Ernst Junger Cacciatore Sottile

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Ernst Jünger cacciatore sottile di Luigi Ranzani «Temo che gli animali vedano nell'uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale -vedano cioè in lui l'animale delirante, l'animale che ride, l'animale che piange, l'animale infelice». F. Nietzsche, La gaia scienza. La caccia, il cacciare prima ancora che un'azione, una passione è innanzitutto un luogo, di più: è l'esperienza del limite. Artemide presso i Greci abitava, oltre a monti e boschi, ogni territorio agròs : le terre incolte che segnano, al di là dei campi coltivati, i confini del territorio civilizzato della pòlis. Alla frontiera di questi due mondi Artemide presiede alla caccia accogliendo il cacciatore che, oltrepassando questa frontiera, rischia l'inselvatichirsi, la bestializzazione. Ma Artemide è anche Limnatis perché abita quei paesaggi eterici, indefinibili, non asciutti né completamenti acquosi che si estendono tra terra e acqua: paludi, acque stagnanti, litorali, argini. Per la mossa promiscuità dei confini che presiede Artemide partecipa di uno statuto ambiguo: mette in causa, sottolineandone l'estrema fragilità anzi rendendo la fragilità stessa permeabile, il limite tra l'ordine della civiltà e il regno del caos abbandonato alla violenza pura e spontanea di una fecondità continua; ma insieme

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Filosofia anarchica

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Ernst Jünger cacciatore sottile

di Luigi Ranzani

«Temo che gli animali vedano nell'uomo un essere loro uguale

che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto

animale -vedano cioè in lui l'animale delirante, l'animale che ride,

l'animale che piange, l'animale infelice».

F. Nietzsche, La gaia scienza.

La caccia, il cacciare prima ancora che un'azione, una passione è innanzitutto un luogo, di più: è l'esperienza del limite.

Artemide presso i Greci abitava, oltre a monti e boschi,

ogni territorio agròs : le terre incolte che segnano, al di là dei

campi coltivati, i confini del territorio civilizzato della pòlis. Alla

frontiera di questi due mondi Artemide presiede alla caccia

accogliendo il cacciatore che, oltrepassando questa frontiera,

rischia l'inselvatichirsi, la bestializzazione.

Ma Artemide è anche Limnatis perché abita quei paesaggi

eterici, indefinibili, non asciutti né completamenti acquosi che si

estendono tra terra e acqua: paludi, acque stagnanti, litorali, argini.

Per la mossa promiscuità dei confini che presiede Artemide

partecipa di uno statuto ambiguo: mette in causa, sottolineandone

l'estrema fragilità anzi rendendo la fragilità stessa permeabile, il

limite tra l'ordine della civiltà e il regno del caos abbandonato alla

violenza pura e spontanea di una fecondità continua; ma insieme

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consacra l'intangibilità del limite rendendolo distinguibile e

riconoscibile. Lacerando la chiusura del limite accoglie il

cacciatore nel territorio dell'Altro, acconsente all'oscillazione tra

umano e non umano così come al rischio dell'oltrepassamento

verso l'indistinguibiltà dell'informe. Ma proprio sul limite, al

culmine della crisi come cancellazione del limite, attraverso una

'manifestazione soprannaturale' Artemide salva il cacciatore

guidandolo al riconoscimento, facendogli fare l'esperienza, il

sacrificio, del limite.

Nel primo caso cancella, confonde le frontiere della natura o

nella mente; nell'altro, proprio quando le frontiere sono confuse,

ne permette la distinzione: «Artemide opera sempre come divinità dei

margini, con il duplice potere di mantenere, tra selvatichezza e civiltà, i

necessari passaggi e di conservarne i rigorosamente i confini al momento stesso

in cui questi si trovano superati».

L'esperienza della caccia raccoglie i molti nomi del rapporto, idiosincraticamente mediato, che Ernst Jünger intrattiene con il proprio 'altro'.

L'apertura di Cacce sottili (testo uscito in Germania nel 1980 e

tradotto in Italia da Alessandra Iadicicco presso Guanda nel 1997)

testimonia, infatti, della passione giovanile dell'autore per la

raccolta e la collezione di insetti: passione che lo accompagnerà

lungo tutta la sua lunga vita, impegnandolo in un atletismo

contemplativo in continuo slittamento tra l'individuativa

esplorazione analitica dell'occhio 'scientifico' e l'abbandono allo

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sguardo più pudico del puer oltre che, ovviamente, nella pratica

restitutiva dello stile.

Il giovane Jünger si accosta all'osservazione del mondo

naturale attraverso l'emulazione del padre che, prima botanico poi

farmacista di professione, riforniva la biblioteca di famiglia di

cataloghi illustrati, suscitando la curiosità dei figli. In realtà la

disposizione verso l'ammirazione e lo studio della natura, cui fu

decisiva la venerazione materna per Goethe, è parte importante di

una formazione culturale (Bildung) tramandata generazionalmente

e garantita dalla ripetizione delle due azioni costitutive della

scientia amabilis: contemplazione e descrizione: «La vera conoscenza

della natura, la cura attenta dell'osservazione, il confronto, la classificazione e

la descrizione degli oggetti aveva stregato gli spiriti per più di cent'anni in un

modo che noi possiamo appena immaginarci».

Alla dedicazione per le cacce sottili Jünger perviene attraverso

l'abbandono del gioco degli scacchi.

Ma significativa è l'argomentazione che motiva la scelta: «Quanto

alla perdita di tempo era la stessa cosa che per il gioco degli scacchi, solo che

l'attrazione era più forte perché la partita non si esauriva in pure

combinazioni, ma dischiudeva alla contemplazione un campo inesauribile».

Sospettando che l'idealismo proairetico dello scacchista

nasconda "l'uomo della rinuncia", Jünger inclina per un adesione

attiva, strategicamente partecipe dell'esistente e dei suoi inciampi

materiali, riconoscendo nella sorpresa e nell'arrischio della caccia

lo specchiarsi di Eros e Pòlemos : Jünger caccia perché già vinto

dall'inquietante aspetto gianico con cui «la forma archetipica del grande

gioco del catturare e nascondere» si fa mondo.

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Il momento entusiastico, maniacale che muove il cacciatore

non si esaurisce però in mera oziosità, magari patinata da

nostalgie aristocratiche, né in quel dilettantismo estemporaneo,

mimetico e abbastanza comune condiviso da molti appassionati e

che ne motiva forse la volubile scostanza.

In realtà il cacciatore, partecipando al gioco eracliteo

dell'eterno divenire che governa, invisibile, il cosmo, si orizzonta

in dimensioni spaziali più complesse che la linearità bidirezionale

tracciata dal banale rincorrersi di inseguitore ed inseguito.

Lo spazio d'azione del cacciatore, e tanto più se sottile,

sembrerebbe infatti non concedere l'illusione di una assoluta

padronanza e determinazione dei gesti in quanto compromesso

con la dimensione microcologica dell'esistenza entomica, la più

prossima all'effetto dissimulante della superficie e al suo

inquietante riso proteiforme.

Lo scintillio improvviso, immotivato nell'apparente

immediatezza, di improbabili 'gioielli della terra' sembra impedire

la semantica dell'azione fondata sul dualismo soggetto-oggetto:

l'imprevedibilità ne disarma l'intenzionalità così come la 'paurosa'

gratuità ne rallenta il dispositivo di cattura, l'istante auratico

dell'apparire dissolve la sostanzialità dell'ego alterandone

l'autocoscienza spaziale e spinge a considerare la possibilità

dell'incontro al di là di un fatto anticipabile dalla volontà di

partecipazione, verso l'incondizionatezza aleatoria di un puro

evento.

Si tratta di una forza invisibile che non muove oggetti ma lega

affetti, non condizionata da un preventivo assenso della coscienza

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e che provoca il pensiero all'immagine di uno spazio composto da

luci discordanti e coimplicati, pieni e vuoti connessi dall'anonima

forza armonizzatrice immanente agli infiniti fili di una tessitura

cosmica: «La forza di una terra agisce a grandi profondità e determina non

solo l'armonia reciproca tra gli esseri viventi, ma anche quella della natura

inanimata. Le cose più lontane si accordano tra loro attraverso la rima. Il

mondo si compone e si fa poesia».

Possiamo già qui notare come l'occasione autobiografica

venga distillata dei suoi aspetti aleatori e soggettivistici per

ricomporsi stilisticamente secondo prospettive schiettamente

speculative. Questa oscillazione del piano scritturale la

incontreremo, intensificata nel movimento, ogni volta che la

bellezza sensibile si presenterà quale ineludibile domanda circa il

senso della destinazione terrestre dell'uomo poiché,

heideggerianamente, è proprio del Dasein il trascendersi nel

domandare dell'essere dell'ente.

La figura mitica del cacciatore, alla luce del suo

approfondimento fenomenologico, scolora delle tinte più

immediatamente vitalistiche velandosi di una cortina serenamente

malinconica che opacizza, senza annullarla, la compostezza algida

della vis contemplativa.

La qualità malinconica però non inclina mai alla tristitia che

un inevitabile confronto con la caducità delle forme trasmette -

anzi in Jünger la delimitazione si conferma come necessità della

perfezione stessa- quanto piuttosto, e in senso non pietisico, com-

muove: letteralmente il bello agita il pensiero che, al contatto con

l'alterità si trasforma intensionalmente: co-agitatio, avvertendo

l'inquietante che lo abita.

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In questa accezione potremmo leggere la malinconia

jüngeriana accostandola a ciò che Benjamin commentava ne "Le

affinita elettive" riferendosi al 'tocco' crudele della bellezza: «Salvare

quel che vi è in essa di essenziale è lo sforzo di Goethe. In questo sforzo lo

splendore di questa bellezza si turba sempre più, come la trasparenza di un

liquido nella scossa in cui si consolida. Poiché non nella piccola commozione

che si assapora, ma nella grande commozione della scossa, l'apparenza della

conciliazione supera le belle apparenze e da ultimo anche se stessa».

L'eroismo del cacciatore acquista così dei tratti che lo

avvicinano più alla pazienza del martire che all'impeto bellicoso

del guerriero: egli patisce l'esposizione allo scavo denudante,

dissolvente di una meraviglia ingiustificata ed anzi ne

accondiscende l'urto (Stoss) spaesante con cui, una piccola

porzione di materia colorata, nell'innocenza del suo terribile

apparire, si annuncia come il pericolo estremo della morte,

dell'annullamento di ogni individuazione: «La bellezza vuole rapirci

ciò che ci appartiene; se diventa troppo forte, finirà col sottrarci anche il

tempo».

La precipitazione impassibile con cui il predatore conduce la

sfida, l'attacco e la cattura -dalla rilassatezza vegetale della

concentrazione alla risoluta determinatezza dell'azione- se

osservati da distanze allargate oltre il prospettivismo copernicano,

si rivelano come dei modesti raggrinzamenti nella tramatura

cosmica in cui per altro il cacciatore, se consapevole

dell'impossibile definitività del proprio annodarsi, accede ad

un'essenziale profondità del domandare: «Chi caccia è a sua volta

cacciato e chi osserva è a sua volta tenuto d'occhio. Quanto più strana,

bizzarra è la preda, tanto più urgentemente si impone la domanda sul senso

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dell'inseguimento. Si tratta sempre, comunque, di una finzione, ad ogni

contatto con la terra, si tratti di insetti o di gioielli. Che cosa mi incatenava,

che cosa mi rendeva allo stesso tempo cieco e veggente? Dove si cela il senso del

gioco, e dove è appostato colui che mi scruta? Me lo domando spesso, e me lo

chiesi anche allora, quando mi fui riscosso dallo stupore suscitato

dall'antaeus».

Il paradigma venatorio si tinge di una serietà disciplinata alla

correzione di quelle proiezioni antropomorfiche indirizzate alla

fagocitazione sentimentale e compiaciuta di un'alterità non umana

e non storica.

Infatti l'occasione venatoria, nell'intreccio delle reciproche

esposizioni, stimola quella facoltà mimetica indispensabile per

«poter godere della multiformità dei fenomeni» attivando la possibilità

umana di sperimentare, attraverso il gioco analogico della

somiglianza e della differenza, dell'avvicinamento microcosmico e

dell'allontanamento segiziale, un'espansione dinamica e

metamorfica della forza immaginativa: impraticabile passaggio

che, attraverso straniamento e avvicinamento, oltrepassi la

chiusura umanistica sull'identico ed insieme prepari il transito

verso dimensioni interstiziali capaci di riorientarne la topologia:

«Lo spazio per i movimenti liberi va assottigliandosi, sia per la

colonizzazione sempre più fitta, sia per traffico sempre più rapido. Un modo

per sfuggire alla sensazione di restringimento che ci opprime è la

contemplazione accurata delle piccole cose; il mondo si riversa allora in

particelle di piccole dimensioni. Le oasi fioriscono a ridosso delle strade

militari, di cui gli esperti seguono solo a grandi linee il sistema; si muovono

verso punti di riferimento e aree di sosta più nascoste, diverse dai porti e dalle

stazioni [...]. I punti di riferimento sono le concrezioni magiche di un

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paesaggio, [...]quasi perdute nell'indistinto e, per questo tratteggiate con

estrema chiarezza. La vista di una pietra preziosa può rendere accessibile una

montagna».

Cacciare nei territori del nulla.

In questo restringimento che ci opprime, altrove nominato

'inquietudine anteica', la consapevolezza epocale, fattasi decrittura

fisiognomica, legge lucidamente la trama che unisce la forza

costruttiva e organizzatrice del nichilismo -il suo aspetto salutare-

alla progressiva, calcolata distruzione della natura.

Questo nesso irresistibilmente occultato dal discorsivo è

invece ricondotto alla arbitraria separazione metafisica tra

soggetto e oggetto, in forza della quale ogni movimento

interattivo tra umano e non-umano è univocamente dettato da atti

intenzionanti della coscienza, o dalla messa in forma concettuale

dell'immaginazione, e insieme, da una pretesa, accondiscendente

disponibilità dell'ente ad essere raggiunto, trasformato,

consumato, annientato.

Lo sguardo appassionato e partecipante alla bellezza non si

sottrae dunque all'orizzonte epocale. La solitaria passione

entomologica, così come la frequentazione della letteratura

scientifica, è anche l'osservatorio non casuale per penetrare nella

logica del movimento disgregativo del nichilismo: «Il crescente

malessere è solo un sintomo della svolta dei tempi che si percepisce in un

piccolo ambito lontano, dove trova il suo diletto lo spirito venerante».

Nichilismo che, nel contatto incidentale o progettato con l'altro

inumano, esercita inesorabile la potenza dello sguardo di Medusa

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pervicacemente impegnato nell'imbiancamento del carattere

espressivo, multiforme, numinoso che si sprigiona quale elemento

musico delle forme.

Jünger individua la condizione necessaria di questo esito

dissolvente nel pregiudizio scientifico, cioè nella fede

assolutamente moderna nella deducibilità veritativa del reale

ricondotto alla misura concettuale della ragione umana. La

progressiva estraneazione dal sentimento di coappartenenza ad un

medesimo astro, accresce nell'uomo la necessità di una

elementarizzazione dell'esuberanza qualitativa -nient'affatto

naturale- della natura nell'ordinamento sistematico della

conoscenza. Il vantaggio ricavato dalla riduzione logica (die

Rationalisierung) dell'ignoto nell'abituale, è l'assicurazione dagli

effetti esproprianti con cui l'irroconoscibile si annuncia come

incatturabile dalla comprensione. La natura disincantata accresce

la sicurezza disponente e progettante dell'uomo,

contemporaneamente alla neutralizzazione dell'apparire

ontologico registrato ora come casuale epifenomeno.

Bisogna però notare come l'oggettiva registrazione della

destinalità epocale non sia mai ordinata con criteri degenerativi

ma sempre sciolta da pose inquisitorie e paludamenti

moraleggianti. Nota infatti Alessandra Iadicicco: «Jünger non respinge

affatto il sapere degli scienziati [...]. Se riconosce a quelle ricerche il carattere

dell'esattezza è appunto l'esattezza che egli rifiuta di accogliere come criterio

di giudizio. Un gesto decisivo in questo confronto con il sapere scientifico è

quello di consegnarlo radicalmente al suo limite storico, alla sua provenienza

indisponibile, alla sua radice finita».

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Infatti nello sfogliare le espressioni simboliche epocali Jünger

intesse un'esegesi attenta alle molteplici configurazioni di senso

sedimentate sul volto della Terra, rune preziose che testimoniano

le risposte incise dall'abitare umano: Cacce sottili è, sotto questo

riguardo, una preziosa mappatura geofilosofica delle rivoluzioni

planetarie.

Nell'epoca in cui il grande Ordine del Discorso sistematizza

l'esistente secondo la successione continua delle rappresentazioni,

la forma è accolta e misurata secondo la bidimensionalità

dell'effetto duplicativo prodotto dall'atto riflessivo: il visibile è

ricondotto alla stabilità constatata nella ricorsività della forma.

Linnè, protagonista del dispiegamento sistematico dello

spirito sulla natura incarna nondimeno le movenze premurose di

un 'giardiniere appassionato' e dal tono benedicente che,

nominando, chiama all'essere le cose: «Occorre vedere in questo

personaggio qualcosa di più profondo che semplicemente un gigante della terra.

In lui vi è una funzione sacerdotale nel senso più alto della parola [...]. Ciò

che è senza nome acquista un significato che si estende fin dove riesce a

spingersi lo sguardo e fin dove la parola si pone a tracciare un confine. La

natura è resa abitabile e familiare in un modo nuovo. Si moltiplicano le sale

dei trofei create dallo spirito».

Una svolta radicale è segnata dall'evoluzionismo darwiniano.

Se la classificazione linneiana era metafisicamente sorretta dalla

fede in un atto creatore univoco ed esterno alla libertà

d'espressione delle forme, delimitate dalla irrevocabilità

dell'impronta ricevuta, Darwin teorizza una forza anonima ed

immanente all'organismo che si temporalizza nelle reazioni

adattive alla contingenza di variabili ambientali.

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Il Barocco invece, secolo attraversato dall'angoscia per un

universo infinito e disertato da Dio, partecipa allucinato alla

caducità metamorfica delle forme, sviluppando una sensibilità

attenta al meraviglioso, all'abbondanza e allo straordinario, colto

però nell'inappariscenza dei dettagli: «Anche la natura comincia a

parlare in modo nuovo; conquista una forza grande ed autonoma. Non solo le

sue forze sono viste in modo nuovo, ma con e attraverso esse, si vede il

miracolo che la multiformità illimitata contribuisce a rappresentare. E' come

una bacchetta magica che opera inaudite trasformazioni. Un bel giorno, un

pesce dorato lungo una spanna incanta i nostri occhi e viene fondata una

nuova cappella; ne seguirà un culto secolare, coltivato oltre misura».

Di passaggio, ma è un tema serpeggiante nella opera

jüngeriana, si riconosce nelle possibilità estetiche racchiuse in

questo sguardo, un prezioso viatico per l'attraversamento del

muro del tempo e, forse, per l'avvicinamento di ciò che con

questo passaggio potrà darsi a vedere.

Quando invece il continuum fluido delle forme, il loro darsi

animosamente come increspature della superficie, viene irretito e

consolidato dal concetto, allora la natura diventa universalmente

manipolabile. Risolvere la natura in meccanica significa ricondurre

le percezioni qualitative a parametri quantitativi e invariabili;

riportare la realtà dell'immagine patita ad una rappresentazione

numerica e misurabile, cioè al mero movimento di punti-massa in

uno spazio isotopo ed omogeneo in un tempo continuo ed

irreversibile, vuol dire porre l'energia e il movimento come

fondamento esaustivo dell'esistente. La riconduzione della natura

alla superficialità di un sistema di nessi finalistici mossi dal

principio di utilità provoca l'irreversibile processo di

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legnificazione e mineralizzazione del vivente. L'accoglienza che

una tale 'ipotesi di lavoro' riscuote a livello della conoscenza è

anche perfettamente corrispondente alle richieste di immediata

disponibilità di materia uniformata avanzata dall'Operaio: «Se il

mondo fosse davvero costituito in modo così semplice, dovremmo rivelare in

esso, secondo il modello del paesaggio d'industria, la presenza di pochi tipi

fondamentali utilizzabili nel modo più funzionale. D'altronde, una delle

tendenze della nostra epoca è appunto orientata verso la creazione di tali

paesaggi. La scomparsa delle specie è un sintomo di questo processo. Il

catalogo degli animali che ancora i nostri padri videro con i loro occhi e che

conosciamo solo attraverso le descrizioni e le illustrazioni, cresce in maniera

inquietante».

Nell'imminenza della catastrofe planetaria si ripropone,

inevitabile, la domanda sul senso della parabola umana e

sull'effemerità del suo tracciato.

Jünger annota icastico: «Le cose stanno effettivamente così».

L'infinità del processo di innovazione in cui è massicciamente

impiegata ogni forma di vita conserva, come propria condizione

di inveramento, la necessaria nientificazione della Terra. L'ultimo

uomo procedendo nel progetto innovativo deve dar spazio alla

infinità della potenza del suo pensare-agire la progettazione stessa.

Ma la radice finita a cui pur appartiene la facoltà immaginativa

della ragione e su i cui schemi lavora sinteticamente la presa

concettuale, è costituita dalla quella medesima Terra che, offerta

all'immaginazione del senso, verrà incontrata ancora e sempre

lungo il percorso di autoaffermazione del soggetto fino a porsi

quale ultimo ostacolo da nientificare.

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Bisognerà, con Jünger, pensare uno scenario in cui lo spirito

autodispiegato regni su di una Terra desertificata e in selvaggia

solitudine, e certo anche avviandosi alla propria calcificazione,

esistenziale od ontologica poco importa.

Constatando la progressiva diminuzione di specie animali,

scrive: «Non solo le rondini, anche le mosce sono tra gli animali in via di

estinzione, e l'uomo, persecutore e a sua volta perseguitato, contribuisce a

questa scomparsa. Egli è rimasto intrappolato nel processo che risucchia ed

annienta le specie: di qui la sua cosmica angoscia e il suo timore di non poter

arrestare il corso del destino. Tale situazione va colta nel suo insieme: con

l'epoca dei cavalli è scomparsa anche quella dei cavalieri. Ma l'alba continua

a risplendere sulle cime che i flutti non hanno raggiunto».

Questa chiusa fortemente contraddittoria non può certamente

essere interpretata in senso consolatorio, né come

spregiudicatamente mossa dall'ebbrezza che accompagna ogni

distruzione: essa va piuttosto approfondita nella sua

contraddittorietà.

Ma pensare la contraddizione ingiunge l'abbandono della posa

prospettica considerando anche come l'assunto antropocentrico

del discorso tecnico acceleri la catastrofe.

Sollecitando una visione d'insieme, Jünger accenna

all'ineffettualità dello scavo storico fondato sulle metodologie

delle scienze dello spirito. Torna utile qui riprendere un passo

dell'Operaio illuminante della questione già allora: «Una forma è, e

nessuna evoluzione l'accresce o la diminuisce. Perciò la storia dell'evoluzione

non è la storia della forma, ma tutt'al più il suo commento dinamico [...]. Da

ciò dipende il fatto che il problema del valore non è quello decisivo. La forma,

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come va ricercata al di là della volontà e al di là dell'evoluzione, così si trova

anche al di là dei valori: essa non possiede alcuna qualità».

E' infatti consustanziale al prospettivismo moderno

l'attribuzione di significati fondati sulla capacità estensiva del

giudizio, sulla sua efficacia valutativa (il valore come positum della

volontà di potenza).

Come pensare allora lo sguardo d'insieme che Jünger

suggerisce senza fraintenderlo come l'estrema, tardiva

riappropriazione di ciò che il soggetto ha ormai da tempo

dimenticato di abitare?

Si può tentare di chiarire la domanda, se non proprio di

assicurarci la risposta, ricorrendo ad un passo conclusivo delle

Cacce sottili: «La scomparsa degli animali è uno spettacolo che si ripete [...].

L'universo acquista nuove figure e smarrisce quelle antiche, ma non esaurisce

mai la forza inesauribile che genera ed annienta. Quando guardo le rondini,

mi assale la tristezza; non però quando sposto un poco lo sguardo e lo rivolgo

al crinoide appeso al davanzale della finestra. Fu scavato fuori, con uno

scalpello, dallo scisto nel quale era rinchiuso da centinaia di milioni di anni.

Un'eco di vita proviene dall'insperato, dall'insospettato. Il destino della

rondine è intrecciato con il nostro, non quello dell'archeopterix. Nel primo

caso è il dolore ad a commuoverci, nel secondo, la pienezza della vita».

Qui lo sguardo sinottico procede palesemente dalla rimozione

di ogni inclinazione umanistica e verso una sospensione della

facile celebrazione del vivente in cui inevitabilmente si finisce per

riconoscere la propria proiezione.

Page 15: Ernst Junger Cacciatore Sottile

La sinossi dell'antinomia si rifiuta così ad ogni

accondiscendenza vitalistica attendendo appunto ciò che si sottrae

all'espressività della forma: l'inaspettato, l'inespresso inteso come

l'offrirsi della memoria arcaica della Terra.

Appare ovvio come questa possibilità inedita esuli da ogni

iniziativa rappresentativa del singolo, anche se proprio al singolo

viene demandato l'oltrepassamento del nichilismo. Jünger confida

infatti sulla trasformazione artistica dello sguardo, l'unica via che,

niccianamente, restituisca alle cose innocenza, cioè quella

leggerezza luminosa della parvenza, redimendole dagli schemi di

scopo con cui la volontà di verità le attraversa fino

all'annientamento. Solo nell'esercizio minimo della distanza è dato

poter cogliere l'attimo che sospenda l'adesione ingenua alla natura

ricollocandola nell'intatta estraneità di un evento ingiustificabile,

nella salvaguardia della venerazione.

A questo motivo fondamentale penso si riferisca Jünger

descrivendo la topologia transcosciente del ritorno: «Un'immagine

vuole spezzare i confini che il concetto aveva tracciato per restringerla e

definirla. Lo spirito, che lo voglia o no, deve prenderne atto, se non vuole

capitolare di fronte ai fenomeni. Estendendo i confini può di nuovo

comprendervi quell'immagine. L'errore non stava nel mondo, ma nel nostro

occhio, nel nostro intimo. E' un salto che ci riporta indietro, verso l'origine».

Oltre a sollecitare una elaborazione simbolica dell'immagine, il

ritorno può anche essere inteso non tanto come la riproposizione

dell'identico all'interno di una temporalizzazione ciclica del

divenire, quanto invece come il riconoscimento dell'inconoscibile

dell'origine in ogni cosa che è. L'antico Thauma, e il carattere di

urto con cui viene alla presenza, tende piuttosto a spezzare

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l'antropomorfismo del dato, sospendendo il processo

ermeneutico e legandosi impercettibimente all'oblio.

Concludendo

Riflettendo sul senso generale della propria passione

entomologica, Jünger scrive: «Già che cosa è che fa la gioia in queste

scene di caccia? Perché acquistare migliaia di ideogrammi e innumerevoli

rune? Non è per la bellezza, perché molti di questi animali non hanno un bel

aspetto; non è nemmeno per la gioia di vedere e conoscere ciò che gli altri a

malapena conoscono e sanno guardare. Si dimentica tutto questo negli istanti

in cui risplende l'armonia. Dietro alla molteplicità, di qualsiasi specie essa

sia, si nasconde un mistero. Ma la stessa composizione fa cenno verso

qualcosa di completamente diverso. Quando il lettore lo ha compreso,

interrompe la lettura per abbandonarsi alla gioia di un'intesa muta».

Jünger è consapevole che salvare la potenza simbolica

dell'immagine -la forza legante, espansiva della forma- è l'ultima

possibilità per riportare l'uomo al cospetto di dimensione

cosmiche.

Lungo le Cacce sottili compare spesso il riferimento allo

Schwärmen (l'andare in estasi): il prodigio erotico della natura che

si risveglia, e attraverso la compartecipazione di animali, piante,

colori, profumi, testimonia dell'inapparenza donativa ripiegata e

vibrante negli strati dell'esistente: «Se le piante da fiore, manifestandosi

nella loro inesauribile multiformità, fanno l'effetto di una violenta eruzione

dell'Eros cosmogonico, in questo attrarsi e fondersi insieme di organi animali

e vegetali, dischiude un tratto insondabile, indecifrabile di Madre Natura

[...]. L'unione di esseri così lontani attratti l'uno verso l'altro è il segno di un

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desiderio nuziale, di una scintilla che si accende in tutti gli oggetti all'inizio di

una perpetua festa d'amore». Vedere l'invisibile festa non è dato

ovviamente dall'occasionalità di uno sguardo ben intenzionato che

confidi nell'immediatezza dell'esperienza: è, ancora una volta, la

necessità del cammino alla forma che impone un esodo da se

stessi, una conversione senza tinteggiature 'catechistiche' ma

metaforicamente pragmatica: una con-versio dell'occhio cieco

della mente è l'azione contemplativa jüngeriana, molto vicina, in

questo al rovesciamento prospettico del pittore d'icone: le forme

non defluiscono dal centro luminoso dell'occhio ma irraggiano

dalle proprie regioni ontologiche come punti-eventi in sé

illuminanti, costruiti di luce e non illuminati dall'esterno. Il pittore

d'icone deve muoversi nelle forme, trasportarsi all'interno della

forma ripercorrendone le linee germinative ma insieme, coglierne

sinteticamente l'integrità.

La straordinarietà di questo atteggiamento stilistico si avverte

nella estrema capacità di disvelamento della realtà. Essa riesce,

attraverso il controllo e la calibratura dell'immagine, in uno spazio

limitato, a restituire il movimento istantaneo di molteplici

accadimenti singolari. Tuttavia ogni singola forma pur se

rappresentata nella precisione dei suoi contorni non si esaurisce

nell'accidentalità di un puro epifenomeno. La concentrazione sulla

particolarità costruttiva riesce ad estenderne non la forma ma il

raggio di influenza di quest'ultima -le linee di sviluppo potenziali-

sul resto della rappresentazione, ottenendo compositivamente una

totalità in sé conchiusa. Ma questo grado di realismo non è

assolutamente avvicinabile al semplice artificio di una

decalcomania con cui l'ideologia di realtà pretende di risolvere il

problema della rappresentazione. La rilevanza va invece

Page 18: Ernst Junger Cacciatore Sottile

sottolineata nella posa assolutamente non mimetica

dell'osservatore: l'uomo al centro senza farsi esso stesso centro.

Se ci viene restituito così tangibilmente il senso dell'immagine

tanto da avvertirne l'apertura ontologica, lo dobbiamo allo

spostamento all'interno della scena dell'osservatore. Jünger mostra

perfettamente come la sospensione di ogni interferenza

psicologica nella composizione della sensazione, non limiti le

possibilità rappresentative dell'ulteriorità sensibile a condizione

però di un'attenzione costante alle modalità entro cui la

sensazione si dà, che presuppone a sua volta, a parte subiecti, il

mantenersi esposto all'evento nella lacerazione del confine dello

spazio proprio. Difatti nell'immagine restituita non possiamo

individuare un criterio gerarchico di organizzazione delle forme,

ottenibile unicamente con la messa in prospettiva del campo

visivo. Ma altrettanto poco ci troviamo di fronte ad una pittura

impressionistica, atomizzata. Allora ciò vuol dire che la

rappresentazione ha raggiunto il suo scopo: è riuscita a

testimoniare il senso invisibile imminente nell'immagine in un

blocco di puro affetto che promuove la comunicazione di

quell'incomunicabile che resta la sensazione di dono del reale, il

miracolo per cui ogni cosa che è, è anzitutto un accadere, un darsi.

Da qui l'insistenza con cui Jünger denuncia l'impoverimento

formale del moderno. E' una polemica irriducibile al registro

sociologico o estetizzante: le forme simboliche sono luoghi da

interpretare, soglie dell'invisibile che mostrano il cammino

dell'arrischio che è il soggiorno umano sulla terra.

L'esperienza entomologica testimonia della serenità di uno

sguardo non pregiudiziale sulla natura e che, sull'orlo della sua

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distruzione, illuminata dalla luce del tramonto, ci viene restituita

nella sua incontaminata purezza. E' quella particolare ilaritas che

presiede al pittore di beati giardini paradisiaci dove si danno corpi

semplici, perfetti nell'assenza di ogni espressività.

Penso che approfondire l'eredità di questa meditazione sia

innanzitutto mantenere la duplicità dell'interrogazione, o meglio,

sopportare la tremenda domanda muta che, all'interno della

catastrofe, la Terra ci rivolge in un'intatta perfezione.

In un passo dei 'Diari' della II Guerra Mondiale Jünger parla

di un fenomeno fitologico secondo il quale alcune specie di fiori

(Nyctagenariae) acquistano uno splendore incomparabile in

concomitanza della luce crepuscolare. Jünger aggiungeva come

questo fosse da tempo elemento di inquietudine.

Noi sappiamo in generale che l'inquietudine accompagna

l'attesa dell'ignoto.

Potrebbe invece essere plausibile che l'ignoto più inquietante,

in quanto figli della Terra, ci sia già da sempre consegnato in tutto

ciò che passando anche è.

Luigi Ranzani