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1 2013 numero 11 Dicembre Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Storia e cronaca La regione esotica resta un mistero Sfuggente a ogni definizione, la Sicilia è sempre stata il Far West d’Europa, spesso cruciale per i destini del Continente e fatale per chi aspira alla legalità e alla giustizia È la più vasta isola del Mediterraneo e la più meridionale delle venti regioni italiane; quasi del tutto priva di tessuto industriale; ha un’economia gracile e assistita, condizionata dal perdurare di un’invasiva criminalità organizzata; ricca di storia e di cultura, continua a dare all’Italia acclamati scrittori. Si potrebbe dire così della Sicilia; sennonché, trattandosi di Sicilia appunto, non c’è definizione che possa pienamente soddisfare, renderne giusta idea. È un mondo a parte, la Sicilia; molti la considerano addirittura un continente, un luogo ancor oggi tutto da scoprire, da decifrare. Perché? Una prima risposta è data dalla geografia che ne ha segnato il destino: l’inizio dell’Europa per gli africani, l’Europa che finisce per scandinavi, britannici, tedeschi... Una frontiera dalla quale passare se si vuole storicamente incidere non soltanto sull’Italia, ma sull’intero Vecchio Continente. Esagerato? Tutt’altro. «Non si sfugge in Sicilia alla storia», ha scritto Denis Mack Smith, e alcuni esempi lo dimostrano. In quest’isola, precisamente su un tratto di costa che va da Messina a Scaletta Zanclea, nell’estate del 1571 prese forma la possente macchina da guerra degli alleati cristiani, che si sarebbe diretta a Patrasso e poi sul mare antistante Lepanto avrebbe mandato a picco la flotta di Mehmet Alì Pascià (se in quella risolutiva battaglia navale le cose fossero andate diversamente, è probabile che tutti noi europei oggi parleremmo e vestiremmo in modo diverso). Su quest’isola, a Marsala, nel maggio del 1860, i volontari di Garibaldi sbarcarono per affrontare e sconfiggere le truppe borboniche, primo atto dell’agognata unificazione nazionale. Su quest’isola, lungo il litorale tra Licata e Siracusa, nel luglio del 1943 (lo sbarco degli Alleati in Normandia sarebbe avvenuto undici mesi dopo) prese terra la più grande spedizione militare mai vista prima d’allora, messa insieme per spazzare via il demone nazista, di cui gli scellerati fascisti erano alleati. Una frontiera, la Sicilia, una sorta di Far West d’Europa, dove si annidano le trappole della storia, dove il diritto sacrosanto in ogni comunità che merita di essere definita civile è messo perennemente in discussione, se non umiliato e sconfitto. Una frontiera, la Sicilia, e perciò luogo ideale per tagliagole e furfanti, avventurieri e fuorilegge, materia prima di cui si serve la mafia per esercitare il suo nefasto primato. I siciliani si arrabbiano quando, nel parlare della loro regione, puntualmente si finisce per tirare in ballo la mafia. Ma come si fa a non parlare di mafia, di morti ammazzati, se nella sola Palermo, una strada dopo l’altra, una piazza dopo l’altra, è possibile ritagliarsi un fitto itinerario in cui a decine sono stati abbattuti carabinieri, poliziotti, magistrati, politici, giornalisti? È vero, tuttavia, che questa desolante medaglia ha un’altra, certo meno visibile, faccia: quella dei siciliani onesti, dotati di senso dello Stato e di civiltà nei rapporti sociali. E siccome è legge di natura che a ogni male corrisponda un proprio anticorpo, ecco in Sicilia succedersi i vari Salvatore Carnevale e Peppino Impastato, Rocco Chinnici e Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Pino Puglisi e Pippo Fava... È fatale, la frontiera, per chi aspira alla legalità e alla giustizia, specie se si è sindacalisti, magistrati, carabinieri o poliziotti. Ed è particolarmente feroce con chi rompe le regole di un imposto quieto vivere (il commerciante Libero Grassi che si ribellò al «pizzo») o dice di no al silenzio.

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2013 numero 11 Dicembre

Email: [email protected]

Picciotti carissimi,vasamu li mani.

Storia e cronaca

La regione esotica resta un mistero

Sfuggente a ogni definizione, la Sicilia è sempre

stata il Far West d’Europa, spesso cruciale per i

destini del Continente e fatale per chi aspira alla

legalità e alla giustizia

È la più vasta isola del Mediterraneo e la più

meridionale delle venti regioni italiane; quasi del

tutto priva di tessuto industriale; ha un’economia

gracile e assistita, condizionata dal perdurare di

un’invasiva criminalità organizzata; ricca di storia e

di cultura, continua a dare all’Italia acclamati

scrittori.

Si potrebbe dire così della Sicilia; sennonché,

trattandosi di Sicilia appunto, non c’è definizione

che possa pienamente soddisfare, renderne giusta

idea.

È un mondo a parte, la Sicilia; molti la considerano

addirittura un continente, un luogo ancor oggi tutto

da scoprire, da decifrare. Perché?

Una prima risposta è data dalla geografia che ne ha

segnato il destino: l’inizio dell’Europa per gli

africani, l’Europa che finisce per scandinavi,

britannici, tedeschi...

Una frontiera dalla quale passare se si vuole

storicamente incidere non soltanto sull’Italia, ma

sull’intero Vecchio Continente.

Esagerato? Tutt’altro.

«Non si sfugge in Sicilia alla storia», ha scritto

Denis Mack Smith, e alcuni esempi lo dimostrano.

In quest’isola, precisamente su un tratto di costa che

va da Messina a Scaletta Zanclea, nell’estate del

1571 prese forma la possente macchina da guerra

degli alleati cristiani, che si sarebbe diretta a

Patrasso e poi sul mare antistante Lepanto avrebbe

mandato a picco la flotta di Mehmet Alì Pascià (se

in quella risolutiva battaglia navale le cose fossero

andate diversamente, è probabile che tutti noi

europei oggi parleremmo e vestiremmo in modo

diverso).

Su quest’isola, a Marsala, nel maggio del 1860, i

volontari di Garibaldi sbarcarono per affrontare e

sconfiggere le truppe borboniche, primo atto

dell’agognata unificazione nazionale.

Su quest’isola, lungo il litorale tra Licata e Siracusa,

nel luglio del 1943 (lo sbarco degli Alleati in

Normandia sarebbe avvenuto undici mesi dopo)

prese terra la più grande spedizione militare mai

vista prima d’allora, messa insieme per spazzare via

il demone nazista, di cui gli scellerati fascisti erano

alleati.

Una frontiera, la Sicilia, una sorta di Far West

d’Europa, dove si annidano le trappole della storia,

dove il diritto — sacrosanto in ogni comunità che

merita di essere definita civile — è messo

perennemente in discussione, se non umiliato e

sconfitto.

Una frontiera, la Sicilia, e perciò luogo ideale per

tagliagole e furfanti, avventurieri e fuorilegge,

materia prima di cui si serve la mafia per esercitare

il suo nefasto primato.

I siciliani si arrabbiano quando, nel parlare della

loro regione, puntualmente si finisce per tirare in

ballo la mafia.

Ma come si fa a non parlare di mafia, di morti

ammazzati, se nella sola Palermo, una strada dopo

l’altra, una piazza dopo l’altra, è possibile ritagliarsi

un fitto itinerario in cui a decine sono stati abbattuti

carabinieri, poliziotti, magistrati, politici,

giornalisti?

È vero, tuttavia, che questa desolante medaglia ha

un’altra, certo meno visibile, faccia: quella dei

siciliani onesti, dotati di senso dello Stato e di

civiltà nei rapporti sociali.

E siccome è legge di natura che a ogni male

corrisponda un proprio anticorpo, ecco in Sicilia

succedersi i vari Salvatore Carnevale e Peppino

Impastato, Rocco Chinnici e Rosario Livatino,

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Pino Puglisi e

Pippo Fava...

È fatale, la frontiera, per chi aspira alla legalità e

alla giustizia, specie se si è sindacalisti, magistrati,

carabinieri o poliziotti.

Ed è particolarmente feroce con chi rompe le regole

di un imposto quieto vivere (il commerciante Libero

Grassi che si ribellò al «pizzo») o dice di no al

silenzio.

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Per questo tanti giornalisti uccisi (Mauro De Mauro,

Mario Francese, Mauro Rostagno, Giovanni

Spampinato, Beppe Alfano).

In questa spietata frontiera, per reazione, per

necessità, è nata e si è sviluppata una letteratura che

continua a stupire per diffusione e tenuta.

È un fatto che così come gran parte degli scrittori di

lingua inglese nel XIX e XX secolo sono stati

irlandesi, buona parte della letteratura italiana dello

stesso periodo viene da scrittori e poeti siciliani.

Insularità, marginalità, frontiera: forse viene da lì la

proverbiale capacità dei siciliani di spaccare il

capello in quattro, quel pirandelliano ragionare sul

filo della ragione, pericolosamente accostandosi alla

follia, l’ideale quando si fa letteratura.

Gesualdo Bufalino ci ha lasciato un sapido saggio

dell’odiato/amato (e potremmo dire coltivato)

disagio degli intellettuali suoi conterranei:

«Non so se altri luoghi in pari misura, ma la Sicilia

-causa ne sia un eccesso o un difetto d’identità- non

fa che investigarsi e discorrere permalosamente di

sé. Sofistica, interrogativa, superba, ora si presume

nazione e ombelico matematico dell’universo; ora

si accascia in una sorta di rancoroso stupore, che

solo rompono di tanto in tanto fulmini di bellissima

intelligenza».

Perché la Sicilia è così condizionante per coloro che

vi nascono e vi abitano?

Perché, come si legge nel Gattopardo, i siciliani

sono convinti di essere creature perfette?

Perché sono portati a credere a una simile

sciocchezza?

Cosa hanno di diverso dai lombardi o dai liguri?

Cosa li autorizza a ritenersi diversi — perché più

intelligenti, a sentir loro, meglio vaccinati contro la

violenza della vita — dai toscani o dai piemontesi?

La risposta più sensata a queste domande è quella

che Vitaliano Brancati ci ha lasciato nel suo diario :

«Noi siciliani siamo soggetti ad ammalarci di noi

stessi: un male che consiste nell’essere

contemporaneamente il febbricitante e la febbre, la

cosa che soffre e quella che fa soffrire».

Bufalino mostra di essere senz’altro d’accordo con

l’autore del Bell’Antonio, quando cesella:

«Terra infelice, che ogni mattino a chi ci vive e ne

scrive impone lo stesso monotono dubbio: se gli

convenga, tappandosi occhi ed orecchie, eleggerla

a proprio eroico eliso; o se debba mischiarcisi,

inzupparsene, ammalarsene, come innamorato che

in un grembo infetto cerca di proposito l’assoluto di

un’estasi e d’una morte».

Quanta letteratura è sgorgata da questa ambigua

fonte, quanto cinema, quanta cronaca.

Eppure, resta un mistero, quest’isola.

Nessun’altra regione è stata altrettanto indagata,

scrutata, raccontata, senza che se ne cavasse mai un

veritiero ritratto, un’attendibile sintesi.

Nonostante sia di continuo sotto i riflettori della

cronaca, la Sicilia resta un arcano.

E questo perché dalla sua porta sono entrati, dice

Brancati, «gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l’io e il

non io, la malinconia e i musaici », ma anche, «i

fenici, i greci, la poesia, la musica, il commercio,

l’inganno, la buffoneria, il comico».

Insomma, ecco perché Empedocle e Pirandello,

Bellini e Verga.

E per andare ai giorni nostri, ecco perché i tanti

scrittori, da Sciascia a Camilleri.

Ha la seduzione dei paesi esotici, la Sicilia, con il

vantaggio, per gli europei, di non trovarsi nell’altra

parte del mondo.

Per questo a partire dal XVIII secolo è stata meta

irrinunciabile dei viaggiatori che vi hanno trovato

-e vi trovano- un ambiente naturale al limite del

delirio e una quantità impressionante di tesori

d’arte.

Il fascino dell’antica Grecia, dalla quale nacque e si

sviluppò la filosofia e tutto quanto è alla base del

pensiero di noi occidentali, si ritrova più in Sicilia

che nella stessa Grecia.

Eppure è un errore considerare la terra di

Empedocle come parte di quel dominio. Calabria,

Puglia, Campania appartennero a quella realtà, non

la Sicilia, che, nei fatti, fu un’entità politica, sociale

e militare a sé stante.

Ne ebbero rispetto, se non paura, i Greci.

E fu nel combattere contro Siracusa che si spezzò la

potenza di Atene.

Ancor oggi, Scilla e Cariddi sono a guardia di

questo mondo a parte.

Un mondo a parte in cui è possibile effettuare il

«viaggio perfetto», secondo il grande saggista

Mario Praz, il quale ne spiega il perché valutando la

regione dal punto di vista della varietà del

paesaggio e della profondità storica che vi si

riscontra.

Bagnata dal mare africano, la Sicilia offre alla vista

paesaggi montuosi dall’aspetto tipicamente nordico,

e ovunque sono visibili i resti di un passato che ha

fatto di quest’isola un prezioso deposito della storia.

Il teatro greco di Siracusa, la Valle dei templi di

Agrigento, la Villa del Casale di Piazza Armerina, e

Selinunte, Segesta, Mozia; e i monumenti arabo-

normanni di Palermo, Monreale, Cefalù; e il

barocco di Catania, Ragusa, Noto.

«Il massimo piacere del viaggiare», ne deduce Praz,

assegnando il primato alla Sicilia, «si raggiunge

quando allo spostamento nello spazio si unisce lo

spostamento nel tempo».

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Tutto questo spinge a chiedersi perché tanto ben di

Dio non porti a un’economia sana e fiorente.

Forse la risposta è nella mal compresa e mal gestita

autonomia politica e amministrativa di questa

ineffabile regione.

Era il 1969 quando Leonardo Sciascia annotava:

«Il fallimento dell’autonomia regionale si può

senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e

maneggiata come un privilegio, una franchigia, che

lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento

separatista, concedeva alla classe borghese-

mafiosa. Questi privilegi, di cui il popolo di fatto

non ha mai goduto ma sempre è stato pronto a

sollevarsi per difenderli, si sono come cristallizzati

in una coscienza giuridica astratta e involuta,

alimentando quel gusto per le controversie,

quell’acutezza, quella sospettosità e insomma

quelle facoltà causidiche e sofistiche che (sembra

impossibile) già Cicerone riconosceva ai siciliani».

Quarantaquattro anni dopo, sottoscriviamo senza

cambiare una virgola.

Matteo Collura X gentile concessione del Corriere della Sera

Il mancato suicidio di Luigi Pirandello

Conversazione con Marcello Turno

di Doriano Fasoli

Marcello Turno è medico psichiatra e psicoanalista,

membro della International Psychoanalitic

Association e della European Federation for

Psychoanalytic Psychotherapy in the Public Sector.

Insegna nel corso di laurea triennale e della laurea

magistrale di Psicologia del Dipartimento di

Scienze Umane della Lumsa di Roma.

Autore di numerosi saggi e curatele, ha

recentemente pubblicato Una notte senza luna,

manuale di base per l'orientamento degli operatori

psicogeriatrici per i tipi La Biblioteca by ASPPI.

Vive e lavora a Roma.

Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (pubblicato

da Alpes) è un riuscito tentativo di coniugare il

saggio con la finzione.

Un componimento che grazie a una scrittura veloce,

pur facendo ricorso a concetti che rimandano a

Sigmund Freud, a Melanie Klein e a Ignacio Matte

Blanco, si concede solo parzialmente al linguaggio

complesso della psicoanalisi.

Come scrive nella prefazione Fiorangela Oneroso,

la scioltezza, la gradevolezza, la felice leggibilità di

questo denso saggio sta nel fatto che Turno affronta

il tema dello sdoppiamento, o della duplicità,

procedendo sempre in modo scientificamente

rigoroso ma con un'agile scrittura letteraria.

DORIANO FASOLI: Pirandello in treatment:

qualche lettore, sull'onda di questo popolare

serial sulla psicoanalisi, ha così definito questo

suo saggio/finzione. Lo possiamo affermare? MARCELLO TURNO: In un certo qual modo è vero,

anzi lo si dice nel libro stesso: se Pirandello in un

momento particolare della sua vita si fosse rivolto a

uno psicoanalista cosa avrebbe potuto raccontargli?

Certamente la sua storia, ma attraverso la finzione

letteraria de Il fu Mattia Pascal.

Ma Pirandello e Turno come si sono incontrati? Alcuni decenni fa… I Sei personaggi in cerca

d'autore, per intenderci. Una rivelazione, una

violazione della logica teatrale e del pensiero

razionale.

Un sogno, una pura espressione dell'inconscio, su

cui Matte Blanco molto ha scritto. Ma quello fu un

incontro fugace e perturbante. Poi, a metà degli anni

Ottanta mi occupai di una messa in scena per teatro-

danza sulla vita di Pirandello.

Fu in quella circostanza che, seguendo le sue tracce

ancora visibili, incontrai persone che avevano

conosciuto sia lui che sua moglie, potei acquisire

particolari sulla loro vita, lessi molte opere, ma,

soprattutto notizie sulla sua vita.

E fu così che capii che Il fu Mattia Pascal era il

romanzo più autobiografico della sua vita.

E nella veste di Mattia Pascal, Pirandello è andato

in analisi, svelando i suoi desideri più profondi e

allo stesso tempo irrealizzabili.

Insomma una buona risorsa per uno

psicoanalista. Cosa è venuto fuori? È venuto fuori che, a causa del fallimento delle sue

risorse economiche e con la sopraggiunta follia

della moglie, Pirandello ha pensato di togliersi di

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torno. Non lo fa direttamente, ma delega Mattia

Pascal a farlo in vece sua.

Come si comporta Pascal in seduta? È puntuale?

Collabora? È puntuale agli incontri con lo psicoanalista ed è

molto sincero, non nasconde nulla. Così è possibile

seguirlo nell'evoluzione del suo dramma personale e

capire come affronta questa tragedia, fino a scoprire

i meccanismi inconsci che muovono tutta la

vicenda.

Quindi possiamo dire che Pirandello/Pascal esce

guarito dal trattamento, o per lo meno sembra

che abbia risolto i suoi conflitti. In un certo senso, sì. Mattia Pascal è un'enorme

fantasia che Pirandello mette in atto, un vero alter

ego. Una fantasia densa di tutti i suoi desideri

irrealizzabili. Alla fine riesce a recuperare il senso

di realtà e il suo vero sé.

Scrivere il romanzo lo salva?

Direi proprio di sì. Del resto Freud lo diceva che gli

scrittori hanno molto da insegnare agli psicoanalisti.

Ma tutte le espressioni artistiche sono saldate con

pezzi di inconscio. Un loro studio approfondito

potrebbe rivelare molto sul modo di pensare degli

artisti.

Ad esempio?

Mi viene in mente il Tondo Doni di Michelangelo,

oggetto di studio di molti psicoanalisti, dove alle

spalle della Sacra Famiglia si intravedono figure

maschili nude, una sorta di lapsus di Michelangelo

che riporta alla sua omosessualità.

Qualche altro personaggio famoso ha preso il

posto di Pirandello in analisi? Sì, da subito.

Potremmo sapere chi è? Scherza? Lo sa che siamo obbligati a tutelare

l'identità dei nostri pazienti. Comunque chiederò se

posso fare uno strappo.

Se in un tormentato frangente della sua vita

Luigi Pirandello fosse ricorso ad uno

psicoanalista, quale tra le sue tante storie

avrebbe potuto narrargli? E perché?

Sicuramente Il fu Mattia Pascal, romanzo scritto

nel periodo più disperato della sua esistenza e che,

nell'immaginario incontro con lo psicoanalista,

diventa la chiave per accedere al mondo interiore

dell'autore.

VOCABOLI ARCAICI

Con l'aiuto di Santuzzo che, malgrado il minor

tempo da lui passato in Sicilia, ha acquisito un bel

fiuto per i nostri vocaboli desueti, arcaici o usati

dai ceti popolari, siamo alla terza puntata (e scusate

qualche ripetizione).

In ordine più o meno alfabetico ricordiamo:

AREMI (è il seme d'oro nelle carte siciliane: per gli

antichi il settebello non era "sett'oru" ma "setti

d'aremi"; non siamo riusciti a scovarne

l'etimologia);

AFFUNCIARI: mettere il muso ("a funcia" oggi si

dice "mussu");

ALLEGGIU: Adagio

AMMUCCARI: può significare mettere in bocca

qualcosa di buono "ammuccamu cumpà" per dire

"godiamoci questo bel boccone, compare" specie se

il boccone è un bel bocconcino di donna; ma può

significare anche "abboccare" come il pesce; si dice

per i creduloni o per chi è ABBUNAZZATU:

(sempliciotto);

ADDURCARI: stava per rabbonire, attenuare,

calmare;

AGGRAMPARI: più efficace dell'attuale

"acchiappari" visto che "grampa" sta per artiglio e

quindi significa "artigliare";

ARIUTUNNU ("aere rotundo") sta per cielo

totalmente coperto (niuru tunnu tunnu = nero

tutt'intorno);

ARRUNCHIARI: senza pretendere un'esatta

corrispondenza sta per raccattare ammucchiando; il

termine attuale, più tenue è ARRICOGGHIRI

(raccogliere); citiamo il vecchio termine anche

perché, specie al mio paese, (Raffadali-Ag)

produttore di fave e rinomato per il suo "maccu" (la

squisita minestra di purè di fave secche, e verdure

varie) ARRUNCHIA-MACCU (operazione

problematica!) sta per "pasticcione";

AZZIZZARI: ora "aggiustari" ma è di più: è

sistemare bene una cosa; tenuto presente che AZIZ,

vuol dire splendente, azzizzari è "rendere

splendente."

AZIZ è un bellissimo vocabolo arabo che ha il suo

corrispondente nell'ebraico ZIZIT (lo splendore), e

si ritrova in molti termini siciliani: ricordo

sopratutto la Zisa (lo splendido "palazzo di delizie"

arabo normanno di Palermo che dà il nome a tutto il

quartiere) e i "cabbasisi" (quelli che il Dottor

Pasquano non vuole rotti dal commissario

Montalbano) che ormai credo tutti sappiano cosa

sono, e che mutuano il loro nome da hab-aziz

(un'infiorescenza risplendente che porta in basso

due bacche gemelle:inteso?)

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BATTARIA (oggi "rumuri o rumurata") deriva il

suo nome dal fracasso che fa il fuoco delle batterie

di cannoni;

CATUNIARI: (concionare come Catone)

CATUNIU (borbottio, "mugugno");

CAJORDA (dall'arabo?) stava per "buttana" ma è

molto più esotico;

CACINARU (oggi "pitruni") grosso masso;

CIARAVEDRU (in passato stava per (agniddruzzu

- agnellino)

CURRIOTTU: contenitore fatto con doghe di

legno per le sarde salate;

CUPPULUNI: cuffia di lana o di panno per i

bambini;

FISCINUSU: (zozzone) oggi "lordu" o

"ngrasciatu" (come il ligure "vunciun");

GAGLIUNI (mozzo di bordo=vedi l'affinità col

napoletano guaglione-ragazzo);

GINISI: carbonella; più correttamente è il carbone

di gusci di mandorle, pregiato perché produce

pochissima anidride carbonica e si usava per il

riscaldamento domestico nelle "brascere" (bracieri)

e nel prete "scaffalettu" (dal francesce "chauffe lit" -

scaldaletto) e nel PANAREDDRU (panierino)

scaldino metallico per le mani a forma di paniere

produttore di scottature specie sui geloni;

GREVIU: oggi 'ntipaticu (greve);

GRAMUSCIU (cucciolo, specie di gatto, che a sua

volta viene chiamato "musciu" o “musciddru");

MARGAGLIUNI: ora Zappuni: zappa larga e

piatta usata con gran fatica dai vecchi contadini:

Leonardo Sciascia con amara ironia e molta

compassione parlava ne "Le parrocchie dei

Regalpetra" di contadini abbrutiti da un uso

smodato dello zappone);

MATTULA: oggi cuttuni, cotone idrofilo;

MISCIASCIU: rammollito;

MUCCATURI: (dal francese muchoir: fazzoletto);

il termine è usato pari pari nel dialetto calabrese;

MMALLITTU: crasi di "malidittu"

NCIURPU: questo è veramente di difficilissima

etimologia: sta per chi ha la testa per aria;

NUTRICU: (da nutrire: equivale all'altro termine

antico "ADDREVU”: da allevare: il primo sta più

neonato, l'altro per bambino);

PILACCHIU: parassita del grano (nero e segnato a

metà; viene chiamato scherzosamente così il

cravattino nero a farfalla);

PUMUDAMURI: Pumadoru (pomodoro)

(bello quel "pomo d'amore");

PUDDRU: puledro - Puddriddru = puledrino

(specie dell'asino); si abbrevia così scherzosamente

il nome di Leopoldo;

PRIVENNA: dal latino Praebenda = ciò che si deve

dare, ciò che si percepisce; si dice della quantità di

nutrimento che spetta alle bestie da soma, e stava

in genere per Paga;

SANZIZZA: (più borghesemente Sosizza)

salsiccia;

SPLAPITU: (la usa molto Camilleri) slavato -

pallido;

TANNURA(oggi Cufilaru) dall'orientale TANDUR

stava per il fornello a legna o a carbone, sia in casa

che all'aperto; più specificamente stava per l'attuale

Furnacella, una grossa latta da olio aperta sopra e

con una apertura a forma d'arco in basso per

introdurvi il carbone (una specie di fornello

trasportabile);

TRANTI: (tiranti) sta per bretelle;

TRABELI: tovaglia da tavolo (anche qui chissà da

dove viene!); e, per finire (mi piace molto!):

VINCIUDDRU: (prepotente, che vuole vincere ad

ogni costo).

Spero comunque che questo "finire" non sia

"definitivo" e che ci sia una prossima volta.

Enzo Motta

La differenza tra ricchi e

poveri nella nostra società,

in qualche modo si

rispecchia anche nelle

librerie.

Così il libro della piccola e

quindi povera casa editrice,

anche se più importante di

tanti libri di grosse case

editrici, è destinato a

nascere nell'ombra e a morire nell'ombra.

Il direttore della libreria Borri Book di Roma

Termini,forse impietosito per il destino dei libri

poveri meritevoli, ha avuto il coraggio di mettere in

vetrina, accanto ai volumi su Papa Francesco, un

libro religioso "povero" ma controcorrente che non

cito, giacché tv e carta stampata di norma seguono

la regola dei librai.

Dice cose nuove, forse discutibilissime ma nuove,

originali.

Dei primi si stanno vendendo milioni di copie, del

secondo si venderà qualche copia in più nella

libreria del direttore pietoso e coraggioso, ma il suo

destino è segnato.

Perché non ha citato il libro della piccola casa

editrice che stava accanto ai libri di successo su

Papa Francesco delle grandi case editrici?

Che tipo di censura le è scattata, per non indicare il

nome dell'autore e il titolo?

Per quel che vale questa pagina, una citazione

avrebbe potuto aiutare la segnalazione di quel libro,

e la vendita di qualche copia.

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Se denunciamo le storture di un sistema e poi non

aiutiamo a correggerle, ci limitiamo a sfogare i

nostri sentimenti senza che nulla cambi.

Da parte mia non ho il minimo dubbio che le

piccole case editrici spesso pubblicano libri più

interessanti e significativi di quelli delle grandi case

editrici.

E questo perché le grandi case editrici, e di

conseguenza anche i librai, per stare in piedi devono

seguire le leggi del mercato dove ciò che conta è la

notorietà dell'autore, di solito veicolato dalla

televisione, o il titolo ammiccante capace di

sollecitare i bassifondi della nostra anima, più di

quanto non conti l'originalità del contenuto o la

forza delle idee.

Oggi il mercato è vissuto da tutti, e in modo del

tutto acritico, come se fosse una legge di natura.

Ed è questa la ragione per cui Marx ebbe a scrivere:

«Per il capitalismo, attento solo al denaro, un

mercato di libri non differisce da un mercato di

bestiame».

Se non per il fatto - aggiungo io - che il libro,

rispetto al bestiame, è una merce più povera.

Ma chi, come lei, al valore mercantile preferisce il

valore delle idee, giustamente ritiene che il mercato

dei libri conservi una sua peculiarità, della quale i

librai dovrebbero tener conto, evitando di

assimilarsi ai commessi del supermercato e di

perdere così di vista ciò che essi veicolano con la

loro "merce".

Cose facili e nobili a dirsi, ma difficili da sostenersi,

in un'economia di mercato assetata più di novità che

di nuove idee.

Questa è la ragione per cui oggi, nella nostra società

che ha velocizzato il tempo, la vita di un libro,

anche di successo, non oltrepassa i tre mesi, dopo di

che il libro incomincia a pesare sugli affitti dei

magazzini che accumulano l'invenduto in attesa del

macero.

E al macero, insieme ai libri, se ne vanno anche le

idee, che oggi non sembra siano le cose più

ricercate, se è vero che solo nell'anno appena

trascorso il mercato dei libri ha registrato un calo

del 30%.

In una situazione del genere che cosa possiamo

obbiettare alle case editrici e di conseguenza alle

librerie che riempiono le loro vetrine con una serie

di copie tutte uguali dell'ultimo best-seller

(espressione che serve in genere a segnalare quali

sono i peggiori libri in circolazione), se il problema

è di stare sul mercato, fuori dal quale non si

diffondono neanche le idee?

Così la cultura, già collassata nella scuola, collassa

anche nell'editoria e, per colpa del degrado

progressivo della nostra scuola che non ha

incuriosito né invogliato i ragazzi a leggere, oggi

sono considerati "lettori forti" quelli che leggono

almeno quattro libri all'anno.

Ma così la cultura degrada, e il suo degrado

determina due conseguenze pericolose: la prima è

che un popolo incolto, e per giunta con un

linguaggio afasico e stentato a cui si aggiunge un

analfabetismo di ritorno, con qualche maggiore

difficoltà può uscire dalla crisi che ci attanaglia.

La seconda è che, siccome "guardare" è più facile

che "leggere", si consegna la cultura per intero alla

televisione e ai personaggi che vi compaiono,

capaci di suggestionare e determinare le scelte non

solo politiche, ma anche gli stili di vita appresi per

imitazione, senza che un minimo di vaglio critico ci

trattenga dal rinunciare a essere noi stessi con le

nostre idee.

Caronda, mitico legislatore di Catania del VI secolo

a.C., disse: «La libertà viene da un libro».

Per questo il calo dei lettori getta un'ombra

pericolosa sul nostro futuro. AMATE I LIBRI:

Chi non legge non sa niente.

Umberto Galimberti per gentile concessione di Repubblica Donna

« Caronda, Antichissimo legislatore d'Italia istituiva

in questa sua città nel settimo secolo avanti Cristo il

primo celebrato ginnasio condotto da uomini liberi a

spese dello Stato poche leggi dava e molte norme di

pubblico e privato costume alla Sicilia e alla Magna

Grecia e santificandole con l'esempio meritava gloria

immortale qual fondatore austerissimo di civiltà. »

(Epigrafe di Mario Rapisardi all'ingresso dell'Anfiteatro romano di

Catania.)

Χαρώνδας Catania, VI secolo a.C.

7

Tra Storia, Turismo e Commedia

Quella gita galeotta

che più galeotta non poteva essere.

di Lorenzo Turturici da Caltabellottà,

già notaio in Saluzzo

Bivona conta attualmente 3881 abitanti, meno di

quanto ne contasse nel 1951 (oltre 5.500), poco più

del 1861, anno dell’ Unità d’ Italia ( 3.500), a causa

della emigrazione di massa del dopo guerra.

Dista circa 60 km dal capoluogo di provincia

Agrigento e circa 90 da Palermo. Eppure è uno dei

centri scolastici più importanti della Sicilia.

Ma la spiegazione c’è. La comunità ebraica prima e

la Compagnia di Gesù con la loro presenza

assicurano a Bivona un processo continuo di

crescita culturale già a partire dal XVI secolo.

Nel 1767 i gesuiti furono espulsi dalla Sicilia.

La presenza di ben quattro conventi fu la fortuna di

questo paese.

Così il sistema scolastico, qualche anno dopo, fu

gestito direttamente dal governo borbonico, che

istituì una scuola in ciascuno dei conventi dell'

Isola.

La spiegazione potrebbe essere anche un’ altra. Dal

1860 al 1927 Bivona fu uno dei circondari in cui

era divisa la provincia italiana di Girgenti( Girgenti,

Bivona e Sciacca) che comprendeva tredici comuni,

raggruppati in cinque mandamenti, e ricalcava il

territorio dell' omonimo e precedente distretto

borbonico costituito nel 1812 nel regno delle Due

Sicilie, quando in Sicilia venne abolita la feudalità.

Distretto che visse una fase di decadenza negli anni

sessanta dell'Ottocento, gli anni del periodo post

unitario, seguita da una parziale ricrescita nel

decennio successivo. Fu abolito nel 1927, anno in

cui il capoluogo di provincia fu ribattezzato

Agrigento. Capoluogo del circondario era il comune

di Bivona già a capo del distretto grazie alla

costituzione siciliana del 1812, che ne valorizzò le

antiche origini, la favorevole posizione geografica

nell'ambito della circoscrizione, i titoli ricevuti.

Bivona fu la prima città ducale di Sicilia e la sua

tradizione scolastica fu favorita dall’ esistenza del

collegio dei Gesuiti.

Sotto i Savoia a Bivona fu istituito un ginnasio, con

decreto di Garibaldi, nel 1860.

L 'apertura si ebbe però solo il 9 febbraio 1863,

risultando forse il più antico dell’ isola.

Nel periodo fascista l' istituto fu sostituito da un

istituto tecnico, intitolato a Francesco Crispi nativo

della vicina Ribera, in cui veniva insegnato anche il

latino. (In Sicilia gli studi classici sono privilegiati

rispetto a quelli scientifici.)

Più avvocati, medici, notai, magistrati e meno

ingegneri, biologi, chimici.

Il liceo classico fu attivato alla fine degli anni 40’

nato dalla collaborazione tra l'avvocato di Bivona

Edmondo Trizzino, il ministro della Pubblica

Istruzione Guido Gonella e l'avvocato bresciano

Ludovico Montini, fratello di Giovanni Battista

Montini, futuro papa Paolo VI. Il liceo-ginnasio

statale di Bivona, intitolato a Luigi Pirandello,

ottenne l'autonomia il 18 marzo 1953; alla fine degli

anni 70’ fu istituito l'istituto tecnico commerciale.

Negli anni 90’ si aggiunsero nuovi corsi liceali tra

cui il bio-socio-sanitario, unico in Sicilia, sostituito

nel 2011 dal nuovo indirizzo socio-sanitario

articolato tra "ottico" e "odontotecnico”. L 'istituto

di istruzione secondaria superiore "Lorenzo

Panepinto", invece, presenta gli indirizzi di

istruzione tecnica (settore economico e tecnologico)

e professionale (settore dei servizi per

l'enogastronomia e l'ospitalità alberghiera e settore

industria e artigianato, con sede nel comune

limitrofo di Cianciana.

Bivona è sede decentrata dell'Università degli Studi

di Palermo: per i corsi di laurea in scienze forestali

e ambientali della facoltà di agraria lo è stata dal

1991 al 2001;ospita tuttora il corso di laurea in

tecniche erboristiche della facoltà di farmacia,

sebbene dall'anno accademico 2004/2005 siano

state chiuse le immatricolazioni, e pertanto a breve

non sarà più attivo.

Il corso, che dipende logisticamente dal consorzio

universitario della provincia di Agrigento, si tiene

in una struttura sita nel comune limitrofo di Santo

Stefano Quisquina, priva di strutture di sostegno.

A febbraio 2013 si sono aperte le celebrazioni per il

150° del Regio Ginnasio di Bivona, il Liceo "Luigi

Pirandello”.

Per celebrarlo degnamente si vuole fare una bella

gita.

Il preside di ruolo professor Salemi, si dimette per

incompatibilità ambientale e chiede il trasferimento

in un’ altra sede. Aveva tutti i colleghi contro sia

per il modo autoritario con cui conduceva la scuola,

sia per metodi troppo restrittivi nella valutazione

degli studenti in sede di scrutinio: fosse stato per lui

ne avrebbe bocciato più della metà.

Il Provveditore agli Studi di Agrigento, in attesa del

concorso, nomina preside facente funzione il

professor Campo, professore di scienze naturali.

Campo è un esempio di democraticità. Dimostra

una grande disponibilità nel dare i voti.

Il 6 politico non lo nega a nessuno.

Se uno sa un pochino gli dà 7. Se sa un pochino di

più 8. Se sa quasi tutto 9. Se sa tutto 10.

8

Qualche giorno dopo Pasqua, verso la fine della

lezione, annuncia agli allievi che intende fare una

bella gita per festeggiare i 150 anni di esistenza

della scuola e vuole che decidano loro dove andare.

Gli studenti si riuniscono varie volte, in un’ aula

appositamente concessa dal preside.

In Sicilia la cultura si taglia a fette, in quasi tutte le

città c’ è un teatro greco o romano, un sito

archeologico, una torre, un castello arabo o

normanno.

Chi vuole andare a Selinunte, Segesta ed Erice.

Chi alla Scala dei Turchi per poi visitare la casa

natale di Pirandello a Porto Empedocle e la Valle

dei Templi, ma gli altri obbiettano che questi ultimi

posti sono così vicini che non c’è bisogno di una

gita di più giorni per visitarli.

Altri sono per Ragusa, capitale del barocco.

Altri ancora per Siracusa o Piazza Armerina con il

suo Casale.

Vista l’ impossibilità di trovare un accordo vanno

dal professor Campo dicendo che scelga lui perché

loro non trovano un luogo condiviso dove andare.

Sottoposta la questione al collegio dei professori,

questi ultimi non ci provano nemmeno, dicendo che

il preside era lui e che ci pensasse lui. Su una cosa

sola erano d’accordo: a quella gita nessuno voleva

mancare. Campo, senza neppure profferir verbo,

prepara una circolare e la fa distribuire dal bidello

ad alunni e professori. La gita si farà da lunedì 13 a

sabato 18 maggio, con partenza in pullman alle 8,

30 del mattino davanti alla scuola. La prima ad

arrivare è la professoressa Camilleri, insegnante di

latino e greco accompagnata dal marito in macchina

e prima di partire viene nominata capo gita.

Segue il professor Alaimo, professore di storia e

filosofia accompagnato dalla moglie a piedi.

Poi la professoressa Lombardo, professoressa di

matematica e fisica, il professor Catania, che

insegna italiano, Nicolosi, professore di Storia dell’

Arte. E poi quella di scienze, Padre Gesualdo che

insegna religione e infine la professoressa Ficarotta

di Corleone, insegnante di educazione fisica. Anche

gli allievi sono tutti presenti. Partenza per Palermo

via Santo Stefano Quisquina. Fermate non ne sono

previste: tanto in meno di un’ ora si arriva.

Il preside aveva prenotato all’ Hotel delle Palme in

via Roma, a due passi da via Cavour, teatro

Massimo, via Ruggero Settimo: il cuore pulsante di

Palermo.

Dopo che il portinaio ha assegnato le camere e

dopo aver scaricato le valige, essersi accomodati sui

divani della hall ed aver commentato il viaggio,

entrano nel ristorante per il pranzo.

Intanto per tutto il viaggio sul pullman e durante il

pranzo la professoressa Camilleri ed il professor

Alaimo vengono notati seduti stretti stretti, fianco a

fianco. Nel pranzo non eccedono dovendo nel

pomeriggio iniziare le visite.

Avendo tutto il pomeriggio a disposizione, su

indicazione della capo gita, si fanno portare col

pullman a Monreale. Visita al Duomo e all’ annesso

chiostro a pianta quadrata addossato al lato

meridionale del duomo.

Gli archi ogivali poggiati su colonne binate e aperte

sul giardino del convento.

Perfetta corrispondenza fra i quattro lati, ciascuno

con 26 archi in sequenza. L'equilibrio dello spazio

viene ribadito e impreziosito dal chiostrino della

fontana, anch'esso quadrato, che sporge verso

l'interno del chiostro nell'angolo Sud-Occidentale.

Luogo ideale, secondo i due, per tentare ciò che

avevano architettato prima della partenza: la

professoressa Camilleri appoggiata ad colonna si

bacia con il professor Alaimo. Totò dice alla sua

vicina Giusy

“ Ma non sono tutti e due sposati?”.

“ E che c’è di male, risponde Giusy, anch’io sono

fidanzata, ma se capita, mi bacio ben volentieri

con un altro”.

Salvatore capisce la provocazione ma, per il

momento, non abbocca.

Ritornati a Palermo, dopo una passeggiata per le

vie della città, vanno in un ristorante di

Sferracavallo per la cena.

Sul lungo mare vi sono i venditori di polipo

fumante e mangiano il polipo di scoglio bollito che

serve da antipasto.

Al ristorante passano subito dal primo: spaghetti al

nero di seppia, agli involtini di pesce spada, sarde a

beccafico con contorno di caponata, cannoli o

cassata.

Sul lungo mare al ritorno Giusy salta addosso a

Totò e questa volta Totò non può fare a meno di

accontentarla. Le occasioni arrivano una volta sola.

Palermo è talmente bella che c’ è l’ imbarazzo della

scelta di cosa visitare. Il 14 maggio sera al teatro

Massimo c’è una serata in omaggio a Giuseppe

Verdi e vanno a teatro, quasi tutti.

La professoressa di matematica e fisica Antonietta

Lombardo, approfittando del buio, si bacia con

l’allievo Nino, così si scoprono gli altarini.

Antonietta è giovane. E’ al secondo anno di

insegnamento, tra lei e Nino non vi è molta

differenza di età. Chissà se un giorno non possano

sbocciare fiori di arancio.

Il mercoledì visitano la cattedrale ed il vicino

Palazzo dei Normanni dove vi sono gli uffici della

Regione. Lì davanti vi sono alcuni operai senza

lavoro che protestano contro gli alti stipendi dei

dipendenti regionali.

9

Dentro il palazzo visitano la Cappella Palatina in

tutto il suo splendore ed il Palazzo Reale.

Il giovedì lo passano a girare la città di Palermo da

una parte all’ altra: villa Giulia, il giardino botanico,

il Foro Italico, il porto, i cantieri navali e il vicino

carcere dell’ Ucciardone, davanti al quale c’ è

Pannella che protesta contro il sovraffollamento

delle carceri. Il pomeriggio al mercato della

Vucciria e alla vicina chiesa di San Domenico.

La sera volevano andare a mangiare allo storico

ristorante Shangai, sulla piazzetta della Vucciria,

ma purtroppo non lo trovano più: un paio di anni fa

ha chiuso ed ora è stato smantellato.

Era qualcosa di davvero unico: un appartamento,

forse due, da cui erano stati ricavati una sala e la

cucina e soprattutto la terrazzina affacciata su una

delle due piazze della Vucciria. Da lassù lo

spettacolo era incredibile: si sentivano le

abbanniate dei venditori.

Poi scendono verso piazza Marina. In Cina il tempo

delle mele arriva tardi: la bella cinesina Annachi,

che studia al liceo di Bivona, prende una cotta per il

suo compagno di scuola Angelino, lo trascina su

un’ aiuola e lo bacia. Angelino rimane sorpreso.

Chissà come se la prenderà la sua fidanzata al

ritorno, se mai lo verrà a sapere.

E siamo arrivati al venerdì. Mancavano ancora

molte cose, ma non tutto in pochi giorni si può

visitare di Palermo.

Fanno a piedi il tratto che divide il teatro Massimo

da Piazza Politeama attraverso la elegantissima via

Ruggero Settimo dove qualche ragazza si compra la

borsetta.

Poi la facciata del Politeama con i suoi cavalli,

viale della Libertà, i giardini inglesi.

La sera tutti a cena in un ristorante di via Principe

di Belmonte. Ce n’è per tutti i gusti: cucina tipica

siciliana. Antipasto di arancinette, pasta al sugo e

pomodorini di Pachino, triglie fritte, una bella

cassata alla siciliana con la scritta della scuola e l’

anno 2013.

La professoressa Camilleri, per farsi perdonare le

scappatelle offre un brindisi: champagne e passito

di Pantelleria ed il professor Alaimo, suo complice,

l’aiuta a pagare.

Il sabato il malinconico ritorno.

Non rimane che il ricordo. In fondo le gite

scolastiche servono per questo.

La mente sgombera, senza dover prepararsi per l’

interrogazione dell’ indomani, senza dover

preparare la lezione da spiegare.

Nelle gite scolastiche sbocciano fiori di arancio, fior

di loto ( simbolo della bellezza) e rose rosa. Lorenzo Turturici

Caltabellotta: I segni di Santa Marta

All’interno della Cattedrale di Caltabellotta, è

collocata, nella Cappella della “Madonna della

Catena” del Ferraro, la statua della Santa con ai

piedi un cane (Mars Grabovius era un Dio romano

che soleva trasformarsi in cane o in quercia per dare

dei responsi).

Dal mito dell’Oracolo di Delfi agli odierni oroscopi,

l’usanza di chiedere responsi il giorno di Santa

Marta, è arrivata fino a giorni nostri, grazie alla

grande tradizione del popolo caltabellottese.

La lettura dei segni è effettuata ogni martedì.

Le interrogazioni sono tante.

Chi vuole conoscere la fertilità di una donna, come

andrà la giornata, o che fine abbia fatto un parente,

o se avremo dei guadagni o no, basta affacciarsi la

mattina e vedere se passa qualche chioccia con la

propria covata, oppure una donna con prole, o dei

ragazzi e così via.

Nel periodo delle due grandi guerre, bastava

affacciarsi sul costone della rupe “Gogala” e porre

una domanda diretta al proprio congiunto e se si

sentiva la risposta.

Il parente lontano era vivo, o dava l’annuncio del

suo imminente arrivo.

Oggi vi sono i

telefoni cellulari e

quant’altro, ma in

ogni modo tante

persone guardano

ancora ai segni

premonitori,

riconoscendo in

questi molta

veridicità.

Lorenzo Turturici.

10

Foto del nostro Filippo Giusto

a Bamberga in Baviera

Il Municipio di Bamberga

Interno del Duomo di Bamberga

Il cavaliere

La statua è stata scolpita probabilmente dopo il

1225 e prima del 1237 (anno della consacrazione

della cattedrale).

La vena poetica di Francesco Sisca non si

inaridisce col passare degli anni, ma si affina, si

interiorizza.

Nell'ultima silloge,”Sfogliando di sera….” che ha

dedicato a noi, a testimonianza della sua amicizia,

prevalgono i sentimenti familiari, le nostalgie,

l'amore per la sua Calabria, il commosso ricordo del

fratello Antonio (nostro decano) da poco

scomparso, e, soprattutto, il senso religioso della

vita e il dialogo con Dio.

Lo stile, come sempre, è semplice, atto a toccare

con immediatezza la sensibilità del lettore.

Presentiamo qui una poesia ispiratagli dal ritorno

nella natia Filadelfia, dopo più di quaranta anni di

insegnamento. Enzo Motta

dalla raccolta Sfogliando di sera…

Di ritorno al mio paese, Filadelfia

Nella terra dove nacqui

Aspetto il giorno fatale serenamente.

Con me una donna di cuore

Premurosa ed affettuosa

Riesce a lenire i travagli

Della tarda età.

Per le vie del paese,

oh! Quante strette di mano

salutano il mio ritorno!

Quanti vecchi amici

mi ridestano gli anni felici

della mia fanciullezza.

Le campane di cara memoria

Suonano come allora

ed io rivedo mia mamma immobile

a pregare sommessamente:

“Gesù mio sia fatta la Tua volontà”.

Purtroppo mi manca una voce cara

ed io invano origlio

nel chiuso della porta accanto.

Mio fratello Antonio

non c’è più a rimirar

i nostri panorami divini,

ad ascoltare il sinfonico canto

dei voli al dolce sole estivo.

Ora sulla terrazza solo e afflitto

corro e vado lontano

per fermare il verde

del nostro tempo felice.

11

Andrea Camilleri

aggiunge alla sua

collana "storica" una

perla che mi riguarda

personalmente.

"La Banda Sacco" è un

western siciliano vero

che si svolge nel

territorio di Raffadali (il

mio paese) a cavallo tra

il 1800 e il 1900.

E' la storia unica di un gruppo familiare di

galantuomini che non si vogliono piegare alla

mafia, e sostenuti dagli onesti borghesi di Raffadali

la combattono con i suoi stessi metodi, il che li

costringe a darsi alla macchia, incorrendo nelle ire

di Cesare Mori, il "Prefetto di Ferro", che li arresta

e li fa condannare a gravi pene, detenendo nel

contempo per periodi più o meno lunghi i loro

sostenitori più autorevoli.

Una storia che ha coinvolto miei parenti e amici di

famiglia e che mi è stata raccontata, quando ero

ragazzo, da Vincenzo Sacco che, uscito dal carcere

prima degli altri fratelli veniva a fare "rimunna"

(potatura degli alberi) a Modaccamo, la campagna

del mio nonno materno che era uno dei loro

sostenitori (l'unico che non era stato arrestato

perché Console della Milizia Fascista oltreché

Colonnello dei Bersaglieri e invalido di guerra).

Camilleri ha raccolto la testimonianza di un figlio di

Gerolamo Sacco, (che gli ha chiesto di risvegliare

questa storia), e ha riscritto la vicenda da par suo

(anche se la ricostruzione "politica" è forse un po’

troppo sottolineata) facendone un piccolo prezioso

capolavoro che rende un po’ di giustizia alla storia

del mio paese. Enzo Motta

Ogni mattina qui è la stessa storia: mi trascino giù

dal letto, sciolgo la mia lunga treccia scura e chiudo

le tende della finestra di casa….

Poi vado in cucina e fisso il pavimento per un paio

di minuti, sobbalzando ad ogni rumore che proviene

dall’esterno e pregando che non sia mai abbastanza

vicino. La mia domanda è sempre la stessa; ma

anziché immaginarne la risposta, fantastico su come

potrebbe essere la mia vita se quella domanda non

dovesse esserci affatto.

Se fossi ricca, penso, avrei così tante case da non

dovere essere costretta a vivere nella stessa per più

di un anno. Mi piacerebbe, inoltre, imparare a

guidare l’automobile.

Qui non ne ho mai avuto l’opportunità e anche se

ho solo sedici anni, so che non potrò mai averla.

Mi alzo dalla sedia perché, come direbbe mio padre,

pensare troppo può farmi male.

Così preparo una tazza di tè, mentre aspetto con

ansia che i miei fratelli tornino a casa.

Poi un altro rumore prorompe fuori della finestra e

la tazza bollente che tenevo in mano si frantuma per

terra, bagnando tutto il tappeto. “Ottimo” penso.

Ma almeno ho trovato qualcosa da fare e per un

attimo riesco persino a dimenticare dove mi trovo.

Raccolgo i pezzi e provo ad asciugare il tappeto, ma

risulta un’impresa levare la macchia che si è creata.

Quando non devo occuparmi della casa e dei miei

fratelli, adoro studiare i libri di storia di mio padre.

Anche se non mi è permesso leggerli, ogni mattina

ne approfitto, essendo sola in casa, per prenderne

uno dallo scaffale e sfogliarlo con cura.

La storia dell’antica Grecia è la mia preferita: più e

più volte ho letto di filosofi e astronomi greci che

con i loro studi hanno posto le basi per le credenze

moderne.

Ma la storia più affascinante è quella di Ipazia

d’Alessandria, una donna che non ha mai temuto di

mettere a confronto le sue idee con quelle dei grandi

uomini del tempo: e con che coraggio camminava a

testa alta per la città, nonostante conoscesse i

giudizi della gente!

Ed eccola di nuovo qui: la domanda che mi

bombarda il cervello, senza lasciarmi in pace.

Quella stupida domanda che mi fa venire voglia di

urlare, di rompere qualcosa o addirittura di uscire di

casa. Ma che dico? Sarebbe solo una follia.

Così chiudo il libro con un gesto deciso e lo poso

nuovamente sullo scaffale a cui appartiene.

Poi mi guardo allo specchio: una ciocca di capelli

fuoriesce dal mio velo e so che se mia madre fosse

qui mi direbbe, a differenza di mio padre, di

lasciarla stare.

Ma faccio ciò che è giusto per mio padre e la

rimetto dentro; d’altronde se anche mia madre gli

12

avesse dato ascolto, forse sarebbe ancora qui e forse

non sarebbe stata lapidata in pubblico.

Un altro rumore violento mi riporta al presente, e

questa volta so che è più vicino.

Poi sento qualcuno buttare giù la porta di ingresso e

le mie ginocchia iniziano a farsi sempre più deboli

fino a perdere completamente l’abilità di reggermi

in piedi. Crollo per terra stanca e arresa alla realtà in

cui vivo.

Prima di scomparire per sempre, mi torna in mente

quella domanda con cui mi sveglio al mattino e con

cui sono costretta ad addormentarmi la sera, e

penso: quanto diversa sarebbe la mia vita se non

fosse toccato proprio a me di nascere qui, in Iran ? di Aurora D’Amico

per gentile concessione de “Il Vesprino”

In una festa patronale, alcuni episodi profani

mettono in imbarazzo vescovo, sacerdoti e fedeli.

E’ accaduto a Porto Empedocle, un comune

siciliano appartenente al territorio diocesano di

Agrigento, nel corso dei tradizionali festeggiamenti

in onore di san Calogero, il dotto eremita di colore,

rinomato guaritore, venerato in molti paesi della

provincia agrigentina.

Durante la processione del Santo eremita, Clizia

Incorvaia, – la modella, soubrette e recentemente

anche attrice, protagonista di un sensuale servizio

fotografico pubblicato dal magazine Fox Uomo – si

fa fotografare durante la processione insieme ai

componenti della confraternita e accanto al

simulacro del Santo, indossando un vestito poco

adatto alla circostanza e una maschera di “Barbie”.

Il decoro religioso raggiunge il suo limite nel

momento in cui la giovane e avvenente soubrette

decide (evidentemente con la disponibilità e l’aiuto

dei confrati) di salire sulla “vara” (in Sicilia il

cosiddetto “carro” usato per portare in processione

il simulacro del santo), e seduta ai piedi di san

Calogero, a gambe incrociate, abbraccia il santo

della sua terra natia, mentre la banda musicale

intona un’allegra canzonetta.

“E’ stata un’esperienza adrenalinica salire sulla vara

di San Calogero, documenterò tutto con foto e

video – annuncia Clizia Incorvaia al Giornale di

Sicilia – sul mio sito”, mentre la Chiesa

Empedoclina, con i suoi sacerdoti ed i fedeli tutti

prende le distanze dall’increscioso episodio.

“La festa di San Calogero – si legge nel Giornale di

Sicilia – non è folklore ma espressione di religiosità

popolare.

Pertanto abbiamo il dovere di salvaguardare la festa

da deviazioni pagane e volgari che possano

stravolgere la genuinità del culto a San Calogero.

Noi parroci ci riserviamo di incontrare i rispettivi

organismi parrocchiali al fine di discutere ed

approfondire l'accaduto.

Non si escludono decisioni e provvedimenti drastici

che riguardino i futuri festeggiamenti in onore di

San Calogero”.

Clizia Incorvaia a tal proposito riferisce:

“Sono credente, cattolica da sempre. Non trovo

nessuna volgarità nel documentare la festa del mio

santo protettore e volergli dare un respiro

internazionale attraverso il mio blog di moda… La

volgarità spesso sta negli occhi di chi guarda e di

chi ha la coda di paglia. Non è mio costume

emettere giudizi ma in questa sede… vi dirò che

trovo volgare la gente che va alle processioni e

bestemmia lì, trovo volgare la gente che si spaccia

per cristiano e non porge l'altra guancia, che non è

solidale, che vive di sotterfugi, di vigliaccheria, di

disonestà. Là dove come in questo caso c’è purezza

d’animo, che ben venga!”

Forse una maggiore attenzione da parte degli

organizzatori avrebbe potuto impedire l’episodio.

“Concludo – afferma infine Clizia Incorvaia –

dicendo che non voglio che vengano coinvolti nella

vicenda terzi come gli organizzatori della festa di

San Calogero. La festa è da preservare e non da

ostacolare”. Ora si attende di conoscere le eventuali

decisioni di Francesco Montenegro, Arcivescovo di

Agrigento, in merito a quanto accaduto 5 sett.2013 (Giornale di Sicilia).

13

A commento, abbiamo recuperato nella penna di

Andrea Camilleri da "Il corso delle cose", il primo

romanzo di Andrea Camilleri,edito da Lalli nel

1978, e poi da Sellerio nel 1998. pagg. 115/121

All'una in punto le porte si aprirono e il santo uscì.

Nel 1946, durante la prima domenica di settembre -

la festa di San Calogero cadeva sempre quel

giorno…

Intanto, mentre la processione lasciava le vie del

centro, dove abitavano le persone civili, per andare

verso i vicoli di periferia - sempre a passo di carica,

dopo ore e ore di faticata, e ancora le madri

dovevano scansare i figli piccoli per non farli

travolgere - il santo cominciava a fare le sue

spettacolose acrobazie per entrare in certe stradette

strettissime, si metteva di traverso, di tre quarti,

sottosopra, ma comunque finiva per passare dove

c'era qualche malato che ne aspettava con ansia

l'arrivata.

E via via che la vara penetrava verso le strade dei

poveri - chiamate per disperazione dagli stessi

abitanti con nomi dolcissimi, vicolo del miele, salita

dello zucchero, piazzetta del paradiso, - si

appesantiva di grappoli di bambini, bambini

sordomuti, bambini rognosi, bambini con gli occhi

pisciati, bambini con la guàllara.

Ma le già forti sofferenze di S. E. erano destinate,

verso sera, ad aumentare.

Un reparto di soldati negri, che gli americani

avevano lasciato a guardia non si sa di che cosa,

appena in libera uscita tutt'insieme si fecero largo

nella processione. A vedere un santo con lo stesso

colore della loro pelle, i negri impazzirono di colpo.

Tre tirarono fuori il mitra e si misero a correre

davanti ai preti sparando in aria, uno si mise a

suonare la tromba che pareva Armstrong, quattro o

cinque, a modo loro, i tamburi, gli altri pigliarono a

fare fantasia, ballando e cantando, dopo avere

coperto i nastri di dollari.

A un certo momento domandarono macari di poter

portare la vara, e gli scaricatori non si fecero

pregare, forse perché il dispiacere di dover

tanticchia lasciare il santo venne prontamente

compensato con buona moneta degli stati.

Quando i portatori, momentaneamente liberi, si

strinsero attorno a S. E., acclamandolo, questi si

accorse, con terrore, che tutti indistintamente

portavano appuntato sulla camicia grigia di sudore

il distintivo del partito comunista.

Poi ci fu lo scandalo finale.

Al tramonto, al momento di rientrare in chiesa per

la solenne funzione serale, S. E., che aspettava

l'arrivata in piedi davanti alle porte, vide con

stupore la processione fare tutt'insieme dietro front

e sparire dietro l'angolo.

Il parroco, che durante quel pomeriggio, sotto le

occhiate di S. E., era invecchiato a vista, tentò di

spiegargli che evidentemente il santo non se la

sentiva di tornare in chiesa, che tanto usciva una

volta all'anno, e si vede che gli era venuto desiderio

di fare un altro giretto sul molo.

Del resto quello era un fatto non tradizionale, per

amor del cielo!, ma che di tanto in tanto succedeva.

S. E., fuori dalla grazia di Dio, prese a chiamare con

tutto il suo fiato i carabinieri e questi, con le buone

e con le cattive, riuscirono a convincere il santo a

tornarsene in chiesa.

Il giorno dopo S. E. fece sapere che da quel

momento in poi i comunisti non avrebbero più

dovuto portare la vara, che il pane non doveva più

essere buttato dai balconi, che le offerte in denaro

era meglio consegnarle personalmente al parroco e

che appena vedeva che qualcuno faceva bere un

goccio di vino a San Calogero faceva scomunicare

l'intero paese.

Fu così che cominciò la lunga guerra fra i fedeli di

San Calogero e S. E. Rufino.

E macari quando questo finì col ripensarci, dopo

qualche tempo, sugli usi e i costumi dei siciliani,

proclamando soprattutto a destra e a manca che la

mafia era una maligna invenzione dei giornali del

nord, su di una cosa non volle sentire ragioni e cioè

che un santo, in quanto tale, fosse oggetto di

costumanze tanto pagane.

Si raggiunse però un accordo: il santo, prima di

essere fatto volare dai gradini, veniva dai preti

declassato a comune mortale, gli levavano la spera

dalla testa e non lo accompagnavano per il paese.

La vera processione, quella riconosciuta dal

vescovo, avveniva la sera, quando, di ritorno dai

suoi ultimi giretti sul molo, al santo veniva di nuovo

messa in testa la spera: ma la voce popolare diceva

che di quella processione serale, tanto composta,

con dietro solo qualche vecchio e le signore civili,

San Calogero si stufava fino alle lagrime.

Qualche anno fa , la

statua del Santo che

vedete ora

restaurata,

a causa di un troppo

affettuoso abbraccio

dei suoi fedeli, perse

il dito indice della

mano destra, con un

effetto non proprio

benedicente.

14

Le vacanze di Luigi Pirandello a Coazze

.. ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi

di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso il

ponte che ritiene per una pescaia l’impeto delle

acque che vi fremono irose: l’aria era di una

trasparenza meravigliosa ; tutte le cose in ombra

parevano smaltate in quella limpidezza; ed

io,guardando, mi sentii così ebro della mia libertà ,

che temetti quasi d’impazzire, di non potervi

resistere a lungo ...

Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, nella collana

“Tutti i romanzi” ed. Mondadori 1957, pag.342

Nell’estate del 2001 è stato celebrato il centenario

della villeggiatura di Luigi Pirandello a Coazze,

paese della Val Sangone in provincia di Torino.

Per la ricorrenza è uscita una pubblicazione (Album

di Coazze, per una scrupolosa ricostruzione di

questa villeggiatura fino allora misconosciuta nella

biografia pirandelliana.

In estrema sintesi Pirandello, giovane professore

trentaquattrenne, venne a Coazze in villeggiatura

con moglie e bambini nella tarda estate del 1901

(dal 23 agosto ai primi di ottobre) per raggiungere

la famiglia della sorella Lina, allora risiedente a

Torino, che come molte altre famiglie della

borghesia torinese trascorreva le vacanze estive in

questa apprezzata località montana.

Fu un soggiorno sereno per Pirandello ed anche

letterariamente fecondo perché ci ha lasciato il

cosiddetto Taccuino di Coazze, quadernetto di note

e appunti che servirono poi al nostro autore per

varie opere ispirate a questa sua esperienza in terra

piemontese. Ricordiamo, in ordine cronologico, le

novelle Gioventù e La Messa di quest’anno, il

romanzo Suo marito, dove Coazze compare con lo

pseudonimo di Cargiore.

Pirandello venne a Coazze perché la sorella Lina

che viveva dal 1897 a Torino (e vi resterà fino al

1902 quando il marito, ingegnere minerario dello

Stato, sarà trasferito a Massa Carrara), veniva a

Coazze in villeggiatura, e tutti sappiamo la

differenza tra un “tour” qualsiasi ed un viaggio

che abbia per meta un luogo dove trovi una casa e

persone amiche.

Egli avrebbe già voluto venire a Torino presso la

sorella per l’Esposizione Internazionale del 1898,

ma non gli era poi stato possibile.

Ma Pirandello aveva avuto rapporti con Torino sin

dall’adolescenza, se ricordiamo che il suo primo

scritto narrativo pubblicato fu l’elzevìro La

capannetta che comparve sulla “Gazzetta del

Popolo della domenica” del 1° giugno 1884, e se

ricordiamo che considerava, come modello per la

sua poesia, Arturo Graf, docente dell’Università di

Torino sin dal 1876, al quale,“come a Maestro”,

aveva inviato la sua prima raccolta poetica Mal

giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889.

Prima di arrivare al successo con Il fu Mattia

Pascal, Pirandello pubblicò i suoi lavori in case

editrici d’ogni parte d’Italia e, come si è detto, il

suo editore torinese fu Renzo Streglio presso il

quale pubblicò due collane di novelle: Quand’ero

matto nel 1902 (che comprende la novella Lumìe di

Sicilia), e nel 1904 Bianche e nere.

Renzo Streglio era un editore minore militante.

“Dalla sua casa editrice – scrive Enzo Bottasso,

uscirono, insieme a libri importanti per tener desta

la nostra tradizione letteraria, come la monografia

del Rinieri su Silvio Pellico o la ristampa dei Miei

tempi di Angelo Brofferio, novità di Giovanni

Cena, Enrico Thovez, Corrado Corradini, Edmondo

De Amicis, Francesco Pastonchi e Luigi Pirandello”

appunto.

Nel 1907 pubblicò La via del rifugio di Guido

Gozzano ed ancor prima, per tutto il 1905, fu

l’editore del settimanale letterario “Il Campo”,

“quasi travolto dalla tragica fine scelta per sé da

Giovanni Camerana” (di cui pubblicherà postumi,

nel 1907, i Versi). E’ proprio su “Il Campo” del 2

aprile 1905 che si dà notizia, per la prima volta,

d’un romanzo “umoristico” di Luigi Pirandello,

intitolato Suo marito.

Siamo nel 1924, Pirandello ormai aveva conquistato

il pubblico ed ogni sua prima rappresentazione era

un evento. E’ di quell’anno la commedia Ciascuno

a suo modo, che ricorda nel titolo il motto del

15

campanile di Coazze, Ognuno a suo modo, che

aveva tanto colpito Pirandello quando era venuto

nel paese in villeggiatura.

Preannunciando la commedia in un’intervista sul

“Giornale di Sicilia” del 10 aprile 1924, Pirandello,

mettendo le mani avanti e mostrando di divertirsi

allo scandalo, aveva detto:

“In Ciascuno a suo modo avvengono cose da

pazzi”, facendo il verso, evidentemente, ai suoi

detrattori.

Bemporad, nuovo editore di Pirandello dopo

Treves, pubblicò il libretto della commedia pochi

giorni prima del debutto. Domenico Lanza, che in

quegli anni insieme a Renato Simoni e Marco Praga

di Milano, e Adriano Tilgher di Roma, era tra i

critici teatrali più autorevoli, notoriamente non

favorevole alle opere di Pirandello, si buttò sul

libretto e ne stilò una lunghissima recensione

demolitrice sulla “Gazzetta del Popolo”, zeppa di

giudizi spregiativi: “…la nuova commedia di Luigi

Pirandello non esce dai confini d’una creazione non

solo comune e banale, ma travagliata dagli sforzi

d’un barocchismo insignificante e inane, e in

parecchi momenti di assai discutibile buon gusto, e

di ancor più discutibile forza di idee e abilità di

forme… manca la guida della misura e

dell’equilibrio mentale…”; i personaggi sono

“un’accolta di morbosi cerebrali, pazzi o semipazzi,

decadenti della volontà , tormentatori di sé e degli

altri, svuotati d’ogni persuasiva umanità e

congegnati artificialmente come puri macchinismi

dialettici…”ecc ecc.

Domenico Lanza, un “torinese di stampo antico, –

come scriveva Lorenzo Gigli, critico letterario suo

collega alla “Gazzetta del Popolo" di intransigente

dirittura, di alto e coraggioso sentire”,

evidentemente non poteva sopportare Pirandello,

forse per una vera e propria incompatibilità di

carattere, e neppure temeva di andare contro la

moda.

Pirandello prontamente volle vendicarsi con una

”lettera al direttore” del Corriere della Sera tre

giorni prima della rappresentazione in Milano, che è

tutta una spassosa presa in giro del suo avversario,

ed anzi ne approfittò per creare ancora una volta un

magistrale gioco degli specchi tra finzione e realtà.

…il signor Domenico Lanza, mio feroce e

riveritissimo nemico, - scrive Pirandello - senza

aspettare che la mia nuova commedia fosse

rappresentata, non dico a Torino (dove pur sarà tra

una ventina di giorni) ma neppure a Milano, le

rovescia addosso sulla “Gazzetta del Popolo”

quattro colonne di vituperi. Dio mi guardi dal

volergliene male, ché anzi, gliene sono gratissimo.

Ed ecco perché. Nel primo degli intermezzi corali

della commedia sono introdotti anche i critici

drammatici a dare il loro parere sul primo atto di

essa… Ora, per osservare fino allo scrupolo questa

obiettività che mi sono proposta, mi par lecito

approfittare, come d’una fortunata congiuntura, del

giudizio preventivo che il sig. Domenico Lanza ha

voluto fare della mia commedia, e farò ripetere

questo suo giudizio in buon piemontese da uno di

quei critici drammatici … E il signor Domenico

Lanza , di qua a venti giorni, allorché la commedia

sarà rappresentata a Torino, potrà risparmiarsi di

scriverne ancora sulla “Gazzetta del Popolo”…”.

Ciò che più colpisce, al di là del duello verbale tra i

due personaggi, sono le reazioni che seguirono alla

polemica.

La lettera di Pirandello sul “Corriere della sera”

provocò il risentimento dell’Associazione della

Stampa Subalpina, che fece pubblicare un ordine

del giorno del suo Consiglio direttivo dove

prendeva le difese di Domenico Lanza, autore di un

giudizio severo sì, ma, secondo loro, “espresso in

forma piena di dignità e di rispetto”, stigmatizzando

invece “la risposta acre e sarcastica” di Luigi

Pirandello; e deplorava “il fatto nuovo” che il

“grande giornale milanese” avesse ospitato, contro

“il buon costume giornalistico”, “le espressioni

evidentemente inopportune ed esorbitanti in banali

quanto ingiuste offese per la gente subalpina”, (e

pensare che il bel titolo della sua commedia,

Ciascuno a suo modo, Pirandello l’aveva preso

proprio dal motto sul campanile della chiesa d’un

paesello montano piemontese come Coazze, vicino

a Torino, dove aveva passato una felice vacanza!).

Un elemento fondamentale dell’arte pirandelliana è

l’umorismo, che l’Autore stesso teorizzò nel saggio

omonimo, L’umorismo, del 1908.

A mio parere l’umorismo scatta nell’opera

pirandelliana come reazione, e difesa, alla perdita di

fede nell’assoluto, ma quello che mi preme notare è

che l’umorismo in Pirandello non è sarcasmo (se

mai ironia) cioè non implica un atteggiamento

16

impietoso, bensì esprime una profonda e spesso

indulgente simpatia umana. Il romanzo “coazzese”

Suo marito ne è un eloquente esempio.

All’inizio di questo lavoro abbiamo posto una

citazione dal Fu Mattia Pascal, che è una veduta

assai familiare per chiunque conosca Torino, ed

esempio di natura vista come stato d’animo.

Si tratta del “ponte della Gran Mamarzodre”, con

quella “rapida” d’acque, subito dopo il ponte,

tuttora esistente. Pirandello mette in rilievo con

straordinaria intensità la limpidezza del cielo del

Piemonte, così come aveva fatto per lo stesso luogo

il Bellotto nella veduta “L’antico ponte sul Po a

Torino” che si trova alla Pinacoteca Sabauda e non

è affatto improbabile che Pirandello ivi l’avesse

vista; la stessa limpidezza resa dai paesaggi della

Val Sangone del pittore Marco Calderini intorno

agli anni della villeggiatura coazzese di Luigi

Pirandello. da uno studio del 2003 di Silvio Montiferrari

Su preziosa indicazione dell’amico Renato

Cesarò, sempre attento a segnalarci notizie

interessanti:

Le fiabe di

Giuseppe

Pitrè: un

tesoro

ritrovato

1841-1916

Torna alla luce,

dopo quasi un secolo e mezzo, la straordinaria, per

qualità e quantità, raccolta di fiabe siciliane di

Giuseppe Pitrè (il più importante raccoglitore di

tradizioni popolari dell’Isola, vissuto a cavallo fra

’800 e ’900) nella prima traduzione integrale in

italiano moderno.

Si tratta della collezione di storie orali più ricca, e

forse più bella, che l’Italia abbia mai avuto, come

ebbe a dire Italo Calvino nel 1956 quando

selezionando dai repertori di ogni regione italiana le

200 Fiabe a suo giudizio più significative, ben 40 le

attinse proprio all’opera di Pitrè.

Da Giufà a La volpe Giovannina, da Rosmarina a

Cola Pesce… sono storie di fate e di giganti, di

maghi e di contadini, di sciocchi e di furbi.

Sono racconti di fichi e zafferano, di fontane e

giardini incantati. Sono il cuore pulsante di una

Sicilia del tempo che fu.

Eppure questa raccolta è a tutt’oggi sconosciuta,

perché Pitrè aveva scelto di trascrivere le fiabe nel

dialetto siciliano ottocentesco in cui gli erano state

raccontate e così facendo le aveva rese sì immortali

ma indecifrabili ai lettori italiani.

Grazie alla collaborazione tra Donzelli Editore e

Fondazione Sicilia, che ha patrocinato il progetto

editoriale, questa raccolta esce finalmente in libreria

in una doppia edizione, una più grande in 4 volumi

con il testo siciliano a fronte dal titolo Fiabe,

novelle e racconti popolari siciliani (cofanetto in 4

volumi, pp. 2875 – € 165,00); una più piccola dal

titolo Il pozzo delle meraviglie. 300 fiabe, novelle e

racconti popolari siciliani (pp. XXIV-806 – €

30,00).

Entrambe le opere si avvalgono della traduzione di

Bianca Lazzaro e della cura di Jack Zipes, esperto

di fama internazionale e autore di decine di studi e

ricerche sulla fiaba.

L’intera opera è stata presentata il 28 ottobre a

Palermo, presso la Società Siciliana per la Storia

Patria, e a Roma il 29 ottobre, presso la Sala

Zuccari di Palazzo Giustiniani.

“Per un editore come Donzelli la doppia edizione

delle Fiabe di Pitrè corrisponde a un obiettivo

esaltante: mettere in circolazione un tesoro assoluto

della letteratura popolare, vorrei dire senza mezzi

termini un monumento della tradizione culturale

italiana, sottraendolo a un oblio che dura da quasi

centocinquanta anni.

Per fare questo si trattava di tradurre, per la prima

volta integralmente e nel modo più rigoroso, queste

300 storie dal siciliano all’italiano, rispettando il

ritmo della narrazione orale, restituendo il gusto del

parlato, e ricostruendo – senza facili concessioni a

qualche finto sicilianismo – i colori e il calore di un

contesto.” afferma Carmine Donzelli.

L’edizione maior, Fiabe, novelle e racconti popolari

siciliani riproduce tutti i testi in siciliano di

Giuseppe Pitrè, affiancandoli con la traduzione a

fronte di Bianca Lazzaro e con le note critiche di

Jack Zipes.

Questa edizione “ha rappresentato una grande sfida

redazionale: si è trattato di trovare una serie di

soluzioni, nell’editing come nella grafica, e persino

nella scelta dei materiali da adoperare, che fossero

in grado di esaltare la bellezza di questo libro.

Ecco un caso – ribadisce Carmine Donzelli – in cui

il tradizionale supporto cartaceo si prende le sue

rivincite: non c’è pagina ‘digitale’ che a questi

livelli possa competere.”

L’edizione minor, Il pozzo delle meraviglie

raccoglie tutte le 300 fiabe in traduzione, si vuole

rivolgere al più vasto pubblico dei lettori che,

semplicemente, amano la fiaba.

17

Siamo di fronte, come ebbe a dire Italo Calvino, alla

“più bella raccolta di fiabe che l’Italia possieda” e,

come sostiene Zipes, a un patrimonio “ancora più

importante di quello dei fratelli Grimm”.

L’edizione ‘piccola’ vuole portare il lettore e la

lettrice a godere direttamente della forza, del

fascino, della magia di queste storie.

Un contributo ulteriore per entrare in questo mondo

fatato è rappresentato dalle splendide tavole

disegnate dal grande illustratore argentino Fabian

Negrin appositamente per questa edizione (è

possibile richiedere le immagini all’ufficio stampa

della casa editrice: [email protected].)

“Questo straordinario progetto editoriale rende la

meritata dignità culturale a quelle meravigliose, ma

al contempo semplicissime, storie popolari raccolte

da Pitrè fra i borghi, i campi e le contrade di una

Sicilia di oltre cento anni fa e da lui poi

diligentemente trascritte così come le aveva

ascoltate, quasi a voler tramandarle ai posteri nella

genuinità dei loro colori e dei loro sapori, delle loro

arguzie e dei loro arcani.” – dichiara Giovanni

Puglisi, presidente della Fondazione Sicilia –

“Mi piace pensare che da oggi, tradotte in italiano,

sgrovigliate dal dialetto ma non per questo

impoverite, le magiche fiabe di Pitrè possano essere

apprezzate da un pubblico assai più ampio di quello

che fino ad oggi ha potuto assaporarle.”

Siciliainformazioni.com

L’angolo della Musica,

ovvero musicisti Siciliani nel mondo

Nick La RoccaDominic James "Nick" La Rocca

(New Orleans, Louisiana 11-4-1889/22-2-1961)

Nick La Rocca, grande cornettista e pioniere del

jazz classico, era il capo della "Originale dixieland

Jass Band". Secondo lo stesso La Rocca era “il

creatore di jazz", il "Cristoforo Colombo della

musica".

Era il secondo di quattro figli di poveri immigranti

Italiani a New Orleans che alla fine dell'ottocento

era una città multi culturale (era stata il porto

principale dove arrivavano le navi cariche di schiavi

africani fino al 1860).

Dopo la guerra di secessione, da Palermo e Trapani

partivano le navi cariche di agrumi e ortaggi per

scaricare nel porto di New Orleans in cambio di

cotone.

Sulle stesse navi, migliaia di emigranti sono arrivati

dall'Italia, e New Orleans è diventata una sorta di

colonia di agricoltori Siciliani.

Il biglietto da Palermo a New Orleans costava

molto meno delle altre tratte, invece da Napoli o

Genova si arrivava più facilmente a Boston o New

York. Nel 1876 Girolamo La Rocca e sua moglie

Vittoria Di Nino arrivarono a New Orleans.

Partiti da Salaparuta, un piccolo paese vicino a

Trapani, Girolamo trovò lavoro subito come

calzolaio; nel servizio militare aveva fatto il

bersagliere, trombettiere sotto il comando del

generale Lamarmora, e ancora suonava, per

arrotondare il bilancio familiare.

Il giovane Nick venne subito attratto dalla musica

delle bande musicali e in particolare dagli ottoni.

Segretamente cominciò a studiare cornetta, contro i

desideri del suo padre, che sperava che suo figlio

entrasse in una professione più prestigiosa.

Nick al centro con la cornetta.

Nick La Rocca ha inizialmente lavorato come

elettricista, suonando solo come dilettante.

Dopo la morte prematura del genitore, nel 1904,

Nick poté dare sfogo a tempo pieno alla sua

passione.

Dal 1910 al 1916, all’incirca, fece parte della banda

di Papa Jack Laine (il vero nome era George

Vitale). Mentre non era considerato come uno dei

più virtuosi o creativi dei suonatori di Laine, era

solido, con un labbro forte che gli permetteva di

fare delle lunghe parate senza riposo..

Nel 1916 venne scelto come rimpiazzo all'ultimo

minuto al posto di Frank Christian nel gruppo di

Johnny Stein per un lavoro a Chicago, nel Illinois.

Questo gruppo diventò la famosa "Original

Dixieland Jass Band" che avrebbe fatto le prime

incisioni commerciali di jazz nel 1917.

Queste registrazioni furono grandi successi ed

hanno trasformato i musicisti del gruppo in

celebrità. Presto altri musicisti di New Orleans

cominciarono a seguire il percorso dell’ ODJB, fino

a New York per suonare il jazz.

18

La Rocca era geloso degli altri gruppi musicali.

Frank Christian ricorda che La Rocca gli offrì $200

e un biglietto ferroviario di ritorno per farlo tornare

a casa a New Orleans.

Dopo che una banda di musicisti di New Orleans

composta da Alcide Nunez, Tom Brown e Ragbaby

Stevens aveva vinto un concorso di bande contro

’l’ODJB, il batterista Ragbaby trovò le pelle dei

suoi tamburi tagliata da qualcuno. Ciò diede a La

Rocca il sopranome di “Taglierino Joe" e venne

pubblicata una canzone chiamata “Taglierino Joe,

Tagliente Come un Tacco".

La Rocca condusse la sua band durante le tournée

nell'Inghilterra e negli Stati Uniti nei primi anni '20,

fino a quando soffrì un crollo psichico e tornò a

New Orleans per lasciare la musica e diventare un

appaltatore edile. Nel 1936 La Rocca riunì l’ ODJB

per una tournée e alcuni incisioni.

La Rocca affermava che lui e la sua banda erano gli

inventori della musica swing, ora in voga al

momento e che questa nuova musica era in realtà il

vecchio jazz in abiti moderni.

Il gruppo ottenne un contratto radiofonico con la

NBC Red Network. La Rocca suonò di nuovo

''Tiger Rag'' catturando più ascoltatori di tutti gli

ospiti precedenti e attirando offerte da tutti gli USA.

Dopo due anni di successi, i conflitti di personalità

sfasciarono nuovamente il gruppo e Nick La Rocca

lasciò di nuovo la musica. Negli anni '50 cominciò

a scrivere numerose veementi lettere a giornali,

radio, e programmi televisivi, dichiarandosi l'unico

inventore della musica jazz e affermando che chi

sosteneva che la musica avesse origini africane

doveva far parte di una cospirazione comunista.

Quando l'università di Tulane fondò un archivio di

jazz di New Orleans nel 1958, Nick La Rocca donò

la sua ampia raccolta delle carte relative all’ ODJB,

dopo l'aggiunta dei numerosi commenti nei margini,

spesso ingiuriosi verso i suoi musicisti e colleghi.

Aveva anche modificato dei documenti per renderli

più aderenti alla propria versione della storia. Allo

stesso tempo, lavorava con il produttore H.O. Brunn

sul libro La Storia della Original Dixieland Jass

Band (a volte soprannominato sarcasticamente dagli

storici del jazz come “Il Vangelo secondo Nick La

Rocca"),mentre Brunn ha attenuato alcune

polemiche più estreme di La Rocca; il libro ancora

presenta un racconto curioso di La Rocca che cresce

in una New Orleans apparentemente priva della

presenza di afroamericani e fonda la Original

Dixieland Jass Band nel lontano 1908. Il libro

minimizza anche l'importanza degli altri membri del

ODJB.

Quelli che provano a valutare i contributi di Nick

La Rocca verso il jazz a volte sono ostacolati dalle

dichiarazioni dello stesso La Rocca. Pochi

(principalmente in Inghilterra) hanno preso La

Rocca sulla parola, mentre una parte molto più

grande degli storici di jazz lo ha sminuito.

La Rocca ha involontariamente danneggiato la

propria reputazione, particolarmente in alcune delle

sue dichiarazioni che sono insolitamente razziste,

anche quando confrontate con le idee degli altri

bianchi dell'epoca.

Le dichiarazioni di La Rocca fatte verso la fine

della sua vita sono state rilasciate quando non era

completamente sano.

Una valutazione equilibrata può essere di

considerare Nick La Rocca come una figura

importante nella storia del jazz, che ha aiutato a

portarlo da uno stile regionale alla popolarità

internazionale, il capo della banda di jazz più

influente del periodo da 1917 a 1921, e infine un

buon suonatore in uno stile molto arcaico di jazz.

Le incisioni di Nick La Rocca hanno influenzato

trombettisti importanti di jazz come Red Nichols,

Bix Beiderbecke e Phil Napoleon. Nel 1992 a

Salaparuta, la città dei genitori, ci fu un Nick

LaRocca Memorial Day per festeggiare con un

convegno di studi ed un concerto della Sicilia Jazz

Big Band il 75º anniversario dell'incisione del

primo disco di jazz della storia da parte di La Rocca

nel 1917.

Nel 1991 Claudio Lo Cascio, primo e tuttora unico

jazzista siciliano ad ottenere la cittadinanza onoraria

di New Orleans, città definita La culla del jazz,

scrisse un libro intitolato: Una Storia Del Jazz: Nick

La Rocca. Decano dei jazzisti siciliani e notissima

figura di pianista, compositore, arrangiatore e

direttore d'orchestra, Lo Cascio dichiara

esplicitamente sin dal titolo di voler affrontare e

dibattere soltanto una piccola questione di quel

confuso periodo in cui il jazz ebbe origine e cioè

restituire la giusta dimensione artistica alla vicenda

del cornettista Nick La Rocca, puntualizzando i suoi

numerosissimi meriti con il corredo della minuziosa

documentazione raccolta nei molti anni di richieste

e studi, la maggior parte dei quali condotti sul

campo, sia in Sicilia che negli USA.

At The Jass Band Ball e Tiger Rag sono due dei

brani più celebri che permettono un delizioso

assaggio di questo meraviglioso mondo musicale.

19

Ecco le 10 frasi che un automobilista palermitano

ha detto almeno una volta nella sua vita… in una

raccolta che sicuramente farà ridere ma anche

riflettere sui nostri modi di fare a volte un po’

spartani e coloriti alla guida! 1. Che Minchia ci soni! (Tipica espressione

dell’automobilista palermitano in prossimità di un

semaforo. Solitamente infatti, allo scattare del

verde, il palermitano ha l’abitudine di suonare il

clacson per sollecitare il primo della fila a partire

con celerità. Ci si chiede quindi che si suona a fare

quando davanti sono ancora fermi!?

2. Ma cu’ ta rietti a patenti?!? (Frase di sdegno

verso qualcuno che ha appena effettuato una

manovra non consentita dal codice stradale)

3. Smoviti u’ sangu ca’ è virdi! (Classica frase

pronunciata dal personaggio di cui al punto n.1, in

prossimità di un semaforo. Pare che a Palermo,

infatti, non sia tollerato neanche un nanosecondo tra

lo scatto del verde e la partenza della prima auto in

fila);

4. Ma runni minchia av’a ghiri chistu?!? (Classica frase in cui gli indicatori di direzione sono

usati, ma nel senso opposto a quello in cui si vuole

andare, inducendo l’automobilista che sta dietro all’

errore)

5. A freccia mancu l’indiani ormai… (Classica

frase usata in prossimità di un incrocio o quando

qualcuno si appresta a parcheggiare, ignorando gli

indicatori di direzione, volgarmente chiamati

“frecce”. L’accostamento alle frecce scagliate dagli

indiani, dunque, ormai in disuso come appunto

l’uso da parte degli automobilisti palermitani)

6. Passa e vafanculu! (Tipica espressione usata in

prossimità di incroci, in cui qualcuno ci chiede la

precedenza. La variante è l’espressione gentile

“prego, passi pure”, seguita da “vafanculu”, una

volta che l’altra macchina si è allontanata);

7. Cucì, un secunnu e a spostu! (Classica frase del

palermitano che, per prendere un caffè o le

sigarette, deve obbligatoriamente posteggiare di

fronte al negozio in questione. Non importa che 50

metri più avanti ci sia un posto libero, si preferisce

sostare in doppia fila, perché tale tragitto

comporterebbe troppa fatica)

8. Cuinnutu e Sbirru (Tipica espressione del

palermitano usata quando qualcuno fa una manovra

azzardata mettendo in pericolo la propria incolumità

e quella degli altri)

9. Allazza (Frase pronunciata solitamente dal

passeggero che invita il conducente ad “allazzare”,

cioè premere sull’acceleratore per raggiungere il più

velocemente possibile la destinazione!

10. Un si fici nianti a machina… Un vali a’ pena

chiamari i vigli, haiu n’amicu carruzzìeri! (Classica frase da accordo post tamponamento, in

cui colui che ha torto cerca di evitare l’intervento

dei Vigili Urbani per poter risparmiare soldi,

millantando conoscenze di carrozzieri fidati). per gentile concessione del sito:

Grazie a Dio sono Palermitano

Due amiche siciliane dopo aver convinto i mariti,

riescono ad uscire a cena da sole per svagarsi un

po'.

Fra una chiacchiera e l'altra e dopo due bottiglie di

buon vino, lo champagne, i limoncelli e qualche

amaro, fattosi tardi, decidono di tornare a casa.

Completamente ubriache escono dal ristorante e

mentre camminano nella notte sentono l'impellente

bisogno di fare la pipì, una dice:

- Trasemu n’o cimitero, nun ci viri nuddu”.

Così la prima si sfila le mutandine, e dopo la

funzione usa gli slip per asciugarsi, poi li butta.

L'altra che porta biancheria firmata alla quale tiene

molto, si sfila le mutandine, le mette in tasca e per

pulirsi stacca un nastro da una corona di fiori.

La mattina dopo il marito della prima telefona

all'altro dicendo:

“Cumpari sugnu cunzumatu. Me mugghieri

Carmela stanotte s’arricampò, imbriaca e senza

mutanne! A ittai fora di casa!”

E l’altro:

“Ammia mu cunti! Me mugghieri Santuzza

s’arricampò mbriaca senza mutanne e con una

coccarda n’ to culu, cu sta scritta:

Salvo, Saro Turiddu, Calogero e tutti gli amici

della palestra...

” NON TI DIMENTICHEREMO MAI!

20

I maccheroni di casa in salsa e tonno.

E' importante sottolineare la differenza tra

maccheroni e maccheroni di casa.

Gli ultimi son sempre una pasta ottenuta

mescolando semola di grano duro ed acqua, ma

sono una specialità siciliana: sono più lunghi e

goderecci da masticare.

Spesso all'impasto si aggiungono peperoncino o

spinaci o inchiostro di seppia per conferire una

particolare colorazione alla pasta: rossa, verde o

nera.

In tutti i casi è difficile dare una ricetta sulla

preparazione dei maccheroni di casa perché ogni

famiglia possiede una ricetta propria e che spesso

conserva e tramanda con grande orgoglio e

riservatezza.

INGREDIENTI

Maccarrùna di casa;

tonno in scatola;

passata di pomodoro;

cipolla;

capperi;

prezzemolo;

1 spicchio d'aglio;

vino bianco secco (mezzo bicchiere);

olio – sale – peperoncino;

PROCEDIMENTO

Pulite la cipolla, tritatela e soffriggetela

leggermente con dell'aglio ed i capperi. Aggiungete

anche il tonno in scatola (prima scolate il

contenuto) e dopo qualche minuto unite il vino e

fate sfumare.

A questo punto unite al soffritto la passata di

pomodoro e aggiustate il sapore con il sale,

peperoncino ed il prezzemolo.

La salsa dovrà cuocere a fuoco basso per circa 30

minuti.

Alla fine togliete l'aglio e condite i maccarruna con

il sugo e magari una spolverata di formaggio.

(ragusano col pepe sarebbe perfetto)

Nella speranza che qualche socio/a voglia

testimoniarmi l’abilità in cucina eccovi inoltre una

specialità tipicamente natalizia:

LA GALLINA RIPIENA

Ingredienti:

600 grammi di riso vallone,

una gallina con le uova nonnate,

300 grammi di polpette di carne di vitello trita,

200 grammi di tuma,

150 grammi di pecorino col pepe stagionato

grattugiato,

sei uova fresche,

150 grammi di caciocavallo di provola fresco,

150 grammi di cotenna di maiale,

200 grammi di salsiccia di maiale,

quattro pomodori pelati,

50 grammi di estratto di pomodoro,

due cipolle medie,

due gambi di sedano,

un trito di aglio e prezzemolo,

50 grammi di mollica di pane,

50 grammi di pan grattato,

una spruzzata di latte,

burro o strutto,

olio d'oliva, sale e pepe.

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Una prima fase della ricetta prevede la preparazione

del brodo di gallina insaporito con la cipolla, poco

pomodoro, prezzemolo e sedano e le polpette

precedentemente preparate impastando la carne di

vitello - o di manzo - trita con uova, formaggio

pecorino grattugiato, prezzemolo e aglio tritato,

mollica di pane ammorbidita nel latte, sale e pepe.

Quando la gallina è ben cotta, la si toglie dal brodo,

la si priva di pelle ed ossa e la si divide in pezzettini

che poi si conservano insieme alle polpette lessate.

Si filtra il brodo e lo si riporta in ebollizione

aggiungendo il sale.

Qui si cuocerà il riso al dente.

A cottura ultimata, occorre mantecare il riso denso

con il pecorino grattugiato.

Umettare una teglia con burro e pan grattato e

stendere il primo strato di riso che deve esser alto

due centimetri.

Su esso occorre stendere pezzetti di gallina,

polpettine, le uova nonnate lesse e fettine di tuma.

Si aggiunge un secondo strato di riso e poi si le

polpettine, salsiccia e pezzi di caciocavallo di

provola; se si vuole, prima della seconda fascia di

ripieno si può stendere un velo di ragù.

Si ricopre il tutto con un ulteriore strato di riso che

sarà a sua volta coperto con la "conza", una salsa di

uova battute, pecorino grattugiato, sale e pepe.

La pietanza va infornata e la cottura sarà ultimata

quando il piatto avrà ottenuto una crosta dorata e

compatta.

Un’ottima occasione per farci gli

Auguri.

BUON

NATALE

Santuzzo