELING E CULTURA DI MILANO

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Il counselling nelle organizzazioni: uno strumento di sostegno per la gestione del cambiamento

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SCUOLA DI ANALISI TRANSAZIONALE & COUNSELLING

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Un percorso di counselling individuale : la storia di Paolo

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La Ricerca 65

Gli esiti professionali del counsellor

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Esperienze di Counselling

“Il counselling e il lavoro di rete”

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Il counseling per costruire la rete

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Attivare la rete per sostenere i bambini coinvolti nella separazione dei genitori: lo strumento dei Gruppi di parola

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Counseling e sviluppo di rete interfunzionale in azienda

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Il lavoro di gruppo e la costruzione di reti sociali

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In biblioteca anch’io 110

Counseling in tema di giustizia riparativa. Un’esperienza nelle scuole della Provincia di Novara

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Dare ascolto come processo di cambiamento.L’esperienza di counselling in un servizio al lavoro..

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“Counselling: coraggio e creatività”

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“Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale”. Il counselling sistemico a servizio di un Caseggiato Aler

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Esperienze di Counselling

Un futuro sostenibile? Quando a ridecidere è un’intera comunità. L’esperienza di “energetica”

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Tecniche cognitive e tecniche espressive nel percorso di counselling: l’integrazione possibile

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Vicino ai familiari dei giocatori d'azzardo condividere fatiche, trovare risorse e sperimentare nuove idee: gruppi di counselling per familiari

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“H2 Io”: un laboratorio di Digital Storytelling. Creatività, digital storytelling e counselling.

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Counselling, coraggio e creatività.

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La trasformazione di una esperienza traumatica in una relazione d’aiuto

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APPENDICE 1 154

APPENDICE 2 158

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Prefazione

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E’ con vivo piacere che ho accettato l’invito dei colleghi di Milano a scrivere la prefazione di questo testo e-book elaborato dai counsellor che fanno parte della Sede Regionale Lombardia del CNCP.

Il testo contiene esperienze, riflessioni, progetti che hanno animato la vita del gruppo regionale negli ultimi anni e rappresenta a mio avviso un’eccellente testimonianza di serietà ed impegno professionale.

Devo dire che durante il lungo periodo in cui ho ricoperto la carica di Presidente della nostra Associazione, ho partecipato in diverse occasioni a svariati eventi scientifici, dove ho avuto la fortuna di ascoltare ed apprezzare gli originali contributi presentati dai professionisti che operano in un territorio come la Lombardia, certamente ricco di risorse e di idee nell’ambito dell’intervento sociale, ma che, soprattutto negli ultimi anni, è diventato scenario di confronti talvolta anche accesi e conflittuali sui temi legislativi ed etici della professione counsellor.

Sono fermamente convinto che la risposta più efficace che i nostri amici del Nord hanno dato alle voci di dissenso che si sono levate intorno alla inconfutabile diffusione della pratica di counselling nel nostro paese sia stata proprio quella di puntare essenzialmente sulla qualità della formazione e della ricerca, scegliendo di aprirsi al dialogo piuttosto che rimanere chiusi su posizioni rigide e difensive. Da questo atteggiamento costruttivo, di cui il presente e-book rappresenta una veritiera

esemplificazione, possiamo ricavare alcune considerazioni cruciali.

La prima è che il counselling gode di buona salute, come dimostra la varietà degli interventi presentati nel testo, dall’ambito educativo a quello sociale, sanitario ed aziendale, che consente di cogliere il valore di una professione emergente, che va ad inserirsi a pieno titolo nel panorama articolato e multiforme delle professioni di aiuto.

E’ inoltre evidente che chi lo pratica ha ricevuto una formazione onesta e scrupolosa, oltre che rigorosa sul piano della metodologia scientifica.

L’ultimo dato rilevante riguarda il bisogno e la necessità di favorire percorsi interdisciplinari nella pratica territoriale del counselling, proprio in virtù del carattere complesso della sua tipologia di intervento. Dai dati di una interessante ricerca presentata nel testo,emerge, infatti, in maniera evidente, una figura di professionista della relazione di aiuto adeguatamente preparato al lavoro di rete, che richiede specifiche capacità di operare in gruppo, di effettuare letture sistemiche articolate delle storie, delle dinamiche relazionali e della natura più o meno vincolante dei differenti contesti operativi, di attivare risorse trasformando i vincoli in snodi evolutivi ed opportunità di cambiamento.

I risultati della ricerca, effettuata su un campione di 106 allievi, confermano che è questa la direzione in cui sta andando il counselling nel nostro paese, evidenziando, al tempo stesso, alcune criticità che ritengo utile riprendere.

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Manca ancora un riconoscimento ufficiale della figura professionale del counsellor e quasi sempre si riscontra una conoscenza insufficiente e parziale delle sue caratteristiche e delle sue specifiche competenze all’interno dei diversi ambiti di lavoro.

E’ necessario pertanto continuare il percorso che il CNCP ha avviato da molti anni per il pieno riconoscimento della professione, mettendo in campo proprio la ricchezza di esperienze, progetti e attività scientifiche promosse dalle sedi regionali, ma soprattutto continuando il prezioso lavoro di ricerca finalizzato a dimostrare alla comunità scientifica l’indispensabilità di questa tipologia di intervento nell’ambito della prevenzione del disagio, della promozione della salute e del cambiamento sociale.

Questo intento è, a mio avviso, coerente con la filosofia, la metodologia e le strategie messe in campo dal gruppo della regione Lombardia.

Prima di concludere la mia presentazione, desidero condividere un’ultima riflessione su quelli che considero i punti salienti contenuti nel testo qui proposto. Vorrei riassumerli con tre parole chiave:

La conoscenza, che rimanda alle attività di formazione, supervisione, orientamento e sensibilizzazione e sottolinea la necessità di costruire spazi di riflessione e di confronto che orientino in maniera produttiva l’agire operativo.

La rete, che riguarda metodi e strumenti di lavoro del counselling, guidati dai principi di interdisciplinarietà, sinergia, gestione dei conflitti, apertura e dialogo.

Infine, la creatività, intesa essenzialmente come capacità di cogliere la complessità dei nessi esistenti tra azioni, idee, storie, culture, disagi e contesti, ma anche di andare oltre la rigidità di ipotesi, schemi, pregiudizi, aspettative, atteggiamenti, lasciando spazio sufficiente perché ciascun attore si senta al centro della propria vita, ne riscopra il senso e la bellezza e ritrovi naturalmente nuovi modi di essere al mondo e di costruire legami.

Bene, la mia idea è che sia proprio la creatività il trait d’union tra conoscenza e azione, tra teoria e prassi, tra rigore del metodo e flessibilità della ricerca dei percorsi più idonei per la crescita e per il cambiamento. Quella stessa creatività che ho apprezzato nella vision e nello stile operativo dei tanti colleghi della Lombardia incontrati in questi ultimi anni.

Ricordo che proprio durante un seminario da me condotto recentemente presso il CMTF di Milano, sul tema delle emozioni e dell’intelligenza musicale, ho avuto l’opportunità di verificare la disponibilità del gruppo dei counsellor di mettersi in gioco, di ri-suonare agli stimoli visivi, sonori, narrativi da me proposti, di trovare ciascuno il proprio ritmo, la propria voce personale, rimanendo al tempo stesso collegati alla coralità polifonica del sistema di cui si è parte. Un esempio di equilibrio perfetto tra rigore e creatività!

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Auguro, dunque, a tutti una buona lettura a agli Autori del testo il meritato successo.

Giuseppe Ruggiero

Past President CNCP, Direttore Istituto Medicina e

Psicoterapia Sistemica di Napoli (IMePS); psichiatra,

psicoterapeuta.

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CAPITOLO 1

Un po’ di storia

Gabriella Caiani ed Emanuela Lo Re

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La storia del CNCP Lombardia ad oggi

Il primo incontro ha avuto luogo il 29 giugno 2009. Il gruppo inizialmente composto da rappresentanti di tre scuole di counselling della Lombardia: Jacqueline Pereira e Gabriella Caiani per il Centro Milanese di Terapia della Famiglia, sezione Counselling, Gilda Greco per Associazione A.s.p.i.c. – Counselling e Cultura- sez. Milano, Emanuela Lo Re per il Centro di Psicologia e Analisi Transazionale, Milano, si è subito posto due obiettivi, coerentemente con il mandato avuto dal CNCP Nazionale :

• individuare le esigenze formative e di aggiornamento dei counsellor

• riflettere su come promuovere la professione del counselling nella regione Lombardia

Durante i primi incontri si è tentato, inoltre, di allargare la partecipazione ad altre scuole presenti nella regione. Rispondono e saranno presenti ad incontri successivi Rosita Marinoni per il Centro Bateson, Milano, Lilia Andreoli per il Centro Studi e Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad orientamento Sistemico e per il Counselling Sistemico Relazionale di Legnano, Marino Catella per il Centro studi Gulliver di Varese, Luca Panseri per la Scuola di cura di sé di Bergamo.

Marino Catella e Luca Panseri non parteciperanno agli incontri successivi al primo convegno della Lombardia per motivi personali.

Le sette scuole fissano la data della prima giornata formativa : 16 ottobre 2010 e lavorano insieme per la preparazione della stessa. Decidono il tema “L’intervento di counselling: potenzialità e prospettive” con gli obiettivi di:

• far conoscere i modelli delle scuole presenti (ogni scuola presenta il proprio)

• divulgare pratiche concrete di counselling (sette ex allievi presentano un loro lavoro)

• raccogliere le esigenze formative dei partecipanti (distribuzione di un questionario di valutazione della giornata contenente una domanda che rileva le esigenze formative)

La giornata viene valutata positivamente dai partecipanti.

Nel 2011 il CNCP Nazionale farà una giornata di formazione a Milano il 10 maggio e un convegno Nazionale a Roma, l'11 e 12 Novembre. E’ un momento delicato per i counsellor e le scuole di couselling della Lombardia, l’Ordine degli Psicologi contesta la formazione dei counsellor e il lavoro svolto dai counsellor. Il gruppo regione Lombardia decide di dedicare un tempo per riflettere intorno alle attività svolta dai counsellor, e in questa direzione decide di di effettuare una ricerca sugli esiti professionali degli ex-allievi counsellor, di presentarne i

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risultati al Convegno del CNCP Nazionale di Roma e di posticipare la giornata formativa regionale all'anno successivo.

Partecipano alla ricerca quattro centri: Aspic, Centro di Psicologia e Analisi Transazionale, Counselling e Cultura, Centro Milanese di Terapia della Famiglia, Centro Studi e Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad orientamento Sistemico e per il Counselling Sistemico Relazionale. Il lavoro si intitolerà “Spunti di riflessione emersi da una ricerca su 106 ex allievi”. I risultati di tale ricerca porteranno il gruppo a proporre come tema della seconda giornata formativa del 24 novembre 2012: “Il Counselling nel lavoro di rete” . Durante la 2° giornata di formazione hanno luogo le elezioni dei nuovi rappresentanti del CNCP Lombardo.

Il coordinamento regionale è così composto: il coordinatore è Alessandra Doneda (Centro Milanese di Terapia della Famiglia), Gabriella Caiani segretario (Centro Milanese di Terapia della Famiglia), Rosita Marinoni tesoriere (Centro Bateson), Emanuela Lo Re (Scuola di Analisi Transazionale e Counselling Terrenuove), Giorgio Mariotto (Scuola di Strategie Creative, Mantova), Margherita Serpi (Aspic Milano) e Cinzia Valsecchi (Centro Studi Gulliver, Varese) consiglieri.

I neoeletti stabiliscono di scrivere e inviare semestralmente agli iscritti della regione Lombardia una Newsletter per informarli circa le attività svolte dal coordinamento regionale

e dal CNCP nazionale e segnalare le attività di aggiornamento e formazione svolte dalle scuole della Lombardia.

Inoltre il gruppo decide che la giornata formativa del 2013 sarà dedicata a “Counselling: coraggio e creatività. Dall'atto creativo al progetto” e si svolgerà a Milano il 30 novembre .

Il 2013 è un anno importante per i counsellor, l’approvazione della legge del 14 gennaio 2013 n. 4 sulle libere professioni legittima l‘attività professionale da loro svolta e sollecita il CNCP nazionale e le sedi regionali a pensare e mettere a punto strategie per valorizzare la figura professionale del counsellor e la formazione curata dalle scuole di counselling.

Il coordinamento regionale in questa direzione prosegue il suo lavoro e, nell’anno 2014, mette a punto:

• La richiesta del riconoscimento della professionalità e delle competenze di counselling da parte di regione Lombardia (quadro regionale delle competenze)

• La richiesta di iscrizione alla Consulta Regionale e Consulta delle professioni della Camera Provinciale del Commercio di Milano

• L’E-book Esperienze di counselling

• Il 4° Convegno 13 dicembre 2014 dedicato a “La funzione sociale del counsellor. Una professionalità nelle professioni”

Alla luce del percorso descritto è possibile pensare al Coordinamento CNCP della Regione Lombardia come ad un

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gruppo “capace di costruire una storia”; pensiamo che due aspetti sono stati importanti nello svolgersi di questo processo: in primo luogo, il fatto che membri del gruppo appartengono a scuole solide con una loro storia, un’identità, capaci di apprezzarsi e disponibili al confronto; in secondo luogo i movimenti anti e pro counsellor presenti in Lombardia negli ultimi anni che, in virtù della solidità prima citata, il gruppo ha saputo cogliere come un’opportunità per riflettere, trovare modi e tempi per valorizzare la professionalità dei counsellor e le attività formative svolte dalle singole scuole.

I diversi membri del gruppo condividono e considerano fondamentale “mettersi insieme” per promuovere il counselling. Mettersi insieme non per andar contro, per sfidare o per competere, ma per pensare, mettere in luce le risorse del counselling e dei counsellor, restituire valore. La scelta del gruppo è stata e continua ad essere quella di “stare” nella difficoltà e nella responsabilità, che ciascun membro ha come caposcuola e come rappresentante eletto dai counsellor, stare insieme per realizzare progetti che sono la ragione dell’esistenza del gruppo. Un gruppo che ha oggi molte delle caratteristiche proprie di un gruppo che pensa così come lo definisce Enriquez (2012): un luogo di legami di interdipendenza e progettualità creativa, di cui il presente E-book è un risultato.

Questo E-book raccoglie i contributi presentati dai relatori nei tre convegni realizzati, accanto ai risultati della ricerca svolta. E’ d’obbligo sottolineare che nell’organizzazione dei convegni la scelta del coordinamento regionale è finora stata quella di

dar voce ai professionisti, tutti ex allievi delle scuole e alle loro esperienze. Questo processo circolare: dalle scuole all’esperienza e quindi nuovamente alle scuole è una scelta che pensiamo permetta continuità e scambio tra l’esperienza e la formazione dei counsellor e sollecita l’innovazione e lo sviluppo del counselling.

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CAPITOLO 2

L’intervento di counselling: potenzialità e prospettive

Convegno 2010 CNCP Lombardia

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La Scuola “Centro Studi Gulliver” nasce nel Centro Gulliver, attivo dal 1986 come centro FICT e che si colloca in Varese e provincia, anche all’interno delle reti e dei percorsi formativi. Il suo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e alla integrazione sociale dei cittadini, attraverso la gestione di servizi socio-sanitari, formativi ed educativi. La Scuola di Counselling “Centro Studi Gulliver”, accreditata dal 2004 presso il CNCP (Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti), si pone l’obiettivo di formare counsellor in grado di promuovere attività di ascolto e di recensione del bisogno, nell’ottica di una promozione del benessere della persona e di una riscoperta creativa delle proprie risorse.

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CENTRO STUDI GULLIVER, VARESE, SCUOLA DONNA E MADRE, MILANO

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SEZIONE 1

Percorsi per genitori.Il counsellor per accogliere e facilitare il cambiamento: l’approccio multidisciplinare in un servizio innovativo per le famiglie degli adolescenti

Lidia Tregnago e Paola Zavagnin

Premessa

Cosa ci fa un Counsellor in un Servizio per la diagnosi precoce del disagio psichico degli adolescenti finanziato dall’Area Psichiatria di Regione Lombardia?

Se avrete la pazienza di seguire questo breve racconto vi spiegheremo la nostra idea in proposito.

Il Servizio “Campus Mafalda”

Campus Mafalda è un progetto innovativo finanziato al Centro Gulliver da Regione Lombardia nell’ambito dell’Area Psichiatria.

Si occupa del riconoscimento e della presa in carico di adolescenti e giovani (16-24 anni) che manifestano segnali di disagio psichico. Il Servizio si occupa anche del sostegno ai genitori e alla famiglia nella sua globalità. L’accesso è libero e gratuito.

Campus Mafalda intende approcciarsi alla famiglia come risorsa nonostante la presenza di segnali di patologia psichiatrica: per questo ha scelto di avere una equipe multidisciplinare che comprenda sia professionisti della clinica (psichiatra e psicologi) che professionisti della relazione di aiuto fondata sull’empowerment delle risorse professionali (counsellor, educatori e animatori).

La metodologia e le attività del Servizio

Campus Mafalda lavora a stretto contatto con le scuole superiori del territorio di Varese e Provincia, con i Servizi Territoriali di Psichiatria e Neuropsichiatria Infantile (CPS e UONPIA), con i Servizi Sociali e i Servizi Tutela, ed è in rete con le Associazioni e Cooperative del Territorio che si occupano di adolescenti.

Attraverso questa rete vengono inviati al Servizio i ragazzi, o i genitori dei ragazzi, che presentano segnali di disagio psichico e hanno bisogno di aiuto o di una valutazione scrupolosa dal punto di vista medico psichiatrico.

La prima fase è centrata sulla accoglienza del ragazzo e della sua famiglia: è fondamentale che i componenti della famiglia si sentano anzitutto accolti e compresi nella difficoltà del

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momento, qualunque essa sia. Nella nostra percezione questo è più importante della precisione della diagnosi o della valutazione clinica, che pure sono strumenti necessari alla presa in carico.

La presa in carico prevede: l’attivazione di un percorso psicoterapeutico per il ragazzo a cura di uno psicologo, la proposta di partecipazione ad un gruppo di incontro per adolescenti (condotto da uno psicologo e un animatore o educatore). Contemporaneamente viene proposto un percorso di counselling per la coppia genitoriale (a cura di un counsellor o di una coppia counsellor/psicologo) e un gruppo di incontro e sostegno per genitori condotto da un counsellor e uno psicologo.

Spesso vengono, inoltre, proposti incontri familiari (con la presenza di un counsellor e di uno psicologo) per discutere e confrontarsi rispetto alle tematiche emerse negli incontri del ragazzo e dei genitori con i rispettivi operatori.

Il counsellor nel Servizio

I motivi per cui si è pensato all’inserimento della figura del counsellor all’interno del Servizio Campus Mafalda sono molteplici.

Proviamo a fornirvene alcuni:

• Pur essendo il Servizio dedicato ai ragazzi che presentano segnali di patologia psichica, non desideravamo creare un ambulatorio psichiatrico o psicoterapeutico

dell’adolescente. Campus Mafalda rappresenta una risorsa al confine tra il normale empasse evolutivo e la patologia psichica, e come tale deve offrire spazi di normalità e speranza, di lavoro sulle risorse e non sul “sintomo”. Il consellor è garanzia che questa fiducia e questa speranza non vengano “dimenticate” dall’equipe.

• Abbiamo scelto che i ragazzi siano sempre seguiti nel loro percorso personale da psicologi, per garantire una presa in carico che sappia leggere e intepretare i segnali di disagio psichico, soprattutto in chiave preventiva e per valutare l’adeguata presa in carico, anche dal punto di vista medico. Abbiamo però scelto di inserire la figura del counsellor nel sostegno ai familiari perché essi sono coinvolti in quanto genitori, non come pazienti.

Il counsellor è garanzia che con loro si possa parlare dell’impatto del disagio del figlio nella vita quotidiana, senza addentrarsi in interpretazioni cliniche, o peggio, nella ricerca delle cause di tale disagio. I genitori hanno bisogno di un percorso che li aiuti a rapportarsi al figlio nella quotidianità, a vedere le difficoltà ma anche le risorse, a chiedersi quali obiettivi vogliono raggiungere e che rapporto hanno con le loro aspettative. E questo è, secondo noi, squisitamente lavoro di counselling.

• Nella conduzione del gruppo, il counsellor è prezioso in quanto garantisce che esso non diventi un gruppo psicoterapeutico, rischio che è facile correre in un contesto in cui si è in presenza di segnali di patologia. Noi crediamo però

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che il lavoro più efficace sia il lavoro con le persone, non con la malattia e le diagnosi. Lavoriamo sulla la paura che il figlio possa stare male o non riuscire a costruirsi un futuro, non su programmi comportamentali o previsioni di decorso psichiatrico.

Quanto detto qui sopra rispetto all’approccio del Servizio Campus Mafalda non appartiene solo alla visione del counsellor, ma è condiviso da tutta l’equipe. E’ perciò una visione propria anche degli educatori, animatori, psicologi e psicoterapeuti. L’approccio, quando parliamo di accoglienza, rispetto della sofferenza, fiducia nelle risorse, è perciò comune.

Crediamo però che il counsellor incarni queste qualità in maniera specifica, come fondamento della sua professionalità. Crediamo fortemente, perciò, che il counsellor non sia qualcosa in meno di uno psicologo, ma una figura professionale caratteristica e, soprattutto, caratterizzante l’equipe cui appartiene, attraverso la sua presenza e il suo contributo. Questa è stata la nostra esperienza nei primi otto anni del Servizio Campus Mafalda.

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LA SCUOLA DI FORMAZIONE SISTEMICA E I CORSI DI COUNSELING

di Rosita Marinoni

Il corso di Counseling Sistemico fa riferimento, come le altre attività cliniche e formative del Centro, all’approccio sistemico relazionale. La Sistemica, partendo dal pensiero di Gregory Bateson, si è sviluppata ed ha confermato la sua validità come approccio epistemologico in diversi campi del pensiero e della scienza, così come l’approccio al pensiero complesso sviluppato negli anni da Edgard Morin ha dato un grande contributo allo sviluppo di un’epistemologia attenta alla complessità delle relazioni umane.

Il pensiero sistemico ha avuto un suo sviluppo determinante che si è espresso negli anni 70 nel lavoro del gruppo Selvini, Prata , Boscolo e Cecchin, conosciuto internazionalmente come Milan Approach.

La specificità dell’approccio sistemico nelle relazioni d’aiuto e nella fattispecie nel counselling, si evidenzia in alcune sue caratteristiche fondanti.

La persona fa necessariamente parte di sistemi umani e ne condivide le relazioni e il funzionamento. Nessun essere umano può fare a meno delle relazioni, determina ed è determinato dalle relazioni che vive e sperimenta, e queste danno luogo a sistemi di reti intreconnesse tra sistemi viventi. Il contesto nel quale si sviluppano le relazioni dà senso alle relazioni stesse e la sua influenza non può essere ignorata.

I sistemi viventi funzionano secondo una logica circolare complessa e non possono essere analizzati secondo principi fondati su un approccio di causa-effetto e modelli riduzionistici che limitino l’osservazione a singoli elementi del sistema, senza tener conto delle interazioni con gli altri componenti.

Ogni sistema umano ha una storia e costruisce la sua storia, ma il passato di ciascuno non viene considerato come strettamente determinante bensì come risorsa per la costruzione del futuro.

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CENTRO PER LA MEDIAZIONE SISTEMICA “GREGORY BATESON”

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Bateson e poi Maturana ci ricordano che “tutto ciò che è detto è detto da un osservatore” e che perciò ognuno vede la realtà in modo soggettivo, guidato da mappe personali che possono però essere integrate e negoziate all’interno della relazione.

L’approccio della seconda cibernetica ha inoltre scardinato l’idea che possa esistere un osservatore neutrale ed esterno al sistema, da qui l’importanza di porre l’attenzione non solo alle relazioni interne al “sistema cliente” (famiglia, gruppo, organizzazione, ecc.) ma anche alle modificazioni introdotte nel sistema dall’incontro col professionista e alle retroazioni che modificano l’operato e il vissuto del professionista stesso.

Ogni comportamento, comunicazione, sintomo, ci indica il funzionamento e i bisogni del sistema e dei suoi componenti, è spiegabile solo all’interno del sistema che lo ha prodotto e va inteso come una risposta ecologica alla situazione attuale. Attraverso una prospettiva di connotazione positiva è possibile recuperare il valore di comportamenti e sintomi e orientare il sistema e i suoi componenti in una dimensione di assunzione di responsabilità di un cambiamento per essi utile, anziché verso una lettura colpevolizzante o assolutoria.

Il counselor sistemico, alla luce di queste premesse epistemologiche, opera quindi per accompagnare i clienti ( individui, coppie, famiglie, gruppi) con un intervento breve e focalizzato, in situazioni nelle quali essi vedono necessario un cambiamento e sentono la necessità di un confronto e di una relazione che ampli i loro punti di vista e li accompagni alla

costruzione di una diversa definizione di sé, dei propri bisogni e delle proprie relazioni.

Il counselor sistemico si pone quindi come attivatore delle risorse già esistenti nell’individuo e nel sistema, per favorire le evoluzioni necessarie a superare gli eventi del ciclo di vita individuale, familiare o lavorativo, ma anche come promotore di altri interventi utili al cliente, in un’ottica di rete di sistemi interconnessi, nell’interesse del cliente e nel rispetto delle diverse professionalità e della propria etica e deontologia professionale

Il Centro per la Mediazione Sistemica “Gregory Bateson” è un'Associazione scientifica senza fini di lucro, creata nel 1996 che raccoglie l'eredità culturale della Scuola di Terapia della famiglia e di intervento sui sistemi comunitari, Nuovo Centro Studi G. Bateson.

Come polo milanese dell’AIMS (Associazione Internazionale Mediatori Sistemici) il Centro si è proposto originariamente di promuovere lo studio, la ricerca e l'applicazione del modello sistemico nella mediazione familiare, scolastica, sociale e giudiziaria. Successivamente nel 2004 ha allargato la propria attività alla formazione secondo il modello sistemico come approccio elettivo negli interventi di counseling .

Attraverso i suoi operatori offre:

• Attività di ascolto, consulenza e mediazione sulla conflittualità familiare

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• Attività didattiche rivolte alla formazione di mediatori e counselors professionisti, secondo gli standard del Forum Europeo per la ricerca e la formazione in mediazione familiare, dell’ AIMS e del CNCP (Coordinamento Nazionale Counselors Professionisti), associazioni professionali regolate dalla legge 4/2013

• Attività di supervisione per mediatori e counselors

• Attività di ricerca sui temi della relazione d’aiuto e del conflitto in ambito familiare, sociale, scolastico e comunitario.

• Attività di formazione e aggiornamento per operatori in campo educativo, assistenziale e sociosanitario

• Attività di elaborazione e gestione di progetti, realizzati anche in collaborazione/convenzione con enti pubblici, privati e del privato sociale in tema di mediazione, gestione dei conflitti, educazione all’ascolto, relazione di aiuto,

Presidente e direttore del Centro è Rosita Marinoni, psicologa, mediatrice familiare, mediatrice familiare internazionale, counselor professionista, conduttrice di gruppi di parola, didatta AIMS, formatrice CNCP.

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SEZIONE 2

Lifelong counselling: quando non è questione di età

Rosita Marinoni, Loredana Pozzi

Il progressivo invecchiamento della popolazione nei paesi industrialmente avanzati ha come conseguenza una silenziosa rivoluzione demografica. Assistiamo ad una progressiva trasformazione di scenario e ad un capovolgimento degli equilibri generazionali. L'ultima fase della vita vede sulla scena la compresenza di più generazioni adulte: genitori, figli e nipoti invecchiano insieme. Le generazioni si succedono più attraverso la sovrapposizione che attraverso la sostituzione e si moltiplicano le famiglie multigenerazionali in cui sono presenti 4 generazioni di cui 2 sono anziane. Si è reso dunque necessario introdurre una differente periodizzazione dell'ultima fase dell'esistenza: quarta età per indicare gli anziani dopo i 75 anni, mentre terza età starebbe ad indicare gli anziani-giovani o “diversamente giovani”,

mentre è in estensione il fenomeno dei grandi anziani sopra i 90 anni.Gli studi dimostrano che fino a 70-75 anni sono riscontrabili a livello individuale molti elementi di continuità con le fasi della vita adulta precedente e potenzialità di sviluppo e crescita. Il miglioramento delle condizioni di vita e lo sviluppo della medicina ha reso possibile agli anziani continuare a vivere anche in condizioni di malattia e in una situazione di progressiva dipendenza per lunghi periodi. L'ultima fase della vita risulta quindi essere un periodo lungo e complesso nel quale si dilatano il tempo della buona salute e il tempo del decadimento fisico. Di conseguenza ne deriva un carico di cure sulla famiglia e per essa una maggior necessità di rapporto con i servizi e una nuova capacità di interagire con gli stessi.In questo scenario le donne della generazione di mezzo, chiamate ad assicurare le cure familiari, portano il peso maggiore della relazione di aiuto Si rende quindi necessaria una diversa distribuzione e razionalizzazione delle risorse di cui il corpo sociale dispone.Froma Walsh affermava che la famiglia nella tarda età affronta le maggiori sfide evolutive; una molteplicità di eventi critici normativi che scandiscono cronologicamente questa fase dimostrano l'aspetto dinamico di un periodo di vita ritenuto statico e orientato al declino.La compresenza di più generazioni e l'intreccio di eventi critici che le coinvolgono richiede di guardare con attenzione al tema delle relazioni tra genitori e figli. Mentre l'anziano affronta eventi critici: nido vuoto, pensionamento, essere nonno,

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malattia, vedovanza, morte, i figli passano periodi altrettanto cruciali: costituzione della coppia, presenza di bambini/adolescenti, separazioni, problemi lavorativi ecc.

GLI EVENTI CRITICI CHE INTERESSANO GLI ANZIANI-GIOVANI ED I GRANDI ANZIANI

Gli eventi critici sono potenzialmente induttori di cambiamenti di rilievo. È bene però ricordare che l'ampiezza ed il tipo di difficoltà che tali eventi suscitano sono in stretta connessione al significato che ad essi viene attribuito dalla famiglia e alle risorse della famiglia.Il tessuto relazionale-simbolico di cui la famiglia è costituita e che i familiari sperimentano nella quotidianità delle interazioni, non è immediatamente visibile. Esso esce allo scoperto nelle transizioni che la famiglia incontra. I passaggi infatti mettono in luce e alla prova la qualità delle relazioni, la struttura relazionale della famiglia, i suoi punti di forza e debolezza, il suo essere fonte di costruzione e decostruzione della persona.Le transizioni del ciclo familiare sono innescate da eventi specifici: acquisizione di nuovi membri (matrimoni, nascite, adozioni), perdite (morti, divorzi, malattie, fallimenti economici. Altre sono legate al rapporto con il mondo sociale (inserimento dei figli a scuola, inserimento nel mondo del lavoro).La transizione è un passaggio da una posizione ad un'altra e riguarda il raggiungimento di un obiettivo-scopo e ha insito un compito di sviluppo.

In presenza di eventi critici la famiglia affronta compiti coniugali e intergenerazionali ed ogni generazione ha il suo compito di sviluppo. Gli anziani-giovani e i vecchi completano la funzione generativa sostenendo a distanza il cammino dei figli e compiono su di sé un lavoro di integrazione e di accettazione della vita passata e presente e dell’idea della morte.La generazione di mezzo deve sostenere i vecchi genitori ed al tempo stesso favorire la crescita della generazione dei figli.La terza generazione è impegnata nella costruzione della propria identità per giungere ad una reale interdipendenza con i genitori.

EVENTI CRITICI E COMPITI DI SVILUPPO DELLA FAMIGLIA CON ANZIANI-GIOVANI

Tra gli eventi critici relativi alla generazione dei giovani-anziani possiamo individuare: nido vuoto, pensionamento, diventare nonni, malattia, morte

COMPITI DI SVILUPPO CONIUGALI E INTERGENERAZIONALI:• Relazione coniugale• Impegno rinnovato nella coppia• Investimento in nuove attività• Far fronte alla malattia• Accettare la morte del coniuge e prepararsi alla propria• Relazione genitoriale

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• Aprire il proprio campo genitoriale per includere nuore/generi

• Riconoscere ai figli il ruolo genitoriale• Fare spazio alla generazione successiva, spostarsi indietro di

una posizione e mantenere un atteggiamento di intimità a distanza

• Relazione filiale della generazione di mezzo• Sostenere e curare la prima generazione• Accogliere l'eredità della generazione precedente• Condividere l'esperienza della morte dei propri genitori

Coltivare la cura del ricordo

NIDO VUOTO

Un tempo l'uscita di casa di un figlio era compensata da chi restava. Quando anche l'ultimo figlio se ne andava era probabile che fossero già nati i primi nipoti. La fase del nido vuoto coincideva con la vecchiaia. I figli beneficiavano di questa situazione per rafforzare l'identità di coppia perché la presenza di altri figli nella famiglia rendeva meno diretta l'attenzione sulla nuova coppia.L’uscita di casa dei figli per costituire nuovi nuclei familiari costituisce una garanzia di continuità del flusso generativoAttualmente assistiamo ad una contrazione delle nascite e al differimento nel tempo dell’uscita di casa dei figli e della procreazione. Si verifica anche il fenomeno del “rientro a casa” che avviene a causa di motivazioni economiche in situazioni di separazione o di difficoltà lavorative e che può rimettere in discussione equilibri da poco raggiunti.

Compiti evolutivi come coppia di anziani-giovani• Rinegoziare e reinvestire nella relazione di coppia (c’è più tempo per sé e può essercene anche di più per la coppia)Possibili esiti depressivi: la coppia può involvere fino alla separazione o evolvere verso una maggiore intimitàCompiti evolutivi come genitori • Rinegoziare il rapporto con i figli in base al nuovo status di adulti• Apertura del proprio campo relazionale per includere nuore/generi• Processo di regolazione delle distanze legato al tema dei confini degli spazi interpersonali e generazionali ( intimità a distanza)• Riconoscimento di interdipendenza reciproca• Permettere ai figli di allontanarsi dalla famiglia per definire la propria autonomia come risposta difensiva alla paura di non riuscire a stabilire un'adeguata regolazione delle distanze reciproche)

PENSIONAMENTO

Il pensionamento costituisce un tipico marcatore sociale, dal momento che per molti individui l’identità è fortemente legata alla immagine di sé come lavoratore e come produttore di reddito. Può divenire così segno per l'uomo e per la donna del graduale abbandono della centralità relazionale della posizione adulta.L’espulsione dal mondo del lavoro può equivalere alla perdita di riconoscimento di una collocazione sociale. Il vissuto può

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essere sensazione di vuoto e inutilità, identificando il pensionamento come precursore del definitivo ritiro dalla vita e dare luogo a esiti depressiviLe conseguenze sulla coppia possono evidenziarsi come disequilibrio della coppia e/o cambio di ritmi e compiti.

Compiti evolutivi• Mantenere vivi i propri interessi e crearsene di nuovi• Rafforzare la propria identità di adulto attraverso la funzione di generatività sociale (volontariato)• Rinnovato investimento di ordine relazionale (recupero degli affetti di fratelli, amici)• Rinegoziazione degli spazi individuali e del potere coniugale in una situazione di rinnovata vicinanza fisica

DIVENTARE NONNI

La nascita dei nipoti rappresenta un duplice significato: da un lato arricchimento di vita e dall’altro segnale della vita che passa. Data la brevità del percorso riproduttivo nelle attuali famiglie l'aspetto simbolico della connessione vita-morte emerge più chiaramente nel passaggio al divenire nonni piuttosto che nella transizione alla genitorialità. La nascita dei nipoti può essere vissuta come condizione di generativà indiretta ed arricchimento della propria identità. Diventare nonni può essere un’esperienza complessa esito di un riordinamento della coppia anziana.

All'inizio i nonni possono viversi come genitori vicari riuscendo a percepire l'esperienza del figlio più che la sua capacità di essere genitore.Può essere presente un atteggiamento critico di intimidazione intergenerazionale che ostacola il processo di differenziazione dei figli dai loro genitori: accettare il proprio ruolo per gli anziani significa far spazio alla generazione dei figli e spostarsi indietro di una posizione.Se i genitori sono in buona salute e ben inseriti in un contesto relazionale i rapporti con i figli sono caratterizzati da uno scambio reciproco definito da spazi di autonomia all'interno di una relazione di interdipendenza (modello di intimità a distanza).Se i genitori riescono a pensare i figli come genitori capaci si realizza una ulteriore tappa del processo di separazione e di individuazione di entrambe le generazioni.

EVENTI CRITICI E COMPITI DI SVILUPPO DELLA FAMIGLIA CON GRANDI ANZIANI

La differenza tra giovani anziani e grandi anziani dipende dalle condizioni di salute Con la comparsa di patologie fisiche persistenti l'anziano diventa consapevole del proprio invecchiamento e della condizione di dipendenzaSi tratta quindi in questa fase di giungere all’elaborazione ed accettazione della relazione di aiuto ma di conservare la propria identità di adulto

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Accettare aiuto e offrire sostegno sono compiti di sviluppo speculariLa malattia di un familiare anziano costituisce per la famiglia uno dei passaggi più critici del proprio percorso evolutivo sia per il carico di lavoro che per i significati che essa assume

La malattia annuncia il passaggio tra generazioni e l'avvicendamento nei ruoli, richiede l'elaborazione del limite e l'inevitabilità del distacco, obbliga la famiglia ad interrogarsi sul senso complessivo delle relazioni che sono state vissute, sul senso della vita, su ciò che è stato trasmesso, ereditato o destinato a scomparire, pone le persone di fronte alla propria morteLa famiglia reagisce con le risorse che ha, materiali e psicologiche e con il proprio stile di risoluzione dei problemi: negazione, rinvio delle decisioni, deresponsabilizzazione, esame di realtà, riconoscimento anche del proprio malessere, ricorso ai servizi del territorio. Tutto ciò dipende anche dal significato che assume la malattia all'interno della famiglia.Questo evento critico agisce da detonatore di nodi problematici latenti (rivalità fraterne, abbandoni coniugali e filiali...)Il tema affettivo intorno al quale i membri della famiglia strutturano il loro racconto può riguardare: l'angoscia del dolore, il rifiuto della dipendenza, la paura della frantumazione familiare in seguito alla morte dell'anziano.In alcuni casi, pur con il suo carico di fatica, la malattia può rivelarsi un potente fattore di coesione familiare e favorire l'interiorizzazione delle qualità e dei valori che costituiscono il

patrimonio costruito dalla prima generazione oltre che l'avvicinamento tra le generazioniL'avvento della malattia pone poi la famiglia di fronte alla necessità di attivare relazioni specifiche con istituzioni sociali esterne cioè il sistema dei servizi sociosanitari. Tema di grande rilievo può assumere forme molto differenziate nel corso del tempo e può costruire un importante fattore di sostegno all'attività di cura.

IL COUNSELING PER GLI ANZIANI IN UN SERVIZIO PER LA FAMIGLIA

Partendo da un’esperienza di intervento come counsellor e mediatrici familiari in un Consultorio familiare ci siamo interrogate sulla funzione che il counseling ha e può avere come offerta di accompagnamento e sostegno nelle fasi del ciclo di vita e specificamente per quanto riguarda la famiglia con anziani.Da questo osservatorio abbiamo potuto constatare un progressivo aumento delle richieste da parte di utenti della terza e la quarta età rispetto al passato.Pensiamo che gli incrementi della domanda sia da un lato riferibile ad una maggiore diffusione di una cultura che accoglie con minore pregiudizio l'idea che sia possibile rivolgersi ad un professionista, per raggiungere un maggior benessere psicologico e poter affrontare e superare positivamente gli eventi critici del ciclo di vita.Dall'altro lato il consultorio ha modificato nel tempo la propria offerta di interventi e servizi ed è andato spostandosi

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progressivamente da una mission che privilegiava attività rivolte ad una fascia di utenza più giovane, a cui erano indirizzati interventi sulla sessualità e sulla procreazione, per allargare man mano ad un utenza più diversificata per bisogni e per età.E’ in questo quadro che il counseling ha trovato degli spazi che rispondono a specifiche esigenze dell'utenza collocandosi come intervento focalizzato nei tempi e negli obiettivi e differenziato rispetto ad attività più specificamente psicopedagogiche o psicoterapiche.

COME ARRIVANO GLI UTENTI “OVER” E CON QUALI RICHIESTE

Il passaparola è una delle modalità con cui gli utenti più facilmente raggiungono il consultorio che opera ormai da molti anni sul territorio e quindi è piuttosto conosciuto. Anche indicazioni da parte di invianti come medici, sacerdoti, servizio sociale eccetera hanno una certa rilevanza nella scelta di rivolgersi al consultorio oppure il fatto di essere già utenti per altre attività, in modo diretto o indiretto, consente alle persone di venire a conoscenza delle offerte che il servizio propone.Le donne sono in maggioranza: questo dato è influenzato dal fatto che comunque il consultorio nel tempo si è connotato come luogo che fornisce prestazioni rivolte prevalentemente alla donna e solo negli ultimi anni ha progressivamente allargato la propria offerta focalizzandosi maggiormente sulla

coppia e sulla famiglia e facendo così rientrare a pieno titolo l'uomo tra gli utenti.Se sono le donne che in prima istanza vengono a prendere informazioni o iniziare un primo rapporto con il servizio, gli utenti uomini comunque sono abbastanza numerosi e vengono sia in coppia che da soli.Le motivazioni più frequenti che spingono a rivolgersi al Servizio sono da un lato situazioni che hanno dato origine ad un disagio di tipo patologico: forme depressive, lutto patologico, disturbi d'ansia, crisi di panico e che comportano un intervento psicologico sul versante della clinica e della psicoterapia.Dall'altro lato si evidenziano situazioni che possono ricollegarsi ad eventi critici del ciclo di vita che vengono vissuti come destabilizzanti delle relazioni o sono fonte di preoccupazione o di disagio per il singolo e/o per la famiglia.In questo caso l'offerta di counseling viene incontro alle esigenze del cliente ma anche del Servizio stesso, in quanto la possibilità di offrire interventi mirati e circoscritti nel tempo consente di intervenire abbastanza in fretta e di avere un certo ricambio degli utenti, soddisfacendo in un tempo relativamente breve la richiesta di aiuto. Allo stato attuale le motivazioni, rilevate peraltro in modo molto empirico, che portano ad una richiesta di counseling degli “over” sono in maggioranza riferibili ad un bisogno di rivedere l'organizzazione delle relazioni famigliari a seguito di: malattie, lutti, pensionamenti, richieste di accudimento, separazione dei figli, eventi esterni ecc.

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Non mancano peraltro anche le richieste da parte di chi degli anziani si deve prendere cura e domanda un sostegno per affrontare le difficoltà che questa situazione nuova può comportare. Figli che si trovano a dover riorganizzare la propria vita familiare, fratelli in conflitto su scelte organizzative ed economiche relative al futuro di uno o entrambi i genitori, caregivers e volontari confrontati a situazioni emotivamente difficili da sostenere ecc.. In alcuni di questi casi l’utente diretto non è l’anziano, ma la problematica per cui si chiede aiuto lo riguarda strettamente, in altre situazioni è possibile allargare il campo di intervento e coinvolgere in un percorso di counseling familiare anche il soggetto “over”.

COSA PUÒ OFFRIRE ALLO STATO ATTUALE UN CONSULTORIO SPECIFICAMENTE AGLI “OVER”

Se si escludono alcune proposte in passato sul tema della menopausa, solo negli ultimi tempi sono state introdotte attività che vedono partecipare utenti anziani. In alcuni casi non sono proposte di attività rivolte unicamente a loro, ma si tratta di attività che vedono comunque una significativa frequenza di persone in questa fascia di età. Infatti, oltre la possibilità di accedere a un ciclo di incontri di counseling individuale, di coppia o familiare, per questa tipologia di utenti è possibile partecipare a gruppi rivolti ai parenti di pazienti ricoverati in casa di riposo, a parenti di malati di Alzheimer ed altre forme di decadenza senile, a nonni di nipoti figli di genitori separati, a genitori di soggetti con

handicap già adulti, a volontari impegnati in diverse realtà territoriali di volontariato.Il gruppo in primo luogo consente la condivisione del problema che è visto come “non solo nostro” e “non solo adesso”, da qui deriva la socializzazione delle soluzioni, un aumento delle opzioni e della creatività sia individuali che collettive. Il gruppo è un vantaggio socializzante che fa sì che le persone costruiscano una rete sociale intorno al problema.

QUALI SONO I VANTAGGI DI UN INTERVENTO DI LONGLIFE COUNSELING

• Dà all’anziano la possibilità di focalizzarsi su un aspetto specifico senza dover metter necessariamente in discussione tutto l'impianto di vita.

• Accompagna il momento del cambiamento permettendogli di recepire un'immagine positiva di sé che fa leva sulle potenzialità della persona. Questo contrasta l'idea che le persone dopo una certa età debbano rassegnarsi e subire gli eventi della vita senza poter agire proattivamente.

• Dà la possibilità di accedere alla propria storia individuale e familiare per poter sviluppare aspetti narrativi che consentono di rivisitare il percorso di vita con un terzo esterno ma interessato a conoscere la propria storia

• Permette di dare valorizzazione alla propria storia personale e familiare anche nel rapporto con le altre generazioni.

• Consente di sperimentare un'esperienza di ascolto, difficile al giorno d'oggi anche e ancor più per un anziano. “Essere ascoltati per ascoltare” può far passare da una dimensione di

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attesa ad una dimensione di ricerca. I limiti stessi determinati dall'età spesso pongono l’ ”over” in una posizione di attesa se non addirittura di rinuncia. Essere coinvolti in un'attività di counseling per un anziano può voler dire stimolare la ricerca delle risorse residue o di quelle risorse latenti o spesso misconosciute che possono invece essere ancora attivate per raggiungere obiettivi di benessere.

Riteniamo perciò che il counseling possa essere una risorsa importante da proporre alle persone anziane, e il passo ulteriore sarà quello di individuare metodologie e pratiche adatte perchè possa essere adeguato alle esigenze ed agli stili comunicativi e cognitivi della popolazione di questa fascia di età.BibliografiaGiorgio Bert, Mauro Doglio, Silvana Quadrino – Le parole del counseling sistemico - Edizioni Change 2011Vittorio Cigoli - Il corpo familiare. L'anziano, la malattia, l'intreccio generazionale – Ed. Franco Angeli 2000Cecilia Edelstein - Il counseling sistemico pluralista – Ed. Erikson 2007M.Malagoli Togliatti, A.Lubrano Lavadera - Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia - Ed Il Mulino 2002Sabina Piroli – Counseling Sistemico – Ed. Uni.nuova 2006Eugenia Scabini - Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali – Ed. Bollati Boringhieri 1995

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Gabriella Caiani e Jacqueline Pereira

Il Centro Milanese di Terapia della Famiglia è stato fondato nel 1981 dai dott. Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin dopo un decennio di proficua collaborazione con Mara Selvini Palazzoli e Giuliana Prata.

Nei primi anni il Cmtf si è occupato esclusivamente di psicoterapia e formazione in ambito clinico e psicosociale. In seguito le sue attività si sono ampliate e differenziate.

Boscolo e Cecchin hanno promosso, con un loro stile originale definito “Milan Approach”, l’applicazione del pensiero sistemico cibernetico in ambiti che peraltro gli appartengono fin dalle origini come le strategie di risoluzione dei conflitti,

l’elaborazione di decisioni, il pensiero organizzativo, la facilitazione della comunicazione.

Più che un insieme di teorie il Milan Approach è un modo di pensare e di agire che sottolinea lo stretto legame esistente tra i contesti relazionali di cui si è parte e le narrative di cui si è generatori, come individui, famiglie, gruppi, collettività.

Le sue radici culturali risalgono alla fondazione stessa della cibernetica e della teoria dei sistemi; chi si riconosce nel Milan Approach contribuisce a mantenere vivo lo stesso spirito pionieristico che animava studiosi impegnati nella costruzione di scienze nuove, capaci di cogliere le peculiarità tipiche dei sistemi viventi e di quelli umani in particolare. A questo modo di concepire la scienza è connessa in modo circolare l’intenzione di intervenire nei problemi non solo efficacemente, ma anche rispettando l’ambiente, le diversità individuali e culturali, le peculiarità dei contesti in cui i problemi emergono e, soprattutto, valorizzando la loro capacità autonoma di generare soluzioni.

Il Milan Approach è nato proprio dal mettere in proficua interazione reciproca contesti diversi tra loro: quello della pratica psicoterapeutica, quello della formazione alla pratica clinica e infine quello del lavoro nei contesti sociosanitari del servizio pubblico.

L’intuizione basilare dei suoi fondatori consistette infatti nel comprendere, dopo anni di proficuo lavoro sistemico in un contesto esclusivamente psicoterapeutico, il potenziale di sviluppo che tale interazione poteva esprimere grazie al

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CENTRO MILANESE DI TERAPIA DELLA FAMIGLIA “MILAN APPROACH” SCUOLA DI COUNSELLING

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reciproco influenzamento di saperi, esigenze, prassi e mentalità differenti. Ne derivano una mentalità e uno stile che sono stati applicati in mondi svariati e diversi: non solo quelli della clinica, della formazione e dei servizi d’aiuto, ma anche quello dell’insegnamento, delle organizzazioni, dei processi di decisione e di negoziazione.

Nella pratica, questa mentalità implica imparare a: porre attenzione al riconoscimento e alla lettura dei contesti, curare la negoziazione degli obiettivi e la definizione delle responsabilità, valorizzare le differenze ed avere fiducia nelle risorse del cliente.

I corsi di formazione

• Scuola quadriennale di specializzazione in Psicoterapia sistemico-relazionale;

• Scuola triennale di formazione al Counselling professionale;

• Corso biennale di Mediazione Familiare sistemico-globale.

• Master in gruppi sistemico relazionali

Supervisione permanente

• supervisione in psicoterapia sistemica

• supervisione e approfondimento in mediazione familiare sistemico- globale.

• supervisione e approfondimento in counselling sistemico- relazionale

Il Centro è da sempre attivo nell’organizzazione di seminari ed eventi volti all’approfondimento delle tematiche relative al modello teorico di riferimento nonché all’attività clinica e didattica tenuti dai didatti del CMTF e da formatori italiani e stranieri di rilevanza internazionale.

Strumento preposto alla condivisione del sapere ed alla raccolta di sempre nuovi contributi alla ricerca è la rivista “Connessioni”: rivista di consulenza e ricerca sui sistemi umani, pubblicata periodicamente dal centro.

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SEZIONE 3

Proporre il counselling sistemico in un Centro di Formazione Professionale : una scommessa in una terra di confineRiccardo Nebel, Silvia Oliveri, Roberta Sallustio

Come presentare il lavoro durato più di un anno fatto di progettazione, incontri, riunioni, riflessioni, valutazioni ed in un modo il più possibile coinvolgente e rappresentativo di come abbiamo lavorato? Di nuovo ripartiamo da una domanda anche per riflettere sulla sua modalità di presentazione, a progetto concluso. Cosa davvero può essere interessante di un’esperienza che arriva in un contesto complesso già sapendo che si concluderà entro un anno? Scegliamo di presentare i protagonisti dell’esperienza, le persone con cui abbiamo lavorato, i soggetti a cui è stato rivolto l’intervento i veri soggetti dell’intervento. Noi, progettisti, counselor, coordinatori, supervisori coloro che hanno a disposizione una conoscenza altra, ma i non-esperti di quel preciso ambito così particolare, così caratterizzato che porta con sé una storia peculiare a cui noi accediamo. Considerare i destinatari dell’intervento, insegnanti, tutor e

allievi, come i veri soggetti permette di tenere presente l’attenzione a co-costruire nel tempo lo svolgimento del progetto stesso. I destinatari sono gli esperti del contesto in grado di attivare le risorse proprie e locali; noi coloro che arrivano, ed andranno, col compito di riconoscere le loro esperienze e competenze e permettere loro di “portarsi a casa” qualcosa di utile. Apprendere qualcosa di nuovo per sé, anche gli adulti coinvolti abituati a favorire la formazione altrui, posti in uno spazio e un tempo dedicato al loro apprendimento, un deutero apprendimento, cioè un apprendere ad apprendere.

Raccontare il nostro progetto è prima di tutto permettere di comprendere alcune premesse ed il contesto in cui è stato svolto per narrare a seguito la voce dei soggetti coinvolti.

Raccontare la loro voce, la loro storia nella storia del progetto è il modo che abbiamo scelto essere quello più concorde a chi lavora attraverso l’ascolto, che permette ora, a noi operatrici e operatori del progetto, di dare voce agli attori coinvolti.

Proporre alcune domande significative e, simulando le risposte di un’allieva e successivamente di una tutor, raccontare la vera storia di quest’anno, il senso di ciò che è stato per coloro con cui abbiamo lavorato. Cambiare prospettiva, raccontare il punto di vista altrui, un punto di vista raccolto e valutato durante la nostra esperienza professionale, è lo scorcio da cui riteniamo possa essere utile approfondire e presentare quanto realizzato.

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L’esperienza del nostro intervento è la realizzazione, durante l’anno scolastico 2008/09, del progetto Zone d’Ascolto all’interno dei Centri di Formazione Professionale (CFP) Piamarta e Rizzoli. Il macro-contesto è quindi quello della formazione professionale, in regione Lombardia, nella periferia nord-est di Milano: un sistema formativo al quale accedono allievi che generalmente hanno già alle spalle esperienze di insuccesso scolastico, parziale o totale, e come tale considerato come “ultima spiaggia” formativa prima dell’ingresso nel mondo del lavoro. Il progetto Zone d’Ascolto è finanziato per un anno dalla l.r. 23/99, e nasce dalla convinzione che il counselling sistemico possa essere uno strumento efficace per supportare il successo scolastico all’interno del contesto della formazione professionale, cioè di un sistema che presenta le caratteristiche sopra sinteticamente accennate. Tale convinzione si origina dall’idea che la principale finalità del Counselling è quella di facilitare l’assunzione delle responsabilità individuali consentendo il potenziamento della capacità di agire scelte consapevoli a partire dalle proprie potenzialità e risorse piuttosto che dall’analisi ed interpretazione dei problemi. È proprio da tale premessa che deriva, dal nostro punto di vista, l’efficacia potenziale di questo tipo di approccio, che consisterebbe proprio nella possibilità che offre agli allievi in difficoltà di essere visti e quindi poi di potersi vedere da un inedito punto di vista.

Viene proposta all’interno del contesto un’esperienza di relazione priva di connotazioni valutative, come invece sono

inevitabilmente caratterizzate le relazioni con i docenti o, anche se in misura minore, con i tutor, che è intenzionalmente, consapevolmente e dichiaratamente tesa ad individuare, mettere a fuoco ed in luce, nonché facilitare l’utilizzo concreto e responsabile delle proprie capacità e potenzialità. L’attività di counselling per gli allievi può efficacemente indirizzare chi riconosce di attraversare un momento di crisi o difficoltà, verso strade fino a quel momento inesplorate, da percorrere utilizzando anche quelle risorse e competenze che possiede, ma che da solo non riesce a riconoscere come utili e utilizzabili. In breve, ad agire un cambiamento. L’esperienza di agire un cambiamento inoltre produce l’apprendimento che cambiare è possibile e, trattandosi di un meta-apprendimento esso è efficacemente trasferibile ad altri contesti e situazioni.

La convinzione che ha motivato la nascita del progetto sperimentale e che nel progetto è stata inquadrata come ipotesi da validare è così riassumibile: il counselling sistemico è uno strumento che può efficacemente supportare il successo scolastico nell’ambito della formazione professionale in quanto permette di sperimentare il cambiamento e, attraverso quest’esperienza, di modificare la rappresentazione di sé e di accedere ad un circolo virtuoso che sostiene l’allievo in direzione del raggiungimento dei propri obiettivi.

A partire da tali premesse, connesse con un’attenta analisi dei bisogni svolta insieme alla direzione del Centro Piamarta in fase preliminare per arrivare a definire la sua progettazione, Zone d’Ascolto è stato articolato in due azioni principali, una

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avente per destinatari le allieve e gli allievi e l’altra rivolta invece alla componente adulta, docenti e tutor dei corsi offerti dal CFP Piamarta. Il CFP Rizzoli aderisce al progetto delineato perché riconosce essere adeguato, per caratteristiche di similarità, alla componente studentesca.

L’équipe di progetto è composta da una coordinatrice, due counsellor, che si sono occupati rispettivamente di gestire uno gli interventi con gli allievi e l’altro quelli con la componente adulta, e due tirocinanti del Centro Milanese di Terapia della Famiglia (CMTF). Il CMTF ha fornito altresì uno spazio periodico di supervisione di gruppo, luogo prezioso che ha accompagnato lo svolgersi del progetto. A ben dire, più che una supervisione, con qualcuno che “dal di sopra” guida verso la soluzione di un problema, ci pare che si possa parlare di mente sistemica batesoniana, un contesto paritario e collaborativo in cui ciascuno dalla sua posizione e secondo il suo punto di vista contribuisce attivamente alla costruzione di mondi possibili e fornisce così spunti agli altri in un processo di co-costruzione di nuovi significati. Come Bateson e successivamente Boscolo e Cecchin hanno insegnato, lavorare per il cliente significa uscire dall’idea dell’affermazione personale ed essere aperti e disponibili all’ascolto delle varie posizioni. Uscire dall’individualismo, dall’idea di chi è più o meno bravo, permette di creare nel gruppo e con il gruppo un’unica grande mente sistemica.

Raccontare Zone d’Ascolto: la voce dei protagonisti ….

Per raccontare Zone d’Ascolto durante questa giornata di confronto sul counselling, e dare voce ad alcune riflessioni che ne sono scaturite, tenendo conto altresì dalle premesse che hanno dato origine al progetto, dunque, proponiamo una narrazione svolta in prima persona da chi direttamente ha scelto di cogliere le opportunità messe a disposizione: gli allievi e i tutor.

Abbiamo pertanto riguardato il materiale raccolto durante il progetto, verbali di colloqui, report di incontri di gruppi, idee e frasi degli allievi e dei tutor, comunicazioni informali, per dare vita a due personaggi sufficientemente verosimili che, nel gioco del “come se…”, potessero proporre un frammento di racconto di Zone d’Ascolto.

… gli allievi

Possono prendere un appuntamento per un colloquio che si svolge in una stanza dedicata all’interno della scuola. I docenti, informati del progetto, ci aiutano nella sua promozione e cartoline distribuite un po’ ovunque spiegano le modalità ed il senso dell’attività di counselling. Chi è e cosa fa un counselor? Con quali modalità e tempi lavoreremo insieme? Verso quali obiettivi, decisi da chi? Il counselor mi garantirà che le nostre conversazioni resteranno all’interno della stanza? Tutto ciò viene ribadito nell’avvio del primo colloquio per sgombrare il campo dalle rappresentazioni di altri tipi di relazioni d’aiuto che nell’immaginario collettivo possono confondere e sovrapporre l’attività di counselling ad altre professionalità.

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Vi presentiamo pertanto Consuelo, una ragazza di quasi 18 anni di origine sudamericana, arrivata in Italia circa due anni prima del nostro incontro, che frequenta la terza classe del corso di formazione per operatore dei servizi all’impresa del CFP Rizzoli; la ragazza ha svolto un percorso di counselling di cinque incontri. Abbiamo fatto a Consuelo alcune domande volte ad esplorare il suo punto di vista, concentrandoci in particolare su due aspetti che ci premeva approfondire: i pregiudizi e il deutero-apprendimento. Ascoltiamo ora l’intervista a Consuelo.

Come sono stati i colloqui di Counselling?

Mah … i colloqui a Zone d’Ascolto direi che sono stati strani, cioè nel senso che è strano andare da uno che non conosci, che la prof. ti dice che è uno che ti può aiutare e poi dire delle cose tue. Cioè vai da uno e racconti dei tuoi casini e cerchi di sistemarli e quello non ti dice cosa devi fare, ma ti ascolta e ti aiuta a trovare delle risposte. Non è stato facile, ma è stato utile … mi è servito parlare, sentivo che il counsellor mi stava ad ascoltare, non è una cosa che capita spesso con i grandi, che sanno sempre loro cosa devi fare e te lo dicono e che non hanno mai tempo …

Cos’è che ti ha colpito positivamente?

Direi che mi ha colpito questa cosa dell’ascolto, avevo bisogno di parlare, ma non mi bastava farlo con le mie amiche … e poi questa cosa, anche un po’ strana, che ero io a dover decidere cosa fare, a scegliere per le mie cose. E poi mi ha colpito anche che parlando, rispondendo alle domande, sentendo quello che

il counsellor mi diceva, ho fatto un po’ di ordine nel casino che avevo in testa e le cose sono diventate meno grosse di quel che credevo io …

Quindi, quello che pensava il Counselor di te, non te l’ha mai detto?

No … io ci ho provato un po’ a chiederglielo ma non mi ha detto niente. Avevo paura che pensassi che non sono tanto a posto, cioè tanto normale … poi a vedere quel che faceva e diceva mi sa che mi ha ascoltato e basta e forse mi ha aiutato a farmi capire un po’ meglio cosa pensavo io di me. Poi credo che in fondo pensava bene di me … cioè una volta mi ha detto che sono stata brava a chiedere aiuto … .Ma, hai mai pensato, o avuto paura che il Counselor spifferasse i fatti tuoi agli insegnanti?

Ma non pensi di aver danneggiato la tua immagine, cioè non è un po’ da sfigati andare dal Counselor?

Si, si … ho avuto un po’ di paura prima di andarci, nel senso che mi vergognavo un po’ a farmi vedere lì, cioè pensavo che gli altri mi prendessero in giro, infatti all’inizio non ne è ho parlato praticamente con nessuno tranne che con la prof. … per fortuna che la stanza era in un posto che non si vedeva molto. In effetti un po’ mi sembrava da sfigati … però dovevo fare qualcosa, ero troppo incasinata, poi quando è venuta l’ambulanza a portarmi via per la crisi di panico ho avuto il coraggio di andare. Dopo un paio di volte non me ne fregava più molto di farlo sapere … andava meglio, mi sentivo più forte.

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Cos’hai imparato su di te che pensi ti sia utile anche fuori dalla scuola?

Domanda complicata …. Direi che ho imparato che ce la posso fare, cioè che dai casini si può uscire, cioè a non vedere sempre tutto nero … ho imparato che gli altri non leggono nella tua testa e che il primo passo tante volte lo devi fare tu, se ti interessa una cosa non lamentarti e stare lì a guardare ma darti una mossa. Ho imparato che posso star meglio con i miei e mia sorella … e anche che tenere tutto dentro alla fine non va bene, ci stai male, scoppi…

Se ti venisse voglia di consigliare ad un amico di incontrare un Counselor, come glielo spiegheresti ?

Gli direi “se hai dei casini e non riesci ad uscirne, se nessuno riesce veramente ad ascoltarti e pensi di essere solo puoi andare a parlare con un counsellor … non è uno che ti fa le pere, non ti da le medicine. È uno che ti ascolta, ti fa un bel po’ di domande, non è che ti fa dire tutto come un amico e poi fai casino, ti fa mettere a posto le cose. Ci vai per un po’ di tempo, decidi con lui per quanto e ti aiuta a provare a fare delle cose diverse da prima. Anche se puoi sembrarti da sfigato vedrai che ne vale la pena. Se vuoi ti do il nome, poi fai un po’ te ….”. Lo direi a tutte le persone che non sanno cosa fare e che si ritrovano nella situazione in cui mi sono trovata io … a chi ha veramente voglia di parlarne con qualcuno.

…i tutor

Nel modello della formazione professionale il tutor è colui, più spesso colei, che ha la possibilità di costruire la propria relazione con gli allievi su un terreno diverso da quello della didattica, orientato principalmente a perseguire apprendimenti di tipo tecnico-pratico e a valutare i livelli di istruzione raggiunti. Proponendosi come facilitatore dell’esperienza scolastica dell’allievo, il tutor focalizza il suo intervento sul “come” gli allievi procedono, o sostano, nel percorso formativo, muovendosi quindi in uno spazio relazionale di tipo educativo, che non può non includere, intenzionalmente o meno, sia le dimensioni emotive dell’esperienza formativa che tutte le esperienze vissute dall’allievo nei contesti extra-scolastici e che, di riflesso, ne influenzano la vita scolastica. I tutor possono così facilmente trovarsi in una posizione particolarmente complessa, esposti alle tante e diverse richieste, più o meno esplicite ed, a volte, tra loro contrastanti che emergono dai diversi attori del sistema: vicini alle fragilità degli allievi ed interessati professionalmente ad aiutarli nell’affrontarle, accomunati per status ed obiettivi professionali ai colleghi docenti i quali però utilizzano rispetto agli allievi uno sguardo diverso dal loro, valutativo e non supportivo, spesso in contatto con le famiglie degli allievi, altri sistemi complessi che interagiscono con la scuola.

E’, probabilmente, la consapevolezza di questa difficile posizione che, nella storia del progetto Zone d’Ascolto, spinge la referente del centro di formazione professionale, lei stessa in passato tutor e ora membro dello staff di direzione, a

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richiedere, nella fase di contatto iniziale finalizzato alla stesura del progetto, che una parte dell’intervento dei counsellor fosse rivolta proprio ai tutor. In passato, e fino a quando le risorse economiche lo avevano permesso, il Centro Piamarta era sempre riuscito ad offrire opportunità formative in risposta all’esigenza espressa dai tutor di ”occasioni di confronto, guida, elaborazione e supporto utili nell’affrontare la relazione educativa con i ragazzi, il loro orientamento e le adeguate strategie di sostegno”. Zone d’ascolto, progetto di cui il Centro beneficia senza sostenere costi, viene così visto dalla direzione come una possibile risposta alternativa ai bisogni formativi del gruppo dei tutor. I tutor cui rivolgiamo la proposta di counselling di gruppo, quindi, non coincidono con chi ha formulato la richiesta di aiuto: si configura così una situazione da “cliente inviato” e inviato da chi, a livello organizzativo, è in posizione gerarchicamente superiore.

Ed ecco la voce di Elena, da più di 10 anni lavora nel centro, conosce come, nel tempo, stiano cambiando i rapporti ed i problemi che entrano nella scuola. Ha partecipato a tutti gli incontri di gruppo che, nel corso dell’anno scolastico, sono stati realizzati.

Come ti è sembrata questa esperienza rispetto alle attese che avevi?

Inizialmente non ero neanche interessata alla proposta: già affaticata dal carico di lavoro e dalle condizioni sempre più difficili in cui stavamo operando, la decisione della direzione di far partecipare noi tutor ad un percorso di cui non

sapevamo nulla mi ha più infastidito che altro. Nel primo incontro è emerso poi subito quanto fosse difficile trovare delle date che andassero bene a tutti, non tutti avevamo la stessa disponibilità ad investire del tempo in formazione, nonostante fossimo tutti in difficoltà a gestire il lavoro. Se poi aggiungiamo che già in passato alcune esperienze di formazione erano risultate molto teoriche e quindi distanti dai problemi concreti con cui ci troviamo ad avere a che fare ogni giorno… Forse è stato il clima di apertura e ascolto che, nonostante tutto ciò, si è creato fin dal primo incontro che mi ha spinto a presentarmi anche all’incontro successivo, con la speranza di ricavarne qualcosa di utile e vicino al nostro modo di lavorare. E così in effetti poi è stato: “utile” e “vicina” mi sembrano due parole che possono descrivere la mia opinione sull’esperienza. “Utile” perché il lavoro fatto, anche se in un tempo breve, ci è servito a pensare a modi concreti di operare. “Vicina” perché il frutto del percorso è qualcosa di nostro, a cui siamo arrivati attraverso una riflessione a cui ognuno di noi ha contribuito.

Il lavoro fatto ti ha permesso di acquisire nuove competenze professionali?

No, non parlerei tanto di nuove competenze, piuttosto di possibilità di fare ordine in quelle che già utilizzavo nel mio lavoro. E di fare un po’ di chiarezza rispetto a quelle che sono le responsabilità e le possibilità di azione di un tutor in un contesto di lavoro complesso e difficile come il nostro. E’ stato un po’ come avere finalmente tempo per fermarsi a pensare, insieme ai colleghi, alle esperienze che facciamo qui dentro

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quotidianamente. Quando ti fermi e ci rifletti sopra, anche ascoltando il pensiero dei colleghi, le cose ti appaiono diversamente da quando sei immerso nel fare quotidiano o da quando ci pensi da sola. Pensandoci adesso, forse si può parlare di “nuove competenze” nel senso di vedersi da un “nuovo punto di vista” e, così, scoprirsi competenti in modi fino ad allora non ancora pensati.

Quale funzione ha svolto la Counselor durante i vostri incontri?

Ci ha aiutato, ci ha aiutato a comunicare tra di noi, a dirci le cose che avevamo in testa ma in modo confuso, con un metodo che non è stato imposto e che permette che le risposte vengano dal gruppo. Non c’era superiorità del conduttore, perché la conoscenza dei problemi era nostra, la conduttrice ci ha aiutato a condividerla e a renderla più chiara a noi stessi. E poi ci ha aiutato a guardare nella direzione della possibilità di azione più che nella direzione della difficoltà o dell’impossibilità.

Come hai percepito i tuoi colleghi durante il lavoro?

E’ stato bello lavorare insieme, soprattutto negli ultimi due incontri, quando abbiamo fatto il lavoro sulle storie vere dei nostri ragazzi. Il fatto di avere tanti punti di vista diversi e ascoltare le idee degli altri mi ha aiutato ad immaginare modi nuovi di affrontare le situazioni in cui magari mi sembrava di non essere riuscita a fare molto e quindi mi sentivo bloccata. E anche a scoprire che quella cosa che avevo fatto e a me era

sembrata inutile o sbagliata, vista con altri occhi mostrava aspetti positivi e interessanti.

Cosa pensi sia trasferibile, di questa esperienza, nella continuità del tuo lavoro?

Le idee che sono emerse durante il lavoro sui casi potranno essere utilizzate anche in altre future situazioni che presentassero aspetti in comune con le storie che abbiamo discusso. Mettere al centro, nel vero senso della parola, l’allievo e disegnare intorno a lui il suo mondo fatto si di scuola, prof., ma anche di famiglia, più o meno supportiva o complicata, gli amici, quelli di fuori, con le loro aspettative, il suo mondo che si muove e lo influenza molto più della mattinata scolastica. Ma, soprattutto, è il modo di lavorare che abbiamo utilizzato che potrebbe esserci utile in futuro: penso in particolare all’ascolto che ognuno di noi ha trovato all’interno del gruppo; all’emersione dei differenti punti di vista come possibilità di scoperta di nuove ipotesi e di maggior comprensione di quello che succede; alla focalizzazione sulle risorse che abbiamo a disposizione in questo contesto piuttosto che sulle criticità che lo stesso presenta.

Quando hai compreso, ti sei accorta di questo apprendimento?

Quando mi sono sentita ascoltata e supportata dal gruppo: in quel momento ho sperimentato che il gruppo poteva essere uno strumento di aiuto, che permettendoci di scambiarci i nostri saperi esperienziali rendeva possibile sentirsi

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competenti e collaborare a generare nuove idee per il nostro agire professionale.

Qual è il vantaggio acquisito in questa esperienza?

Probabilmente l’aver sperimentato un approccio diverso da quello centrato sul problema: lavorando a partire da ciò che sappiamo fare e che funziona è più facile non rimanere bloccati di fronte ai problemi e, quando ci attiviamo, il cambiamento è già iniziato.

Counselling sistemico: un racconto a più voci

Questo racconto in formato “scatole cinesi”, un racconto che contiene in sé la storia di come abbiamo, all’epoca del convegno, ri-costruito la narrazione della storia e dei risultati del progetto, narrazione che a sua volta conteneva in sé la storia dell’intervento di counselling rivolto agli allievi raccontata da un’allieva e la storia del counselling rivolto al gruppo dei tutor raccontata da una di loro, è esso stesso paradigmatico del modo di procedere del counselling sistemico: è stato scritto a più mani, da tutti e tre noi counsellor operatori del progetto, e nasce dall’intreccio di tante storie, alcune di cui siamo noi i narratori diretti e altre raccontate, tramite noi, dalle voci dei veri protagonisti della storia. Gli stili sono, a volte, un po’ diversi, perché diversi sono i modi di raccontare e i punti di vista da cui muove lo sguardo e la voce del narratore. Un racconto, insomma, con molte differenze, che abbiamo cercato di connettere ed integrare, ma non di nascondere o annullare, nel tentativo di proporre un’immagine poliedrica della nostra esperienza. Da

counsellor sistemici, iniziati al pensiero di Bateson, per il quale “L’informazione consiste in differenze che producono una differenza” e convinto che “Alla fine vi sarà sempre una differenza che fungerà da nucleo per il cambiamento“ , consideriamo infatti le differenze una risorsa inestimabile, un bene di prima necessità di cui non possiamo fare a meno.

Riferimenti testuali e bibliografici

Una narrazione approfondita dell’esperienza del progetto “Zone d’ascolto”, insieme alla bibliografia cui fa riferimento il presente testo, è contenuta nella tesi “Proporre il counselling sistemico in un centro di formazione professionale: una scommessa in una terra di nessuno” a cura di R. Nebel e S. Oliveri, disponibile su richiesta presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia / Scuola di counselling professionale sistemico. www.cmscm.it

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di Lilia Andreoli

Il Centro Studi e Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad orientamento sistemico e per il Counselling Sistemico Relazionale di Legnano (Mi) è un’associazione di professionisti e formatori con esperienza pluriennale di mediazione e counselling nel contesto familiare, scolastico e delle organizzazioni nel territorio nazionale.

Fa riferimento agli standard formativi previsti dall’European Forum for Training and Research in Family Mediation, dall’A.I.M.S. – Associazione Internazionale dei Mediatori Sistemici e dal C.N.C.P. – Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti.

Con decreto del 22 luglio 2010 è stato accreditato al M.I.U.R. quale ente di formazione per il personale della scuola.

E’ agenzia di formazione accreditata all’ordine nazionale degli Assistenti Sociali.

Il Centro Studi e Ricerche ha come riferimento teorico la teoria sistemico-relazionale e si avvale di collaboratori interni ed esterni appartenenti a diverse categorie professionali (counsellor, mediatori, conciliatori, avvocati, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, pedagogisti, assistenti sociali) e della collaborazione di docenti appartenenti ad università italiane e straniere.

I contributi presentati dai professionisti sono frutto di esperienze in campo professionale dove la formazione prima in mediazione sistemica e poi nel counselling sistemico-relazionale hanno arricchito e consegnato nuovi strumenti allo sviluppo del Sé professionale.

Il counsellor possiede il proprio indispensabile bagaglio di conoscenze, abilità e competenze ma è dotato anche della sua esperienza e del suo intuito.

Nella professione, come nella vita, il contributo teorico e scientifico richiede di essere necessariamente integrato con saperi e competenze ma anche con una sensibilità estetica.

Non è il counsellor a creare, ma è il counsellor che aiuta una forma ad emergere, ad alleggerirsi da una costrizione, a trovare nuove vie da percorrere.

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CENTRO STUDI E RICERCHE PER LA MEDIAZIONE SCOLASTICA E FAMILIARE AD ORIENTAMENTO SISTEMICO E PER IL COUNSELLING SISTEMICO RELAZIONALE DI LEGNANO

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Per fare questo è necessario osservare con “occhi” nuovi.

Ci vorrebbero due modi di vedere, di pensare, complementari tra loro, due modalità di osservare e pensare […]. Una è quella propria della scienza, che viene dalla radice “sci” – divido – […] e poi un modo complementare di pensare e osservare che è la sistemica, che viene da “syn” – insieme – […].

Se scegli di dividere fai scienza, se invece ti occupi di complementarietà allora puoi entrare in un paradigma sistemico, in modo che una logica rappresenti l’altra e che in ognuna si specchi la complementarietà, l’embricazione. In questo modo ognuna delle due modalità rappresenta e definisce l’altra […]. Propongo di considerare la sistemica come una posizione, un modo per osservare, un atteggiamento conoscitivo.

Operare una distinzione è scientifico, vedere la complementarietà è sistemico.

E’ lo stesso von Foerster che ci accompagna, con il pensiero citato, a scoprire cosa significa “osservare con occhi nuovi”. Ed è lo sguardo con il quale le autrici degli articoli hanno provato ad osservare i contesti complessi nei quali stavano lavorando.

Impregnati di una cultura dualistica ci risulta facile rappresentare il reale in base agli estremi di scale semantiche, pensare per contrapposizioni.

Ma questa è solamente una modalità per descrivere esperienze e persone, la realtà è molto più complessa.

Questo è solo un modo di funzionare della mente e acquisirne la consapevolezza è il primo passo verso il cambiamento.

Osservare, ascoltare, domandare, riflettere, contestualizzare sono le parole-chiave che ci accompagnano dentro gli universi complessi descritti nelle esperienze citate.

Un elemento di particolare rilievo ,richiamato in entrambi i contributi, è poi l’esperienza della supervisione del professionista. Essa aiuta a ri-conoscere i propri modi di agire e a descriverli agli altri; obbliga il professionista a chiedersi come mai ha avuto una risonanza a fronte di un racconto e a riconoscere le emozioni che ha provato nel setting, ma in modo particolare aiuta a definire la professione e i suoi confini.

“Compito del counselor è quello di assistere il cliente nella ricerca del suo vero sé e poi aiutarlo a trovare il coraggio di essere quel sé” (Rollo May, 1991).

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SEZIONE 4

Il counselling sistemico relazionale contesto scolastico

Tiziana Sala

Mi presento.

Faccio parte di un gruppo di insegnanti di una scuola secondaria di primo grado della provincia di Milano, che ha deciso di frequentare un corso triennale di counselling, dopo aver partecipato ad un percorso formativo sulla mediazione scolastica per quattro anni consecutivi. Questa esperienza si inserisce in un percorso iniziato un po’ di anni fa all’interno della nostra scuola. Mi sembra necessario riassumere in breve il percorso per costruire la cornice all’interno della quale si colloca la nostra scelta.

Tutto ha inizio con l’adesione ad una proposta del Centro studi e ricerche per la mediazione scolastica e familiare di Legnano (Mi), diretto dalla dott.ssa Andreoli, di iniziare un percorso di sensibilizzazione alla cultura della mediazione intesa come un approccio diverso nella relazione coi ragazzi

basato sull’ascolto attivo, sull’attenzione al linguaggio che utilizziamo coi ragazzi, su una riflessione rispetto alle modalità comunicative che mettiamo in atto con loro.

Questo percorso era ed è tuttora rivolto ai docenti, agli alunni, ai genitori.

Il percorso di sensibilizzazione si è trasformato per i docenti in una formazione permanente che ha coinvolto docenti della scuola media e, da qualche anno a questa parte, tutti gli insegnanti dell’Istituto comprensivo.

Dal 2008/2009 anche alcuni genitori hanno affrontato un percorso di formazione attraverso l’istituzione di una Scuola Genitori continuando la loro esperienza attraverso il coinvolgimento nel percorso di formazione con i nuovi genitori.

In che cosa consiste il progetto?

Molteplici sono le azioni previste al suo interno:

• La Mediazione tra pari: è inizialmente condotta dagli operatori del Centro Studi e Ricerche e, successivamente co-condotta con gli insegnanti in formazione che, ora, effettuano gli interventi autonomamente con la supervisione degli operatori.

Questo aspetto rappresenta uno degli elementi di ricaduta sulla scuola dell’impegno di professionisti, studenti e famiglie e non il solito percorso di aggiornamento individuale.

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• Sportello genitori e servizio di consulenza insegnanti gestiti dagli operatori

• Sportello alunni gestito da noi insegnanti che abbiamo fatto tutto il percorso di formazione.

E’ in questo contesto che utilizziamo la metodologia del counselling, perché?

Ed in particolare nella conduzione del Servizio Sportello.

Cos’è lo sportello?

Un luogo è un tempo dove i ragazzi che vivono un disagio, che sentono il bisogno di raccontarsi trovano qualcuno che li ascolti, che accolga ciò che loro portano senza giudicarli, che garantisca loro la riservatezza rispetto a ciò che portano, che dia importanza a ciò che loro raccontano che è poi ciò che a loro accade nella normalità, nella quotidianità della vita scolastica.

Chi li ascolta non offre ricette, ma li guida, attraverso domande mirate , li aiuta a trovare dentro se stessi le risorse per affrontare le difficoltà . Si istaura durante gli incontri allo sportello una “ relazione d’aiuto” in cui l’alunno viene guidato nella definizione del problema e nell’individuazione di percorsi per la possibile soluzione.

Con quale Metodo?

Ascolto – Doppio ascolto ( mi lascio guidare anche dalle risonanze che la comunicazione dei ragazzi suscita in me e, a volte, le esplicito) – Metalogo.

A volte può accadere che sia necessario, quando si è in presenza di un conflitto fare un pezzetto di mediazione riparativa per cercare di creare i presupposti per una mediazione per la cooperazione, attraverso la ripresa di un dialogo interrotto.

Proponiamo poi un’ analisi di alcuni dati: quanti alunni? I motivi per cui ragazzi si rivolgono allo sportello? L’efficacia dell’esperienza ?

Quali le criticità incontrate ?

In linea di massima ci riferiamo a criticità legate anche al fatto che la condivisione non è mai totale e qualche problema con i colleghi sorge e che ci rivela costantemente la complessità del sistema scolastico.

Criticità legate alla gestione di alcuni contenuti per i quali abbiamo bisogno di ricorrere ad incontri di supervisione.

La continuazione del percorso svolto a scuola in un corso per counsellor è avvenuta quasi naturalmente perchè rappresentava la possibilità di migliorare e ampliare la competenza comunicativa e le tecniche di ascolto fondamentali per la gestione dello sportello, ma, soprattutto, essendo noi, in primo luogo, docenti la nostra professionalità, il nostro lavoro quotidiano che ha come elemento centrale

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proprio la relazione con gli alunni , la valorizzazione ed il potenziamento delle loro risorse individuali, il rafforzamento della loro autostima, della consapevolezza di poter attingere alle proprie capacità per affrontare gli impegni che si presentano loro sia a scuola che fuori.

Anche l’insegnante come il counsellor deve essere un attivatore di risorse. Lui, prima ancora che i ragazzi, deve credere al fatto che le difficoltà, le crisi, i disagi, fanno parte della normalità del vivere ed anzi possono, se gestiti in un certo modo, diventare una risorsa da sfruttare.

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di Gilda Greco

L’Associazione ASPIC Counseling e Cultura di Milano è nata a Milano nel 1997 grazie alla collaborazione di Gilda Greco (attuale Presidente), Margherita Serpi (attuale Vice Presidente), Michele Mozzicato e Paolo Rossi.

L’Associazione ASPIC Counseling e Cultura di Milano è una delle sedi territoriali di A.S.P.I.C. (Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità) fondata a Roma nel 1988 dal dott. Edoardo Giusti e dalla dott.ssa Claudia Montanari. “L'A.S.P.I.C. è prosecutrice istituzionale di tutte le attività formative, di ricerca, di consulenza psicologica e psicoterapeutica iniziate nel 1975 dallo Studio di Consulenza e Analisi Psicologica e sviluppate successivamente nel 1984

dal Gestalt Counseling Training Center. Nel 1988 iniziò la Scuola quadriennale di formazione in Psicoterapia Umanistica Integrata proseguendo con la Direzione Scientifica delle attività editoriali di ricerca, di promozione, divulgazione e supervisione della qualità totale formativa di tutti i corsi, delle proposte socio-culturali e dei servizi svolti con il marchio ASPIC sul territorio nazionale” (citazione tratta dal sito www.aspic.it)

Dal 1997 l’Associazione ASPIC Counseling e Cultura di Milano promuove la cultura e la formazione e specializzazione nell’ambito del Counseling e delle Scienze Umane.

Da 10 anni ASPIC Milano si occupa di formazione al Counseling. Il modello di riferimento alla base del Counseling Pluralistico Integrato proposto, è basato sui principi teorici fondanti dell’approccio fenomenologico-esistenziale della psicologia umanistica, integrato con le tecniche del Counseling ad approccio non direttivo centrato sulla persona di Carl Rogers, e della prassi semi-direttiva ed espressiva della Gestalt, di Fritz Perls. La prospettiva fenomenologica-esistenziale si arricchisce, inoltre, della sintesi di rilevanti contributi dell’Analisi Transazionale, della PNL e dell’approccio cognitivo-comportamentale.

Le molteplici griglie di lettura offerte dalla conoscenza dei vari modelli teorici e i relativi strumenti operativi utilizzati, nonché il pervenire ad una maggiore consapevolezza di se stessi, permette di giungere ad una sintesi integrativa che consente al counselor formato di formulare strategie

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ASSOCIAZIONE ASPIC COUNSELING E CULTURA DI MILANO

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pluralistiche, scegliendo l’intervento più efficace, personalizzato e su misura per quel cliente specifico (sia esso individuo, gruppo o organizzazione), a partire dalle esigenze e dalle caratteristiche di unicità e soggettività di quest’ultimo, affinché questi possa sempre più orientarsi verso l’attivazione delle proprie risorse interne ed esterne utili al proprio cambiamento e alla propria autodeterminazione e procedere verso il proprio benessere in senso olistico.

Il percorso formativo ASPIC Milano offre un cammino di crescita personale e professionale che sintetizza, in un crescente circolo virtuoso, tre ingredienti essenziali dell’apprendimento: il SAPERE (l’acquisizione di significative conoscenze teoriche), il SAPER FARE (la sperimentazione pratica delle tecniche di counseling), il SAPER ESSERE (la crescita personale e il miglioramento della propria consapevolezza).

Nel processo di integrazione, amalgamando insieme i tre ingredienti formativi, così come sintetizzando i contributi offerti dai diversi approcci teorico-tecnici, si ottiene un “tutto che è più della somma delle parti” (come si direbbe in Gestalt). Parafrasando una metafora cara a Edoardo Giusti, mangiare una polpetta è qualcosa di diverso dal mangiare in un buffet contemporaneamente carne, latte, pane, uova, formaggio…l’integrazione è diverso da eclettismo.

Oltre alla formazione in Couseling l’Associazione ASPIC Counseling e Cultura di Milano, propone altre attività di

formazione e sviluppo personale rivolto all’individuo e alla comunità.

Corsi di formazione

• Master Triennale in counseling professionale.

• Corsi di Micro-counseling.

• Corso di Counseling organizzativo.

• Corsi di formazione al counseling di II livello.

Supervisione

• Incontri di supervisione rivolti ad allievi del Master Triennale e a counselor diplomati.

Gruppi di crescita

• I Gruppi di crescita sono finalizzati ad intraprendere un percorso di evoluzione e trasformazione personale e professionale.

Centro d’Ascolto

• L’Associazione ASPIC Milano mette a disposizione presso la propria sede un Centro D’Ascolto di Counseling usufruibile dai soci ASPIC.

Per ulteriori informazioni si rimanda al sito www.aspicmilano.com

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SEZIONE 5

Il counselling nelle organizzazioni: uno strumento di sostegno per la gestione del cambiamentoFabiana D’Onofrio

Premessa e introduzione

Mi chiamo Fabiana D’Onofrio, sono una counselor formata in Aspic. Sono la titolare di Open Sky, una Società di consulenza specializzata in progetti di sviluppo per le risorse umane nelle organizzazioni. Ho iniziato la mia attività professionale 20 anni fa, avviando insieme a dei colleghi una società di outplacement, ci occupavamo del sostegno al ricollocamento professionale. Lavoravamo per le aziende, sostenendo i processi di cambiamento che implicavano riduzione di personale, prendendo in carico le persone uscite dal processo produttivo per sostenerle nella ricerca di una nuova attività lavorativa. Nel periodo di massimo sviluppo di quella attività, negli anni 90, io avevo meno di 30 anni e lavoravo molto sia in modalità individuale con i dirigenti, sia in gruppo con impiegati e operai. Ho lavorato in quegli anni con centinaia di persone. Facevo leva sul buon senso e su una discreta

sensibilità personale, senza tuttavia avere strumenti professionali per gestire situazioni così complesse.

Qualche anno dopo da quegli inizi ho casualmente incontrato sulla mia strada il counseling. Mi sono iscritta al master e da li è cambiata la mia vita e il mio modo di lavorare. Credo che per ognuno di voi sia facile intuire l’utilità di gestire situazioni di cambiamento di quel tipo con gli strumenti del counseling professionale. E’ facile infatti capire l’utilità di questo approccio laddove è presente una situazione di crisi. Tuttavia la mia attuale esperienza racconta anche della possibilità di utilizzare il counseling nei processi di sviluppo e miglioramento.

Quando parliamo di counseling aziendale pensiamo più tipicamente ad una attività di sostegno per chi lavora nelle aziende. In realtà il counseling classicamente inteso, come aiuto ai dipendenti che ne fanno richiesta, non mi sembra che si sia molto diffuso nel contesto italiano. Sappiamo che nei paesi anglosassoni c’è una grande tradizione: sportelli di counseling per dipendenti e altro. Per quanto ne so io, qui in Italia non ci sono esperienze significative in questo senso. Credo che il problema sia legato al fatto che la regola implicita è: chi ha il problema se lo paga e non credo che le aziende italiane ritengano di doversi fare carico dei problemi di stress e di demotivazione dei propri dipendenti.

Questo però non significa che in Italia non ci sia spazio per una cultura del counseling nelle organizzazioni. Tutt’altro. Per quanto mi riguarda l’approccio di counseling guida da anni il

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mio lavoro di consulente aziendale. Credo che il problema nasca dal capire bene il rapporto tra individuo e organizzazione e affrontare questa analisi in modo disincantato e realista:all’organizzazione non interessano i bisogni individuali delle persone in quanto tali.

L’azienda è un sistema organizzato che persegue i suoi scopi di crescita e miglioramento. L’individuo ha dei bisogni personali di appartenenza, che lo spingono ad interagire con l’ambiente. I bisogni e gli obiettivi sono dunque diversi.Il bisogno delle persone è anche quello di dare all’organizzazione per soddisfare il bisogno di appartenenza. Come persone siamo spinti a dare. L’organizzazione parte da bisogni diversi, ovvero dalla necessità di mantenere il proprio stato di salute e di benessere. Per questo l’organizzazione è disponibile a riconoscere solo le difficoltà che nascono al suo interno. Tutto il resto sono problemi dei singoli di cui ognuno deve farsi carico. Quindi se una persona si sente demotivata e non va d’accordo con il suo capo o con i suoi colleghi, questo è considerato un problema suo, ma se un gruppo ha difficoltà a lavorare bene insieme e per questo non produce i risultati che l’organizzazione si attende, allora questo diventa un problema organizzativo di cui l’organizzazione è disponibile a farsi carico. Un capo non gestisce bene il suoi collaboratori, due funzioni aziendali non comunicano correttamente tra loro, ecc.

Personalmente propongo e realizzo diverse tipologie di progetti per conto delle aziende utilizzando un approccio di counseling e di coaching. Ora definire precisamente la

differenza tra questi due approcci non è difficile, ma credo che al di la delle definizioni quello che davvero conta è capire cosa significhi entrare in una organizzazione e agire con un approccio orientato alla persona.

Secondo la mia esperienza questo implica 3 cose:

1. saper leggere il contesto (visione sistemica) (everything is a whole – tutto è interezza)

2. saper cogliere le potenzialità di sviluppo di una persona, di un gruppo, di una azienda

3. rinunciare all’idea di dare risposte, sviluppare la capacità di fare domande e di aiutare le persone, i gruppi, le organizzazioni a farsi domande (approccio maieutico)

In individuale e in gruppo, le parole chiave su cui lavoro sono:

1. consapevolezza (sapere) 2. motivazione (volere)3. responsabilità (fare)

Approfondimento: il counseling e la perdita del lavoro

Nel 1990, subito dopo gli studi universitari, ho iniziato a lavorare in un ambito di consulenza alle risorse umane che all’epoca iniziava a farsi conoscere anche nel nostro Paese. Si trattava di servizi finalizzati al ricollocamento professionale, meglio conosciuti come attività di outplacement. All’inizio poco si sapeva di questo approccio, nato negli USA qualche decennio prima e approdato da noi giusto in tempo per affrontare i cospicui esodi di personale da parte di grandi

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aziende a seguito della crisi economica e politica dei primi anni 90. Il servizio, nato come assistenza individuale per le fasce dirigenziali, divenne negli anni successivi una sorta di ammortizzatore sociale anche per gli altri livelli professionali toccati dal problema occupazionale (impiegati e operai) che attraverso questa consulenza venivano accompagnati nella ricerca di una nuova occupazione professionale.

Proprio in quegli anni ho iniziato i miei studi di counseling. Incontravo decine e decine di manager che erano stati espulsi dal mondo del lavoro a causa di ristrutturazioni e che attraverso la nostra consulenza, affrontavano il cambiamento e si riproponevano sul mercato del lavoro. In questo contesto io, non ancora trentenne, avvertii chiaro il bisogno di una formazione in ambito psicologico che mi mettesse in grado di affrontare più seriamente quei difficili temi.

L’approccio di counseling a questo genere di consulenza fu una vera innovazione. Inizialmente l’attività era improntata a ‘dare consigli’, fornire informazioni, nel tentativo di aiutare la persona a ritrovare il lavoro perduto nel più breve tempo possibile. I nostri colloqui con il cliente avevano infatti lo scopo di infondere fiducia, rassicurandolo sulle possibilità che il mercato offriva, attraverso dati, ricerche e quant’altro servisse per placare le ansie e le incertezze tipiche della situazione. Era in sostanza un tentativo di dare qualcosa che il cliente in quel particolare momento della sua vita non possedeva. Per quanto apprezzabili gli sforzi che io personalmente e i miei colleghi compivamo, la sensazione era di versare acqua in un pozzo, a volte profondo e senza fine.

Più tentavamo di rassicurare, più il cliente dipendeva da questi nostri sforzi, meno la sua capacità creativa e la sua autonomia trovavano canali utili di indirizzo.

Da qui la ricerca di un approccio più qualificato. Mi rendevo conto che l’obiettivo doveva essere l’autonomia del cliente attraverso un potenziamento della sua motivazione. Era necessario trovare le leve che aiutassero i nostri assistiti a ritrovare energia e fiducia, attingendo costruttivamente alle risorse di cui disponevano. Si trattava così di sostenere la persona in un percorso di autoconsapevolezza di sé senza negare, anzi accogliendo, gli iniziali stati di sgomento, confusione e a volte smarrimento e angoscia.

A quel punto siamo stati in grado di affrontare il problema in modo diverso, mettendo al centro la persona e il tema del cambiamento individuale e sociale. Iniziammo così a sostenere le persone in un percorso di riflessione che partiva da dentro. Le aiutavamo a ripercorrere il proprio percorso professionale focalizzando l’attenzione sui motivi delle scelte, sulle loro leve motivazionali aiutandole a identificare le loro capacità al di la del ruolo e a sganciare il loro valore professionale dal mestiere in cui si identificavano.

In questo ambito di consulenza legato alla crisi, le competenze di counseling sono risultate quindi fondamentali per la gestione del cambiamento e per affrontare le condizioni da stress che ne derivavano.

Tuttavia il counseling aveva già fatto il suo ingresso nelle organizzazioni proprio per sostenere le aziende e le persone

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che in esse lavoravano. Lo sviluppo di nuove tecnologie e la globalizzazione avevano prodotto dei cambiamenti che per essere sostenuti necessitavano di strumenti innovativi. Nel 1999 F. D’Egidio afferma: “l’incertezza è l’unica certezza della nostra era. Le imprese sono costrette ad attuare continui rinnovamenti e trasformazioni profonde. Le riorganizzazioni e le fusioni tra società sono all’ordine del giorno. Le persone vivono questa nuova realtà spesso con angoscia, insicurezza e paura, tutte forze bloccanti l’energia proprio nel momento in cui ne sarebbe necessaria una grande quantità. Ogni cambiamento implica una perdita momentanea di efficienza e competenza”.

Nel mio lavoro, in quegli anni, ho potuto constatare che spesso, dopo l’evento traumatico della perdita del lavoro e del conseguente status sociale, le persone che incontravo vivevano un difficile momento di solitudine durante il quale era importante poter contare su una relazione che lasciasse spazio all’ascolto e che attraverso le più essenziali regole del counseling, creasse un clima di accettazione e supporto. A volte questo costituiva l’elemento sufficiente affinché potessero ritrovare la giusta condizione per un rilancio professionale.

In modo particolare, avendo a lungo operato con risorse dalla professionalità molto elevata, con le quali era più semplice fare ricorso a competenze professionali ‘pregiate’, l’aspetto della solitudine derivante da quegli eventi era il vero nodo da sciogliere, laddove venivano ad infrangersi una serie di

sicurezze esterne legate al ruolo professionale e al conseguente ruolo sociale.

Soltanto ritrovando la necessaria serenità la persona era poi in grado di stabilizzarsi e di impegnarsi in una campagna di ricerca che presupponeva l’avere elaborato i temi a monte, legati cioè alla perdita del lavoro, al lutto, alla separazione dall’azienda e dai colleghi, allo stress da cambiamento, allo sconforto, alla solitudine appunto. L’elaborazione di questi temi costituiva una condizione necessaria per potersi dedicare più consapevolmente al futuro.

Perdita del lavoro, solitudine e stress: l’elaborazione del dolore del distacco

Lo spirito creativo, le potenzialità, la libera espressione delle capacità individuali potevano essere espresse e messe a disposizione solo dopo una paziente elaborazione del dolore. Questo non sempre è stato facile se si pensa che una persona che entrava in un percorso di sostegno alla rioccupazione non veniva da noi per un disagio personale. Il problema era la mancanza del lavoro e per questo il consulente era un mezzo attraverso cui ritrovarlo. Per cui tenere il cliente sul dolore della perdita il “tempo giusto” era difficile.

La tendenza era spesso fare finta di niente, minimizzare l’evento. Alla domanda: com’è per lei vivere questa situazione? Ho visto sorrisi forzati e ascoltato tanti dei possibili proverbi che suggerivano l’opportunità di andare oltre perché fermarsi era dannoso. Come ci ricorda Storr (Storr, Solitudine il ritorno a se stessi, Mondadori, Milano,

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1991, pag. 43) a proposito di quello che definisce un doloroso cambiamento di circostanze “gli studi compiuti hanno confermato la diffusa convinzione che occorre del tempo per venire a patti con la perdita e hanno inoltre rilevato che l’accettazione della dolorosa realtà può venire ritardata dai vari meccanismi di difesa che vengono frapposti nel tentativo di allontanare il dolore”.

L’opposta tendenza riguardava il rischio da parte del cliente di rimanere molto a lungo nel dolore dell’evento senza andare oltre. Noi consulenti rischiavamo di venire scambiati per psicoterapeuti ai quale affidare l’intera gamma dei disagi della propria vita. Lo sforzo che quotidianamente compivo nel mio lavoro era quello di chiarire fin dall’inizio gli ambiti dell’intervento, alla ricerca costante del miglior compromesso tra accoglienza e stimolo all’azione.

La perdita del lavoro è spesso vissuta dal cliente come una “cacciata dal paradiso”, ossia come un tradimento. Il concetto di tradimento è collegabile al conseguente atto di abbandono a cui il cliente deve fare fronte. Spesso si trattava proprio di fiducia infranta, essendo assai frequenti i casi in cui la direzione aziendale non preparava sufficientemente il distacco, comunicando la necessità della separazione in modo frettoloso e umanamente poco rispettoso. Per questo motivo le persone rischiavano di rimanere legate ad un risentimento che non gli consentiva una costruttiva elaborazione della separazione.

A questo proposito scrive Hillman sul tradimento “Il momento critico del grande abbandono è un momento molto pericoloso. Le cose potrebbero andare in due modi per il bambino che si rialza dal pavimento, la sua resurrezione è in bilico. Potrebbe essere incapace di perdonare e rimanere fissato nel trauma, pieno di risentimento, vendicativo, cieco a ogni comprensione.” (Hillman J., Il Tradimento, Rivista di pricologia analitica, n.1, anno III, Idelson Editore, 1971)

I rischi che il tradimento contiene riguardano alcune scelte sbagliate, indicate da Hillman, tra le altre, come negazione e cinismo.

La negazione è descritta come un meccanismo di difesa, che comprensibilmente scatta nel momento in cui veniamo abbandonati e consiste nel negare il valore della persona o della situazione dalla quale ci stiamo separando. Nel mio lavoro, questo meccanismo era ben riconoscibile attraverso i diversi tentativi di squalifica che il cliente operava rispetto alla sua azienda, al personale, alle strategie, alla qualità del management, senza rendersi conto che questo tentativo di negazione lo ricomprendeva in quanto parte di quella stessa esperienza. Infatti, era da lì che il cliente doveva poi partire per ricostruire la sua storia professionale, recuperando quella esperienza ai fini del suo proseguimento di carriera. Questa operazione di paziente recupero implicava anche un lavoro di messa a fuoco delle responsabilità individuali e di come erano stati elaborati i segnali che avevano preceduto la separazione. A volte i clienti diventavano consapevoli solo durante il percorso di assistenza, dei numerosi messaggi da parte

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dell’azienda (capi, colleghi, consulenti, ecc.) e di non averli voluti cogliere per paura di ciò che una loro diversa assunzione di responsabilità avrebbe potuto significare. La presa di coscienza da parte del cliente di questo aspetto, costituiva un importante momento di maturità. Da una fase di bambino abbandonato si entrava in una meno comoda ma più soddisfacente condizione di adulto in grado di scegliere.

Il cinismo è descritto invece come un meccanismo di difesa che non solo squalifica l’esperienza interrotta, bensì opera una generalizzazione sulla categoria relativa alla fiducia infranta. Allora si considera l’amore come qualcosa di pericoloso e inutile se abbiamo ricevuto una delusione amorosa, l’amicizia come un’illusione e qualcosa da cui diffidare, se siamo stati traditi da un amico, le gerarchie come dannose e manipolatorie, se siamo stati traditi dal nostro capo, ecc. Riferendosi ai casi che ho trattato in quegli anni, spesso l’uscita dall’azienda lasciava nel cliente un amarezza di fondo e un cinismo, appunto, che lo induceva a generalizzare l’esperienza. Allora, tutte le aziende diventano delle trappole che sfruttano i dipendenti e tutti i capi dei manipolatori che non aspettano altro che vederti girare le spalle per infliggerti un colpo mortale.

La messa in gioco di questi meccanismi di difesa in risposta al tradimento subito dall’azienda e alla fiducia infranta, riguardava specificatamente la fase di precontatto, quando cioè la ferita dell’abbandono era ancora aperta. Tuttavia era nella fase successiva che questi meccanismi avevano la possibilità di essere trattati e superati, quando cioè il cliente

iniziava il suo recupero attraverso la messa a fuoco delle risorse di cui disponeva e che poteva reimpiegare in una nuova situazione di lavorat iva. In questo senso la prima fase della consulenza, basata su un approccio di counseling costituiva senz’altro una chiave di volta fondamentale per la buona riuscita dell’intero percorso di assistenza.

Alcuni esempi di progetti counseling oriented nell’ambito dello sviluppo delle risorse umane

Una direzione risorse umane in un’azienda ha già fatto tutto. Progetti su progetti di team working ma qualcosa tra le persone non funziona. Il responsabile non si orienta con facilità tra quelli che ritiene problemi personali dei singoli e problemi relazionali tra le persone. Difficile separare queste dimensioni. Il problema però è aziendale. Le lotte interne alla divisione stanno minando la credibilità del gruppo di dare risposte efficaci.

Una azienda di servizi che opera in ambito web, decide di ragionare sul concetto di sviluppo sostenibile. Trovare un corretto allineamento tra la spinta degli imprenditori, tesi in avanti a conquistare porzioni di mercato e il resto del management e della struttura, sottoposta a pressione e stress in una situazione di continua corsa.

Due giorni a lavorare insieme su:

• ritmo personale e ritmo condiviso

• precisione unita a efficacia

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• lavori gestaltici per la gestione di alcune situazioni conflittuali

• lettura attraverso il modello dell’analisi transazionale

• approfondimento individuale successivo con AD che immette svalutazioni nella relazione con i suoi collaboratori

• approccio rogersiano alla base della relazione

Un gruppo di professionisti scientifici del farmaco hanno bisogno di rafforzare la capacità di gestire la relazione con i loro interlocutori in modo qualificato, attraverso il miglioramento di alcune importanti leve relazionali, necessarie ad una gestione rinnovata ed evoluta del ruolo. A seguito di una riorganizzazione, il gruppo ha subito dei cambiamenti, tra i quali l’inserimento di nuovi colleghi e l’avvicendamento di alcune figure manageriali. Inoltre, è stata ampliata l’indicazione del farmaco, che comporterà, tra l’altro, un allargamento degli interlocutori di riferimento: dai medici specialisti in dermatologia a quelli specialisti in reumatologia. Tutto questo ha suggerito di lavorare per il rafforzamento di due competenze chiave: l’autonomia e la responsabilità, cogliendo inoltre l’occasione per un lavoro di integrazione tra risorse storiche e nuove del gruppo. Qualche precisazione sulle differenze tra counseling coaching COACHING L'intervento mira a sostenere il cliente nell'individuazione chiara di bisogni ed obiettivi per lo più prestazionali ed è volto

allo sviluppo di maggior competenza, capacità di autogestione e fiducia nelle proprie risorse, in vista delle mete stabilite. Nel coaching il fine è stabilito e il processo è teso al conseguimento dell'obiettivo. Per questa serie di motivi, il coaching è più orientato, direttivo rispetto al counseling, dove l'identificazione della meta finale può essere un processo più lungo e può riguardare un lavoro più specifico sulla dimensione emotiva.

Un coach esperto saprà porre domande mirate, adeguate allo scopo, pur senza divenire troppo invasivo e sostenere il coachee motivandolo e fornendogli gli strumenti per raggiungere lo scopo utilizzando le sue potenzialità.

COUNSELING

Il counseling viene definito relazione d'aiuto professionale diretto all'intervento nel caso di problemi attuali che minano e condizionano il benessere dell'individuo in un momento critico della sua vita.

A differenza del coaching, mirato a sviluppare empowerment e ottenimento di risultati mediante un contratto di partnership, il counselling implica un intervento sul piano non solo comportamentale, ma anche emotivo, volto ad esplorare il vissuto del cliente e a rendere adattivo il suo comportamento nell'ambiente di riferimento. Dato il contesto, il processo di counselling, se per molti aspetti può definirsi simile a quello di coaching, si differenzia da esso:

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• nella definizione dell'alleanza terapeutica, implicante un maggior grado di coinvolgimento ed una sana gestione della relazione transferale

• nel contemplare l'aspetto emozionale della problematica come parte integrante dell'intervento

• nella durata. Il lavoro implica l'esplorazione di vissuti soggettivi che possono richiedere tempi di elaborazione lunghi e modalità di approccio diversi.

Profilo professionale

Fabiana D’Onofrio, nata Roma nel 1964. Opera dal 1991 nello sviluppo delle risorse umane con particolare riferimento ad attività di counseling organizzativo e coaching sia individuale che di gruppo. Esperta di comunicazione organizzativa e interpersonale, gestisce progetti di empowerment per il miglioramento delle performance individuali e dei gruppi di lavoro. Laureata in sociologia, specializzata in comunicazione di impresa, ha conseguito il master europeo in counseling e agevolazione relazionale presso Aspic di Roma nel 1999. E’ stata socia fondatrice di una società di outplacement del gruppo AISO, all’interno della quale ha operato per oltre un decennio come responsabile dell’area Counseling, occupandosi della fase di rimotivazione e agevolando manager di primo livello nell’analisi delle competenze e nella gestione del cambiamento. Da 10 anni gestisce Open Sky, Società di consulenza nell’area dello sviluppo delle risorse umane.

www.openskyformazione.it - http://www.linkedin.com/in/fabianadonofrio

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Emanuela Lo Re

La scuola di Analisi Transazionale & Counselling, già scuola di Counselling Psicosociale, è stata fondata alla fine degli anni ottanta da Anna Rotondo, Dela Ranci e Susanna Ligabue, fondatrici a Milano del Centro di Psicologia e Analisi Transazionale, della Cooperativa sociale Terrenuove, e del CPAT (Associazione Italiana di Analisi Transazionale direttamente affiata all’EATA). Penso alla scuola di Counselling, che attualmente dirigo, come un’espressione naturale dell’anima e dell’attenzione sociale delle sue fondatrici, che con etica e responsabilità hanno voluto dedicare energie, risorse e pensiero alla formazione dei counsellor.

La Scuola AT&C nasce dalla riflessione circa le necessità proprie del nostro tempo, del contesto sociale e culturale in cui viviamo, e da un’attenta analisi dei bisogni formativi propri dei “professionisti delle relazioni umane”, che vi operano. In questa direzione, la scuola approfondisce teorie e metodi utili per comprendere, facilitare ed esplicitare i processi comunicativi, per costruire, mantenere vivi e rendere significativi i legami fra persone, fra gruppi nei loro diversi contesti di vita personali e professionali.

Il fondamento teorico della scuola AT&C è l’Analisi Transazionale di Eric Berne: una teoria solida, flessibile, viva, legata all’esperienza umana, aperta alle trasformazioni e alla ricerca, che offre strumenti fruibili nei diversi ambiti di vita della persona, dei gruppi e delle istituzioni. L’attenzione alla dimensione sociale è esplicita fin dalla sua origine: Berne dedica il suo Transactional Analysis in Psycotherapy (1961), scritto che segna la nascita dell’Analisi Transazionale, a suo padre “medico dei poveri”. Le parole di Berne sottolineano la sensibilità e l’attenzione sociale proprie degli Analisti Transazionali nei loro diversi campi di applicazione: la psicoterapia, il counselling, l’ambito educativo e l’ambito organizzativo. Questa attenzione sociale e i principi su cui si basa sono resi espliciti nel Codice Etico dell’Analisi Transazionale (EATA-ITAA) dove è esplicitata la filosofia di base del rispetto e del sostegno alla persona in difficoltà indipendentemente dalla sua razza, credo, religione e cultura di appartenenza e dalle condizioni socio-economiche: la filosofia dell’Okness (Ligabue, 2001).

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SCUOLA DI ANALISI TRANSAZIONALE & COUNSELLING

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“L’Okness è quindi qualcosa che richiama l’uguaglianza, il rispetto l’uno per l’altro, l’attenzione ai valori umani fondamentali; ma è anche l’Okness, un modo forte di sottolineare l’adeguatezza di ciascuno ad essere quello che è, la sua “competenza” a farsi carico della sua vita e a prendere decisioni rispetto a sé” (A. Rotondo, 1991).

Nel suo articolo “Intersoggettività: un presupposto dell’Analisi Transazionale” (1991) Anna Rotondo spiega come il linguaggio chiaro, tratto dal quotidiano, che Berne sceglie di utilizzare per la sua Analisi Transazionale, insieme al contratto, inteso come “patto bilaterale esplicito per un definito corso di azione”, rendono praticabile l’Okness e possibile l’esperienza della relazione di consulenza intesa come incontro fra due “soggetti competenti che hanno la caratteristica di essere insieme, essere con l’altro, essere per l’altro”(Dela Ranci, 2001).

Nel 2001, Dela Ranci, dopo più di vent’anni di esperienza nell’intervento sociale, propone il concetto di Relazione a legame debole. Nel suo pensiero si coglie la sensibile e profonda connessione fra la teoria e la pratica dell’Analisi Transazionale:

Nello scambio relazionale è possibile cogliere e scoprire lo specifico “modo di essere nel mondo”, il mondo possibile dell’altro, quel proprio mondo che ogni essere umano si è costruito nelle diverse esperienze con gli altri esseri umani, nella propria storia passata.

Nell’incontro si manifesta il “Dasein” di ciascun essere umano, il copione, le scelte di sopravvivenza maturate nelle relazioni primarie, che vengono agite concretamente nel “qui e ora”, nell’incontro con l’altro.

L’Analisi Transazionale è quindi una teoria legata all’esperienza, che vede l’incontro fra i soggetti che si realizza nel “qui e ora” come “fenomeno” osservabile, luogo e opportunità di crescita e sviluppo. E, in particolare, il counselling in Analisi Transazionale, così come è definito dal Manuale EATA (2008):

“[…]è un’attività professionale all’interno della relazione contrattuale. Il processo del counselling abilita clienti, o i sistemi dei clienti, a sviluppare nella vita quotidiana (attraverso il potenziamento delle loro forze e risorse) la consapevolezza, le alternative e le capacità nella gestione dei problemi e nello sviluppo personale. Il suo obiettivo è quello di incrementare l’autonomia in riferimento all’ambiente sociale, professionale e culturale. Il campo del counselling viene scelto da professionisti che lavorano nei settori socio-psicologici e culturali. Alcuni esempi riguardano: il benessere sociale, salute, lavoro pastorale, prevenzione, mediazione, facilitazione dei processi, lavoro multiculturale e attività umanitarie.

Il counselling in AT è inteso come una relazione contrattuale intersoggettiva significativa (Lo Re, 2010). Dove per significatività si intende la ricerca di nuovi significati, che favoriscono processi di consapevolezza di sé e di

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autorealizzazione. Un processo che impegna il counsellor nella messa in atto di specifiche competenze conoscitive e di intervento, chiaramente indicate nel Manuale EATA, che la scuola condivide e insegna ai propri allievi.

Prima di chiudere questo mio breve contributo voglio condividere un particolare aspetto proprio del counselling in AT, in cui la scuola AT&C si riconosce, si tratta del concetto di Focalizzazione sulle risorse. Nel Manuale EATA (2008), nella sezione dedicata al Nucleo delle competenze centrali del counsellor si legge:

Il counsellor in AT

a. E’ capace di utilizzare e rafforzare i punti di forza del cliente, intesi come agenti di cambiamento.

b. Identifica le risorse esistenti e le integra nel processo del counselling nel cliente e nel sistema del cliente

c. Conosce operativamente altre risorse locali nella comunità che potrebbero essere di sostegno al cliente, oppure alle quali il cliente potrebbe rivolgersi, includendo i servizi medici, psichiatrici, psicoterapeutici ed altri.

Questo sguardo alle risorse presenti rappresenta il cuore dell’insegnamento della pratica del couselling che la scuola AT&C offre ai suoi allievi. Uno sguardo che riguarda la persona che si rivolge al counsellor e il counsellor stesso e che considera il valore dei gruppi di appartenenza, le risorse presenti nei luoghi di vita, intesi come sistemi viventi, e

riconosce la possibilità di un lavoro di rete, che considero “apertura”, “cooperazione”, “speranza”.

Bibliografia

Berne E., Transactional analysis in psychotherapy: A systematic individual and social psychiatry, New York, NY, US: Grove Press 1961

EATA, Training and Examination Handbook, 2008

Ligabue S., Berne e il Counselling, in <<Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane>>, n. 32-33, 2001

Lo Re E., Il counselling: una relazione d’aiuto, in Luoghi e modi del counselling a cura di Andrea Dondi e Emanuela Lo Re, ed. La Vita Felice, Milano 2010

Ranci D., La relazione a legame debole nell’intervento sociale: aspetti teorici e tecnici, in <<Prospettive sociali e sanitarie>>, n.4, 2001

Rotondo A., Intersoggettività: un presupposto dell’Analisi Transazionale, in <<AT Teorica e Applicata: Stato dell’Arte>>, Atti del Congresso Italiano di Analisi Transazionale, Roma, 1991

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SEZIONE 6

Un percorso di counselling individuale : la storia di Paolo

Maurizio Balboni

Abstract

Nella mia esperienza di lavoro come Counselor professionista che svolgo in diversi ambiti, con privati ed aziende, ho introdotto la compilazione e la lettura dell’albero genealogico o genogramma del cliente; si tratta di una tecnica per effettuare un’analisi storica della persona, un’operazione di tipo cognitivo che svolgo insieme al cliente stesso.

Il caso che riporto è un tipico intervento di counseling con un cliente che chiamerò Paolo. Paolo si trova ad affrontare una crisi di passaggio nel lavoro, crisi che coinvolge la sua vita privata per le scelte che comporta.

Attraverso la costruzione e la lettura del suo genogramma personale, Paolo riesce a fare luce su alcune tipiche modalità di risposta alle situazioni, ereditate dalla sua famiglia, e di come queste costituiscano un ostacolo nel momento che sta affrontando.

Tale consapevolezza gli permetterà di rivedere alcune sue scelte e di dare nuove risposte più autonome e “sentite”.

Conobbi Paolo durante un corso interaziendale Motivazione al cambiamento al quale partecipava a titolo personale.

Imprenditore di una azienda con una quarantina di dipendenti, sposato con un figlio, era alle prese con grandi decisioni di ristrutturazione a livello aziendale: questo il motivo che lo aveva spinto a partecipare al seminario.

Nel corso del seminario, che toccava diversi temi, avevamo parlato dell’importanza del copione di vita (Berne,1972) e di come gli elementi copionali possano nel processo decisionale, inducendo spesso a scelte non razionali e dettate in un certo qual modo da automatismi inconsci. Avevamo accennato inoltre al processo di formazione di copioni transgenerazionali all’interno dell’albero genealogico, eredità tramandate che acquisiscono forza col trascorrere delle generazioni.

Mi contattò telefonicamente un paio di mesi dopo, chiedendomi una consulenza privata incentrata sullo studio del suo albero genealogico che aveva compilato durante il seminario e che ( sono le sue parole) “gli aveva aperto un mondo”.

Fissammo un appuntamento per un colloquio di consulenza al quale giunse con il suo albero genealogico, diligentemente e riccamente compilato al computer. Riferì che immediatamente dopo il corso si era impegnato in una ricerca

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accurata e che tale lavoro lo aveva entusiasmato permettendogli di osservare aspetti sconosciuti della sua vita. Gli sembrava, insomma, di avere rintracciato le origini di alcune delle sue difficoltà attuali.

Gli chiedo di parlarmi innanzitutto di queste difficoltà attuali che lo avevano spinto ad investigare.

Alla luce delle sue attuali difficoltà ci accordiamo di procedere insieme e anche con una lettura accurata del suo albero.

Contemporaneamente gli fornisco alcune informazioni circa il come avviene un intervento di counselling, e dell’importanza di riportare al ‘qui e ora’ la nostra discussione.

Mi riservo di definire con lui eventuali altri colloqui dopo il primo nel caso ci fosse sembrato opportuno. Riporto qui alcuni stralci della sua presentazione:

PAOLO: La mia azienda è in piena espansione, in questi anni abbiamo incrementato il fatturato e raddoppiato il numero dei dipendenti, ora ci apprestiamo ad un grande cambio, abbiamo incominciato ad esportare e questo richiede un adeguamento tecnologico, nuovi investimenti e un salto di dimensione, nuove assunzioni di operai e tecnici… tutto questo cambio imminente mi mette ansia, fatico a addormentarmi quando ci penso e perlopiù non penso ad altro.

Tutto ciò mi rende scontroso anche in famiglia, dove passo sempre meno tempo, mio figlio ha 14 anni e mi sembra di non

conoscerlo, mi rendo conto che lui ha voglia di stare con me, ma io non ho mai tempo, prima lo portavo ogni tanto, la domenica, a fare qualche giro in moto, ora non lo faccio più….

L’azienda l’ha fondata mio nonno, era un’impresa assolutamente artigianale a conduzione familiare, alla sua morte, mio padre e mio zio avevano continuato l’attività che aveva incominciato ad espandersi, poi mio padre e mio zio ebbero dei disaccordi sulla conduzione e mio zio fu allontanato o si allontanò di sua volontà, questo non l’ho mai capito. Aprì un’altra azienda artigianale, nello stesso luogo, ma non ebbe la stessa sorte, una sostanziale espansione ed è rimasta una piccola impresa artigianale. Attualmente è condotta da due miei cugini, so che sta attraversando una grossa crisi…

Mio padre morì improvvisamente per un ictus a 48 anni, io ne avevo 23, stavo studiando Design all’Università. Le ultime parole che mi disse prima di morire furono “ pensa tu ai conti, ti raccomando la mamma!” Mi sentii naturalmente investito, presi le redini e non le mollai più; oggi ho 46 anni e non ho fatto altro…

Dovrei sentirmi un uomo realizzato, e invece mi sento così incerto e confuso…sto cercando risposte…forse è per questo che sono qui, e poi c’è anche un altro motivo…

COUNSELLOR: Di che motivo si tratta

PAOLO: Compilando il mio albero genealogico mi ha colpito un particolare, ne ero a conoscenza, ma non ci avevo mai

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posto attenzione più di tanto, forse cercavo di esorcizzarlo. Mio nonno è morto di infarto a 48 anni, mio padre è morto di ictus a 48 anni e mio zio di infarto a 48 anni …e io ne ho 46 !

COUNSELLOR: Può essere un dato interessante, a volte nell’albero ci sono delle coincidenze che ci possono aiutare a capire delle cose e dare spunti per un lavoro personale, ma lei deve pensare che quella è stata la loro storia, altrimenti finirebbe per credere ad una maledizione, lo sa che a volte noi, quando ci crediamo, siamo in grado di fare avverare le maledizioni?

PAOLO: Lo so, fra i tanti pensieri che affollano la mia mente ogni tanto si affaccia anche questo

COUNSELLOR: Vediamo se ho capito bene, lei è in un momento di grosso cambiamento che le sta dando ansia, lo definisce un “salto obbligato, quando una situazione è percepita come obbligata non ammette alternativa, è questa mancanza forse che le genera ansia? Ma è veramente una strada obbligata e senza alternative ?

PAOLO: A volte mi sono fatto questa domanda; non vedo alternative, o forse le vedo solo teoricamente…a volte ho persino pensato di vendere tutto e rimettermi a disegnare, ma poi mi sembra che non potrei lasciare tutto quello per cui ho investito in una vita… è come dare un calcio alla fortuna, come si fa a lasciare qualcosa che va benissimo?

COUNSELLOR: In realtà si può sempre lasciare o cambiare qualcosa…. Forse, se non riesce a pensare a qualcos’altro è perché si è identificato troppo con il suo lavoro?

PAOLO: Non so nemmeno se mi piace più il mio lavoro, soprattutto non l’ho scelto. Quando papà è morto avevo la famiglia cui pensare, mia madre e mio fratello che ha quattro anni meno di me, poi è arrivata l’altra famiglia quella che ho composto con mia moglie e mio figlio, io mi sono sempre sentito responsabile di tutti loro

COUNSELLOR: E’ importante che stabiliamo un obbiettivo verso cui procedere nella ricerca, altrimenti sarebbe come partire per un viaggio senza alcuna meta e senza bussola

PAOLO: Voglio prendere in mano la mia vita, ho la sensazione di aver preso tante decisioni senza in realtà aver deciso niente, è come se la vita avesse sempre deciso per me

COUNSELLOR: In termini concreti che cosa vuol dire per lei prendere in mano la sua vita, mi può fare un esempio ?

PAOLO: Vorrei fare le cose con entusiasmo, con convinzione e con passione, e non sentirmi obbligato a farle

COUNSELLOR: Obbligato…?

PAOLO: Nella mia vita ho sempre fatto i conti con degli obblighi esterni, la morte di mio padre per esempio, di fronte ad un evento simile cosa potevo fare? E adesso le cose si sono fatte sempre più grandi ed ho la responsabilità di 50 famiglie

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COUNSELLOR: Le sarebbe piaciuto fare altro nella vita ?

PAOLO: Credo di si, non mi dispiace il mio lavoro, ma vorrei renderlo più creativo e vorrei avere più tempo, anche se quando lo dico mi metto a ridere da solo, mi sento come un disco rotto, dico questo e poi finisco per averne sempre meno, di tempo, intendo

COUNSELLOR: Mi faccia un elenco delle cose che le piacerebbe fare in questo tempo

PAOLO: Andare in giro in moto, leggere, tirare con l’arco, stare di più con mio figlio e con mia moglie, recuperare un po’ il nostro rapporto

COUNSELLOR: Che cosa le impedisce di prendersi dei tempi per lei?

PAOLO: Tante cose da fare e tutte accentrate su di me

COUNSELLOR: Vedo dal suo albero compilato qui davanti a me che suo fratello collabora con lei in azienda…

PAOLO: Diciamo di si, ma vede mio fratello è sempre stato una persona assolutamente dipendente, non ha iniziativa e quando ho provato a dargli un po’ più di responsabilità mi ha combinato di quei pasticci…

COUNSELLOR: Non ha altri collaboratori di fiducia da coinvolgere?

PAOLO: Sì forse uno o due, ma vede tutte le volte che sono andato in vacanza questi mi chiamavano, io vado in vacanza con il computer e il telefonino

COUNSELLOR: Che cosa pensa succederebbe se partisse senza?

PAOLO: Guardi, sembra un destino, ma ogni volta che mi allontano succede qualcosa perciò alla fine mi chiamano

COUNSELLOR: Se non la avessero trovata pensa che sarebbe successo qualcosa di irreparabile?

PAOLO: Forse si, lo so che non è giusto, ma mi sento indispensabile, e poi se non mi portassi il computer mi sentirei in colpa

COUNSELLOR: Le piacerebbe sentirsi tranquillo nel farlo?

PAOLO: Si, anche se non so come si fa

COUNSELLOR: Proviamo a trovare una soluzione insieme: alla luce di quello che mi ha detto leggeremo il suo albero genealogico, per vedere eventuali nessi tra quello che lei sente oggi e la sua storia. E’ evidente anche a lei che nessuno in realtà è indispensabile, che quella che lei avverte è una sensazione interna e non una realtà oggettiva e immutabile. Non sempre abbiamo un potere assoluto nel cambiare la realtà esterna, per quella interna ne abbiamo di più

PAOLO : Sono d’accordo

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Dopo il colloquio iniziale prendiamo in esame il suo albero genealogico. Ne riporto di seguito uno schema semplificato con i dati salienti di cui discuteremo nella consulenza

Costruzione del genogramma

Passare dall’albero genealogico al genogramma è il passaggio che avviene durante la consulenza, incominciamo qui a tracciare le relazioni, le alleanze, le inimicizie e quanto altro ci può aiutare a costruire una struttura Dinamica ( il genogramma ) al posto di quella Statica rappresentata dall’albero genealogico ( Montanari, 2009).

L’intervista che riporto di seguito ci aiuta in questo:

COUNSELLOR: Che relazione hai con tuo fratello Roberto?

PAOLO: Gli voglio bene, Roby è il cocco di mamma, è sempre stato iperprotetto, da piccolo era sempre malato e anche adesso è uno che ha dei problemi, non ha mai avuto una fidanzata è un imbranato totale, mi sento molto responsabile per lui …a volte penso che mi dovrò occupare di lui tutta la vita

COUNSELLOR: Stai dicendo che è handicappato ?

PAOLO: No, ma è come se lo fosse

COUNSELLOR: Che relazione hai con tua madre?

PAOLO: Mi devo occupare anche di lei, non fa nulla da sola a parte i lavori domestici, non controlla nemmeno il suo conto in banca, se poi c’è da andare in qualche ufficio lei mi guarda con gli occhi persi e mi dice “lo puoi fare tu che sei bravo ?” per me non è mai stata una persona su cui contare, mi dice sempre “meno male che ci sei tu!” a volte questo mi fa arrabbiare. Con mio fratello poi si fa in quattro perché lui poverino si stanca, e allora gli toglie persino le scarpe quando torna a casa..

COUNSELLOR Mi sembri arrabbiato !?

PAOLO: Ma no, vedi io voglio un bene dell’anima a tutti e due, sono la mia famiglia, ma mi piacerebbe vederli diversi, soprattutto Roby… E poi qui mi posso sfogare un po’, lo faccio così di rado…

COUNSELLOR: Che relazione avevi con tuo padre?

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PAOLO: Tutti dicono che gli somiglio tantissimo, mi portava a lavorare con lui, quando ero piccolo, solo me, Roby stava con la mamma, perché era piccolo, diceva, ma in realtà non lo ha mai portato. Quando avevo vent’anni volevo portare delle innovazioni in azienda, ma lui non era mai d’accordo, forse quelle sono state le nostre uniche piccole liti. Poi mi portava a pescare, a me non piaceva, ma ero contento perché passavo molto tempo con lui.

COUNSELLOR: Allora, ricapitoliamo mettendo delle linee nell’albero genealogico che illustrano le tue relazioni con Papà, mamma e fratello.

Hai tre possibilità: positiva armonica, neutra o assente, conflittuale o difficile

PAOLO: Buona con papà, neutra con mamma e Roby

COUNSELLOR: Neutra?

PAOLO: Si, neutra, non sono entusiasta di passare una sera con loro, nemmeno un’ora a dire la verità, ti confido che spesso di loro mi sono vergognato in pubblico, li trovo così inetti e banali

COUNSELLOR: Però ti occupa di loro

PAOLO: Certo sono la mia famiglia

COUNSELLOR: La tua famiglia di origine;, mi sembra di vedere che ne hai anche una tua-

Lì come vanno le relazioni?

PAOLO: Strano… anche Lisa, mia moglie, mi dice sempre, siamo noi la tua famiglia e mi rimprovera di pensare troppo a mamma e Roby. Con lei le cose vanno bene, ma andavano meglio prima, come ti ho detto passo sempre meno tempo a casa.

COUNSELLOR: Tua moglie lavora ?

PAOLO: Lavorava in uno studio come architetto, ma non prendeva nulla, così, quando è nato Sam abbiamo deciso che sarebbe rimasta a casa ad occuparsi di lui, adesso da un po’ di anni ha ripreso a lavorare un po’ come libera professionista, ma dal punto di vista economico non guadagna molto

COUNSELLOR: Potremmo dire che economicamente sostieni due famiglie ?”

PAOLO: Assolutamente si

COUNSELLOR: Che relazioni hai con i tuoi zii?

PAOLO: Con zio Francesco nessuna, non frequento né lui né i miei cugini, da un sacco di tempo, zia Roberta lavora in fabbrica, aiuta un po’ con la contabilità, ha un sacco di problemi, è sola e depressa, adorava papà che anche se aveva solo otto anni più di lei le ha fatto da padre, ogni tanto si sfoga con me, mi dice sempre che sono uguale a papà, ho sempre delle soluzioni per tutto.. forse per gli altri è un po’ vero.

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Con gli zii materni la relazione è sporadica ma buona, soprattutto con zia Vincenza che mi teneva spesso da bambino, lei era sposata, ma non aveva figli, credo abbia riversato su di me l’affetto per un figlio mancato.

COUNSELLOR: Ci tieni molto alla famiglia, mi risulta strana l’assenza di relazione con zio Francesco …

PAOLO: E’ una vecchia storia, quando nonno Giuseppe morì improvvisamente a 48 anni lasciò a mio padre che era il primogenito, la conduzione dell’azienda, mio zio Francesco lavorava con lui, poi ci furono dei disaccordi, delle liti e Francesco ( così dicono ) se ne andò sbattendo la porta e aprì un’azienda dello stesso tipo a due passi dalla nostra. Da allora papà e Francesco non si sono più parlati, e c’è di più, esisteva tra loro una concorrenza a tutto spiano, si facevano la guerra dei prezzi. Mio padre ebbe decisamente molta più fortuna, e quando un giorno seppe che le cose a Francesco non andavano molto bene, si mostrava quasi soddisfatto, aveva molto astio nei suoi confronti, per lui avere successo era quasi una rivalsa nei suoi confronti

COUNSELLOR: Ma tuo padre è morto molto tempo fa; non hai mai sentito l’esigenza di parlare con tuo zio, con i tuoi cugini…?

PAOLO: No la chiusura nei loro confronti era totale, quasi non ci si salutava se ci si incontrava per caso. La guerra dei prezzi è continuata e la concorrenza anche, adesso so che i miei cugini non se la passano bene, mentre noi andiamo

sempre meglio e, ti confesso che la cosa mi ha fatto un certo piacere

COUNSELLOR: Fammi capire: non sai esattamente cosa fosse successo tra tuo padre e tuo zio, ma ti sei comportato con loro esattamente come tuo padre

Mi sembra una bella prova di fedeltà

PAOLO : Non lo avevo mai visto così, in effetti…

COUNSELLOR : E’ come se tu avessi ereditato insieme all’azienda, anche il mandato di tuo padre, la sua faida personale ?

Racconto a Paolo l’effetto dei segreti nell’albero genealogico, di come questi rappresentano un ostacolo( Schutzenberger,1993) Il segreto diventa malsano quando priva qualcuno delle informazioni necessarie per scegliere azioni e relazioni in modo libero. Questo era quello che era successo a lui, aveva ereditato una faida proveniente da una storia in cui lui non c’entrava e non sapeva nemmeno come erano andate le cose, era quindi vittima e prigioniero di un segreto. Ritengo sano scoprire i segreti e restaurare una situazione in cui siano ‘ripuliti’ i sensi di colpa.

Consiglio a Paolo di indagare ulteriormente e perché no?, trovare il modo di parlarne con i suoi cugini, ascoltare anche la loro ‘campana’.

Durante tutto il colloquio il tono di voce di Paolo è chiaro e forte; percepisco una persona che controlla le sue emozioni,

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rimandandomi un senso di sicurezza, certamente avrei affidato a lui i miei risparmi. Penso che nella sua realtà dovesse essere percepito dagli altri ( madre, fratello, moglie, dipendenti ) come una sorta di “Pilastro” e che le persone si sentivano autorizzate e sollevate dal poter contare su di lui, demandandogli ogni sorta di responsabilità

Da questa prima lettura si poteva evincere l’enorme pesantezza del mandato di Paolo, come suo padre, doveva occuparsi di tutti, anche di persone adulte che avrebbero potuto sostenersi da soli (Berne, 1972)

Come quella del padre nei confronti del nonno, la sua è un’eredità che non ammette distinguo, prendere o lasciare, sullo sfondo di una fedeltà assoluta: distinguersi voleva dire tradire ed essere “fuori dal clan”. A questo mandato egli viene preparato nel suo ruolo di primogenito prescelto.

Seguendo la lettura del copione in termini di Analisi Transazionale possiamo ipotizzare la presenza dell’ingiunzione “Non sentire” connessa alla spinta “Sii forte”. Da un punto di vista della diagnosi comportamentale degli stati dell’Io riconosco in Paolo un Bambino Adattato e un Genitore Normativo molto energizzati, la presenza di un buon Adulto: ipotizzo una voce debole del Genitore affettivo ed un Bambino Libero compresso, con poco spazio per i propri bisogni e per il proprio mondo emotivo.

L’albero genealogico ci mostra inoltre come questo aspetto copionale si ripeta per almeno tre generazioni: i primogeniti

nascono con dei contratti-copioni già scritti, all’interno di un segreto familiare e vincolati da un patto implicito di fedeltà.

Individuiamo insieme i punti salienti, con chiarezza, e decidiamo di riaggiornarci per un breve percorso di consulenza di tre incontri, per fare luce e discutere i punti critici dell’albero con riferimento alle attuali difficoltà di Paolo: vogliamo trovare, valutare insieme, le opzioni concrete di cui dispone per riappropriarsi della sua vita. Invito Paolo nel frattempo a fare qualche indagine personale per riempire i vuoti d’albero e decidiamo di rivederci dopo 15 giorni.

Circa 10 giorni dopo mi giunge una telefonata di Paolo: èin ospedale, ha avuto un malore, forse uno sbalzo di pressione, è svenuto e lo hanno portato al Pronto Soccorso dove gli consigliano un immediato ricovero per poter svolgere una serie di accertamenti. Mi dice che non è sicuro poter essere all’appuntamento e gli propongo di posticiparlo per dargli tempo di recuperarsi pienamente. Ne fissiamo un altro.

Reincontrandolo, capisco subito che è molto in ansia: alla mia domanda su come sta, si precipita a rispondere che all’Ospedale non avevano capito nulla e che alla fine avevano determinato che la causa era lo stress.

PAOLO: Generalmente quando non sanno che pesci pigliare danno la colpa allo stress!

La pressione tendeva comunque a rimanere leggermente sopra la norma e gli hanno consigliato di stare monitorato e a riposo per un po’, consiglio al quale aderisce solo

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parzialmente, poiché le scadenze del lavoro richiedono la sua presenza.

Ho la sensazione di avere davanti una persona agitata, con una preoccupazione precisa:

PAOLO: Tutta questa storia è una fregatura, mi sento in una gabbia, temo di finire come papà e come il nonno, sarà ereditario ?

COUNSELLOR : Sei spaventato ?

PAOLO: Non so in certi momenti mi sembrava proprio un appuntamento, un pensierino in un qualche angolo della mia testa mi ha detto ..eccoci !

COUNSELLOR: Questo pensierino mi pare fosse già presente come mi hai detto la volta scorsa… temi la maledizione del padre, del nonno o del primogenito.

PAOLO: E’ vero

Riprendiamo l’analisi dell’albero genealogico andando ad osservare insieme le origini di questa maledizione.

Appare ormai chiaro a Paolo il tipo di richiesta che gli era stata fatta dal padre esplicitamente in punto di morte e implicitamente durante tutta la sua vita, richiesta che il padre aveva ricevuto tale e quale dal suo “ la vita è già scritta e questo è il carico che ti tocca, preparati a portarlo, fatti forza e non sentire le tue esigenze, non mollare…” Queste erano le

parole che Paolo aveva scritto al termine del nostro secondo incontro.

Con Paolo parliamo della ‘vita già scritta’ come di un ‘accordo’ firmato in un momento della vita in cui era troppo giovane per poterne analizzare le clausole e per cambiarle.

Lo invito a riscrivere quelle parole sotto forma di contratto ricevuto, nella formula classica: “ Io sottoscritto Paolo… mi impegno a raccogliere il peso della vita, mi impegno a non sentire e a non mollare mai fino alla morte” Il contratto porta anche una possibile data di scadenza fissata al compimento del 48esimo. Lo invito a portare con sé il contratto per una settimana, e a rileggerlo ogni mattina. Questo lo avrebbe aiutato nel fissare la consapevolezza sulla sua situazione. Lo invito anche a portare sempre con sé uno zaino con alcune pietre dentro, che lo avrebbero aiutato a “sentire” il peso che ormai non percepiva più, ma che c’era ed era quotidiano.

Ci accordiamo che, dopo una settimana, avrebbe scavato una buca in terra e lì avrebbe riposto le pietre e il vecchio contratto; avrebbe trovato un modo per ringraziare il nonno e il padre per il loro dono.

Paolo aveva un grande desiderio di riscrivere quel contratto iniziale, ma non poteva farlo dall’interno della gabbia: aveva bisogno di restituire quel peso infantile con un atto adulto, lucido e deliberato.Nelle antiche culture si usava ritualizzare i passaggi di età, per aiutare la persona ad accogliere le nuove responsabilità che la

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nuova fase di vita portava con sé, questo atto era per Paolo l’equivalente di questi rituali di crescita.

Paolo scrive un nuovo ‘contratto’ per sè in cui si autorizza a sentire, ad ascoltarsi, a darsi tempo.

Ci incontriamo altre due volte, per mettere a punto le strategie di cambiamento e l’orientamento che Paolo intende dare ora alla sua vita. Non Abbiamo bisogno di molto tempo: Paolo sa nel suo intimo cosa desidera, cosa non si sentiva autorizzato a fare. La comprensione profonda del mandato del suo albero genealogico e la decisione di riscrivere il contratto iniziale gli sono utili per darsi quelle autorizzazioni.

Nella sua azienda porta alcune innovazioni: la rende più specialistica e abbandona il progetto del salto verso l’export. Il nuovo assetto gli permette comunque buoni utili e un lavoro più creativo.Coinvolge maggiormente il fratello in azienda e incomincia a delegare parte delle sue funzioni. Decide di dare più tempo alla sua famiglia e si iscrive ad un corso di tiro con l’arco con il figlio.Incontrato il cugino e la sua famiglia, deciso a mettere fine ad una ‘guerra’ che dura da generazioni: e i loro rapporti sono ora più cordiali. Ha da poco e felicemente celebrato la festa del suo 50esimo compleanno.

Conclusioni

In conclusione, dopo aver presentato questo caso, vorrei dire quali sono, a mio parere i vantaggi che la lettura dell’albero genealogico offre al counsellor e quali al cliente.

Il counselor ottiene una descrizione approfondita della storia personale del cliente e delle relazioni con la sua famiglia in un tempo breve ( una o due sedute al massimo ) e può costruire delle ipotesi di copione transgenerazionale. Può aiutare il cliente a vedere se e in che modo le sue attuali difficoltà si possono ricollegare alla sua storia passata.

Inoltre, il genogramma può essere utilizzato in maniera estremamente duttile dal counselor, che può scegliere una area particolare da investigare, per rispondere alla richiesta specifica del cliente.

Il cliente nella stesura del genogramma ha modo di rivivere e ridefinire la propria storia personale, ciò porta anche ad un incremento della consapevolezza arrivando ad una presa di coscienza che non investe soltanto la sua persona, ma anche le sue relazioni.

Conoscere la propria storia personale permette da un lato di riappropriarsi degli elementi positivi dell’eredità trasmessa e ricevuta e nello stesso tempo apre confronto più realistico con la propria storia a livello come individuo e con la crescita desiderata nel momento storico attuale.

Focalizzarsi sul passato ci permette di far luce sul presente, aumenta la conoscenza di sé, dei valori di riferimento, dei significati che vengono tramandati culturalmente attraverso la

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famiglia e di nuovi eventuali valori che vogliamo aggiungere e di cui desideriamo arricchire le generazioni future

Infine, osservare sul foglio il disegno del proprio albero, permette di guardarsi dall’alto, da un nuovo punto di vista, da una prospettiva adulta, che permetterà al cliente di vedersi nel suo insieme, comprendere la trama della sua storia personale e familiare, forse, trovare anche la forza di sorridere.

Bibliografia

Berne E. (1972), trad. it Ciao!....e poi?, Bompiani, Milano, 1979

Montanari A., (2009), Il genogramma. Dalle origini all’utilizzo della tecnica, in Rotondo A., ( a cura di), Etnopsichiatria e territorio, Edizioni di Terrenuove, Milano

Schutzenberger A.A., La sindrome degli antenati, Di Renzo Edizioni, Roma 199

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CAPITOLO 3

La ricerca

La ricerca sui counsellor in Lombardia si è svolta come attività del CNCP nell’anno 2010 ed è stata presentata al “Convegno CNCP 11-12 Novembre 2012” da Gilda Maria Greco

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SEZIONE 1

Gli esiti professionali del counsellor

“Spunti Di Riflessione Emersi Da Una Ricerca Su 106 Ex Allievi Di Alcune Scuole Di Counselling Della Lombardia”

A cura di: Lilia Andreoli, Gabriella Caiani, Gilda Greco, Emanuela Lo Re,

Rosita Marinoni.

In previsione del Convegno del CNCP Nazionale e del tema proposto, ossia “La funzione sociale del counselling”, in qualità di rappresentanti di quattro scuole di counselling della regione Lombardia (partecipanti al CNCP Regionale) abbiamo scelto di apportare il nostro contributo esplorando, attraverso una ricerca pilota, le caratteristiche dell’attuale figura professionale del counsellor presente e operante in Lombardia.

Le scuole che hanno partecipato alla ricerca (Associazione ASPIC Counselling e Cultura di Milano; Centro di psicologia e Analisi Transazionale di Milano; Centro Milanese di Terapia della Famiglia- Sezione Counselling- Milano; Centro Studi e

Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad Orientamento Sistemico e per il Counselling Sistemico relazionale di Legnano) hanno predisposto un questionario che è stato proposto a tutti i counsellor formati dalle suddette scuole.

Le riflessioni che seguiranno prendono spunto dai dati emersi dall’analisi dei 106 questionari compilati dal campione della ricerca.

Il questionario ha sondato le seguenti aree:

• 1. Dati generali

• 2. Attività lavorativa

• 3. Criticità incontrate nella professione di counsellor

• 4. Collaborazioni con altri professionisti

• 5. Rapporto con il CNCP e altre associazioni di categoria

• 6. Richieste al CNCP per il sostegno della professione di counselling.

Relativamente ai Dati generali, come si può evidenziare dalla Figura 1, emerge una presenza prevalente di donne (81%) rispetto agli uomini (19%).

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Fig. 1 Distribuzione Genere

Come si osserva dalla Figura 2, l’88% dei counsellor ha un’età compresa tra i 31 e i 60 anni.

Fig 2 Età

La maggior parte dei counsellor iscritti alle scuole di counselling (84%) sono in possesso di una laurea e solo il 16%

accede con un diploma di scuola media superiore (vedi Figura 3).

Fig 3 Titolo di studio

Per quanto concerne la seconda area indagata Attività lavorativa, alla domanda “Lavori attualmente come counsellor?”, come si evince dalla Figura 4, il 63% delle persone intervistate risponde affermativamente, il 32% risponde di non esercitare la professione di counsellor e il 5% non risponde. Dunque una significativa percentuale delle persone formate dalle 4 scuole di counselling lombarde esercita la professione di counsellor.

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Fig 4 Lavori come counsellor?

Al fine di approfondire maggiormente l’area relativa all’attività lavorativa, ai counsellor che hanno risposto affermativamente alla precedente domanda, si è chiesto se il lavoro di counsellor rappresentasse la loro unica occupazione, oppure fosse l’occupazione prevalente (ossia la principale attività pur svolgendone altre), l’occupazione secondaria (ossia esiste un’altra attività principale e quella del counselling è in affiancamento a questa), complementare (intendendo con questo l’utilizzo delle competenze di counselling integrate nello svolgimento di un’altra attività professionale), volontaria (attività non remunerata).

Come mostra la Figura 5, nel 17% dei casi il counselling rappresenta l’unica o la prevalente attività professionale; nel 33% dei casi, il counselling è una professione che affianca una professione prevalente; il 37% delle persone utilizzano le proprie competenze di counselling mettendole al servizio della

loro attività professionale; il 14% opera come counsellor a livello di volontariato.

Fig. 5 Il Counselling come attività professionale

La domanda successiva ha avuto l’intento di esplorare i settori di applicazione della professione, per comprendere maggiormente in quali ambiti i counsellor operano. La Figura 6 mostra le diverse percentuali, nell’analisi delle quali occorre sottolineare che la stessa persona poteva indicare più ambiti di intervento professionale.

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Fig.6 In che ambito del counselling lavori?

All’interno del gruppo promotore della ricerca incrociando sia i dati relativi all’età che quelli riguardanti il titolo di studio e il fatto che la professione del counsellor sia, ad oggi, in base ai nostri dati, una professione prevalentemente secondaria o complementare, abbiamo ipotizzato che la formazione al counselling, (scelta prevalentemente da persone di età matura, laureate, che già hanno un’occupazione) nasca probabilmente dall’esigenza di riqualificazione professionale e che coloro che accedono a tale formazione siano all’interno di un processo di ricerca conoscitiva, con l’obiettivo di restituire un nuovo significato alla propria esperienza professionale e di riscoprire una propria identità personale e professionale.

Osservando la Figura 5 possiamo affermare che la professione del Counselling in Lombardia esiste. Tuttavia, sebbene sia un segnale speranzoso l’osservazione che per il 9% delle persone intervistate l’attività di counselling sia la loro unica professione, nel 41% dei casi chi opera come counsellor, ha la necessità di affiancare il counselling con un’altra professione. Da qui la riflessione di una necessità sempre più impellente di

promuovere e consolidare il counselling in tutti quegli ambiti in cui ci sia spazio per questa figura professionale.

Inoltre, il dato secondo cui il 37% dei counsellor intervistati eserciti la professione come attività complementare porta a riconoscere l’importanza sociale di professionisti che, all’interno della loro specificità professionale, sono in grado di mettere a disposizione dei propri interlocutori, competenze di counselling, per rispondere a richieste e bisogni che non sempre necessitano di risposte cliniche o psicologiche.

Passando alla terza area indagata Criticità incontrate nella professione di counsellor, i counsellor riportano principalmente due punti: la mancanza di riconoscimento ufficiale della figura del counsellor e la scarsa o inesistente conoscenza della figura del counsellor all’interno dei diversi ambiti di lavoro.

Alla domanda “Di che cosa avresti bisogno per affrontare le criticità incontrate nella tua attività di counsellor?” vengono fornite le risposte riportate graficamente dalla Figura 7.

Fig. 7 Bisogni per affrontare criticità

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Nel 19% delle risposte emerge la necessità del riconoscimento e della regolamentazione della figura del counselor; pertanto la stessa voce che viene evidenziata come una delle maggiori criticità con cui i counsellor si confrontano nell’esercitare la loro professione, viene indicata come strada da seguire per far fronte a tale ostacolo.

Contemporaneamente viene evidenziata l’importanza di creare spazi di confronto tra counselor (41%) e tra counselor e altri professionisti (19%), nonché incontri di formazione (12%) e di

supervisione (29%), che possiamo immaginare come utili momenti sia per potenziare la propria identità professionale, sia per favorire un lavoro di rete.

Mentre si rimanda al CNCP Nazionale l’attività di riconoscimento e regolamentazione della figura del counsellor, crediamo che gli altri dati emersi da questa risposta forniscano delle indicazioni sulle possibili attività che i vari CNCP Regionali possono promuovere, sia nell’ottica di fare conoscere la professione del counselling, sia nel creare momenti di condivisione e di confronto, nonché occasioni di formazione permanente e aggiornamento.

Relativamente alla quarta area Collaborazioni con altri professionisti, sono state poste 2 domande: “Nella tua attività di counsellor collabori con altri professionisti?” (vedi Figura 8); “Se si, puoi indicare a quale categoria professionale appartengono i professionisti con cui collabori?” (vedi Figura 9).

Fig 8 Collabori con altri professionisti?

Fig 9 Con quali professionisti collabori?

Come si evince dalla Figura 8, il 60% dei counsellor collabora con altre figure professionali e il 24% lavora da solo. I professionisti con cui i counsellor collaborano appaiono alquanto diversificati (vedi Figura 9).

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Il lavoro di rete con altri professionisti, scelto dalla maggior parte dei counsellor intervistati, sembra avvalorare l’ipotesi della funzione sociale della professione di counsellor. Questi, infatti, si può configurare come una figura professionale che, conoscendo a fondo il territorio, può inviare e raccordarsi con il professionista necessario al cliente in quel momento.

Può, inoltre, preparare l’utente ad altri tipi di intervento, quindi essere promotore di invii anche nei confronti di psicologi e psicoterapeuti (60%).

La collaborazione con altri counsellor (52%), potrebbe confermare il bisogno di confronto con colleghi anche per un rafforzamento dell’identità professionale; inoltre nel caso in cui il counsellor svolga un’altra professione (come nei casi che abbiamo precedentemente indicato come attività complementare) può rivelarsi un’efficace fonte di invio per colleghi counsellor.

Dal nostro punto di vista, come équipe promotrice della ricerca, riteniamo sia necessario definire in modo sempre più specifico e preciso la cornice dentro la quale si muove la professione del counselling come professione operante nell’ambito della salutogenesi e della valorizzazione delle risorse del cliente e, in tal senso, attribuire un valore sempre più rilevante all’inserimento del counsellor nell’ambito di una rete interdisciplinare di professionisti.

La richiesta di confronto dei counsellor con altri counsellor e con professionionalità diversificate è, inoltre, un’importante e significativa dimostrazione della forma mentis del

counselling, di apertura e di consapevolezza di un bisogno fondamentale, proprio di chi è professionista nell’ambito delle relazioni d’aiuto, ossia della necessità e della ricchezza che prende vita dallo scambio, dalla collaborazione e dalla valorizzazione delle differenze.

La quinta area del questionario riguarda il Rapporto con il CNCP e le altre associazioni di categoria.

Alla domande “Sei iscritto/a al CNCP?” il campione risponde (come mostra la Figura 10) di essere iscritto al CNCP nel 77% dei casi; di non essere iscritto nel 19% e il 4% non risponde.

Fig.10 Sei iscritto/a al CNCP?

Approfondendo la domanda e chiedendo: “Hai effettuato iscrizioni presso altre associazioni professionali di settore?; se

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si, indica quale”, la risposta che emerge è un “no” nel 58% dei casi, un “si” nel 41%; un 2% non risponde.

Di questo 41% di persone che sono iscritte ad altre associazioni di categoria, il 91%, oltre ad essere associate al CNCP, è inserito presso associazioni collegate al modello formativo della scuola presso la quale si sono diplomate (CPAT-EATA Associazioni di Analisti Transazionali; AIMS Associazione Internazionale mediatori sistemici; SICIS: Associazione Scuole Sistemiche); solo il 9% è iscritta ad altre associazioni quali AssoCounseling e SiCo.

Questo dato porterebbe ad ipotizzare che le persone diplomate tenderebbero inizialmente a mantenere un rapporto privilegiato con la scuola di appartenenza, con iscrizione a associazioni ad essa vicine e meno ad associazioni di categoria.

Da un confronto emerso tra i rappresentanti delle scuole che hanno partecipato alla ricerca, emerge, infatti, che vengono investite diverse energie da parte delle scuole di formazione nell’accompagnare e stimolare gli allievi diplomati a iscriversi al CNCP e che, pertanto, andrebbe migliorata sicuramente l’attività promozionale del CNCP e lavorare per creare un maggiore senso di appartenenza alla categoria. La creazione dei CNCP Regionali può rappresentare senza dubbio un significativo passo avanti e, contemporaneamente, va posta energia nel costruire adesione e stimolare una crescente partecipazione attiva.

Nell’ultima area esplorata Richieste al CNCP per il sostegno della professione di counselling, abbiamo interpellato gli intervistati chiedendo loro “Quali sono le attività che il CNCP può organizzare per sostenere l’attività dei counsellor?” (vedi Figura 11)

Fig. 11 Richieste al CNCP

Emergono nuovamente alcune aree che precedentemente erano state identificate come criticità rispetto alla professione di counselling e che ora vengono proposte come attività di sostegno al lavoro dei counsellor.

Tra queste richieste: attività di promozione e pubblicizzazione della professione (65%); formazione (83%): organizzazione convegni (34%) e formazione permanente (49%); assistenza alla professione di counselling (97%): legale (43%), assicurativa (30%) e fiscale (24%); pubblicazioni relative al counselling (29%) e ricerca (30%).

Questa ricerca pilota rappresenta per noi un primo passo per conoscere in modo concreto e tangibile la realtà del counselling lombarda, al di là delle più disparate speculazioni

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teoriche o battaglie ideologiche che ruotano attorno a questa professione.

Nel ringraziare le 106 persone che hanno scelto di partecipare alla ricerca dando il proprio contributo personale, ci auguriamo che questo nostro passo possa contagiare anche altri per un cammino insieme sempre più pragmatico e radicato, con uno sguardo interessato e curioso verso una professione dedita al BENE-ESSERE personale e sociale dell’individuo e della comunità.

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CAPITOLO 4

“Il counselling e il lavoro di rete”

Convegno CNCP Lombardia 2012

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SEZIONE 1

Il counseling per costruire la rete

Metelli Michela

Muoversi tra counseling familiare, mediazione culturale, mediazione riparativa e mediazione istituzionale: un’esperienza di trasferimento delle competenze della mediazione e del counseling nell’operatività del servizio sociale

Il contesto nel quale si esplica questo intervento di counseling è il servizio sociale di un comune; gli attori coinvolti sono: una famiglia di origine ghanese che vive in Italia e si trova ad affrontare la situazione di grave disabilità di uno dei tre figli; la scuola secondaria inferiore frequentata dal figlio; il servizio territoriale pubblico di neuropsichiatria infantile che segue il figlio in riferimento alla grave patologia; l’istituto di riabilitazione che viene coinvolto per un progetto di accoglienza del ragazzo in vista di un possibile percorso di riabilitazione di alcune autonomie funzionali; il servizio sociale comunale nel quale lavoro.

La famiglia

Il sistema familiare è rappresentato dal seguente genogramma: una coppia di genitori J e L con tre figli G di 14 anni H di 13 anni (figlio con disabilità) e B di 7 anni.

Trovo particolarmente efficaci le opere di Escher, che utilizzo in questa breve narrazione per lasciare un ricordo anche visivo di alcuni concetti. Escher si diverte a giocare con le immagini, nell’opera seguente crea una successione di volti che può essere vista anche ribaltando la stampa sottosopra, quattro volti femminili e quattro volti maschili rappresentati dall’autore con voluta ambiguità e facendo un consapevole utilizzo delle leggi della percezione visiva. Quest’immagine rappresenta ai miei occhi alcune delle caratteristiche che ho

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ritrovato in questa famiglia caratterizzata dalla tendenza a “scomparire”, a ritirarsi (confermata peraltro dagli operatori che la incontravano), a confondersi, in difficoltà ad esprimere richieste, adottando un modello di funzionamento che potrei definire evitante; in una fase del ciclo vitale definita dalla disperazione, dalla mancata elaborazione del lutto legato alla disabilità del figlio e dalla riorganizzazione del sistema familiare nel suo complesso.

La complessità: la disabilità e la migrazione

La caratteristica che trovo maggiormente ridondante in questa famiglia è la complessità che mi pare di poter associare a due grandi temi: la disabilità che trascina con sé un forte “disconoscimento” del figlio ( la madre, dopo una malattia e un ricovero ospedaliero del figlio sente che quello non è più il suo bambino) e il senso di colpa della madre, il peso della responsabilità della propria assenza. La disabilità segna anche l’incontro di questa famiglia con i servizi territoriali, l’avvio di un percorso diagnostico e riabilitativo che sembra non

produrre risultati, progettato senza l’effettiva condivisione dei genitori, trascurando il processo di attribuzione del senso e della causalità della malattia. I vincoli che io ho sentito in questo percorso sono stati: l’assenza di un supporto alle ferite identitarie materne; la trascuratezza del tema migratorio, la trascuratezza del tema dell’appartenenza culturale, la mancata condivisione e comprensione da parte della famiglia dei progetti nei quali era coinvolta, e la collocazione in una posizione down dei genitori nella relazione con alcuni operatori. Il secondo tema è quello della migrazione che porta con sé le difficoltà di inserimento in una nuova cultura, le difficoltà materiali di reperire lavoro e alloggio per il capofamiglia e soprattutto le difficoltà dell’incontro tra storie e significati differenti. Tutto questo trapela dalle narrazioni della coppia genitoriale che lascia emergere delle ferite aperte che chiedevano di essere viste e sanate. Marie Rose Moro a questo proposito parla di dolore dell’esilio, di difficoltà, di esclusione sociale e di sorda sofferenza psichica. Gli specchi magici di Escher, qui di seguito rappresentati, illustrano il tema della complessità, svelando l’enigma e il fascino dello specchio su cui vediamo irrimediabilmente tre dimensioni, pur sapendo che dietro lo specchio non c’è nulla se non il mistero dello spazio e dei conflitti tra le dimensioni che rendono possibile il nostro mondo di realtà e illusione nella sua grande complessità. In particolare la famiglia ha bisogno di trovare la propria modalità di affrontare la complessità.

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Il malinteso

Il quadro che si definisce ai miei occhi è dominato dal malinteso che ostacola le relazioni d’aiuto e impedisce l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra la famiglia e gli operatori che incontra, per cui ne consegue una sorta di fuga della famiglia che comincia a cercare soluzioni altrove. Marie Rose Moro racconta delle fratture che i suoi pazienti hanno subito, sballottati tra medici e psicologi, proprio come questi genitori che vivono senso di solitudine, di isolamento e di diffidenza nei confronti dei servizi. I malintesi che riconosco in questa storia sono diversi: malintesi nel rapporto tra scuola e famiglia, causati anche dalle differenze linguistiche che hanno portato ad una svalutazione reciproca, alla mancanza di dialogo e alla ricerca di contatti utilizzando strumenti non idonei. La seguente opera di Escher propone in modo efficace il senso del malinteso: quali sono le prospettive? Chi scende?

Chi sale? Da cosa dipende? Solo chiarendo le proprie posizioni di partenza si potrà capirsi.

Il counseling familiare, empowerment, promozione del benessere della famiglia :

“agisci facendo in modo di accrescere sempre le possibilità di scelta” (Von Foerster)

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A seguito delle informazioni raccolte si definisce la possibilità di attivare un percorso di counseling partendo dalla richiesta di aiuto portata dalla madre. Il setting entro il quale si realizza questo percorso è il servizio sociale comunale. Dopo l’ascolto della storia di vita di questa madre si apre uno spazio di accoglienza della sua sofferenza. Le ipotesi di lavoro dopo questa prima fase sono state: la conoscenza del figlio H. per poterlo finalmente mettere al centro, per considerarlo un ragazzo con una storia, una famiglia, un passato, come ci ricorda Moro. Nell’opera di Escher “mano con sfera riflettente”, la realtà viene riflessa e raddoppiata attraverso la sfera che egli ha in mano, che quasi ci “parla”, stabilendo un

contatto con l'osservatore; è questo il senso di questo primo contatto con questa famiglia nel percorso di counseling: osservare, conoscere la realtà e stabilire un contatto per attivare processi di empowerment e aprirsi nuove possibilità.

Mediazione tra istituzioni: riconoscimento di ruoli e competenze per la cooperazione

A questo punto è necessario vedere chi è coinvolto in questa storia. Prevedo allora di individuare tutti i sistemi a vario titolo coinvolti nella situazione di H. In questa fase la partenza è stata l’osservazione del contesto scolastico nel quale H trascorrere gran parte delle sue giornate, per scoprire che anche gli insegnanti si trovano in difficoltà, hanno bisogno di informazioni e cercano sostegno dalla famiglia e dal servizio specialistico di neuropsichiatria. Dopo l’osservazione del sistema familiare e di quello scolastico è la volta del servizio di neuropsichiatria infantile che nel frattempo aveva un po’ dimenticato H per cui si evidenzia l’esigenza di recuperare una reale presa in carico del ragazzo e della sua famiglia e di affrontare una frattura che si era creata nel passato con la coppia di genitori. Gli stessi genitori chiedevano di essere sostenuti e necessitavano di essere accompagnati a riprendere i contatti con i servizi solo attraverso interventi mediatori specie a livello culturale. Nell’affiancamento a questi genitori ho potuto toccare con mano quanto Marie Rose Moro racconta dicendo che la migrazione porta con sé una rottura del contesto culturale esterno, costituendo un momento di particolare vulnerabilità del sistema.

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Solo riconoscendo a ciascun sistema il proprio ruolo e la propria competenza è stato possibile attivare un processo di cooperazione tra le parti.

Mediazione tra le culture: favorire processi di conoscenza e confronto sui significati

Questi volti appaiono simili e anche diversi, proprio come le storie e i significati di chi appartiene a culture differenti. In questo percorso si rende di assoluta urgenza affrontare una mediazione tra la cultura ghanese e quella italiana, per aprire uno spazio di comprensione e condivisione reciproca. Come e quando realizzarlo? Nell’accompagnare i genitori ad incontrare di nuovo il neuropsichiatra nonostante le resistenze e le ferite che si erano create in precedenza, nel favorire un riavvicinamento dei genitori alla scuola e nell’incontrare senza pregiudizi l’istituto di riabilitazione. Perchè? Per favorire processi di conoscenza e di

comprensione, per aiutare i soggetti coinvolti a confrontarsi sui differenti significati e per ridurre al minimo lo spazio del malinteso.

Mediazione riparativa: ristabilire una relazione fra soggetti che si “riconoscono”

Frutto del malinteso è stata anche una situazione che ha provocato una profonda ferita identitaria nella madre e la rabbia del padre. Era stato veicolato un messaggio secondo il quale con il loro figlio H non sarebbe stato possibile fare nulla. L’intervento di mediazione riparativa ha permesso il confronto sereno tra le parti, il chiarimento del malinteso, la condivisione delle informazioni e la progettazione condivisa. Il risultato è stato il reciproco riconoscimento, il chiarimento delle proprie posizioni, la ripresa in carico della situazione di H da parte dei servizi competenti, la collaborazione tra la scuola e il servizio di neuropsichiatria e l’iscrizione di H all’istituto di riabilitazione .

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Costruzione della rete: la regia del counseling

Escher rappresenta in questa sua opera una fitta rete, come una trama di numerose relazioni. In questo percorso la rete ha rappresentato un obiettivo da raggiungere ed anche un mezzo per raggiungere altri obiettivi ancora più importanti. All’inizio avevo potuto osservare solo relazioni disfunzionali tra gli attori coinvolti, poi la costruzione della rete ha favorito la costituzione di un’equipe multidisciplinare che ha saputo mettere H al centro restituendogli visibilità e restituendo ai genitori le proprie competenze, in vista di attivare poi un progetto complessivo di supporto ai genitori e di integrazione e riabilitazione per il figlio. Il counseling ha rappresentato lo strumento che ha saputo tenere le fila di questo intervento complesso, come il regista in un film.

Mediare tra ruoli e competenze: mediazione fra sé professionale e contesto di lavoro

In questa opera Escher ripropone il tema dell’illusione, una mano che disegna l’altra, in questa immagine mi piace vedere una persona che riscrive se stessa e il proprio sé professionale, provando a trovare efficaci mediazioni tra le proprie risorse interne e le richieste del proprio contesto lavorativo come è accaduto a me in questa esperienza. Uno strumento prezioso che mi ha permesso di identificare in modo chiaro le cornici evitando possibili e pericolose confusioni nei diversi passaggi da un livello all’altro è stato il lavoro di supervisione .

Il risultato di tutto questo percorso può essere sintetizzato in questa immagine del ”giudizio universale” di Escher che mi appare come una danza in cui le parti sono equidistanti ed equivicine. Ed è ciò che è accaduto agli attori di questo percorso che si sono distanziati per vedersi meglio e capirsi e

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si sono avvicinati per costruire insieme delle soluzioni possibili.

Grazie, a questo straordinario autore che con le sue costruzioni impossibili, le sue esplorazioni dell’infinito, i suoi effetti paradossali e di ambiguità visiva mi ha permesso di rendere visibile i molteplici significati di coloro che osservano con prospettive differenti e lasciano insinuare il dubbio nelle loro riflessioni: “Are you sure that a floor cannot also be a ceiling?”

Bibliografia

Colombara A. , Handicap e servizi, in Andreoli L. – Colombara A., Corso di mediazione e counselling ad orientamento sistemico-Materiale didattico, Magenta, stampato in proprio, 2008.

Campanili A., Luppi F., Servizio Sociale e modello sistemico, NIS, Roma, 1993.

Metelli M. , Tesi di specializzazione in mediazione e consulenza sistemica: un cambiamento di prospettiva – L’ingresso della teoria sistemica nelle relazioni di aiuto , Sessione marzo 2009

Moro M.R., Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.

Walsh F., Ciclo vitale e dinamiche familiari, Franco Angeli, Milano, 1995.

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SEZIONE 2

Attivare la rete per sostenere i bambini coinvolti nella separazione dei genitori: lo strumento dei Gruppi di parola Cristina Bellini, Laura Giusti, Giovanna Lucchini, Lara Patrono, Alberto Moretto

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SEZIONE 3

Counseling e sviluppo di rete interfunzionale in azienda

Zilia Mirko

LA RETE IN AZIENDA

La rete in azienda è intesa come l’ insieme di tutte le relazioni nel sistema azienda o nei suoi sotto sistemi.

Per capire meglio le dinamiche relazionali all’ interno dell’ azienda è fondamentale scomporre l’ azienda in sottosistemi e capire come questi entrano in comunicazione reciprocamente sviluppando una rete su vari livelli.

Rete di I° Livello => insieme delle relazioni all’ interno di un team

Rete di II° Livello => insieme delle relazioni tra team o funzioni diverse (Rete Interfunzionale)

Sono responsabile di team in un’ azienda multinazionale leader di mercato nel settore alimentare.

Mi sono proposto come Counselor all’interno dell’organizzazione iniziando a costruire rete con il management e con il mio team per favorire l’introduzione del lavoro proposto. Come si vedrà alla fine, la rete può autoalimentarsi in maniera efficace grazie alla partecipazione delle persone.

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MACRO SISTEMA: AZIENDA

Nella rappresentazione classica dell’organizzazione aziendale vediamo il macro sistema azienda come una piramide statica al cui vertice stanno i responsabili e alla cui base si posizionano le persone operative con livelli intermedi a seconda della relativa responsabilità.

L’azienda nella quale lavoro sta affrontando questo periodo di crisi cercando di mantenere le proprie quote di mercato e consolidando il vantaggio competitivo attraverso la leadership delle persone.

Negli ultimi anni il management ha puntato molto sul coinvolgimento e la crescita dei propri dipendenti.

In una così grande realtà aziendale rimane però ancora molta distanza tra il management e le persone.

La strategia è sviluppata dal vertice che spesso decide gli obiettivi facendoli cadere a cascata sui livelli sottostanti.

D’altra parte le persone avendo poca visibilità sulla strada da percorrere si limitano a mettere in pratica le direttive ricevute durante l’operatività quotidiana.

Si crea pertanto una frattura all’ interno dell’ organizzazione che blocca il passaggio delle informazioni.

In questo contesto è fondamentale che i Team Leader crescano come facilitatori della comunicazione e dello sviluppo di rete efficace.

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INQUADRAMENTO DEL FOCUS GROUP NEL SISTEMA AZIENDA

Lo stile di leadership è spesso basato sulla ricerca della produttività e dell’efficienza. Per raggiungere questi due obiettivi e per garantire il controllo su tutta l’organizzazione il modo più veloce è chiedere una specializzazione alle persone.

Il management si aspetta dalle persone impegno, proattività, motivazione, ma probabilmente conosce ancora poco del loro stato d’ animo, dei loro momenti di disagio e di frustrazione.

Allo stesso tempo le persone, abituate a lavorare per obiettivi, con un elevato grado di specializzazione, subiscono le attività richieste e in molti casi sono inconsapevoli delle cause di un eventuale malessere.

Ho deciso di introdurre il focus group in ambito aziendale e più precisamente all’interno del mio team.

Obiettivo del focus group era di aiutare le persone a migliorare l’ambiente lavorativo favorendo il benessere pur nel rispetto dei compiti, delle responsabilità e degli obiettivi aziendali.

Negoziazione con il management

Primo passo per poter iniziare il lavoro di focus group in azienda è stato presentare il progetto al management ed in particolare al direttore risorse umane e al mio responsabile.

Da un primo colloquio ho capito che si trattava di concetti conosciuti dai miei interlocutori, pertanto ho deciso di

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condividere gli obiettivi per far capire quale fosse l’importante valore aggiunto per l’azienda.

La negoziazione è stata fondamentale all’ inizio del progetto, ha permesso di gettare le basi per la costruzione di una rete di relazioni che lo rendessero sostenibile e mi ha permesso di raggiungere il primo obiettivo che mi ero posto: il progetto doveva essere legittimato dall’azienda.

Negoziazione con il team

Poche persone conoscono il counseling, proporre il focus group senza dare loro informazioni sarebbe stato controproducente.

Molto spesso in azienda le persone devono affrontare attività nuove a causa di obiettivi posti dall’alto, scarsamente condivisi, proporre un focus group senza una minima conoscenza di cosa esso sia poteva essere affrontato negativamente dai componenti del team che lo avrebbero interpretano come l’ ennesima attività in più da svolgere.

Prima dell’avvio del focus group sono stati fondamentali la negoziazione con i componenti del team e l’ascolto delle loro reazioni. Sono partito con il progetto solo quando tutti i componenti del team erano realmente motivati.

Da un primo sondaggio è emersa la necessità di avere più informazioni. Ho deciso quindi di organizzare un primo incontro, con un taglio puramente descrittivo e introduttivo.

Il secondo obiettivo raggiunto, prima dell’avvio del progetto, è stato coinvolgere e motivare le persone.

Costruzione rete in azienda

Il team leader inizia pertanto a ricucire la rete spezzata tra management e persone

PRESENTAZIONE DEL FOCUS GROUP AL TEAM

Il primo incontro

Ho preparato una presentazione nella quale ho spiegato il mio percorso di Counselor all’esterno dell’azienda.

Ho inoltre ripreso i concetti emersi da una survey aziendale di due anni prima. I risultati della survey evidenziavano che il

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team aveva bisogno di migliorare engagement e empowerment.

Ho concluso la presentazione mostrando la struttura del progetto.

La presentazione doveva cogliere l’attenzione e coinvolgere emozionalmente fin da subito. La scelta è stata corretta, le persone hanno dato un feedback molto positivo dimostrando entusiasmo.

Il team aveva raggiunto il suo primo obiettivo: dare senso , significato a un progetto. E’ frequente che si svolgano attività senza capire bene gli obiettivi finali o svolgere una attività solo perché è stata richiesta da altri.

Le persone notano il cambiamento e il team si trasforma. La struttura subisce un cambiamento guidato dallo stile di comunicazione che passa da un modello lineare direttivo a un modello circolare.

Nel nuovo modello circolare il team leader tesse la rete dall’interno del suo gruppo e non dall’esterno.

Le persone acquisiscono individualità nel sistema team

PRIMI INCONTRI DI FOCUS GROUP

Primo e secondo incontro: analisi dei bisogni e discussione degli stati d’ animo

Condivisione di bisogni, emozioni, stati d’ animo;

Ascolto degli altri

Rispetto reciproco (tempo che ognuno prende nella discussione)

Rete di primo livello

Costruzione della rete all’ interno del team

Il terzo incontro: analisi dei bisogni

Ho deciso di iniziare l’incontro riepilogando quanto discusso durante la prima sessione.

Per ogni bisogno emerso abbiamo indicato come si sentono le persone se il bisogno viene soddisfatto e, al contrario, come si sentono se il bisogno non viene soddisfatto.

E’ stato un passaggio importante. Inizialmente le persone hanno dimostrato scarsa attenzione, giudicandolo scontato. E’ stato più semplice parlare di come ci si sente se il bisogno non viene soddisfatto.

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Ho lasciato che la discussione fluisse nella direzione più favorevole e naturale.

A seguire, grazie al contributo di tutti, si è deciso di evidenziare anche le conseguenze positive.

Questa fase è servita per prendere consapevolezza delle motivazioni di ognuno e delle principali cause che determinano frustrazione o insoddisfazione.

Ci siamo accorti che connotare in modo preciso sia le emozioni positive sia le emozioni negative aiuta a migliorare la consapevolezza.

Abbiamo infine ricondotto tutti i bisogni emersi in 3 bisogni dominanti: partecipazione, riconoscibilità all’ interno dell’azienda, controllo di ciò che si sta facendo.

Riassumendo ulteriormente: dare significato al proprio lavoro attraverso la relazione e la condivisione delle decisioni con gli altri.

Il terzo risultato raggiunto dal team è stato superare la fase di frustrazione per un compito arduo e superarla insieme creando energia e motivazione.

Il quarto incontro: individuazione delle azioni

E’ stato chiesto alle persone come intendevano continuare il percorso. In maniera molto naturale il team ha deciso di iniziare a elaborare azioni per ogni bisogno.

Bisogno di partecipazione

Prima azione: istituire un momento di team finalizzato all’aggiornamento.

Un incontro periodico della durata massima di venti minuti per non appesantire le attività quotidiane, durante il quale il responsabile aggiorna i componenti del team sulle attività prioritarie o su nuovi progetti, ma al tempo stesso lascia la possibilità a chiunque lo desideri di condividere con gli altri argomenti che ritiene importanti.

Seconda azione: condivisione della mappatura di tutte le attività seguite dal team e dei relativi owners.

Bisogno di riconoscibilità

Prima azione: preparare una chart riassuntiva che spieghi l’organizzazione del team con indicazione delle macro attività seguite da ogni componente. La slide dovrebbe essere poi inviata a tutti gli altri gruppi.

Seconda azione: impostare un dashboard con i principali indicatori di area e relativo owner. Ognuno è responsabile della propria attività, ciò che risultava mancante era fare in modo che ogni persona fosse altresì responsabile dell’aggiornamento delle reportistiche da condividere negli incontri con fornitori o con altre aree all’ interno dell’azienda.

Bisogno di controllo

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Prima azione: costruzione di un file con indicazione delle attività tassative.

Dalla discussione era emerso che la maggior parte delle attività risultava coperta da un owner e da relativo backup. Si potevano creare momenti di tensione se determinate attività prioritarie o assolutamente necessarie non venivano gestite per assenza di entrambi.

Il team ha dimostrato perciò molta responsabilità e senso di appartenenza.

Seconda azione: condivisione di un file di traccia dei progetti o delle attività complesse. Ogni persona è responsabile dell’ aggiornamento sullo stato di avanzamento delle attività di sua competenza.

Nuova trasformazione della rete all’interno del team

Le persone durante il terzo e quarto incontro hanno costruito insieme un action plan. Lo hanno fatto attraverso un confronto aperto e una negoziazione.

La rete si espande attraverso un nuovo modello di comunicazione. Abbiamo visto come si era passati da un modello lineare a un modello circolare. In questa fase il modello di comunicazione diventa interlocutorio.

Cominciano a capire cioè che aprendosi agli altri possono raggiungere obiettivi impostati insieme:

• Alignment => In ogni momento le persone sono aggiornate

• Engagement => Maggior coinvolgimento e entusiasmo

• Empowerment => le persone si responsabilizzano, si accorgono che per essere soddisfatti non ci si può accontentare della semplice operatività. Bisogna dare significato al proprio lavoro e portare il cambiamento.

Osservazione dei comportamenti nella quotidianità

Crescita della rete di primo livello

Ruolo del team leader => da DECISORE a COUNSELLOR/COACH/FACILITATORE DI RELAZIONI

Ruolo dei componenti => da ESECUTORI a RESPONSABILI

Relazione => Viva, quotidiana, dinamica => Genera ENERGIA

Attività => da COMPITI SPECIFICI a PROCESSI

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OSSERVAZIONE DEI COMPORTAMENTI

Abbiamo visto come, partendo da un ascolto reciproco, le esigenze personali si sono trasformate in attenzione verso il benessere del team.

Nel primo incontro le persone parlavano di bisogni individuali. Nei successivi incontri invece è emersa la necessità di engagement. I partecipanti si sono resi consapevoli che quanto più si condivide tanto più si provano sensazioni positive nello stare in ufficio.

La prima azione che abbiamo attivato è stato l’ incontro giornaliero di aggiornamento. I primi appuntamenti sono stati seguiti con entusiasmo e ho notato grande spontaneità nel comportamento delle persone.

Inizialmente si trattava di semplici incontri di aggiornamento reciproco. Negli incontri successivi i componenti davano il

proprio contributo agli altri condividendo idee e soprattutto energia.

Conoscendo le attività degli altri, attivazione della seconda azione circa il bisogno di partecipazione, è stato interessante osservare che tutti hanno iniziato a fare rete all’ interno del team. L’effetto è stato portentoso.

La collaborazione reciproca ha sviluppato sinergie e di conseguenza ha permesso il raggiungimento di ottimi risultati pur garantendo una razionalizzazione delle risorse.

Inoltre si è notato una crescita delle competenze. Prima le persone erano altamente specializzate e poco conoscevano dell’attività svolta dagli altri. Facendo rete le persone hanno ampliato le proprie competenze.

Con la crescita della rete di primo livello crescono tutti i partecipanti.

I componenti da semplici esecutori diventano responsabili della propria attività.

Il Team Leader, prima ingabbiato nel suo ruolo di preposto/decisore, ora favorisce la comunicazione e la relazione ma allo stesso tempo supporta e incoraggia.

Si instaura un rapporto di fiducia reciproca rendendo possibile il processo di delega.

RETE DI SECONDO LIVELLO: Rete interfunzionale

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OSSERVAZIONE DEI COMPORTAMENTI

Nei mesi successivi i componenti del team, ormai padroni delle propria attività, hanno iniziato a inquadrarle in processi più ampi.

Si è iniziato a parlare sempre più di processi e di filiera anche all’ interno dell’azienda anziché di risultati specifici chiusi nel cerchio ristretto del team.

Le persone, sviluppando Empowerment, tendevano sempre più a cercarsi le informazioni e ciò le portava ad uscire dal team. Prima del focus group, si tendeva a demandare il problema al proprio responsabile che parlava direttamente con i responsabili degli altri uffici creando pertanto un collo di bottiglia e una deresponsabilizzazione delle persone.

Uscendo all’esterno del team si sono trovati di fronte però una situazione diversa da quella del team.

Gli altri team possono chiaramente avere obiettivi e priorità diverse e quindi non è così scontato che ci sia una collaborazione spontanea.

Sono intervenuto, non sostituendomi però a loro. Se lo avessi fatto avrei bruciato il rapporto di fiducia instaurato. Ho ritenuto importante dimostrare coerenza con il lavoro svolto.

Mi sono confrontato con i miei collaboratori e ho proposto loro dei colloqui individuali e di gruppo dove avrei svolto una funzione di Coach.

Durante questi incontri è stato importante analizzare le cause sottostanti alla mancata collaborazione e fare in modo che le persone definissero una strategia per i prossimi incontri con colleghi degli altri team. Il livello di frustrazione era elevato e annullava l’ entusiasmo iniziale, pertanto in ogni incontro ho ritenuto importante chiedere alle persone cosa di buono avessero fatto per renderli consapevoli di ciò .

Questo processo di costruzione di rete interfunzionale è molto più lungo perché come detto devono collimare obiettivi e priorità. Ciononostante si sono notati miglioramenti. I componenti del team hanno migliorato la propria capacità di negoziazione e di relazione e proposto iniziative che hanno generato sinergie cross function (eliminazione attività ripetute).

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RETE AZIENDALE

CONCLUSIONE

Il focus-group ha messo in evidenza quanto sia importante porre in essere le condizioni per coinvolgere le persone (engagement), ma al tempo stesso, stimolarle a cercare spazio e coinvolgimento (empowerment).

E’ fondamentale pertanto coltivare ogni giorno una rete multilivello e interfunzionale altrimenti l’intento del management rischia di non venire realizzato.

Le persone vivono ogni giorno questa frattura invisibile nella comunicazione con i livelli sovrastanti e con gli altri team.

Durante il confronto è emerso quanto siamo inconsapevoli degli stati d’animo e delle emozioni durante la giornata lavorativa.

La specializzazione può portare soddisfazione perché ogni giorno si può valutare la propria produttività, d’ altra parte però tende a alienarci nel nostro comparto, non capire dove si inquadra il nostro lavoro all’ interno dei processi aziendali, subire una dinamica di competizione tra colleghi e uffici perché non ci conosciamo e non conosciamo le attività degli altri.

Quest’ultima slide è una rappresentazione nuova dell’organizzazione aziendale, un’ organizzazione di rete dinamica che si muove e cambia grazie alle persone al proprio interno.

Per iniziare a realizzare questa visione è importante che i Team Leaders cambino, crescano e diventino sponsor di relazioni efficaci.

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SEZIONE 4

Il lavoro di gruppo e la costruzione di reti sociali

Zaniboni Marco

Abstract

Descrivo l’esperienza di ricerca-azione che ho vissuto nel ruolo di facilitatore di un gruppo di lavoro chiamato a realizzare un progetto ministeriale per la progettazione e la sperimentazione di interventi a favore delle famiglie a rischio di povertà ed esclusione sociale. Il gruppo, composto da persone che pur appartenendo alla stessa organizzazione non aveva mai lavorato insieme, è stato investito di grandi aspettative, talvolta ambivalenti o in conflitto, che ne hanno inizialmente limitato l’efficacia. La cura dei processi relazionali, attraverso l’utilizzo del contratto (English, 1992) e l’assunzione di un atteggiamento contrattuale (Rotondo, 1986) improntato all’Okness, hanno orientato il mio approccio con il gruppo, favorendo la costruzione dell’alleanza di lavoro.

E’ stato così possibile, per ciascuno, acquisire nel tempo consapevolezza delle proprie risorse, esprimerle e scambiarle. Nel gruppo di lavoro i partecipanti hanno elaborato l’esperienza come fonte di apprendimento, traducendola in un percorso progettuale

finalizzato alla costruzione di reti sociali nei propri contesti territoriali.

Introduzione

L’associazione per la quale lavoro è SOS Villaggi dei Bambini, un’organizzazione di respiro internazionale alla quale aderiscono in Italia sette Cooperative Sociali, i “Villaggi SOS”, che si occupano di accoglienza e programmi di rafforzamento familiare per la prevenzione dell’abbandono di bambini e ragazzi. All’interno dell’Associazione Nazionale svolgo il ruolo di counsellor e formatore.

In questo momento storico, caratterizzato da una progressiva contrazione delle risorse per il welfare, SOS Villaggi dei Bambini ha ottenuto attraverso un bando ministeriale, “Le idee di domani”, il finanziamento di un progetto per la realizzazione di interventi a favore delle famiglie a rischio di povertà ed esclusione sociale. Il progetto ha durata biennale e prevede un primo anno di analisi, ricerca e progettazione di interventi che verranno sperimentati nel secondo anno. Il progetto prevede la partecipazione di una molteplicità di attori:

➯ Ministero (Dipartimento per le Politiche per la Famiglia)

➯ Associazione Nazionale SOS Villaggi dei Bambini

➯ Villaggi SOS di Mantova, Morosolo, Roma, Saronno, Ostuni, Vicenza

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➯ Servizi territoriali

➯ Università di Bari

➯ Istituto degli Innocenti di Firenze

➯ Famiglie beneficiarie

Il contratto

Come mettere assieme tanti punti di vista molto diversi, alle volte anche contrastanti, ciascuno con la propria mappa cognitiva, il proprio linguaggio professionale, i legittimi interessi, tenendo conto delle risorse e dei vincoli in campo?

In Analisi Transazionale e’ il processo di negoziazione del contratto, che Berne definisce “un esplicito impegno bilaterale per un ben definito corso d’azione” (Berne, 1966), lo strumento che consente di definire il campo di azione, chiarire la natura delle relazioni tra gli attori e condividere gli obiettivi da raggiungere. Contratto quindi inteso come strumento intersoggettivo, etico, fondato sul riconoscimento della pari dignità e responsabilità di ciascuno degli attori coinvolti, in una parola basato sull’Okness.

In un contesto di rete, i soggetti che danno luogo al processo di negoziazione del contratto devono essere almeno tre, dal momento che, per definizione, una rete presuppone l’esistenza di “un intreccio di fili annodati fra di loro”. In questi casi, quando cioè i soggetti sono più di due, in Analisi Transazionale facciamo riferimento ai contratti triangolari e multipli, che presuppongono, per estensione della definizione

di Berne, un esplicito impegno multilaterale. Queste tipologie di contratti vengono rappresentate come nei diagrammi seguenti e consentono di procedere ad analisi più raffinate sulla natura dei rapporti tra i diversi soggetti.

Il contratto triangolare (F. English, 1975)

Le grandi potenze

Il mio contratto

Il vostro contratto

Il nostro contratto concluso oggi

IO VOI

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Contratti multipli

I Soggetto

III Soggetto IV Soggetto

II Soggetto

V Soggetto

Un primo contratto “a più mani”

Il progetto ministeriale oggetto di questo contributo è stato avviato sulla base del contratto a più mani stipulato tra il Ministero, l’Associazione Nazionale e i Villaggi SOS:

➯ Il contratto tra il Ministero e l’Associazione Nazionale riguarda principalmente gli aspetti amministrativi del progetto (erogazione fondi e rendicontazione).

➯ Il contratto tra il Ministero e i Villaggi SOS concerne la promozione e la comunicazione su quanto realizzato attraverso i fondi erogati.

➯ Il contratto tra l’Associazione Nazionale ed i Villaggi SOS definisce l’impianto organizzativo del progetto, con la costituzione di 3 gruppi di lavoro formati da personale dei Villaggi SOS e coordinati dall’Associazione Nazionale:

1. un gruppo direttivo, con compiti di monitoraggio e valutazione del progetto;

2. un gruppo amministrativo, con il mandato di curare la rendicontazione;

3. un gruppo operativo, dedito alla ricerca, progettazione e sperimentazione degli interventi previsti nel progetto.

Prendo in esame il gruppo operativo, focus del presente contributo, composto da me in qualità di facilitatore per conto dell’Associazione Nazionale e da uno o due colleghi per ciascuna delle realtà territoriali coinvolte. Complessivamente, il gruppo risulta formato da nove persone, sette donne e due uomini:

➯ 2 psicologhe/psicoterapeute

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➯ 2 counsellor

➯ 1 pedagogista clinica

➯ 1 pedagogista

➯ 3 educatrici professionali

Il mio ruolo consiste nel facilitare la strutturazione ed il funzionamento del gruppo operativo, fornire materiale di approfondimento sulle tematiche affrontate, raccogliere i bisogni formativi e promuovere percorsi per soddisfarli.

Il doppio livello di funzionamento del gruppo operativo

La formalizzazione degli aspetti organizzativi è una condizione necessaria ma non sufficiente perché un gruppo realizzi proficuamente i propri obiettivi. Infatti, ciascun partecipante porta nel gruppo, più o meno consapevolmente, bisogni e aspettative che possono interferire con il raggiungimento degli obiettivi dichiarati. Esiste cioè in ciascun gruppo un duplice livello di funzionamento:

➯ un livello manifesto, codificato in regole, ruoli e procedure che riguarda gli obiettivi espliciti del gruppo; livello che Bion chiama “gruppo di lavoro” e Berne (Berne, 1966), analogamente, “struttura pubblica”;

➯ un livello latente, inconscio che ha a che fare con le fantasie, i bisogni, le emozioni personali dei membri del gruppo, livello che Bion definisce “gruppo di base”,

corrispondente alla “struttura privata” postulata da Berne (Berne, 1966).

Fin dalla conduzione del primo incontro del gruppo operativo colgo alcune problematiche che sembrano avere a che fare con questo duplice livello di funzionamento:

➯ un mandato non sempre chiaro e coerente tra i componenti del gruppo;

➯ un clima relazionale connotato da coloriture emotive poco in sintonia con il qui e ora della situazione;

➯ linguaggi professionali diversi a volte utilizzati più per marcare territori e differenze che per arricchire il confronto;

➯ la presenza di comportamenti passivi (astensione dal prendere parola o produrre documentazione, agitazione).

L’esercizio della leadership

Interpreto il mio ruolo di facilitatore tenendo conto dei contenuti di lavoro e al contempo accogliendo e fornendo un contenitore ai vissuti emotivi che di volta in volta emergono nei diversi stadi di vita del gruppo (Clarkson, 1991). Vissuti che rimandano agli assunti di base di dipendenza, attacco e fuga e accoppiamento di Bion. La possibilità di parlare apertamente delle proprie emozioni in un setting protetto e rispettoso alleggerisce l’operatore, rende possibile il rispecchiamento empatico tra i colleghi favorendo una maggiore coesione del gruppo. Diventa così possibile condividere una modalità comunicativa potente, che veicola il

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permesso di “ripulire” alcune aree di pensiero, contaminate da aspettative “magiche”, eccessi emotivi o da (pre)giudizi di valore assunti e riproposti come dati di realtà. La costruzione ed il consolidamento di un’alleanza di lavoro fondata sulla fiducia aiuta a fare emergere le risorse del gruppo. In particolare, ciascuno incomincia a mettere a disposizione:

➯ le proprie competenze professionali;

➯ le buone prassi, spesso innovative, che hanno attivato sul territorio;

➯ la passione per il proprio lavoro;

➯ la curiosità per il lavoro dei colleghi.

La cura dei processi comunicativi aiuta il gruppo operativo a strutturarsi come uno spazio/tempo di pensiero, capace di produrre visioni sul futuro che, apprendendo dalle esperienze del passato, possa guidare una trasformazione del presente.

Il gruppo operativo in azione

Aiuto il gruppo a ripartire nei momenti di empasse, mettendo al centro del campo relazionale le famiglie destinatarie del progetto: quando in un gruppo di lavoro prevalgono i bisogni personali dei suoi membri, è facile per il gruppo perdere di vista gli obiettivi di lavoro. Il percorso progettuale si sviluppa, a volte faticosamente, come un processo circolare che, a partire dalle ipotesi di lavoro individuali, porta man mano ad una rappresentazione sintonica delle problematiche da affrontare e a tradurle in oggetti di lavoro sufficientemente

chiari, realistici e condivisi. L’ascolto competente dei pensieri e dei vissuti di ciascuno favorisce il confronto sugli specifici contenuti di lavoro e l’avvio di una progettazione partecipata. Mi ispiro liberamente al diagramma di Kreyenberg (Kreyenberg, 2005) per illustrare il processo di lavoro del gruppo:

Valori intuizioniconcetti ipotesi

Analisi, osservazioni,valutazioni

Rappresentazione dei

problemi

Progettazionepartecipata

Definizionedegli oggetti

di lavoro

Interventi

Un percorso infine virtuoso che consente al gruppo di realizzare il mandato ricevuto e di cristallizzare i risultati in modo da renderli visibili, scambiabili, tramandabili:

➯ elaborazione di linee guida e di strumenti operativi per gli operatori;

➯ formalizzazione e valorizzazione delle buone prassi esistenti;

➯ attivazione/implementazione di nuovi servizi.

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Le ricadute nei territori

Si sono avviate le sperimentazioni in rete di pratiche innovative in Italia, quali la Family Group Conference, un modello d’intervento per lavorare con le famiglie favorendo la loro diretta partecipazione alla soluzione dei problemi (family decision making) e delle difficoltà che si trovano ad affrontare; si sono aperti servizi di ascolto e sostegno alla famiglia che prevedono una pluralità di offerte (dal counselling, al servizio di sostegno alla genitorialità, allo Spazio Neutro); si sono attivate case d’accoglienza “genitore con bambino”. Si è inoltre generata un’energia creativa a sostegno della motivazione a riproporre su ciascun territorio analoghe esperienze di gruppi di pensiero (Enriquez, 2012): gruppi di riflessione strategica, capaci di operare una ricomposizione tra interventi spesso frammentari. Un lavoro che risponde alla necessità di ottimizzare le risorse, in un momento storico nel quale le politiche economiche comportano spesso tagli considerevoli al welfare, tagli che vanno a colpire le persone vulnerabili e le famiglie.

Posso rappresentare quanto realizzato attraverso questo progetto attraverso il “contratto triangolare nel contesto” (J. Hay, 2000), nel quale ciascun attore porta il proprio punto di vista ed il bisogno di comprendere la natura delle relazioni che lega tra loro gli altri attori: l’esplicitazione di tutti i contratti in gioco aiuta a costruire alleanze di lavoro fondate sulla fiducia e riduce i rischi di sovrapposizione degli interventi ed il conseguente spreco di risorse. Il radicamento territoriale e la conoscenza profonda delle realtà

socioeconomiche e delle culture presenti, ha consentito, a partire dalle linee guida elaborate nel primo anno del progetto, di realizzare interventi mirati.

Nei diversi territori, ciascun “gruppo di pensiero” ha interpellato le comunità locali e le famiglie per co-costruire un modello d’intervento basato su un approccio ecologico finalizzato a:

➯ produrre riflessioni e sviluppare reti di prossimità in contesti multiculturali profondamente segnati dalla crisi economica;

➯ promuovere un sistema di sostegno più ampio ed efficace rispetto agli interventi assistenziali in essere, spesso dispersivi;

➯ accompagnare le persone a conoscere e utilizzare le risorse, a volte ignorate o sottovalutate, del territorio;

➯ aiutare le famiglie vulnerabili a diventare risorsa per sé e per altre famiglie vulnerabili.

In conclusione

La metariflessione sull’esperienza del gruppo operativo ha fatto emergere anche alcuni esiti relazionali non pianificati:

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➯ il modellamento dei processi relazionali, fonte di apprendimento per gli operatori che hanno utilizzato il contratto e l’atteggiamento contrattuale per l’attivazione ed il coordinamento delle reti territoriali;

➯ la consapevolezza della necessità di curare la rete che cura, un tema quanto mai attuale alla luce della mole di lavoro sempre più imponente che grava sugli operatori sociali. L’esperienza nel gruppo ha permesso agli operatori di legittimare i propri bisogni e di richiedere una supervisione centrata non solo sul progetto o sui casi, ma anche sui propri vissuti.

Bibliografia

BERNE E. (1966), trad. it. Principi di terapia di gruppo, Astrolabio, Roma 1986

CLARKSON P., trad. it., Imago gruppale e stadi di sviluppo del gruppo, in «Neopsiche», n.16, 1991

ENGLISH F. (1992), Essere Terapeuta, La Vita Felice, Milano, 1998

ENRIQUEZ E., Essere un gruppo che pensa, in Animazione Sociale, n. 262, aprile 2012

HAY J., Organizational Transactional analysis: some Opinions and ideas, in «Transactional Analysis Journal» vol. 30 n.3, 2000

KREYENBERG J., Transactional Analysis in organizations as a Systemic Constructivist Approach, in «Transactional Analysis Journal» vol.35 n.4, 2005

ROTONDO MAGGIORA A., La contrattualità in analisi transazionale, in «Neopsiche», anno 4 n.8, 1986

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SEZIONE 5

In biblioteca anch’ioDoneda Alessandra

!

Il progetto "In biblioteca anch'io" è il frutto di una collaborazione con la biblioteca di Segrate che è da sempre attenta alle richieste dei ragazzi con disturbi di apprendimento e alle mamme dei bambini dislessici.

E’ nata così l’idea di creare presso la biblioteca una stanza multimediale dove i ragazzi dislessici, insieme ad amici, famiglie ed insegnanti, si possano ritrovare per utilizzare gli strumenti informatici. Lo scopo di questa “stanza” era quello

di rendere conosciuti e fruibili libri, audiolibri, libri digitali e voci sintetiche al pubblico della biblioteca, e dare a tutti la possibilità di sperimentarsi.

Insieme all’acquisto dei computer e tablet sono stati proposti due corsi di formazione, uno rivolto alle insegnanti ed uno rivolto ai ragazzi insieme ai genitori di cui parlo. Il progetto è stato interamente finanziato.

Gli incontri per genitori e ragazzi sono stati condotti da me, in qualità di counsellor che svolge attività che riguardano i Disturbi Specifici di Apprendimento ed i metodi compensativi come computer e tablet.

Contrariamente a quanto avviene di solito, gli incontri sono stati volutamente indirizzati a genitori e ragazzi insieme.

OBIETTIVO

Spesso a causa delle difficoltà a scuola in famiglia le relazioni sono tese, spesso si litiga, l’argomento unico delle interazioni ragazzi-genitori riguarda i compiti e la scuola. I genitori faticano a comprendere il “modo di funzionare” dei loro figli e capita che cerchino di imporre il loro metodo di studio, oppure quello suggerito dalle insegnanti. I ragazzi si ritrovano così a fare un grande lavoro di continua rincorsa e fatica, senza vedere risultati gratificanti.

Per me, invece è ed era importante anche in quel caso, far riconoscere e sperimentare dal vivo diverse modalità di studio, in modo che ogni ragazzo potesse vedersi attraverso le

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differenze con gli altri e studiare con la nuova tecnologia in maniera personalizzata.

Sui genitori, invece, l’obiettivo era quello di mettere in luce le differenze tra ragazzo e ragazzo, in modo da aumentare le competenze di osservazione e renderli capaci di fare da tutor e da specchio per i loro figli. Attraverso la sperimentazione aiutarli a trovare insieme il metodo di studio più efficace.

Dunque, la parola chiave che ha caratterizzato questa esperienza è stata “differenza” in senso batesoniano, conoscere l’altro attraverso l’osservazione e la sperimentazione di differenze.

GLI INCONTRI

La partecipazione agli incontri di genitori e ragazzi insieme è stata notevole, nonostante la pubblicizzazione fosse stata poca e in tempi molto ristretti. Questo indica che c’è molto bisogno di incontrarsi, avere informazione e formazione su questo tema.

Il primo incontro, aperto anche agli insegnanti della scuola, è stato di presentazione del lavoro che si sarebbe fatto negli incontri successivi: con un computer attaccato ad un videoproiettore ho presentato l’uso degli ebook e dei libri in pdf, degli audiolibri, delle risorse su internet, dei filmati e delle presentazioni, e delle registrazioni che rendono più facile e divertente la lettura per chi fa fatica. Ho fatto sperimentare ai ragazzi l’uso delle voci sintetiche e del programma per fare mappe mentali e schemi.

I successivi tre incontri sono stati invece dedicati solo ai ragazzi ed ai loro genitori. Il metodo utilizzato negli incontri è stato quello di far impratichire i ragazzi nell’uso delle mappe e dei programmi di videoscrittura mentre parlavano di loro stessi e delle difficoltà a scuola.

Inoltre i ragazzi sono stati stimolati a riflettere su quelle che sono le loro reazioni di fronte all’assegnazione di un tema.

Le loro riflessioni sono poi state scritte nella mappa: "Cara Prof."

!Tav. 1 “Cara Prof.”

Da questa tabella si evince che i ragazzi provano emozioni forti: mi colpiscono il senso di impotenza e la profonda frustrazione. Alcuni affermano di non avere in mente niente, di aver voglia di fuggire. Credo non si autorizzino a mettere sul foglio le proprie idee, sono troppo abituati ad essere poco

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valutati che alla fine smettono di mettersi in gioco: hanno sperimentato il fallimento diverse volte, e le idee si bloccano per evitare una nuova possibile debacle.

Attraverso le domande cerco di mettere in luce anche le differenze positive utilizzando le materie preferite. E’ interessante notare come le materie preferite siano moltissime. Viene addirittura citato l’inglese da cui, , teniamo presente, i ragazzi dislessici sono per lo più esonerati perché considerato troppo difficile.

E c’è da notare che, durante il commento a questa tabella, mi è sorta spontanea questa domanda che ho rivolto a Martina: “Come ti spieghi che ti piaccia inglese anche se difficile?” La sua risposta di getto è stata: “Perché la prof. è bravissima, mi tratta bene e mi aiuta!”.

Da questo tipo di risposte emerge molto bene come questi ragazzi sappiano scegliere con chi valga la pena di fare fatica! Mi rivolgo ai genitori presenti chiedendo cosa ne pensano. Spesso infatti i genitori che incontro mi dicono: “E’ ancora immaturo, se l’insegnante non gli sta simpatico, non studia.”

Non è strano quindi che alcuni dei genitori restino stupiti quando insieme arriviamo a considerare che questo comportamento può essere letto come segno di grande maturità: hanno la capacità di scegliere chi tra gli insegnanti è attento a “sentire” la loro fatica. E’ logico, hanno bisogno di risollevare l’autostima, ma appena trovano qualcuno che li ascolta e li “vede”, si impegnano al massimo, anche in materie difficili. Utilizzando il programma per costruire le mappe

affrontiamo l’ansia del foglio bianco. Insieme abbiamo visto che la mappa mentale è uno strumento che permette di esprimere tutte le idee tipo “brainstorming”, di metterle su un foglio a caso e poi farle ruotare e spostare come si desidera.

Decidiamo di dare l'ordine più adatto, di cancellare e aggiungere altre idee, in modo da organizzare la mappa come uno schema per il tema:

!Tav 2 Mappa ordinata

Una volta fatto questo lavoro, è molto facile con un “copia ed incolla” trasferire lo schema del tema sul foglio Word o su un qualsiasi programma di videoscrittura.

Scrivere il testo a partire da uno schema è facilitante per vari motivi: mette in ordine i vari argomenti e, riga per riga, ogni allievo potrà sostituire alle parole chiave dello schema le frasi

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formate, facendo attenzione che nella frase siano contenuti i soggetti, i verbi ed i complementi (non è raro infatti trovare frasi monche nei temi di questi ragazzi, perché strada facendo dimenticano dei pezzi). Al posto del punto o del trattino dello schema basta sostituire una congiunzione oppure la punteggiatura più adatta (i ragazzi con DSA spesso fanno estrema fatica ad introdurre sia le congiunzioni che la punteggiatura). Attraverso lo schema, i ragazzi hanno più probabilità di scrivere in modo meno sgrammaticato e con la punteggiatura.

!

• Cara Proff. … • quando faccio un tema mi sento • mi viene voglia di andare in bagno • non mi viene in mente niente • non so cosa scrivere • faccio finta di stare male • voglio finire presto • emozioni • paura • ansia • frustrazione • impotenza • noia • mi piacerebbe che • non ci fossero più verifiche • niente compiti • meno noiose le lezioni • coinvolgere i ragazzi • non leggere ma spiegare a voce • bacchetta magica • mettere sempre voti belli • materia preferita • falegnameria • lavoro manuale • scienze • inglese • storia • ricerche • epica • ginnastica • italiano • filosofia • arte !!

A questo punto pongo alcune domande per aiutare i ragazzi a confrontarsi sulle modalità di “funzionamento” di ciascuno di loro, invitandoli a descrivere il loro modo di lavorare. I ragazzi hanno subito colto il punto e si sono confrontati sull’esecuzione pratica, sul fare: alcuni usano già il computer da tempo, qualcuno corregge gli errori mentre svolge il testo, qualcuno lo riascolta, qualcuno corregge alla fine. Abbiamo sperimentato come l’utilizzo delle mappe non sia facile; occorre fare fatica ed esercizio ad imparare, a verificare se si guadagna o si perde tempo.

Ho poi chiesto loro se qualche adulto ha mai notato o valutato il loro miglioramento e la velocità di scrittura, ma la risposta unanime è stata: “no!”

Riflettendo con i genitori è emerso che anche loro si sono accorti da sempre della fatica dei loro figli nell’eseguire i lavori scolastici, ma poi non hanno notato quel miglioramento che davano quasi per scontato dovesse per forza avvenire. E, purtroppo, anche le insegnanti tendono a non valutare questo aspetto.

I ragazzi sono poi tornati a confrontarsi sulle materie.

Abbiamo rilevato le differenze fra i docenti: alcune maestre o professoresse sono più accoglienti e/o hanno un metodo di insegnamento e di verifica più adatto rispetto a chi è troppo intransigente.

Allora ho posto alcune domande che spostassero l’attenzione sulla possibilità di azione dei ragazzi stessi:

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“In che modo un insegnante potrebbe aiutarvi? Come potrebbe farsi capire meglio? Come potreste farvi aiutare da un insegnante? Come potreste migliorare il rapporto con un insegnante? Come attraverso la più simpatica potrebbe migliorare anche il rapporto con gli altri docenti?”

Il tempo non è molto per parlarne e così rimando a loro stessi, sotto forma di idee e non di compito, le domande che abbiamo lasciato senza risposta. Sappiamo infatti che una buona domanda continua a lavorare nel tempo.

Questo ragionamento nasce dall’idea della circolarità delle relazioni e dal fatto che i ragazzi non debbano subire i legami. Anche loro hanno delle possibilità di agire delle differenze che migliorino le relazioni. Inoltre è emersa anche dai racconti dei genitori, l’idea che ciascuno di loro ha stili di apprendimento e metodi di studio diversi ed unici. A loro volta, anche gli insegnanti possono aver bisogno di essere aiutati da ragazzi competenti che sanno mettersi alla prova e farsi conoscere per essere meglio aiutati. Sono i ragazzi stessi che, rafforzati, diventano autori di richieste precise adatte al loro modo di apprendere.

PARLARE DI EMOZIONI

Nel secondo incontro abbiamo continuato nella formazione pratica sull’uso delle mappe partendo dalla richiesta di una mamma.

Come Counsellor non ho risposto alla domanda della mamma, ma l’ho rilanciata ai ragazzi: "da cosa si vede che uno studente si impegna?".

Le risposte, immediate, sono state: “si vede dai comportamenti: quando uno studente fa fatica, si impegna e, se si impegna, ottiene risultati positivi”.

La domanda successiva è stata: "ma come si fa a vedere se uno fa fatica?". I ragazzi all’unisono hanno pensato ai compiti eseguiti male, al fatto che, se uno fa fatica, si vede perché fa tanti errori e scrive male.

Qui è interessante notare come i ragazzi distinguano l'accezione positiva della fatica legata all'impegno, da quella di fatica legata alle difficoltà. Per i DSA è normale far fatica e raggiungere scarsi risultati. Ma se per loro sono proprio gli scarsi risultati a denotare la mole del loro impegno, per genitori e professori solo i risultati buoni sono la "prova" dell'effettivo lavoro.

Qui siamo in un paradosso: secondo il pensiero comune a studiare si fa fatica, ma se uno la fa con impegno ed abnegazione ottiene ottimi risultati. I risultati scarsi e pieni di errori per i ragazzi con DSA sono la “prova” della enorme fatica che fanno, ma solo per loro, che guardando il loro compito e sanno cosa è costato. Tutti gli altri invece, secondo il pensiero comune, associano un compito fatto male a poca voglia, disattenzione e poco impegno.

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Da qui il dubbio della mamma, che vede i “sudati” compiti, ma non vede dentro la testa del ragazzo o della ragazza.

In conclusione, l’enorme fatica che accompagna il ragazzo DSA non si vede, ma ha come effetto il senso di impotenza e la frustrazione. “Anche se faccio molta fatica, il mio impegno non è dimostrabile”. Di conseguenza, neppure i ragazzi se lo riconoscono, perché non ci sono risultati.

Attraverso gli strumenti compensativi, si possono invece ridurre la fatica migliorando i risultati e mettere in luce il fatto che non sono "fannulloni".

!Tav 3 Come si capisce se uno si impegna?

Ora che i ragazzi si sentono riconosciuti, cominciano a fare gruppo tra di loro. Anche i genitori cominciano ad avere un

nuovo sguardo, si riconoscono pensieri che sotto sotto avevano fatto, ma che non si erano permessi di esprimere ad alta voce.

Anche questa volta però cerchiamo le differenze: tornando a parlare di libri digitali facciamo un giro scambiandoci idee sul modo in cui i ragazzi imparano meglio: qualcuno dice di imparare facendo esercizi e, mano a mano, guarda la teoria che serve, altri imparano guardando le figure e ascoltando, altri imparano con le mappe.

Proviamo ad ascoltare un libro digitale letto dal computer e a fare una mappa, ma anche ad utilizzare le immagini e le associazioni per organizzare ed orientare lo studio.

Per chiudere parliamo anche del mostrare oralmente la preparazione di ciascuno: cosa è più difficile per ciascuno nelle interrogazioni? Per qualcuno è difficile ricordare, per qualcuno parlare bene, per altri ricordare a quale argomento del libro si riferisce la domanda, altri si bloccano con il vuoto in testa per l'ansia.

Allora ci scambiamo qualche strategia: registrarsi gli schemi a fine libro e ascoltarli per imparare le parole, fare mappe con tante immagini per il ripasso, mettere colori per ogni capitolo del libro.

Anche spiegare alla “prof” quali sono le difficoltà che si hanno e farsi dare consigli è farsi aiutare: le insegnanti non possono sapere come funziona la testa di un ragazzo, ma se loro stessi

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imparano ad apprezzarsi, poi possono farsi conoscere ed aiutare dall’esperienza dei docenti.

L’incontro si conclude con l’assegnazione di un duplice compito: osservare l’insegnante con cui si trovano meglio e come fare ad imparare e a studiare.

Il compito ha la funzione di prendere nota delle differenze e favorire la conoscenza del proprio stile di apprendimento e studio e di associarlo ad uno stile di insegnamento adatto al singolo ragazzo.

GRUPPO DI AUTOAIUTO

Nel terzo incontro abbiamo parlato del Gruppo e per farlo abbiamo visto come usare internet per cercare immagini che aiutino ad esprimere anche concetti astratti, a fare associazioni per esprimersi, ad avere più idee e ricordare.

Tutti avevano il loro computer e si sono sintonizzati con la rete della biblioteca, con utente e password. Abbiamo visto le varie offerte della media library: ebook, audiolibri ecc.

Siamo andati a vedere il sito ‘‘Lions’’ per cui la biblioteca fa da intermediario offrendo anche i lettori mp3.

Poi abbiamo compilato la "solita" Mappa, ciascuno con la sua mindmap, cmap ecc.

Abbiamo anche cercato di fare una mappa ad immagini, ad esempio con la parola "gruppo di amici". Tra le varie immagini ne è stata scelta una che meglio rispecchiava l’idea

di questo gruppo. Nell'immagine ci sono bambini, ragazzi, adulti e sembrano molto concentrati su qualche cosa da fare. Un ragazzo in particolare ha dato il suo contributo inserendo uno ‘smile’, insomma, il gruppo si è rivelato una risorsa, ha aiutato, ha permesso di far emergere similitudini, differenze, fatiche e … il divertimento nell’uso del computer!

Fra gli aspetti positivi degli incontri il fatto di sentirsi meno soli, l’aver trovato idee nuove per capire come muoversi nello studio e nella scuola.

Ma… il tempo è stato tiranno e così abbiamo chiuso pensando che sarebbe bello trovarsi ancora in biblioteca, con altri amici, compagni, mamme e perché no con la propria classe!

!

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Ci lasciamo con il desiderio di poter presto provare i meravigliosi programmi che la biblioteca acquisterà e ci insegnerà ad usare!!

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SEZIONE 6

Counseling in tema di giustizia riparativa. Un’esperienza nelle scuole della Provincia di Novara

Alliata Alcesti

Il progetto “Una giustizia del fare” è stato promosso dalla Regione Piemonte, in collaborazione con la Provincia di Novara e il CSV, centro servizi per il volontariato di Novara. Nell’ambito del progetto sono stati coinvolti il Centro di Mediazione Penale di Torino e il Centro Studi “Federico Stella” sulla giustizia penale e la politica criminale dell’Università Cattolica di Milano.

Il tema proposto dal progetto riguardava la giustizia riparativa e la sua applicazione. Esso nasceva dall’esigenza di porre attenzione alla ricerca di possibili soluzioni alternative all’applicazione della sola pena tradizionale nei confronti del reo: l’obiettivo è il recupero educativo di colui/colei che ha commesso un reato e un impegno effettivo nella riparazione delle relazioni in gioco (vittima, reo, comunità coinvolta).

Il fenomeno criminoso viene letto, quindi, non solo come trasgressione ad una regola, ma anche come evento che provoca la rottura di aspettative e legami sociali che hanno la possibilità di trovare una riparazione.

Viene così ampliata la lettura del conflitto e questo permette di dare risposte diverse e alternative alla trasgressione della regola.

Il progetto prevedeva tre fasi:

1) un periodo di formazione degli insegnanti delle scuole di tutta la Provincia novarese sul tema “giustizia riparativa e sue possibili applicazioni”. A questa fase sono stati invitati a partecipare anche alcuni operatori – counselor ed educatori – attivi sul territorio novarese. La formazione è stata curata dal Centro Studi “Federico Stella” dell’Università cattolica di Milano.

2) la progettazione da parte degli insegnanti, degli operatori coinvolti e dei Mediatori del Centro di Giustizia Penale Minorile di Torino di laboratori pratici/esperienziali da effettuare nelle classi delle scuole coinvolte nel progetto

3) la realizzazione dei laboratori nelle classi: ogni laboratorio prevedeva il coinvolgimento di un operatore, un insegnante e dei ragazzi.

In questa terza fase, ho avuto occasione di portare il counseling nella scuola a me assegnata.

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Le scuole coinvolte nel progetto erano 5 (scuole Superiori di Novara) e i laboratori proposti 12. Ogni operatore ha gestito 4 laboratori, in classi diverse: quasi tutte le classi coinvolte erano delle prime.

Il lavoro di rete, tema della giornata di oggi, è stato realizzato all’interno della progettazione e realizzazione dei laboratori da portare nelle scuole di Novara. I soggetti coinvolti hanno portato esperienze molto diverse. Da una parte i Mediatori del Centro di Giustizia Penale hanno condiviso la loro esperienza quotidiana sul campo e la loro modalità di approccio con i minorenni coinvolti in reati penali: hanno cioè condiviso con il gruppo di lavoro pratiche di mediazione e di confronto dialogico. Dall’altra gli insegnanti hanno portato nel gruppo la loro esperienza riguardo alla gestione di intere classi o di alcuni studenti in tema di rispetto delle regole: la modalità più spesso utilizzata nelle scuole si è rivelata quella repressiva/punitiva, quale unico strumento. Tuttavia è venuto in luce da parte degli insegnanti il bisogno di gestire la relazione con i ragazzi in maniera differente. Parlare di regola, trasgressione alla norma e riparazione del conflitto ha fatto emergere in maniera prioritaria e forte l’importanza di prestare cura alla relazione e alla sua qualità.

Proprio questo aspetto è stato il nucleo di attenzione da parte degli operatori (me come counselor, un educatore e una formatrice) nell’organizzazione e gestione dei laboratori nelle classi. All’interno della maggior criticità del progetto (i tempi limitati dello stesso), è emersa la necessità di realizzare un

primo passo all’interno di un cambiamento culturale in tema di rispetto delle regole.

Le specificità di questo primo passo sono state:

- Il coinvolgimento dei ragazzi quale parte integrante del dialogo (i ragazzi sono stati visti come interlocutori e non come soggetti passivi della sperimentazione)

- La possibilità di espressione dei ragazzi stessi, attraverso lavori esperienziali

- Il confronto dialogico tra ragazzi e insegnanti coinvolti nel progetto (attraverso un vero e proprio “passaggio di consegne” agli insegnanti, per poter proseguire il lavoro nelle classi)

Ancora una volta, il tentativo è stato quello di lavorare in rete con gli insegnanti stessi, che hanno potuto partecipare con un ruolo attivo durante i laboratori. Al centro di questa parte di intervento, c'era la possibilità di aprire un dialogo tra le due “parti”, che aprisse all'ascolto reciproco e alla possibilità di comprendersi.

I laboratori sono stati incentrati sul tema della norma: come viene vissuta dai ragazzi? La norma è solo un limite, o anche un valore? Essa, nel corso della vita scolastica di ciascuno, viene a volte subìta, a volte desiderata, qualche volta compresa e in certi casi rifiutata. Al centro del lavoro con le classi c’è stato il senso che la norma riveste per ciascuno e come questo senso si ripercuote sugli altri, sul gruppo dei pari

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e nel mondo adulto in generale (docenti, dirigente, servizi scolastici).

In ciascuna classe, sono stati realizzati tre incontri di due ore ciascuno nell'arco di tre settimane: per tutto il periodo, la rete è stata di grande supporto sia come confronto tra operatori che conducevano i laboratori, sia per la supervisione dei Mediatori del centro di Giustizia Penale Minorile di Torino.

Parlare di regole con i ragazzi, soprattutto in alcune scuole, non è stato sempre semplice, ma forse più di tutto non è stato facile superare la loro incredulità di essere ascoltati, di essere considerati come un punto di vista che vale (che ha valore e che vale la pena di ascoltare). Questa forse è la rete che, lavorando nelle scuole, possiamo e dobbiamo costruire: un'alleanza con i ragazzi che permetta l'aprirsi di un terreno di scambio, mantenendo, ovviamente, le regole all'interno della relazione docente-studente, ma non precludendosi la possibilità di andare incontro all'Altro, come Persona, soggetto portatore di significati e vissuti.

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SEZIONE 7

Dare ascolto come processo di cambiamento: l’esperienza di counselling in un servizio al lavoro.

Sabrina Scavo

Il Servizio al Lavoro

Il Servizio al Lavoro è un servizio accreditato presso la Regione Lombardia finalizzato a favorire l’inserimento lavorativo ed a sostenere l’occupazione.

Suo compito è progettare e mettere in atto tutti gli strumenti utili all’inserimento lavorativo. E’ dunque importante ideare percorsi che vedano differenti step operativi come ad esempio: colloqui informativi – bilancio di competenze, affiancamento stesura cv, tutoring e counselling orientativo, percorsi formativi per aggiornamento a ampliamento competenze, definizione di un piano di intervento personalizzato.

A chi è rivolto: persone inoccupate e disoccupate, da breve o lungo termine; persone con tante esperienze lavorative o

poche esperienze molto settoriali; persone con problematicità varie legate anche alla famiglia, alla sfera economica, alla sfera relazionale.

La ricerca del lavoro oggi

Assistiamo ad un costante cambiamento rispetto a qualche anno fa nelle modalità di richiesta e ricerca del lavoro, che diventa oggi di per sé un Lavoro.

Non è più sufficiente conoscere il luogo di lavoro e presentarsi di persona, ma tutto diventa parte del processo e condizione determinante di una possibile assunzione: il modo in cui ci si presenta, il CV, la conoscenza degli strumenti può influenzare l’assunzione o il contatto con i datori di lavoro.

Oggi è necessario passare da intermediari, come ad esesmpio le agenzie interinali, dove sono dei professionisti a fare selezione del personale. Quindi è necessario preparare, accompagnare e sostenere la persona che cerca lavoro, nel reperimento dei contatti, nel loro mantenimento, negli inevitabili momenti di sconforto e delusione.

Il counselling nel Servizio al Lavoro

Sono tante le fasi che caratterizzano il percorso di una persona che si rivolge ad un servizio di questo tipo, dal momento di accoglienza e di informazione, alla stesura di un curriculum vitae, alla ricerca attiva o al bilancio di competenze. In ognuno di questi momenti le pratiche di counselling possono venire in aiuto sostenendo il

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professionista nel progettare e metter in opera un percorso che sia davvero utile e vantaggioso per il cliente.

E’ necessario avere obiettivi chiari e concreti, nel breve e medio termine, sostenendo continuamente la persona nei propri vissuti.

Soprattutto nel primo momento di accoglienza è molto importante cercare di comprendere le problematiche per poter rispondere al bisogno in modo adeguato. In questo, come nel resto del percorso, ascolto attivo, assenza di giudizio ed empatia permettono una lettura il più possibile veritiera della situazione. In questo modo l’accoglienza diventa davvero uno spazio prezioso dove offrire il primo aiuto, orientare e accogliere innescando quel processo di cambiamento presentando in modo chiaro, semplice e breve il significato dell’incontro e quello che si può prospettare.

All’interno del Centro Studi della Coop. Soc. Gulliver di Varese, il colloquio di accoglienza, in qualsiasi servizio avvenga, è un’apertura anche agli altri servizi, per poter progettare l’intervento migliore in risposta ai bisogni espressi dall’utente. Grazie a questa condivisione è possibile molto spesso poter andare incontro alle esigenze della persona componendo un intervento che la veda seguita da più figure: consulenza individuale, consulenza di coppia, accompagnamento e orientamento lavorativo e formativo.

Inoltre sono molti i servizi con cui siamo chiamati a collaborare, sempre con l’obiettivo di rispondere in modo adeguato alla persona: Consultorio Familiare, Comunità

Terapeutiche, Progetti territoriali, Centri per L’impiego, Collocamento mirato disabili, Servizi ed enti sul territorio.

Ragionando sui vari momenti del percorso di orientamento lavorativo in un ottica legata al counselling viene data forza e rilevanza ai significati che emergono dal racconto delle storie delle persone.

Grazie a questo, anche quella che può sembrare la semplice stesura di un Curriculum Vitae diventa un’occasione preziosa di rilettura della propria storia personale e professionale, delle tappe che l’hanno caratterizzata, delle motivazioni dei cambiamenti; la stesura cronologica dei propri impieghi mette ordine nei ricordi e così permette di far luce su avvenimenti che hanno determinato cambiamenti anche radicali di professione. Qui come nel bilancio di competenze l’occhio, e l’orecchio, è sempre puntato verso le potenzialità, nel permettere alle persone di riconoscersi come portatrici di caratteristiche positive e di abilità utili al rimettersi in gioco.

E’ possibile, in questo modo, far emergere e rinforzare la consapevolezza circa le esperienze, abilità e competenze e sviluppare la conoscenza di sé, discutendo anche le difficoltà riscontrate.

Questo tipo di lavoro dà anche alla fase di ricerca attiva un nuovo e più grande significato: non solo passaggio di informazioni o risposta ad annunci ma continuamente mettersi in gioco, ampliando la propria rete di riferimento, stabilendo obiettivi precisi.

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Le difficoltà in questa fase sono il convivere con la frustrazione di essere colui che chiede, il supporto è fondamentale per non perdersi e svilirsi.

Abilità di counselling nel Servizio al Lavoro

ν Ascolto attivo

ν Relazione di Fiducia

ν Rimando empatico

ν Accettazione positiva incondizionata

ν Ricerca dell’attivazione personale

ν Giusta vicinanza / distanza

ν Lavoro d’équipe

“Farsi prossimo con amore richiede di donare all’altro la propria presenza. All’interno di questo movimento si situa come compito fondamentale il dare ascolto. Dare ascolto è più pregnante del semplice ascoltare, è fare dono all’altro dell’accoglienza decisiva: è lasciare che l’altro sia accanto a me, di fronte a me, è lasciare che mi parli con tutta la sua persona.”

E. Bianchi, 2011

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CAPITOLO 5

“Counselling: coraggio e creatività”

Convegno CNCP Lombardia 2013

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SEZIONE 1

“Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale”. Il counselling sistemico a servizio di un Caseggiato AlerEdoardo Carnevale Schianca

Abstract:

A Pavia un Progetto della durata di tre anni si pone l’obiettivo di sviluppare una rinnovata capacità di vivere relazioni e di aggregare cittadini di tutte le età e origini. Lo fa attraverso 8 interventi rivolti ai pavesi che vivono nella zona occidentale della città. Uno di questi interventi ha come strumento di lavoro il counselling sistemico e si svolge all’interno di un Caseggiato Aler, da anni sede di grande disagio e di forti conflitti tra gli abitanti. Senso di abbandono, totale assenza di regole condivise, luoghi abusivamente occupati sono il contesto in cui si muove l’intervento.

Relazione:

Scena1: uno studio, magari in un bel palazzo signorile, allestito in modo da rappresentare il setting ideale per un buon colloquio. Qualche minuto del primo incontro dedicato alle formalità, due parole sul consenso alla privacy e l’autorizzazione o meno all’utilizzo della videocamera per

riprendere l’incontro a scopo formativo per gli allievi della scuola e poi via! Inizia un bellissimo percorso di counselling in cui professionista e cliente partono per un’avventura che li porterà ad esplorare possibilità, a formulare ipotesi, a riattivare risorse sopite. E fin qui tutto bene. Ecco il contesto ideale per un intervento di counselling che ha come obiettivo facilitare la possibile soluzione di un momento di empasse.

Scena2: un cortile dismesso, una panchina rotta, un ammasso di foglie che nessuno raccoglie. Piccole biciclettine con le rotelle rotte … le bici e le rotelle. Volti che osservano di nascosto dietro alle tende delle finestre. Un caseggiato popolare alla periferia di una città di provincia. Qualcuno che inizia ad uscire dalla propria Scala di pertinenza (così si chiama la palazzina in cui le persone vivono, scala A, scala B, ecc). Nessuna possibilità di essere visti come una risorsa, di essere cercati. Nessun setting. Ma l’empasse c’è eccome! Basta avere occhi, orecchie e cuore e i problemi li vedi ovunque. Le possibili soluzioni no.

Scena1: inizia una fase di esplorazione con una serie di domande rivolte al cliente per cercare di capire in che cosa consiste l’empasse e che cosa lo ha portato a decidere per il counselling. A quel punto si approfitta per definire bene che cosa sia un intervento di counselling e quali le differenze con la terapia. Tutto procede molto bene. Iniziano le riformulazioni su quanto il cliente ci ha portato e le possibili ipotesi di un obiettivo su cui lavorare.

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Scena2: “E’ di Aler lei!!??” Qui le domande le fanno loro! E non le fanno col sorriso e con l’attenzione alla comunicazione verbale e non verbale. Le fanno per dirti che non sei benvenuto … o almeno questa è la prima netta impressione. Però sono usciti dal loro appartamento e, sforzandosi di lavorare con una buona connotazione positiva, questa è già una dimostrazione di interesse. La signora avrebbe potuto continuare tranquillamente a guardare dalla finestra. Invece è scesa ad incontrarmi. Poi inizia una conversazione civile in cui provo a spiegare che, grazie ad un progetto, avremo la possibilità di incontrarci spesso e che Aler (quella stessa Aler che lei detesta) ha messo a disposizione uno spazio, un piccolo appartamento nel Caseggiato, per creare occasioni di incontro, ascolto e counselling. Qui però non c’è stata la spiegazione di che cosa sia il counselling. La signora non era interessatissima. Sembrava invece più colpita (favorevolmente) dal fatto che quell’appartamento, che è vicino al suo, non fosse destinato ad un altro drogato o straniero. Quello sì che l’ha capito e non c’è stato bisogno di una riformulazione. In più il fatto che, da almeno cinque minuti, stessimo chiacchierando in mezzo al cortile del Caseggiato ha fatto succedere che un’altra signora e un giovane uomo uscissero di casa e si unissero al gruppo.

Scena1: La buona conversazione di counselling è ormai entrata nel vivo e, definito un chiaro obiettivo, si inizia ad esplorare con quali risorse il cliente possa raggiungerlo. Ci si interroga su che cosa abbia impedito di risolvere prima la questione e che cosa si potrebbe fare di diverso. Si lavora sulle

differenze e, da buon sistemico, si cerca di iniziare ad introdurre nuovi modi di leggere quell’empasse cercando di capire dai feedback se questa novità è colta o meno. Un continuo lavoro di proposta, feedback, retroazione, feedback, ecc.

Scena2: “E’ di Aler lei!!??” Chiede la seconda signora molto arrabbiata. Ma questa volta non faccio nemmeno in tempo a rispondere perché la prima signora prende in mano la situazione: “No! E’ il mio nuovo vicino!” A proposito di riformulazioni! A quel punto sento che devo riprendere in mano la leadership della conversazione e ridefinisco chi sono io, che cosa è il progetto e perché la signora mi ha presentato così. A quel punto inizia un’ora di intenso scambio di informazioni durante il quale i tre mi raccontano il “loro” Caseggiato. E’ il loro racconto e sarà diverso dagli altri cento racconti che si potranno fare, ma è un racconto pieno di fatica, rabbia e senso di abbandono e, soprattutto, senso di impotenza. “Le cose, se va bene, restano così … ma probabilmente peggioreranno.” Ecco l’empasse!

Il trucco narrativo di affiancare le due scene, quella del tradizionale intervento di counselling e quella di un intervento molto destrutturato, è funzionale a mettere sotto un’enorme lente di ingrandimento il CORAGGIOSO e CREATIVO tentativo di proporre un “counselling di caseggiato”. Una forma di intervento in cui il cliente è rappresentato da una porzione di cittadini che vive in uno stesso edificio. Il cliente sono più di 150 persone. Il contesto è casa loro, il loro

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caseggiato; il problema è il degrado totale a cui sono sottoposti tutti i giorni e tutte le notti.

Si tratta quindi del tentativo di raccontare in un modo nuovo la situazione attuale e di costruire le premesse per poterla cambiare, in qualche modo.

Quest’azione sarebbe un fallimento sicuro se, nella rete che ha pensato e proposto il progetto, non fossero presenti soggetti coma la stessa Aler, il Comune, i Servizi Sociali, le Parrocchie di riferimento, le Associazioni no profit che lavorano in zona. Insomma un insieme di partner che si sostengono a vicenda e che possono immaginare di offrire una certa continuità anche alla fine dei tre anni di progetto.

Il modello che si sta cercando di sviluppare ha moltissimi punti di contatto con le abilità di counselling, rivolte a singole persone del Caseggiato, con colloqui personali, ma anche a gruppi . Si tratta di costruire insieme un nuovo modo di vedere il loro contesto e di facilitare il sorgere di nuove relazioni.

Gran parte delle situazioni di degrado come il mancato rispetto del regolamento, le cantine occupate, le situazioni di spaccio e di delinquenza, gli spazi comuni non curati, la paura a rientrare a casa oltre una certa ora, sono il risultato evidente di relazioni saltate e di un nuovo equilibrio in cui le regole accettate da tutti (per sopravvivere) sono l’indifferenza, la delega, la chiusura e la continua colpevolizzazione degli altri.

Si tratta allora di portare avanti un lavoro in cui si ascolta tutta questa paura, rabbia, impotenza, gli si dà una lettura condivisa e sufficientemente accettata e poi si inizia a condividere, in modo collettivo, un nuovo pensiero:

“Adesso, nonostante le cose siano in questa terribile situazione, che cosa possiamo fare?”

Un pensiero che ai più può sembrare banale, ma che contiene una serie di “novità” e che, accettato, può rappresentare la scintilla di un micro cambiamento.

Introduce il fattore TEMPO.

Quell’adesso segnala in modo chiaro che, nonostante ci sia stato un prima che ha avuto un forte impatto su tutto il Caseggiato, è possibile definire un nuovo intervallo di tempo che si chiama “d’ora in poi”.

La situazione attuale non è un destino ineluttabile dal quale non è possibile fuggire, ma se adesso le cose stanno così, è possibile che, tra qualche tempo, ci sarà un nuovo adesso in cui le cose andranno diversamente.

Introduce il fattore RESPONSABILITA’.

Il fatto che ci si chieda che cosa sia possibile fare, significa che si metta in conto che esistono azioni possibili. Questo permette di uscire dal circolo vizioso che ha prodotto un senso di impotenza.

Introduce il fattore RELAZIONE.

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Che cosa possiamo fare è una domanda posta in prima persona plurale. Questo non è banale in Caseggiato. Tornare a vedere l’altro come una risorsa, che sia il vicino di casa, il referente di Scala, il geometra di Aler o il counsellor, può rappresentare un grande salto di qualità.

Il tentativo di entrare in questo contesto rappresenta una grande scommessa: provare a “raggiungere” chi avrebbe necessità di counselling, ma non cercherebbe mai un counsellor.

Uscire dalle sedi tradizionali e confortevoli dei nostri colloqui per incontrare la gente nei luoghi difficili e scomodi.

Il futuro del counselling può avere a che fare anche con queste comunità di persone che, apparentemente sembrano essere chiuse all’incontro e al cambiamento, ma che, in moltissimi casi, hanno solo bisogno di nuove occasioni per rimettersi in gioco.

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SEZIONE 2

Un futuro sostenibile? Quando a ridecidere è un’intera comunità. L’esperienza di “energetica”Rosita Folli

Energetica, nata come centro di educazione ambientale, si è evoluta, grazie all’apporto degli strumenti di counselling e dell’analisi transazionale, nella direzione di una facilitazione di processi di cambiamento di quelle organizzazioni e comunità che intendono avviarsi su percorsi di sostenibilità.

Il concetto di sostenibilità è inteso come intreccio fra ambiente, società, cultura e psicologia individuale. Non è infatti immaginabile che le indispensabili modificazioni richieste dalla grave situazione ambientale avvengano senza tener conto di tutti questi fattori insieme, in una dimensione di complessità e di sistema.

Ecco dunque concretizzarsi una nuova opportunità per il counsellor. Opportunità che richiede creatività e coraggio: il cambiamento sociale deve infatti essere sostenuto e facilitato da persone e organizzazioni che abbiano profonda

consapevolezza degli obiettivi di salvaguardia dei beni comuni e al tempo stesso siano competenti riguardo a quei processi che possono portare un’intera comunità a decidere di modificare i propri comportamenti e a farlo nel modo più condiviso e radicato possibile. L’alternativa sarebbe imporre dall’alto scelte che verranno inevitabilmente vissute come vessatorie e, non appena possibile, disattese.Al contrario, nella costruzione di una rete che coinvolga il maggior numero di attori - enti locali, associazioni, aziende, centri di ricerca e singoli cittadini - e ne ascolti i bisogni e le istanze un territorio può trovare una risorsa fondamentale.

Le due capacità richieste al counsellor sono, come il nostro convegno ricorda: creatività e coraggio.Creatività. Nessuno ha finora dovuto affrontare le sfide alle quali ci troviamo di fronte. L’umanità fronteggia nuove e inedite responsabilità verso un mondo che è sempre più “uno” con la globalizzazione e tecnologicamente sempre più abile ma soggetto a rischi.Oggi dobbiamo creare ma anche ri-creare, utilizzando "ciò che c'è", trasformando i problemi o gli scarti in nuove opportunità e risorse.Essere creativi significa poi, usando la bella espressione di Franco Lorenzoni, diventare "saltatori di muri", uscire dai sentieri tracciati, saper guardare lontano.Coraggio. “Bisogna sperare nell'insperabile e operare per l'improbabile”, dice Edgar Morin. Siamo chiamati a scelte coraggiose per abbandonare stili di vita che hanno

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contraddistinto la seconda metà dello scorso secolo e avventurarci su percorsi che potranno ridare speranza e prospettiva a un’epoca di passioni tristi.Ma il coraggio non è solo audacia. È arrivato il tempo per cui non possiamo più prescindere da una riflessione etica, in particolare su quelle che sono le nostre responsabilità individuali e collettive: prenderci cura di noi, delle persone e del Pianeta.

Sfide appassionanti e impegnative che vedranno impegnati cittadini, imprese e società organizzata: saremo pronti, come counsellor, a dare il nostro fondamentale contributo?

Un modesto ma concreto esempio di facilitazione di un processo di presa di consapevolezza di una comunità è il progetto "Le 4R di Stradella: riduco, riuso, riciclo, rispetto" (finanziato da Fondazione Cariplo), in cui un'intera città si è confrontata in tutti i luoghi-simbolo (municipio, scuola, sedi delle associazioni, teatro ecc…) che le appartengono, su come gestire i propri rifiuti. La progettazione partecipata di decaloghi per le buone pratiche in ogni ambito cittadino si è affiancata a momenti ludici e alle più diverse creazioni artistiche ed espressive (trash art, spot video, teatro, rap), che hanno visto i cittadini mobilitarsi per trovare nuove "opzioni" e ridecidere insieme, trasformando un problema in opportunità.

Si tratta della ricerca di un cambiamento che non vuole essere “miglioramento”, “abbellimento”, “progresso”, come sottolinea Barrie Simmons, ma fa leva sull’accettazione, che

passa a sua volta da una profonda comprensione e presa in carico della propria personale responsabilità, all’interno di una più ampia responsabilità collettiva: queste sono le chiavi per una maggior armonia a livello personale, sociale e ambientale insieme. L’analista transazionale che si impegni in campo socio-culturale-ambientale può, a ragion veduta, affiancare processi ridecisionali in tutti e tre gli ambiti. Facilita la presa di coscienza dei problemi, avvia processi di decontaminazione dell’Adulto per consentire l’assunzione di responsabilità e le decisioni coerenti con il qui-ed-ora. Stimola il Bambino libero per la ricerca di soluzioni creative e inedite, per consentire il contatto con le emozioni più profonde. In questo modo potranno emergere la sofferenza per una natura schiacciata – dentro e fuori di noi - il piacere per il bello e l’armonia, la passione per una convivialità vicina alla fonte della vita stessa. Sollecita, infine, un Genitore Affettivo o Normativo che sappia prendersi cura di un ambiente ferito, sappia stabilire norme ferme, le rispetti e le faccia rispettare.

Si tratta di un processo lungo, complesso e faticoso ma anche entusiasmante, ricco di senso e di futuro.

Sitografia

http://www.community-problem-solving.net/ (sito del MIT)

http://www.ecoliteracy.org/ (sito del centro fondato da Fritjof Capra)

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http://www.schumachercollege.org.uk/ (sito del centro fondato da Satish Kumar)

http://rprogress.org/ (sito di Redefining Progress)

http://www.becitizen.com/ (sito di strategie di "economia positiva")

Bibliografia

F. Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli Editore, 1984

S. Kumar, Il cammino è la meta, Edizioni Fiori Gialli, 2006

V. Cogliati Dezza, Un mondo tutto attaccato, Franco Angeli Editore, 1998

J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono di vivere o di morire, Einaudi, 2005

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SEZIONE 3

Tecniche cognitive e tecniche espressive nel percorso di counselling: l’integrazione possibile

Alcesti Alliata

Il mio intervento nasce da una riflessione su come le due parole che danno il titolo al convegno di oggi possano essere riferite al progetto di cui vi racconterò oggi.

Se è vero che la creatività è uno degli aspetti fondanti del nostro mestiere di counselor, questo che vi presento è stato un lavoro creativo rispetto all'adattamento dato il contesto di cui parla la Gestlat. L'incontro con le individualità, con le persone – lungi da essere un incontro che si situa in uno schema predefinito – fa appello alla creatività e al coraggio, insite nella nostra professione.

Quando parlo di coraggio, mi riferisco alle parole di Rollo May nel suo L'arte del counseling: “il counselor non dovrebbe alleviare la sofferenza del cliente, ma piuttosto orientarla, canalizzandola in maniera costruttiva. Il cliente dovrebbe uscire dallo studio più coraggioso”. Il coraggio quindi di fare

un passaggio nella consapevolezza verso il cambiamento. Il coraggio di assumersi la responsabilità, il coraggio anche da parte mia di giocare un ruolo ben preciso che permettesse al gruppo di cui sto per raccontarvi, di compiere un passaggio, come individui e come gruppo.

L’intervento di counseling è stato richiesto all'interno di una Casa di accoglienza della mia città ed era rivolto ad un gruppo di volontari che hanno ruolo di coordinamento delle attività e all’operatrice (in totale, 6 persone). Strutturato in un percorso di 7 incontri della durata di un’ora e mezza, aveva come obiettivo quello di favorire un miglior andamento delle attività.

La Casa accoglie donne (eventualmente con bambini) che si trovano in un grave stato di disagio non avendo altro luogo in cui risiedere: i motivi possono essere i più diversi, dalla mancanza di lavoro, alla violenza in casa...

L'intervento di counseling è stato richiesto a seguito di una crisi verificatasi al momento del trasferimento della casa stessa in un edificio più grande: la crisi ha portato addirittura alla chiusura temporanea della Casa e all'interruzione di tutte le attività.

La mia proposta di lavoro nei confronti del gruppo di coordinamento delle attività, si basava su questi punti:

- Ascoltare esigenze, difficoltà e richieste da parte del gruppo (permettere, cioè, l’espressione di ciascuno e al tempo stesso l’ascolto da parte degli altri nel gruppo)

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- Migliorare il lavoro di squadra, rendendolo maggiormente efficiente

- Facilitare la comunicazione all’interno del team ristretto, definendo in maniera chiara e concordata ruoli e compiti di ciascuno

- Trasferire strumenti per la lettura degli eventi, in modo che il gruppo potesse, anche dopo l’intervento, essere indipendente e autonomo nelle scelte e nella risoluzione delle problematiche.

I primi due incontri sono stati dedicati all’ascolto delle problematiche e all’esplorazione e comprensione del gruppo nelle sue dinamiche. In questa prima fase, gli obiettivi di ciascuna partecipante suonavano come generici: “ritrovare una strada comune”; “cambiare il nostro modo di essere qui”; “ritrovare il senso di appartenenza e una maggiore coesione”; “trasmettere il senso di unione alle ospiti e ai volontari”; “trasformare i limiti in opportunità”. Oltre agli obiettivi di gruppo, sono emersi anche obiettivi più personali, riguardanti ciascuna partecipante, cioè più relativi al “funzionamento” comportamentale individuale. Sono emersi diversi temi: quello della norma (“come posso far passare un no”), legato a quello dell’accoglienza (“come far rispettare le regole, restando accoglienti”); il tema della gestione dei ruoli e delle relazioni; quello della gestione delle energie in maniera più produttiva ed infine come ritrovare l’entusiasmo e la motivazione.

Questa la prima complessità a livello più cognitivo.

Oltre ai racconti di difficoltà legate alla quotidianità nella casa, ho esplorato le emozioni: l’energia nel gruppo si è rivelata molto bassa. Sentimenti quali “frustrazione, demotivazione”; “rabbia”; “tristezza e senso di colpa”; “preoccupazione”, oltre alla stanchezza fisica sono stati il primo importante punto di partenza del nostro lavoro insieme.

Emergono, inoltre in questo quadro complesso, gli aspetti conflittuali non solo tra persone, ma anche interiori (“la paura di sbagliare è così forte, che preferisco restare un passo indietro”): è diffuso e pregnante il timore di non sapere più qual è la giusta direzione e un non fidarsi di sé e delle proprie risorse e qualità. La chiusura della Casa, avvenuta prima di questo percorso, è un momento-chiave difficile per tutte le partecipanti, che si ritrovano quasi “paralizzate” nell’azione. Da qui, parte l'accusa verso l'Altro.

Oltre a non permettere un ulteriore sfogo dei conflitti tra persone, è fondamentale per me chiarire il mio ruolo, disconfermando le eventuali attese di “risolutrice di difficoltà gestionali” e confermando e dando così valore ad un lavoro del tutto nuovo, diverso, altro che può portare al cambiamento personale. Credo che questo possa afferire al coraggio: l'emergere di questi conflitti interrogava me come counselor sul mio ruolo e sulla modalità di inserirmi nel gruppo. Un primo grande lavoro di pulizia rispetto al mio ruolo e un primo lavoro di assunzione di responsabilità da parte mia.

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La risorsa dell'efficacia del loro modo di lavorare (da un punto di vista organizzativo il gruppo di sei era una vera e propria “macchina da guerra”) ci porta a passare dalla dimensione del fare a quella dell’essere. L’idea che muove ora il nostro lavoro insieme è che non ci sia altro-da-fare e che si possa occupare di come si è, di come ci si relaziona l’una con l’altra.

Al fine di lavorare sul gruppo, visto come un unico organismo fatto di diverse parti, scelgo così di lavorare sui singoli, sulle difficoltà personali, sui vissuti. L’obiettivo sarà duplice: da un lato, permettere un lavoro su di sé più approfondito (anche se con i limiti dati dai tempi e dal contesto); dall’altra iniziare a mettere le basi per una maggiore integrazione di ciascuna partecipante nel gruppo. Seguendo l’approccio gestaltico secondo cui “il tutto è più della somma delle parti”, l’obiettivo finale è quello di ritrovare un gruppo in cui l’apporto del singolo (con limiti e risorse) possa essere un generatore di energia e non essere quindi più vissuto come uno svantaggio, o un limite.

Chiedo, quindi, alle partecipanti di disegnare un albero e di posizionare poi nello spazio il proprio disegno, in relazione agli altri alberi. Chiedo poi a ciascuna di raccontare ciò che ha disegnato, offrendo una chiave di lettura, derivante dal modello GAB (Genitore, Adulto, Bambino) derivante dalla Teoria Transazionale di Eric Berne. In base a questa auto-lettura, viene stimolata nel gruppo la capacità di ascoltarsi, descriversi, parlare di sé attraverso un proprio lavoro: la mappa di lettura viene consegnata al gruppo in modo che ciascuno possa leggere il proprio disegno. Sempre più i miei

interventi da qui in avanti, stimoleranno alla responsabilità personale e alla capacità di osservarsi, come primo momento per un cambiamento.

Questo è un ulteriore momento di ascolto l’una dell’altra, ascolto reciproco che si accentuerà esponenzialmente nel colloquio successivo.

In questi incontri parlare-di-sé-agli-altri è già un “andare verso” e non “andare contro” l'Altro in una duplice forma: comprendo l’Altro E esprimo il mio bisogno. Questo rappresenta il primo passo per una maggiore assertività da parte di ciascuna, (tengo conto dei miei bisogni e di quelli degli altri), nel tentativo di sostituire i propri atteggiamenti più aggressivi o più passivi (a seconda dei casi).

Sempre nell'ottica di stare con quello che il gruppo porta, comprese le resistenze, scelgo di portare il lavoro ad un piano più cognitivo e fornisco al gruppo una scheda, finalizzata alla messa in luce della responsabilità personale (stiamo ancora lavorando sull’essere), in maniera più specifica.

Invito le partecipanti a lavorare su una scheda, che comprende queste domande:

- Quello che voglio personalmente dal mio lavoro qui

- Quello che so riguardo a me che potrebbe impedirmi di trarne il massimo beneficio

- Che cosa mi piacerebbe dai partecipanti individualmente e dal gruppo

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- Come posso contribuire personalmente al lavoro qui

Come conduttrice poi lavoro singolarmente sulle risposte che ciascuno porta nel gruppo.

E’ molto importante qui riconoscere i vissuti di ciascuno come portatori di una ferita individuale e soggettiva che – lungi dal rappresentare un pretesto – possa essere riconosciuta da sé e dal gruppo (ma in primo luogo da sé), come fonte senz’altro di dolore. Al tempo stesso, valorizzare le proprie capacità e risorse dell’Io Adulto (non più Bambino) è un’assunzione di responsabilità anche davanti al gruppo.

Questo ha permesso una maggiore disponibilità all’ascolto dell’Altro, che ha magari una visione diversa, non per vittimizzarsi, ma per un reale scambio e aiuto tra le partecipanti.

Quest’ultimo aspetto è emerso chiaramente nell’incontro successivo, in cui tutti i componenti del gruppo tornano a parlare di come possono organizzare il loro lavoro, in un'ottica di comprensione delle esigenze dell'Altro e in ottica trasformativa: c'è un nuovo adattamento dato il contesto da parte del gruppo. Nasce, infatti, l'idea che si possa lavorare attraverso il gioco e non solo attraverso un apparato normativo che all'inizio era molto forte e solido rappresentando senz'altro la risorsa da cui partire e al tempo stesso un limite cui aggiungere nuove possibilità.

Il nostro ultimo incontro rappresenta la sintesi dell’evoluzione del gruppo nel corso dei nostri due mesi di lavoro insieme. Eccone la struttura:

- Primo momento di ascolto del corpo: sottolineata l’importanza di ascoltarsi, di non sottovalutare i segnali che il nostro corpo ci manda, perché da questo momento di auto-osservazione e ascolto può emergere un comportamento più consapevole, non dettato dalla “spinta a risolvere”, o dalla “spinta a non essere in grado di…” o da altre singole e specifiche spinte che ciascuno di noi ha.

- In un secondo momento, ho chiesto al gruppo di scrivere su un post-it che obiettivo ciascuno si pone “da domani” nella Casa; con quali risorse intende attuarlo e quale sia il primo piccolo passo possibile da fare dal giorno successivo. In questo passaggio viene messa in luce oltre alla responsabilità personale e alle risorse che ciascuno può portare nel gruppo, anche la concretezza delle piccole cose, per evitare grandi propositi e intenti che poggiano su frasi più generiche ma di fatto un po’ vuote di contenuti e azioni.

-Successivamente, ho chiesto a ciascuna di posizionare il proprio post-it su un grande disegno con un sole al centro: ognuna poteva posizionare il post-it più vicino o più lontano dal centro, a seconda di quanto sentisse lontano l’obiettivo da raggiungere. Questo ha fatto emergere in tutte le partecipanti la consapevolezza di un cammino da percorrere e di un cammino percorso, vedendo i passi da fare e anche quelli fatti,

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in un’ottica di maggiore fiducia in se stesse e maggiore motivazione.

-La consegna al gruppo da parte mia è stata quella di modificare la distanza dei post-it dal centro, ogni volta che ciascuna riconoscerà di aver fatto un passo avanti o indietro: piccolo gesto per ricordare di osservarsi, di nominare ciò che accade dentro di sé, di ascoltarsi e di essere visibili in maniera costruttiva davanti al resto del gruppo.

Un ulteriore stimolo è quello di realizzare altri cartelloni, o di cambiare obiettivi, di giocare con la propria evoluzione, prendendosi sul serio e al tempo stesso divertendosi.

La creatività non fa parte solo di certi luoghi: può entrare anche in posti in cui si è a contatto con il dolore dell’Altro, con la sofferenza e con le difficoltà materiali e oggettive. Il gioco non è sinonimo di leggerezza in un contesto difficile, che richiede serietà e rigore e accoglienza: il gioco può rappresentare – se utilizzato come tale, cioè come un’attività che ha delle regole – una chiave di volta importante per una gestione più dinamica e più efficace.

Sintesi e conclusioni

Questo percorso ha rappresentato uno stimolo colto da tutte, verso una maggiore identità come gruppo, rinforzando sì il senso di appartenenza, ma anche e forse soprattutto la necessità di una maggiore consapevolezza di sé. Nominare le emozioni ha rappresentato non solo l’opportunità di esprimersi, ma anche la volontà forte di mettersi in gioco e di

esser-ci con tutte le proprie parti. Riconoscere quelle parti permette (e potrà permettere) a ciascuna di prendersene cura come riterrà più opportuno e buono per sé e al tempo stesso di gestire il presente, sentendo alleggerito il peso dei propri limiti – limiti che arrivano dalla nostra storia e che al tempo stesso rappresentano il meglio che possiamo essere, dato il contesto. Questo non impedirà ad ognuna delle partecipanti di sbagliare, ma consentirà di attraversare le difficoltà con maggiore fiducia in se stesse e nel gruppo.

Ci tengo a chiudere con le parole di Martin Buber, filosofo che mi accompagna nel mio lavoro: “Se vedo una relazione come una opportunità per rinforzare tutto ciò che l'altro è […] l'ho confermato come una persona che vive, che è capace di uno sviluppo interiore, creativo”.

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SEZIONE 4

Vicino ai familiari dei giocatori d'azzardo condividere fatiche, trovare risorse e sperimentare nuove idee: gruppi di counselling per familiariAlessandra Bassi

Sono un counsellor professionista e sono operatrice sociale in alcune cooperative sociali: di gioco d'azzardo ho iniziato a interessarmi come responsabile di un servizio di prevenzione delle dipendenze.

Il gioco d'azzardo può dare dipendenza.

Nonostante questa sia un'evidenza scientifica, lo Stato italiano continua a permettere che le opportunità di gioco d'azzardo dilaghino in ogni spazio fisico e virtuale in deroga alla costituzione italiana che considera questo tipo di gioco un disvalore da limitare e normare.

Il decreto Balduzzi ha messo al gioco d'azzardo patologico l'etichetta di malattia, ma non ha stanziato fondi né per la prevenzione né per la terapia.

Molti Servizi per le Tossicodipendenze delle Asl (SerT) se ne fanno carico volontariamente da anni, con la fatica di lottare contro una dipendenza terribile e la frustrazione di vedere inascoltate in Parlamento le voci degli operatori, dei familiari dei giocatori d'azzardo e persino dei sindaci e delle Regioni.

Mentre intere famiglie si rovinano, il gioco d'azzardo viene pubblicizzato come soluzione a ogni tipo di problema, anche se alla fine degli spot, gli ascoltatori vengono velocemente invitati a giocare “il giusto”.

A paragone con gli alcolisti, che nella provincia di Piacenza si rivolgono al SerT quasi in ugual misura, i giocatori d'azzardo oggi in Italia arrivano al disastro economico e alla disperazione in un tempo molto veloce. La storia di un alcolista può svolgersi in molti anni, mentre ad un giocatore d'azzardo ne bastano molto pochi per rovinare sé e la propria famiglia.

Per i giocatori eccessivi e per le loro famiglie la situazione in Italia è particolarmente pesante e sembra anche senza senso, oltre che senza speranza.

Per i giocatori dunque ci sono servizi pubblici volontariamente coinvolti, ma per le loro famiglie non c'è praticamente nulla.

Un paio di anni fa, il medico del SerT che si occupava di giocatori d'azzardo mi ha fatto una richiesta formulata più o meno così: “al servizio non riusciamo a occuparci dei familiari in modo adeguato, stanno malissimo e noi invece non

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possiamo dar loro lo spazio di cui avrebbero bisogno. Per forza di cose appena arrivano chiediamo subito di collaborare, perché il loro impegno con il controllo del denaro è fondamentale. Come counsellor non potresti fare dei gruppi per i familiari?”.

Certo che potevo, e mi interessava tantissimo, per cui ho iniziato a lavorare per creare un contesto in cui l'idea potesse diventare un progetto che potesse funzionare.

Bisognava quindi tessere reti per coinvolgere altri soggetti che avrebbero potuto contribuire a rendere il progetto più solido e condiviso.

Una collega counsellor di Analisi Transazionale (AT) che lavora come responsabile di progetti sulle genitorialità difficili è stata il riferimento principale e la co-conduttrice dei gruppi. Il medico del SerT ha inviato i familiari al gruppo. I colleghi delle cooperative ci hanno supportato e così il gruppo di supervisione del Centro Milanese.

La ricerca di fondi è stata faticosa e abbiamo quindi coinvolto, oltre alle cooperative per cui lavoriamo, lo SVEP, cioè il centro servizi per il volontariato e il SerT.

La ricerca dei fondi era motivata soprattutto dal desiderio di dare al progetto la dignità professionale e la veste formale che lo stato italiano continuava a negare ai giocatori d'azzardo intrappolati nella dipendenza e ai loro familiari.

La struttura dei due percorsi era tipicamente quella dei gruppi di counselling: sei incontri di due ore ciascuno, in cui le regole indicate al gruppo all'inizio e praticate dai facilitatori permettono alle persone di fidarsi e di parlare sostanzialmente di sé, della propria esperienza e delle proprie domande. Le risposte a queste domande erano le persone stesse a darsele, spesso riflettendo successivamente su quanto avevano capito e sui suggerimenti che ciascuno traeva liberamente dall'esperienza del gruppo.

Ancora una volta abbiamo visto che partecipare a gruppi facilitati da counsellor permette alle persone di sperimentare spazi di condivisione delle proprie fatiche e soprattutto di acquisire maggiore consapevolezza delle proprie risorse e trovare nuove idee per affrontare le varie situazioni che possono far sentire in difficoltà.

I familiari dei giocatori d'azzardo erano inizialmente riluttanti a condividere un'esperienza così traumatica e fonte di vergogna come quella di scoprire che un proprio familiare ha mentito per mesi o anni e spesso ha indebitato la famiglia.

L'idea era proprio di realizzare uno spazio che permettesse a queste persone (mogli, madri, padri, sorelle…) di venire supportati in un contesto professionale e insieme non terapeutico.

La fiducia, e anche il percorso, si sono sviluppati a partire dall'ascolto e dall'accoglienza. Dopo aver espresso la loro riluttanza a parlare della propria storia, ciascuno ha potuto raccontare vicende quasi incredibili e sentirsi ascoltato, senza

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ricevere consigli o giudizi, ma trovando lo spazio per farsi domande e cercare risposte.

Nel gruppo facilitato dai counsellor i familiari, davvero sofferenti e angosciati, hanno potuto riconoscersi nell'esperienza di altri e quindi sentirsi “normali”.

Uno dei primi temi su cui si sono scambiati idee diverse è stata la comunicazione con gli amici e i parenti: chi era riuscito a fidarsi e a superare la paura e la vergogna aveva ottenuto molto aiuto e un supporto consapevole da quella cerchia di persone della famiglia a cui giocatori potevano rivolgersi per chiedere prestiti.

Altri temi molto importanti sono stati le fatiche del controllo del denaro (dal confronto, i familiari hanno sviluppato nuove idee su come reggere l’accompagnamento della terapia del giocatore d'azzardo eccessivo condotta dal Ser.T., ma basata in gran parte sull'impegno dei familiari), i sospetti della ricaduta e tutte le modalità per affrontare i vari problemi.

Per noi facilitatrici l'impegno maggiore è stato quello di mantenere il gruppo focalizzato sulle risorse, perché non era sempre facile per le persone, così sofferenti, uscire da sole dalla palude del dolore e dell'impotenza.

Oltre all'esperienza del gruppo, molto intensa e arricchente, questo progetto ci ha portati a una certa “dipendenza da progetti sul Gioco d’Azzardo Patologico ” e, cogliendo i suggerimenti delle reti in cui ci siamo inserite, abbiamo impostato altri progetti.

Possiamo dire che il lavoro fatto per passare dalla richiesta del Ser.T. all'idea progettuale vera e propria e quindi comprensiva della ricerca dei fondi per finanziare il progetto è diventato altro lavoro.

Un primo grande progetto è stato redatto con il bando di co-progettazione dello SVEP e dovrebbe realizzarsi per tutto il 2014: l'abbiamo chiamato “Dalla trappola alla rete”, alludendo al fatto che vogliamo aiutare i familiari a passare dalla trappola del gioco d'azzardo alla rete del supporto formale e soprattutto informale. Il progetto ha infatti lo scopo di sensibilizzare volontari e persone di ogni genere per renderle capaci di sostenere i familiari dei giocatori; naturalmente mettendo a frutto le nostre competenze di counsellor!

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SEZIONE 5

“H2 Io”: un laboratorio di Digital Storytelling. Creatività, digital storytelling e counselling.

Gianfranco Torricelli

Nella mia professione di docente mi trovo ad essere costantemente interrogato dal tema della creatività: quella che osservo quotidianamente nei linguaggi, nelle idee, nei gusti, nei comportamenti, nell’abbigliamento, nei simboli, nelle aspirazioni degli adolescenti e dei giovani con i quali lavoro; e quella che viene auspicata, sempre più insistentemente, dalle recenti teorie pedagogiche e delle forme “multiple” dell’intelligenza (Gardner, 1983, 1989, 1993). Mi trovo pertanto ad essere coinvolto in un percorso di facilitazione dell’apprendimento che trova nella creatività uno dei momenti di particolare rilievo: come favorire apprendimenti stabili e sempre più articolati e nello steso tempo potenziare stili personali di ricerca, curiosità, libertà espressiva, originalità?

Considero il couselling analitico-transazionale un importante riferimento teorico e pratico per poter identificare strumenti

di capaci di contribuire all’evoluzione di un gruppo-classe nelle sue dinamiche di base e nello stesso tempo realizzare gli obiettivi di lavoro caratteristici della mia disciplina all’interno del sistema-scuola (Ranci, 1998; Dondi, 2010).

Mi trovo, in altre parole, ad esercitare un counselling complementare (Mazzetti, 2010), cioè ad utilizzare competenze tipiche del counselling AT in funzione del contesto professionale nel quale sono inserito ed opero.

Il lavoro che quotidianamente svolgo in classe fa emergere esigenze che si riferiscono all’area informativo-cognitiva, all’area emotivo-espressiva e all’area delle regole, in funzione della crescita equilibrata degli studenti. Infatti, se l’acquisizione formale di nozioni e informazioni consente agli studenti di ampliare il proprio bagaglio personale di “dati” a disposizione, allargando quindi l’area dell’Adulto (individuale e di gruppo), rimane d’altro canto imprescindibile individuare e consentire spazi adeguati all’espressione individuale nel contesto del gruppo ove si realizza l’esperienza dell’apprendimento e dell’incontro “emozionante” con gli altri. Si tratta, quindi, di riconoscere e autorizzare l’area del Bambino (del singolo e del gruppo) integrandola con l’insieme di valori e di regole tipiche dell’area Genitoriale. Un equilibrio tra Etichetta, Tecnica e Carattere (Clarkson, 1991).

Per questo motivo nello scorso anno scolastico (2012-2013), in collaborazione con il CPAT di Milano sono stato promotore all’interno della mia scuola di un progetto che abbiamo chiamato “Esercizi di stile: laboratorio di digital storytelling”.

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Il riferimento a Raymond Queneau (Exercises de style, 1947) e alla possibilità di raccontare in molteplici modi diversi una medesima esperienza ha consentito di individuare il tema attorno al quale raccogliere e costituire il gruppo: l’adolescenza.

Quest’ultima, infatti, è, a diverso titolo e con differenti accenti, consapevolezze, risorse, snodi biografici, una storia comune, trasversale, capace cioè di raccogliere, nello stesso momento, adolescenti e giovani che la stanno vivendo in prima persona, ma anche docenti e genitori che, nelle loro diverse funzioni ed età, rimangono comunque abitati dai vissuti e dai ricordi di un momento comunque decisivo per la vita di ciascuno anche quando fosse stato difficile o negato.

L’obbiettivo che ritenevo raggiungibile non intendeva focalizzare una definizione di adolescenza bensì consentirne un racconto attraverso gli stili e le ricchezze di ciascuno, le capacità e competenze che spesso la scuola non valorizza adeguatamente, all’interno di un contesto di gruppo.

In questa prospettiva il Digital storytelling (DST) si è rivelato uno strumento duttile, ricco di potenzialità, vicino alle modalità comunicative frequentate dai giovani oggi.

Con DST si intende, infatti, una particolare tecnica espressiva a base digitale originatasi negli USA a partire dalla metà degli anni ’90. Attraverso l’utilizzo di tutto ciò che può essere ridotto a “file” (riprese con il cellulare, con la videocamera, foto, musiche, canzoni, disegni) è possibile cioè raccontare una storia, la propria storia, e condividerla. Si tratta quindi

dell’utilizzo di tecnologie tutto sommato mediamente disponibili e che consentono la composizione di una sceneggiatura estremamente adattabile alla sensibilità e alle modalità espressive giovanili. Attraverso la realizzazione di un breve video si può comunicare una storia, suscitare condivisioni, riflessioni, approfondimenti.

Joe Lambert, insieme alla moglie Nina Mullen e al collega Dana Atchley fondarono in California nel 1994 il Center for DST (CDST) e in Italia e in Europa sono ormai attivi analoghi centri e comunità di digital tellers.

Ascolta profondamente e racconta storie (listen deeply, tell stories): così il CDST, sintetizza il mantra, l’atteggiamento di fondo e l’obbiettivo di una narrazione digitale. Se trascuriamo il supporto digitale, la caratteristica dell’ascolto e la possibilità di dare voce ai bisogni, riconoscerli, autorizzarli attraverso strategie concrete avvicinano fortemente sia il counselling sia il DST.

Al progetto “Esercizi di stile” hanno aderito 15 studenti tra i 14 e i 19 anni, 4 docenti, 1 genitore in un percorso di quattro incontri di due ore ciascuno che si riproponeva di costruire insieme un video relativo all’adolescenza.

Ritengo di poter individuare il momento originario della narrazione da noi realizzata nella prima esercitazione compiuta che chiedeva a ciascuno di indicare “la cosa che sai fare meglio”. Partire dalle risorse, creare uno spazio perché fossero dette, accolte e riconosciute, ha permesso che rapidamente il gruppo guadagnasse in fiducia dimostrandosi

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creativo nelle proposte, fiducioso nel lavoro comune, schietto nella comunicazione.

Il successivo reciproco scambio di bigliettini sui quali erano state sintetizzate attraverso un titolo le personali sottolineature dell’esperienza dell’adolescenza ha poi permesso attraverso i più vari e originali contributi, di incontrare l’altro nella sua diversità e nell’occasione relazionale che rappresenta.

Particolarmente significativa mi è sembrata la sottolineatura della adolescenza come “pausa”, come necessità cioè di un tempo e di uno spazio per sé, ove ritrovare la propria intimità e autostima ed entro il quale prendere, almeno per un attimo, le distanze da tutto ciò che viene percepito come esterno e potenzialmente estraneo.

Un momento in cui abbassare e gestire le tante voci interiori del Genitore critico ed esigente, particolarmente forti nell’età dell’adolescenza e anche nei vissuti degli adulti.

I momenti comuni di lavoro sono stati ripresi attraverso una videocamera e i contributi personali sono stati selezionati, collegati e composti attraverso un racconto condiviso che ha evidenziato la potenzialità creativa della contrattualità, intesa come atteggiamento capace di originare riconoscimento reciproco e inter-soggettività.

Il momento finale del lavoro ha poi individuato il titolo conclusivo del video prodotto: H2IO.

Significativa sintesi, creativamente capace di unire formula chimica, metafora dell’acqua e richiamo all’identità.

Nell’acqua che scorre, nell’acqua che, da una sorgente, a volte faticosamente come una goccia dal rubinetto, arriva nel mare immenso delle storie individuali e collettive, si disegna il percorso di ciascuno. Di fronte a relazioni spesso avvertite come anonime e senza volto, si pone quindi un’esigenza di identità, di riconoscimento, di intimità, di auto-nomia. L’esigenza di trasformare, insieme ai compagni di strada, alle figure educativamente e culturalmente autorevoli, gli aspetti disfunzionali del proprio copione in una storia che diviene personale, originale,ricca, soddisfacente. Creativa.

Bibliografia:

Clarkson P., (1991), trad.it. Imago gruppale e stadi di sviluppo del gruppo, in Neopsiche, n.16, 1991

Dondi A., Il counselling di gruppo in Analisi Transazionale, in Luoghi e modi del Counselling, La Vita Felice, Milano 2010

Gardner H., (1983), trad.it. Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano 1987

Gardner H., (1989), trad. it. La creatività e i dilemmi dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1991

Gardner H., (1993), trad. it., Intelligenze creative. Fisiologia della creatività attraverso le vite di Freud, Einstein, Picasso, Stravinsky, Eliot, Gandhi e Martha Graham, Feltrinelli, Milano 1994

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Quenau R., (1947), trad. it. Esercizi di Stile, Newton Compton, Roma 2011

Ranci D., L’intervento nei gruppi e nelle organizzazioni, in «Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze umane», n.23, 1998

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SEZIONE 6

Counselling, coraggio e creatività.

Erika Serafin

PREMESSA

Quando ho deciso di presentare la mia tesi finale di counseling, non ho avuto dubbi:

COUNSELING e CREATIVITA’

Recuperare il potenziale creativo individuale attraverso un percorso di Counseling

Ho scelto di approfondire il tema della creatività perché è una parte di me che è sempre stata molto viva sin da bambina, tanto da portarmi a scegliere una professione creativa, la designer, che ho portato avanti per 15 anni. Purtroppo negli ultimi anni di lavoro, questa vena creativa è andata via, via esaurendosi, fino ad inaridirsi completamente, con mia grande sofferenza.

Da quella tesi per me è iniziato un nuovo viaggio, fatto di counseling, coraggio (tanto!) e creatività. Questa, in sintesi, è la mia esperienza.

• Counseling: IL MEZZO

Ho riscoperto di essere una persona creativa grazie al counseling, e questo per me è stato fonte di immensa gioia e di rinnovato coraggio.

• Coraggio: LA SPINTA

“Per vivere una vita creativa dobbiamo perdere la nostra paura di sbagliare.” Joseph C.Pearse

• Creatività: IL CARBURANTE

“Vivere creativamente significa avere uno sguardo sempre nuovo sulle cose e imparare a condurre un’esistenza più ricca e gratificante. Sebbene il pensiero dominante la attribuisca ad un ristretto gruppo di individui, la creatività appartiene a ciascuno di noi”.

Annamaria Testa

• Obiettivo: BEN-ESSERE

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1 – Percorsi di counseling individuali mirati allo Sviluppo del Potenziale Creativo

Questi percorsi partono dalle analogie che ho riscontrato tra lo studio del processo creativo e quello del ciclo di contatto gestaltico:

Da questa analisi ho sviluppato un percorso di counseling espressivo articolato in 10 incontri, che rappresentano una linea guida da seguire, modificabile in funzione delle persona e del processo stesso. Il percorso si rivolge sia ad artisti e creativi che stanno sperimentando l’empasse del blocco creativo, sia a chiunque voglia esplorare e sviluppare la propria creatività:

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*Esempi di lavori di realizzati durante un percorso di counseling espressivo:

2 - Il Processo Creativo a scuola – Workshop sui processi creativi presso IED MILANO

Presso l'Istituto Europeo di Design tengo workshop rivolti a studenti di età media di 20 anni, ai quali spiego come approcciare lo studio ed il futuro lavoro in maniera creativa, secondo le fasi del processo creativo stesso. Ogni lezione è strutturata come un workshop teorico-esperienziale dove gli allievi lavorano in piccoli gruppi e vengono stimolati a sperimentare il processo creativo nel qui ed ora.

Esempi di tematiche trattate durante i workshop:

*Introduzione alle 4 fasi del processo creativo:

*Analisi prima e seconda fase con relativi strumenti da utilizzare e blocchi da superare:

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*Analisi terza e quarta fase con relativi strumenti da utilizzare e blocchi da superare:

3 – Laboratori Artistico-Espressivi per gruppi – Associazione IN ARTE LAB

Insieme ad altri soci ho dato vita all’Associazione Culturale In Arte Lab, dove, tra le varie attività,

progettiamo e conduciamo laboratori artistico-espressivi.

Cosa sono?

I laboratori sono spazi ri-creativi dove ciascuno può imparare un modo nuovo di esprimersi, comunicare e condividere emozioni, sensazioni e pensieri, attraverso il potente e suggestivo linguaggio pittorico-plastico, che non utilizza parole ma immagini. Questo tipo di esperienza permette di stimolare e sviluppare l’energia creativa, che appartiene ad ogni individuo.

Come si svolgono?

Ogni laboratorio è centrato su un particolare tema e si articola in due momenti principali:

1. la creazione dell’opera attraverso diverse tecniche e materiali proposti (collage, tempere, acquerelli, gessetti colorati, pastelli a cera, matite, creta, materiali di recupero,...)

2. la condivisione e la lettura dell’opera guidata dal counselor (feedback)

L’integrazione delle due parti fa sì che ciascun partecipante possa infine vedere il tema affrontato da un nuovo punto di vista attraverso lo specchio della propria opera.

A chi si rivolgono?

A tutti: chi ha già dimestichezza con tecniche artistiche può sperimentare un nuovo approccio, espressivo e totalmente libero; chi invece non ha alcuna esperienza, viene guidato nell’utilizzo dei materiali per potersi esprimere al meglio, usando la fantasia e mettendosi in gioco. L’obiettivo, infatti, non è apprendere una tecnica specifica, quanto quello di comunicare qualcosa di sé. Non è necessario saper disegnare o dipingere, in quanto i materiali artistici rappresentano solo il mezzo e non la finalità. Ciò che conta è il processo creativo, non il risultato estetico.

*Esempi di lavori di realizzati durante il laboratorio “Metti in Luce la tua Ombra”:

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SEZIONE 7

La trasformazione di una esperienza traumatica in una relazione d’aiuto

Maurizio Fratea

Gli esiti di un’esperienza traumatica, spesso ,non trovano terreno fertile per una sostanziale e consapevole ri-elaborazione che induca la Persona traumatizzata a intraprendere un autentico e responsabile processo di cambiamento e di crescita ma si trasformano in problemi insormontabili che, in modo pervasivo, inibiscono l’utilizzo di quelle risorse che lo stesso trauma, con la sua azione devastante, ha liberato. Al contrario l’esperienza rielaborata del Dr. Fratea Maurizio che nel novembre del 1989 rimaneva vittima di un trauma sul lavoro che ha cambiato in modo paradigmatico la sua vita, ci racconta di aver trasformato gli esiti “negativi” di un’esperienza traumatica in “risorse”spendibili per sé e per gli altri. La coniugazione lavoro/studio/percorsi personali e formativi gli ha permesso di attivare un processo di cambiamento dando il via a una “nuova” figura professionale: il Peer Counsellor. Peer come

Pari dignità, esperienza, eguale riconoscimento tra Persone implicate in una relazione di aiuto.

COUNSELING E PEER COUNSELINGCos’è il Counseling? Secondo il Registro Italiano dei Counselor: “Il Counseling è una pratica che consente di stabilire una costruttiva relazione d’aiuto nella quale una persona che si trovi in situazione di momentanea difficoltà o crisi personale (a causa di disabilità [sottolineatura mia, N.d.A.] separazioni, lutti, malattie, passaggi evolutivi, modifiche comportamentali, decisioni importanti, etc.) può essere sostenuta nell’esplorazione del proprio disagio allo scopo di riattivare il contatto con le sue risorse personali per un’efficace soluzione dei problemi”. Cos’è il Peer Counseling? Prima di dare una risposta a questa domanda, ritengo necessario delineare brevemente l’attività professionale di Counseling.Nei primi anni del Novecento, negli Stati Uniti, alcuni operatori sociali adottarono il termine Counseling per definire l’attività di orientamento e ricollocazione socio-professionale rivolta principalmente a ex soldati, molti dei quali traumatizzati dagli orrori delle guerre.Nel 1951 Carl. R. Rogers utilizzò questo termine per indicare una relazione nella quale la persona/cliente è assistita nelle proprie difficoltà senza rinunciare alla libertà di scelta e alla propria responsabilità. Ecco dunque cosa si intende per Peer Counseling: una particolare forma di Counseling che persegue il principale obiettivo di favorire processi di empowerment, ossia di potenziamento di quelle capacità – orientative, organizzative, creative, emotive,

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relazionali ecc. – imprescindibili, a mio avviso, per intraprendere un processo/percorso di re-integrazione sociale per Persone Traumatizzate che, in un modo o in un altro, si trovano costrette a riorganizzare, in modo paradigmatico, la propria vita. Le capacità che ho appena menzionato sono state messe sottosopra e frammentate dall’esperienza traumatica e i resti di questi frammenti andrebbero ricercati, riconosciuti, spesso ri-nominati, ri-organizzati e così via.

Ma chi o che cosa potrebbe attivare un processo di re-integrazione di questo tipo?

Credo che il Peer Counselor abbia gli strumenti, metodologici e non, per poterci provare, come l’Empatia, l’Accettazione Incondizionata dell’Altro, la Congruenza ecc. – strumenti che rappresentano un “valore aggiunto”, poiché acquisiti in seguito a un processo di rielaborazione di un evento traumatico e di emancipazione dal medesimo.Potremmo dire che il Peer Counseling attivi processi in grado di consentire a un individuo (o a un gruppo) di impossessarsi di uno “sguardo laterale”, di un modo di vedere “altro” che permetta di acquisire meglio una visione globale della sua situazione contingente, rendendolo maggiormente consapevole di sé e dell’ambiente (fisico, sociale, relazionale, soggettivo, inter- e intra- personale ecc.) in cui vive. Questo “nuovo” modo di vedere trasforma il modo di vivere e di essere e permette la metamorfosi di quelle energie dirompenti, sconvolgenti, liberate dal trauma che inizialmente appaiono ingestibili e che chiedono insistentemente di essere ri-cercate, raccolte, ri-ordinate e inserite in un processo di cambiamento e

rinnovamento.Si può pertanto pensare al Peer Counseling come a un possibile attivatore di processi emancipatori che consentano di conseguire una maggior conoscenza e consapevolezza di sé.

Chi è il Peer Counselor?

Una delle caratteristiche essenziali e imprescindibili di questa "nuova" figura professionale è che la persona che svolge il ruolo di Peer Counselor abbia sperimentato sulla propria pelle tutte quelle difficoltà di ordine emotivo, relazionale, sociale e pratico provenienti da una condizione di trauma o disabilità. Deve trattarsi insomma di una persona che, attraverso un intenso e mirato percorso di formazione, sia riuscita a trasformare con successo il proprio sguardo sulle cose e che per questo abbia acquisito una competenza basata sull’esperienza empirica rielaborata e resa spendibile da un punto di vista professionale dalla formazione specialistica. In sintesi: il Peer Counselor è una persona che inserisce in un contesto di formazione la propria esperienza traumatica, così che quest’ultima possa essere trasformata da ferita in “feritoia”.Il legame o dialettica che si forma tra esperienza personale rielaborata e formazione professionale può costituire un valore aggiunto nelle professioni di aiuto. Questo legame costituisce il “Processo Peer” (dispositivo/metodologia/processualità) – un processo “alla pari”, nel senso, prima di tutto, di pari esperienza e dignità. In tal modo si crea un valore che va ad aggiungersi ad altri valorosi lavori, sul campo e nella ricerca, praticati da altri professionisti (come psicologi, medici, infermieri) e non professionisti

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(come genitori, parenti e amici) nell’ambito della relazione di aiuto.Peer, dunque, come pari dignità, pari esperienza, reciproco riconoscimento tra le persone implicate in una relazione di aiuto che ha sullo sfondo un’esperienza in comune, quella traumatica, e che lavora per raggiungere l’obiettivo di instaurare un rapporto di fiducia tra gli “attori” coinvolti. Tale rapporto di fiducia è il fondamento imprescindibile di ogni autentica relazione di aiuto: attraverso di esso, la persona che si trova in momentanea difficoltà ha la possibilità di riscattare se stessa e di trovare responsabilmente e più consapevolmente le migliori risposte o soluzioni ai suoi problemi. Questo nuovo modo di stare “in relazione” (persona – persona Peer Counselor) pone in essere, nell’individuo bisognoso, atteggiamenti di ri-flessione, ri-elaborazione e responsabilizzazione di quei processi che si attivano al fine di trovare le soluzioni maggiormente attendibili e sostenibili.

Il Peer Counseling ha ottenuto buoni risultati sia in ambito sanitario (negli ospedali), sia nelle istituzioni previdenziali (INAIL), a livello regionale e nazionale, nonché attraverso l’apertura di sportelli di ascolto nelle scuole e nell’ambito formativo rivolto in particolar modo agli insegnanti di sostegno. Il Peer Counselor si presenta come una “nuova” figura professionale specifica per quelle situazioni ascrivibili all’ambito della prevenzione, in cui è prematuro un approccio terapeutico.

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CAPITOLO 6

APPENDICE 1

autori

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AUTORI

Alliata Alcesti - Gestalt counsellor approccio pluralistico integrato - Aspic, Scuola Superiore Europea di Counseling

Andreoli Lilia – Direttore del Centro Studi e Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad orientamento sistemico e per il Counselling sistemico-relazionale di Legnano (Mi)

Balboni Maurizio - laureato in psicologia, consulente aziendale, counsellor diplomato presso la Scuola di Analisi Transazionale & Counselling , cooperativa Terrenuove Milano

Bassi Alessandra,- Counsellor professionista CNCP. Diplomato presso la Scuola di Counselling Professionale Sistemico del Centro Milanese di Terapia della Famiglia di Milano (www.cmscm.it – www.counselling-mediazione.it)

Bellini Cristina - Counselor- Centro Bateson - Milano

Caiani Gabriella -Psicologa, psicoterapeuta, counsellor formatore CNCP e mediatrice familiare formatore AIMS. Responsabile corsi counselling  del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. (www.cmscm.it – www.counselling-mediazione.it)

Carnevale Schianca Edoardo - Counsellor formatore CNCP e Mediatore Familiare. Diplomato presso la Scuola di Counselling Professionale Sistemico del Centro Milanese di

Terapia della Famiglia di Milano (www.cmscm.it – www.counselling-mediazione.it)

Doneda Alessandra – Counsellor formatore CNCP e Mediatrice familiare AIMS. Diplomata presso la Scuola di Counselling Professionale Sistemico del Centro Milanese di Terapia della Famiglia di Milano (www.cmscm.it – www.counselling-mediazione.it) [email protected]

D'Onofrio Fabiana -Managing Director di Open Sky Formazione, progetta e realizza interventi per lo sviluppo delle risorse umane nei contesti organizzativi utilizzando un approccio di counselling, centrato sul cliente.

Folli Rosita - Counsellor professionista, si è formata presso la Scuola Analisi Transazionale & Counselling, Terrenuove, Milano, Direttrice didattica dell’Associazione di Promozione sociale dell’Associazione Energetica

Fratea Maurizio - Pscicopedagogista Peer Counsellor

Giusti Laura - Counselor - Centro Bateson - Milano, Mediatrice familiare, Conduttrice di GDP

Greco Gilda - Psicologa, psicoterapeuta, counsellor supervisore, attualmente Membro del Direttivo dell'Associazione Arka di Milano, ex Presidente dell'Associazione ASPICcounseling e cultura di Milano.

Lucchini Giovanna - Pedagogista, Counsellor-Centro Bateson-Milano, Mediatrice familiare, Conduttrice di GDP

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Lo Re Emanuela - Psicologa, Psicoterapeuta, Analista Transazionale Certificato, Didatta e Supervisore delle Associazioni Internazionali EATA-ITAA, Counsellor Formatore (CNCP), Direttore della Scuola di Analisi Transazionale&Counselling presso la Cooperativa sociale Terrenuove di Milano (www.terrenuoveonlus.it), socia del Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano (www.centropsi.it) . Ha pubblicato diversi scritti fra cui: "Luoghi e modi del counselling" (2010) ed. La vita Felice Milano;  "Physis e resilienza" (2012) n.57 dei Quaderni di Psicologia, Analisi Transazionale e Scienze Umane. Mail: [email protected]

Marinoni Rosita - Psicologa, counselor professionista, mediatrice familiare, direttore Centro per la Mediazione Sistemica Gregory Bateson Milano [email protected]

Metelli Michela - Counselor - Centro studi e ricerche per la mediazione scolastica e familiare ad orientamento sistemico e per il counselling sistemico relazionale – Legnano - Milano

Moretto Alberto - Counselor - Centro Bateson - Mediatore familiare, Conduttore di GDP

Nebel Riccardo – Pedagogista, counsellor formatore, mediatore familiare AIMS. Diplomato presso la Scuola di Counselling Professionale Sistemico del Centro Milanese di Terapia della Famiglia di Milano (www.cmscm.it – www.counselling-mediazione.it) [email protected]

Oliveri Silvia - Operatrice sociale, formatrice e counsellor professionista. Diplomata presso la Scuola di Counselling Professionale Sistemico del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. [email protected]

Patrono Lara Maria - Psicologa, Counsellor - Centro Bateson - Milano, Mediatrice familiare, Conduttrice di GDP

Pereira Jacqueline - AD Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Direttore corsi di Counselling e di Mediazione del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. (www.cmscm.it – www.counselling-mediazione.it)

Loredana Pozzi - Counselor, mediatrice familiare, Centro per la Mediazione Sistemica Gregory Bateson Milano - [email protected]

Sallustio Roberta - Educatrice professionale, formatrice e counsellor professionista. Diplomata presso la Scuola di Counselling Professionale Sistemico del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. [email protected]

Sala Tiziana - Centro Studi e Ricerche per la Mediazione Scolastica e Familiare ad orientamento sistemico e per il Counselling Sistemico Relazionale

Scavo Sabrina, Counselor Professionista – Operatore Servizio Formazione e Lavoro del Centro Gulliver – Varese accreditato presso la regione Lombardia

Serafin Erika, Counselor ad approccio integrato Scuola Superiore Europea A.S.P.I.C. Counseling e Cultura - Milano

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Torricelli Gianfranco - docente scuola media superiore, Counsellor Scuola AT&Counselling - Terrenuove Milano

Tregnago Lidia - counsellor professionista avanzato, socio formatore Scuola “Centro Studi Gulliver”, psicoterapeuta.

Zaniboni Marco - Counselor Professionista, Analista Transazionale Certificato in Counselling – Docente - Scuola di Analisi Transazionale e Counselling – Terrenuove - Milano

Zilia Mirko - Counselor Scuola di Counseling- Strategie Creative - Mantova

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CAPITOLO 7

APPENDICE 2

Le scuole oggi

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CENTRO GULLIVER

- Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale -

Indirizzo: Via Albani, 91 – 21100 VARESE

Tel: 0332 831305

Fax: 0332 830046

www.centrogulliver.it - [email protected]

CENTRO PER LA MEDIAZIONE SISTEMICA “GREGORY BATESON”

Via Antonello da Messina,5 20152 MILANO

Tel. 024046941 - 34820111

Email: [email protected]

Sito Web: www.centrobateson.it

CENTRO MILANESE DI TERAPIA DELLA FAMIGLIA

via Leopardi 19 MILANO

Tel. 02 4815350

www.cmtf.it www.cmscm.it www.counselling-mediazione.it

CENTRO STUDI E RICERCHE PER LA MEDIAZIONE SCOLASTICA E FAMILIARE AD ORIENTAMENTO SISTEMICO E PER IL COUNSELLING SISTEMICO RELAZIONALE DI LEGNANO

C.so Italia, 62

20025 Legnano (MI)

P.IVA 02554170122

Direttore del Centro

Dott.ssa Lilia Andreoli 349/4938105

[email protected]

ASPIC SCUOLA SUPERIORE EUROPEA DI COUNSELING

Via Sangallo 41 Milano 20133

tel. 0270006555

Email: [email protected]

Sito Web: www.aspicmilano.com

SCUOLA DI ANALISI TRANSAZIONALE & COUNSELLING (AT&C) - TERRENUOVE

Via Archimede 127 Milano 20129

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Tel: 0270127021 Fax 0270127022

Email: [email protected]

Sito Web: www.terrenuoveonlus.it

SCUOLA DI COUNSELLING  "STRATEGIE CREATIVE"

con nuova sede in via Vittorio Veneto 77

46037 Governolo di Roncoferraro (Mantova)

tel. 0376-669113

e.mail:  [email protected]

sito: www.counseling-mantova.it

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