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VIAGGIO IN EUROPA (1967) 1

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VIAGGIO IN EUROPA(1967)

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Tornato da Nuova York a Roma, preparato il servizio sui pugili, ho la sorpresa di non trovare più Edoardo. Ha lasciato il settimanale, assunto dalla televisione, che l’ha spedito in Congo. Il mondo assomiglia a un aeroporto, la gente è sempre in procinto di partire. Volgi un momento lo sguardo ed ecco, il vicino se n’è andato.

Il mio libro, i miei viaggi? La ricerca degli entronauti parve scolorirsi e disparire sotto la nebbia del consueto quotidiano. Mantenevo però viva l’intenzione, leggendo libri e scrivendo qua e là, a gente che avrebbe potuto darmi notizie, gente dall’esistenza spesso incerta e dall’indirizzo approssimativo. Di solito le lettere tornavano con laconiche indicazioni postali: partito, sconosciuto, defunto.

Una risposta tuttavia arrivò.In quel tempo leggevo esclusivamente libri sul corpo e

sull’anima, la vecchia questione. V’è chi crede solo nel corpo: morto, non resta che il cadavere, spaventoso superstite. V’è chi crede solo all’anima: uscita dal corpo, incontra il giudizio.

Non riesco a dar ragione ai primi. I pensieri non sono corporei, i miei pensieri spesso aggrovigliati, talora limpidi, talora inesprimibili, non sono del cervello: li sento più in alto. Come non sono viscerali i sentimenti: l’incanto che m’invade davanti al beato Angelico, l’inesauribile- stupore davanti al mare di Capri, l’amarezza davanti alla malvagità umana, la mia malvagità. Non esiste viscere che, toccato, faccia nascere in cuore la speranza. Non riesco a dar ragione ai primi.

Non riesco a dar ragione ai secondi. Certo nel cadavere non v’è pensiero né sentimento: dove sono andati? Dove va l’intelligenza, dove la bontà? Agli Dei, a Dio? Quali,

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quale? Giudice istruttore? Fabbricatore di miliardi d’uomini, destinati fin dal principio a perpetui inferni? Dopo trent’anni, graziamo gli ergastolani: è blasfemo pretendere Dio peggiore di noi. No, non riesco a dar ragione ai secondi. .

In quel tempo leggevo libri e libri, scrivevo lettere e lettere. Per l’anima e per il corpo, cercavo una verità sperimentale. Ma non trovavo strade.

Una risposta tuttavia arrivò.

Qualcuno m’aveva detto che a Parigi v’è un gruppo che si dedica ad esperienze extracorporee. Non sapevo altro. Extracorporeo: cosa vuol dire? Forse è spiritismo (esumazione di cadaveri psichici) o teosofismo (paccottiglia spirituale), oppure parapsicologia (l’infinito dell’anima misurato col centimetro del sarto) o forse occultismo (parola ambigua, che copre tutto, anche i giocolieri).

Fra tante incertezze, proprio da Parigi m’arrivò un libro, anzi due, vecchi del 1926. Autore? Nascosto sotto un pseudonimo: Yram. Editore: Adyar. Stampatore: L’émancipatrice, rue de Pondichéry.

Coincidenza: proprio a Pondichéry avevo incontrato nel ‘65 uno scrittore francese, un grande scrittore, nascosto dietro un pseudonimo: Satprem. Era malato. Non ho mai dimenticato i suoi occhi, di una dolcezza struggente. Stavamo su d’una terrazza e il cielo era bianco di sole. Si parlava di corpo e d’anima. Disse, quietamente:

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- Si può svincolare la coscienza dal corpo e uscirne. Ma attenti da dove si esce: dal cuore va bene, dalla testa è rischioso.

- Davvero possibile?Satprem, già volto ad altro, come si trattasse di cosa

risaputa, continuò con la voce bassa e lenta dei malati:- Sono esperienze vecchie come il mondo, vecchie come

l’uomo.Orbene, ecco questo Yram, stampato a Parigi in via

Pondichéry, raccontare lungo due volumi d’aver per dodici anni, dal 1914 al 1926, cavalcato l’anima, andandosene dal corpo. Dava anche i particolari e aggiungeva che a voce ne avrebbe dato altri. Denise, l’amica parigina che m’aveva trovato i libri, scriveva in un biglietto: «L’autore è morto intorno al 1935. Cercherò altre notizie». Yram offriva quel che andavo cercando: una verità sperimentale. Ma ormai non lo potevo più incontrare.

La gente che più vorremmo conoscere è quasi sempre morta. Aurobindo, Plotino, Angela da Foligno, Oppenheimer, il pellegrino russo, la monaca portoghese e tanti altri. Adesso anche Yram.

Spedisco un’altra lettera. Chiedo all’editore parigino notizie su Yram, pur minime. Dopo tanti partito, sconosciuto, defunto ho poca speranza.

Invece la risposta arriva e reca l’indirizzo ove Yram visse, quarant’anni fa. Un indirizzo: una traccia. Ma dovrei andare a Parigi e ora non posso, a causa dei soldi.

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La questione dei soldi dovrebbe essere chiarita. È assai oscura.

La prima oscurità, la più evidente e fastidiosa, è che tanti buttano i soldi e non capisci dove li prendano. Un esempio? Quel tale che ti saluta sempre, che incontri da per tutto, con la grossa automobile, belle donne, casa nei quartieri alti, imbarcazione, cartoline dall’estero, quel tale che spontaneamente ti ha confessato d’essere uscito da un orfanotrofio, quel tale a cui domandi, incuriosito:

- Ma tu, che lavoro fai?Risponde, cordiale, aperto, eppure sibillino:- Un po’ di tutto, quello che capita.Che mai gli capiterà? A me i soldi non capitano: li

debbo strappare.La seconda oscurità è che quanti hanno saputo arricchire,

sono spesso persone semplici, anche ignoranti e perfino sciocche, persone che parrebbero incapaci di dar vita a un negozietto e invece hanno messo in moto cento supermercati. Li guardi, misteriosi e ti senti un allocco.

La terza oscurità è che uomini e donne intelligenti, capaci, industriosi, faticano a campare, s’indebitano, muoiono poveri e sfiniti. Ciò avviene in ogni ceto, fra i professionisti e fra gli operai, fra gli intellettuali, gli artisti e i contadini. Come mai le migliori doti, le più pratiche, spesso non portano al denaro?

Forse il denaro ha delle preferenze, forse è attratto dagli sciocchi e respinto dagli intelligenti.

Quanto a me, posso viaggiare soltanto se un giornale mi spedisce. Non l’avevo ancora cercato, allorché tanto desideravo recarmi a Parigi, sulle tracce d’Yram.

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Non l’avevo cercato e mi mancavano i soldi. Così mi ritrovai a Londra.

Mi ritrovai a Londra una sera, inaspettatamente. Al mattino ero ancora a Roma, lontana ogni idea di viaggio. Ero andato alla sede della stampa estera (ove ho un recapito), sperando di trovare posta.

Invece trovo John, radiocronista francese, italiano di padre, americano di madre, sposo d’una svizzera. Armeggia sempre nel suo registratore, sa tutte le lingue, capace d’intervistare i muti, bravissimo nel suo mestiere eppure è di quelli che hanno sempre pochi soldi. Ma i soldi, chi li capisce?

La nostra è un’amicizia ilare: nel vederci, ci mettiamo di buon umore. Finge di detestare gli scrittori, fingo di detestare i giornalisti. Mi domanda se finalmente ho smesso di scrivere, gli domando se finalmente ha imparato. Del resto non ve n’è più bisogno: con radio, televisori, registratori, i giornalisti possono benissimo restare analfabeti. Ribatte: e gli scrittori illeggibili, anzi non letti.

Esauriti gli improperi, parliamo di cose serie. Gli viene un’idea:

- Perché non vai a Londra? Debbo lasciare il mio posto vuoto e mi secca. Sai, il volo inaugurale della compagnia inglese d’alberghi. Perché non vai a Londra?

- No, grazie. A Parigi sì Che faccio a Londra di questa stagione, con la nebbia?

- Che fai? Dieci giorni di vacanza, i migliori alberghi, tutto pagato. Eppoi forse l’aereo si ferma a Parigi. Per

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favore, va al posto mio, mi spiace di lasciarlo vuoto, avevo promesso. Al ritorno butti giù due cartelle e le registro. Dai, aiutami.

Insomma tanto fa e tanto dice, che al pomeriggio mi ritrovo in volo, con trenta giornalisti, accanto a un inglese che conosco di vista e che è il capo della spedizione. Conoscersi di vista vuol dire non conoscersi. C’incontriamo qua e là da dieci anni, ci salutiamo ogni volta con un mezzo sorriso e siamo totalmente ignari l’uno dell’altro. Non ne so neanche il nome, né conosce il mio. Gli domando:

- Ci fermiamo a Parigi?- No, direttamente a Londra.Consapevole dei doveri di capo spedizione, cerca di

conversare:- Vi occupate sempre di quei problemi, eh? Molto

interessante, molto.Chissà cosa vuol dire. Aggiunge, mentendo per sola

gentilezza:- Il vostro ultimo libro, eh? Molto interessante, molto.Trova un argomento migliore:- A Londra dovreste incontrarvi con Mrs. Maggie

McCann. Conoscete? Straordinaria, donna straordinaria. Voglio darvi un biglietto. È l’onnipotenza.

Chissà cosa vuol dire. Probabilmente mi scambia per un altro. Scrive su d’un suo biglietto alcune righe di presentazione. Me lo dà ripetendo:

- Mrs. Maggie McCann. È l’onnipotenza.Si alza e se ne va lungo l’aereo, di giornalista in

giornalista, a distribuire gentilezze da capo spedizione. Guardo il biglietto. Non mi par vero: ha scritto esattamente il mio nome. Che è l’onnipotenza?

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Siamo nel cielo di Francia, verso la Manica. Non scendiamo a Parigi, non potrò mettermi sulle tracce d’Yram. Chiudo gli occhi.

Vado riflettendo a quanto ci è faticoso aprirci agli altri. Siamo pigri. Degli altri conosciamo solo i margini. Ostriche mute. Chi è John, che m’ha indotto a questo viaggio? Non lo so. Ci vediamo, ci mettano di buon umore, ci scambiamo quattro insolenze. Troppo pigri per varcare i margini.

Ricordo Aldo, un collega americano. Avevamo lavorato insieme al tempo della guerra, eravamo amici. Ciao Aldo, come stai? Ciao ciao e tu e tu? In gamba.

Nel rivederlo lo trovavo sempre un po’ più grasso, mi trovava sempre un po’ più magro. Ma restavamo ai margini.

Un’estate lo incontrai alla stampa estera, nella sala di lettura. Nascondeva il naso con un fazzoletto.

- Che t’è successo?- Niente, sono caduto, niente: un po’ di sangue.- Hai bisogno di qualcosa? T’accompagno a casa?Se ne andò, lo vedo ancora. Andò a casa, aprì il gas e

s’uccise. Era disperato, tanto da voler morire, Non disse niente. In niente potei aiutarlo eppure avevamo lavorato insieme, eravamo amici. Ostriche mute.

In quel giorno d’estate Aldo andò a casa solo, in silenzio: col gas, staccò l’anima, dal corpo.

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Maggie McCann è una donna straordinaria, maestra d’onnipotenza. Ho mal valutato il capo spedizione. Si valuta male, stando al margini.

Andai da Maggie una domenica mattina, spinto dalla noia del giorno festivo. Il tedio domenicale britannico è compatto, opprimente, secolare. Già nel 1830 Tommaso de Quincey lo accusava d’averlo indotto all’oppio e cent’anni dopo Roberto Byron avvertiva che pochi viaggiatori sopravvivono, senza ammattire, a una domenica di Glasgow.

Così, uscito dall’albergo, chiamo un tassì e mostro all’autista il biglietto del capo spedizione con l’indirizzo di Maggie. L’uomo guarda il biglietto, lo legge, lo rilegge, poi dichiara di non conoscere quella strada e se ne va. Londra è talmente grande che nessun tassista la conosce intera. Affronto la nebbia, sprofondo nella metropolitana e ho maggior fortuna.

Maggie abita in periferia: una di quelle strade londinesi che si dilungano per non sai quanti chilometri, le case piccole, a un piano, identiche, tutte col giardinetto, eguali nel colore, nella porta, nelle finestre, nei comignoli: intercambiabili. Forse intercambiabili anche gli abitanti.

Trovo il numero, varco il cancelletto, controllo la targa: McCann. Premo il campanello e lo odo trillare all’interno. Ormai non si torna indietro. Sistemo la cravatta, verifico i bottoni. Un passo energico avanza verso la porta, che si spalanca. Un uomo in giacca da camera, l’aria del colonnello: anzi è il colonnello inglese. Alto magro baffuto, gran naso e occhi chiari, sopracciglia ispide, pochi capelli biondi e la scriminatura laterale. È il colonnello inglese simpatico.

- McCann?

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- Yes.Gli porgo il biglietto, lo legge ed esplode in ospitalità.

Sfoggia l’italiano. Avanti avanti, è stato due anni a Roma durante la guerra, perbacco, come no, certo certo. Allora parlava bene l’italiano. Avanti avanti perbacco, come no, certo certo.

- Siete venuto per l’onnipotenza. Scrittore. Perbacco, certo certo.

È il marito di Maggie. Non colonnello: ex capitano, ex funzionario in pensione, certo certo.

- Adesso Maggie scende. Sta scrivendo in camera. Lettere da tutto il mondo. Troppo, troppo.

Mi ha sistemato in una poltrona, nella stanzetta del soggiorno, accanto al caminetto ove il carbone è acceso. Mi sento assai imbarazzato. Ignoro tutto: chi è questa gente, cos’è l’onnipotenza. Come giustificherò la visita?

Mi guardo intorno: pochi mobili inglesi antichi, un raro blanc de Chine, un bell’acquarello di Robertson raffigurante la testa d’un bulldog.

- Bulldog?- Anche voi?Sono salvo: siamo entrambi amatori di bulldog. Traggo

fuori la fotografia del mio, il capitano la guarda, esce, torna con un grosso bulldog bianco, muscoloso, ben rincagnato, che m’odora i pantaloni rumorosamente, agitando il codino. Il comune amore per il bulldog val meglio d’una parentela,

Si ode un passo leggero che scende le scale. È Maggie. Il cane le corre incontro e Maggie appare nel vano della porta, sorridente. È una donna piccina, bionda, solo il collo denuncia i quarant’anni, il viso è bello, con i lineamenti

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delicati, gli occhi ridenti a mandorla, come piacevano a Baudelaire.

Mi guarda, mi saluta, offre il tè.

Dieci giorni a Londra, dieci giorni da Maggie. Sono attratto dal segreto dell’onnipotenza. Anche Maggie è un’entronauta. Non come Essy Mills, dal sangue amerindo, Essy che ha avuto l’incontro sacro e ora deve rendere sacra la vita, tremendo compito. Non come Yram e Satprem, che a cavallo dell’anima lasciano il corpo, tremenda avventura. Non così. Maggie ha scoperto che la sala dei comandi è dentro di noi. Dentro abbiamo tutte le leve dunque l’onnipotenza. Una verità semplice, ma difficile da capire, più difficile da praticare.

Maggie non ha scritto libri, non intende scriverne, non ne scriverà. Rifugge dalla fama. Ogni pomeriggio riceve tre o quattro persone e le aiuta a vivere. Ogni mattina risponde a chi le ha scritto. Compensi? No, non la conoscete. Non accetta niente, non le interessa il denaro, pur insegnando a tutti come si diventa ricchi.

Di tanto in tanto è sopraffatta dalla gente e allora il capitano la porta via, in un’altra parte dell’immensa Londra, senza lasciare l’indirizzo, salvo a pochi intimi. Fra gli intimi, il mio capo spedizione. Chi l’avrebbe sospettato? Ostriche chiuse.

Davanti a Maggie le ostriche si spalancano. Forse a causa della sua serenità. È una donna piccina, minuta, sorridente: la serenità le si estende intorno. Il capitano è

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sereno, è sereno il bulldog. Neanche abbaia quando suona il campanello della porta.

Un giorno venne a trovarla un uomo di quarant’anni, disperato, stretto in una morsa: denaro, famiglia, amori. Stava per soffocare, neanche tentava più di liberarsi, ormai capace soltanto di piangere.

Maggie lo ascoltò sino alla fine, poi domandò, con la sua voce sottile, gentile:

- Com’è tua moglie?- Arcigna, testarda, ostile.- Com’è la tua amante?

- Tanto tenera una volta: adesso arcigna, testarda, ostile.

- Com’è il tuo socio?- Tanto amico una volta: adesso arcigno, testardo, ostile.- Come mai?- È perché gli affari vanno a rotoli.- No. Prendi un’altra moglie, un’altra amante, un altro

socio e diverranno arcigni, testardi, ostili.- Un destino che non può cambiare?- Si può: se cambi te stesso.- Ma come?Ecco: come? Questo il segreto di Maggie, il segreto da

scoprire: come cambiare il proprio destino.Un altro giorno venne a trovarla una sposina.

Innamorata del marito, ne era gelosa: aveva paura dell’altra.- Quale altra?- Un’altra non so: l’altra.- Cara, t’accorgi che la stai fabbricando?Cominciavo a capire. Le nostre miserie ci sembrano

venire da fuori. Invece le formiamo noi, dentro, con la

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nostra sostanza. «Gli affari vanno a rotoli», «ho paura dell’altra»: l’uomo attira ciò che teme. All’uomo non capita quel che merita, ma quel che gli somiglia.

Come cambiare il proprio destino? Con la certezza.

Lo capii un mattino, da Maggie Il capitano era uscito a passeggiare col bulldog. Non v’era nebbia quel giorno: il sole era diventato prima sensibile, poi visibile. Londra era bella.

A Piccadilly Circus avevo preso l’autobus. Se uno straniero si aggira a Piccadilly Circus, entro quindici minuti incontra un amico inaspettato, appena arrivato in Inghilterra. Ma non ho atteso quindici minuti: sono salito sull’autobus dopo una breve coda. A Londra si sta sempre in coda. Se tre persone si mettono in fila per caso, i passanti s’accodano mimeticamente.

Oggi Londra è luminosa, vista dall’alto dell’autobus a due piani. I grandi marciapiedi di Regent’s Street pieni di gente che si gode il sole del mattino, prezioso: le dattilografe dalle gonne sopra il minimo (ma hanno il passo militare), i giovani poliziotti dai pochi gesti tranquilli a regolare il traffico, gli affissi che annunciano tutti i pianisti del mondo e la nascita dei tigrotti allo Zoo, le secolari insegne dei negozi e le donne in tuta (sigaretta fra le labbra) che ancora puliscono gli ingressi, i cani mendicanti pro orfanotrofi, le vetrine delle farmacie con gli ultimi ritrovati per i due acciacchi nazionali: il raffreddore e la stitichezza.

Arrivato nella strada di Maggie, la percorro a piedi. È ingiusto parlare male di queste casette identiche, i giardinetti

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erbosi, le porte dipinte di bianco. Chi vive nelle nebbie, deve ritirarsi in se stesso. A Napoli si può campare e morire all’aperto. Qui no: il sole è raro, prezioso. Qui ciascuno deve avere la propria casa, aprire la porta bianca con la propria chiave, senza suonare: dentro, il riparo e il regno.

Come cambiare il destino? Con la certezza.Usciti il capitano e il bulldog, Maggie è intenta a pulire

le stanze: i guanti di gomma, il fazzoletto in testa. M’accoglie festosa: ha il sorriso negli occhi a mandorla. Si meraviglia del mio mazzo di fiori, offre il tè, lo rifiuto, mi rannicchio in poltrona: la guardo di sott’occhio. La sua presenza acquieta. John, che m’ha mandato in Inghilterra, John, malalingua, direbbe che sto innamorandomi. Non da adesso, da sempre: cerco la serenità e l’ho qui, viva.

Suona il campanello, vado ad aprire: è il disperato dell’altro giorno, ha bisogno di Maggie. E Maggie è già lì, già si è tolta guanti e fazzoletto, già lo porta nel soggiorno, già lo induce a parlare:

- Sto fallendo.Pur essendo inglese, piange senza badare a me, si pulisce

il naso, singhiozza, si mette la mano sulla bocca, infantilmente. Non bisogna schernirlo, non bisogna accusarlo di debolezza. È vinto dalla disperazione: chi l’ha conosciuta non ne ride. Il poveretto dice:

- Tutti m’hanno abbandonato. Non ho più nessuno.- Hai ancora te stesso.- Come salvarmi da solo?

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- Con la certezza. Non la speranza, non la fede: la certezza.

Cambiare il destino, trovare l’abbondanza. Tutti vogliamo l’abbondanza, tutti sentiamo d’averne diritto. Come mai ci manca? Come mai ci mancano i soldi, la salute, l’amore, la fortuna? Gli è che ci manca la certezza. Anzi, abbiamo la paura.

A un vecchio banchiere, Maggie dice (chiama tutti per nome, che è il modo inglese di dare del tu):

- Hai la faccia impaurita, Paul.- È vero, sono pieno di timori. Principalmente il cancro:

ci penso sempre. Poi l’automobile: ci muori dentro schiacciato, soffocato, bruciato. Poi la guerra: ne ho viste tante. Poi i soldi: la sterlina scende a zero. Non leggi i giornali?

- Non leggerli, Paul. Atterriscono. Fa la cura del non leggere, del non guardare la televisione, non ascoltare la radio. Vivi nel terrore, Paul. Con tante paure, come tiri avanti?

Liberarci dalla paura e dai suoi figli, la timidità, il rancore, la gelosia, la collera, l’odio, la vendetta. E la figlia maggiore, la scontentezza, che aumenta sempre, che rende sempre più desolati, tira sempre più in basso e ci si abitua, per inerzia: è più facile restare nell’amarezza che salire alla letizia. E c’è anche un gusto, nel sentire ostile l’universo.

A una donna, abbandonata dal marito, Maggie dice:

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- C’è un gusto. La paura è una droga: non si può farne a meno. Ma l’universo non ti odia: ti ama. È vero, Ruth: ti ama.

- Mi ama? Ah, questa è bella. Ma se non sono niente, ma se non sono nessuno.

- Ruth, l’universo intero sarebbe differente, se anche uno solo di noi non fosse nato. L’abbiamo cambiato noi, lo andiamo cambiando, tu e io. Siamo necessari, anzi indispensabili. Ruth, vuoi che tuo marito torni?

- Non ho altra speranza.- Non avere speranza, non avere fede: abbi certezza. Va

a casa, Ruth: prepara il suo letto, come tornasse stasera. Metti il suo posto a tavola, come t’avesse telefonato. Non sparlare di lui, non odiare l’altra, non giudicare, non condannare, non piangere: fatti bella, sta per tornare. Devi spurgarti da tutta la paura che per tanti anni hai ingoiato. Ruth, quando sarai piena di certezza, tornerà.

Due uomini dall’animo diverso, davanti agli stessi eventi, trovano l’uno la fortuna, l’altro la sventura. Il secondo, impaurito, lascerà sfuggire l’occasione, volgerà al peggio l’incontro, trasformerà in disgrazia il suo momento. Il primo intanto si sarà arricchito. Dentro abbiamo le leve del nostro destino e le possiamo muovere a volontà.

Le domando:- E se mi capita una sconfitta?- Battezzala vittoria e lo sarà.Come molti inglesi, come Blacke il pittore, Wallace lo

scienziato, anche Maggie parla spesso degli angeli. A uno studente, che vuole lasciare l’università o cambiarla, dice:

- Hai chiesto consiglio all’angelo?- Quale?

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- L’angelo che hai dietro di te. Non te ne sei accorto?- Mai. Dove sta?- Dietro la schiena, un po’ sopra la testa.- Un angelo?- Sì. Alcuni lo chiamano santo o vergine: è una

presenza. Chiedigli di guidarti e lo farà.Per molti è incredibile. Molti derisero l’aeroplano,

finché due fratelli, aggiustatori di biciclette, in preda alla certezza, volarono. V’è un angelo, dietro la schiena, un po’ sopra la testa. V’è una presenza. Come provarlo? Parlandogli: risponde.

Vogliamo l’abbondanza, ne abbiamo diritto. L’universo è sovrabbondante d’ogni bene, per ciascuno dei suoi abitatori. Per essere colmati, basta spalancarsi e non restringersi. V’è una tecnica, come in tutte le scienze sperimentali. Vi sono le regole e per ognuna si dovrebbe scrivere un trattato.

Prima regola. Liberarsi dalle paure, sorvegliare i pensieri, i sentimenti, particolarmente quelli sotterranei, che appena s’intravedono, vecchi timori retaggio dell’infanzia, dell’educazione, degli avi. Snida il pensiero che t’opprime.

Seconda regola. Riempiti di certezza, certezza d’ogni bene. Se l’antica deformazione interiore ancora t’induce al dubbio, costruisciti delle immagini d’abbondanza: porte si spalancano davanti a te, strade infiorate, forzieri aperti colmi di oro. Inventa frasi, strofe, ritmi: ripetili in continuazione, ripetili tante volte, quante volte hai ingoiato i pensieri ansiosi. Ripetili fino a diffondere certezza.

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Terza regola. Prima ancora che l’abbondanza ti colmi, già ringrazia. Ringrazia l’angelo, il santo, la vergine, la fortuna, l’universo, la presenza, non importa il nome. Importa ringraziare come se già avessi ricevuto, quando ancora non v’è il minimo segno dell’arrivo. È indispensabile: dà le ali all’abbondanza. Non solo ringrazia, ma comportati come se già avessi avuto: se stai per ricevere denaro, spendi perché già l’hai riscosso se stai per ricevere salute, lascia il letto perché già sei guarito; se stai per ricevere amore, canta perché già sei amato.

Quarta regola. Benedici. Non è facile, aridi come siamo, ma è salutare. Trova nel tuo cuore una benedizione e spandila. Benedici chi ti ama e chi no, benedici chi incontri e chi sta lontano, benedici quando ricevi e quando dai, benedici il passato e l’avvenire. Benedici perché la vita non presenta ostacoli, né inimicizie, né rivalità: la vita offre a ciascuno il suo cimento. Tu l’hai già vinto, compagno come sei della certezza e dell’abbondanza, Benedici sempre.

Questa è l’entronautica di Maggie. Naturalmente gli accorti, gli esperti, i saputi ne rideranno, ricordando il farmacista Coué. Avranno ragione, perché essi hanno già cercato e trovato la loro abbondanza: quella incredula, negativa e amara. E non avranno altro.

La questione dei soldi si è così chiarita. Sembrava assai oscura.

Dicevo: tanti buttano i soldi e non capisco dove li prendono. Ora capisco. Per ricevere in continuità il denaro, bisogna darlo senza paura. Ciò che dài agli altri, lo dài a te

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stesso. Se non ascolti gli impulsi a dare, ti restringi. Se rallenti il deflusso, rallenti anche l’afflusso della tua abbondanza. È una legge idraulica.

Ora capisco quel tale che a Roma mi saluta sempre e dice:

- Che faccio? Quello che capita.A lui capita, a me no: è naturale. Egli sta con l’animo

aperto e attende, invece io non aspetto niente, sto chiuso nel mio scrivere, neanche immagino. Possediamo quello che abbiamo in mente: se neanche ci passa per la testa, non possiamo certo possederlo.

Ora capisco perché tanti ricchi sono persone semplici, ignoranti, perfino sciocche. Perché il ricco dovrebbe essere intelligente? Gli basta il convincimento, nel fondo dell’anima, nel segreto. Costruisce la sua fortuna con la certezza profonda,

Ora capisco perché uomini e donne capaci e industriosi, muoiono poveri e sfiniti, dopo tanti stenti. Ognuno immagina la propria vita e così la vive. Essi hanno sempre temuto: la povertà, le malattie, l’inettitudine. La vita consente: dice sempre «Sì, sì». Dà quel che ciascuno immagina. Nulla immagina meglio della paura. E’ l’onnipotenza all’inverso.

L’onnipotenza non è un segreto: è un metodo.

Ritrovo Maggie sola. È l’ultimo mattino: parto domani. Ha guanti e fazzoletto, intenta a spolverare. M’accoglie festosa. V’è un grande incanto nei suoi occhi a mandorla.

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Al solito si meraviglia del mazzo di fiori. Mi rannicchio in poltrona e la fisso mentre sfaccenda.

Come avrà trovato il metodo dell’onnipotenza questa donnina inglese, bionda, piccina, semplice, la voce sottile, gentile, entronauta senza saperlo? L’avrà trovato curando la casa, curando il capitano e il bulldog?

Glielo domando e mi risponde senza esitare:- Nel Vangelo. Voi cattolici...- Maggie, non dirlo anche tu. Conosco il Vangelo,

letto e riletto.- Allora ricorderai...Cita, molto seria:- Se uno dice a questa montagna: Gettati in mare e non

esita in cuor suo e ha certezza che quanto dice si compie, il monte si getterà. Sono parole di Gesù, riferite da Marco. E ancora: qualunque cosa domandate avendo certezza d’ottenerla, l’otterrete. Matteo: se avete certezza quanto un granello di senape, niente v’è impossibile. Luca: se avete certezza, potete dire a questo gelso: sradicati e trapiantati in mare. Vi obbedirà. Tutte parole di Gesù. Anche queste.

Canticchia, forse un inno della sua chiesa: ha la voce sottile ben intonata:

- Non vi angustiate per il vostro vivere. Guardate gli uccelli dell’aria e i gigli del campo. Non mettetevi in pena per il domani: il domani avrà cura di voi.

Corre ad un cassetto, ne trae la sua Bibbia, vorrebbe regalarmela, in ricordo.

Rifiuto:- No, ho quella italiana, M’hai già regalato un Arcangelo.- Non è un angelo?- No, a me hai dato un Arcangelo. Comincio a parlargli.

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Tornano il capitano e il bulldog. Uomo simpatico meriterebbe d’essere colonnello. Bel cane, vale il mio. Ciao Maggie. Si alza sulla punta dei piedi e mi bacia la guancia. Cara Maggie. In tre m’accompagnano al cancelletto. Li saluto ancora, prima di sprofondare nella metropolitana.

Perché debbo sempre partire? Ove sto, lì vorrei radicarmi. Nel 1965 a Pondichéry, nel 1966 a Nuova York. V’è sempre un vento che mi porta via. A Londra metterei radici accanto a Maggie. La sua casetta di periferia m’è parsa la dimora (deve pur esistere da qualche parte) ove, con l’amico sicuro, ci aspetta sorridente la serenità.

Dove mi conduce il vento? Stanotte tornerò a Roma, desiderando Parigi. Mi sento triste e non dovrei, perché l’onnipotenza è uno stato d’animo.

E’ sera, la nebbia è calata sul ponte di Waterloo, ove indugio a guardare il Tamigi. Intorno tutto è indistinto, salvo la luce dei fanali, flanella grigia. Sul fiume appaiono e dispaiono infaticabili battelli, insetti neri. In tanta bruma, mi sembra d’essere solo. Rivolto all’Arcangelo, gli dico a voce alta:

- Dunque non vado a Roma: mi fermo a Parigi.Voci in me gridano impossibile, impossibile. Rifiuto

l’ascolto. All’albergo m’accoglie il capo spedizione, sorridente: ha telefonato a Maggie e sa della nostra amicizia.

Mi dice, rammaricato:- Il ritorno sarà un po’ più lungo. Vengono con noi

cinque giornalisti francesi. Dobbiamo far scalo a Parigi.

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Stupefatto, dimentico di ringraziare l’Arcangelo.

Parigi di maggio, sulle tracce d’Yram, navigatore dell’anima. Mi manca la lettera dell’editore con l’indirizzo: è rimasta a Roma. Telefonerò alla casa editrice appena recuperate le valigie.

Parigi di maggio: cielo azzurro. A Londra, quando appare un brano d’azzurro, la gente si sporge dall’autobus per guardarlo e se lo indica. Si rallegra, come ad Alessandria d’Egitto quando piove. E’ difficile a Orly trovare le valigie. Infine scopro le mie, sole e abbandonate. Nessun facchino in giro. Le afferro e m’avvio sotto il peso verso le cabine telefoniche, lontane.

Parigi di maggio: bel sole. Alla casa editrice, la telefonista oggi è per il no. Un indirizzo? Di chi? Yram? Non è nostro autore. Quarant’anni fa? Esaurito. Il direttore? Partito: torna il mese prossimo.

Parigi di maggio è bella, ma ai miei occhi il sole sta perdendo fulgore. Telefono a Denise, l’amica che m’ha trovato i due volumi e promesso altre notizie su Yram. Vive fra i libri, direttrice com’è d’una collana editoriale. Al suo ufficio risponde la segretaria, voce melata, anche lei per il no. Denise non c’è. A Bordeaux. Non so quando torna. No, non ha lasciato niente. Come vi chiamate? No, niente. Volete venire lo stesso? Venite.

Ci vado perché Denise potrebbe avermi scritto a Roma e in ufficio troverei la copia. Trovo invece la segretaria bella e stupida. La bellezza delle ragazze è una moneta che sull’altra faccia ha spesso la stupidità. L’una è esattamente

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grande quanto l’altra. Più guardo questa ragazza e più m’avvedo che è splendida, accidenti. Il trucco, l’acconciatura, il vestito sono di oggi, ma la sua bellezza è senza tempo: sarebbe piaciuta ai nonni, piace a noi, piacerebbe al nipoti. Come impiegata è un’oca giuliva: benedetta Denise, come fai a tenerla?

Non sa, non è informata, non ricorda. Yram? Ha la voce dolce, recita un po’, nel guardarmi batte le palpebre. Sa il mio nome e indirizzo, Denise le detta le lettere, Roma bella eh? Ci vuol andare. Non m’aiuta, eppure m’intenerisce: so quanto la bellezza femminile, la grande bellezza, è pesante da portare.

S’è convinta che intendo tradurre un libro, né riesco a dissuaderla. Meditabonda:

- Corpi e anime? Non è un romanzo famoso?Poi, illuminandosi:- Sì, abbiamo un dattiloscritto in lettura. Bicorpo o

qualcosa di simile. Aspettate.Lo trova in un cassetto e me lo porge. Diffido.Autore: Arthur Leroy. Titolo. Bicorporeità dissociata.

Sessanta pagine dattiloscritte, qualche disegno, una busta piena di fotografie. Il testo è di tipo scientifico eppure comincia, con una citazione di Victor Hugo:

«Ciascuno è libero d’avanzare o no su questo promontorio di sgomenti. Se stai fermo, resti nella vita comune, nella coscienza comune, nella comune virtù, nella fede ordinaria, nell’ordinario dubbio: ed è bene. Se invece avanzi, sei preso. Se insisti nell’afferrare l’inafferrabile, nel penetrare l’impenetrabile, nell’esplorare l’inesplorabile, ti lanci nella dimensione infinita».

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Il vecchio Hugo è pur sempre un leone. Continuo a sfogliare e cado su questa frase: «V’è una corporeità fisica e una corporeità aerosomatica: sono dissociabili». Leroy è dunque figlio d’Yram?

Gli occhi Luminosi della ragazza mi fissano, battendo le palpebre. La bacerei: ignara, mi ha dato un tesoro. Le prometto i cioccolatini, povera bimba, con tanta bellezza da portare.

Corro all’albergo, il dattiloscritto sotto il braccio. Grazie, Arcangelo.

A Parigi non ho mai trovato un albergo che valga quel che costa. Qui manca una poltrona ove adagiare il corpo e darsi alla lettura. Mi sdraio sul letto e comincio a leggere in fretta, commentando.

Primo capitolo. Citazione di studi precedenti, autori, bibliografie. Biometro di Baradouc (è del 1887: strapassato), raggi N di Blondlot e Charpentier (nel 1903 se ne parlava tanto, nel 1910 non se ne parlava più), le esperienze di De Rochas e quelle di Hector Durville (attendibili e interessanti), i volumi dell’altro Durville (Henri, spesso ciarlatano), di Lancelin (libro grosso e confuso), di Bozzano (minuzioso ma limitato), di De Boni (eccellente), di Myers (un grande, un classico). Bene e poi?

Secondo capitolo. Esperienze quinquennali di un gruppo di studiosi parigini: cinque uomini e due donne. Scopo: passaggio cosciente dalla corporeità fisica ad un’altra corporeità che chiamano aerosomatica. Questo aerosoma può provocare fosforescenze colorate passando davanti ad

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uno schermo di solfuro di calcio. In particolari condizioni è fotografabile. (Aerosoma? Un altro nome, l’ennesimo. Perché, intendiamoci, di questa faccenda si parla da mille anni, da duemila, da sempre. E i nomi sono stati tanti: cinesi, indiani, maya, gli egizi lo chiamavano doppio, i greci psiche ossia farfalla perché svolazzante, gli gnostici cristiani pneuma ossia aria perché leggero, gli alchimisti medievali mercurio volatile, nel secolo scorso l’hanno battezzato corpo odico, astrale, eterico, oggi questi parigini aerosoma).

Terzo capitolo. Gli sperimentatori: dai 30 ai 75 anni, tutti in eccellente salute fisica e psichica tutti con un lavoro quotidiano: un elettronico, un tecnico di laser, un attuario, un ingegnere, una chimica, una direttrice di liceo e un medico, docente universitario, il più anziano e direttore del gruppo. La loro collaborazione è volontaria e gratuita. Nei cinque anni di lavoro, uno ha dovuto rinunciare per segni d’insofferenza psichica ed è stato sostituito. (Bisogna che li trovi, bisogna che li conosca. Aspetterò il ritorno di Denise. Voglio guardare le loro facce, ascoltare le loro voci. Sono gli entronauti che cercavo. Ti prego, Arcangelo. Anzi: grazie, Arcangelo).

Quarto capitolo. Preparazione fisica e psichica dai 6 mesi ai 2 anni. Respirazione e tecnica per introdursi lucidamente nel sogno. L’inglese Dunnes (precognizioni) e il russo Kassatkin (preannuncio malattie). Tecnica per l’interruzione del pensiero nella veglia e successiva dissociazione volontaria e cosciente. Identità delle 7 esperienze comparate. L’aerosoma accanto al corpo fisico e lontano dal corpo fisico. Zone aerosomatiche e loro aspetti. Oltre l’aerosoma: mensoma e ipersoma.

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Il dattiloscritto finisce qui. Chi sarà Arthur Leroy, l’autore? Mai sentito nominare. Aspetterò il ritorno di Denise. Rileggo la citazione di Victor Hugo, quasi un monito per me: sei libero d’avanzare o fermarti su questo promontorio di sgomenti. Libero? No: non ritorno indietro. Conosco le comuni virtù e i vizi abituali e non mi bastano più.

Denise al telefono: nessuno l’ha mai desiderata tanto. Donna capace, ancora belloccia, indaffarata come un ministro, in due minuti chiarisce tutto:

- Arthur Leroy non esiste: è un nome collettivo, il nome dei sette. Sono i Leroy. No, non è un dattiloscritto da pubblicare. L’ho ottenuto in prestito, sapendo che venivi a Parigi. È l’argomento d’Yram, no? D’Yram non ho saputo altro. Vuoi conoscere il gruppo? Difficile, sono chiusi, sfuggono gli indiscreti. Sei un indiscreto, non negarlo. Fra tre anni stamperanno tutto, ora niente. Come aiutarti? Ve n’è uno che m’ha chiesto di pubblicargli un libro nella nostra collana storica. Cercherò di ricattarlo. La mia segretaria ti saluta, aspetta i cioccolatini, corruttore. Appena so qualcosa ti chiamo.

Parigi è la capitale del bighellone. Egli deve avere l’anima inerte e la gamba alacre. Asceta vagabondo, rinuncia al cordon-bleu, s’accontenta del filoncino al prosciutto, accompagnato dalla birra bionda. Poi subito via, fuori, fra la gente, nei negozi, per le strade, ai mercati delle pulci, fino a sera. Se gli torna fame, compra un cartoccio

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dal fruttaiolo e cammina lento nel crepuscolo, sputando i semi.

Nel girandolare, ritrovo i luoghi degli scrittori amati. Jardin du Luxembourg ove forse veniva Maurice Magre. Dalle sue pagine per la prima volta vidi Pondichéry. Giardino delizioso ove passeggiano studenti polemici e professori distratti, ove giocano i ragazzini affidati alle cure di fanciulle belle e gravi, intente a leggere libri. Forse Magre sedeva su quella panchina isolata, schivo com’era, non vecchio ma stanco, componendo nella mente il suo libro delle certitudini. Ciascuno deve possedere le proprie ammirabili certezze.

Rue de Grenelle ove trovo l’ombra di Maurice Maeterlinck, accompagnato dal bulldog, mentre si reca dall’editore Fasquelle a consegnargli l’ultima sua opera, al solito piena d’interrogativi, cui egli stesso non sapeva rispondere. L’importante è porsi gli interrogativi.

Montmartre ove siedono i competenti di pugilato, La Villette patria del bulldog francese, rue Volta che al numero 3 ha la più vecchia casa di Parigi, m’han detto abitata da Cartesio, quello del funesto penso dunque sono, sbaglio che paghiamo ancora, mentre è vero il contrario, sono dunque penso, come dimostra il dattiloscritto dei Leroy che, per le loro esperienze, debbono interrompere il pensiero: non pensano eppure sono.

Denise telefona:- Domani hai il primo incontro. È uno del gruppo, forse

non dei sette. Invitalo a pranzo.Bene grazie. Mi preparo a prendere appunti.

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Appunti della sera, dopo il primo incontro.Un tipo distinto, lungo e stretto, molto pelato per i suoi

trentacinque anni, altezzoso: l’alterigia gli serve da riparo. Esordisce, spiegando il tovagliolo:

- Non sono che il numero otto, in lista d’attesa. Vi dirò sùbito che m’hanno mandato per esaminarvi. Aggiungerò che sono ebreo, così non rischiate topiche. Ebreo e antisemita. E voi?

Cerco di parlare dei Leroy, ma egli sfugge:- Abitate a Roma. Ecumenismo, interessante. Non

capisco perché oggi i cristiani si occupano tanto della fame: dovrebbero interessarsi dell’inferno. Non vi pare? Morire di fame è probabilmente il metodo migliore per andare in paradiso. Pensate ai digiuni degli asceti. Allora perché combattere la fame? Non l’hanno combattuta per tutti i medioevi. Temo che i cristiani siano ormai materialisti. Un momento di fame quaggiù e il paradiso eterno. Non v’è paragone. Invece d’offrire cibo alla gente, bisognerebbe toglierlo. Non vi pare? Nessuno si occupa dell’inferno. Ma ci pensate? All’inferno, fra pene atroci, si trovano miliardi di uomini donne bambini di tutti i tempi, da millenni e per sempre. E ogni giorno ce ne vanno altri milioni, i nostri padri madri figli amici benefattori, i nostri pensatori poeti artisti, i migliori di noi e quasi tutti quelli che non sono cristiani ossia la maggioranza. Vi rendete conto che orrore universale? I cristiani dovrebbero mettersi assieme, patriarchi arcivescovi archimandriti abati pope preti pastori monaci suore, centinaia di milioni di fedeli, mettersi insieme su tutto il globo, pregando giorno e notte nelle strade, gemendo lacrimando implorando da Gesù che l’inferno sia

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aperto e tutti liberati. Davanti a tanta impetrazione, Gesù grazierebbe e ne darebbe un segno. L’inferno e non la fame, capite? Temo che i cristiani siano ormai materialisti.

Vuole sbalordirmi e vi riesce. Vuole impedirmi di porgli domande e vi riesce. Mangia poco, è vegetariano e analcolico:

- Non per scelta, no. Sono un conoscitore di sciampagna e di caviale. Ma da un anno sto in allenamento. Come ci chiamate? Entronauti. I pugilatori devono mangiare bistecche, noi verdure. I nostri esperimenti v’interessano, nevvero?

Finalmente comincia a parlarne. Premette che non sa niente d’esperienza propria. Egli segue il Principio di Amleto: tutto è possibile. Se è davvero possibile uscire dal corpo ed essere coscienti nell’aerosoma, ogni cosa cambia, ogni valore corrente, vita e morte. D’accordo? La maggiore riluttanza all’idea dell’immortalità, ci viene dal non poter concepire un’anima senza corpo. Bisogna parlare con quelli che hanno avuto l’esperienza del distacco. Sorride, divenuto amichevole:

So che debbo morire e sento che non posso morire, perciò mi sono messo in quest’impresa. Forse la morte non è che la vita, non intesa ancora.

Sulla soglia del ristorante si scusa:- Ho ferito il vostro animo cristiano? Questa è un’epoca

in cui gli uomini giudicano i loro Dei.Se ne va. Non ho saputo quasi niente. Mi ha esaminato.

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Appunti della sera, dopo il secondo incontro. M’hanno promosso, credo.

Lo stesso pranzo, ma tutt’altro uomo. D’acchito m’è parso più vecchio del primo, a causa dei capelli grigi. Invece non lo è. Più basso, più solido, uno sportivo. Non ha l’eloquenza dell’altro: riflette, cerca le parole giuste, tace. Siamo entrambi intimiditi dall’argomento che ci interessa e che appena sfioriamo. La confidenza non s’improvvisa. Per Maggie sarebbe facile: il suo cuore sa benedire silenziosamente tutti. La benedizione apre le porte interiori.

Il pranzo passa invano. Propongo di recarci al Jardin du Luxembourg, sperando nel potere distensivo dei prati, dei fiori, degli alberi. Mentre camminiamo, gli confido la mia ricerca. Sam del nudismo, scienziati del monastero, Essy del peyote, Maggie dell’onnipotenza, infine Denise provvidenziale: cercando Yram m’ha portato ai Leroy, tramite una segretaria bella e sciocca.

Ci sediamo. I suoi capelli grigi contrastano col volto fresco e abbronzato. Comincia a parlare.

È un’esperienza vincolante e totale, come per l’atleta un primato del mondo. Giorno e notte, anzi la notte più del giorno. Si deve aprire un varco alla nostra coscienza, prigioniera com’è dei sensi corporei. Si comincia fra la veglia e il sonno, quando la dissociazione è naturale. È un lavoro lungo, tecnico, tenace, A poco a poco il varco si apre e la coscienza passa lucida e memore dalla veglia al sogno alla veglia. Poi si deve aprire un altro varco, nel pensiero. Quando non siamo incarcerati nei sensi, lo siamo nel pensiero. Nel pensiero, l’uomo è ruminante.

Tace. Forse è stanco di parlare, forse gli è difficile. Ricordo il discorso di Essy del peyote: «La mente diviene

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leggera, i pensieri s’attenuano, ma non la coscienza: i pensieri se ne vanno, gli ultimi escono lentamente, uccelli lontani che passano nel cielo. Silenzio inaudito».

Ripeto, a voce alta:- Silenzio inaudito.Mi guarda sorpreso:- Sì.Tace. Lungo il viale passano gli studenti polemici, i

professori distratti, i ragazzini sorvegliati da fanciulle belle e gravi, lettrici perseveranti. Tace. Raramente ci accorgiamo che gli uccelli cantano. Mi guarda, sorride, riprende il filo.

Conquistato il sogno, varcato il pensiero, siamo pronti al distacco in piena veglia. Il distacco ossia lo sgomento. D’improvviso ti trovi in piedi nella stanza, fra gli oggetti abituali, con un grande senso di levità. Ti guardi intorno, il tavolo, la libreria, il divano. Sul divano... Chi è sul divano? Un uomo... Addormentato? No... quello... sono io. Il mio corpo. Un orrore ti prende, terribile e lacerante. Sono morto, dunque sono morto. Madre, no. Madre, ho tante cose da fare, hanno tanto bisogno di me. Ti soccorre il lungo, lavoro preparatorio: non sei morto, sei dissociato. Infatti hai un secondo corpo, più piccolo, lieve, aerosoma, libero dalla gravità, mosso dal volere. Un corpo unito all’altro da una sorta di legame luminoso, colorato e vibrante, quasi ombelicale. L’orrore lentamente t’abbandona, sostituito dall’avidità di conoscere. Osservi, controlli, paragoni. La realtà bicorporea s’impone, evidente, inoppugnabile. Osservi, controlli, paragoni e t’accorgi che i valori della tua vita stanno franando. La vita non è quel che hai sempre creduto: è completamente diversa.

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Lungo il viale passano altri studenti, altri professori, Gli uccelli continuano a cantare. Nel salutarmi, conclude:

- Forse l’umanità futura dirà dei nostri tempi: quando si credeva all’esistenza della morte.

Appunti della sera, dopo il terzo incontro, l’ultimo.È un vecchio, è il capo, m’ha invitato a casa sua:- Entronauti. Mi piace il vocabolo. L’avete inventato

voi?Un vecchio alto e magro, i capelli candidi. Dalla gola

aggrinzita gli esce un pomo protuberante: mentre la bocca parla, il pomo sale e scende, autonomo. Sopra le guance incavate, gli occhi sono incredibili: celesti. Li figge nei miei e ne sento la vibrazione mansueta, com’è mansueta la voce:

- Pubblicheremo tutto fra tre anni, credo. Vi prego, non scrivete troppo di noi. È meglio restituirmi il dattiloscritto, nevvero. Grazie, tante grazie. Entronauti. M’hanno parlato dei vostri viaggi. Adesso andrete in Persia, in India e in Estremo Oriente. Bene. M’hanno detto dei fisici in California e del peyote. Noi no, noi evitiamo qualsiasi sostanza stimolante, perfino il tabacco, il caffè, il vino, le proteine animali. Noi esercitiamo la coscienza: da liquida com’è, la rendiamo solida.

È un vecchio a cui sùbito vuoi bene. Senti che ha camminato tanto, che ha visto tante cose, tante cose provato, tante cose capito.

- Pubblicheremo tutto, forse. Amico mio, sembra mirabolante: non lo è. Arrivare all’aerosoma è facile, per

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chi è sano, equilibrato, preparato e guidato bene. Si deve soltanto dare robustezza e continuità alla coscienza, ché non cada nell’abituale oblio del mattino dopo il sogno della notte, l’oblio di Lazzaro dopo la resurrezione. Ci sembra mirabolante solo perché ci hanno ficcato in testa una vecchia menzogna: «Nessuno è mai tornato a dirci com’è». È vero il contrario. Da sempre, innumerevoli uomini non hanno fatto che andare, tornare e raccontare. Leggete i poemi, leggete la storia. Ulisse inquieto, l’uomo è andato da per tutto: montagne oceani poli equatori, sotto terra, sott’acqua, nei cieli, nel cosmo. E non si sarebbe lasciato tentare da questa soglia? Ma allora non lo conoscete.

Si alza, prende una bottiglia e mi offre una sorta d’elisir. Vuoi bene a questo vecchio: lo senti fragile, effimero e prezioso.

- Forse non pubblicheremo. L’aerosoma è soltanto una tappa. Dopo i primi stupori, diventa facile l’altalena volontaria fra una dimensione e l’altra. Ulisse inquieto, non gli basta più di rimirare il corpo sul divano. Scopre che l’aerosoma ha un proprio spazio, percorribile. Scopre che oltre la seconda dimensione ve n’è un’altra. Mensoma? Altre ancora. Ipersoma? Dov’è il vocabolario? Siamo oltre la mente, oltre il dicibile, ben più del vostri fisici in California. Bevete, bevete, vi piacerà.

Si alza in tutta la sua magrezza e con le lunghe braccia indica i volumi della libreria:

- Dov’è il vocabolario? Abbiamo tentato col vocabolario scientifico. Avete visto il dattiloscritto. Ma è troppo limitato. Per queste esperienze si sono usati altri linguaggi, più espressivi: simbolici, poetici, magici, religiosi, alchemici. Forse l’alchimia aveva raggiunto la massima

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capacità comunicativa. Noi, i Leroy, abbiamo un idioma povero: arriva all’aerosoma e poi si ferma. E tutto il resto?

- Quale resto?Mi fissa coi suoi occhi celesti, non mansueti adesso:

vigorosi, penetranti, nel tentativo d’essere più eloquenti della parola:

- La ragazza amerinda, la ragazza del peyote: ha detto la verità. Non tutta la nostra anima è incarnata. Ha detto la verità: l’universo è una sublime vibrazione di gioia. Il dolore? Un’onda dissonante e breve.

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