Emigranti - gruppocarige.it · del 27 novembre 1900, il ministro Emilio Visconti-Venosta, politico...

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«L’emigrante è la merce su cui si esercita la speculazione degli intermediari. La speculazione va a cercarlo nel tugurio per fargli balenare le speranze dell’avvenire, lo accompagna e lo sfrutta fino al porto d’imbarco, lo segue nella traversata e al suo arrivo lo consegna ad un’altra speculazione».Con queste parole del suo intervento parlamentare del 27 novembre 1900, il ministro Emilio Visconti-Venosta,politico tra i più lucidi del suo tempo, presentava la prima seria legge italiana a tutela degli emigranti.

Emigrantie pionieri

di Mauro Bocci

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Un mondo di disperazione e di dolore, di torbidi commerci attorno alla “carne

da macello” – come la chiamerà una popolarissima canzone napoletana – af-

fiorava in quella ricostruzione: e non va dimenticato che i regolamenti della

Marina mercantile, entrati in vigore nel 1879, offrivano ai migrantes di terza classe al-

loggi alti un metro e 60.

Nel XIX secolo, il porto di Genova fu immane terminale di uomini e donne in fuga: ne-

gli anni fra il 1876 e il 1901, il 61 per cento del flusso migratorio in partenza dall’Italia

transitò per lo scalo del capoluogo ligure. La città stessa venne investita da una massa di

persone in attesa di imbarco, che fondeva in una sorta di dolente avventura corale le pic-

cole storie dei bivacchi sotto i portici di Caricamento o delle notti trascorse in stamber-

ghe e sottoscala, alla mercé di ambigui capataz.

L’indigenza, o anche soltanto una decorosa e contingente povertà, fu per molti il motore

del viaggio oltremare, come esemplificava Edmondo De Amicis nel racconto Dagli Appen-

nini alle Ande in Cuore (1886), il cui protagonista, il tredicenne Marco, partiva da Genova

per raggiungere la madre emigrata in Argentina, dalla quale non aveva più notizie da tem-

po: «Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della repubblica

argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca, e guadagnar così in poco tempo

tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella pover-

tà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio con

quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, tornano

in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre aveva pianto

lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l’uno di diciott’anni e l’altro di undici; ma

era partita con coraggio e piena di speranza». Per quanto tormentosa e triste, l’esperienza

dell’esodo ebbe anche questo contenuto di emancipazione femminile.

L’emigrazione genovese, e da Genova, verso le Americhe mostrava però anche altre facce

non dimesse o patetiche, e la sua parabola, precocissima, s’intrecciava addirittura con la Con-

quista spagnola del XVI secolo. Alleata della Corona di Madrid, la Superba di Andrea Do-

ria fu probabilmente il primo Stato europeo che poté inviare suoi cittadini nelle colonie ame-

ricane di Carlo V, particolarmente restio ad accogliere stranieri nel Nuovo Mondo. Il geno-

Il porto di Genova agli inizi del XX secolo.

Alla pagina precedenteEmigranti sullabanchina in attesa diimbarco in una cartolinad’epoca della CollezioneStefano Finauri.

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vese Giovan Battista Pastene fu ammiraglio dell’Armada nei

mari del Sud, prese parte in Cile alla fondazione di Valpa-

raiso (circa 1540) e Santiago (1541) e in Perù alla guerra ci-

vile seguìta all’assassinio di Francisco Pizarro. In quella stes-

sa fase, aurorale nei rapporti fra Europa e America meri-

dionale, Genova fu centro di reclutamento di marinai e ca-

pitani di navi, che scarseggiavano in Spagna.

Giovanni Bonfiglio, nel saggio La presenza italiana in Pe-

rù, documenta poi un fenomeno che – dalla metà del XVIII

secolo – vale per tutta l’area dell’America ispanofona, do-

ve l’indebolimento della potenza di Madrid e del suo mo-

nopolio commerciale corrisponde a un’accentuata pre-

senza di commercianti e marinai della Repubblica di Ge-

nova, sebbene ancora attraverso un’intermediazione spa-

gnola, che sarebbe venuta meno con l’indipendenza del Pe-

rù (1821) e di altri paesi sudamericani.

Testimonianza di spicco di un’intraprendenza ligure non

dettata dal bisogno è rappresentata dal caso di Domenico

Belgrano, che apparteneva a una delle più facoltose fami-

glie di esportatori in Spagna dell’olio di Oneglia, allora en-

clave sabauda nell’estremo Ponente. Belgrano trasferì tut-

ta la propria attività prima a Cadice – centro consolare

d’importante raccordo, fin dal Cinquecento, tra Genova e

il Nuovo Mondo – e poi a Buenos Aires, dove arrivò intorno al 1760, raggiungendo ben

presto uno status assai significativo ai vertici della borghesia platense. Il figlio di Dome-

nico, Manuel (1770-1820), dopo aver studiato in Spagna, combatté vittoriosamente con-

tro gli inglesi che avevano occupato Buenos Aires (1806) e poi contro gli spagnoli a Tu-

cumán (1812) e a Salta (1813); è considerato padre della patria argentina e un suo mo-

numento equestre campeggia dagli anni Trenta in piazza Tommaseo, a Genova.

Belgrano fu uno dei modelli ai quali Giuseppe Garibaldi s’ispirò nella sua vita di combat-

tente per la libertà: ne conobbe probabilmente la storia prima dei suoi soggiorni sudame-

ricani, attraverso Giambattista Cuneo, l’onegliese che lo ini-

ziò alla Giovane Italia e forse alla massoneria. A Oneglia esi-

steva del resto a metà Ottocento un ramo femminile dei

Belgrano, e un salotto risorgimentale, gestito da queste don-

ne, ospitò spesso Garibaldi, Cuneo e Giuseppe Mazzini.

L’epopea garibaldina in Brasile e in Argentina ha esaltato,

ma insieme occultato un’altro tipo di emigrazione, di cui

Genova fu il fulcro nella prima metà del XIX secolo. Si trat-

tò di un’emigrazione d’élite, di dissidenti politici, e fu assai

significativa, se non nei numeri (furono complessivamente

circa 14 mila le persone che s’imbarcarono da Genova per

le Americhe fra il 1833 e il 1850), per lo scambio intenso di

idee – e anche d’azione – che stabilì, in questo caso anche

con gli Stati Uniti, con la Svizzera ultimo faro degli ideali re-

pubblicani nel mondo “restaurato” del principe di Metter-

nich. Città ribelle e repubblicana, almeno fino al tragico acu-

to dell’insurrezione del ’49, Genova costituì il punto di smi-

stamento di una marea di esuli e di perseguitati, fra i quali

molti celebri patrioti e anche gente comune: a una protesta

dai riflessi vagamente politici si può ascrivere anche il fe-

nomeno dell’emigrazione per renitenza alla leva, sensibile

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Il monumento equestre dedicato a Manuel Belgrano.

Giuseppe Garibaldi.

nelle valli del Genovesato e nel Chiavarese, addirittura fin dai tempi di Napoleone e del-

l’annessione della Repubblica al regno di Savoia con il Congresso di Vienna (1814-1815).

Il primo caso di massiva emigrazione politica da Genova è raccontato da Giuseppe Maz-

zini, nella rievocazione di una domenica dell’aprile 1821, nel corso della quale, sedicenne,

fu testimone dello sbando dei cospiratori sconfitti dei moti piemontesi guidati da Santor-

re di Santarosa. «Gli insorti – scriveva Mazzini – s’affollavano cercando salute al mare, in

Genova, poveri di mezzi, erranti in cerca d’aiuto per recarsi nella Spagna dove la Rivolu-

zione era tuttavia trionfante. I più erano confinati in Sampierdarena aspettandovi la pos-

sibilità dell’imbarco; ma molti s’erano introdotti ad uno ad uno nella città, ed io li spiava

fra i nostri, indovinandoli ai lineamenti, alle fogge degli abiti, al piglio guerresco e più al

dolore muto, cupo, che avevano sul volto. La popolazione era singolarmente commossa.

Tra gli emigranti di rango di quella prima ondata patriottica, si può ricordare Gaetano Bor-

so-Carminati, di famiglia genovese e sottotenente dell’esercito sardo, che dal capoluogo li-

gure riparò in Portogallo e poi in Spagna, dove combatté nelle file dei liberali fino alla lo-

ro sconfitta al Trocadero. Esule poi in Inghilterra e in Francia (dopo la rivoluzione del lu-

glio 1830), entrò in contatto con Mazzini e la Giovine Italia, prima di tornare in Spagna,

dove ottenne il grado di generale nelle guerre contro i carlisti: si ribellò infine alla legitti-

ma regina Isabella e venne catturato e fucilato a Saragozza (1841).

Meno tragica fu la lunga parabola di Giuseppe Avezzana (1797-1879), sorta di rivoluzio-

nario di professione la cui storia si lega indissolubilmente all’insurrezione genovese del ’49,

che capeggiò, e attraversa tutto il Risorgimento, fino alla fondazione dell’associazione Pro

Patria Irredenta e alla rivendicazione per Trento e Trieste. Volontario a quindici anni nel-

l’esercito napoleonico, poi luogotenente dell’esercito sardo, nominato capitano da San-

torre nel ’21, condannato a morte da Carlo Felice, anche Avezzana fuggì da Genova in

Spagna per battersi con i costituzionali. In Messico si prodigò poi per la causa liberale, a

fianco del generale Antonio López de Santa Anna, che l’epopea texicana di Alamo ha con-

segnato a un ingeneroso quanto approssimativo ricordo. Nel 1832, Avezzana si trasferì a

New York e vi soggiornò per sedici anni, rientrando in Italia, dopo l’amnistia di Carlo Al-

berto, con doppio passaporto sardo e americano. Comandante della guardia nazionale a

Genova, si giovò degli ottimi rapporti con gli Stati Uniti durante la fallita rivolta del ’49: i

marines americani della nave Allegany scesero a terra e, con il pretesto di difendere il loro

consolato, offrirono aiuto agli insorti, in modo discreto ma assai efficace. Quando i bersa-

glieri di Lamarmora stavano per prendere la città (e per abbandonarsi a saccheggi e stu-

pri), la Allegany imbarcò Avezzana e altri 450 combattenti, che andarono a raggiungere Ga-

ribaldi, Mazzini e Pisacane nella disperata difesa della Repubblica romana.

Dopo la caduta di Roma, Avezzana tornò negli Stati Uniti ed è molto probabile che faces-

se da anfitrione a Garibaldi in certi ambienti radicali americani, quando l’Eroe dei Due

Mondi, nel 1850, riparò negli Usa e fece il lavorante nella fabbrica di candele di Antonio

Meucci. Nel ’60 il vecchio rivoluzionario fu con il capo delle camicie rosse nell’impresa dei

Mille. Non è da escludere che abbia avuto un ruolo nel propiziare l’intervento risolutore

del console statunitense a Napoli, Joseph Chandler, quando, nell’estate 1860, l’Utile, con a

rimorchio il clipper americano Charles e Jane, e un migliaio di volontari a bordo, venne in-

tercettato dalla pirofregata borbonica Fulminante, mentre da Genova scendeva il Tirreno

per dar man forte ai garibaldini. Le due navi, che erano state condotte nel porto di Gaeta,

vennero prontamente rilasciate e poterono far ritorno nel capoluogo ligure.

Nella storia dell’emigrazione politica da Genova, la figura di Garibaldi resta tuttavia quel-

la centrale, per l’entità delle imprese da lui compiute nel Nuovo Mondo, dopo la fuga in se-

guito alla condanna a morte emessa dal tribunale speciale di Carlo Alberto nel 1834, con-

seguenza della sua partecipazione al fallito moto mazziniano genovese. L’approdo brasi-

liano di Garibaldi, nel 1836, e la sua epopea sudamericana divennero possibili anche per-

ché esistevano in quella parte del mondo piccole ma solide colonie di esuli del ’21 e più

consistenti rappresentanze di genovesi e liguri. Un nucleo considerevole di questi, impe-

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L’oneglieseGiambattista Cuneo.

Giuseppe Mazzini.

gnato in traffici portuali, era presente a Rio de Janeiro fin dal 1820 e a esso fece in primo

luogo riferimento Garibaldi fuggiasco. A metà Ottocento, nella sola Montevideo era del re-

sto attivo un gruppo di diverse migliaia di liguri, emblema di una futura cospicua rappre-

sentanza in Uruguay e Argentina.

La presenza di mazziniani e altri radicali nelle rivoluzioni sudamericane è nota: molti ri-

voluzionari italiani partiti dalla Superba si formeranno come tali oltre Oceano, tornando

in patria sulla metà degli anni Quaranta, quando la situazione politica, meno plumbea, lo

rendeva possibile; per riprendere la via del mare, su posizioni magari radicalizzate, verso

gli accoglienti Stati Uniti, nel riflusso seguìto al convulso biennio ’48-’49. Genova fu in que-

sto senso il raccordo, anche ideale, di un movimento pendolare tra Mediterraneo e Atlan-

tico che andrebbe ancora indagato con rigore e documentaria precisione. Soltanto in que-

sta luce – passando per le banchine del porto di Genova – si può rileggere in chiave meno

provinciale, e anzi “internazionalista”, l’intera vicenda risorgimentale. Sulla Superba, città

di proposta e di protesta, poggiavano del resto anche le iniziative degli esuli di Parigi, di Lon-

dra e della Svizzera, in uno scambio di elaborazioni politiche costante, che con le navi fran-

cesi in arrivo portava i primi fogli socialisti e addirittura anarchici; o faceva smistare da qui

(e dalla repubblicana Livorno) le copie di La Giovine Italia, con quel messaggio mazzinia-

no che avrebbe infiammato i cuori di una generazione di patrioti.

Lo slancio missionario forniva un altro modello di migrazione, lontano da quelli suscitati

dalle emergenze della miseria e dell’ostracismo politico. Uno dei sogni-visioni di don Gio-

vanni Bosco – l’immagine di «una regione selvaggia e affatto sconosciuta» – fu alla radice

della partenza, l’11 novembre 1875, del gruppo di dieci pionieri salesiani che andarono a

evangelizzare la Patagonia sotto la guida di monsignor Giovanni Cagliero. Quest’ultimo ri-

entrò poi in Italia, per la porta genovese, nel luglio 1904, dopo vent’anni di lavoro come nun-

zio apostolico in quella terra agli antipodi; e riportò con sé Zeffirino Namuncurá, figlio di-

ciottenne del caciccio delle Pampas, destinato a entrare in seminario a Roma.

Un altro religioso si era posto quasi profeticamente domande che ancora riguardano la di-

mensione sociologica ed etica delle immigrazioni terzomondiali dell’ultimo scorcio di XX

secolo. Viaggiatore, piuttosto che emigrante, ma con una profonda percezione del lontano

e dell’altro, il sacerdote Nicolò Olivieri da Voltaggio, intraprese intorno al 1840 – negli stes-

si anni in cui il cardinal Tadini si esprimeva contro lo schiavismo in una lettera pastorale

– numerosissimi viaggi da Genova al Nord Africa, per liberare giovani schiave, che veniva-

no poi indirizzate – con una pratica che anticipa di oltre un secolo l’attività più recente di

alcuni preti di strada – a istituti religiosi in Europa. Era l’atto di nascita di quell’Opera del

Riscatto che Pio IX avrebbe approvato nel 1847.

Figura unica, Giuseppe Sapeto rappresentava invece il battistrada di migrazioni a venire,

quelle verso le colonie africane, valvole di sfogo non meno preziose per gli ultimi, fino alla

seconda guerra mondiale, delle corse alla fortuna americana. Nato a Carcare, nel Savonese,

era approdato a Genova nel ’64 con una cattedra di professore di arabo. Aveva da tempo

smesso l’abito – era stato missionario lazzarista impegnato negli anni Trenta nel mondo mu-

sulmano e nell’Africa orientale – e la conoscenza diretta, nei suoi viaggi, delle coste eritree

di Massaua e Assab lo aveva stimolato, fin dagli anni Quaranta, a cercare l’appoggio di Ca-

vour, astro nascente della politica pedemontana, per l’acquisizione di una base sarda in quel-

la regione. Nella prospettiva delle informazioni ricevute da Sapeto, il primo ministro tori-

nese meditò a più riprese, e segnatamente nel ’52 e nel ’57, di individuare un posto dove

stabilire inizialmente un bagno penale, sul modello dell’Ile du Diable della Guyana france-

se, ma che potesse consentire anche un futuro sviluppo commerciale. Attento, anche tramite

Costantino Nigra, a quel che accadeva a Parigi, Cavour aveva colto le potenzialità di Suez,

anche se pensava che non potessero esprimersi a breve scadenza. Mantenne in ogni caso rap-

porti sia con Sapeto sia con padre Leone des Avanchères, il vicario savoiardo di monsignor

Massaia, altro grande prete-esploratore, ed ebbe notizia nel ’59 che il governatore etiopico

del Tigrai era disposto a cedere un punto sulla costa del Mar Rosso. Il quasi esclusivo im-

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Don Giovanni Bosco.

pegno del Conte nel processo di riforma politico-economica del regno sardo prima e il suo

altrettanto tenace coinvolgimento nelle battaglie per l’indipendenza italiana dal ’57-’59, ol-

tre alla prematura morte, avevano bloccato per molto tempo il progetto, che Sapeto rilan-

ciò una volta tornato a Genova sulla metà dei Sessanta, e che giunse a buon fine il 15 no-

vembre 1869, sotto gli ausipici di Raffaele Rubattino (l’armatore e imprenditore genovese

che, tra l’altro, aveva incentivato la presenza italiana in Tunisia), appena due giorni prima

dell’apertura del canale di Suez. Anche le non sempre fortunate imprese coloniali italiane –

con il flusso umano che poi comportarono – traevano dunque origine dalla tenace opera di

un “migrante”, certo atipico, che aveva a Genova il suo centro operativo.

In ogni caso, il pionierismo genovese e ligure precedeva decisamente il fenomeno migra-

torio di massa, determinato dalla grande crisi economica mondiale del 1873, e fu costan-

temente in anticipo rispetto alle migrazioni da altre regioni d’Italia. Nel 1848, la corsa al-

l’oro portò in California mercanti e marinai liguri e la consistenza di questi gruppi consi-

gliò a Vittorio Emanuele II di aprire un consolato sabaudo-italiano a San Francisco. Sede

vescovile cattolica, la città di Stockton, nella contea di San Joaquin, è ancor oggi centro di

genovesità, nel quale, a quella prima ondata di immigrati, ne sarebbero seguìte altre due,

nel tardo Ottocento (soprattutto agricoltori e contadini) e nel primo Novecento (artigia-

ni e professionisti). L’operosità degli emigrati liguri in California – dove è la loro colonia

Usa più consistente – è attestata dai loro successi, soprattutto nel settore agroalimentare e

vitivinicolo e nella pesca. Fontana e Cerrati fondarono la Del Monte, oggi multinazionale

leader nell’inscatolamento di frutta e verdura; Andrea Sbarboro fu uno dei primi banchieri

locali e nel 1881 creò una grande azienda vinicola. Il genovese Amedeo Giannini fece il per-

corso inverso rispetto a Sbarboro: dopo aver lavorato nell’agricoltura, diede vita nel 1904

alla Bank of America, che ha filiali un po’ ovunque.

Nel Medioevo, i mercanti genovesi colonizzavano il Nordafrica e l’Asia minore, erano la

comunità straniera più importante del Bosforo, trapiantavano i vitigni del Coronata in Cri-

mea, dove ancor oggi si produce un vino bianco dall’asprigno gusto inconfondibile. Nel-

l’età moderna e soprattutto contemporanea, i genovesi presidiarono l’altra porta del Me-

diterraneo: è una autentica dynasty quella dei Profumo a Gibilterra, e John Profumo si chia-

mava quel ministro britannico al centro di un memorabile scandalo con ragazze squillo e

spioni nella swining London degli anni ’60. Ma i liguri si spinsero anche più lontano. Fra

Africa e America meridionale, non lontano dallo scoglio di Sant’Elena di napoleonica me-

moria, i Lavarello e i Repetto verranno evacuati nel 1961 insieme con i Glass, i Rogers, gli

Swain per la ripresa dell’attività del vulcano dell’isoletta di Tristan da Cunha, luogo sper-

duto da loro abitato per secoli fianco a fianco con gli inglesi e gli scozzesi.

L’emigrazione non fu quindi soltanto – per dirla con una bella canzone di Francesco De

Gregori – «dal boccaporto puzza di mare morto». Fu espressione travagliata, ma anche slan-

cio, e ricco di sue glorie, di singoli individui, di piccoli gruppi, di un’intera gente, coinvol-

ta fin nella più minuta vita quotidiana. Ventoso anche più del golfo di Genova, il Rio de la

Plata riproduceva il focolare genovese, a cominciare dalla farinata e dalla focaccia, che si

consumavano di gusto nella Buenos Aires d’inizio secolo come a Genova da Gin del Sa Pe-

sta nella sua antichissima taverna di via dei Giustinani. Il cibo unisce, è veicolo di identità.

In un suo memorabile racconto, L’Aleph, Jorge Luis Borges nomina anche una pasticceria

Zunino e Zungri in un quartiere elegante di Baires; e Zunino è certamente cognome ligu-

re. E – per restare al grande scrittore dei labirinti, sempre accuratissimo e puntiglioso nel-

le scelte onomastiche – inconfondibile appare la provenienza di quel detective, don Isidro

Parodi, protagonista di investigazioni condotte dal grande scrittore, in un fine gioco lette-

rario, insieme con Adolfo Bioy Casares.

Nella convulsa e multietnica capitale argentina, attraverso il mezzo secolo che va dal 1875

al 1925, zeneize, anzi xeneize, divenne però anche sinonimo di teppista, di fegatoso: c’è an-

che chi azzarda che il tango sia nato nei locali fumosi frequentati dai più irrequieti immi-

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grati venuti dalla Liguria. Pure, l’intraprendenza genovese

aveva creato nella città sudamericana opere meritorie, co-

me un primo ospedale per emigrati nel 1867: e ancora al-

cuni xeneizi (Buschiazzo, Solari, Seitun, Canale) avevano

lavorato a progettarne e realizzarne, a partire dal 1890, un

altro, adeguato alle esigenze della sempre più grande colo-

nia italiana, con 400 posti letto.

I genovesi – e i chiavaresi – avevano il loro quartiere nella

Boca, che nelle architetture metteva orgogliosamente in mo-

stra, nell’ultimo scorcio di Ottocento, lo stretto legame di

questi migrantes con il lavoro nei cantieri – le decorazioni

navali, il legno e il metallo che richiamavano per le strade

il calatafataggio e la vita di bordo – e la nostalgia per i na-

tii borghi marinari, che l’artista Benito Quinquela Martin

interpretò dipingendo i palazzi porteños con colori vivi

che potevano rammentare le atmosfere di Camogli o di Por-

tofino. Nel 1905, in plaza Solis, venne fondata da un grup-

po di emigrati, desiderosi di contrastare la fama del quar-

tiere come barrio difícil, una squadra di fútbol, il Boca Ju-

niors, ancor oggi chiamato el club xeneize, che fino al 2000

ha vinto sei titoli nei primi campionati amatoriali (fino al

’30), diciotto nei campionati professionistici, quattro Co-

pa Libertadores e due Coppe intercontinentali. Ha vestito

fra gli altri la maglia azul y amarillo della squadra dei geno-

vesi (ispirata, leggenda vuole, dai colori della bandiera sve-

dese, sventolante su un cargo attraccato nel porto bairen-

se) un campione assoluto, Diego Armando Maradona.

Il contributo genovese allo sviluppo dell’Uruguay è forse

più discreto, ma non meno costante e deciso di quello of-

ferto all’Argentina. Un pronipote di emigranti genovesi,

Julio Maria Sanguinetti, avvocato, studioso d’arte e di storia ed esponente del partito co-

lorado (liberale) è stato uno degli uomini politici più influenti nel segnare il ritorno alla

democrazia dopo la dittatura militare degli anni Settanta, tanto da essere eletto per due

volte presidente della Repubblica (dal 1984 e dal ’95), dopo essere stato ministro dell’In-

dustria e dell’Istruzione.

Emigranti e pionieri: lo spirito ligure – la storia stessa dell’antica Repubblica marinara, con

il suo vasto Commonwealth mediterraneo lo confermava – guardava oltre l’orizzonte, non

certo e in ogni caso non soltanto per disperazione. Se ne accorse Friedrich Nietzsche, che sog-

giornò proprio in quella Superba delle grandi migrazioni popolari, quando dedicò a Cristo-

foro Colombo, e alla sua genovesità, versi dai quali emergono l’ardimento e la profondità di

sguardo e di prospettive di un intero popolo. Certo, l’armamento dei bastimenti transocea-

nici fu anche un colossale affare. I grandi tycoon dell’Ottocento – il già ricordato Rubattino,

i Raggio, i Piaggio – trovarono in questo settore, oltre che nella siderurgia, la fonte principa-

le della loro potenza, che fu potenza della città. Erasmo Piaggio (1845-1932), in particolare,

proveniva da una famiglia che fin dal tardo Settecento solcava gli oceani con i propri velieri,

una invidiabile flottiglia di golette e brigantini. Negli anni Ottanta, le sue navi di migrantes –

l’Umberto I, il Regina Margherita – furono tra le prime a concepire in termini umanitari e

funzionali il lungo viaggio transoceanico. Conoscitore e interlocutore del mondo germani-

co (e con banche e capitali tedeschi avrebbe realizzato importanti operazioni finanziarie),

l’armatore-industriale aveva forse percepito la miglior organizzazione del servizio per emi-

granti offerto dalle compagnie delle città hanseatiche – Hapag e Ndl – che negli ultimi anni

del XIX secolo facevano anch’esse scalo sotto la Lanterna, sul cammino della speranza.

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Buenos Aires: “La Boca”, il quartieredei Genovesi.