Email: [email protected] Picciotti carissimi vasamu li mani. · Nella bandiera siciliana...

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1 2014 numero 2 febbraio Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Nella bandiera siciliana campeggia in bella mostra il simbolo di una testa femminile con tre gambe piegate (triscele) e mosse direttamente dal capo. In araldica questa raffigurazione prende il nome di trinacria. La testa rimanda chiaramente alle gorgoni, mostri della mitologia greca di aspetto mostruoso, ali d'oro, mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale e serpenti al posto dei capelli. Esse erano tre e rappresentavano le perversioni: Euriale rappresentava la perversione sessuale, Steno la perversione morale e Medusa (la più famosa, unica mortale tra le tre e custode degli Inferi) la perversione intellettuale. Anticamente il nome della Sicilia era quello di Triquetra o Trinacria. Questo perchè, a differenza della classica forma tonda di tutte le altre isole, la Sicilia ha una configurazione geografica strana. E' caratterizzata da tre promontori, Pachino, Peloro e Lilibeo e tre vertici che quasi istintivamente rimandano al triangolo. Ed è probabilmente in epoca ellenistica che la cultura greca, colma di dei, semidei e mostri mitologici, coniò il simbolo della gorgone con tre gambe attaccate direttamente alla testa associandolo piano piano alla nostra terra e ai misteri che la avvolgevano (un tempo la fine del mondo con tanto di colonne d'ercole era molto più vicina alla Sicilia di quanto possiamo oggi immaginare ). Ma da dove trae origine questo simbolo? Ce ne sono mai stati di simili nella storia dell'uomo? In questo gli studiosi sono concordi nel ritenere che la trinacria sia un antico simbolo religioso orientale che rappresentava il dio del sole nella sua triplice forma di primavera, estate e inverno. Remote monete (del VI e IV secolo a.C.) lo testimoniano. Esse provenivano quasi tutte da città dell'Asia Minore, come Aspendo in Panfilia, Olba in Cilicia, Berrito e Tebe nella Troade. Il simbolo si sarebbe quindi diffuso in occidente attraverso i greci che con le tre gambe marchiavano diverse monete (a esempio quelle di Atene del VI sec a.C., ma anche successivamente nelle urbi di Paestum, Elea, Terina, Metaponto e Caulonia). In Sicilia, invece, pare essere stato Agatocle (in Siracusa) ad usare il simbolo sulle monete e forse come sigillo personale. E' solo in epoca romana che la trinacria perde il suo intrinseco significato religioso per diventare esclusivamente il simbolo geografico della Sicilia. In quell'epoca a Palermo la gorgone con tre gambe appare nel suo aspetto definitivo sulle monete. Ma al posto dei serpenti, la testa della gorgone è decorata con tante spighe. Spighe di grano che tributavano alla Sicilia il suo ruolo di granaio dell'antico impero romano. Sicilia sinonimo di fertilità e prosperità. Ma perchè è stata usata la testa di una gorgone? Perchè, se il significato religioso della trinacria non c'era più, si continuò ad usare una immagine mistica come quella della gorgone? La gorgone, amici miei, è un dettaglio tipicamente siciliano. In tutte le altre rappresentazioni, le gambe erano legate tra loro attraverso un cerchio o un punto. E la "Trichetria" è fortemente legata alla mitologia greco orientale. I nostri avi erano soliti decorare tempi, vasi e case con maschere e raffigurazioni pittoresche per scongiurare, allontanare o annullare influssi maligni. Proprio come il gesto delle corna che noi usiamo per esorcizzare il male. Per il siciliano doc, religioso e superstizioso per tradizione familiare, la trinacria è un talismano portafortuna. Vogliamo concludere questo articolo spiegando anche il perchè del giallo e del rosso presenti nel vessillo ufficiale della regione Sicilia. Il giallo ed il rosso stanno a rappresentare rispettivamente il coraggio delle città di Palermo e poi di Corleone, che per prime si sollevarono contro i francesi durante i vespri siciliani del 1282.

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2014 numero 2 febbraio

Email: [email protected]

Picciotti carissimi,vasamu li mani.

Nella bandiera siciliana campeggia in bella mostra

il simbolo di una testa femminile con tre gambe

piegate (triscele) e mosse direttamente dal capo. In

araldica questa raffigurazione prende il nome di

trinacria. La testa rimanda chiaramente alle gorgoni,

mostri della mitologia greca di aspetto mostruoso,

ali d'oro, mani con artigli di bronzo, zanne di

cinghiale e serpenti al posto dei capelli. Esse erano

tre e rappresentavano le perversioni: Euriale

rappresentava la perversione sessuale, Steno la

perversione morale e Medusa (la più famosa, unica

mortale tra le tre e custode degli Inferi) la perversione

intellettuale. Anticamente il nome della Sicilia era

quello di Triquetra o Trinacria. Questo perchè, a

differenza della classica forma tonda di tutte le altre

isole, la Sicilia ha una configurazione geografica

strana. E' caratterizzata da tre promontori, Pachino,

Peloro e Lilibeo e tre vertici che quasi

istintivamente rimandano al triangolo. Ed è

probabilmente in epoca ellenistica che la cultura

greca, colma di dei, semidei e mostri mitologici,

coniò il simbolo della gorgone con tre gambe

attaccate direttamente alla testa associandolo piano

piano alla nostra terra e ai misteri che la

avvolgevano (un tempo la fine del mondo con tanto

di colonne d'ercole era molto più vicina alla Sicilia

di quanto possiamo oggi immaginare).

Ma da dove trae origine questo simbolo? Ce ne

sono mai stati di simili nella storia dell'uomo? In questo gli studiosi sono concordi nel ritenere che

la trinacria sia un antico simbolo religioso orientale

che rappresentava il dio del sole nella sua triplice

forma di primavera, estate e inverno.

Remote monete (del VI e IV secolo a.C.) lo

testimoniano. Esse provenivano quasi tutte da città

dell'Asia Minore, come Aspendo in Panfilia, Olba

in Cilicia, Berrito e Tebe nella Troade. Il simbolo si

sarebbe quindi diffuso in occidente attraverso i

greci che con le tre gambe marchiavano diverse

monete (a esempio quelle di Atene del VI sec a.C.,

ma anche successivamente nelle urbi di Paestum,

Elea, Terina, Metaponto e Caulonia).

In Sicilia, invece, pare essere stato Agatocle (in

Siracusa) ad usare il simbolo sulle monete e forse

come sigillo personale.

E' solo in epoca romana che la trinacria perde il suo

intrinseco significato religioso per diventare

esclusivamente il simbolo geografico della Sicilia.

In quell'epoca a Palermo la gorgone con tre gambe

appare nel suo aspetto definitivo sulle monete.

Ma al posto dei serpenti, la testa della gorgone è

decorata con tante spighe. Spighe di grano che

tributavano alla Sicilia il suo ruolo di granaio

dell'antico impero romano. Sicilia sinonimo di

fertilità e prosperità.

Ma perchè è stata usata la testa di una gorgone?

Perchè, se il significato religioso della trinacria non

c'era più, si continuò ad usare una immagine mistica

come quella della gorgone? La gorgone, amici miei,

è un dettaglio tipicamente siciliano.

In tutte le altre rappresentazioni, le gambe erano

legate tra loro attraverso un cerchio o un punto.

E la "Trichetria" è fortemente legata alla mitologia

greco orientale. I nostri avi erano soliti decorare

tempi, vasi e case con maschere e raffigurazioni

pittoresche per scongiurare, allontanare o annullare

influssi maligni. Proprio come il gesto delle corna

che noi usiamo per esorcizzare il male.

Per il siciliano doc, religioso e superstizioso per

tradizione familiare, la trinacria è un talismano

portafortuna.

Vogliamo concludere questo articolo spiegando

anche il perchè del giallo e del rosso presenti nel

vessillo ufficiale della regione Sicilia. Il giallo ed il rosso stanno a rappresentare

rispettivamente il coraggio delle città di Palermo e

poi di Corleone, che per prime si sollevarono contro

i francesi durante i vespri siciliani del 1282.

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Un bel ponte CINISI LEGINO

Domenica 5 gennaio alle ore 21 presso la

Parrocchia di S. Ambrogio di Legino Enzo Motta

ha portato il saluto del Sodalizio ai ragazzi della

Parrocchia Ecce Homo di Cinisi (Palermo) -patria

di Peppino Impastato - parrocchia gemellata con

quella di Legino nel nome dei loro giornali che si

chiamano entrambi IL MELOGRANO

(Ne abbiamo recentemente parlato su queste

colonne su segnalazione dell'amico Renato Cesarò.)

L'incontro era dedicato alla difesa della legalità

contro la mafia. I ragazzi di Legino hanno riferito di

aver partecipato a un "campus" in Umbria per

bonificare un "terreno mafioso" assegnato a

"Libera".

I ragazzi di Cinisi hanno parlato delle loro tante

iniziative portate avanti in un ambiente che solo

lentamente sta prendendo coscienza della valenza

negativa del sentire mafioso, mentre cercano di far

capire che solo legalità e solidarietà possono mutare

radicalmente la qualità della vita in quelle contrade.

Enzo Motta ha portato la sua testimonianza: nato in

un paese ad alto tasso di mafia, ha visto la stessa

abbandonare i suoi interessi verso le terre e il

bestiame per emigrare nelle città, attratta dagli

appalti, dalle speculazioni edilizie e dal "pizzo", sul

commercio, fino ad arrivare alla droga e al

riciclaggio degli enormi guadagni che questa

procura, in attività apparentemente lecite con la

complicità dei "colletti bianchi".

Su questo terreno però la mafia cresciuta in

efferatezza ha coinvolto donne e bambini, ha ucciso

magistrati e giornalisti, ha praticato vendette

trasversali, perdendo il credito che godeva fra la

gente (salvi i quartieri degradati delle metropoli) e

si identifica con la criminalità comune, rischiando

di essere battuta sul campo dalle forze dell'ordine.

Ma per estirparla, anche al nord, dove ha creato

delle "filiali" occorre farla finita (come ricorda il

nostro giornalista-scrittore Matteo Collura) con la

mentalità mafiosa basata su un diffuso "familismo

amorale" che inquina tutti gli ambienti (anche quelli

politici), che corteggia il potere e prescinde dal

merito.

Speriamo di ripetere l'esperienza.

Il 5 gennaio scorso ricorreva il 30° dall’omicidio

di Pippo Fava, abbiamo trovato questo articolo a

firma del figlio Claudio e ve lo proponiamo:

Risiko

Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come

al solito, attorno al tavolo della cucina a casa della

signora Roccuzzo.

Riccardo scelse i gialli, che non voleva mai

nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia

sfida di colori dominati che non si risolveva mai. Io

mi presi i verdi, colore fesso, tiepido, di quelli che

non lasciano traccia.

Giocammo con candore e accanimento, come

sempre, improvvisando alleanze, attacchi e

ripiegamenti, sacrifici, tradimenti: tutto.

Il canovaccio prevedeva ruoli immutabili.

Miki con la sua bella faccia da guappo dava la

scalata al mondo spostando armate attraverso

oceani immaginari. Antonio, prudente come un

segretario di sezione, puntava alla Cina, cuore

immobile di un’Asia attraversata da straordinarie

mitologie, la Yacuzia, la Kamchatca, il Siam…

Riccardo intanto s’ammassava da qualche parte e lì

aspettava la guerra, saggio immobile, come se

quell’unico territorio posseduto fosse l’isola di

Stromboli, protetta dal mare e dagli dei.

Di me non so, non ricordo: applicavo le regole del

gioco, attaccavo, arretravo, passavo la mano.

Pensavo che le guerre si vincono provando a non

perderle, facendo i ragionieri sulle baionette.

Avevo ancora un’età onesta, mi era consentito non

capire un cazzo.

Insomma la partita fu come altre cento prima di

quella sera: lunga, sfacciata, riottosa.

Nessuno vinceva, nessuno vinse.

Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro

cartone del risiko e lo fece saltare in aria

mescolando definitivamente carri armati, territori,

ambizioni.

Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino

in fondo: ci mandammo allegramente affanculo e ce

ne andammo a dormire strippati di amaro averna,

sazi e giusti come chi crede di essere immortale.

Il giorno dopo ammazzarono mio padre.

Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una

cartolina di quei giorni e degli anni che vennero

dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora

Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia

ancora immacolata di quattro ragazzi che si stanno

giocando l’ultima partita, prima che la vita gli

precipiti addosso. Claudio Fava da “I Siciliani Giovani”

A che serve essere vivi,

se non c’è il coraggio di lottare?”

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Stefano

Bertè Milazzo (ME)

1°dicembre 1923

Savona

9 gennaio 2014

L’avevo

conosciuto oltre

45 anni fa quale

Consigliere della Cassa di Risparmio di Savona,

poi, come il Direttore Didattico che aveva lasciato

un segno indimenticabile in Val Bormida e in

seguito ci eravamo ritrovati “colleghi” nella vita del

nostro Sodalizio, sempre presente, attivo e

propositivo per tutte le nostre attività.

In questi ultimi anni con Stefano, ci vedevamo

spesso, quasi quotidianamente, incrociandoci per

strada, fra una commissione e l’altra e l’incontro era

sempre, oltre che mio, anche un suo piacere, perché

vedevo il dolce sorriso illuminargli il volto.

Quando, più spesso, potevamo dedicarci qualche

minuto, seduti ad un tavolino del caffè, che peraltro

non accettava mai che offrissi, mi beavo della

lucida, pacata e civile conversazione che riusciva

ad imbastire.

Sentiva sempre l’esigenza di sottolineare

l’importanza dell’educazione, intesa come senso di

responsabilità, di impegno e mi confessava della

sua ancora grande voglia di conoscere, leggendo in

continuazione: “ Mia moglie dice che ha sposato

un libro!” mi ripeteva e io sapevo che invece lui si

prodigava in casa quotidianamente con affetto e

attenzione.

Poi parlavamo dei nostri “giovani” e traspariva

l’orgoglio per il figlio Daniele così come io rendevo

palese l’orgoglio per i miei.

E con grande intelligenza, apprezzando l’attività del

NuovoFilmstudio “La Scuola al Cinema”, ribadiva

l’importanza dell’attenzione verso i giovani, “il

nostro futuro” e talvolta si accalorava nel vedere e

sentire quale degrado culturale manifestassero

proprio coloro che avrebbero dovuto dare

l’esempio.

Svelava la sua natura di Maestro, l’insegnante che

non perde mai di vista il ruolo e continua ad esserlo

sempre, con quanta discrezione e tanta più efficacia.

Quante volte abbiamo parlato di “dignità”, quel

valore che oggi sembra di seconda serie e che

invece è la cartina di tornasole nei rapporti fra

persone, fra genti, fra popoli.

Ecco perché mi piace definire l’amico uomo degno,

della cui amicizia sono stato onorato e che non

dimenticherò. Insieme a Giovanna ti salutiamo con

stima e affetto. Ciao Stefano.

Tante le testimonianze di sentito cordoglio arrivate

al “Pirandello” da parte di coloro che lo hanno

conosciuto e apprezzato quali Franco Astengo,

Emilio e Paola Sidoti, Pina Zanghi, Salvatore e

Lena Finocchiaro, Dario Caruso e Il Circolo degli

Inquieti, Silvia Bottaro e le Associazioni “Aiolfi”, e

“ A Campanassa”.

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BUONA LETTURA – “IL PARTIGIANO DI

PIAZZA DEI MARTIRI” DI ENZO BARNABÀ

Buona lettura è uno spazio per “assaggiare” libri

buoni, ovvero utili, piacevoli, intelligenti, capaci di

lasciare un segno nell’immaginazione di chi li sfoglia.

Un taccuino per catturare le impressioni, i messaggi e le

parole che escono di pagina in pagina, ma anche per

incontrare scritture nuove e legate all’attualità. Un

angolo per parlare di libri e condividere il gusto di una

buona lettura.

È un libro che racchiude tante vicissitudini, le une

intrecciate alle altre, come in un gioco di rimandi: la

storia di Ciro, il siciliano che combatte i nazisti e

che il 17 marzo del 1945 finisce impiccato a

Belluno; la vicenda del movimento di liberazione

nel Nord Italia; le peripezie di un figlio alla ricerca

del padre.

È Il Partigiano di Piazza dei Martiri (Infinito

edizioni) il nuovo libro di Enzo Barnabà, un fine

lavoro di ricerca con indosso la fresca veste del

romanzo.

L’autore ci regala una storia liberamente ispirata

alle vicende di “Ciro” – la cui reale biografia viene

presentata in fondo al libro – dove le esperienze

vissute dai personaggi concorrono a delineare il

profilo dello stesso Barnabà, narratore ormai maturo

e non più solo linguista o storico.

Perché se è vero che il racconto poggia su ricerche,

documenti e testimonianze, tanto da presentarsi

come una cronaca viva in cui non mancano lo

spirito storico e critico, è altrettanto vero che Il

Partigiano di Piazza dei Martiri si avvale di

un’efficace struttura narrativa, di un godibilissimo

intreccio e di uno stile chiaro e preciso, che facilita

il lettore nel prendere subito parte ai casi dei

personaggi.

Vale la pena ripercorrere la trama: al centro della

vicenda, l’imprevedibile irruzione della figura del

partigiano Salvatore Cacciatore, nome di battaglia

“Ciro”, nel trantran decisamente moderno e irrisolto

del figlio Giulio, sessantenne milanese di origine

siciliana. Giulio ha sempre creduto che il padre – di

cui non porta il cognome – fosse disperso in Russia,

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ma, dopo un colloquio del tutto casuale con un

amico, inizia a dubitarne.

Decide così di scoprire la verità e di intraprendere

un lungo viaggio che lo porta da Milano a

Dubrovnik, dalla Sicilia a Roma, dalla Carnia alle

Dolomiti. Un percorso in cui scopre che il giovane

fascista Salvatore, dopo aver lasciato il seminario

poco prima di prendere i voti, parte alla conquista

della Libia convinto della missione civilizzatrice

dell’Italia. Ben presto, però, fortemente deluso dal

fascismo, lascia il Centro d’addestramento Carristi

vicino Pordenone in cui viene collocato dopo esser

stato ferito in guerra e fa perdere le sue tracce, tanto

da essere ufficialmente dichiarato disperso.

E lo crede disperso anche la fidanzata siciliana, la

bella Saretta, da cui aspetta Giulio, il figlio che non

conoscerà mai.

Ma in realtà Salvatore si reca in Jugoslavia, si

ritrova con i partigiani, assume il nome di

“Kamen”, che significa “roccia”, e sposa l’ideale

comunista. Poi torna in Friuli, combatte nel

battaglione “Gramsci” e opera come capo

partigiano nella zona di Perarolo, dove, con il nome

di battaglia di “Ciro”, compie diverse azioni contro

i tedeschi, finché, forse tradito da alcune donne per

questioni di gelosie, è catturato e impiccato il 17

marzo 1945 a un lampione della piazza principale di

Belluno, quella che sarà chiamata “Piazza dei

Martiri”. Ecco: questa è la storia di Ciro.

E la storia di un pezzo del nostro Paese.

Perché Barnabà non dimentica nulla: la lotta

partigiana per la liberazione dell’Italia, la guerra

civile, le barbarie nazifasciste, le torture, le

persecuzioni.

E nel farlo raggiunge il bersaglio, ovvero quella

capacità di comunicare, far discutere, conoscere.

Lo raggiunge proprio perché, in primo piano,

irrompe la logica romanzesca che riesce a rendere

conto dei fatti.

Il viaggio di Giulio diventa così un travaglio

interiore, un lento e profondo processo di fiera

identificazione con quel padre tanto immaginato

che ora si trasforma in realtà, seppur lacerata.

Barnabà vince la scommessa di essere tanto più

vero quanto più ascolta i suggerimenti della

letteratura.

Egli scrive con convinzione della storia proprio

perché si pone all’ombra del racconto.

Libro veloce, che si apprezza per la mobilità della

prospettiva, Il Partigiano di Piazza del Martiri

lascia al lettore l’impronta pungente dell’ideale,

della passione, della quotidianità, di quegli aspetti

che si riverberano sui padri e sui figli, sulla storia e

su chi la interroga scrivendo.

di Mara Pardini

Enzo Barnabà è

nato a Valguarnera

(Enna) nel 1944.

Dopo la maturità

classica ha studiato

Lingua e letteratura

francese a Napoli e a

Montpellier e Storia

a Venezia e Genova.

Ha insegnato Lingua

e letteratura francese

in vari licei del

Veneto e della

Liguria.

Passato alle

dipendenze del

ministero degli Esteri, ha svolto la funzione di

lettore di Lingua e letteratura italiana presso

l’Università di Aix-en-Provence e di insegnante-

addetto culturale ad Abidjan, Scutari e Nikšić. Vive

a Grimaldi, dove la riviera del ponente ligure si

confonde con quella francese.

Ha pubblicato 15 libri, tra i quali: Le ventre du

python, Editions de l’Aube, 2007; Sortilegi.

Racconti africani (con Serge Latouche), Bollati

Boringhieri, 2008; Morte agli Italiani!, Infinito

edizioni, 2010 (tradotto in francese col titolo Mort

aux Italiens!, Editalie, 2012).

Nel pomeriggio del prossimo 4 marzo grazie a

Feltrinelli Point, con gli amici Enzo Barnabà e

Matteo Collura presenteremo il libro, in Sala rossa

gentilmente messa a disposizione dal Comune di

Savona.

Per Natale mi sono regalato il nuovo libro di

Gabriello Montemagno, nato a Caltagirone nel 1938

e che ha lavorato per 25 anni al quotidiano L’Ora e

per circa 20 anni alla Rai siciliana, nonché autore,

regista e attore teatrale.

Il titolo è Il Babbìo, Storia della stampa satirica a

Palermo e contiene interessanti spunti che

contribuiscono a dare dei Palermitani un’immagine

argutamente autoironica.

Nel dialetto siciliano 'Babbiare' significa 'prendere

in giro', 'sfottere'.

La parola deriva dal termine 'Babbo' che in siciliano

indica una persona scema,stupida, che facilmente si

fa prendere in giro.

Tipica frase in cui viene impiegato il termine

babbiare è: Mi stai babbiando? (cioè: mi stai

prendendo in giro?)

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La stampa umoristica palermitana tra ‘800 e ‘900 fu

fortemente condizionata dal credo politico dei suoi

creatori, non disdegnò l’uso del dialetto e produsse

giornali dai titoli già di per sè identificativi del

contenuto del foglio.

Spesso vi si riscontravano uno o più motti che

caratterizzavano il giornale, le caricature (i

cosiddetti puppazzetti) che accompagnavano gli

articoli erano più o meno esasperate e graffianti e il

tratteggio dei disegnatori locali più noti rifletteva lo

stile artistico del periodo.

Tra i giornali umoristici pubblicati a Palermo dopo

l’unità d’Italia vanno ricordati Belzebù o il diavolo

ambulante, che si dichiarava nel sottotitolo

“gazzetta enciclopedica umoristica” e che si

pubblicò nel 1861;

Il Somaro, quotidiano del 1862; Il Rigoletto,

settimanale umoristico, che si pubblicò dal 1867 al

1875; Momo, settimanale diretto da Pietro Messina,

che ebbe tra i suoi collaboratori Ludovico Perrone

Paladini e che si pubblicò per due anni dal 1869 al

1870 con un buon successo; il famoso Piff! Paff !

Ricordiamo anche Chicot, un settimanale illustrato

diretto da Matteo Dominici, che si pubblicò dal

1882 al 1883, e Papiol. Per quel che riguarda la

stampa più spiccatamente satirica occorre fare un

passo indietro negli anni: già nel periodo dei moti,

in particolare nel biennio 1848-1849, la produzione

di stampa politica dal taglio fortemente sarcastico

era notevole: basti pensare a Non ne posso più

(1848), Pasquino (1848); Il Pio IX e Ferdinando

(1848), I diavoli della Zisa (1863) e La forbice,

quest’ultimo pubblicato nel 1848 e fino al 29

maggio 1849 e riapparso nel 1869 per andare avanti

fino al 1902; infine Il Diavolo zoppo venne

pubblicato settimanalmente con un buon successo

dal 1885 al 1895.

Il volume documenta attraverso una dettagliata

rassegna come l’umorismo e la satira fossero lungo

i due secoli espressione fondamentale dell’attività

intellettuale siciliana e della vita culturale, artistica,

socio-politica e mondana della città di Palermo.

Non é da meno

il prof. Salvatore

Paolino nato a

Modica nel 1939

dove vive sin

dalla nascita e

dove ha concluso

la carriera di

Preside del Liceo

Classico “Tommaso Campanella“.

E’ autore di una raccolta di poesie in dialetto

dedicata alla sua città dal titolo:

Chiddi sì ca èrunu tièmpi ! che ci è stata segnalata dall’amica Franca

M.Ferraris che ringraziamo. Ecco un paio di poesie:

L’ aucieddu ri Masciu Turi

Cummari Pippina,

avi ‘m pièzzu ca num miru

voscia suòru ‘a gnìa Trisìna.

Ni sapiti còrca còsa?

Nun vulissi ca partiu

Senza rarimi l’aucièddu

Ca ci rise ri tinirimi

Fina a cuannu ma mugghieri

Nun turnava ri lu viagghìu.

So pigghiàu cu tantu amuri

chè sa manu ra ma cagghia:

“Stati cueto Masciu Turi,

sacciu comu cuvirnallu:

‘a scagghiola ogni matina,

a lattuchedda a manzuornu

e a cangiarici l’accua

‘na vota o juornu.!

Nun vulissi cummari Pippina

Cà a rituorno ma mugghieri

Nun truvannolo ò sa puòstu

‘u circassi p’o cuartieri.

Si sapissi ca ‘gnia Trisina

Si lu misi ntà sa càgghia

‘a finiri a sparatina

È sicuro, nun si sbàgghia! (traduzione per i non udenti)

L’Uccello di Mastro Turi

“Comare Peppina, è da un pezzo che non vedo

vostra sorella Teresina. Ne sapete qualcosa? Non

vorrei che fosse partita senza prima restituirmi

l’uccello che le avevo dato in custodia fino a

quando mia moglie non fosse tornata dal viaggio.

Se lo prese con tanto amore con la sua mano dalla

mia gabbia.”

“State tranquillo Mastro Turi, so come governarlo:

la scagliola la mattina, la lattughina a mezzogiorno

e il cambio dell’acqua una volta al giorno.”

“Non vorrei comare Peppina che al ritorno, mia

moglie non trovandolo al suo posto, lo cercasse per

il quartiere.

Se sapesse poi che Teresina l’avesse messo nella

sua gabbia, che finisca in sparatoria è sicuro che

non sbaglia!”

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Arà

“Arà chi si rici gnìa Cuncetta

Chi fa nz’arricugghìu vuòscio maritu

O putamentiè ancora a travagghiari

Anchi si ciùi è o scuru ca si fedda?”

“E a bui chi vi n’amporta,ddon Pppinu,

Picchì nun vi faciti i caddi vuosci”

.“Ma picchì v’a picchiati,gnia Cuncetta

Si parra sulu tantu pi parrari.

Aieri mi parsi ca trasì nta ‘gna Razzietta

Chidda ca stapi a Punta e valatedda

Vicinu o tabacchinu ‘i Malantrinu

E vinni rucchieddu e fazzeletta.”

“Ciuttuosto,ddon Pippinu

Ci ata a diri a voscia mugghieri

Ca cuannu ci fa bisita ‘u jarzuni

Ro massaro pi binnirici ‘i ricotti

Mentri siti a travagghari,

ri non pigghairsi ri còllera

e a lamintarisi ciù picca

si ci su’ aumienti ri lu priezu”

ORSU’

Orsù, che si dice donna Concetta, è già rincasato

vostro marito oppure è ancora a lavorare, anche se

già il buio si taglia a fette?

E a voi che ve ne importa,don Peppino. Perché non

vi fate i cavoli vostri?

Ma perché ve la prendete donna Concetta?

Si parla solamente per parlare.

Ieri mi è parso di vederlo entrare da donna Graziella

quella che ha il negozio a “Punta e valatedda”

vicino alla tabaccheria dei Malandrino e vende

rocchetti e fazzoletti. “Piuttosto,don Peppino,dovete

dire a vostra moglie, quando le fa visita il garzone

del massaro per venderle le ricotte, mentre siete al

lavoro, di non farsi prendere dalla collera e a

lamentarsi di meno se ci sono aumenti di prezzo.”

A proposito di prezzi…

"Pur non avendo avuto l'opportunità di frequentare

le 'case chiuse', per altro senza per questo dovermi

scusare o vergognare, magari rammaricandomi in

quanto la sessualità è elemento fondamentale della

vita intima di ciascuno di noi, ho un ricordo

romantico delle 'signorine' che lavoravano sullo

stesso pianerottolo dove abitavo: gentili ed educate

mi volevano bene ed io non dimentico.

E poi, e poi il tempo scapigliato di allora era

sicuramente più morale di quello di oggi avvelenato

da falso perbenismo e intolleranza." (gg)

LE SIGNORINE DI VIA QUARDA

con gli amici ad annusare la notte

un divertissement dell’amico calabro savonese Gianni Gigliotti

Le ricordo bene le signorine! Anni cinquanta, facili

da contattare, il nome e il numero di telefono scritto

sulle pareti del ‘cessi pubblici’, a Savona in via

Aonzo, allora anche con servizio docce perché

pochi l’avevano in casa, settanta lire, compreso un

asciugamano dal colore incerto, un panetto di pietra

pomice spacciato per sapone, con la pedana di legno

scivolosa a rischio trauma e l’acqua a spruzzi alterni

tra il bollente e il sotto zero e dalle ‘cabine‘

affiancate, in genere con soli uomini, a vociare a

gara le più ‘colorite e scurrili parole di questo

mondo’, un quarto d’ora di tempo massimo per

lavarsi e asciugarsi oppure la tariffa raddoppiava,

ovviamente vietato entrare in compagnia ma allora

non si usava.

Eppure che felicità!, cari amici miei, oggi ben oltre i

settant’anni (a questo punto, visto la benevolenza

della vita, è quasi doveroso dire ‘che Dio sempre ci

benedica, viva l’amore e viva… la rima’.

Poi, puliti come polli spiumati, meglio se in

compagnia, tutti a fare caciara e poi il sesso a

pagamento in una delle numerose ‘case chiuse’, le

‘maisons’, in via Quarda, via Fraschieri, corso

Mazzini, vicoli Gallico e Crema: ambienti e

ragazze puliti e dal buon profumo di

lavanda (controllate settimanalmente dalla

Questura, con libretto sanitario severissimo, chi

aveva qualche problema di malattia o altro

obbligata a recarsi in ospedale per i controlli e

cure). Gentilissime e sorridenti, non tutte

giovanissime, che sbarcavano così il lunario spesso

inviando parte del denaro guadagnato ai vecchi

genitori lontani, o per mantenere i figli agli

studi magari privi del padre in quanto in carcere,

con buoni rapporti con i vicini di pianerottolo ai

quali spesso facevano regali a motivo del disturbo

sovente arrecato.

Le signorine prendevano per mano i clienti per

metterli a loro agio accompagnandoli per mano in

camera, si atteggiavano ad amiche, la solita

pantomina, per poi concludere con orgasmi

simulati per evitare che ‘i maschi’ ci restassero

male, con il solito zuccherino: ‘mi hai fatto

impazzire, torna presto’, senza mai sgarrare sui

tempi e soprattutto sulle prestazioni come da

tariffario ben in vista appeso sulla porta interna

oltre che nella sala d’ingresso dove si pagava

anticipatamente alla ‘maitresse’ salvo conguaglio

per eventuali extra richiesti in ‘corso d’opera’.

7

Era il periodo d’oro del contrabbando di sigarette,

centinaia di scatoloni che passavano sotto il naso di

tutti, si nascondevano nelle cantine, nelle dispense,

nei forni a legna, la povera gente guadagnava

qualche lira per la custodia, qualcuno si arricchiva,

ma tutto era pacato, una cosa normalissima e con il

sorriso sulle labbra.

Scriveva Mario Soldati ‘non ho mai perso la

speranza, salendo quella scala, di trovare la donna

della mia vita e la trovavo sia pure per pochi

minuti’.

I preti, nelle loro prediche domenicali in chiesa,

ammonivano di votare ‘la croce’, cioè la

Democrazia Cristiana per non andare all’Inferno,

intanto le Brigate Rosse studiavano il da farsi.

Con la sua rivoluzione giovanile ibrida sociale del

’68, sembrava si dovesse sovvertire il tran tran di

un’Italia bacchettona, ma tutto si è esaurito con ‘i

fiori nei cannoni invece dei proiettili’.

Le signorine, loro no, sempre tranquille e operose a

svolgere il loro mestiere senza ipocriti pudori,

da dieci anni circa traslocate dalle ‘case chiuse ai

marciapiedi’ per via dello sfratto proclamato

da santa Lina Merlin (20 settembre 1958), i

ragazzini potevano facilmente abbordarle, oggi

ancor più facilmente, nessuno chiedeva la loro età,

le malattie veneree proliferano.

Noi, sempre più vecchi e incazzosi, per l’età e gli

acciacchi, prostata infiammata e pancia

debordante, ad arrangiarsi come potevamo, a

inventarci giorno per giorno il piacere della vita, pur

se frastornati da ‘quel mostro invadente di internet,’

con i figli a declassarci perché incapaci di premere

un pulsante e i nipoti a considerarci degli alieni

perché non guardoni dei siti porno.

Fino all’arrivo della ‘pillola blu,’ la rivincita, e che

rivincita!

Noi vecchietti, in quattro e quattr’otto abbiamo

surclassato figli e nipoti sempre più

annoiati, sempre più ammosciati, smarriti nelle

loro crisi esistenziali e ormonali.

"Il mare è sempre uguale /

sbuca dalla finestra in alto della scala /

solo l'odore è diverso /

scivolano i ricordi come gocce di sudore /

ed hanno il sapore dell'acqua salata.

Via Quarda /

dopoguerra /

macerie e povertà /

contrabbando e suoni di sirene.

La trattoria della Francese a cento lire /

la Fratellanza a due passi con il ballo del sabato /

e poi /

e poi gli amici /

si sa come vanno a finire queste cose.

Tutti insieme ad annusare la notte /

in fila dietro la porta /

a contrattare gli spiccioli e le signorine.

Volano le ore /

già si odono i rintocchi della Campanassa /

l'alba s'intrufola rubando i sogni e l'allegria /

c'è profumo di caffè nella stanza /

chiude il casino /

è tempo di fuggire via."

da “Trucioli Savonesi”

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Bello l’incontro con l’ICIT all’Istituto “Boselli”

il 21 gennaio scorso, nel corso del quale abbiamo

potuto assistere al filmato della rappresentazione

teatrale Le spade e le ferite andato in scena a San

Miniato di Pisa nel luglio del 2000.

La visione è stata preceduta dal messaggio che

l’Autrice Elena Bono (classe 1921) ci ha inviato per

l’occasione, a mani della sua più accreditata

biografa e affettuosa sostenitrice Stefania

Venturino, anche lei,scrittrice e giornalista:

"L' Opera ha un senso universale, metastorico, che

trascende gli stessi protagonisti con i loro

temperamenti, pulsioni e passioni personali. Impero

e Papato, i due cardini dell' ordine mondiale,

pretendenti al dominio del mondo, fatalmente

dovevano lottare tra loro, nel segno e nel sogno di

una impossibile unità dello spirituale e del

temporale (prevalendo -ovviamente- per la Chiesa

lo spirituale e per l' Impero il temporale).

8

Fisico e metafisico: termini di un conflitto interno

ad ognuno di noi e che non avrà mai fine se non

con la fine del mondo.

Lo scontro qui si storicizza in due formidabili

personaggi: Federico II Hohenstraufen, nipote del

Barbarossa, e Innocenzo IV Fieschi dei Conti di

Lavagna, già esattori del fisco imperiale e come tali

gratificati in terre, titoli e privilegi dal Barbarossa

stesso. Nemici, un tempo amici e speculari tra loro,

entrambi soccombono stremati dall' immane sforzo,

segnando con la loro fine il tramonto stesso del

medioevo con le sue ideologie o miti che dir si

voglia. La Liguria, coinvolta nella querelle, pagò

duramente la "colpa" di aver dato non solo i natali

ma anche appoggio morale e materiale a Sinibaldo

Fieschi dei Conti di Lavagna.

Straziata, stuprata, insanguinata, l' umile gente

trova la forza civile e cristiana di rialzarsi, di

rialzare cose e chiese, di riprendere a vivere, a

operare, portando così avanti la Storia.

La quale non è gestita unicamente dai potenti ma

grava specialmente sulle spalle della gente

qualunque. Sulle spalle di ciascuno di noi.”

Due grandi attori come Massimo Foschi (Federico

II) e Eros Pagni,(Innocenzo IV), una regia teatrale

affidata ad un maestro delle opere teatrali e

cinematografiche quale Ugo Gregoretti, e la regia

televisiva del siculo toscano Salvatore Ciulla, una

scenografia che completa con uno scenario

costruito, l’architettura medievale della Piazza di

San Miniato hanno danno vita ad una

rappresentazione storica di due archetipi del potere

temporale e spirituale: Le spade.

Nella prima parte, forse la migliore, con i dialoghi

fra Federico II e Pier delle Vigne si evidenzia un

linguaggio drammaturgico che è la fusione di molti

apporti linguistici.

Il polilinguismo di FedericoII figlio di tedeschi,

nato in Puglia, cresciuto in Sicilia con coetanei

arabi che si fonde col protoitalico partenopeo del

capuano Pier delle Vigne.

Un mosaico linguistico di tedesco e francese, che

acquista ulteriore forza dal latino liturgico, che fa

da collante universale.

Forse troppo calcato l’aspetto dittatoriale di

FedericoII “stupor mundi” e la scarsa santità del

genovese Conte di Lavagna (Innocenzo IV), che

nel dialetto dei carruggi, perde la sacralità del ruolo.

Ma le due figure ritrovano una dimensione umana

nella comune attesa della morte,che li riporta in

mezzo a quel popolo cosi vulnerabile (Le ferite), di

fronte allo scontro dei grandi.

In questo mulinare di lingue internazionali ci è

venuto alla mente un proverbio africano che recita:

“Quando combattono gli elefanti, i fili d’erba sono

i primi ad essere schiacciati”.

P.S.

Si narra che solo pochi giorni dopo l’elezione di

Innocenzo IV, peraltro avallata da Federico II, lo

stesso Federico II ebbe la conferma che il papa non

poteva che difendere gli interessi della Chiesa e

commentò:

“Ho perso l'amicizia di un cardinale e guadagnato

l'inimicizia di un papa.”

La curiosità di ricordare o ritrovare le informazioni

sulla nascita della lingua italiana, mi fanno andare

sugli scaffali in alto della libreria (quelli di non

agile consultazione) e tirare giù un vecchio volume:

Storia della letteratura Italiana di F.sco De

Sanctis 1870….

E’un tutt’uno aprirlo alla prima pagina e

condividere con voi l’immediata emozione, con la

promessa che… (segue)

Capitolo I

I SICILIANI

Il più antico documento della nostra

letteratura è comunemente creduto la cantilena o

canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di

Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.

Quale delle due canzoni sia anteriore, è

cosa puerile disputare, essendo esse non principio,

ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata

assai prima, e giunta al suo splendore sotto

Federico secondo da cui prese il nome.

Federico secondo, imperatore d'Alemagna e

re di Sicilia, chiamato da Dante “cherico grande”,

cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel

novelissimo signore, nella cui corte a Palermo

venia “la gente che avea bontade, sonatori,

trovatori e belli favellatori”. E perciò i rimatori di

quel tempo, ancorchè parecchi sieno d'altra parte

d'Italia, furono detti siciliani. Che cosa è la

cantilena di Ciullo?

È una tenzone, o dialogo tra Amante e

Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega

e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo

nelle canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi, e che

trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il

Frustino e la Crestaia.

Ciascuna domanda e risposta è in una strofa

di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre

rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua

è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e

nelle desinenze, mescolata di voci siciliane,

napolitane provenzali, francesi, latine.

Diamo ad esempio due strofe:

9

AMANTE

Molte sono le femine

c'hanno dura la testa,

e l'uomo con parabole

le dimina e ammonesta:

tanto intorno percacciale

sinchè l'ha in sua podestà.

Femina d'uomo non si può tenere.

Guàrdati, bella, pur di ripentere.

MADONNA

Che eo me ne pentesse?

Davanti foss'io auccisa,

ca nulla buona femina

per me fosse riprisa.

Er sera ci passasti

correnno alla distisa.

Acquistiti riposo, canzoneri:

le tue parole a me non piaccion gueri.

La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di

naturalezza e di brio e di movimenti drammatici,

rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di

rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in

forma ancor greggia, ineducata. E perciò il

documento è più prezioso, perchè se l'ingegno del

poeta apparisce ne' concetti e ne' sentimenti e

nell'andamento vivo e rapido del dialogo, la forma

è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino

di quel tempo.

E studiando in quella forma, è facile indurre

che c'era allora già la nuova lingua, non ancora

formata e fissata, ma tale che non solo si parlava,

ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col

suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue

forme tecniche e metriche già fissate.

Chi sa quanto tempo si richiede perchè una

lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda

atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace

che la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato

ancora di formazione, dovea già essere usata da

parecchi secoli indietro.

E ci volle anche almeno un secolo, perchè

fosse possibile una scuola poetica, giunta allora

all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti,

i sentimenti e le forme diventano immobili come un

dizionario e sono in tutti i medesimi.

Come e quando la lingua latina sia ita in

decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle

varie plebi, come e quando siensi formate le lingue

nuove o moderne neolatine, quando e come siesi

formato il nostro volgare, si può congetturare con

più o meno di verisimiglianza, ma non si può

affermare per la insufficienza de' documenti.

Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e

chiarire quistioni filologiche di così alto interesse,

materia non ancora esausta di sottili e

appassionate discussioni.

Si possono affermare alcuni fatti.

La lingua latina fu sempre in uso presso la parte

colta della nazione, parlata e scritta da' chierici,

da' dottori, da' professori e da' discepoli. Ricordano

Malespini dice che Federico secondo seppe “la

lingua nostra latina e il nostro volgare”.

Camilleri - De Mauro. Il dialetto è cosa seria

Questo non è un libro per giovani.

È un colloquio tra due grandi vecchi della nostra

cultura, Andrea Camilleri scrittore e Tullio De

Mauro linguista, che ragionano, discutono,

argomentano della lingua che hanno vissuto.

Camilleri, naturalmente, ne parla da scrittore, cioè

racconta della sua lingua, di quella speciale maniera

siculo-italiana che ha inventato e che è diventata

una sorta di koinè tra i suoi ammiratori (e

ammiratrici).

A De Mauro invece sta più a cuore lo stato di salute

culturale del paese, anche se ogni tanto anche lui

lascia affiorare qualche vena di autobiografia

linguistica.

Tra le due prospettive, che si intrecciano, si

incontrano, spuntano frammenti e episodi minuti

(piccole storie, battute di persone illustri e no,

schegge di vita) spesso di irresistibile comicità.

Inoltre si costruisce, sempre più nitido, il quadro

inquieto del nostro passato linguistico.

Anzitutto per quanto riguarda il posto del dialetto.

«Il dialetto è sempre la lingua degli affetti» dice

Camilleri, «un fatto confidenziale, intimo,

familiare».

10

Ma De Mauro lo contrasta: «A Venezia come a

Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il

dialetto».

I dialoganti concordano però sul fatto che sui

dialetti si è abbattuta nella storia italiana, dal

fascismo in poi, una serie di attacchi che hanno

finito per sfibrarli, senza riuscire a sopprimerli.

Infatti (ricorda De Mauro) i dialetti esistono ancora

e sono parlati diffusamente, ma non hanno più un

supporto solido. Ciò che è andato perduto è «la

trama di cultura materiale che era la cultura dei

campi e la cultura dei mestieri».

Il racconto della nostra storia linguistica recente

quale affiora dagli interventi di De Mauro è del

resto il racconto di una serie di sconfitte.

Anzitutto quella di tutti i progetti educativi

riguardanti la lingua e le capacità connesse: al

fallimentare sforzo del fascismo di unificare

linguisticamente il paese e di estirpare la "mala

pianta" dialettale si somma lo scacco degli obiettivi

concepiti a partire degli anni Settanta. De Mauro ne

ricorda impietosamente gli effetti: oggigiorno

«cinque italiani ogni cento sono incapaci di leggere

e capire qualche parola scritta.

Solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura

superando il secondo questionario [di alcune

indagini internazionali] e a rispondere bene al terzo,

quarto e quinto questionario. Il 71% non ce la fa...».

Maliziosamente, Camilleri tira fuori un esempio dal

linguaggio dei media: «Nei giorni del terremoto in

Emilia il corrispondente [di Sky Tg24] ha detto: "ci

sono sciacalli in giro che vanno nelle case

abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a

fare rappresaglia di tutto quello che trovano"».

Nel dialogo i media appaiono del resto come uno

dei principali avversari di una lingua di decente

livello, insieme al radicato animus burocratico del

paese e la provinciale dipendenza nei confronti

dell'inglese e di ogni infima moda originante da

culture "forti". La natura della letteratura è un altro

degli assi di questo intrigante volumetto.

Camilleri, non a caso, ama nei “Promessi Sposi”

l'andamento cinematografico e la «narrazione visiva

straordinaria».

Si proclama «uno scrittore di cose» (anche se i suoi

lettori sono attratti forse più dal suo linguaggio).

E racconta di come si rese conto che non era

l'italiano la lingua giusta per le sue storie: «Sentivo

che il mio italiano aveva un respiro corto».

A trovare la "sua" lingua arrivò quando, dopo aver

raccontato la trama del suo primo romanzo al padre

malato, questi gli suggerì di metterla per iscritto

come l'aveva raccontata a lui, cioè con quel «misto

di italiano e siciliano» che si usava nella sua

famiglia, dove l'italiano «lo adoperavamo per

sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le

distanze, per dire "te lo dico una volta e per tutte"».

Ho detto all'inizio che questo non è un libro per

giovani.

La discussione di cui dà conto è infatti quasi per

intero incentrata sul passato, recente o remoto.

In questa dimensione, lo scrittore risulta per così

dire più appagato del linguista: specchiandosi nel

passato Camilleri ha guadagnato un linguaggio e

una maniera; De Mauro invece ha dovuto registrare

una serie di storiche sconfitte (circa

l'alfabetizzazione, la diffusione della cultura di

base, la qualità del linguaggio pubblico...).

Poco o nulla si dice di quel che ci aspetta. Camilleri

sembra fiducioso che le lingue di immigrazione

possano arricchire l'italiano, anche se nulla finora

dà conferma di questo fatto.

L'emergere di nuovi ceti, nuovi media e nuovi set

comunicativi, unito al degradarsi della qualità

dell'istruzione e della trasmissione del sapere ci

preparano sicuramente nuovi, non necessariamente

affabili, modi di usare la lingua e le lingue.

Che i due dialoganti abbiano deciso di non farne

parola per non lasciare l'amaro in bocca al lettore?

Acireale

Il Carnevale Siciliano

Il Carnevale è sempre stato e sempre sarà il

sinonimo della licenziosità, del divertimento

estremo, dello sfarzo nel gioco, nel travestimento e

nella tavola.

Anticamente i festeggiamenti legati a questa

manifestazione profana e folcloristica duravano più

di un mese, a partire dal giorno seguente l'Epifania

e fino al giungere della più triste ed austera

Quaresima, ma dopo il terremoto dell'undici

gennaio 1693 (ne abbiamo parlato il mese scorso)

la durata della festività incominciò ad esser ridotta

ed attualmente essa dura una settimana da anteporre

alla Quaresima che essa anticipa.

11

Tra le maschere siciliane più caratteristiche del

passato occorre decisamente ricordare quelle dei

"Jardinara" (giardinieri) e dei "Varca" note

soprattutto nella provincia di Palermo e quella di

Abbatazzu della tradizione siciliana, durante

l'antico e famoso Carnevale barocco di Acireale,

storicamente in uso dal 1667 in provincia di Catania

e gemellato con il Carnevale di Viareggio.

Vestito in maniera stravagante, usava portare grandi

parrucche bianche in testa, indossava abiti di

damasco ricchi di fronzoli ed andava in giro con

grossi libri, irridente a nobili ed ecclesiastici ma con

l'autorizzazione della Chiesa.

Aveva un grande tovagliolo appeso al collo, che era

un antico segno dato alle persone infette e

probabilmente aveva l’intento di esorcizzare le

paure di un periodo storico (il XVII secolo)

travagliato da gravi pandemie.

L’Abbatazzu era anche detto Pueta Minutizzu

perché soleva recitare delle poesie grottesche e

maliziose. Secondo alcuni storici, la maschera

ironizzava sulla classe clericale del tempo, ed in

special modo sull’Abate-Vescovo di Catania, Mons.

Michelangelo Bonadies, nella cui diocesi ricadeva

per l’appunto la cittadina.

Tra le altre maschere tradizionali del passato si

possono ricordare quelle che servono da parodia ai

maggiori esponenti delle classi sociali cittadine: si

hanno così le innumerevoli rappresentazioni dei

"Dutturi", dei "Baruni" e degli "Abbati".

Il carnevale si sarebbe diffuso grazie ad alcune

famiglie provenienti da Napoli, “i Napuliti”:

sarebbero stati loro, all’inizio dell’800, a dare vita

ai primi festeggiamenti del Carnevale e a portare in

Sicilia le prime maschere di “u Nannu ca’ Nanna” e

i momenti tradizionali della festa: la “bruciatura del

Nannu” e la“lettura del testamento”.

Il nanno (nonno) è un personaggio bassino e

rubicondo simbolo dell’allegria e dello stesso

Carnevale che, tra folklore e leggenda, viene

bruciato al rogo il martedì grasso.

La sua morte avviene dopo la lettura del testamento

da parte del‘notaro Menzapinna (Mezzapenna) e

rappresenta la fine dell’abbondanza e dell’allegria

ma anche una sorta di rito di purificazione.

Con le lacrime della Nanna, che rappresenta la

fertilità e l’abbondanza ma anche il dolore per

l’arrivo della penitenza, si celebra la fine del

Carnevale e l’inizio della Quaresima.

Anche il fasto culinario legato al Carnevale è un

degno segnale dell'abbondanza della ricorrenza:

durante questa settimana si fa largo uso di sughi di

carne e di pietanze elaborate, come i "maccheroni

al ragù" e l'antico "Minestrone del giovedì

grasso" preparato nella Contea di Modica (prevede

di unire non solo le classiche verdure come le

patate, le fave secche sgusciate, una cipolla,

prezzemolo, sale e pepe, ma anche il lardo di maiale

privato di cotenna e tagliato a cubetti), di dolci

ricchi come le "Teste di Turco" ( frittelle dolci

ripiene di crema ed uva passa prodotti a Modica-

Rg-) e dolci meno elaborati come la "Pignoccata"

(dolce preparato impastando farina, tuorli, zucchero

ed un pizzico di sale; l'impasto così preparato è

tagliato in tocchetti successivamente fritti in sugna

bollente, sgocciolati e decorati con miele allentato

con acqua d'arance e spolverati di cannella spellata;

il dolce prende questo nome perché assume la

forma di pigna).

Ma il Carnevale è soprattutto una festa da ballo con

la "quadriglia o Controdanza" .

Un tempo serate di ballo se ne contavano a dozzine,

e le numerose sale addobbate venivano visitate da

gruppi mascherati, costituiti da persone di età

diversa che per una o più sere diventavano bambini,

coperti com’erano da abbigliamenti insoliti, per lo

più da capi di vestiario rivoltati e strani, o con il

solo “dominò“ e un velo sul viso per non farsi

riconoscere, o una maschera: guidava il gruppo il

"bastoniere", chiamato così per il bastone che

portava, il quale entrava per primo nella sala

decorata (generalmente era la sala da pranzo) e

"ordinava" il ballo.

Durante il ballo si ricercava da parte di tutti di

riconoscere le identità dei mascherati, impresa

chiaramente non facile e comunque, a tutti,

riconosciuti o meno, non si negava un po’ di

rosolio, un buon bicchiere di vino e qualche

dolcetto tipico (tutu e catalani, chiacchere, biscotti

all’uovo).

12

La Controdanza, importata probabilmente in Sicilia

dai Normanni, è un ballo tipico, con passo

cadenzato francese, effettuato con efficacia durante

il periodo di Carnevale, inoltre, nelle feste paesane,

e specialmente nelle antiche feste nuziali.

Una danza comandata, dove i partecipanti

eseguivano delle figurazioni, delle coreografie,

appunto, sotto le disposizioni del cosiddetto

“caposala”.

La musica che si effettuava in questa danza

sembrava battere il ritmo del canto delle cicale,

mentre il suono acuto di un "fischietto” pretendeva

di rappresentare la gioia delle coppie che, con

allegria, danzavano e creavano armonia, con

riverenze e figure di danza, fino nelle mattinate.

Ricordiamo anche, che la quadriglia o controdanza,

ballo che risale al XVII secolo, faceva parte delle

“danze di società” ed era considerata una danza

“calata” dai ceti più alti alle classi popolari.

La quadriglia si balla in famiglia, balla la madre, il

padre e la figlia - come diceva una famosa canzone

popolare degli anni ’50.

Riportiamo il testo antico in siciliano, della

CONTRODANZA SICILIANA:

Attenzioni, prufissuri, maestri valenti,

dami e cavaleri.

Ccu tanta aliganza

ora ci abballamu ‘na bilissima contradanza;

e la cumannu ccu tantu amuri. . .

Musica prufissuri!

- i cavaleri ccu stu’ pinzìnu

a la so’ dama fari ‘n inchinu

facci ccu facci ccu la distanza

abballamici ‘sta bedda contradanza

- l’omu e la donna manu ccu manu. . .

prestu lu cicculu cumminamu

- l’òmini fremmi, li vrazza a ponti,

li donni nsutta pàssunu sfronti

(Attenzioni ppi tacchi a spillu!)

- chi festa ‘i ballu, chi contradanza,

chi beddi coppi di grandi ‘mputtanza!

- ‘sta contradanza mi pari scinàriu,

giramu tutti a lu cuntrariu

- chi sona beddu u maestru Falconi.

Abballamu tutti ccu soddisfazioni

(lagghi abballàmu ca’ cauru c’è!)

- c’e don Giuvanni ca pari ‘na nuzza,

lassu a Lola e mi pigghiu a Santuzza

- c’abballa bedda a signura Ciccina! . .

Ogni cavaleri cangia ‘na signorina

- forza! Abballamu cummari Lucia,

‘sta contradanza potta l’alligria

- c’e’ u chitarrista cca nasca additta.

Giramu tutti a manu ritta. (Beni chi balla!)

- v’ha cumannatu ccu tanta ‘mputtanza,

ci fazzu applarisi a ‘sta contradanza.

Ogni singolo brano viene denominato Caddozzu

(il nodo della salsiccia) e la buona riuscita di questa

danza è affidata al maestro che la guida e alle dame

e cavalieri che prendono al volo i suggerimenti per i

vari passi.

Ora sta al maestro eseguire i vari caddozzi,

mischiarli e personalizzarli.

I° CADDOZZU

O fimmini sciacquati e tisi

Omini beddi,bravi e curtisi,

Facemu tutti 'na granni rota,

'Na cuntraddanza cu vota e svota:

Mittemu subitu sta rota avanti

Cu 'na quadrigghia la cchiù brillanti;

Però, amiciuzzi , faciti un inchinu

Prima a la fimmina chi è a vui vicinu,

Poi accuminciati , signuri cari,

Vutannu a dritta senza stancari

A manu manca vutannu puru

Canciari è beddu mossi e figuri .

O fimmineddi , vutati arreri,

Vutati tutti, gran cavaleri;

Cchiù di 'na soggira sugnu siccanti,

Vutassi arreri stu gran vulanti.

Ora facemu lu valanzè,

Facemu tutti lu turdimè

E doppu chistu ,picciotti beddi,

Purtamu a spassu li cumpagneddi

E iemu sempri pi a stessa via,

Canciamu donna,pi curtisia.

Lassamu a chista cchiù picciuttedda:

Chista di ccà è donna di sfrazzu,

Damucci tutti lu nostru vrazzu;

Chist'autra avanti stidda è di luci,

13

Biata a chiddu chi la cannuci!

Lassamu a chista ch'è grossa grossa,

Pigghiamu a chista ch'è tutta ossa

Ed è chist'autra donna frizzanti

Prestu picciotti , passamu avanti!

'Un vogghiu fari sta vista cchiui

è nta 'na vota nni canciu dui.

Ora, signuri, cuntrè facemu

Picchì stancuzzi , sudati semu,

Canciamu sempri pi nostri beni

Picchi li fimmini su 'guai e peni;

Canciamu ancora sempri girannu ,

Picchì li donni sunnu malannu,

Chista è 'na fimmina ca 'un ridi mà:

Prestu, canciamula pi carità!

Lassamu a chista tipu modernu

Chi tutti l'omini voli a lu 'nfernu;

Adaciu vaiu e poi accussì

Stavolta ,amici, nni canciu tri.

Lassassi ognunu qualunqui amica:

Doppu sta vesta lu beddu è

Di fari tutti lu turdimè,

Lu turdimè sulu nun stà,

Facemu tutti lu cumprimà….

( seguono altri che vi ricorderemo negli anni a venire)

Maccaruna ca sasizza di maiali

È la classica pietanza del Carnevale siciliano, ma

che negli ultimi decenni ha accentuato la tendenza

al regresso, anche perché le donne di casa sempre

meno sono indotte a cominciare all’alba o alla

vigilia, a preparare i teneri maccarruna, ricavati da

un vigoroso impasto di farina di semola e solo

acqua tiepida.

Quando la pasta è ridotta a lunghi cordoncini dello

spessore di un grissino, si taglia a pezzetti lunghi

qualche centimetro.

Poi, con un abile movimento del palmo della mano,

le donne premono sui tocchetti di pasta fresca gli

spiti (spiedini, ferri da calza) ed è bravissima chi,

nello stesso tempo, riesce a confezionare cinque o

sei maccarruna cu puttusu (col buco) alla volta.

Sfilati dai ferri i maccheroni vengono allineati sulla

candida tovaglia per asciugare.

Poi bisognerà coprirli con altre leggere tovaglie,

affinché possano riposare nel pulito.

La tradizione imporrebbe che venissero usati

sovrapposti l’uno all’altro a gruppi di 4 dando luogo

ai famosi maccheroni a 5 puttusa.

Andranno lessati in abbondante acqua salata e,

scolati al dente e subito informaggiati, vanno girati

nel tegame dove è stato preparato il “gran ragù

della festa. Il ragù che rappresenta il festival del

grasso del maiale.

Per quattro persone circa quindi basteranno

600 grammi di pasta con i cinque buchi (in realtà

sulle tavole siciliane per quattro persone se ne

butta un chilo e mezzo) per un ragù che contempla:

300 grammi di cotenna,

400 grammi di salsiccia,

300 grammi di puntine di maiale,

1 litro di passata di pomodoro

3 cucchiaini di concentrato di pomodoro,

1 cipolla bianca molto grande, sale e pepe per

condire (facoltativo: 1/2 bicchiere di vino rosso),

olio extra vergine di oliva e foglie di alloro

Soffriggere la cipolla in olio extra vergine di oliva.

Aggiungere quindi la salsiccia tagliata a pezzi

grossi (non importa se giganti perché se proprio

vogliamo attenerci alla tradizione bisognerebbe

lasciare interi i caddozza nodi.)

14

La cotenna a strisce larghe (leggermente

sbollentata prima a meno che non piaccia l’effetto

chewing gum – ruminante) ma non troppo e le

puntine.

Far cuocere sfumando poi con un mezzo bicchiere

di vino rosso e in questo momento aggiungere

qualche foglia di alloro (da togliere a fine cottura).

Aggiustare di sale e pepe e aggiungere quindi il

pomodoro e il concentrato ma solo se piace il gusto

più intenso.

Lasciar cuocere adesso a fuoco lento fino in modo

che la salsa impregni tutta la carne e la insaporisca.

Condire quindi la pasta con questa salsa e qualche

pezzettone di carne se si vuole.

Tradizione vuole che venga servita in due modi.

La prima è la pasta soltanto condita con il sugo e la

carne a parte come secondo.

La seconda prevede invece la presenza della carne

nella pasta.

(certo ritrovarsi pezzettoni abnormi di cotenna in

mezzo alla pasta potrebbe far mancare un

commensale a caso ma che importanza ha? Basta

essere in tanti in tavola e non ci si accorge

nemmeno del malcapitato. Non ultimo muore felice.

Vorrebbe pure lamentarsi?).

Dite che è grasso?

Si il giovedì è anche il martedì ,

mentre le Ceneri sono dietro l’angolo…

Insomma, non cominciamo con i soliti discorsi:

il colesterolo, i trigliceridi, le stesse camurrìe…

“Lu joviri di lu zuppiddu cu’ ‘un si cammarra

è peggiu pi iddu”

E’ il giovedì grasso precedente la festa vera e

propria: lo “zoppetto” era una delle tante

personificazioni del diavolo, che aveva il compito

di pervertire gli uomini mediante la voluttà,

l’allegria e la spensieratezza, il termine “cammarsi”

equivaleva a significare mangiare grasso con

l’obbligo di darsi alle grandi abbuffate.

VECCHIO PAZZO

Carnevale vecchio e pazzo

S'è venduto il materasso

Per comprare pane, vino

Tarallucci e cotechino

E mangiando a crepapelle

La montagna di frittelle

Gli è cresciuto un gran pancione

Che assomiglia ad un pallone

Beve, beve all'improvviso

Gli diventa rosso il viso

Poi gli scoppia anche la pancia

Mentre ancora mangia, mangia

Così muore il Carnevale

E gli faremo il funerale

Dalla polvere eri nato

E di polvere è tornato.

(Gabriele D'Annunzio)

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Raccolta di detti e proverbi siciliani

“Il proverbio è l’ingegno di un uomo e la saggezza

di tutti”

(Bertrand Russell)

A cani vecchiu, lu vurpi ccì piscia.

A cavaddu maghiru, Diu ccì manna muschi.

A ccù ad atru fà……ad atru luci.

A ccù assà, a ccù nenti.

A li picciotti masciddi russi, a li vecchi

sgracchi e tussi.

All’antu, picciotti.

A lu malu omu e a la mala fimmina…dunaci di lu

tò ed appizzaci li spisi.

A lu piritaru ccì vinni la tussi.

A lu cavaddu ‘mmidiatu ccì luci lu pilu.

Amatu nun sarai si sulu a tìa pinsirai.

Amuri e gilusia, su sempri ‘ncumpagnia.

Annata bisesta, biatu cu resta.

A paisi d’unni và, comu vidi fari fà.

Arcu siritinu, fa bon tempu a lu matinu.

A Santu chi nun suda, nun ti cci addinucchiari.

A spizzica e muddica.

A tavula ci voli facci di ‘monacu’.

A ccù avi li ‘murriti’ si li gratta.

A ccù ci ardi ‘la spina’….si la tira.

A ccù ci mancia la testa…..si la raspa.

A ccù ti duna pani, dicci “Patri”.

A ccù tuttu prumetti, tuttu creditu nun dari.

A ch’è riduttu lu ‘gaddu’ di Sciacca…

a essiri pizzuliatu di la jocca.

A chi jocu jucamu?

A chiummu ccì semu, a liveddu videmma,

levati di sutta prima chi cadi.

A la morti si scummoglianu li ‘detti’ e li

‘difetti’.

A la squagliata di la nivi si vidinu li pirtusa.

A lavari la testa a lu sceccu,si perdi acqua, sapuni

e tempu.

A lu dutturi, cunfissuri e avvucatu, cunfessaci cù

virità lu tò passatu.

A lu muru guasciu, ognunu si cì appoia.

A lu surci vecchiu nun s’inzigna la tana.

A lu malu omu e a la mala fimmina…dunaci di lu

tò ed appizzaci li spisi.

A lu paisi c’un sì canusciutu, comu sì vistu sì

rassumigliatu.

A lu pruvatu nun stari à pruvari, cchiassà lu

provi..cchiù tintu ti pari.

A lu tignusu: nnà crusta cchiù, nnà crusta menu.!

A lu veru amicu parlacci chiaru.

Ammatula si pisca, sì all’amu nun c’è lisca.

A navi rutta ogni ventu è contrariu.

A risicu sì piglianu li gabelli.

A tempu di dilluviu, tutti li ‘strunza’ natanu

A vecchi e stranii nun ci aviri fidi.

Abballati,abballati….fimmini schetti e maritati.

A ‘bbrigli sciorti.

Accatta e pentiti

Accatta e vinni quannu sì priatu e fatti zzitu

quannu si ’nningatu.

Accussì è lu munnu: cù acchiana e cù và à

funnu.

Accussì è lu munnu: cù godi e cù campa

suspirannu.

Acqua davanti….e ….ventu ‘darrè.

Acqua d’agustu, ogliu, meli e mustu.

Acqua d’Aprili, frummentu cu li varliri.

Acqua di frivaru inchi lu granaru.

Acqua e focu nun ci cogliri ‘mprisa.

Acqua e sali a li magari.

Acqua e suli fa lu lavuri, acqua e ventu fa lu

frummentu.

Acqua passata nun macina mulinu.

Acqua, cunsigliu e sali a cù nun ti

l’addumanna nun ci ‘nnì dari.

Addiccari e disdiccari.

Ad unu, ad unu, senza ammuttari!

Affunna bona la zappa a la vigna, e scippa la

mal’erba e la gramigna.

Agghiorna e scura e su sempri vintiquattruri.

Agliuttiri ‘feli’ pì ‘meli’….muccuna amari.

Agneddu a sucu e finìu lu vattiu.

Aguriu di strata e trivulu di casa.

Agustu e rigustu è capu di ‘mmernu.

A jornu si vidi cu persi la scarpa.

Aju li gammi ca’ mi fannu giacumu…giacumu.

Aju ‘nnà fami ca nun cci viu di l’occhi.

Aju raggiuni e mi la manciu scasdata.

Aiutarisi cu li mani e cu li pedi.

Aiutati ca Diu t’aiuta.

A li grana, ca lu surbizzu è lestu !

A li ‘nfilici e a li disgraziati, ccì chiovi ‘ntà lu

culu anchi quannu su’ assittati.

A li vicchiagli ‘nzantiu.

All’annigatu, petri di ‘ncapu..

All’omu vecchiu e a lu cavulu hjurutu….

zoccu c’è fattu…c’è pirdutu.

All’ortu e a lu mulinu…vacci d’ammatinu.

Altizza…mezza bbìddizza.

A lu cavaddu ‘mmidiatu ccì luci lu puli.

Ama l’omu tò, cu lu viziu sò.

Per i non udenti la traduzione verrà fornita a richiesta

16

ATTUALISSIMA!

Una suora va dal medico:

“Dottore, ho un attacco di singhiozzo terribile,

sono già due giorni. Non riesco a mangiare e men

che meno a dormire”

“Stia calma che adesso la controllo”

Terminata la visita le dice:

“Ma sorella, lei è incinta!!”

La sorella si alza immediatamente e presa dal

panico esce di corsa dall’ambulatorio.

Un’ora dopo il medico riceve una telefonata dalla

madre superiora del convento:

“Dottore, ma che cosa ha detto a sorella Carmen?”

“Madre superiora, sorella Carmen aveva un

attacco molto forte di singhiozzo e per guarire

questa malattia la cura migliore sono dei grossi

spaventi e così le ho detto che era incinta. Ha

smesso di singhiozzare?”

“Sì, sorella Carmen ha smesso di singhiozzare,

ma padre Paolo si è buttato dalla finestra… -------------------

APPUNTAMENTI DA NON PERDERE

SINO AL DUE FEBBRAIO

La bella mostra di un caro amico e grande Maestro

Consorzio Associativo Officine Solimano

VENERDI 31 GENNAIO

NUOVOFILMSTUDIO PRESENTA

Festival Desaparición

ore 19.00 - incontro con il

Ministro argentino Carlos

Cherniak per parlare di

Argentina, dittatura e Hijos,

i figli dei desaparecidos

argentini.

ore 20.30 - proiezione del

film documentario “Il sorriso

del capo”.

SABATO 1 FEBBRAIO ore 20,30

CATTIVI MAESTRI PRESENTANO

Quei filini blu, di Silvia Nati.

Con Silvia Nati e Roberta Fornier. Autoproduzione.

Regia di Annapaola Bardeloni.

Ispirato dalla storia una giovane deputata

dell'attuale Parlamento argentino, lo spettacolo

racconta di una ragazza che, ormai adulta, scopre di

essere figlia di desaparecidos.

Durante l'ultima dittatura argentina, i veri genitori

di Victoria vengono arrestati e inghiottiti dalla

terrificante macchina di repressione dei generali.

Victoria nasce nel centro clandestino di detenzione

della Marina, la ESMA, dove la madre è reclusa.

Le prigioniere incinte subiscono tutte lo stesso

destino:

partoriscono, allattano i figli per una quindicina di

giorni e poi sono eliminate con i famigerati "voli

della morte", mentre i neonati vengono adottati da

famiglie di militari o simpatizzanti del regime.

Così la ragazza cresce inconsapevole delle sue vere

origini fino al momento della rivelazione.

A quel punto deve fare i conti con una vita vissuta

nella menzogna, con gli affetti di quella famiglia

che considerava sua e con la nuova famiglia che le

si apre davanti, quella dei parenti dei suoi "veri"

genitori.

Come accettare una nuova identità?

Come abituarsi a un nuovo nome? Si può diventare

una nuova persona solo perché si accetta di

riacquistarne il nome? Raccontare questa storia

significa raccontare la storia dell'Argentina degli

ultimi quarant'anni.

17

È la storia dei trentamila desaparecidos, è la lotta

delle coraggiose Madres e Abuelas de Plaza de

Mayo che ancora oggi si battono per la giustizia e la

memoria dei propri figli e nipoti.

È la storia di un paese che finalmente decide di fare

i conti con il passato riaprendo i tribunali e

abolendo le leggi di impunità di cui i militari hanno

goduto per anni.

Identità imposta, identità personale, identità

acquisita. Identità di un popolo.

GIOVEDI 6 FEBBRAIO ore 21

NUOVOFILMSTUDIO PRESENTA

Il cinema dei ragazzi

dell’insegnante Emilio Sidoti

Un incontro sulla prima esperienza nazionale di

Scuola attraverso il Cinema, ideata e realizzata dal

maestro Emilio Sidoti.

Un modello analizzato e studiato anche in ambito

internazionale in cui il maestro elabora una sua

metodologia filmica, articolata in due filoni:

- Cinema con i ragazzi in cui l’educatore propone

il soggetto, lo sceneggia insieme alla scolaresca e

cura le varie fasi della regia, mentre i bambini

interpretano i vari personaggi.

Questo mira a sviluppare l’intelligenza critica e a

formare l’uomo e il cittadino.

- Cinema dei ragazzi in cui l’educatore si riserva

un ruolo di supporto tecnico, mentre il vero autore è

il singolo bambino.

Così il cinema diventa mezzo di auto espressione:

dei sogni, del punto di vista, delle fantasie, dei

disagi e dei problemi.

Alla presenza del maestro, saranno proiettati e

successivamente dibattuti, tre lavori realizzati nel

periodo 1968–1973 dalla Scuola Elementare di

Albisola Superiore: San Francesco e il Lupo 3° film con i ragazzi,

classe prima, 1968-69, 50’

Versione della famosa leggenda dei Fioretti

incentrata su quel “Tu hai fatto male perché avevi

fame”, con cui il Poverello di Assisi giustifica il

Lupo.

Per coinvolgere tutti i bambini il maestro riscrive e

arricchisce la vicenda trasformandola in un soggetto

fantasy che, narrando di un favoloso medioevo,

parla anche dell’oggi.

La leggenda, dopo una prima narrazione orale,

diventa un’accattivante materia di studio

quotidiano.

Al momento del primo ciack, non solo i bambini

hanno raggiunto, senza annoiarsi, i livelli

d’istruzione fissati dai Programmi per la prima

classe, ma sono tutti “nella parte”.

Tarzan Basso

6° film dei ragazzi, super 8 su DVD, classe quinta,

1972-73, 6’ Mauro è uno scolaro negligente e

problematico, ma ha una fissazione: Tarzan, fino al

punto di firmarsi sui quaderni anziché Mauro

Basso, Tarzan Basso.

Un giorno il maestro gli propone, per recuperare la

sua attenzione, di girare un film scritto, sceneggiato

e interpretato da lui stesso: un film su Tarzan.

Mauro s’illumina tutto e scrive subito un’avventura

di Tarzan.

Allora l’insegnante organizza una ricerca sulle

foreste pluviali e su quel centro d’interesse la classe

s’impegna per circa un mese. Il maestro intanto

impara che anche il disagio infantile può diventare

uno stimolo per l’insegnamento.

Tarzan Giorgio 7° film dei ragazzi, super 8 su

DVD, classe quinta, 1972-73, 8’

Da mesi la classe quinta frequentata da “Tarzan

Basso” conduceva una ricerca sull’inquinamento

ambientale.

Il piccolo Giorgio Fazio, l’alunno che aveva

collaborato al Tarzan di Mauro, opera allora una

congiunzione dei due temi. Giorgio intuisce che, in

un mondo condannato all’inquinamento, per il re

della giungla non v’è più spazio e allora scrive il

soggetto per un secondo film su Tarzan.

La storia è tutta una fuga: assediato dai miasmi,

strozzato da fumi e da fetori tossici, l’eroe della

selva pluviale è costretto a cercare scampo altrove.

Dove?

Nella città satura di veleni.

18

DOMENICA 2 FEBBRAIO ore 22

RAINDOGS PRESENTA

A Sud

Viaggio musicale verso l’Argentina

Recital musicale con Annapaola Bardeloni, Nicola

Calcagno e Stefan Gandolfo. Trabateatro.

L’Argentina... la terra promessa, il tango, il mate,

i gauchos, la carne, la Casa rosada, il Rio.

L’Argentina sognata, l’Argentina delle cartoline e

dei depliant che pubblicizzano “la terra d’argento”

... cosa sappiamo dell’Argentina?

La musica argentina, come quella di tanti paesi sud

americani, ha dentro tre interi continenti:

l’America delle origini, l’Europa dei conquistatori e

l’Africa degli schiavi.

Questa serata ci passa in mezzo tenendo uno

sguardo lontano, attento e rispettoso.

Questa serata in musica non vuole “scimmiottare”,

vuole omaggiare con amore da lontano un paese

accogliente, dove le contraddizioni si trasformano

in creative meraviglie.

Fuori dagli schemi raccontiamo in musica un

viaggio nel tempo attraverso la musica argentina.

“Quanto mare...”

“Si se calla el cantor calla la vida”

dice una canzone popolare argentina.

“Se tace il cantore tace la vita”

Perché la musica è vita e racconto e denuncia e

poesia e salvezza.

Francesco Guccini la cantava così nel 1983:

Il treno, ah, un treno è sempre così banale se non è

un treno della prateria o non è un tuo "Orient

Express" speciale, locomotiva di fantasia.

L' aereo, ah, l' aereo è invece alluminio lucente,

l' aereo è davvero saltare il fosso,

l' aereo è sempre "The Spirit of Saint Louis" ,

"Barone Rosso"

e allora ti prende quella voglia di volare che ti fa

gridare in un giorno sfinito,

di quando vedi un jumbo decollare e sembra che

s' innalzi all'infinito.

……E allora, perchè non andare in Argentina?

Mollare tutto e andare in Argentina, per vedere

com'è fatta l'Argentina.

Il tassista, ah, il tassista non perse un istante a dirci

che era pure lui italiano, gaucho di Sondrio o

Varese, ghigna da emigrante, impantanato laggiù

lontano.

Poi quelle strade di auto scarburate e quella gente

anni '50 già veduta, tuffato in una vita ritrovata,

vera e vissuta, come entrare a caso in un portone di

fresco, scale e odori abituali, posar la giacca, fare

colazione e ritrovarsi in giorni e volti uguali,

perché io ci ho già vissuto in Argentina, chissà

come mi chiamavo in Argentina e che vita facevo in

Argentina?

Poi un giorno, disegnando un labirinto di passi tuoi

per quei selciati alieni ti accorgi con la forza dell'

istinto che non son tuoi e tu non gli appartieni, e

tutto è invece la dimostrazione di quel poco che a

vivere ci è dato e l' Argentina è solo l' espressione

di un' equazione senza risultato, come i posti in cui

non si vivrà, come la gente che non incontreremo,

tutta la gente che non ci amerà, quello che non

facciamo e non faremo, anche se prendi sempre

delle cose, anche se qualche cosa lasci in giro, non

sai se è come un seme che dà fiore o polvere che

vola ad un respiro.

L' Argentina, l' Argentina, che tensione!

Quella Croce del Sud nel cielo terso, la capovolta

ambiguità d' Orione e l' orizzonte sembra perverso.

Ma quando ti entra quella nostalgia che prende a

volte per il non provato c'è la notte, ah, la notte, e

tutto è via, allontanato.

E quella che ti aspetta è un' alba uguale che ti si

offre come una visione, la stessa del tuo cielo

boreale, l'alba dolce che dà consolazione e allora,

com'è tutto uguale in Argentina!

Oppure, chissà com'è fatta l' Argentina, e allora...

"Don't cry for me, Argentina"...

Hasta luego

E un affettuoso saluto alla nostra cara

corrispondente da Rosario in Argentina

Ada Lattuca.

Santuzzo