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1 2014 numero 4 aprile Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Storia della letteratura Italiana di Francesco De Sanctis 1870: 1° Capitolo I SICILIANI Sotto Federico secondo l'Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano “siciliani”. Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il “volgare”, di tutt'i volgari moderni il più simile al latino. La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com'era usato in tutt'i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia. Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un'espressione ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale, è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell'amante del crociato, di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo “sonetto”, come lo chiama l'innamorata, dovea fare la più grande impressione. Comincia così: Giammai non mi conforto nè mi voglio allegrare. Le navi sono al porto e vogliono collare. Vassene la più gente in terre d'oltremare. Ed io, oimè lassa dolente! Come degg'io fare? Vassene in altra contrata, e nol mi manda a dire: ed io rimango ingannata. Tanti son li sospire che mi fanno gran guerra la notte con la dia; nè in cielo nè in terra non mi pare ch'io sia. Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l'amato, ora dolendosi con la croce: La croce mi fa dolente, e non mi val Deo pregare. Oimè, croce pellegrina, perchè m'hai così distrutta? Oinzè lassa tapina! ch'io ardo e incendo tutta. Finisce così Però ti prego, Dolcetto, che sai la pena mia, che me ne facci un sonetto e mandilo in Soria: ch'io non posso abentare notte, nè dia: in terra d'oltremare ita è la vita mia. La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana, e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e ne' suoi lineamenti essenziali.

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2014 numero 4 aprile

Email: [email protected]

Picciotti carissimi,vasamu li mani.

Storia della letteratura Italiana di Francesco

De Sanctis 1870: 1° Capitolo I SICILIANI

Sotto Federico secondo l'Italia colta avea la sua

capitale in Palermo.

Tutti gli scrittori si chiamavano “siciliani”.

Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno

rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel

Falcando.

I sentimenti e le idee nuove avevano la loro

espressione in quel romano rustico, fondo comune

di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente

colta, il “volgare”, di tutt'i volgari moderni il più

simile al latino.

La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il

volgare, com'era usato in tutt'i trovatori italiani,

ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi

locali, materia ancora greggia.

Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e

musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e

grande ricchezza e spontaneità di forme e di

concetti.

Per giungere fin qui è stato necessario un lungo

periodo di elaborazione.

Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova

svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che

avea avuta la sua espressione anche in Italia, e

massime nella normanna Sicilia.

Di quella vita un'espressione ancor semplice e

immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale,

è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e

nel Lamento dell'amante del crociato, di Rinaldo

d'Aquino.

Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in

lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con

semplicità e verità di stile, con melodia soave.

Cantato e accompagnato da istrumenti musicali,

questo “sonetto”, come lo chiama l'innamorata,

dovea fare la più grande impressione.

Comincia così:

Giammai non mi conforto

nè mi voglio allegrare.

Le navi sono al porto

e vogliono collare.

Vassene la più gente

in terre d'oltremare.

Ed io, oimè lassa dolente!

Come degg'io fare?

Vassene in altra contrata,

e nol mi manda a dire:

ed io rimango ingannata.

Tanti son li sospire

che mi fanno gran guerra

la notte con la dia;

nè in cielo nè in terra

non mi pare ch'io sia.

Il seguito della canzone è una tenera e naturale

mescolanza di preghiere e di lamenti, ora

raccomandando a Dio l'amato, ora dolendosi con la

croce:

La croce mi fa dolente,

e non mi val Deo pregare.

Oimè, croce pellegrina,

perchè m'hai così distrutta?

Oinzè lassa tapina!

ch'io ardo e incendo tutta.

Finisce così

Però ti prego, Dolcetto,

che sai la pena mia,

che me ne facci un sonetto

e mandilo in Soria:

ch'io non posso abentare

notte, nè dia:

in terra d'oltremare

ita è la vita mia.

La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua

italiana, e molto sviluppata ne' suoi elementi

musicali e ne' suoi lineamenti essenziali.

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L'amante che prega e chiede amore, l'innamorata

che lamenta la lontananza dell'amato, o che teme di

essere abbandonata, le punture e le gioie dell'amore,

sono i temi semplici de' canti popolari, la prima

effusione del cuore messo in agitazione dall'amore.

E queste poesie, come le più semplici e spontanee,

sono anche le più affettuose e le più sincere.

Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e

nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e

raffinati.

Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la

partenza in Storia della sua amata, di Ruggerone da

Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da

Messina, dove l'innamorata con dolci lamenti

effonde la sua pena e la sua gelosia.

Eccone il principio:

Oi lassa innamorata,

contar vo' la mia vita,

e dire ogni fiata,

come l'amor m'invita,

ch'io son, senza peccata,

d 'assai pene guernita

per uno che amo e voglio,

e non aggio in mia baglia,

siccome avere io soglio;

però pato travaglia.

Ed or mi mena orgoglio,

lo cor mi fende e taglia.

Oi lassa tapinella,

come l'amor m'ha prisa!

Come lo cor m'infella

quello che m'ha conquisa!

La sua persona bella

tolto m'ha gioco e risa,

ed hammi messa in pene

ed in tormento forte:

mai non credo aver bene,

se non m'accorre morte,

e spero, là che vene,

traggami d'esta sorte.

Lassa che mi dicia,

quando m'avìa in celato:

- Di te, o vita mia,

mi tegno più pagato,

che s'io avessi in balìa

lo mondo a signorato.

Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian

fuori nella loro natia integrità senza immagini e

senza concetti.

Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno

naturali, dove non trovi qualche esempio di questa

forma primitiva, elementare, a suon di natura, come

dice un poeta popolare, e com'è una prima e subita

impressione colta nella sua sincerità.

Ed è allora che la lingua esce così viva e propria e

musicale che serba una immortale freschezza, e la

diresti “pur mo' nata”, e fa contrasto con altre parti

ispide dello stesso canto.

Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha

pazienza di leggerla, vi trova questa gemma:

Giorno non ho di posa,

come nel mare l'onda:

core, chè non ti smembri?

Esci di pene e dal corpo ti parte:

ch'assai val meglio un'ora

morir, che ognor penare.

Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria,

poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso

sentimento in una forma certo lontana da questa

perfezione, pur semplice e sincera:

Perzò meglio varria

morir in tutto in tutto,

ch'usar la vita mia

in pena ed in corrutto,

come uomo languente.

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena,

fredda e stentata, è pure qua e colà una certa grazia

nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori

nella loro crudità elementare. Udite questi versi:

E par ch'eo viva in noia della gente:

ogni uono m' è selvaggio:

non paiono li fiori

per me, com' già soleano,

e gli augei per amori

dolci versi faceano — agli albori.

Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che

lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo

interessano, senza ch'ei senta bisogno di svilupparli

o di abbellirli.

Narra, non rappresenta, e non descrive.

Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.

Però niente è in questi che per ingenuità e

spontaneità di forma e di sentimento uguagli il canto

di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono

due esempli notevoli di schietta e naturale poesia

popolare.

3

Su segnalazione e collaborazione del nostro amico

e corrispondente Siculo-Torinese Renato Cesarò

Quando, nel 1988, Palermo onorò la memoria

dell’insigne messinese Giovanni Alfredo Cesareo,

con un interessantissimo convegno, ci fu qualcuno

che parafrasando una ben nota frase manzoniana,

sbottò dicendo: Ma chi era costui?

Orbene, tale eclettico personaggio, cui a Palermo è

stata intitolata una strada, fra Via Leopardi e Via

Nunzio Morello, emerito cattedratico, in qualità di

sommo docente di letteratura italiana, presidente

della Accademia Reale di scienze e lettere, nonché

membro del Consiglio Superiore della Pubblica

Istruzione, fu anche impegnato in politica da

senatore.

Molto ricca e variegata la sua produzione letteraria,

sia come autore di poesie, sia da finissimo critico

con interessanti e preziosi saggi sulla Scuola

Poetica Siciliana sotto gli Svevi, sulle origini del

genere poetico lirico in Italia e, ancora con i suoi

studi sull’Italia attraverso i Canti di Giacomo

Leopardi. E non finisce qui, perché è giusto

ricordare ulteriori titoli di opere importanti fra le

quali : “Critica militante”, “Saggio sull’arte

creativa” e “Colloqui con Dio”.

Fu anche autore di opere teatrali di vario genere,

infatti si va da “Francesca da Rimini” a “luisa

Sanfelice”, da “La Marta” a “La morta” e c’è pure

quella titolata “Mafia”. E come se non bastasse, tale

vulcanico letterato si dedicò anche alla traduzione

di classici dell’antichità greca e romana, per il

Teatro Greco di Siracusa, dove- alternando una

rappresentazione greca ad una latina- vennero

presentate varie opere, fra le quali “ Ifigenia in

Tauride”, “Satyricon” “Ippolito”.

Visse 76 anni essendo nato nel 1860, in coincidenza

con l’unità nazionale e asceso alla patria Celeste,

nel 1937. E’ un sempre vivo con l’enorme suo

bagaglio di immensa cultura, trasmessa a noi posteri

e merita un posto d’onore fra i letterati.

Il 4 marzo scorso

abbiamo presentato il

libro di Enzo Barnabà

“Il Partigiano di Piazza

dei Martiri” (Ediz.Infinito 2013) ovvero Salvatore

Cacciatore nome di

battaglia “Ciro”

barbaramente impiccato

dai nazisti il 17 marzo

1945 nella Piazza di

Belluno.

L’amichevole partecipazione di Matteo Collura che

già ne aveva parlato nel suo “L’isola senza ponte”

(Longanesi 2007) e alcune testimonianze dei presenti,

(molte le assenze e purtroppo nessuno degli amici in

rappresentanza dell’ANPI e dell‘ISREC) hanno reso

l’atmosfera carica di forte impegno storico, civile e

libertario.

Molto Pirandelliana l’esistenza di Cacciatore e la

lettura e rilettura del libro (mi è tanto piaciuto che

ho voluto cercare di capire bene il perché) ci

conferma le qualità dello scrittore Barnabà, ma

anche la sua convinta partecipazione al recupero

della verità, che conduce alla libertà responsabile.

Una particolare considerazione emersa nell’ambito

dell’incontro ha riguardato il concetto di confine, di

come cioè pochi metri possano far variare i giudizi

storici affrettati e le definizioni antitetiche di

Partigiani e Terroristi.

E di come, in quei pochi metri, si possa combattere

con ideali simili ma storicamente divergenti.

Il viaggio, all’apparenza sentimentale, di cui narra il

libro va invece, in modo non retorico, alla ricerca

delle vere basi della nostra democrazia e dello

spirito con cui alcuni eroi come Ciro sono caduti per

la realizzazione della libertà del nostro paese, unito

da tanti, fra cui questo immaginario ponte, fra la

Sicilia e il Veneto

Un grazie pertanto

particolare a Enzo Barnabà

e a Matteo Collura, con la

speranza che questo libro

venga presentato ancora e più

volte a molti dei nostri

giovani.

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Il Valguarnerese Girolamo Valenti collaborò

con i servizi segreti americani per

l’operazione Husky in Sicilia

Girolamo Valenti, a sinistra, con

un funzionario dei servizi segreti americani

L’operazione Husky consistette nel preparare e

realizzare lo sbarco in Sicilia che fu effettuato nel

luglio del 1943, assestando un colpo decisivo alle

forze nazifasciste e favorendo la destituzione di

Benito Mussolini.

In occasione del 70° anniversario, com’è noto, si è

svolta a Valguarnera un’opportuna e bella

commemorazione. .

Grazie all’omonimo volume pubblicato nel 2013

dall’editore Castelvecchi e dovuto alle penne di

Casarrubea e Cereghino che hanno potuto accedere

agli archivi dei servizi segreti americani ed inglesi,

conosciamo finalmente non pochi dettagli che erano

stati per decenni oggetto di ipotesi più o meno

attendibili.

In questa sede vogliamo limitarci a riferire quanto

abbiamo appreso sul nostro compaesano Girolamo

Valenti.

La biografia dedicatagli da R J Vecoli su “Il

movimento operaio italiano. Dizionario biografico”

degli Editori Riuniti che Valguarnera.com ha voluto

ripubblicare, parla della collaborazione del

valguarnerese (che era emigrato negli USA nel

1911) con l’ Office of Strategic Services (Oss).

Grazie ai documenti ritrovati dai due storici

summenzionati al National Archives and Records

Administration, College Park, Maryland oggi ne

sappiamo di più.

Un giovane americano di origine siciliana, Biagio

Massimo Corvo, viene incaricato dai servizi segreti

USA di preparare un progetto in previsione della

“penetrazione della Sicilia per mano di una forza

composta da elementi italoamericani” con

l’obiettivo di spianare la strada all’invasione

dell’isola da parte degli eserciti alleati.

Corvo contatta l’avvocato Vincent J Scamporino e si

mette al lavoro.

Una delle prime persone che i due incontrano, il 22

settembre 1942, è proprio Girolamo Valenti, noto

giornalista ed importante esponente

dell’antifascismo italoamericano. L’incontro avviene

a New York, a casa del dott. Matthew Siragusa, che

condivide le idee del valguarnerese. Ecco alcuni

stralci del libro che riprende il verbale della

riunione, che Corvo e Scamporino consegneranno ai

servizi segreti.

«Sembra molto probabile che si stabilisca a breve

una relazione con il movimento degli esiliati italiani,

che è diretto da un gruppo di siciliani di New York.

Le loro direttive sono regolarmente inviate agli

esponenti socialisti nella Svizzera italiana. Siragusa

ci ha assicurato l’appoggio incondizionato delle

organizzazioni socialiste italiane in America,

Svizzera e Italia. Si è personalmente impegnato a

entrare in contatto con uno dei gruppi presenti nella

Confederazione elvetica, per convincerlo a

intensificare le attività clandestine in Sicilia e a

collegarle con quelle dell'Oss. Per le azioni

successive, Siragusa attende il nostro beneplacito. Il

gruppo socialista italiano di New York ha preso

l'impegno di fornirci venti studenti, da utilizzare a

nostra discrezione. I socialisti italiani hanno inoltre

promesso di mettere a nostra disposizione i contatti

con gli antifascisti nella Sicilia occidentale. Il

gruppo tornerà a riunirsi domani (23 settembre),

sempre a casa di Siragusa. All'incontro

parteciperanno Siragusa, Valenti, Sala e il

professore Nicotri. Discuteranno come rendersi utili

all'Oss”.

Corvo e Scamporino tornano a riunirsi con gli

esiliati socialisti il 2 ottobre. C'è anche il professore

Gaspare Nicotri. Le cose procedono per il verso

giusto: “Il Comitato è entusiasta e ci fornirà gli

agenti per le note operazioni. Si è quindi deciso di

inviare loro i formulari dell'Oss per gli agenti

candidati, il prima possibile. Il Comitato ha inoltre

stabilito di trasmetterci i suoi contatti in ogni città e

paese della Sicilia”.

Il primo dicembre 1942 i due agenti inviano un

rapporto segreto. Sono reduci da una serie di

importanti riunioni a Boston e a Lawrence, nel

Massachusetts. «L'obiettivo primario del nostro

viaggio a Boston», scrivono, «consisteva

nell'arruolare uomini e stabilire contatti».

Raccolgono preziose informazioni e a Boston

incontrano Joseph Salerno, un personaggio chiave

nella rete dei contatti in vista dello sbarco, capo del

sindacato unitario Congress of Industrial

Organizations (Cio), nonché collaboratore del

5

leader sindacale italoamericano Luigi Antonini.

[…]”

Assieme a Girolamo Valenti, Corvo visita poi

Chicago, Detroit e molte altre città statunitensi con

l’obiettivo di continuare gli arruolamenti. La

missione dei due va avanti fino all'aprile del 1943.

Contattano anche l’antifascista siciliano Vincenzo

Vacirca (collabora ai piani dell’Oss per la guerra

psicologica nei mesi che precedono lo sbarco),

Giuseppe Lupis (giornalista del mensile «Il

Mondo››), il sindacalista Augusto Bellanca,

Gaetano Salvemini e decine di altre personalità

italiane negli Usa. Tra gli arruolati troviamo

Joseph Bonfiglio, Alexander Cagiati, Emilio Q.

Daddario, Dick Mazzarini, John Ricca, James

Montante, Victor Anfuso, Frank Tarallo, Joe

Caputa, Egidio Clemente, Umberto Galleani,

Joseph Russo, Sebastian Passanisi, Sam Fraulino,

Louis Fiorilla, Sal Principato, Guido Pantaleoni.

Vengono addestrati dall’Oss a Washington.

Non è da escludere che il ruolo di Valenti nella

preparazione della spedizione non si fermi lì (con i

familiari ha sempre tenuto il più assoluto riserbo).

Il suo impegno durante la guerra, tuttavia, si somma

ai mille altri suoi meriti (vedi anche la biografia che

Chiara Mazzucchelli gli ha dedicato nel volume

“Valguarnera da leggere” e l’articolo dovuto alla

penna del sottoscritto: http://www.valguarnera.com/parliamo_di/girolamo_val

enti.htm).

Per queste ragioni ci sembra opportuno che il suo

paese natale lo ricordi dedicandogli una strada come

richiesto dalla seguente petizione:

http://www.change.org/petitions/cittadini-di-

valguarnera-petizione-al-sindaco-di-valguarnera-

per-intitolare-una-strada-del-paese-a-girolamo-

valenti

Enzo Barnabà

Salvatore C. Trovato

La fiera del Nigrò.

Viaggio nella Sicilia

linguistica

Un viaggio ideale per la

Sicilia attraverso la

lingua.

L'attenzione costante per i

fatti di lingua relativi alle

varie parlate della Sicilia,

in correlazione con i fatti

di cultura, ha dato luogo ai cinquanta «racconti» che

costituiscono questo libro. «Racconti», appunto,

perché destinati al lettore colto non specialista, al

lettore curioso della storia linguistica della Sicilia,

sulla quale esiste poco di scientificamente valido

destinato a larga diffusione.

Campo di osservazione il siciliano nelle sue varietà

diatopiche e nella sua stratificazione diacronica.

Il lettore è accompagnato in un viaggio ideale per la

Sicilia.

Viaggio nel tempo e nello spazio: la Sicilia greca e

quella latina, la bizantina e l'araba e la normanna,

fino alla Sicilia contemporanea, in cui il confronto

linguistico avviene tra il siciliano e l'italiano.

Nel parlato, come nella scrittura letteraria.

Attraverso la lingua, si accede alla Sicilia cristiana e

a quella musulmana, alla Sicilia ortodossa e a quella

eretica, alla Sicilia contadina e a quella urbana, alla

Sicilia tradizionale e a quella moderna.

Né manca, in questo viaggio, una sosta tra gli

arcipelaghi delle minoranze: i Galloitalici di

provenienza settentrionale e gli Albanesi, che della

storia linguistica dell'isola a buon diritto fanno parte.

Di questo ideale e particolarissimo viaggio,

testimone privilegiato è il lessico, deposito attivo di

una cultura che a una tradizione sempre aperta al

nuovo affida il futuro.

Salvatore C. Trovato è ordinario di Linguistica

generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia

dell'Università di Catania.

Si occupa particolarmente di lessicografia e

lessicologia dialettali, toponomastica,

interlinguistica, minoranze linguistiche. La Sicilia è

il suo privilegiato campo di osservazione. Per quel

che riguarda la lessicografia ha portato a

compimento il grande Vocabolario siciliano (5

volumi pubblicati dal Centro di studi filologici e

linguistici siciliani, 1977-2002) fondato da Giorgio

Piccitto e dirige il «Progetto Galloitalici».

Nel campo della toponomastica ha pubblicato

numerosi contributi, alcuni dei quali raccolti in

volume (Saggi di toponomastica nicosiana, Nicosia

1997). Da ricordare anche, tra i suoi saggi, I dialetti

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galloitalici della Sicilia, contenuto nel «Lexicon der

Romanistischen Linguistik», Tübingen 1998 e

Sicilia [linguistica], nel volume «I dialetti italiani.

Storia Struttura Uso», Torino 2002.

PROVERBI E MODI DI DIRE SICILIANI

I proverbi sono la maniera di pensare dello stomaco,

con i proverbi lo stomaco fabbrica delle briglie per

l'anima, per poterla governare più facilmente.

Maksim Gorkij, La madre, 1906

Aprili ora chianci….ora arridi.

Aprili fa li juri e li biddizzi,

l’amuri l’havi lu misi di maju.

Aranci….aranci….cu avi li guai si li

chianci.

Arbulu siccu e cavulu jurutu…’nzoccu ci fà

fà…tuttu è pirdutu.

Arca di Nuè,cu la vidi bedda è: cu la vidi e nun

lu dici: setti palati di focu e di pici.

Ariu nettu, unn’avi scantu di trona.

Arma e cammisa l’avemu divisa.

Armamuni e jticci.

Armisanti ! n’arricogli unu e magianu tanti.

Arraccumannari la pecura a lu lupu.

Arristari a’ l’asciuttu.

Arrivasti à ura d’astutari li cannili.

Arrivasti à latti munciutu e pani sminuzzatu.

Arripararisi dunni chiovi.

A Santu chi nun suda, nun dumannari grazii.

Aspittari e nun viniri, jiri a tavula e nun

manciari, jiri a lettu e nun durmiri su tri peni

di muriri

Assai vali e pocu costa: a malu parlari ‘nnà

bbona risposta.

Assammara e jetta a lu suli.

Assugliatu di li cani.

Avi ‘nna facci di brunzu.

Avi la testa bbona sulu pì spartiri l’aricchi.

Attacca lu sceccu unni voli lu patruni; vegna

lu lupu e si lo pozza manciari.

A vecchi e vò, scippacci quantu po’.

Aviri lu carbuni vagnatu.

Aviri un vrazzu longu e unu curtu.

A li ricchi, ricchizzi.

Liolà

Liolà è una commedia di Luigi Pirandello scritta nel

1916, momento molto doloroso per la vita dell'

autore. Il figlio detenuto in un campo di prigionieri

di guerra, la moglie malata di mente ha sempre più

frequenti crisi.

Siamo all’ epoca della prima guerra mondiale.

L'opera, nonostante queste angosciose condizioni

che la vita riserva all’ autore, è molto allegra, quasi

spensierata, al punto che lo egli stesso dice:

“ E’ così gioconda che non pare opera mia” .

La commedia va in scena per la prima al teatro

Argentina di Roma il 4 novembre 1916 con la

Compagnia di Angelo Musco.

E’ scritta in stretto dialetto siciliano, e inizialmente

il pubblico, non capendo i dialoghi, fu molto critico.

Questo inconveniente convinse l'autore ad inserire

nel testo una traduzione in italiano della commedia.

La vicenda di Liolà è ispirata ad un episodio del

capitolo IV del romanzo di Pirandello Il fu Mattia

Pascal. Ha per protagonista Neli Schillaci.

Riassunto

Atto I

L'azione è ambientata nella campagna agrigentina, a

settembre. Nella prima scena si vedono delle

contadine intente a schiacciare mandorle nel podere

della zia del protagonista, sorvegliate dal cugino di

quest'ultima, il ricco zio Simone Palumbo.

Quest'ultimo è in pena perché, nonostante quattro

anni di matrimonio in seconde nozze con la giovane

Mita, non ha ancora un figlio a cui lasciare la "roba",

cioè tutti i suoi averi.

Su di lui e su questa sua ossessione convergono le

trame dei giovani Liolà, Tuzza e Mita. Tuzza è la

figlia di zia Croce, la proprietaria del podere, mentre

Liolà è uno spensierato bracciante.

È un grande seduttore, un dongiovanni, tanto che ha

reso madri tre ragazze, tenendosi poi i figli ed

affidandoli alla madre, zia Ninfa.

Mita è un'orfana che zio Simone aveva preso in

moglie sperando così di coronare il sogno di un

erede: la speranza delusa causa ora il disprezzo per

la moglie accusata di una sua presunta sterilità.

Tuzza, per far dispetto a Mita, che prima delle nozze

aveva una tresca con Liolà, si lascia sedurre da

quest'ultimo e ne rimane incinta. Liolà allora si sente

in dovere di riparare al torto fatto e chiede la mano a

Tuzza, la quale tuttavia rifiuta.

Essa, infatti, non vuole un marito che "sarebbe di

tutte". Con la complicità della madre, invece, tenta

di far riconoscere il figlio dallo zio, vecchio ma

ricco.

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Atto II

Nel secondo atto lo zio Simone, ormai raggirato da

Tuzza che lo ha convinto della sua paternità, con

fierezza grida alla moglie che il figlio di Tuzza è

suo e che al suo erede lascerà tutte le sue proprietà.

Per fuggire dalle ire del marito, Mita si rifugia nella

casa di zia Gesa, vicina di casa di Liolà.

Quest'ultimo è legato a Mita dal rancore nei

confronti di Tuzza: lui perché offeso dal rifiuto

delle nozze riparatrici, lei perché con l'inganno

Tuzza le sta portando via il marito e i suoi averi.

Liolà allora offre alla ragazza le sue risorse di

amante prolifico per dare allo zio Simone l'erede

tanto voluto; lei dapprima rifiuta ma la sera, gli apre

la porta di casa.

Atto III

Nel terzo atto, che si svolge un mese dopo gli

avvenimenti precedenti, nel periodo della

vendemmia, zio Simone annuncia pubblicamente

che la moglie gli ha dato finalmente un figlio

legittimo che si va ad aggiungere a quello

illegittimo di Tuzza: in realtà nessuno dei due gli

appartiene veramente come padre.

A questo punto il vecchio vorrebbe che Liolà

prendesse in moglie Tuzza, ma lui rifiuta, perché

sposandola avrebbe perso tutta la sua spensieratezza

ed affidando quindi anche questo ennesimo figlio

alla madre. Tuzza, furibonda, si scaglia addosso a

Liolà con un coltello, riuscendo però solo a ferirlo

leggermente.

Piccolissimo assaggio del I atto in dialetto

agrigentino, come fu scritta da Pirandello

. Appinnata tra la robba e lu magasè, la stadda e lu

parmentu d’ ’a zâ Cruci Azzara.

’Nfunnu, campagna cu ficudinnia, mènnuli, olivi.

A manu dritta, sutta l’appinnata, la porta di la

robba, ’na jttèna, ’u furnu.

A manu manca, la porta d’ ’u magasè, ’a finestra d’

’u parmentu e n’autra finestra cu ’a grada.

A mmuru, aneddi pi li vèstii.

È di sittèmmiru, e si scaccianu li mènnuli.

Supra du’ banchi a fòrficia stannu assittati Tuzza, la

gnà Gesa, la gnà Càrmina ’a muscardina, Ciuzza,

Luzza e Nedda e scaccianu a petra sutta e petra

supra. ’U zû Simuni Palummu cci fa la guardia; la zâ

Cruci va e veni.

’Nterra, sacchi, gistri, coffi e scorci.

Quannu si jsa ’u sipariu, li fimmini, scacciannu,

cantanu a coru la «Passioni».

CORU: E Maria darrè li porti, chi sintìa li currïati:

«Nun cci dati accussì forti, su’ carnuzzi dilicati!"

ZÂ CRUCI: (vinennu d’ ’a porta d’ ’u magasè cu ’na

coffa di mènnuli):

Va’ va’, picciotti, ca l’urtimi su’! ’Na juntidda l’unu,

e cu la manu di Di’ p’ aguannu ’a scacciatina è

finuta.

CIUZZA, LUZZA, NEDDA: Ccà a mmia, zâ Cruci! dassi

ccà! dassi ccà!

ZÂ CRUCI: Lesti lesti, ca faciti a tempu d’acchianari ô

paisi a jìrivi a sèntiri ’a santa missa!

CIUZZA: Chi missa cchiù, zâ Cruci! Si fici tardu!

LUZZA: Avanti ca nni vistemu!

GNÀ GESA: Già, pirchì v’aviti a vèstiri pi sintìrivi ’a

santa missa!

CIUZZA: Ge’, gna comu, vistuti accussì?

NEDDA: Iu, si pozzu, cci scappo accussì comu sugnu!

ZÂ CRUCI: Jamu, jamu, picciotti,’un pirdemu tempu!

CORU: «O Juanni, purtamicci!» «O Maria, ’un po’

caminari!»

DON SIMUNI: E finitila cu sta Passioni! Mi stati

stunannu di stamatina! Scacciati senza cantari.

LUZZA: Tant’anni, scacciannu, s’ha cantatu! Maria,

ch’è cardaciusu vossia! E chi è?

GNÀ CÀRMINA: ’Ncapu all’arma so’, don Simu’: ’u

vidi? nni sta facennu travagliari puro ’a santa

duminica!

DON SIMUNI: Iu? Ccà, ’a zâ Cruci.

ZÂ CRUCI: Ah pi ccu’, pi mmia? Avi tri jorna ca mi

dati focu, vecchiu rummuluni, c’aviti a vìnniri ’a

’ntrita!

DON SIMUNI: Gnursì, tutta sta bella ’ntrita, cuscina!

Cchiù i vuci ca ’i nuci.

GNÀ CÀRMINA: E chi senti dici, don Simu’, ca nun

nni voli dari mancu a bìviri comu livamu manu?

ZÂ CRUCI: Chi? V’avi a dari a bìviri, ca fu di pattu!

DON SIMUNI: Ma chi pattu e pattu, cuscina! Chi diciti

veru? Pi quattru scorci!

ZÂ CRUCI: Su’ chiddi chi su’, e tantu basta. ’A

prumissa è debitu. E ora vi fazzu a vìdiri iu comu si

fa. Vu’, gnà Gesa, curriti â robba di vostra niputi e vi

8

faciti dari ’na lancedda di vinu! Bedda china, ah?

Curriti!

GNÀ GESA: Chi curru! S’ ’un m’ ’u cumanna iddu!

DON SIMUNI: Ah chi supra ’u seriu allura ’un ci

vuliti cridiri, cuscina, ca sugnu cunzumatu iu

aguannu, e chi m’hannu a scippari l’occhi, s’accattu

cchiù fruttu all’arbulu l’annu chi veni?

CIUZZA: E bonu, zû Simu’! N’atr’annu, Diu pruvidi.

LUZZA: C’ ’un si sapi ’i mènnuli comu su’?

NEDDA: Leggi aguannu, càrrichi l’annu chi veni.

ZÂ CRUCI: Si sapi: un annu sì e un annu no.

DON SIMUNI: E l’aulivi? e la vigna? Chi cc’è sulu li

mènnuli? Tutti li cimiddi di l’aulivi mmirmicatizzi

ca fannu piatà! Ccà, basta nèsciri fora e taliari...

GNÀ CÀRMINA: Ma all’urtimata vossia – oh!

Chianci? Chi chianci? Si chianci fa rìdiri vossia!

Avi ccà ’a parintuzza: vìdua cu ’a niputi orfana; s’

’a stima cci vinni sgarrata, tuttu bbonu e binidittu.

CIUZZA: Ccà a ’u sô sangu si nni vennu: restanu

’nfamiglia.

LUZZA: Chi si l’avi a purtari suttaterra?

GNÀ CÀRMINA: Pi tutti sti figli chi avi... – uh! m’ ’u

fici scappari!

Li fimmini, a sta ’mprudenza d’ ’a gnà Càrmina,

restanu cugliuti cugliuti. Lu zû Simuni, cu ll’occhi

ca jèttanu focu, si ’unchia pi scattari; si teni pi

mmiraculu; si la scutta cu ’na gistra ca si trova

davanti li pedi sfirrànnucci un gran càuciu e si nni

trasi nn’ ’u magasè.

ZÂ CRUCI: Santa cristiana, chi facìstivu!

GNÀ CÀRMINA: Gna s’ ’u scippa di ’mmucca a la

genti!

CIUZZA (cu aria di ’nnuccintedda):

E chi è vrigogna p’un omu ’un aviri figli, zâ Cruci?

ZÂ CRUCI: Pipa tu! Ca li picciotti nni sti discursi ’un

si cci hannu a ’mmiscari!

LUZZA: E chi cc’è?

NEDDA: È signu ca Diu nun cci nn’ha vulutu dari!

LUZZA: E pirchì iddu allura s’ ’a piglia cu sô

muglieri?

ZÂ CRUCI: ’Nsumma, ’a vuliti finiri vuàtri? Jti a

scacciari!

CIUZZA: Livamu, zâ Cruci.

ZÂ CRUCI: E facitivi arrassu!

Li tri picciotti si tiranu ’nfunnu, attornu a Tuzza, ca

’un ha dittu una parola e si nn ’ha statu tutta

’ngrugnata; cercanu di smòvirla a parlari, ma Tuzza,

cu ’na spinciuta di spaddi l’alluntana; iddi allura,

ora una, ora l’autra, adasciu adasciu, s’avvicinanu

ad ascutari zôccu dicinu ’ntra iddi ’a zâ Cruci, la

gnà Càrmina e la gnà Gesa, e po’ lu vannu a rifiriri

all’autri du’ ca nn’arrìdinu, facennu signi di nun

fàrisi sèntiri.

ZÂ CRUCI: Haju la testa tanta, soru mia!

D’ ’a matina sin ’a sira jttatu ccà, sempri cu stu

catùniu!

GNÀ CÀRMINA: ’Nnomu dò Patri... e c’ ’u voli di

vossia ’u figliu?

GNÀ GESA: Gna comu! Chiancennu, ’u voli.

ZÂ CRUCI: Chianci... semu giusti... chianci p’ ’a

robba... tanta bedda robba, c’â sô’ morti... ’Un si nni

po’ dari paci!

GNÀ CÀRMINA: E ’u lassassi chiànciri vossia, zâ

Cruci! C’ ’un è megliu accussì pi vàutri? Anzi avi a

prigari ô Signuruzzu.. .

ZÂ CRUCI: Uh, gnà Càrmina, semu di parenti cchiù di

quantu capiddi haju ’ntesta.

GNÀ CÀRMINA: E chi cci fa? sempri quarchi cusuzza

cci avi a tràsiri a vossia, picca o assa’, secunnu ’u

gradu d’ ’a parintela. Mi nni doli ’u cori, gnà Gesa,

pi vostra niputi; ma s’ ’un cci su’ figli – taliati – si

po’ asciucari ’u mussu, accussì!

GNÀ GESA: E si lu carricassi ’ncoddu lu grannissimu

diavulu, a iddu e a tutta la sò robba, gnà Càrmina!

Chi cridi? Nun nni po’ cchiù, nun nni po’ cchiù, dda

povira armuzza ’nnuccenti di me’ niputi, sempri

disgraziata di quannu nasci, sangu miu, urfanedda di

patri e di matri, ca mi l’haju crisciutu iu, ’u sapi Diu

comu!

Di chistu iddu s’apprufitta, ch’è sula, ca ’un avi

autru c’a mmia! Vulissi vìdiri s’avissi ’u patri.

(traduzione per i non udenti a richiesta)

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Le ragazze in bikini

Nel cuore della Sicilia c’è un posto che per bellezza

e arte non ha nulla da invidiare ai più importanti

complessi artistici del mondo.

La grande e magnifica Villa Romana del Casale.

Costruita poco prima della fine dell’impero romano,

la grande villa è ritornata a godere del bollente sole

di Sicilia a metà del secolo scorso, quando alcuni

archeologi decisero di saperne di più su dei ruderi di

epoca romana che affioravano dal terreno.

Posso solo immaginare lo stupore e la grande

soddisfazione di chi, chino sulla polvere e sulla

terra che aveva ricoperto la villa forse durante

un’alluvione, con delicatezza restituiva al mondo e

all’arte così tanta bellezza: quei ruderi

nascondevano come una perla preziosa in

un’ostrica, qualcosa di assolutamente straordinario.

Stupendo esempio di architettura romana, la villa ha

la pavimentazione più sorprendente che si possa

immaginare.

Mosaici di raffinata bellezza adornano quasi tutte le

stanze, ciascuna con riferimenti mitologici e di vita

vissuta. E tutto questo per centinaia di metri quadri.

Studiosi di storia e archeologi non hanno ancora

individuato il nome del signore ricchissimo e molto

potente che tra il III e il V secolo d. C. decise di

farsi costruire una sontuosa dimora a pochi

chilometri dall’attuale Piazza Armerina (Enna), ma

la storia esige certezze e il lavoro degli specialisti

procede tra i testi antichi e i tesori del nostro

passato.

Poco tempo fa sono tornata a visitare la villa per

vedere con i miei occhi come i lavori di restauro e

sistemazione delle coperture degli itinerari di visita,

fossero stati completati.

Dopo aver pagato il mio bravo biglietto, mi avvio

seguendo le indicazioni.

Tra la folla di stranieri che si ristorano al bar con un

arancino o una fetta di pizza appena sfornata, un

signore con la fisarmonica esegue i brani classici

della tradizione siciliana e italiana. Siamo in Italia,

la musica non può mancare e alle prime note di

“Volare” anche i più composti tra i visitatori

stranieri si lasciano andare a battere le mani al ritmo

della musica. “Volando” accompagnata dalla

musica, arrivo all’inizio del percorso di visita.

Noto, con estrema soddisfazione, che è stato fatto un

ottimo lavoro di sistemazione e di restauro.

Le coperture rispettano l’idea di quelle originali e

riparano dal caldo, che

qui, in estate, potrebbe

essere un problema.

Una passerella

sopraelevata consente

ai visitatori di godere

appieno la bellezza dei

colori e delle scene

rappresentate nei

mosaici.

Le prime colonne con

gli straordinari capitelli,

s’intravedono in mezzo

al verde. Poi le terme e

il primo mosaico che

mostra, con dovizia di particolari, quanto i romani

avessero cura del loro corpo.

E poi, “dentro casa”…

C’è tanta gente. Tutti in fila, affacciati alla ringhiera

della lunghissima passerella, tutti con lo sguardo in

giù, verso quelle figure che sembrano ancora

danzare e combattere e raccontare le storie degli dei

e delle scene di caccia. Tutti in silenzio a seguire i

sussurri delle guide che ne spiegano lo svolgersi.

La bellezza della classica disposizione delle stanze,

degli ambienti termali, della palestra, dell’ingresso

monumentale, degli appartamenti, dell’incredibile

lungo corridoio e della grande basilica ornata di

marmi preziosi è adeguata alla grande bellezza dei

mosaici.

Geometrie preziose e figure di scene quotidiane

raccontano, con immutato splendore, lo svolgersi

della vita in quei tempi lontani, di un signore di

altissimo rango e della sua famiglia.

I mosaici sono fotogrammi di un’epoca della storia,

costruiti con piccole tessere colorate. Ho avuto la

sensazione di sfogliare un libro illustrato che

racconta delle preziose vesti, delle collane e dei

bracciali sopra il gomito della ricca signora, delle

passioni e delle attività del proprietario.

Anche il teatro è descritto in quel Polifemo con tre

occhi: due dell’attore più l’occhio dipinto sulla

fronte per rendere il personaggio inequivocabile. Poi

le gare sportive con doni di palme e corone di fiori

alle ragazze.

10

E ancora il bacio sensuale raffigurato in una delle

camere da letto, la stanza dei bambini e tutte le altre

stanze, che lo strano potere della bellezza e dell’arte

rende “parlanti” oggi, a dispetto dei secoli passati,

delle alluvioni e dei terremoti.

Il corridoio, quasi un viale per dimensioni, è

l’apoteosi del mosaico. Animali esotici, navi,

sistemi di cattura delle fiere e tanto altro sono

raccontati in un’esplosione di colori con i milioni di

tessere colorate. Ho pensato che bisognerebbe

inchinarsi davanti a tanta bellezza e lo sporgersi da

quella ringhiera, per ammirare le scene “dipinte”

con la pietra, forse rende naturale il gesto a tutti i

visitatori.

Anche ciò che rimane degli intonaci racconta del

fasto e del colore della ricca dimora.

Ho provato a chiudere gli occhi per immaginarla nel

suo pieno splendore, affollata di ospiti e di servitù,

con i grandi tendoni che fungevano da porte e

custodivano la privacy dei suoi abitanti, con il

suono di tube e cetre e le voci che parlano latino…

fantastico!

Verso la fine del percorso, tra le ultime stanze, ecco

quella che lascia senza fiato.

Qui domina il bianco sullo sfondo del mosaico,

forse per non togliere nulla alla bellezza delle dieci

figure femminili rappresentate. Otto di queste sono

raffigurate nei giochi e nello sport e ognuna di loro

indossa un bikini.

In questa stanza, ho la sensazione che l’artista abbia

di proposito voluto evitare l’uso dei colori forti per

non distrarre l’occhio dalla bellezza

dell’atteggiamento e dalla regalità dei corpi torniti,

che hanno davvero dello straordinario.

Qualsiasi elemento o colore di troppo avrebbe

disturbato la rappresentazione del movimento

sportivo, della grazia e della bellezza di cui quelle

donne sono l’emblema.

Attrezzi ginnici, bikini, sguardo che scruta sicuro e

lontano. Si stavano divertendo e non avevano nulla

da nascondere. I fianchi generosi e una piccola

cicatrice non erano un problema. Sicure della loro

bellezza, si potevano concedere il piacere di giocare

a palla, o lanciare il disco, per poi essere cinte dalla

corona di rose, che esalta una femminilità che non

ha bisogno di emanciparsi. I bikini non ostacolano i

movimenti delle ragazze, e loro scoprono il corpo fin

dove si può.

Ma stranamente, una delle due ragazze del lato

sinistro del mosaico è coperta fino ai piedi da un

leggero velo, lasciando intravedere tutto! Sottile

gioco di seduzione?

I secoli e l’alluvione si sono portati via per sempre la

prima delle ragazze. Ne possiamo ammirare soltanto

le gambe. Peccato! Lo voglio interpretare come un

monito. Capolavori del genere e tutto il grande e

splendido patrimonio artistico dell’Italia vanno

custoditi e protetti, per essere consegnati alle

generazioni future nel miglior stato possibile, senza

parti mancanti!

Noto che tutti i visitatori, italiani, stranieri e

naturalmente gli immancabili giapponesi e coreani,

rallentano il passo.

Tutti incantati da

quella scena di sport

e da quei sensuali

bikini che parlano

un linguaggio

universale.

Il linguaggio

misterioso dell’arte

e della bellezza che

sorpassa il tempo e

le mode.

Lascio a malincuore

la stanza e anche gli

altri visitatori non

mancano di girarsi

per dare un ultimo sguardo all’incanto di quelle

ragazze.

La grande basilica, segno dell’enorme ricchezza e

potenza del suo proprietario, con i suoi preziosi

marmi, con le sue colonne e la grandiosità delle sue

proporzioni, mi fa venire voglia di ricominciare il

giro daccapo. Ma… si sa! Il tempo è tiranno.

E quando scorre felicemente, sembra diventare più

breve.Guardo l’orologio.

No, non posso rifare il giro. Ho giusto il tempo di

ripassare da Piazza Armerina, la bianca e nobile

cittadina nel cuore della Sicilia, ricca di storia e di

tradizioni.

Mi avvio verso l’uscita, la musica al bar continua

con “ciuri ciuri” e sembra darmi l’arrivederci.

Brunella Li Rosi

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Poesie di primavera

Io non ti do il mio amore

Io non ti do il mio amore come fanno

le altre ragazze, in uno scrigno freddo

d'argento e perle, né ricco di gemme

rosse e turchesi, chiuso, senza chiave;

né in un nodo, e nemmeno in un anello

lavorato alla moda, con la scritta

“semper fidelis”, dove si nasconde

un'insidia che ottenebra il cervello.

L'Amore a mano aperta, questo solo,

senza diademi, chiaro, inoffensivo:

come se ti portassi in un cappello

primule smosse, o mele nella gonna,

e ti chiamassi al modo dei bambini:

“Guarda che cos'ho qui! - Tutto per te”.

Edna St. Vincent Millay

(su segnalazione dell’amico Angelo Guarnieri)

Ricardo Reis – Ode

Per essere grande, sii intero: non esagerare

E non escludere niente di te.

Sii tutto in ogni cosa. Metti tanto quanto sei

Nel minimo che fai.

Come la luna in ogni lago tutta

Risplende, perché in alto vive.

Fernando Pessoa

Nessun uomo è un'isola, intero per se stesso;

Ogni uomo è un pezzo del continente,

parte della Terra intera;

e se una sola zolla vien portata via

dall'onda del mare,

qualcosa all'Europa viene a mancare,

come se un promontorio

fosse stato al suo posto,

o la casa di un uomo, di un amico

o la tua stessa casa.

Ogni morte di uomo mi diminuisce perché

io son parte vivente del genere umano.

E così non mandare

mai a chiedere per chi suona la campana:

essa suona per te.

John Donne

Suoni di luce

Ti scorgo incedere con passo regale

Dalla fessura della porta socchiusa.

E s'inchioda al tuo viso

Lo sguardo mio.

E d'incanto i miei pensieri

S'involano sulla spiaggia d'inverno,

Con la deserta sabbia sferzata

Dal gelido maestrale,

Dolce Pelagia che vieni dal mare.

E gli austeri, mutevoli fronti

Di ostili cumulo-nembi

A presidiare declivi l'orizzonte.

I gabbiani scomparsi

Sul placido pelago

Proiettano i loro contorni spettrali

Sulle schiume maestose

Fruscianti in lontananza

E nelle membra mie

S'avverte il tumulto

D'un'emozione inedita,

Dai contorni indistinti,

Perché si disperde

Nei più remoti anfratti dell'Universo,

E mentre armonici suoni di luce

S'insinuano, flettendosi sinuosi,

Nella mia logora mente,

Tu, mio unico, incomparabile bene,

Novella Aracne dal dolce sorriso,

Cospargi di frammenti di rugiada

La tua geometrica trappola di seta...

Pierluigi Camboa

Dall'uovo di Pasqua

è uscito un pulcino

di gesso arancione

col becco turchino.

Ha detto: "Vado,

mi metto in viaggio

e porto a tutti

un grande messaggio".

E volteggiando

di qua e di là

attraversando

paesi e città

ha scritto sui muri,

nel cielo e per terra:

"Viva la pace,

abbasso la guerra".

Gianni Rodari

12

DARIO BOSANO

Dario Bosano debutta a Savona e in Liguria con le

sue prime espressioni fatte con la creta.

In seguito inizia un lungo percorso con la pittura

prevalentemente astrattistica chiamata

CROMATISMO.

A Savona presso Villa Cambiaso durante una

collettiva viene a conoscenza della poetessa e

scrittrice savonese Franca Maria Ferraris , la quale

elogiando il lavoro da lui svolto così lo definisce.

"Dario Bosano si esprime in una duplice produzione

artistica, quella di ceramista e quella di pittore.

Un denominatore comune di entrambe le produzioni

é la visione di una società contemporanea dove

l'uomo é strappato a sé stesso e condotto verso stili

di vita che non gli appartengono e che mai saranno

in grado di appagarlo.

Nella sua pittura abbiamo la visione di questo

intriso di ostacoli e difficoltà, dove l'inquietudine

interiore scuote l'artista per condurlo alla

realizzazione di un'arte ricca di suggestioni in cui

anche e soprattutto il CROMATISMO racconta ciò

che sente e tocca i più diversi timbri del colore, resi

in movimenti precisi.

Le tinte divengono le leve stesse della passione e

danno alle tele slanci ed aperture eccitanti.

Osservando le opere di Bosano, lo spettatore è

particolarmente disorientato dal modo in cui usa la

linea: tanto come elemento indipendente, quanto

come limite per il colore."

Aggiunge ancora Franca Maria Ferraris: un altro

legame che vedo tra lui e Kandinsky è la relazione

con la Teosofia, intesa come la verità fondamentale

che fa da sfondo alla dottrina ed ai rituali di tutte le

religioni del mondo; il credere in una realtà

essenziale nascosta dietro le apparenze, fornisce una

naturale razionalità all'arte astratta di entrambi i due

Artisti.

Nell'anno 2003 a Montecarlo, nella zona del porto

antico, sponsorizzato dai Cantieri Riva,l'artista ha

ricevuto per l'occasione encomio non solo dalla

Stampa ma anche da la critica transalpina.

Dice di sé stesso l'artista:

"La fortuna dell’artista è data non tanto dai critici,

ma dal pubblico, che ha deciso di seguirlo nel suo

cammino. E sempre quello stesso pubblico, che può

fare di lui ciò che vuole, portarlo alla fortuna come

alla disgrazia. L’umiltà sta sempre alla base del

suo successo. Dobbiamo però qui dirci, che prima di

essere fermamente convinti di poter riprodurre

un’opera apparentemente infantile, o qualsivoglia

bècera, o marginale che si provi a farla! Ci si

renderà conto che non è poi così facile.”

Altre esposizioni importanti sono state a Racconigi

(CN) presso il circolo culturale "IL QUADRATO

MAGICO", a Savona presso Villa Cambiaso.

Degna di nota é stata l'unica collettiva alla quale ha

partecipato; svoltasi a Santa Teresa di Gallura.

Un suo quadro é stato esposto persino nella sede

della Guardia Costiera di Savona. Un omaggio

all'amico Comandante della Marina Militare Felicio

Angrisano.

In occasione della vittoria del campionato mondiale

di calcio nel 2006 ricevette dal Sindaco di Albissola

Marina il prestigioso incarico di eseguire una

scultura che verrà sistemata sul territorio comunale.

Stiamo organizzando la mostra delle opere di Bosano

presso la Sala Mostre della Provincia di Savona;

maggiori informazioni al prossimo numero.

13

21 marzo 2014

GIORNATA NAZIONALE ANTIMAFIA

Savona, ancora una volta, si è mobilitata al fianco di

Libera. La manifestazione cittadina ha preso il via

alle 9 da piazza Eroe dei due Mondi

(Prolungamento), per concludersi, dopo un corteo

per le vie cittadine (Corso Italia, Via Mentana,

Piazza Saffi, Via Boselli, Piazza Mameli, Via

Paleocapa, Corso Italia), in piazza Sisto IV con la

lettura alle 10.30 dei nomi delle 900 e più vittime

delle mafie. Oltre mille gli studenti e i giovani che

hanno attivamente partecipato al tema scelto da

Libera per quest’anno: “Radici di Memoria, frutti

d’impegno”. Arrivati in piazza con veri e propri

frutti, da loro realizzati con materiale a libera

scelta,che rappresentano la memoria per una vittima

o un impegno da prendere. Sui frutti erano scritti un

nome, una frase, per rappresentare ciò che si ritiene

importante. La piazza si è riempita così di frutti

colorati di vita e di impegno con il quale ciascuno

ripartirà per continuare il percorso.

“Savona anche in quest’occasione ha offerto alla

città e al territorio un momento di riflessione su un

tema delicato come quello della lotta alle mafie –

come dichiarato dall’assessore alla Cultura e

Politiche Giovanili Elisa Di Padova – ma anche una

preziosa occasione di condivisione di ideali e valori

come quelli ispirati alla legalità.”

Un corteo colorato, gioioso, composto in gran parte

da giovani è il modo più efficace per dire no alle

mafie e alla criminalità.

I frutti dell’impegno sono le azioni quotidiane, i

piccoli gesti che ciascuno di noi è chiamato a fare.

A noi piace ricordare questo impegno così :

PILLOLE DI CINEMA

Qualche tempo fa, durante un’intervista concessa a

una rete televisiva francese, Jean-Luc Godard ebbe a

dire che la differenza fra il cinema e la televisione è

semplicissima: al cinema – osservava il maestro

della nouvelle vague – i personaggi proiettati sullo

schermo sono molto più grandi di noi, mentre

quando appaiono su qualunque teleschermo

domestico gli stessi personaggi sono inevitabilmente

più piccoli di noi.

Come dire: sullo schermo del cinema il volto

dell’uomo diventa “più grande della vita”, assume

dimensioni e proporzioni inconsuete, si fa mondo e

paesaggio, mentre sul monitor di qualsiasi Tv –

anche su un flat screen al plasma o ai cristalli liquidi

– quello stesso volto rimpicciolisce e raggrinzisce,

viene in qualche modo addomesticato, perde ogni

possibilità di sorprenderci e si mimetizza tra le tante,

insignificanti apparizioni del quotidiano.

Se il Novecento ha scoperto il volto dell’uomo, se lo

sguardo collettivo è scivolato dolcemente su quello

che Roland Barthes definiva il “viso di neve” di

Greta Garbo o sulla “faccia infarinata” di Charlot, se

si è perso tra le ciglia di Marylin (almeno prima che

Andy Wahrol facesse del suo volto l’analogo di una

lattina di minestra Campbell) o negli occhi liquidi ed

acquosi di James Dean, il merito è tutto del grande

schermo.

E di quel dispositivo della visione che ci ha

consentito di vedere il volto in primo piano come

mai nessuno aveva potuto vederlo prima che il

cinema fosse inventato: non a teatro (dove il volto è

condannato ad essere il supporto di una maschera o

è impedito a farsi elemento di significazione dalla

distanza percettiva che lo separa e lo allontana dal

pubblico), non in un’immagine fotografica o in un

ritratto pittorico (dove il volto appare

inevitabilmente paralizzato in un’immobilità

statuaria che gli conferisce la solennità della posa),

ma neppure – e tanto meno – nell’esperienza

percettiva della vita.

E’ bene ribadirlo con forza: il primo piano non fa

parte delle nostre naturali modalità di percezione

visiva del mondo. Prima del cinema il nostro

sguardo era condannato a una visione continua e

senza stacchi e poteva anche provare ad avvicinarsi

a un volto, ma con l’effetto inevitabile di alterare le

proporzioni, di distorcerle, di deformarle.

Con il cinema cambia tutto: perché il cinema – come

scrisse già negli anni Quaranta il teorico ungherese

Béla Balàzs – strappa il “velo della consuetudine” e

diventa, grazie al montaggio, lo spartito visivo della

vita.

14

L’invenzione del primo piano è insomma, a tutti gli

effetti, un artificio: uno strappo, una rottura,

secondo alcuni addirittura uno stupro alla fisiologia

della visione.

E tuttavia quello “stupro” – così totalmente

macchinico, ma anche così totalmente e

teneramente umano – contiene in nuce l’epifania del

mondo. Per lo meno, del mondo (e dei mondi…)

che si esprimono attraverso il volto.

Ancora Godard: “L’origine del primo piano è nelle

immagini dei re sulle monete”.

In un lapidario passaggio delle sue Histoire(s) du

cinéma, Godard ci ricorda che l’invenzione del

primo piano risale all’economia (e alla

numismatica) prima che all’estetica o alla

fisiognomica. C’è sempre qualcosa di impudico

nell’offrire il proprio volto a un primo piano: c’è la

presunzione che esso abbia in sé qualcosa che

merita di essere guardato, amato, venerato, forse

perfino eletto (si pensi all’uso dei primi piani nella

cartellonistica elettorale…). Eppure.

Eppure, il cinema ci ha fatto scoprire volti di re e di

potenti, ma anche di losers e barboni.

Quello del cinema è un primo piano democratico: è

al servizio di tutti, e disegna una cartografia che non

è quasi mai legata al feticismo del potere.

Fin dalle origini, anzi, lo sguardo del cinema ha

disegnato sullo schermo tavolozze di volti diversi:

volti-ombra, volti-notte, volti-luce.

E poi visi d’acqua, visi di terra, visi di cielo.

Paesaggi, appunto: che contengono al proprio

interno e svelano allo sguardo una vera e propria

mimica dei sentimenti e una fisiognomica delle

passioni. Vedendo un volto isolato, scrive Béla

Balàzs, ci troviamo all’improvviso soli, a

quattr’occhi con quel volto.

E possiamo instaurare con lui una relazione

caratterizzata da un’intimità, una vicinanza e una

complicità in precedenza impensabili…

Gianni Canova ( per gentile concessione www.giannicanova.it)

Donatella Finocchiaro Catania 16-11-1970

RICETTA PASQUALE

Il "tegame pasquale di

Aragona" è un elaborato

primo piatto pasquale di tale

città isolana compresa nella

provincia di Agrigento.

Gli ingredienti richiesti sono:

800 gr di rigatoni, 16 uova battute, 600 gr di tuma a

fettine, 150 gr di pecorino stagionato grattuggiato,

un pizzico di cannella pestata, brodo di pollo, una

bustina di zafferano sciolto nel brodo, 8 fette di pane

raffermo, prezzemolo abbondante, sugna, sale, pepe.

Sono facoltative le polpettine cotte al ragù.

I rigatoni vanno lessati in acqua salata, scolati al

dente e sistemati in un tegame di terracotta umettato

con lo strutto ed il cui fondo è ricoperto da 4 fette di

pane raffermo.

Su queste ultime vanno alternati strati di rigatoni e

fettine di tuma e l'amalgama ottenuta unendo le uova

battute, il prezzemolo trito, sale, pepe, il formaggio

grattugiato, un pizzico di cannella e la bustina di

zafferano sciolta in una tazza di brodo caldo.

L'ultimo strato della pietanza è costituito dalle

restanti fette di pane.

Il tegame va riempito con il brodo caldo ed il tutto

va cotto al forno.

Il piatto richiede una cottura molto lunga a causa

dell'ingente quantitativo di liquidi e per le

abbondanti uova.

La pietanza può esser arricchita anche dalle

polpettine cotte al ragù e da fettine di uova sode.

Va sfornata quando si presenta asciutta, ma non

secca, e quando è ben compatta.

(quindi telefonatemi per tempo)

15

Cavalleria Rusticana

Cavalleria rusticana è stata pubblicata da Verga in

Vita dei campi del 1880, raccolta di novelle che

descrivono la vita contadina siciliana. La storia in sé

viene raccontata quasi interamente attraverso il

dialogo dei suoi personaggi: Lola, Turiddu (amante

di Lola), Alfio (marito di Lola), Santa (amante

respinta da Turiddu) e Nunzia (la madre di Turiddu).

Sotto la spinta dell'attrice Eleonora Duse, Verga ha

adattato la storia per il teatro, raddoppiando la sua

lunghezza ed elaborando la trama. Santa diventò

Santuzza e le affidò un carattere molto più centrale

di quanto lo era nel racconto.

Scena Settima :Santuzza e Turiddu. Duetto

TURIDDU (irato) Ah! lo vedi, che hai tu detto?...

SANTUZZA L'hai voluto, e ben ti sta.

TURIDDU (le s'avventa) Ah! perdio!

SANTUZZA Squarciami il petto!

TURIDDU (s'avvia) No!

SANTUZZA (trattenendolo) Turiddu, ascolta! Insieme

TURIDDU Va'

SANTUZZA No, no, Turiddu, rimani ancora.

Abbandonarmi dunque tu vuoi?

TURIDDU Perché seguirmi, perché spiarmi sul

limitare fin della chiesa?

SANTUZZA La tua Santuzza piange e t'implora;

come cacciarla così tu puoi?

TURIDDU Va', ti ripeto va' non tediarmi, pentirsi è

vano dopo l'offesa!

SANTUZZA (minacciosa) Bada!

TURIDDU Dell'ira tua non mi curo!

(la getta a terra e fugge in chiesa)

SANTUZZA (nel colmo dell'ira) A te la mala Pasqua,

spergiuro!

Per tutti noi invece

Buona Pasqua Santuzzo