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1 2015 numero 8 - Settembre Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Quando gli italiani non erano bianchi Una foto della campagna #italianononèuncolore. Samsara in sanscrito significa “rinascita della vita” ed è il nome di un famoso profumo. Il suo realizzatore, Jean-Paul Guerlain, per crearlo andò fino in India a cercare il legno di sandalo più puro e un tipo di gelsomino che era usato per le offerte religiose. Esotismo, romanticismo, lusso. Tutto si sposa all’immagine che Jean-Paul Guerlain ha saputo dare di se stesso: un signore d’altri tempi, bonario e sempre vestito elegantemente. Questa immagine però non sarebbe completa senza l’edizione del telegiornale di France 2 andata in onda il 15 ottobre 2010. In quella occasione il re dei profumi francesi alla domanda sulla lavorazione di Samsara disse una frase che lasciò sbigottita e raggelata mezza Francia: “Per una volta mi sono messo a lavorare come un negro. Anche se non so se i negri abbiano mai lavorato tanto, ma insomma…”. Ci furono manifestazioni di protesta a Parigi e non solo. Dopo un po’ di tempo Guerlain fu condannato ufficialmente. Tra i manifestanti c’era anche la documentarista di colore Isabelle Boni-Claverie. Lei come molti altri era preoccupata per la piega razzista che stava prendendo il discorso pubblico in Francia. Non solo la politica stava sdoganando un linguaggio violento e offensivo, ma in quegli anni si apriva il dibattito sull’identità nazionale francese voluto da Nicolas Sarkozy. Un modo, si disse all’epoca, per avvicinarsi e superare le posizioni oltranziste del Front national. Ne uscì fuori una Francia fortezza che voleva tenere in un ghetto tutto ciò che non era assimilabile. Troppo nera? E lì prese a farsi strada in Boni-Claverie l’idea del documentario. Cominciò a farsi domande su domande. Per esempio si chiedeva se i neri, per il resto della Francia, erano dentro o fuori il sistema nazione. Se la république metteva sullo stesso piano i suoi cittadini. Apparve sempre più chiaro a Boni-Claverie che la classe e il colore in Francia erano ancora un elemento di differenziazione, nel migliore dei casi, o di esclusione nel peggiore. Il nero non era considerato un colore nazionale. Da queste riflessioni prende il via il documentario Trop noire pour être française? andato in onda il 3 luglio su Arte. La regista parte dalla sua vita per realizzare un’opera collettiva, dove la sua voce e la sua biografia servono a smascherare il razzismo della république. Ed ecco che i ricordi di infanzia cominciano a prendere peso. Vediamo la piccola Isabelle a sei anni che ha una voglia matta di interpretare la vergine Maria alla rappresentazione scolastica, ma viene dirottata sul personaggio di Baldassarre, uno dei re magi. Come mai lei, una bambina, doveva interpretare un maschio? Isabelle Boni-Claverie come tutti era circondata da immagini umilianti per un nero, ma prima (anche per lei) la percezione del discrimine era minore rispetto a oggi. E anche le caricature televisive pesantemente razziste di Michel Leeb erano solo un elemento in

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2015 numero 8 - Settembre

Email: [email protected]

Picciotti carissimi,vasamu li mani.

Quando gli italiani non erano bianchi

Una foto della campagna #italianononèuncolore.

Samsara in sanscrito significa “rinascita della

vita” ed è il nome di un famoso profumo. Il suo

realizzatore, Jean-Paul Guerlain, per crearlo andò

fino in India a cercare il legno di sandalo più puro e

un tipo di gelsomino che era usato per le offerte

religiose. Esotismo, romanticismo, lusso. Tutto si

sposa all’immagine che Jean-Paul Guerlain ha

saputo dare di se stesso: un signore d’altri tempi,

bonario e sempre vestito elegantemente.

Questa immagine però non sarebbe completa senza

l’edizione del telegiornale di France 2 andata in

onda il 15 ottobre 2010.

In quella occasione il re dei profumi francesi alla

domanda sulla lavorazione di Samsara disse una

frase che lasciò sbigottita e raggelata mezza

Francia: “Per una volta mi sono messo a lavorare

come un negro. Anche se non so se i negri abbiano

mai lavorato tanto, ma insomma…”.

Ci furono manifestazioni di protesta a Parigi e non

solo. Dopo un po’ di tempo Guerlain fu condannato

ufficialmente. Tra i manifestanti c’era anche la

documentarista di colore Isabelle Boni-Claverie.

Lei come molti altri era preoccupata per la piega

razzista che stava prendendo il discorso pubblico in

Francia.

Non solo la politica stava sdoganando un

linguaggio violento e offensivo, ma in quegli anni si

apriva il dibattito sull’identità nazionale francese

voluto da Nicolas Sarkozy.

Un modo, si disse all’epoca, per avvicinarsi e

superare le posizioni oltranziste del Front national.

Ne uscì fuori una Francia fortezza che voleva tenere in

un ghetto tutto ciò che non era assimilabile.

Troppo nera? E lì prese a farsi strada in Boni-Claverie l’idea del

documentario.

Cominciò a farsi domande su domande. Per

esempio si chiedeva se i neri, per il resto della

Francia, erano dentro o fuori il sistema nazione.

Se la république metteva sullo stesso piano i suoi

cittadini.

Apparve sempre più chiaro a Boni-Claverie che la

classe e il colore in Francia erano ancora un

elemento di differenziazione, nel migliore dei casi,

o di esclusione nel peggiore. Il nero non era

considerato un colore nazionale.

Da queste riflessioni prende il via il documentario

Trop noire pour être française? andato in onda il 3

luglio su Arte.

La regista parte dalla sua vita per realizzare

un’opera collettiva, dove la sua voce e la sua

biografia servono a smascherare il razzismo della

république.

Ed ecco che i ricordi di infanzia cominciano a

prendere peso.

Vediamo la piccola Isabelle a sei anni che ha una

voglia matta di interpretare la vergine Maria alla

rappresentazione scolastica, ma viene dirottata sul

personaggio di Baldassarre, uno dei re magi. Come

mai lei, una bambina, doveva interpretare un

maschio? Isabelle Boni-Claverie come tutti era

circondata da immagini umilianti per un nero, ma

prima (anche per lei) la percezione del discrimine

era minore rispetto a oggi.

E anche le caricature televisive pesantemente

razziste di Michel Leeb erano solo un elemento in

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più del paesaggio naturale. Durante la messa in

onda del documentario tropnoire ha avuto un

discreto successo anche in Francia.

La ferita è aperta.

La stessa Isabelle Boni-Claverie dirà con chiarezza

che “il principale motivo di discriminazione in

Francia è l’origine, un eufemismo per non dire

colore della pelle”. Il colonialismo è essenziale per

capire questa divisione della società. Un

colonialismo francese che (come tutti i

colonialismi) non solo dominava la gente a cui

aveva tolto la terra, ma vessava i suoi sudditi

umiliandoli e mettendoli in condizione d’inferiorità.

Si potrebbe obiettare che il colonialismo sia finito

parecchio tempo fa, che è acqua passata ma, come

ricorda nel documentario lo storico Pap Ndiaye, “gli

stereotipi servono a mantenere alcune forme di

disuguaglianza che avvantaggiano una parte di

società francese”. Quindi il colonialismo, con tutto

il suo armamentario, non è mai finito davvero.

Terze generazioni Una presa di posizione forte quella di Isabelle Boni-

Claverie, che però ha riscontri anche altrove in

Europa. Per esempio, in Italia la questione è

approdata sul web con la campagna partita a

maggio #italianononèuncolore lanciata dall’art

director Carlos Tomas Lora Acosta e

dall’associazione Questa è Roma, impegnata da

anni nella lotta per far ottenere la cittadinanza ai

figli di migranti nati o cresciuti in Italia.

I volti dei 115 ragazzi coinvolti sono dipinti di

bianco. Nessuno di loro è identificato da un nome o

da un cognome. Sono semplicemente unknown,

sconosciuti. Numeri, seguiti dalla dicitura umano/a.

Ognuno ha in mano un cartello con scritto “Adesso

posso…? ”.

Adesso posso amare? Adesso posso sognare?

Adesso posso sbagliare? Adesso posso decidere?

Adesso posso votare? Adesso sono italiano? Adesso

che sono bianco posso avere i diritti che spettano a

tutti i cittadini? C’è in questa campagna una dose di

sana provocazione. Ormai non siamo più alle

seconde generazioni, ma alle terze.

Persone che hanno vissuto tutta la loro vita in Italia

si vedono ancora negare questo diritto elementare di

cittadinanza e si ritrovano a essere come dice il

rapper italoegiziano Amir Issa “stranieri nella

propria nazione”.

Persone non ascoltate né considerate dalla politica

che non legifera sulla loro condizione paradossale.

L’Italia annuncia sempre l’avvio di un iter verso lo

ius soli, ma di fatto dopo le promesse fatte dai vari

governi e dopo i numerosi appelli (ricordiamo

quelli dell’ex presidente Giorgio Napolitano) nel

paese non succede nulla su questo fronte.

Il bianco è un insieme di privilegi, non un colore.

Bianco è una costruzione sociale.

Ma torniamo alla campagna.

La scelta del colore bianco, che punteggia o

attraversa i visi di ragazzi di origine africana,

asiatica, araba, sudamericana, di fatto è una

denuncia di una sorta di “bianchitudine” (whiteness)

imposta al concetto di identità nazionale.

Una whiteness che non scelgono, ma di cui si

appropriano come ultima spiaggia, come gesto

estremo. Il bianco sui loro volti colpisce.

È un bianco accecante, netto, senza sfumature.

Molto diverso dal colore degli italiani considerati

bianchi che è più identificabile con un rosa.

A questo pensiero ne segue subito un altro: ma gli

italiani sono bianchi? E i francesi?

Se una parte della popolazione è considerata trop

noire, troppo nera, troppo esotica, allora come vede

se stessa quella che si definisce bianca?

Il bianco è un insieme di privilegi, non un colore.

Bianco è una costruzione sociale. Un club esclusivo

dove si può essere accettati se si hanno le “giuste”

credenziali o dove si può correre il rischio di essere

cacciati. Per esempio gli italiani non sono sempre

stati considerati bianchi.

Negli Stati Uniti gli immigrati italiani erano spesso

vittime di linciaggi atroci e spesso non potevano

sposare donne anglosassoni.

Erano considerati quasi pagani con la loro ritualità

cattolica debordante e tra i migranti erano i più

sfruttati e sottopagati. In questo senso basti pensare

al lavoro dei tanti minori italoamericani nelle

fabbriche tessili o nelle miniere. Finché serviva

sfruttarli gli italiani non sono stati bianchi.

Essere italiani era un problema, spesso era meglio

fingersi qualcun altro per non essere vittima di

razzismo. Lo scrittore John Fante nel suo brillante

racconto Odissea di un wop fa capire come si

potesse di fatto arrivare a detestare se stessi a causa

delle discriminazioni: Insomma prendo a detestare

le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane

dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle

chiara e per i capelli, e i miei compagni me li scelgo

in base al suono anglosassone dei loro nomi. […]

Però sto sempre un poco in apprensione quando

sono con loro; potrebbero scoprirmi

Ha anche paura di portare i suoi nuovi compagni a

casa, nella sua casa troppo italiana e con la nonna

più italiana della casa stessa “una wop senza

speranza” la definisce Fante. Wop era il modo

denigratorio con cui l’America dei privilegi

definiva gli italiani, derivava da guappo ed era in

contrapposizione con wasp, la bianchitudine di

origine anglosassone, quella della classe dominante,

quella a cui si doveva somigliare.

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Il wop era troppo cattolico, troppo olivastro, troppo

povero, in poche parole spazzatura bianca.

Fante nel suo racconto fa vedere come spesso in una

società dove la discriminazione e la casta regolano

tutto, una persona può interiorizzare così tanto il

pregiudizio da arrivare a negare non solo

l’appartenenza, ma anche gli affetti.

Il protagonista del racconto infatti ci dice che sa

l’italiano e chiacchiera con la nonna in questa

lingua, ma “quando ci sono i miei amici, fingo di

non capire quello che dice, e faccio dei sorrisi

affettati”. Si doveva prendere distanza quindi dalle

“nonne”, dalle origini. Non a caso tempo fa,

memore di questa storia di dolore, un dj nero di

nome Chuck Nice, della stazione radio Waxq-Fm di

New York, in una trasmissione del mattino disse

che “gli italiani sono negri dalla memoria corta”.

Naturalmente la frase scatenò un putiferio.

Ma quello che voleva sottolineare il dj con parole

provocatorie e totalmente irriverenti era la natura

speciale della bianchezza degli italiani.

Il fatto è ricordato in un bel volume pubblicato nel

2003 a cura di Jennifer Guglielmo e Salvatore

Salerno, Gli italiani sono bianchi?.

Il libro indaga attraverso vari saggi il rapporto degli

italoamericani con il colore della classe dominante.

Come dice Amoja Three Rivers “i bianchi non sono

sempre stati bianchi e non lo saranno per sempre.

Si tratta di un’alleanza politica. Le cose

cambieranno”.

E ci fa vedere come questo concetto di whiteness, di

essere bianchi, è provvisorio. Un giorno ci stai

dentro, sei accettato, il giorno dopo puoi anche

starne fuori, puoi esserne cacciato a pedate. Non è

un dato acquisito. E allora come uscire da questa

marmellata impazzita di colori?

Dal troppo nero, poco bianco?

La soluzione forse è solo nel percorso, nel lavoro

quotidiano, nella costruzione di una reale società

meticcia. Per esempio in Italia, senza andare troppo

lontano, si potrebbe cominciare dando la

cittadinanza ai tanti nati o cresciuti nella penisola.

Sarebbe già un passo. Igiaba Scego, scrittrice

DIARIO DI VIAGGIO 2015

1° PARTE (di ENZO MOTTA)

Quest'anno i miei itinerari siciliani sono stati due,

uno ai primi di luglio e l'altro a metà agosto.

Il primo è stato motivato da una duplice occasione

di incontro: fare una breve navigazione a vela con

lo skipper messinese Giancarlo Damigella, venti

anni dopo le nostre navigazioni oceaniche, e

presentare nell'agrigentino due spettacoli della

magnifica compagnia di canto finalese (HAPAX)

del nostro socio Maestro Angelo Mulè (di origini

licatesi) in tournée in Sicilia.

Volo low-cost Genova-Trapani; trasferimento in

porto con navetta, incontro, imbarco e rimpatriata

con Giancarlo Damigella; giornate splendide a vela

fra le Egadi: Levanzo è poco più di uno scoglio;

Marettimo è una felice oasi naturale; Favignana è

una perla turistica da visitare via terra (anche in

bici), e da circumnavigare; le sue acque sono parco

marino protetto e le innumerevoli affascinanti

calette hanno delle boe a cui ormeggiarsi per evitare

che le ancore danneggino il tappeto di posidonie

che si estende fino a riva; ogni cala merita un tuffo;

l'acqua è limpida, e sempre fredda a causa delle

correnti, ma l'esperienza è indimenticabile.

L'amico parte per i Caraibi, io pernotto a Trapani

(in zona porto); dal 2005, in occasione delle

selezioni di Coppa America, la città è stata restituita

alle splendide condizioni di un tempo, divenendo

turisticamente attraente anche al di là della ben più

visitata Erice.

Trovo un bed/breakfast molto conveniente in una

vecchia casa con arredi ottocenteschi in cui mi

danno addirittura un appartamento. Cerco un posto

in cui cenare; mi incuriosisce un vecchio magazzino

perfettamente e felicemente restaurato dal nome "Il

Patio - Taverna siciliana" con una scelta culinaria

ampia e multietnica.

Entro e vedendomi solo, un cortese signore - solo a

sua volta - mi invita al suo tavolo e si presenta: è

Salvatore Spitaleri, proprietario del locale, nato a

Tunisi (con la quale ancora commercia), e titolare di

una catena di residences siti in edifici antichi

perfettamente restaurati, gestiti insieme alla

famiglia con criteri moderni senza dimenticare la

tradizionale ospitalità siciliana; con lo stesso spirito

dirige questa sua ultima creatura, peraltro dotata di

uno chef pluripremiato; Salvatore è un vero

personaggio: mentre mi consiglia (quasi mi impone)

squisiti piatti di pesce, scambia convenevoli in varie

lingue con tutti i clienti ai tavoli, e con quelli, che

via via entrano e mi racconta buona parte della sua

vita; finisce che faccio altrettanto.

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Ci salutiamo con tanta cordialità dopo che ho

pagato la metà di quanto pensavo.

I Siciliani come lui hanno una marcia in più:

speriamo si moltiplichino.

La mattina dopo, volendo visitare la Riserva

Naturale dello Zingaro (a mezza costa fra San Vito

Lo Capo e Scopello, a est di Trapani) prendo un

autobus di linea: arrivo a San Vito capitale del cous-

cous (c'è un festival internazionale a settembre e

decine di ristoranti che lo fanno benissimo in vari

modi) con una grandissima spiaggia libera affollata

da giovani turisti di tutto il mondo; con una certa

difficoltà trovo posto in un piccolo albergo-

ristorante decorato con magnifici Azulejos

(orgoglio della titolare) e arredato con mobili "di

quando ero piccolo" ma dotato di servizi moderni.

Saputo che l'ingresso della Riserva è a una dozzina

di chilometri (quindi alla portata delle mie gambe)

noleggio una bici e mi avvio, percorro più o meno

cinque chilometri ma, in vista di una salita piuttosto

ripida (era anche mezzogiorno) mi informo meglio

sul percorso: la salita è quella che vedo, ma dopo

c'è una discesa a tornanti peggio dello Stelvio e al

ritorno sarebbero dolori......; quindi faccio dietro-

front e noleggio uno scooter; poco prima della

Riserva c'è il celebre residence Cala m’pisu, sugli

scogli; visto dall'alto si rivela un posto da sogno;ne

danno conferma le auto di lusso parcheggiate

all'ingresso.

La Riserva si estende lungo la costa; in due ore di

marcia abbastanza agevole si attraversa tutta

giungendo a Scopello, famosa per i suoi faraglioni

(per il ritorno si può prendere un mezzo là).

Faccio un'escursione di poco più di un’ora fra i

profumi di una macchia mediterranea ricca ma in

corso di ulteriore ripopolamento, boschetti di alberi

da sughero, case in pietra adibite a piccoli musei

contadini e della pesca del tonno; in basso calette

meravigliose con accessi ripidi ma sicuri.

Il giorno successivo mi portano in albergo l'auto a

noleggio e parto per Agrigento; passo da Sciacca,

da amici, e al Porticello (vicino al Circolo Nautico)

mangio un fantastico (e fantasioso) antipasto di

pesce e verdure a Km zero.

Ad Agrigento (e Raffadali) breve giro fra parenti e

vecchi compagni di scuola.

Ed ecco le due serate: a Licata, nel centro storico

ricco di bei palazzotti purtroppo tutti da restaurare,

nel teatro civico (un piccolo teatro d'opera molto

bello quasi del tutto restaurato e con l'aria

condizionata) l'amico Mulè (che gioca quasi in

casa) rappresenta con i suoi splendidi ragazzi

l'operina "Almira"di Handel (che ha già dato anche

al Chiabrera); stante la temperatura gradevole gli

artisti non soffrono troppo nei loro costumi

seicenteschi, e ottengono un bel successo.

La sera dopo siamo nella Kolymbetra nel cuore

della Valle dei Templi fra il profumo degli agrumi e

i riflessi dorati del Tempio dei Dioscuri.

Fa gli onori di casa il Direttore Peppino Lo Pilato di

Raffadali, la cui passione va ben al di là dei suoi

doveri di funzionario del FAI (speriamo di averlo a

Savona in dicembre).

L'ambiente, l'atmosfera e il calore del pubblico

rendono felici i ragazzi del'HAPAX che nel

concerto di arie da camera di Vincenzo Bellini

danno il meglio di sé (proseguiranno per Noto e

Catania grazie ai buoni uffici del prof. Franco

Bonfanti).

Io ho l'aereo da Trapani alle 6,40 del mattino e

quindi, dopo aver presentato lo spettacolo e

ascoltato un paio di brani, mi affretto per Birgi dove

dormo quattro ore in un agriturismo, e poi via, a

casa.

Non è stata una vacanza rilassante, ma di grande

interesse; peraltro, anche per gli amici che volessero

provare, ho cercato di contenere i costi, e credo di

esserci riuscito senza rinunziare a un minimo di

comodità (anche se ho dovuto pianificare il

vestiario dato il ridotto bagaglio imposto dalla

Ryanair).

La prossima volta me la prenderò più comoda:

traghetto con auto al seguito: data la lunghezza

prevista del soggiorno il risparmio del noleggio

dell'auto vale il passaggio per nave. (segue…)

PONTI D’ARTE

Il Museo della Ceramica di S.Stefano di Camastra

(ME) è stato inaugurato il 24 dicembre 1994, dopo

anni di lavoro e di grande volontà, perché Palazzo

Trabia divenisse tempio di storia, arte, cultura e

tradizioni.

Il Museo rappresenta la memoria del passato nella

riscoperta di antiche tracce e nello stesso tempo il

sapere del presente.

Secoli di tradizioni sono pronti a testimoniare quante

numerose siano le impronte lasciate, di cui si deve

fare tesoro, ma che devono insegnare soprattutto che

la ceramica non può e non deve vivere solo di storia,

ma del rinnovamento a cui i tempi obbligano, un

Museo che conserva un rapporto genetico con la

propria memoria, un "nuovo" che rappresenti il

divenire della propria storia, nella consapevolezza

che il nuovo può essere annunciato solo da chi è

stato.

Tutto ciò rappresenta il Museo camastrense, che

rifiuta la definizione di deposito-esposizione, magari

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di "bei pezzi", dove il visitatore sia parte passiva pur

nel contesto di una estasiata ammirazione.

Ma un luogo dove gli oggetti d'arte e i fruitori siano

soggetti attivi, presenti e partecipi della evoluzione

culturale.

Un luogo per conoscere ed arricchire la cultura

stefanese e altre culture.

Un luogo di ricerca, studio, costruzione e anche di

promozione economica della ceramica siciliana.

Attualmente la raccolta consiste in una

rappresentativa serie di oggetti dell'antica tradizione

ceramica stefanese.

Oggetti d'uso quotidiano legati alle esigenze della

famiglia e del lavoro.

Fra i tanti pezzi vi troviamo il fiasco o "ciascu", i

boccali per il vino e l'acqua o "cannate", le lucerne ad

olio ad una o più fiamme fra cui quella detta di

S.Antonio a tredici fiamme, la tipica brocca alta e

stretta con due manici o "bummulu", i contenitori con

coperchio per olive ed alimentari vari o "burnie", i

piatti decorati con motivi semplici o "fangotti",

alcune acquasantiere, l'originale anforetta con due

manici e con all'interno una membrana d'argilla

forata per mantenere fresca l'acqua o "bic bac",

diverse varietà di pigne aperte o chiuse dai colori

verderame, giallomiele o bianco che nella credenza

popolare avevano un significato propiziatorio, il

comune salvadanaio o "carusietru" praticamente

uguale in tutte le tradizioni caramiche, le scodelle di

diverse dimensioni screziate verderame o blu

comunemente chiamate "lemmi", i contenitori per

l'acqua o "quartare" e poi le famose giare per l'olio o i

cereali di cui parla anche Pirandello nel suo celebre

racconto "La giara" definendolo quella di S.Stefano

"la badessa" per la sua forma maestosa e imponente.

Vasta la raccolta delle antiche mattonelle

maiolicate, vero vanto della produzione di S.

Stefano dal XVII secolo ad oggi.

Se è vero che i più maestosi palazzi siciliani furono

ancora di più impreziositi dalle splendide

mattonelle di S. Stefano, è anche vero che quella di

"stagnare e pittare" mattoni è stata ed è la vera arte

dei mastri ceramisti stefanesi che, insieme alla

produzione più '"povera" degli oggetti d'uso e della

ceramica artigianale, hanno fatto di questo piccolo

centro una vera e propria città d'arte che continua ad

imporsi con grande dignità all'attenzione culturale

ed economica del mercato internazionale.

Altro motivo d'orgoglio per il Museo stefanese è la

raccolta di opere dei migliori artisti ceramisti

italiani acquistate nel corso delle ultime edizioni

della mostra della ceramica grazie ad una illuminata

scelta dell'Amministrazione Comunale.

Fra gli artisti presenti ne ricordiamo solo alcuni,

quanto basta per avere un quadro già chiaro

dell'enorme patrimonio artistico del museo: Nino

Caruso, Lorenzini, Nespolo, La Pietra, Bonaldi,

Pianezzola, Carlos Carlé, Alessio Tasca, Rolando

Giovannini, Stropparo, Tomo Ffirai, Emidio

Calassi, Franz Sthaler, Rontini, Ravagli, Mariano,

Lucietti, Mazzini, Chiucchiù, Castaidi Crespi.

Un elenco che deve assolutamente rimanere aperto

poiché l'obiettivo comune è quello di dotare il

Museo di S. Stefano di una prestigiosa raccolta

nazionale e internazionale di alto contenuto

artistico.

Entrare a Palazzo Trabia è come entrare

nell'insolito, nella storia di uomini e donne che si

riscaldano al fuoco, che lavorano la terra e gli

danno un'anima.

Si lavora con immaginazione per far nascere dalla

creta "un'anima pulita".

http://www.santostefanodicamastra.net

Il ponte con un’eccellenza Savonese La singolare bellezza ed eleganza delle opere

esposte dal Museo della Ceramica documenta una

tradizione i cui frutti si sono manifestati

ininterrottamente per più di sei secoli a Savona e

Albisola, che insieme costituiscono uno dei più

antichi e importanti centri produttivi del

Mediterraneo.

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Ancora oggi la ceramica costituisce l’espressione

figurativa che meglio rappresenta e identifica la

storia, l’arte e l’economia del territorio.

Ne sono testimonianza i musei, le chiese, i

monumenti cittadini, l’arredo urbano, e le numerose

manifatture tuttora attive.

http://www.museodellaceramica.savona.it

Ci ha molto divertito ,durante il pranzo estivo,

IL Mago Mc. Juka che ora ci scrive:

Caro Sodalizio Siculo Savonese Luigi Pirandello,

alla vostra richiesta di spiegazioni riguardo la mia

storia il mago Mc. Juka é qui per rispondere alle

vostre domande, però prima di cominciare volevo

ringraziarvi ancora per quanto svolto durante il

pranzo della vostra associazione....

Comunque la mia storia inizia da bambino quando

la magia per me era ancora una favola tutta da

leggere, ebbene si neanche nato e già ero entrato in

quel mondo, visto che mia mamma faceva da

valletta agli spettacoli di un mago. Dopo la mia

nascita gran parte del mio tempo era passato a

casa di questo mago (il Mago Omar) e la passione

per questa professione saliva tanto da sognare di

diventare un giorno prestigiatore, ed un giorno,

esattamente il giorno del mio undicesimo

compleanno, la mia prima valigia di giochi magici

mi é stata regalata, da quel giorno la pratica e gli

esercizi sono stati essenziali per formarmi per

diventare ciò che sono adesso e stato difficile ma

gli spettacoli aumentavano, e con questi la mia

passione, ho frequentato seminari e riunioni ho

collaborato con proloco e associazioni e tutto

questo ha arricchito la mia esperienza ma

sopratutto ho conosciuto molte bellissime persone,

le difficoltà ci sono state e dopo averle superate

capisco che ho ancora molta strada da fare come

sono ancora tante le pagine della mia favola da

leggere. Ancora grazie per il vostro tempo.

Magici saluti e a risentirci il mago Mc. Juka

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In siciliano ci sono parole molto simili al vocabolo

italiano corrispondente, altre che derivano in modo

evidente dalle lingue dei numerosi dominatori che

hanno fatto la storia della Sicilia, altre che

cambiano da provincia a provincia e talvolta anche

da comune a comune, e altre , infine, che hanno

decine di significati diversi.Prendiamo ad esempio

SONNU: significa ovviamente SONNO (es: aiu

SONNU = ho SONNO), ma significa anche anche

SOGNO e TEMPIA (es. mi pari un SONNU! = mi

sembra un SOGNO … e invece: Cadì e si sbattì lu

SONNU = è caduto ed ha battuto la TEMPIA.)

BONU: vuol dire buono Es. Un picciottu BONU =

un BUON ragazzo, ma vuol dire anche BELLO: Oi

c’è tempu BONU = oggi c’è BEL tempo; e infine,

ripetuto due volte, significa anche BASTA: es.

BONU BONU ,lu capivu= BASTA l’ho capito…

Uno dei verbi siciliani con maggiori e più vari

significati è CUNZARI che può significare di volta

in volta:CUNZARI lu lettu = RIFARE il letto,

CUNZARI la tavula=APPARECCHIARE la tavola

CUNZARI lu pani =CONDIRE il pane con olio e

sale CUNZARI li scarpi (o altro) = AGGIUSTARE

le scarpe (o altro)

CUNZARI lu jazzu= COSTRUIRE un’impalcatura

di canne e stoppie per asciugarvi sopra la frutta

secca

CUNZARI Lu grazzu (o altra parte del corpo) =

CURARE il braccio da una storta o qualcosa di

simile: infatti il CONZAOSSA era una via di mezzo

tra l’ortopedico ed il fisioterapista

CUNZARI la pasta = METTERE lu sucu ( salsa di

pomodoro) sulla pasta

CUNZARI l’aulivi = PREPARARE le olive in

salamoia CUNZARI l’archi pi la festa =

MONTARE degli archi luminosi sulla strada in

occasione di una festa.

CUNZARI la nzalata = CONDIRE l’insalata

Lu CUNZARU pi li festi = Lo hanno CONCIATO

per le feste

CUNZARISI(riflessivo)=TRUCCARSI,FARSI

BELLA

CUNZARI lu presepiu = FARE il presepe

CUNZARI li peddri = CONCIARE le pelli

(soprattutto nei paesi montani, dove c’era molta

pastorizia esistevano “li cunsirii”, laboratori in cui

si lavoravano le pelli degli ovini per farne tappeti o

plaid )

CUNZARI l’artareddra = ha due significati: quello

letterale è FARE degli altarini lungo la strada che

verrà percorsa dalla processione del Corpus

Domini; l’altro è ORGANIZZARE gruppi dediti al

pettegolezzo o all’imbroglio.

Nello scorso numero si parlava del Ponte sullo

stretto ed ecco il parere della nostra Ada Lattuca

da Rosario (Argentina) The Bridge pride ?

RISPETTO ALLO STRETTO TI DICO CHE 'NNADRI

QUA IN QUESTA CITTÁ DEL 4º MONDO ABBIAMO

COSTRUITO UN PONTE DA ROSARIO A PARANÁ,

ATTRAVERSANDO IL FIUME PARANÁ (LUNGO

QUANTO UN MARE) DI 60KM. COSTRUITO PER

UNA IMPRESA ITALIANA. SI CAPISCE?

COSA FANNO NOSTRI SICILIANI CHE DA 100 ANNI

ASPETTANO A FARLO ?

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Nel frattempo ci godiamo questo altro bel

“ponte” fra Savona e Siracusa

L’ANGOLODELLA POESIA Antropocentrismo

Trovato dalla NASA, un po' lontanuccio,

un pianeta in cui sarebbe possibile la vita.

La nostra, ovviamente.

Non quella degli esseri viventi che forse già la

abitano, dopo che sapientemente o casualmente

si sono adattati alle condizioni date,

per selezione o disegno divino.

Data la distanza, prossima all'infinito, non sarà

possibile

a noi piccoli mortali, polvere nell'universo,

incontrarli.

Sarebbe ben triste che fossero copia delle nostre

fattezze, miserie, bellezze.

Una replica banale del giù visto, del già vissuto.

Che bello sarebbe ritrovare,

l'unicorno, l'ippogrifo, la particella di Dio parlante,

la donna angelicata,

la strega placata, l'amore universale, l'uomo

allattante tutti i bambini presenti.

E tanti esseri felici che finora hanno vissuto solo nei

meandri luminosi

della nostra fantasia, negli incavi ariosi dei nostri

sogni. Angelo Guarnieri

(Senza titolo)

Chissà come finirà questa mia storia

sono entrato nella stagione oltre l'autunno

dei versi tristi e dei passi senza ritorno

ho vergogna di questa mia solitudine

vorrei ritornare all'isola da dove son venuto

con il ricordo della mia donna nel cuore

ho piantato cento alberi di ulivo nella tarda età

per nascondermi alla morte anche se non ne ho

paura

non la sopporto a spiarmi, è un fatto d'amor proprio

'ieri troppo presto, domani troppo tardi, il momento

è oggi'

così ho appreso dai libri di Lenin e così ho vissuto

affidandomi ai maghi, alle fattucchiere e ai fondi di

caffè

le mie poesie sono lette in tutti i bordelli del mondo

ma nella mia Patria pochi le conoscono

ho sempre sfuggito premi e medagliette di latta

in questo scampolo di terra di Liguria il faro non ha

luce

solitaria e alla ventura naviga la zattera del mio

destino

tra le onde tempestose bisbigliano i demoni in

attesa. Gianni Gigliotti

Migrantes

In ogni immigrato c'è sempre un emigrato.

In ed ex dolgono entrambi,

ma è sempre l'ex, quel che si lascia,

che segna la ferita di dolore acuto..

O si trova consolazione

o diviene infetta e mortale.

Il tempo lenisce, a stagioni alterne,

ma un po' deve essere bonario.

Quando poi l'ex festeggia con l'in, talvolta accade,

l'ex guarisce e ci si sente a casa in ogni luogo,

come gli uccelli migratori

che danzano nell'aria del nord e del sud del mondo

e fanno nido dove natura chiede.

Angelo Guarnieri

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Andiamo uomo e cane uniti

dal mattino verde,

dall’incitante solitudine vuota nella quale solo noi

esistiamo,

questa unità fra cane con rugiada

e il poeta del bosco,

perché non esiste l’uccello nascosto,

né il fiore segreto, ma solo trilli e profumi

per i due compagni:

un mondo inumidito dalle distillazioni della notte,

una galleria verde e poi un gran prato,

una raffica di vento aranciato,

il sussurro delle radici,

la vita che procede,

e l’antica amicizia,

la felicità

d’essere cane e d’essere uomo trasformata

in un solo animale

che cammina muovendo

sei zampe

e una coda

con rugiada. P. Neruda

"Che mondo confortevole e meraviglioso è quello dei

libri se lo si attraversa non con l 'obbligo dello scolaro e

non lo si considera come una droga che inebetisce, ma vi

si entra invece con l'entusiasmo dell'avventuriero"

D.GRAYSON, Adventures in Contentment

Autunno, tempo di riordino….

Diventa

indispensabile

leggere un libriccino

bianco e verde che

pare in grado di

cambiarti la vita:

Il magico potere del

riordino,

breviario della

giapponese Marie

Kondo

che, mentre leggevo,

assumeva le fattezze

di una simpatica e

saggia settantenne

orientale e che invece si presenta come nella foto

Marie è diventata un

culto, anzi un verbo:

nel senso che ormai

«to kondo» significa

applicare il suo

metodo, per esempio

nella frase «ho

kondato il frigorifero

prima che arrivasse la

consegna del

supermercato».

«Negli Stati Uniti sono

rimasta un mese»,

racconta lei.

«I lettori mi sono parsi interessati più all’impianto

teorico che ai consigli pratici, e questo è l’approccio

giusto».

La domanda fondamentale è “Esprime gioia?”

Perché in questo consiste la filosofia della minuta

trentenne di Tokyo liberarsi dell’accumulo di

oggetti che ci soffocano gli appartamenti e le vite,

selezionando con coraggio tutto «in una volta sola,

in poco tempo e senza tralasciare nulla».

(E cosa intende per poco tempo, Marie?

«Al massimo sei mesi, lavorandoci nei weekend»).

Si procede per categorie e non per ambienti,

secondo una scansione che rispetta la capacità

dell’aspirante kondista di affrontare i nodi emotivi

del processo: prima i vestiti, poi i libri, le carte, gli

oggetti misti; soltanto alla fine i ricordi e le foto, i

più difficili.

Toccare tutto per capire se ogni singolo oggetto è in

grado di «esprimere gioia».

E poi, prima di buttarla, salutare la cosa che se ne

va e ringraziarla per ciò che ha fatto per noi.

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Forse un po’ troppo per noi italiani, per quanto

addestrato alla magra prosa rituale di Murakami e

agli armoniosi pasti colorati dei sushi bar.

«Oh sì, le cose vanno ringraziate: è necessario.

In Giappone crediamo profondamente che gli spiriti

dimorino negli oggetti, che gli diano vita: gli stessi

che si trovano nelle montagne o nelle onde del mare

abitano anche all’interno di una padella».

Si accompagnano al proprio destino i cavi elettrici

di cui nessuno decifra più la funzione, i regali

sbagliati, i bottoni di scorta («cucirli subito

all’interno dei vestiti appena comprati»), i libretti

delle istruzioni degli elettrodomestici («non servono

mai: al bisogno, chiedete a un esperto»).

Si dice sayonara, ed è un gran sollievo, agli estratti

conto.

Si kondomizzano le caselle di posta elettronica:

«E lì dovrebbe bastare un’ora, una volta per tutte».

Non ne siamo tanto sicuri, e insomma noi italiani

risultiamo un po’ più barocchi: forse servirebbero

dei codici speciali.

«E’ vero, la nostra cultura si fonda più della vostra

sul minimalismo. Ma lei non ha idea di quanto

siano inzeppati i piccoli appartamenti giapponesi.

E poi: sono arrivata da poco, ma le cucine italiane

mi sembrano impeccabili».

I cassetti risistemati da Marie Kondo emozionano.

Gli indumenti riposano (e con loro gli spiriti che li

vivificano) piegati come origami e disposti in senso

verticale.

Per capire la tecnica si deve però andare su

YouTube, perché il libro è totalmente privo di

illustrazioni.

Una scelta zen?

«Una scelta dell’editore giapponese, riprodotta in

tutte le versioni internazionali».

I consigli pratici, i tutorial, «verranno dopo:

l’importante è capire il metodo, la teoria».

L’importante, soprattutto, è prefigurarsi il senso

perfetto di armonia che coglierà a lavoro finito,

«consapevoli di esserci riusciti e di volersi bene».

Una chiarezza emotiva che, racconta, «per una

coppia di miei clienti ha significato il coraggio di

chiedere il divorzio, per almeno uno quello di fare

una proposta di matrimonio».

Marie guarisce con i suoi corsi (mesi e mesi di lista

d’attesa) soprattutto donne e, in minore percentuale,

uomini, di solito manager.

E quando le si chiede qual è, se c’è, la differenza,

emerge il gap culturale più vistoso tra Giappone ed

Europa, perché mi risponde che, «se le femmine

sono incentrate sul proprio universo personale, gli

uomini sono proiettati sui valori della propria

azienda e gli oggetti che essa rappresenta. Da noi,

la mattina, si va al lavoro entusiasti».

Da noi, le rispondo, sempre che si abbia un lavoro,

la sera si torna volentieri a casa e qualche volta la si

sogna come un miraggio.

Vuoi vedere che è per questo che aspiriamo alla

kondizzazione?

In questo libro svelo il metodo per riordinare una

volta per tutte e non ritrovarsi mai punto e a capo.

Impossibile?

Non mi sorprende che in molti la pensino così,

soprattutto considerando che quasi tutti quelli che

desiderano mantenere in ordine i propri spazi, pur

mettendoci tutto il loro impegno, dopo poco tempo

si ritrovano vittime del cosiddetto «effetto

boomerang» che li catapulta nel disordine iniziale.

Se pensate di appartenere a questa categoria di

persone, voglio confidarvi un segreto: per prima

cosa, buttate ciò che non serve; poi, riordinate

tutto in una volta, in modo definitivo e senza

tralasciare nulla. Procedete in quest'ordine e vedrete che non

correrete il rischio di ritrovarvi punto e a capo.

Secondo le tecniche convenzionali di selezione,

ordine e riorganizzazione degli oggetti, il metodo

che propongo appare alquanto insensato.

Eppure, tutti gli studenti che hanno frequentato le

mie lezioni e hanno brillantemente superato il corso

non solo sono riusciti a mantenere la propria casa in

ordine ma, risultato ancora più stupefacente, dopo

aver riordinato tutto, hanno visto sensibilmente

migliorare molti aspetti della loro vita, come il

lavoro e la famiglia.

In realtà, questa è la conclusione cui sono giunta

anch'io dopo aver dedicato più dell'80% della mia

vita a riordinare. Troppo bello per essere vero?

Se vi limitate a buttare una cosa al giorno e a

riordinare la casa un po' alla volta, la risposta è sì.

Un approccio del genere non sortisce alcun effetto

rilevante.

Al contrario, a seconda del metodo che applicate

per risistemare, la vostra vita può beneficiare di

un'influenza notevole. Ed è questo il vero

significato del riordino.

Ho iniziato a leggere riviste per casalinghe a cinque

anni, e, partendo da li, a quindici anni ho trovato lo

spunto per portare avanti uno studio vero e proprio

sul riordino. Al momento lavoro come consulente

domestica: quasi ogni giorno visito le case e gli

uffici di clienti incapaci di riordinare, o che dopo

aver riordinato si ritrovano presto al punto di

partenza, o vorrebbero riordinare ma non sanno da

dove cominciare, e do loro consigli.

La quantità di cose che finora sono riuscita a far

buttare ai miei clienti - da abiti e biancheria intima a

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foto, penne, ritagli di giornale e piccoli oggetti

come campioni gratuiti di cosmetici - supera il

milione di pezzi, e non si tratta di un'esagerazione.

Mi sono trovata in situazioni in cui i miei clienti

hanno buttato via più di duecento sacchi da

quarantacinque litri in un colpo solo.

In questo modo, grazie all'esperienza accumulata

affrontando seriamente il problema del riordino e

aiutando tante persone in difficoltà a farlo, c'è una

cosa che posso affermare con certezza: facendo

ordine in casa in modo radicale, cambiano

drasticamente anche la propria forma mentis, il

proprio modo di vivere e la propria esistenza.

Affermare che il riordino vi trasforma la vita

potrebbe sembrare esagerato, ma è la verità. Spesso mi sento dire: «Con la pigrizia che mi

ritrovo non ce la farò a riordinare», oppure: «Non

posso farci niente, perché non ho tempo».

Essere disordinati non è un fattore ereditario e

non ha nulla a che vedere con la mancanza di

tempo. Invece è il risultato dell'accumulo di

numerose convinzioni errate sul riordino - finora

associate al buonsenso - come: «Le stanze devono

essere riordinate seguendo un ordine specifico»,

«Se riordino tutto in una volta, di sicuro subirò

l'effetto boomerang, perciò riordinerò un po' alla

volta ogni giorno», oppure «Per riporre gli oggetti

bisogna seguire un piano preciso».

In Giappone si sente dire spesso che fare le pulizie

di casa e far brillare i sanitari porti fortuna.

Ma quando ci si ritrova sommersi da cianfrusaglie e

la stanza è nel caos più totale, l'effetto di un water

splendente sarà limitato.

La stessa cosa vale per il feng shui (è un'antica arte

geomantica taoista della Cina, ausiliaria

dell'architettura, affine alla geomanzia occidentale.

A differenza di questa prende però in

considerazione anche aspetti della psiche e

dell'astrologia.)

Dolo dopo aver pulito e riordinato la stanza, la

disposizione dei mobili e dei soprammobili

prenderà finalmente vita.

Quando una persona sperimenta almeno una

volta «l'ordine perfetto», prova la sensazione che

la propria esistenza abbia subito una

metamorfosi. In tal modo, non tornerà mai più

alla situazione iniziale di disordine. Questo è ciò che chiamo «il magico potere del

riordino». Gli effetti di questo «magico potere del

riordino» sono immensi.

Dopo aver riordinato una volta, non solo non ci si

ritroverà mai più al punto di partenza, ma si potrà

dare il via in tutta naturalezza a una nuova vita.

È questa la magia che desidero condividere con tutti

voi.

Avevamo parlato di Fabio Stassi nel 2013 in

occasione dell’edizione italiana di Curarsi con i

libri. Rimedi letterari per ogni malanno.

Ho letto e apprezzato questo primo romanzo

(Premio Vittorini per il miglior esordio) che

suggerisco anche perché Fabio Stassi è nato a Roma

(1962) da famiglia originaria di Piana degli

Albanesi (il paese di Portella della Ginestra). Ha

vinto il premio Sciascia Racalmare (AG), e il

Premio Alassio: Un altro ponte?

Fumisteria è un

affascinante

mosaico di amore,

odio, odori e

rimpianti, in cui le

sensazioni e i

sentimenti

conducono la

narrazione e

raccontano la

Sicilia con la sua

storia e la sua realtà

cruda, oltre quel

folclore e quel mito che spesso offuscano la vita e la

verità.

Il cadavere si trova riverso nell’acqua della fontana,

sulla strada della chiesa madre in modo che tutti lo

vedano. È Rocco La Paglia, giovane comunista ex

partigiano. Un morto strano. Se per vendetta, una

strana vendetta. Rocco da tempo era silenzioso nel

suo lavoro a bottega. Da quando la strage aveva

insegnato a lui, come a tutti i contadini che avevano

creduto di poter alzare la testa, a stare al suo posto,

in basso.

Così, adesso, sembra ovvio a tutti che il cadavere

sia legato alla solita storia: a una signora troppo

bella e troppo altera per sfuggire alle dicerie del

paese, e a un possidente, chiacchierato per non

essere abbastanza maschio. Delitto d’onore, come

una specie di dramma collettivo di espiazione, per

gli anni scorsi di troppa libertà.

Nel cuore di questo romanzo è il concreto, umano

significato della strage di Portella della Ginestra del

1947, quando il bandito Giuliano, su mandato di

oscure potenze e chiari interessi, sparò sul Primo

maggio dei contadini della Sicilia occidentale,

uccidendone e ferendone a decine, per fermare la

lotta per la terra e spezzare il movimento delle

sinistre. Secondo l’autore Fabio Stassi fu «punto di

svolta per tutta la storia precedente e per quella

futura». Ma tutto il suo racconto risuona di quella

malinconia senza tempo evocante solitudini che

riempie il passato tramandato ai bambini

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DETTI E PROVERBI

O ‘vadduni’ o ‘galera’.

Occhi c’atu fatti chianciri, chianciti.

Occhi chini e mani vacanti.

Occhiu cun vidi…….cori cun doli.

Occhiu vivu e mani a li vertuli.

O è dura la carni,o nun taglia lu cuteddu.

Oggi a mia, dumani a tìa, s’emu tutti

‘ncumpagnia.

Ogni hjuri è signu d’amuri.

Ogni ‘mpidimentu servi a ‘giuvamentu.

Ogni cacata di musca è sustanza.

Ogni gaddu canta nnì lo so munnizzaru.

Ogni cani è liuni a la sò casa .

Ogni cosa a lù sò postu.

Ogliu dun’annu e vinu di cent’anni.

Ogni cosa a lù sò tempu.

Ogni ficateddu di musca è sustanza.

Ogni malafigura, un sordu.

Ogni pena e ogni doglia, pani e vinu li

cummoglia.

Ogni scravaglieddu a sò matri pari beddu.

Ogni testa è tribunali.

Ognunu si stuia cu la sò cammisa.

Ognunu tira brascia pì lu sò cudduruni.

Olivi di to nannu…..ceuzi di to patri……

vigna tò.

Omini, ominicchi e quaquaraquà.

Orbu di l’occhi.

Ortu omu mortu.

O ti manci stà minestra o ti jettu di la

finestra.

Ovu d’un’ura, pani d’un jornu e vinu d’un’annu

nun ficiru mai dannu.

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IL BERGAMOTTO

Fa bene al cuore, consente di tenere sotto controllo

il colesterolo alto, è un disinfettante naturale e aiuta

le vie respiratorie.

Noto per essere il prodotto base per la cosmesi della

grande industria italiana e francese, è un

aromatizzante straordinario per l'arte dolciaria più

raffinata, ma alcune ricerche recenti lo segnalano

soprattutto come un frutto dalle straordinarie

capacità curative.

Nella provincia di Reggio Calabria lo chiamano

"l'oro verde", e in effetti il bergamotto è oro perché

a fronte di una produzione molto contenuta

rappresenta una scommessa economica e scientifica

su cui gli operatori agricoli locali puntano in

maniera decisa. "Il bergamotto, medicina del cuore"

è il titolo del convegno di tre giorni tenutosi a

Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, per

analizzare dal punto di vista scientifico le

potenzialità d'uso in campo medico ed alimentare

dell'agrume calabrese. Il simposio ha approfondito

le potenzialità e le nuove scoperte fatte da esperti e

ricercatori sulle 350 componenti di un frutto

prodotto di cui il 90% della produzione è ristretta

in un piccolo fazzoletto di terra che va da Villa San

Giovanni, sullo Stretto di Messina, a Siderno, nel

cuore della Locride.

Mille e 500 ettari di agrumeti in tutto, che

forniscono una media annuale di 200 mila chili di

bergamotto lavorato e spremuto per ottenere

un'essenza da collocare su un mercato mondiale in

continua espansione.

Colore cha va dal verde al giallo, a seconda del

grado di maturazione, il bergamotto ha le

dimensioni di una normale arancia e l'aspetto che, a

un occhio poco attento, potrebbe apparire quello di

un limone.

Difficile da mangiare, a causa del suo sapore forte,

la sua essenza (per farne in chilo ci vogliono circa

200 frutti) è però sempre più richiesta dai mercati

per gli usi più diversi.

E' recente l'uso che se ne fa per le sue proprietà

curative.

Fa bene al cuore e il suo impiego è ad esempio

indicato per tenere sotto controllo il colesterolo in

eccesso, contribuendo così a prevenire malattie

cardiovascolari come ictus, aterosclerosi e l'infarto.

Una spremuta di bergamotto per il paziente che

soffre di colesterolo alto potrebbe arrivare a

significare la riduzione di farmaci dai fastidiosi

effetti collaterali.

Ma non è tutto, sempre in tema di salute, l'essenza

di bergamotto avrebbe anche effetti benefici nel

trattamento di stati ansiosi e come antidepressivo,

come indicato da alcune pratiche di aromaterapia.

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Effettuare suffumigi con alcune gocce di olio di

bergamotto, oltre all'azione calmante, può fornire

un aiuto per il benessere delle vie respiratorie che

potranno godere delle sue capacità antibatterica e

antinfiammatoria. Per le sue proprietà, il

bergamotto è ritenuto poi un rimedio naturale anche

come disinfettante e antivirale.

Sempre in tema di benessere, ha capacità

antiossidanti e applicato sulla pelle può infine

essere utile per cicatrizzare piccole ferite e

combattere le micosi alle unghie.

Un toccasana naturale, insomma, prodotto soltanto

nella provincia di Reggio Calabria in virtù della

qualità dei suoi terreni alluvionali e argillosi. Le

zone migliori per mettere a dimora la pianta

(conosciuta anche con il nome di Citrus Bergamia,

appartenente alla famiglia delle Rutaceae) sono

quelle in area collinare, esenti da gelate e ben

soleggiate. Si tratta infatti di un albero che mal

sopporta gli sbalzi di temperatura e che deve essere

sempre irrigato. Le sue origini sono misteriose.

Molti autori lo fanno provenire dalla Cina, dalla

Grecia, da Pergamo (l'antica Troia); altri dalla città

spagnola di Berga dove sarebbe stato importato da

Cristoforo Colombo di ritorno dalle Canarie.

Sta di fatto che la pianta attecchisce solo in

determinate aree e anche se nel mondo si produce

anche in Asia, è il frutto calabrese a contenere la

maggiore ricchezza di componenti chimici.

Passando dalla salute all'alimentazione, anche in

cucina il bergamotto viene sempre più utilizzato,

soprattutto nell'arte dolciaria: è infatti un eccellente

aromatizzante per caramelle, canditi, torroni, gelati,

liquori e bibite varie.

Molto più noto e antico è, in conclusione, l'uso che

se ne fa nella profumeria.

L'essenza di bergamotto, grazie alla sua freschezza,

è l'ingrediente fondamentale non solo dell'acqua di

Colonia classica, ma anche di numerosi altri delicati

prodotti di profumeria.

Per aromatizzare i saponi deve essere impiegata con

cautela data la sua poca stabilità con gli alcali.

E tuttavia è un prodotto richiesto perché possiede

un certo effetto fissativo quando è usato in

concentrazioni abbastanza alte e perché armonizza

con quasi tutti gli altri olii, trasmettendo ai profumi

dolcezza e freschezza.

In pratica, svolge diversi ruoli: rinvigorisce e dà

brio agli odori più leggeri, evidenzia quelli latenti e,

d'altro canto, attenua e migliora alcuni odori troppo

forti.

Si capisce quindi perché il bergamotto sia così

impiegato dall'industria profumiera.

Dal gentile nostro Socio Onorario Franco Bigatti

alcuni brani di :

San Francesco d’Assisi e il «Cantico delle Creature»

Laudato siʼ, miʼ Signore, per frate focu,

per lo quale ennallumini la nocte:

ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Il fuoco è detto, scientificamente, il prodotto della

combustione della materia; si tratta dʼun elemento

al quale, come allʼacqua, si attribuirebbe una vita

propria.

Da esso provengono luce, calore e purificazione, ma

anche dolore e morte.

Questa ambivalenza sembra onnipresente nelle

culture umane di ogni tempo, e Francesco, che certo

non poteva conoscere i miti cosmogonici e

antropogonici orientali né Zoroastro (Zarathustra),

anche se avrà ben saputo delle vestali romane, lo

chiama frate e ne fa un simbolo maschio,

probabilmente non per pura consonanza

grammaticale; e lo pone in correlazione, non in

contraddizione, con lʼacqua, elemento femminile.

Il carattere del fuoco non si esaurisce nelle sue

funzioni utilitarie, né nelle sue connotazioni

estetiche di bellezza, giocondità, robustezza, forza.

Non ci si potrebbe vedere un mero elemento

atmosferico; ma provenga dal cielo come fulmine o

salga come lava vulcanica dal centro della terra, la

sua scoperta segna la prima fase della civiltà

umana: ricorda Eliade che «il più antico documento

dellʼuso del fuoco proviene da Chou-kou-tien (ca.

600.000), ma è probabile che la domesticazione

avesse avuto inizio assai prima e in varie località»,

e che i misteriosi uomini primitivi in grado di

vivere senza fuoco, di cui hanno favoleggiato le

dottrine evoluzionistiche prescientifiche, in realtà

non sono mai esistiti.

Grazie al suo ingegno lʼuomo ne apprese e utilizzò

la conservazione e poi la stessa produzione.

Nel pensiero cristiano il fuoco purifica inoltre dalle

colpe commesse, come sostiene il Cattolicesimo

con la dottrina del Purgatorio.

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Disgusta il solo pensiero che gli

autoproclamati detentori e dispensatori della

purezza evangelica abbiano affidato al fuoco la

funzione di “estirpare lʼeresia”.

Aberrazioni del genere, come Gesù Cristo non le ha

mai insegnate, così neppure Francesco le avrebbe

mai accettate.

Le candele sullʼaltare svolgono un ruolo

essenziale nelle cerimonie battesimali ed

eucaristiche come simboli del Lumen Christi, in

sostanza, di Colui che porta la luce spirituale,così

come il fuoco trasforma lʼincenso in preghiera

profumata. Il ricorso a riti legati al fuoco,

consistenti nel camminare indenni tra le fiamme

(greco: πυροβασια pyro-basia) a piedi nudi, si

riscontra nella tradizione di moltissimi popoli;

originariamente era un atto di purificazione. E

nellʼimmaginario collettivo fuoco e focolare si

equivalgono, e questʼultimo viene interpretato come

il centro simbolico della casa e della vita familiare.

La poesia è ricca di riferimenti al fuoco o

alla fiamma che arde nel cuore umano segnando

peraltro le due strade in costante divergenza

dellʼamore e della passionalità.

Francesco condivide il concetto biblico del

fuoco, lʼelemento materialmente necessario al

riscaldamento e alla cottura dei cibi, ma anche alla

consumazione delle offerte nel Tempio, segno del

loro gradimento da parte dellʼEterno che peraltro se

ne servirà per punire i malvagi.

La fiamma in Esodo 3,2 è simbolo della santità

divina: il pruno sinaitico non si consuma perché Dio

è eternamente lo stesso fuoco consumante.

Nel viaggio attraverso il deserto Israele era guidato

da una nuvola che di giorno appariva oscura e di

notte infuocata, simbolo della presenza costante

dellʼEterno, e il monte Sinai medesimo appariva

tutto fumante al momento sacro della consegna del

Decalogo (Esodo 13,21s.; 19,18).

Nel Nuovo Testamento il fuoco è simbolo ora dello

Spirito Santo, ora del giudizio divino (Matteo 3,11-

12).

Frate Focu, superbo dono di Dio,

“ennallumina la nocte”. La notte è costantemente

intesa come lʼassenza della luce solare, come la fase

della giornata in cui, ma non sempre, la luna e le

stelle si affacciano dalla volta celeste orientando

coloro che abbiano a muovere rinunciando al sonno

e portandosi appresso gli affanni che la gente

comune può, per lo meno, dormendo accantonare.

Notte è anche il tempo che avvolge il

soggiorno dei morti, e nel grembo della madre terra

fa riposare dalle fatiche dellʼesistenza terrena tutta

intera.

Nelle prime pagine

del libro del nostro

amico napoletano

Maurizio De

Giovanni

ANIME DI

VETRO

ultima fatica del

Commissario

Ricciardi, che

raccomandiamo

agli amici,

si fa riferimento,

quasi come una

madeleine

proustiana,

ad una ricetta

cilentana:

la ciaudedda.

Mi sono premurato di saperne di più, ma più

cercavo più mi perdevo e mi sono imbattuto in

Ciaudedda- Ciaurella-Ciambotta….

Poi ho scoperto alcune differenze:

La ciambotta si basa sulle verdure prima fritte e poi

ripassate in padella con aglio e pomodorini mentre

la ciaurella parte direttamente con tutti gli

ingredienti in padella.

Altra differenza fondamentale è la forma delle

verdure tagliate.

A spicchi o a pezzi?

Non ci crederete ma c’è gente disposta a litigare per

difendere la propria versione.

Quello che ho visto (senza pretendere affatto che

sia la versione definitiva, anzi, ogni famiglia ha la

versione giusta ) è che la ciambotta viene preparata

a spicchi e la ciaurella con pezzi non molto grandi.

Mentre la vera ricetta prevede le fave.

Ecco la

Ciaudedda

Ingredienti ( per 4 persone )

350 gr di fave fresche e pulite della doppia buccia

4 patate piccole

4 carciofi

1 cipolla grande

100 gr di pancetta

Olio extravergne d’oliva q.b.

sale q.b.

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Sgranate le fave dalla doppia buccia e sciacquatele

sotto l’acqua fredda

Pulite carciofi, tagliateli a spicchi ed immergeteli in

acqua fredda con limone

Pelate, pulite e fate a tocchetti le patate

Pelate ed affettate la cipolla

In una casseruola soffriggete a fuoco vivace la

cipolla affettata con la pancetta e l’olio

extravergine.

Una volta che la cipolla si è ammorbidita,

aggiungeteci le fave, i carciofi e le patate.

Mescolate, aggiungeteci un paio di mestoli di acqua

tiepida e fate cuocere per circa 30 minuti a fuoco

dolce. ( se necessario aggiungete un altro po’

d’acqua durante la cottura)

A cottura quasi ultimata regolate se necessario di

sale.

Una volta che le verdure si sono ammorbidite,

lasciate riposare qualche minuto, impiattate e

servite.

Il tocco magico prevede una spolverata di pecorino

stagionato

Per accompagnarla,

ecco un suggerimento

Costa d'Amalfi D.o.c.

Furore bianco di

Marisa Cuomo,

da uve Falanghina e

Biancolella.

Un vino profumato ed

elegante.

Dolce&Gabbana

benvenuti nella Sicilia cinese

Funambolica, colorata, piena di humour ma anche di

furbizia pop. La nuova collezione maschile del duo

italiano porta la Cina in Sicilia. E riesce in un

esperimento impossibile Simone Marchetti

Se la montagna può andare da Maometto, la Cina

può benissimo venire in Sicilia. È la legge della

gravità fashion nell'Universo Dolce&Gabbana,

un'attrazione che non conosce regole o confini e

porta nella sua orbita qualunque cosa le finisca

vicino.

Così, senza fare un plissé, draghi, pavoni e altre

diavolerie dell'immaginario cinese classico salgono

sul carretto siciliano e si accompagnano a limoni e

fiori d'arancio nella nuova collezione maschile del

duo italiano per la prossima estate.

Mao e Madonna, l'ossimoro impossibile diventa

realtà in questo show inaspettato.

"L'ispirazione ci è venuta dalla Palazzina Cinese di

Palermo", raccontano il duo.

"È una suggestione che viene da lontano, fin da

quando, tanti anni fa, scattammo la campagna

pubblicitaria con la modella Marpessa e il fotografo

Ferdinando Scianna. Rivedendo ultimamente questo

capolavoro dell'esotismo italiano ce ne siamo

innamorati di nuovo.

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E abbiamo deciso di farlo diventare collezione".

Stefano e Domenico, però, si dimenticano di un

fatto: questo capolavoro siciliano, famoso e spesso

preso in considerazione da tanti creativi, è uno dei

tranelli estetici più ingannevoli della tradizione.

Trasformarlo in abito scadendo nel kitsch è

facilissimo.

Ma proprio qui entra in gioco la vera anima del duo:

non fare mai il salto dal popolare all'intellettuale ma

proprio il contrario. Ovvero trasformare in pop la

più grande tradizione dell'arte.

Questa volta tocca alla Cina siciliana, ma è solo un

dettaglio: perché la bravura del duo sta proprio nel

piazzare certe stampe, nel calibrare colori e disegni

in un modo così spontaneo e fresco da diventare

subito desiderabile.

Pigiami, completi da uomo, T-shirt ed espadrillas

diventano così un remix in salsa rap di Cina e

Sicilia senza mai finire nell'immaginario di

cartapesta del luogo comune e camminando sul filo

sottile che separa divertimento dalla banalità.

Un'altra volta e in una stagione dove sembrano

dominare leggerezza e rigore dei colori, Domenico

e Stefano si ritagliano il loro spazio di

autorevolezza. Piacciano o no poco importa: i loro

incidenti estetici impossibili continuano a essere

uno degli esperimenti più funambolici e desiderabili

del settore.

a proposito di minch… stupidaggini….

GIOCHI DI CARTE SICILIANE

Il 4 di coppe in Sicilia è designato come la bara,

per la specifica collocazione dei semi agli angoli,

quasi a rappresentare i ceri che illuminano l’ultimo

giaciglio.

Ambigua la simbologia del combattimento fra i

personaggi di sesso opposto che incrociano le lame

a difesa di una bandiera, di uno stemma, di un

casato: si tratterebbe di questione d’onore, o

dell’eterna lotta fra i sessi ?

A differenza della simbologia del “continente” i

semi sono alternati due dritti, due rovesciati e

pertanto le cose di cuore (coppe) vengono

rappresentate in stabilità, con buoni auspici e

felicità sentimentale.

Il valore positivo di questa carta annulla il valore

negativo di altre carte vicine, esaltando amore,

unione armoniosa e, in genere, soddisfazioni in tutti

i campi. La carta suggerisce che la felicità è a

portata di mano, basta saperla riconoscere e

coglierla al volo.

In generale, i chiromanti di ogni epoca, si sono

mostrati concordi nell'associare questa carta alle

caratteristiche simboliche dell'allegria, del

godimento e del sentimento.

Il Quattro di Coppe viene dunque posto in relazione

con la gioia, il riso, la felicità e l'euforia.

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Le due coppe collocate nella parte superiore della

carta simboleggiano l'equilibrio di forze del piano

psichico, mentre la coppia disposta nella parte

inferiore rappresenta l'equilibrio delle forze del

piano materiale. La Carta in posizione diritta

rappresenta l'allegria e il successo. Offre precise

indicazioni sulle reali possibilità che il consultante

ha di realizzare i suoi progetti, affari e imprese.

Per tale motivo considerata una carta di buon

auspicio. Rivela una situazione positiva per il

consultante sia nell'ambito sociale che in quello

personale. Indica il buon andamento delle faccende

di cui il consultante si occupa al momento.

La Carta in posizione rovesciata rappresenta la

disarmonia ed il disordine. Avverte sull'esistenza di

ostacoli ed impedimenti alla realizzazione di

determinati progetti. E' considerata una carta che

preannuncia inconvenienti, disillusioni, e

inquietudini, soprattutto in campo professionale e

sentimentale.

A noi scettici il 4 di coppe suggerisce che, almeno

per oggi, si beve in abbondanza.

APPUNTI DI VIAGGIO

A Londra a luglio ho visitato uno dei parchi più

belli al mondo: Kew Garden, dove ho trovato una

pianta a me molto cara:

E fra serre, vivai e giardini, una delle tante

indicazioni mi suggeriva che nei paraggi c’era una

Minkia House !

Come avrei potuto esimermi dal visitarla?

Accompagnato dal fidato traduttore, ho poi

scoperto che l’indicazione recitava un nome

diverso, ma sicuramente interessante.

LA MINKA HOUSE

Si tratta di una abitazione su più piani tenuta

insieme solo da corde.

Non esiste un chiodo, né collanti o mattoni.

Solo canne e travi tenute con nodi serrati.

Minka significa casa dei contadini, e quella era

stata smontata nel paese d’origine e rimontata nel

parco.

Durante il Festival giapponese del 2001, nei

giardini di Kew è stata impiantata la casa di legno,

in stile giapponese, denominata Minka, che risale al

1900 e che proviene dalla città di Okazaki.

Sino al XX secolo infatti, agricoltori e

commercianti giapponesi, vivevano in questo tipo

di case tradizionali, caratterizzate da pareti in legno

e tetto di paglia.

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Tutto il materiale necessario alla costruzione si

trovava nel bosco e la struttura poteva addirittura

sopravvivere ad un terremoto.

Molte di queste case furono distrutte durante il XX

secolo e sostituite da case moderne, le quali tuttavia

durano meno anni e inquinano molto a differenza

della casa Minka.

Fa bene pensare che stili di vita diversi

siano possibili.

COSE DI CASA NOSTRA

Ragusa .. notte

Pippo Giuffrè si è stabilito a New York nel 1958 e

qui si è fatto una solida posizione economica con

un'attività nel settore delle concessionarie

automobilistiche.

Nella Grande Mela ha continuato a mantenere vivo

il legame con la Sicilia e ha frequentato

l'associazione "Figli di Ragusa" di Brooklyn. L'ente

ha di recente deciso di vendere la sua sede nella

metropoli americana e di donare il ricavato, due

milioni di dollari, all'Asp di Ragusa.

Tramite dell'operazione, Pippo Giuffrè, membro del

direttivo dell'associazione.

In passato Giuseppe Giuffrè, così come il

capostipite della sua famiglia, Carmelo, ha ricevuto

un riconoscimento dall'Associazione "Ragusani nel

mondo", ed è sempre rimasto legatissimo alla città.

Proprio da un suo input era nata l'idea della

donazione all'Asp di Ragusa: 2 milioni di dollari per

realizzare una struttura o attrezzare un reparto

ospedaliero, in cambio dell'impegno ad apporre una

targa in memoria dell'associazione "Figli di

Ragusa" di Brooklyn.

La generosità dei Giuffrè a Ragusa è nota. Hanno,

tra l'altro, aiutato le famiglie degli operai ragusani

morti nella strage del depuratore di Mineo (Catania)

nel giugno 2008, e per le feste di Natale inviano

pacchi dono a molti indigenti. Giuseppe Giuffrè ha

anche donato attrezzature tecnologiche biomediche

a uno degli ospedali di Ragusa.

La donazione sarebbe servita all'Azienda sanitaria

ragusana per comprare apparecchiature mediche e

migliorare i servizi del nuovo ospedale "Giovanni

Paolo II".

Per questo c'era stato un primo incontro qualche

mese fa con l'avvocato Michele Sbezzi in

rappresentanza di Pippo Giuffrè e il manager

dell'Asp, Maurizio Aricò.

Il secondo incontro, alle 12 alla sede Asp, doveva

servire per definire la donazione.

Ma tutto è sfumato quando Giuffrè, spazientito per

non essere stato ricevuto dal manager all'ora

convenuta e per aver dovuto attendere a lungo, se

n'è andato. "Abbiamo incontrato il dottor Aricò

mentre congedava una sua precedente visita. E

siamo saliti verso i suoi uffici", riferisce l'avvocato

Sbezzi, che prosegue: "Poi lui prima è andato in

una stanza a parlare con una persona e poi nel suo

ufficio. Noi siamo stati raggiunti da due persone

che ci hanno fatto accomodare dicendoci di

attendere che ci avrebbero chiamati loro".

Qui l'avvocato e il filantropo sono stati dimenticati,

fino a che Pippo Giuffrè si è stufato e sen’è andato.

Il manager si assolve così: "Attendevo il nostro

legale dell'Asp. Come avrei potuto parlare di

dettagli tecnici su un argomento così delicato?

Comunque, sono davvero dispiaciuto", conclude.

La parlamentare regionale del M5S Vanessa Ferreri,

dopo aver saputo della presunta superficialità con

cui il direttore generale dell'Asp 7 ha trattato il

potenziale generoso donatore, ha richiesto la

convocazione urgente di Aricò in commissione

Sanità, affinché chiarisca la vicenda.

Ferreri si scusa pubblicamente, da segretario della

commissione sanità dell'Ars e soprattutto da

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cittadina ragusana, con il signor Giuffrè, confidando

in un suo ripensamento:

«A pagarne le conseguenze - dice - sarebbero solo i

cittadini».

Il presidente della Commissione sanità Pippo

Digiacomo dice: «

Apprendo con rammarico l'incidente accaduto nei

locali dell'Asp di Ragusa che avrebbe fatto

desistere il signor Giuseppe Giuffrè dall'annunciata

decisione di donare una cospicua somma

all'ospedale della città iblea. Sono certo che si sia

trattato di un semplice disguido e che possa essere

superato». «Avevo incontrato Giuffrè - aggiunge -

proprio all'ingresso dell'edificio e avevo avuto

modo di ringraziarlo del suo affetto e della sua

generosità nei confronti della terra natia e sono

profondamente dispiaciuto.

A nome mio e della commissione Sanità all'Ars

voglio chiedere al nostro fortunato conterraneo di

scusare l'incidente assolutamente estraneo al garbo

e all'ospitalità della bella terra iblea. I particolari

dell'incidente verranno certamente chiariti nelle

sedi opportune».

Non è la prima volta che un'iniziativa di

beneficenza promossa dai Giuffrè affonda nei

gorghi della burocrazia: qualche anno fa la famiglia

aveva manifestato l'intenzione di finanziare un

centro polivalente nel quartiere Carmine a Ragusa,

una zona disagiata, ma il progetto si arenò.

Riteniamo che poche possano essere comunque le

giustificazioni, senza voler ricorrere a cattivi

pensieri. Perché la vicenda denota perlomeno poco

senso di responsabilità verso un evento che avrebbe

favorito l’intera collettività ed è stata, nei fatti,

equiparata ad un mero adempimento burocratico,

gestito con una superficialità, che appare consueta.

L’11 agosto il nostro Presidente ha

compiuto un bel compleanno. A nome di

tutti gli facciamo (solo) gli Auguri, perché

ormai le candeline costano più della torta !

BUON COMPLEANNO ENZO !

APPUNTAMENTI DA NON PERDERE

6 settembre 2015

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Visto il tutto esaurito al

CINEMA IN FORTEZZA,

rassegna che cresce di anno in anno,

Nuovofilmstudio , propone alla riapertura della

stagione, per chi se li fosse persi o volesse rivederli:

martedì 8 e mercoledì 9 settembre "Youth" di Paolo Sorrentino.

martedi 15 e mercoledi 16 settembre “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone

martedi 22 e mercoledi 23 settembre “Mia madre” di Nanni Moretti

da Venerdi 11 a Lunedi 14 settembre

Un taxi attraversa le strade di Teheran in un giorno

qualsiasi. Passeggeri di diversa estrazione sociale

salgono e scendono dalla vettura. Alla guida non c'è

un conducente qualsiasi ma Jafar Panahi stesso

impegnato a girare un altro film 'proibito'.

Panahi è stato condannato dalla 'giustizia' iraniana a

20 anni di proibizione di girare film, scrivere

sceneggiature e rilasciare interviste, pena la

detenzione per sei anni. Ma non c'è sentenza che

possa impedire ad un artista di essere se stesso ed

ecco allora che il regista ha deciso di continuare a

sfidare il divieto e ancora una volta ci propone

un'opera destinata a rimanere quale testimonianza di

un cinema che si fa militante proprio perché non fa

proclami ma mostra la quotidianità del vivere in un

Paese in cui le contraddizioni si fanno sempre più

stridenti.

Il 26 settembre alle ore 17,30 nella storica sede de "A Campanassa" a Savona

con l'impegno del nostro Sodalizio e

dell’Associazione Renzo.Aiolfi.

Terza Edizione del Premio "Pino Cirone"

con il quale ricorderemo la figura dell'uomo e

dell'artista che insieme alla moglie Maria, con la

cinepresa ha dato vita a circa duecento film fra

soggetti e documentari d'autore, premiatissimi

anche a livello internazionale.

Riceverà il Premio la giornalista del TG1 della RAI

Dott. Emma D'Aquino, ben nota a milioni di

telespettatori per il suo stile, la sua classe e

l'esemplarità che imprime ai suoi telegiornali.

Le precedenti edizioni hanno portato a Savona

persone di altissimo prestigio nel mondo culturale.

Nel dicembre 2010, la famiglia ha attribuito il

premio, consistente nel celebre Libro di Vetro di

Maria Scarfì, al Direttore d'Orchestra Aurelio

Canonici, nominato dalla stagione 2008 Direttore

Artistico della Sezione Sinfonica “R. Wagner” del

prestigioso “Ravello Festival”, oltre che aver diretto

le Orchestre di Instanbul, Vienna, Budapest,

Bucarest, Madrid, Cracovia e di altre capitali

europee. In quella occasione l'evento ebbe luogo al

Teatro Chiabrera di Savona sotto l'egida del nostro

Sodalizio nella persona del Presidente Dott. Enzo

Motta e dell'Associazione Culturale "R. Aiolfi"

rappresentata dalla Presidente Dott. Silvia Bottaro.

Nella seconda edizione, avvenuta a giugno 2013 il

Premio è stato consegnato al pittore e scultore greco

Giorgio Oikonomoy artista di fama internazionale.

La manifestazione si è svolta nell'Oratorio di Santa

Maria Maggiore ad Albisola Superiore in

collaborazione con il Comune di Albisola Superiore

Assessorato alla Cultura su proposta del

“Pirandello" e dell'Associazione Culturale "Renzo

Aiolfi". Nel corso della serata, il Maestro Aurelio

Canonici ha donato agli spettatori un concerto al

pianoforte.

Anche in questa occasione il Maestro Aurelio

Canonici, ci onorerà della sua presenza e ci

dedicherà un nuovo concerto al pianoforte.

Alla prossima

Santuzzo