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1 2016 numero 3 Aprile Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Finalmente lo scorso mese è uscito il secondo libro della nostra Emanuela. Siamo alla fine del secolo scorso. Una giovane maestrina fiorentina lettrice appassionata di poesia, ha l’opportunità di incontrare il poeta siciliano che preferisce, proprio a Firenze. Con un’eccitazione particolare lo incontra e mostra intelligenza e affascinante determinazione facendolo innamorare. Il poeta, Mario Valastro, torna nella sua casa a Catania ma ormai invaghito aspetta con ansia le lettere di lei e avvia una fitta corrispondenza, incurante di madre e zia che sin da subito osteggiano tale relazione. L’innamoramento accelera gli eventi e si sposano , ma dopo un magnifico viaggio di nozze, appena giunti nella nuova (per lei) casa a Catania per Fiammetta si presentano tempi difficili….. Romanzo d’altri tempi? Sicuramente si sente la passione dell’autrice per gli autori e le storie ambientate nell’800. Protagonista la società siciliana dell’epoca che Emanuela conosce molto bene per averla respirata nelle letture e nei ricordi che le vengono dalla sua terra. Ma a tradire la sua modernità sono le frequenti trasgressioni di linguaggio - Emanuela si/ci diletta anche con qualche anacoluto- che stridono, volutamente, con un lessico misurato e specifico, calzato a tono sui personaggi in crinolina. “ Quattro dame cinguettose” .. “ insigne clinico con la pelle insugherita” Il tono pieno di pathos di molte pagine, dove Fiammetta idealizza l’Amore e la Passione amorosa, viene stemperato da altre descrittive in cui la vena ironica dell’autrice ci dipinge gustosi bozzetti. “ Donna Maria Carmela… aveva indossato un vestito bianco e verde pistacchio di alcuni decenni. Era un abito pieno di trine e fiorellini di panno che,addosso a lei , faceva la figura di una cassata caduta a terra e ridotta a un impiastro di pan di Spagna, ricotta e glassa” “ Poi si alzò e cominciò a leggere a voce alta , e più andava avanti, più la sorella sbiancava e si avvizziva sulla sedia”. “Dunque, soddisfatte, conciate come per il dì delle feste e infarinate di cipria come triglie da friggere…” I personaggi sono delineati con i dovuti chiaroscuri. Anche Fiammetta, dopo queste sue prime sfortunate esperienze amorose, sarà portata a rivedere alcuni suoi giovanili entusiasmi, a valutare con disincanto il rapporto di coppia e a capire come la passione travolgente soccombe se mancano il rispetto e la considerazione dell’altro. Fiammetta si fa comunque portavoce di idee nuove per quell’epoca in cui da una moglie ci si aspettava “ devozione, obbedienza, sacrificio” per dirla con le parole di Mario Velastro, il marito di Fiammetta. Di lì a poco il movimento di emancipazione femminile troverà molte altre Fiammette in Europa e negli Usa e alle donne, dopo molte battaglie, verrà affermato il giusto riconoscimento dell’importanza del loro ruolo nella società che si espliciterà finalmente nel diritto di voto. Giovanna F.

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2016 numero 3 – Aprile

Email: [email protected]

Picciotti carissimi,vasamu li mani.

Finalmente lo scorso mese è

uscito il secondo libro della

nostra Emanuela.

Siamo alla fine del secolo

scorso.

Una giovane maestrina

fiorentina lettrice appassionata

di poesia, ha l’opportunità di

incontrare il poeta siciliano

che preferisce, proprio a

Firenze.

Con un’eccitazione particolare lo incontra e mostra

intelligenza e affascinante determinazione facendolo

innamorare. Il poeta, Mario Valastro, torna nella sua

casa a Catania ma ormai invaghito aspetta con ansia le

lettere di lei e avvia una fitta corrispondenza, incurante

di madre e zia che sin da subito osteggiano tale

relazione. L’innamoramento accelera gli eventi e si

sposano , ma dopo un magnifico viaggio di nozze,

appena giunti nella nuova (per lei) casa a Catania per

Fiammetta si presentano tempi difficili…..

Romanzo

d’altri

tempi?

Sicuramente

si sente la

passione

dell’autrice

per gli autori

e le storie

ambientate

nell’800.

Protagonista

la società

siciliana

dell’epoca

che

Emanuela

conosce molto bene per averla respirata nelle letture

e nei ricordi che le vengono dalla sua terra.

Ma a tradire la sua modernità sono le frequenti

trasgressioni di linguaggio - Emanuela si/ci diletta

anche con qualche anacoluto- che stridono,

volutamente, con un lessico misurato e specifico,

calzato a tono sui personaggi in crinolina.

“ Quattro dame cinguettose” ..

“ insigne clinico con la pelle insugherita”

Il tono pieno di pathos di molte pagine, dove

Fiammetta idealizza l’Amore e la Passione

amorosa, viene stemperato da altre descrittive in cui

la vena ironica dell’autrice ci dipinge gustosi

bozzetti.

“ Donna Maria Carmela… aveva indossato un

vestito bianco e verde pistacchio di alcuni decenni.

Era un abito pieno di trine e fiorellini di panno

che,addosso a lei , faceva la figura di una cassata

caduta a terra e ridotta a un impiastro di pan di

Spagna, ricotta e glassa”

“ Poi si alzò e cominciò a leggere a voce alta , e

più andava avanti, più la sorella sbiancava e si

avvizziva sulla sedia”.

“Dunque, soddisfatte, conciate come per il dì delle

feste e infarinate di cipria come triglie da

friggere…”

I personaggi sono delineati con i dovuti chiaroscuri.

Anche Fiammetta, dopo queste sue prime sfortunate

esperienze amorose, sarà portata a rivedere alcuni

suoi giovanili entusiasmi, a valutare con disincanto

il rapporto di coppia e a capire come la passione

travolgente soccombe se mancano il rispetto e la

considerazione dell’altro.

Fiammetta si fa comunque portavoce di idee nuove

per quell’epoca in cui da una moglie ci si aspettava

“ devozione, obbedienza, sacrificio” per dirla con le

parole di Mario Velastro, il marito di Fiammetta.

Di lì a poco il movimento di emancipazione

femminile troverà molte altre Fiammette in Europa

e negli Usa e alle donne, dopo molte battaglie, verrà

affermato il giusto riconoscimento dell’importanza

del loro ruolo nella società che si espliciterà

finalmente nel diritto di voto. Giovanna F.

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Gradevoli scoperte

Passeggiando fra

i volumi della

biblioteca ho

scoperto un libro

a me sconosciuto

di L.Sciascia

8 novembre 1913:

La contessa Maria

Tiepolo, moglie del

capitano Carlo

Ferruccio Oggioni,

uccide con un colpo di pistola sparato quasi a

bruciapelo l’attendente del marito, il bersagliere

Quintilio Polimanti, nella vita civile falegname, ma

ribattezzato dai giornali ebanista per cercare di

rendere meno evidente la differenza di classe.

Il processo che ne seguì è l’occasione per Leonardo

Sciascia di mettere in risalto vizi privati e pubbliche

virtù, spesso con un’ironia dirompente, da cui esce

un quadro per nulla lusinghiero degli uomini in

genere e di quel particolare contesto sociale.

Per qualche giorno l’Italia si distoglie da altri

pensieri per concentrarsi sulla contessa, che i

giornali definiscono subito «bellissima», mentre

descrivono il Polimanti come «bel giovane, alto,

capelli biondi e ricciuti».

Poi la vicenda scompare, perché incalzano altre

novità: il tango che arriva da Parigi, il furto della

Gioconda. Ma, quando si apre il processo, la

curiosità generale è di nuovo fortissima. Ora si

tratta di decidere: che cosa motivò quel colpo di

pistola? La difesa dell’onore?

O si può insinuare il sospetto di una passione?

«Nell’aula della Corte d’Assise d’Oneglia vapora e

aleggia L’amante di Lady Chatterley di Lawrence».

Ma l’assurdità del processo vuole che alla passione

si alluda solo come a qualcosa di improbabile e

funesto, così come – in coerenza con lo stile di una

certa Italia tronfia e trita di quegli anni – il

magistrato per nominare le donne parla di «sesso

gentile».

Più di mille lettere anonime giunsero in tribunale

durante i giorni del processo.

Evidentemente quella storia toccava un groppo di

pathos, terrore e sogno.

Sono continue annotazioni, riflessioni che

accompagnano gli atti del procedimento che, come

non poteva che essere prevedibile, si concluderà

con l’assoluzione dell’assassina.

Il sostegno indispensabile alle forze armate, appena

uscite vittoriose dalla campagna di Libia, e il patto

Gentiloni che chiamava alle urne i cattolici, prima

diffidati dal pontefice, a patto che il parlamento si

attenesse rigorosamente ai principi cristiani, non

cedesse alla tentazione di fare una legge sul

divorzio e considerasse pertanto la famiglia una e

indivisibile influenzarono i giurati e così accadde

che un colpevole, peraltro reo confesso, anche se a

suo dire per difendere la propria onorabilità,

diventasse di colpo innocente, in un iter che di

verità univoche non ne ebbe, ma tante, tantissime,

in un contesto fatalmente pirandelliano, in cui

apparenza e realtà si confondono, confondendo

anche chi è chiamato a giudicare.

Sciascia avvia questo libro come una «divagante

passeggiata nel tempo», nell’Italia del «1912 + 1»

(come scrisse una volta D’Annunzio per esorcizzare

il fatidico tredici), ma poi si abbandona a scavare

con affilato scalpello nelle testimonianze spesso

vacue ed esilaranti del processo.

Perseguendo due poetiche apparentemente

inconciliabili, quella della digressione e quella della

concisione, egli riesce a gettare la massima luce su

un oggetto proprio quando sembra parlare d’altro:

evoca un clima storico sprofondando nei dettagli del

processo Tiepolo e illumina il processo Tiepolo

vagando fra D’Annunzio e i futuristi, il patto

Gentiloni e la guerriglia in Libia, Pirandello e

Huxley.

Profondo conoscitore di quell’Italia dove ogni

pasticcio tende a presentarsi come un limpido

accordo, così come nel caso Tiepolo, un omicidio

passionale tende a presentarsi come difesa della

decenza.

Sciascia ha voluto scrivere la cronaca di un

processo pieno di pompose incongruenze: non

giudicando, ma lasciando lievitare i fatti per

leggerne la filigrana, che si rivela alla fine

nettissima e oscura.

Riassumendo “Innocente anche se colpevole”.

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Ecco cosa ci ricorda l’amico Sergio Giuliani

Ricorrevano,

l’anno appena

scorso, i

quarant’anni dalla

pubblicazione di

“Horcynus Orca”,

il diluviale, epico e

preziosissimo

romanzo di

Stefano D’Arrigo e

nessuno della

cultura “ufficiale”

se n’è ricordato.

La grande editoria

(Mondadori) allora

aveva costruito una snervante campagna di lancio:

l’autore recluso fra le braccia della moglie; la casa

editrice amorevole che provvedeva persino al vitto

dell’ammalato purché conducesse a termine l’opera

e così via.

Accadde però che il conto alla rovescia della

comparsa del libro produsse un vero e proprio

collasso di invenduto: sarebbe bastato poco a capire

che un’opera di quel tipo e di quella mole,

perfettamente in antitesi con la produzione di mini-

romanzi consolatori e graziosi, non sarebbe stata

letta che da pochissimi addetti ai lavori o da lettori

di rango capaci, solo essi, di paziente ricezione e

meditazione.

I critici, a parte i tre o quattro di mestiere, allora in

vita, non lessero certo il grande, omerico lavoro di

D’Arrigo e stroncarono non tanto il libro, quanto la

dissennata campagna pubblicitaria e i resi

s’abbatterono su uno scrittore già cagionevole di

salute ed ora annientato.

Eppure la Sicilia ha, in questo grande libro, la sua

epica, antica e moderna.

Figurale, certo, come tutta la grande letteratura

isolana novecentesca, da Vincenzo Consolo a Lucio

Piccolo di Calanovella, finissimo poeta che non si

conosce al di qua dello Stretto, ma perfettamente

calato nella realtà isolana al tempo dello sbarco

alleato, capace di grande fantasia metaforizzante,

ma sempre legata alle vicende tragiche di quel

periodo.

Passata l’occasione dell’anniversario, meno male

che la piccola casa editrice “Mesogea” di Messina

(una delle vivacissime nicchie di raffinata cultura;

un’altra ne ho alla mente, la “Girasole” di Valverde,

coi preziosi volumi di carta soffice a marginatura

ineguale, per i quali occorre il tagliacarte e le

elegantissime copertine “noires”) ha ristampato la

prima raccolta di poesie di D’Arrigo, “Codice

siciliano”, per la cura di Silvio Perrella, uscita nel

’57 dal prezioso editore Scheiwiller.

Si tratta di un mannello di 35 poesie monotematiche

e monocromatiche, incentrate sulla bellezza che

consuma l’anima dello Stretto, sui fiati di culture

che come venti d’Africa e del Continente portano e

temperano la calura, sull’ondare continuo di un

mare simbolo (e sintomo) del tempo che consuma

l’opzione del vivere e si fa subito, in una natura

umorosa, ricordo e sulla madre dall’augurale

anagrafe, Agata Miracolo, animatrice del sentire del

poeta.

Monocroma è l’essenza dinamica, guida della

raccolta, impersonata dal volo della quaglia che

ritorna e va via dall’Isola, come chi parte (e il

giovane D’Arrigo “volerà” a Milano, capitale di

editori) e ha di continuo nel cuore e nella mente un

Codice natìo che l’ha improntato e che non può più

e mai esser dimesso.

Viene alla mente il montaliano “…gorgo/ di fedeltà

immortale” per definire d’un tratto la sensibilità

cocciuta di D’Arrigo che si porterà nella mente, per

anni, il gran romanzo della “fera”, dell’orca

assassina che squassa l’edificio-codice e crea un

dramma dove si dispera della salvezza.

La salvezza era, è, in questo lene e assai ben

stampato librino che ritorna da un esilio più valido

che mai per la ricerca di un senso del vivere

all’interno delle bellezze e degli amori che ci sono

stati concessi, come due madri, la naturale e la terra

vivace, tutta colori e bello scambiar di culture,

un’isola sapiente che ha prodotto un amalgama di

dominazioni e di arte autoctona sempre in

avanguardia.

Tanto che lo Stretto ha fatto spesso da baluardo più

che da tramite, tanto da alimentare la poesia di

D’Arrigo di una gran voglia di volare e al tempo

stesso di risiedere.

Come la quaglia che è insieme bellezza del volo e

preda del cacciatore.

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla

fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre

del millenovecentoquarantatre, il marinaio,

nocchiero semplice delle fu régia Marina 'Ndrja

Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari

dello scill'e cariddi. (S. D'Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, 1975, pag.7).

Si apre così il labirinto del viaggio e del ritorno di

'Ndrja Cambrìa alla sua terra, a Cariddi,

nell'autunno del 1943.

'Ndrja percorre a piedi, cercando il modo di

raggiungere la Sicilia, una Calabria devastata, che si

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popola via via, di figure come lui sbandate dalla

guerra.

Grazie a una di queste, Ciccina Circé, riesce ad

attraversare lo Stretto.

Ma quanto troverà, approdando a Cariddi, è

tutt'altro dall'ambiente e dalla comunità che ha

lasciato andando in guerra; ognuno e ogni cosa è

stato segnato o travolto dalla miseria e dal degrado.

Si corrompono i codici della terra e del mare, si

stravolgono i comportamenti di gente fiera costretta

a una sopravvivenza meschina patteggiata con la

Morte che assume la forma dell'Orca agonizzante in

un mare che sembra fare di ogni creatura viva forza

di dissoluzione.

Per Ibn Hamdis, poeta arabo di Sicilia:

Se sono stato cacciato da un Paradiso,

come posso io darne notizia?

Il giorno muore ancora nei giardini,

dove oscura la zagara ne oscilla,

e qui altri Normanni accendono fuochi

intorno intorno e Sicilia come zita,

col suo bel portamento modulato

nella strofe degli anni a Siracusa,

l’occhio soffice,il dito inanellato,

nello sguardo del tuo addio

ancora imbruna,

sulla cara persona, la sua luce

di tortora che perde già la vita,

la sua pupilla sempre sul momento

che reclina sfregiando la memoria.

Se implora, è una spoglia di sole

che lamentata entra nella notte e tu

leghi a un cedro il tuo cuore d’Emiro,

l’Anapo al nostro orecchio navighi

ancora su una foglia di papiro,

perché tu sempre in gran segreto torni

in patria, incenerito fortilizio,

flagrante e clandestino qui rivivi

a sera quando odora il gelsomino,

fiore che d’aria accompagna il verso

lungo ed estenuante del tuo esilio

In una lingua che non so più dire

Nessuno più mi chiama in una lingua

che mia madre fa bionda,

azzurra e sveva,

dal Nord al seguito di Federico,

o ai miei occhi nera e appassita in pugno

come oliva che è reliquia e ruga.

O in una lingua dove avanza, oscilla

col suo passo di danza che si cuoce

Al fuoco della gioventù per sfida,

sposata a forma d’anfora, a quartara.

O in una lingua che alla pece affida

l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,

in un basso alitare la decanta:

è movenza d’Aragona e Castiglia,

sillaba è cannadindia, stormire.

O in una lingua che risale in sonno

coi primi venti precoci d’Africa,

che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,

nel verso tenebroso della quaglia.

O in una lingua che non so più dire.

ANCORA POESIA

Dissirviziu cronicu

Lu serviziu pustali è addivintatu

un dissirviziu ‘nfami e dissolutu:

Lu Ministru l’ha ligalizzatu,

è addivintatu un gran malannu acutu.

Avemu spissi voti riclamatu,

ma è tempu persu... riclamu pirdutu:

Si unu fa cunfrunti... e si siddia

l’accusanu di fari apologia.

E s’assisti ‘mputenti, ca un giurnali

parti a frivaru e arriva a fini aprili;

siddu riclami all’ufficiu pustali,

jocanu tutti a scarica varrili.

O pugnu di ‘ncuscenti e criminali,

iu li viria, a tutti lu minsili

ca poi ridutti all’estrema miseria

li trasferissi in massa a la SIBERIA. AdS

Sciuri senza primavera

Ora la me vita è chiù pisanti

ccu li pinseri ca ciaiu a la menti

ti chiamu comu chiamari a li santi

tu no rispunni: tu no dici nenti

Guardu li carusi di la scola

e l’occhi mia scurrunu lucenti

non pozzu diri mancu dda parola

se n’ta la scola t’anu misu assenti

Caminu comu n’omu nzalanutu

e lu me cori ristau vacanti

non cridu mancu ca tu si pirdutu

na gomma ti cancillau eternamenti

lassannumi ppi ricordu na priera

ppu n’ciuri ca no visti primavera

Ignazio Santagati

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SEI VOCI

Non fu il mare a raccoglierci

noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.

Calati da altopiani incendiati da guerre

e non dal sole,

traversammo i deserti del Tropico del Cancro.

Quando fu in vista il mare da un’altura

era linea d’arrivo, abbraccio di onde ai piedi.

Era finita l’Africa suola di formiche,

le carovane imparano da loro a calpestare.

Sotto sferza di polvere in colonna

solo il primo ha l’obbligo di sollevare gli occhi.

Gli altri seguono il tallone che precede,

il viaggio a piedi è una pista di schiene.

Erri DELUCA

Sogni proibiti

Sogni proibiti

Visti a colori e fantasia

Notte che cala

brividi senza paura

Gite importanti

Giorni di festa per noi due

Le tue parole

In un giardino di limoni

Cadono fili d’ombra

Cogli un frutto per me

Giocano i pensieri

Anche se non lo vuoi

Gioia spaurita

Ricchezza infinita per noi due

L’amore che passa

Tra i fili d’erba bagnata.

Questo che avete appena letto è il testo di una bella

canzone dell’amico Alfonso Miceli

Città di Bagheria ,

museo Guttuso,

Morando vicino

alla scultura di

Guttuso

U LAMENTU DI UN MORTU

AMMAZZATU PI SBAGLIU

Certu la vita e’ strana

ma la morti e’ chiu’ strana ancora

parlu cu cugnizioni di causa

di mortu d’ora ora

ora mancu mezzura

ca cadivu comu un piru

e l’anima mia scappo’

cull’ultimu respiru

la mia nunn’e’ prutesta

ne’ cuntestazioni

ma chiddu ca nu mi cala

e’ tutta a situazioni

u nasciri pi sbagliu

nunn’e’ tantu piccatu

quantu la malasorti

di muriri ammazzatu

sippo’ mu miritava

un ci avissi statu nenti

ma no sparatu o postu

di quarchi delinquenti

finiri li me iorna

cu quattru pallittuna

scangiatu pinnantru omu

talia chi sfurtuna

na vita di travagliu

rinunzi e sacrifici

l’unicu passatempu

li carti e quattru amici

parlannu di saluti poi

mancu na malatia

forsi quann’era nicu

morbillu e rusalia

percio’ nun mi capacitu

di chista frigatura

era troppu sicuru

ca ancora unn’era ura

basta ormai e’ fatta

unni parlamu chiu’

s’aviti la paziennza

vi cuntu comu fu.

Sirata d’allegria

festa di s. martinu

na manu di trissetti

sosizza castagni e vinu

vinu ca calava grittu

e siccomu era nuveddu

tantu nninni vivemu

ca erimu a liveddu

fazzu l’ultimu brindisi

pi tradizioni antica

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e doppu ma’aricogliu

dumani c’e’ fatica

salutu i me cumpagni

mi chiuiu a giacchittedda

e paccurzari la strata

m’infilu ndra na vaneddra

na notti fridda e scura

u celu senza luna

arrancu pi spicciarimi

quannu tuttantuttuna

mi sentu assicutari

na vuci darre’ i spaddi

mi dici unne’ ca scappi?

e spara quattru baddi

dintra ntisi nu focu

a tipu na vampata

vutavu a panza all’aria

e cadivu nno mezzu a strada

attornnu ntempu unnenti

si cummina’ un fangu

na speci di pantanu

di terra vinu e sangu

nunn’e’ na sensazioni

ca unu po spiegari

comu vi pozzu diri

l’avissivu a pruvari

ntrunatu piccom’era

capivu sulu ca chiddu

mi talia’ megliu

e dissi “nunn’e’ iddu”!

nun sulu fici dannu

stu gran cosa fitusa

sparti sinni scappa’

e mancu dissi scusa

turnatu lu silenziu

s’arricuglieru genti

nun sacciu mancu s’eranu

amici o me parenti

Chiffu’ ? cu e’ ? mischinu

successi u quarantottu

chiamti l’ambulanza

megliu a carrozza mortu

ognunu ca ncugnava

mi dava a so sintenza

chissa’ chi cummina’?

u sapi a so cuscenza

mi pari canusciutu

forsi era di quartieri

s’ammazzassiru tra iddi

unu menu tra li pedi

pi l’opinioni publica

stu tipu di reatu

e’ curpa chiu’ do mortu

ca di cu l’ha ammazzatu

Mi ficiru cripari

cu a raggia mezzu i denti

senza putiri diri

ca nun ci trasiva nenti

li forzi a ddu mumentu

mi vinniru a mancari

e comu mmucca a un cani

mi ntisi arrussicari

l’anima dintra lu corpu

mi scuppia’ fora

e m’arrisbigliavu cunfusu

unni mi trovu ora

c’e’ genti di tuttu u munnu

na fudda d’impazziri

nun si capisci nenti

cu e’ ca pi malatia

e cu pu ‘n’ incidenti

Dumannu informazioni

a unu allatu a mia

mi parsi di capiri

ca morsi prima i mia

e’ ca di stamatina

e ntisi di precisu

ca chiddi comu a mia

nun vannu nparadisu

ma viditi chi dispettu

chi sugnu scarugnatu

nun sulu ci fu sbagliu

ma curnutu e vastuniatu

sapiti chi vi dicu

si chistu e’ u me distinu

m’ammucciu ‘n da n’ agnuni

e aspettu l’assassinu

ca tantu o prima o poi

u chiama u patri eternu

lu pigliu cu la forza

e mu trascinu o’ nfernu.

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Elvio Fassone

“Fine pena: ora” Non è un romanzo di

invenzione, né un saggio

sulle carceri e non enuncia

teorie,ma racconta una

storia vera, un’opera che

scuote e commuove.

Una corrispondenza durata

ventisei anni tra un

ergastolano (Salvatore un catanese, del quartiere

Librino -il più malfamato della città- e il suo

giudice). Nemmeno tra due amanti, ammette

l’autore, è pensabile uno scambio di lettere così

lungo. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi

processo alla mafia catanese; il processo dura quasi

due anni, tra i condannati all’ergastolo Salvatore,

uno dei capi a dispetto della sua giovane età, con il

quale il presidente della Corte d’Assise ha stabilito

un rapporto di reciproco rispetto e quasi – la parola

non sembri inappropriata – di fiducia.

Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive

d’impulso e gli manda un libro.

Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore

che gli ricorda: «se suo figlio nasceva dove sono

nato io, adesso era lui nella gabbia».

Non è pentimento per la condanna inflitta, né

solidarietà, ma un gesto di umanità per non

abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere

il resto della sua vita.

La legge è stata applicata, ma questo non impedisce

al giudice di interrogarsi sul senso della pena.

E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con

un condannato.

Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di

emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in

carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando

le nuove norme rendono il carcere durissimo con il

regime del 41 bis.

La corrispondenza continua, con cadenza regolare –

caro presidente, caro Salvatore.

Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è

diventato senatore, è andato in pensione, ma non ha

mai cessato di interrogarsi sul problema del carcere

e della pena.

Anche Salvatore è diventato un’altra persona, da

una casa circondariale all’altra lo sconforto si fa

disperazione fino a un tentativo di suicidio.

Questo libro non è un saggio sulle carceri, non

enuncia teorie, è un’opera che scuote e commuove,

che chiede come conciliare la domanda di sicurezza

sociale e la detenzione a vita con il dettato

costituzionale del valore riabilitativo della pena,

senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di

qualsiasi condannato.

Elvio Fassone (Torino, 1938) è stato magistrato e

componente del Consiglio superiore della magistratura.

Senatore della Repubblica per due legislature è autore di

numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su

temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della

grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012). Uno

dei magistrati più colti, più integri, più garantisti (nel

senso vero e nobile del termine) che esistano in Italia

L’ergastolano è di Catania,il giudice,torinese è colui

che dopo averlo condannato decide di scrivergli —

«con che spirito leggerà queste parole, se non come

l’ipocrita tentativo del carnefice di sgravarsi la

coscienza accarezzando la sua vittima?» — gli

manda anche un libro, Siddharta, di Hermann

Hesse, leggenda sui sentimenti fraterni, più taoista

che indiana.

Come reagirà? Manderà al diavolo quello strano

giudice che gli scrive: «Potrà perdere la libertà per

un tempo anche lungo, ma non deve perdere la

dignità e la speranza»?

Salvatore invece risponde: «Presidente, io lo so che

lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge,

ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E io la

ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei

dice».

Mi hanno colpito particolarmente le seguenti frasi:

«La comunità offesa dal delitto si fa risarcire con

fette di vita prelevate chirurgicamente da quel

bisturi inappuntabile che è il processo».

Quello strano giudice gli scrive: «Potrà perdere la

libertà per un tempo anche lungo, ma non deve

perdere la dignità e la speranza»?

Salvatore invece risponde: «Presidente, io lo so che

lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge,

ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E io la

ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei

dice».

Poi un nuovo trauma.

Nella sua cella le guardie trovano un telefonino.

Salvatore non c’entra.

Sarebbe stato facile controllare i numeri.

Non viene fatto: tutti al 41bis, cancellata ogni

misura alternativa.

L’ergastolano scrive a Fassone: «L’altra settimana

ne ho combinato una delle mie: mi sono impiccato,

mi scusi». Un agente di custodia lo salva.

È passato più di un quarto di secolo. Elvio Fassone

osserva una fotografia di Salvatore. Quando l’ha

conosciuto era «un fascio di muscoli e di nervi,

pronto a scattare come una molla compressa».

Adesso sembra l’urlo di Munch.

r.a.

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8

Continuiamo la pubblicazione del libro del

nostro Umberto Gugliotta

IL ROSARIO DEL VESCOVO

Con il Capitolo quarto

Nella camera nuziale dei coniugi Tornabene

d’Altomare, dopo la morte di don Gioacchino,

nessuno era più entrato, tranne la vedova che ne

custodiva la chiave; donna Gerardina non vi

dormiva, ma vi trascorreva molte ore della giornata,

con la porta chiusa, da sola. Provvedeva

personalmente alle pulizie, aggiornava i libri dei

conti, cuciva o ricamava, ma, soprattutto, sedeva in

silenzio nella penombra; in quella stanza nessuno

era ammesso ad udienza.

La notte, invece, per un motivo mai confessato, ma

facilmente pensabile, la trascorreva in una delle

dodici stanze riservate agli ospiti, dove aveva

preferito trasferirsi già la prima notte di vedovanza.

Della particolare fattura del vasto alloggiamento,

della quale ogni rispettabile guida turistica

ampiamente ancora riferiva, si era molto parlato fin

dalla sua costruzione, effettuata in occasione del

rifacimento del palazzo, dopo il terremoto del 1693,

quasi si trattasse della ottava meraviglia del mondo.

In vero, c’era di che rimanere stupefatti,

specialmente se si teneva conto dell’epoca in cui era

stato progettato: più che di dodici sale, si trattava di

dodici, per così dire, piccoli appartamenti, non più

di dieci dozzine di metri quadrati ciascuno, dotati

fin dall’origine -e questo era il particolare

considerato esclusivo- di una sala da bagno che

occupava più della metà dello spazio totale,

interamente foderata da splendidi specchi, tali da

creare grande confusione a chi, per la prima volta,

vi si avventurava. Tutti i soffitti delle dodici

minuscole ma accoglienti residenze erano a

cassettoni stuccati in oro, con raffigurazioni

allegoriche, ognuna diversa dall’altra. In un lezioso

salottino privato, l’ospite poteva ricevere in

“déshabillé”.

Per decidere quale luogo fosse più adatto per la

celebrazione dell’anniversario della morte del

marito, donna Gerardina aveva dovuto riflettere a

lungo; le toccò, alla fine, scegliere fra la cappella e

la sua camera nuziale; preferì quest’ultima perché le

sembrò doveroso, però con rammarico, crucciandosi

di dover condivedere il luogo che, più di ogni altro,

di lei conosceva le più recondite intimità di corpo e

di spirito. Superato l’indugio, donna Gerardina

aveva ordinato di aprire finestre e porte -con cautela

perché la penombra restasse, almeno un po’- e di

sistemare poltrone, sedie e tavolini e qualsiasi altra

cosa potesse rendere confortevole un temporaneo,

breve soggiorno.

Gli ospiti, accompagnati da due servitori muniti di

lumi, avevano percorso il lungo corridoio che

portava al lato opposto del palazzo, dove li

attendeva la padrona di casa, immobile davanti alla

porta della sua camera, quasi volesse sbarrarne il

passo. Sedettero e si guardarono intorno, come se

cercassero un punto insignificante dove poter

posare gli occhi con naturalezza, per non creare

imbarazzo alla congiunta, della quale avevano

intuito il disagio.

Dopo qualche minuto di silenzio, don Vannino

disse:

- Rammentavo che questa stanza è speculare

rispetto alla sala in cui sarà servita la cena,

anch’essa è affrescata ovunque, ha le stesse

dimensioni e, come l’altra, si affaccia su una

terrazza assai grande. L’anno scorso, quando

venni per dare l’ultimo saluto al mio caro

Gioacchino, fra le lacrime e il buio, ben poco era

possibile vedere.

Non entravo qua da quando Gioacchino si sposò.

Però mi ricordo ancora che, quando ero

“picciriddu”, ogni tanto mi buttavo nel letto fra

mamma e papà, a giocare. … Ne è passato di

tempo.

- Ne è passato di tempo e ora di sei che eravamo

siamo rimasti in tre, io, tu e Carolina. Io prete e

quindi senza eredi, Gioacchino figli non ne ebbe e

neppure Fofò, per quanto si sa; per fortuna che tu

“nu masculu p’a casata u facisti: Ricuzzu.” E a

Ricuzzu il Signore ha voluto affidare l’avvenire dei

d’Altomare, l’avvenire di una stirpe conosciuta e

rispettata non solo in Sicilia ma in tutto il Regno

d’Italia.

Così precisò il Monsignore.

Gli ospiti si erano accomodati, chi su una sedia, chi

su una poltrona, in modo da formare un semicerchio

ai piedi del letto matrimoniale.

L’aria che si respirava nella stanza era ancora

pesante, nonostante l’apertura all’aria per una notte

e un giorno, e la luce appariva fioca, quanta ne

potevano diffondere i due soli lumi posati sopra il

comò, seppure aiutati dal poco chiarore offerto

dallo spicchio di luna, bassa sul belvedere.

Donna Gerardina posò uno scialle sulle spalle della

cognata Carolina che, o per l’emozione o per la

frescura che si intrufolava da una fessura lasciata

nella porta-finestra, dava segno di tremare.

Poi, rivolta al cognato Vescovo, fece per parlare,

ma lo squittire di una civetta proveniente dalle

vicine fronde di un albero, nel parco, la obbligò a

tacere; si riprese dallo smarrimento dopo qualche

istante e finalmente disse:

- “Putiemu accuminciari”.

Don Ignazio si alzò lentamente dall’ampia

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poltrona, si accomodò la veste e infilò la mano

destra nell’apertura della falsa tasca; frugò

all’interno della tonaca, indugiandovi qua e là,

per qualche minuto, finché, ormai spazientito,

riuscì a tirarne fuori un massiccio rosario di

stupenda fattura e di incalcolabile valore,

appartenuto ad un suo avo, anch’esso Vescovo,

vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700; la corona

del raro gioiello era costituita da pietre

preziose che, diverse per colore e per

grandezza, tenevano il posto dei grani, piccoli

e grossi; al termine, una croce d’oro,

minuziosamente cesellata, al centro della quale

era stato ricavato un piccolo incavo, e lì era

stata riposta, protetta da una scheggia di vetro

sagomato, una reliquia insolita e sacra: un

minuscolo lembo della veste di Gesù

crocifisso.

Don Vannino e donna Carolina, l’uno dalla tasca

della giacca, l’altra dalla borsetta, estrassero i loro

rosari che, per quanto anch’essi pregiati, non

potevano certo reggere il confronto con quello

posseduto dal fratello.

Donna Gerardina, fino ad allora rimasta in piedi

appoggiata al canterano, prese il suo rosario da una

piccola scatola che effigiava lo stemma dei

d’Altomare e finalmente si accomodò anch’essa. I

due adolescenti, seduti l’uno accanto all’altra,

avrebbero recitato le preghiere seguendo le altre voci,

così almeno era d’obbligo supporre, visto che, fra le

loro dita, non c’era alcuna corona.

Don Ignazio, dopo aver ripreso il suo posto, si schiarì

la voce ed iniziò:

- In nominePatris et Filii et Spiritus Sancti, Amen.

Dall’assorto silenzio si spiccicò il fruscio delle vesti

tese dal gesto del segno della croce.

- Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem,

factorem caeli et terrae, visibilium omnium et

invisibilium.

Et in unum Dominum, Iesum Christum, filium Dei

unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula;

Deum de Deo, Lumen de Lumine, Deum verum de

Deo vero, genitum non factum, consubstantialem

Patri, per quem omnia facta sunt.

Qui propter nos homines et propter nostram salutem

descendit de caelis et incarnatus est de Spiritu

Sancto ex Maria Virgine, et homo factus est.

Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus

et sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum

Scripturas; et ascendit in caelum, sedet ad dexteram

Patris; et iterum venturus est cum gloria, iudicare

vivos et mortuos, cuius regni non erit finis.

Et Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex

Patri procedit; qui cum Patre et Filio simul adoratur

et conglorificatur; qui locutus est per prophetas. Et

unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam.

Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum,

et especto resurrectionem mortuorum, et vitam

venturi saeculi.

- Pater noster, qui es in coelis,sanctificetur nomen

tuum, adveniat regnum tuum,

fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra;

La voce di don Ignazio, profonda e intonata,

imponeva pause sapienti al suo respiro; su di

essa, secondo il rito, sopravvenero le altre voci.

Era così iniziata quella particolare recitazione

delle preghiere nella quale voce solista e voci

corali si sarebbero alternate per tutta la durata

del rosario:

- panem nostrum cotidianum da nobis hodie,

et dimitte nos debita nostra

sicut et nos dimittimus debitoribus nostris,

et ne nos inducat in tentationem, sed libera nos a

malo. Amen.

L’inizio era stato un po’ stentato, senza ritmo:

l’attenzione dei partecipanti aveva incontrato

difficoltà di concentrazione, vagando chissà

dove. Ma su questo nessuno ebbe il tempo di

riflettere, perché la voce del Vescovo

immediatamente riprese:

- Ave, Maria, gratia plena, Dominus tecum,

benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus

ventris tui, Iesus.

Per questa Ave Maria, e per le due successive, la

risposta venne all’unisono:

- Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis

peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.

Amen.

Al termine delle tre orazioni, don Ignazio, anziché

restare brevemente in silenzio, continuò come se

fosse un’unica preghiera:

- Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

E la voce corale:

- Sicut erat in principio, et nunc et semper et in

saecula saeculorum. Amen.

Il tono della voce del Prelato, nell’implorazione a

Dio ed al Figlio che seguì, rivelò la soddisfazione

per la pressoché immediata sintonia raggiunta dai

partecipanti:

Deus, in auditorium meum intende. Domine, ad

adiuvandum me festina.

Terminata la parte introduttiva del rosario, il

secondogenito Tornabene d’Altomare rivolse lo

sguardo verso i congiunti nella speranza, delusa

dalla modesta fonte luminosa, di scorgere sul viso

dei parenti qualcosa che rivelasse il loro stato

d’animo. Don Ignazio infatti si accingeva a

pronunciare il Primo Mistero del Dolore:

- Primum Mysterium Doloris. Agonia in horto.

Et egressus ibat secundum consuetudinem in

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montem olivarum; secuti sunt autem illum et

discipuli. Et cum pervenisset ad locum, dixit illis:

“orate, ne intretis in tentationem”. Et ipse avulsus

est ab eis, quantum iactus est lapidis, et, positis

genibus,orabat dicens: «Pater, si vis, transfer

calicem istum a me. Verumtamen non mea voluntas

sed tua fiat.”

Apparuit autem illi angelus de caelo confortans

eum. Et factus in agonia prolixius orabat. Et factus

est sudor eius sicut guttae sanguinis decurrentis in

terram.

Ciò detto, indugiò in silenzio, lo sguardo perso nel

vuoto del buio, immergendosi -così almeno

apparve- nella meditazione. Alcuni lo imitarono,

altri -i due nipoti- cercarono nelle poltrone

un’accoglienza che non potevano dare. Don

Ignazio, trascorsi pochi minuti, raccolse il prezioso

rosario che aveva lasciato nel grembo della veste e

proseguì:

- Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur

nomen tuum, adveniat regnum tuum, fiat

voluntas tua sicut in coelo et in terra;

Aveva cominciato di buona lena la famiglia

d’Altomare, senza dare tuttavia l’impressione

di voler andare di fretta. Venne puntuale la

risposta:

- panem nostrum cotidianum da nobis hodie,

et dimitte nobis debita nostra

sicut et nos dimittimus debitoribus nostris,

et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a

malo. Amen.

La voce solista:

- Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum.

Benedicta tu in mulieribus, et benedictus

fructus ventris tui, Iesus.

E, di rimando, la voce corale:

-Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis

peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.

Amen.

La prima decina di “Ave Maria” si era sciolta

rincorrendosi, una preghiera dopo l’altra, nella

stanza; via via, durante la recita, il raccoglimento di

donna Carolina doveva essersi attenuato perché la

sua voce si era progressivamente assottigliata, fino a

ridursi ad un esile filo; infatti, non appena i parenti

tacquero, prese a parlare di colpo, rivolgendosi al

fratello Monsignore:

- Mi chiedevo se non vi pare azzardato girare in

carrozza per strade di campagna o, magari a piedi,

per qualche vicolo deserto di uno sperduto paese,

con quel rosario in tasca. Io avrei paura, con i tempi

che corrono. Un giorno o l’altro, Monsignore, a

qualcuno potrebbe venire in mente di tagliarvi la

gola e così avrebbe sistemato tutta la vita sua e

quella dei suoi eredi. Sentitemi: io, se fossi in voi,

quel gioiello non lo farei vedere a nessuno, lo

lascerei non dico nella cassaforte di casa, ma

addirittura in banca, in una cassetta di sicurezza.

Don Ignazio ascoltò le parole della sorella con aria

di sufficienza; poi sospirando disse:

- Cara sorella, “tu si fimmina” e comprendere le

femmine è sempre stata, da che mondo è mondo,

cosa difficile; non riesco a capire se la tua è sincera

prudenza oppure voglia di parlare tanto per

parlare.

Comunque, a me finora, non è mai capitato di aver

paura. Non perché io sia coraggioso ma perché “a

mia mi canusciunu tutti” e tutti sanno che io vivo

per provvidenza del Signore e che se qualche soldo

riesco a risparmiare, perché mi privo di tante cose,

non resta nelle mie tasche, ma va in quelle di

qualche disgraziato padre di famiglia. E poi, se

questo non bastasse, io non esco mai da solo.

M’accompagna sempre Turuzzu Spanò, il mio

guardaspalle, fidato e discreto, direi invisibile,

anche se è alto più d’un metro e novanta e ha le

mani grosse quanto due cosce d’agnello. Mi porta

pure la carrozza. Turuzzu mi è affezionato, ora ha

quaranta’anni e me lo sono cresciuto io, quasi

come un figlio. Ma tu saresti soddisfatta se il tuo

fratello Vescovo andasse in mezzo ai “viddani”,

magari vestito come un prete di campagna? Che

cosa potrebbero pensare? Che sono come loro. Di

sicuro. E prenderebbero confidenza e perderebbero

il rispetto. Invece, per esempio, quando vado a casa

di un morto per dare la benedizione e dire una

preghiera, vedono il rosario, il gioiello come hai

detto tu, e capiscono tante cose che cento anni di

vita non riuscirebbero mai a infilargli nella testa.”

Tu si tu e io sugnu io, u Vescovo!”

Così aveva risposto don Ignazio.

Il secondogenito della famiglia Tornabene

d’Altomare, un bell’uomo assai prestante, sempre

curato nella persona, conservava ancora, per quanto

avesse superato da poco i sessanta, i capelli neri e

così folti da nascondere la chierica fra le onde

incollate dalla brillantina, non si sa se per caso o per

vezzo. Il suo ministero, senz’altro impegnativo, gli

consentiva comunque di condurre una vita

mondana, pur nel rispetto, magari solo formale,

della veste che indossava; d’altronde, essendo

persona molto affabile e colta, la sua presenza era

ambita in ogni salotto che egli assai raramente

disertava.

- Il mio voleva essere solo un consiglio, mi

auguro che non abbiate pensato che volevo

entrare nelle vostre cose.

- Non te lo avrei permesso e lo sai.

Così sorella e fratello si rimbeccarono.

Anche don Vannino sembrò dimenticare il motivo

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per il quale si trovava in quella stanza; infatti

intervenne:

- Un prete quale sei dovrebbe essere prudente

nel parlare, non arrogante …

Don Ignazio lo interuppe rintuzzando:

- “Nu parrinu u sapi comu avi a parrari”(2),

non sarai certamente tu ad insegnarglielo. Tu

guardati il latino, il greco e pure l’italiano, tua

moglie Angelica e tuo figlio Ricuzzu, io non

pretendo di avere qualcosa da insegnarti. Ti

ricordi come diceva nostra madre benedetta?

Io me lo ricordo ora e l’ho tenuto presente per

tutti i giorni della mia vita. Diceva: “chi

pecora si fa, il lupo se lo mangia”.

Donna Gerardina, che aveva ascoltato in

silenzio, intervenne stizzita:

- Spero che non siate venuti qui per aggiustarvi

i conti. Ben altri sono i motivi. Avrete altro

tempo e luogo dove fare questi discorsi. Mi

fate tornare alla mente quando eravate

giovani: sempre a pizzicarvi, anche per un

nonnulla. Ora è tempo di riprendere le nostre

preghiere.

Al Monsignore non parve vero di poter chiudere

l’astiosa discussione, anche perché, ripensandoci,

gli era sorto il dubbio di essere stato troppo

determinato nel rispondere alle parole dei congiunti

che, in verità, anche per il tono con cui erano state

pronunciate, certamente nessuno avrebbe giudicato

leggere.

Don Ignazio, dopo aver alzato gli occhi verso il

soffitto affrescato, come a trovarvi ispirazione,

riprese:

- Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

L’eco della parola “Sancto” non si era ancora spento

che il coro si accordò con la voce del Vescovo:

- Sicut erat in principio, et nunc et semper et in

saecula seculorum. Amen.

Poi, sollecitando ripetutamente con un gesto della

mano la partecipazione dei congiunti, aggiunse:

- Domine Iesu, dimitte nobis debita nostra, salva nos

ab igne inferiori, perduc in caelum omnes animas,

praesertim eas, quae misericordiae tuae maxime

indigent.

Ancora una volta un’interruzione, improvvisa ed

inaspettata, arrivò dalla voce dell’esimio professore

don Giovanni Tornabene d’Altomare, l’ultimo dei

sei figli e l’unico a non avere alcunché delle

caratteristiche fisiche rintracciabili, in alcuni più e in

altri meno, negli appartenenti alla Casata: non la

statura, ché era piuttosto bassa, né la stazza troppo

pesante e neppure i lineamenti del viso, certamente

non belli ma, per sua fortuna, assai attraenti; invece

la signorilità del suo modo di fare era quella

naturalmente tipica e per nulla affettata dei

discendenti del nordico Crociato. In fin dei conti, il

contrasto fra il suo fisico di abbondante quasi

cinquantenne e la sua originale personalità gli

donava un fascino del tutto particolare. Con voce

pacata, affinata da circa venticinque anni di

insegnamento, cercando di evitare lo sguardo severo

della cognata, di nuovo adombrata, disse:

- Io, questa preghiera, il Gloria, fin da bambino -voi

tutti lo ricorderete sicuramente che a dieci anni

parlavo correntemente il latino, molto meglio del

parroco di San Giovanni e, per giunta, me l’avevo

imparato da solo- io, dicevo, fin da bambino, questa

preghiera, anzi le parole di questa preghiera, le

sentivo, Dio mi perdoni, nostre, fatte apposta per la

nostra famiglia, precise, molto di più del motto che

compare sul nostro stemma coniato da uno dei primi

avi, all’inizio della nostra storia, quando il nostro

nome era agli albori del suo glorioso cammino.

Ascoltate: “gloria in principio et nunc et semper”!

Ah…la maestosità della parola gloria e invece: ”e

maris fragore siderum silentium”! No, non regge!

Per carità, non vorrei sembrare blasfemo, la gloria

terrena non è quella dello spirito, lo so, ha un

significato diverso, che si riferisce al coraggio, alle

imprese compiute in difesa dei derelitti. E’ la gloria

terrena che si accumula e trasmette nel corso dei

secoli.

Ma è proprio questo il senso che ben si adatta alla

storia della nostra casata, che comunque, non si

dimentichi, ha dato alla Chiesa numerosi ottimi

fedeli servitori.

Mi piacerebbe attribuire alla nostra massima un

concetto, seppure tratto da una libera traduzione,

quale: “solo chi ha affrontato mille tempeste

conoscerà la gloria”.

Don Vannino tacque, guardandosi intorno, forse

aspettando che qualcuno volesse dire la sua, cosa

che non accadde. Anzi dedusse, dall’espressione del

viso dei congiunti, che il suo intervento era sembrato

fuori luogo; allora si scusò.

Il fratello Vescovo guardò il fratello con sussiego,

sospirò e fissò di nuovo la volta coperta di affreschi,

dei quali poteva scorgere molto poco a causa della

scarsa illuminazione; dopo un paio di minuti,

ricominciò da dove aveva lasciato:

- Secundum Mysterium Doloris. Flagellatio.

Tunc ergo apprehendit Pilatus Iesum et flagellavit.

Dette queste parole, sua Eccellenza Ignazio

Tornabene d’Altomare, Vescovo di Fontىspano,

strinse fra il pollice e l’indice il terzo grano grande,

pos le mani in grembo, chiuse gli occhi e si immerse

nella meditazione.

Qualche attimo dopo si riebbe e prese a strofinarsi

le dita delle mani per riattivare la circolazione del

sangue; poi, aperti gli occhi e volto lo sguardo

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tutt’intorno, come se volesse accertare che i parenti

fossero ancora lì, recitò :

- Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur nomen

tuum, adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua sicut

in coelo et in terra;

La voce corale scorreva ormai come un torrente,

quasi monotona nell’identico movimento dell’acqua

quando, a fissarla, appare sempre la stessa:

- panem nostrum cotidianum da nobis hodie,

et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus

debitoribus nostris, et ne nos inducas in tentationem,

sed libera nos a malo. Amen.

Non vi fu sosta fra il Pater e l’Ave:trascinata dalla

prima preghiera, la seconda seguى di getto per dieci

volte ed il Gloria , introducendo, per la seconda

volta, l’invocazione:

- Domine Iesu, dimitte nobis debita nostra, salva

nos ab igne inferiori, perduc in caelum omnes

animas, praesertim eas, quae misericordiae tuae

maxime indigent.

Che fosse esaurita la seconda delle cinque parti del

rosario doveva essersi accorto anche Tanu che, dopo

aver bussato con le nocche alla porta, la aprì e si

fermò sulla soglia, cercando di individuare donna

Gerardina; vi riuscì solo quand’ebbe abituato gli

occhi alla penombra, dopo una manciata di secondi.

Cercò nella voce un tono che non tradisse la sua

emozione. Disse:

- Eccellenza, perdonate, ma io ci dovevo parlare con

urgenza, mi dispiace…mi avevate detto di stare

attento che nessuno venisse a disturbare la

commemorazione del vostro santo marito, e invece…

”Comu vostra Eccellenza m’avia dittu,,ordinai a

Pippu u stalliere di pigghiari u calesse pi farici

l’incontru a Mimmu, l’omu di fiducia di vostra

cugnata; Pippu incuntrau a Mimmu appena fora,

nt’a campagna, e ora cca sunnu, nt’o palazzu.(1)”

Donna Gerardina smorzò il sorriso che le pizzicava

le labbra nel vedere l’impaccio del suo fedelissimo

servitore; si alzò e si avvicinò al canterano, prese

uno alla volta i due lumi e ne regolò la fiamma:

ripose il primo e, tenendo in mano il secondo, si

accostò a Tanu in modo che il maggior chiarore ne

illuminasse bene il viso e puntò nei suoi occhi lo

sguardo. Poi finalmente parlò:

- Queste sì che sono cose interessanti, Tanu!

Nevvero Carolina? E come ha fatto quel… si

chiama?…Mimmo, e come ha fatto Mimmo ad

arrivare fino qua?

Tanu aspettava questa domanda nella quale

riconobbe una bonaria ironia, senza tuttavia

adombrarsene. Rispose:

- Glielo stavo spiegando, Eccellenza. Pippo partì

non appena glielo dissi…niente bardature al

cavallo, e neppure sonagliere, solo il tempo di

imbrigliarlo e attaccarlo alla vetturetta…quattro o

cinque minuti…o forse un po’ di più, ora che ci

penso… perché dovette caricare gli arnesi per

riparare la carrozza della vostra eccellentissima

cognata…intanto non trovava i

lumi…insomma…facciamo dieci minuti… al

massimo. Usci dalla rimessa di gran carriera, con

la frusta in mano, passò il cancello sollevando terra

e sassi. Ora ora tornò. Con Mimmo e la

carrozza…aggiustata.

Tanu tacque per osservare lo stupore sul volto della

padrona; poi compiaciuto continuò:

- Pippo mi raccontò di aver incrociato Mimmo poco

fuori la cittaduzza, in contrada Badessa: “ci fici

signu ri fermarisi”e si fermò. Un miracolo,

Eccellenza, un miracolo! Era passata sì e no

mezz’ora dall’incidente…sì, insomma, da quando i

vostri eccellentissimi parenti avevano ripreso il

viaggio verso questa casa, e mentre Mimmo,

“accussì iddu stessu”mi spiegò, stava pensando

come poteva fare per accomodare la ruota

frantumata, passò di lì “u chiù megghiu carretteri

d’a Sicilia, don Giacomino Scuderi”, il più fornito e

il più gentiluomo di tutti i commercianti ambulanti

della provincia. Don Giacomino si scusò di non

avere la ruota giusta di misura, di dovergliene

adattare una un po’ più piccola che, comunque, per

un breve tragitto, avrebbe fatto il suo dovere.

Non si sa come fece a infilare il mozzo da solo e

non ci fu verso di mettergli in mano qualche

spicciolo, mi ha confidato Mimmo. Prima di

ripartire col suo capiente carretto incaricò Mimmo

di portare i suoi reverenti ossequi a vostra

Eccellenza, e di dirvi che di signori buoni, giusti,

onesti e leali quanto vostro marito, il principe

Gioacchino Tornabene d’Altomare, che lui ha

avuto il privilegio di servire, non ce ne saranno mai

più in questi feudi.

Donna Gerardina, visibilmente commossa, si

avvicinò alla cognata Carolina e, come le accadeva

di solito quando si rendeva conto di aver tolto

dall’ambascia una persona amica, non riuscì a

trattenere una lacrima nel sussurrarle:

- Contenta?

- Contenta?…Ma…

Donna Carolina non terminò la risposta perché Tanu

la interruppe con voce agitata:

- Bestia! Cento volte bestia che sono! Scimunito

senza testa…Io ero salito non per dirvi una storia,

non per Pippo o Mimmo, non per dire

“minchiate,…oooh…scusasse vostra Eccellenza,”

ma per riferirvi la mala ventura. La cavalla di

donna Carolina sta male. Dopo pochi minuti

dall’arrivo, ancora tutta bagnata di sudore, s’è

accasciata là nella rimessa.…Respira a fatica e

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butta acqua e schiuma dalla bocca spalancata.

Pare che sta morendo…pare, Dio non voglia!

Tanu aveva detto queste parole con una tale

concitazione che solamente la sua padrona, abituata

a siffatte manifestazioni, poté comprendere

l’effettiva portata del discorso; gli altri non andarono

al di là dell’intuizione di un increscioso incidente

alla cavalla. Con tutto ciò , un’allarmata pena

penetrò nell’animo di tutti i d’Altomare, senza però

degenerare in accorate considerazioni:

probabilmente ognuno, nel silenzio, cercava di

determinare l’importanza del fatto. Fu la figlia di

donna Carolina, Sofia Ajello, che, gettandosi

piangente tra le braccia della madre, suggerì l’idea di

un avvenimento drammatico.

- Mamma, che capitò a Rosetta?

Riuscì a pronunciare la ragazza.

I parenti erano ormai in piedi: donna Carolina,

tenendo Sofia per mano, prese a scendere lo scalone

e gli altri le andarono dietro, parlando a bassa voce.

Donna Gerardina aveva preso sottobraccio il nipote

Ricuzzu e se lo rimirava con amore.

Nella stanza da letto don Ignazio d’Altomare,

rimasto solo, abbandonò la comoda poltrona,

rassettò la sua veste, lasciando scivolare nella tasca

interna il prezioso rosario, lanciò un'occhiata a di là

della porta dove la fantastica prospettiva della

gradinata splendeva, allungandosi sotto decine e

decine di fiammelle. Ascoltò il rumore dei passi dei

congiunti sui gradini e poi il loro mormorio

allontanarsi per perdersi nella maestosa ampiezza

dell’androne. Sospirò e si diresse verso la terrazza.

Da basso il via vai dei servitori era frenetico, ma

silenzioso, e le rare parole erano sussurrate.

Innumerevoli rumori rivelavano una disordinata

attività verso un evento insolito ed inatteso: cigolii

di porte aperte e richiuse, scrosci d’acqua pompata

in recipienti di ogni foggia e materiale, sfriggoli di

cassetti aperti e subito richiusi, strascinio di ante

d’antichi armadi, stridore di chiavistelli, si

diffondevano all’interno del palazzo prima di

ammutolirsi nell’aria profumata del giardino.

Percorsa di buon passo, la strada acciottolata che

tagliava il parco, dal palazzo alla rimessa,

richiedeva almeno cinque minuti. Ai suoi lati erano

state accese numerose fiaccole il cui chiarore,

tremolante per la brezza della sera ormai inoltrata,

tracciava sul terreno una scia di luce paragonabile

alle luminarie sul Corso nella notte della festa di

San Giovanni Battista. Chiarore, fumo e profumo di

citronella avvolgevano, mutandole in

fantasmagoriche figure rossastre, le statue di pietra

collocate qua e là, nel corso di numerosi secoli, con

studiato disordine. …….. (segue)

PASTA COI BROCCOLI

E MUDDICA ATTURRATA

INGREDIENTI per 4 PERSONE

500 grammi di bucatini;

1 broccolo (cavolfiore, per gli amici del continente)

di media grandezza;

2 cipolle;

50 grammi di uva passa;

50 grammi di pinoli;

4 sarde salate;

olio extravergine d’oliva;

2 bustine di zafferano;

100 grammi di pangrattato;

2 cucchiaini di zucchero semolato; sale e pepe

(a proprio piacimento)

PROCEDIMENTO

Prendete l'uva passa ed i pinoli e metteteli in acqua

così che si possano ammorbidire.Nel frattempo

dedichiamoci al broccolo: lessate le cimette e le

parti più morbide dell'ortaggio e non gettate l'acqua

di cottura, perché la userete per bollire la pasta.

Tagliate finemente le cipolle e soffriggetele fino ad

imbiondimento.Poi, sempre nello stesso tegame,

aggiungete le sarde salate (già pulite e senza lische)

e pestatele come si deve per ridurle in poltiglia.

Aggiungete anche l'uva passa ed i pinoli dopo averli

opportunamente scolati.Tenete tutto sul fuoco per

qualche istante così che il sughetto si insaporisca.

E' quindi la volta di aggiungere il broccolo lessato,

accompagnato da un po' di pepe macinato e dallo

zafferano sciolto in un pochino di acqua (qualche

cucchiaio). Mescolate vivacemente.

Frantumate il broccolo fino a ridurlo quasi in

poltiglia.

Portate a cottura.

Non resta che cuocere la basta nell'acqua del

broccolo alla quale aggiungerete una bustina di

zafferano.

Se non fosse abbastanza eventualmente allungatela

con altra acqua e mettete una bustina di zafferano.

Non appena la pasta sarà pronta, unitela alla salsa di

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broccoli e copritela con la mollica tostata.

Ma come si prepara la “muddica atturrata”?

Molto semplice: Prendete una padella e riponete al

suo interno del pangrattato.

Riscaldate sulla fiamma e fate tostare la mollica.

Spegnete la fiamma quando la mollica avrà

acquistato un colorito bruno.

A questo punto aggiungete un pochino di olio di

oliva, aspettate che venga assorbito e poi

aggiungete 1 o 2 cucchiaini di zucchero

(se non volete metterle, non fatelo.)

DETTI E PROVERBI

Taci e maci.

T’abballanu ‘ncapu la panza.

Taglia di Giuda.

Taglia lu strunzu cù lu filu.

Talialu che beddu !

Tali patri, tali figliu.

Taliari di mal’occhiu.

Tanti testi, tanti mazzi.

Tanticchia cchiù, tanticchia menu.

Ta talìatu ma’ a lu specchiu ?

Tavula ricca e tistamentu poviru.

Terra quantu vidi….casa quantu capi.

Terra fangusa…..spica granulusa.

Testa cun parla si chiama cucuzza.

Ti amu, ti stimu e ti rispettu….

ma chiddu chì mà fattu nun mi lu scordu.

Ti giuru quantu stimi la vista di l’occhi.

Ti manciasti tuttu lu sceccu

e ti sta’ cunfunnennu pi la cuda ?

Tinta ‘ddà terra ca ’un vidi patruni.

Tintu cù è mortu nnì lu cori d’atru.

Tintu pì chiddu chi avi bisognu.

Tintu cù mori, cù resta s’arrisetta.

Tintu quannu sciddica lu pedi.

Tirari acqua cu lu panaru.

Tira un carlinu e tiralu cuntinuu.

Ti ristaru ‘ngula comu li maccarruna di l’urtima

sira.

Ti si leggi ntàll’occhi.

Ti vò fari un nimicu ?, presta sordi a ‘n’amicu.

Ti vò ‘mparari a fari detta, accattati la chitarra

e la scupetta.

Ti vogliu bbeniri comu un rizzu ‘mpettu.

Per i non udenti:

taliari= guardare

tintu= cattivo o male per….

dettta: debiti

Il padre della pipa siciliana fatta a mano

«Un mestiere che scomparirà con me»

Salvatore Amorelli è partito 35 anni fa dal suo

piccolo laboratorio di Caltanissetta, diventando

simbolo di eccellenza e professionalità in tutto il

mondo.

Grazie alla cura con cui tratta un arbusto che cresce

sugli altipiani siciliani.

«Ma questa attività viene ostacolata, sono rimasto

l'unico artigiano in tutta l'Isola»

Tabacco di ottima qualità e una pipa d'autore:

secondo gli intenditori ci sono attimi in cui bastano

questi due ingredienti per assaporare il senso della

vita. Una convinzione su cui il nisseno Salvatore

Amorelli ha fondato un'attività imprenditoriale

lunga 35 anni e di grande successo, soprattutto

all'estero, dove il suo nome è associato a eccellenza

e professionalità.

Una passione iniziata per caso.

«Correva l’anno 1978, ero a Pisa, matricola alla

facoltà di informatica. Per il mio diciannovesimo

compleanno una ragazza mi regalò una pipa. Fu

amore a prima vista. L'anno successivo lasciai

l'università e ritornai a Caltanissetta con un'idea in

testa: fabbricare pipe», racconta.

Da quel momento in poi, senza «mai andare a

bottega da nessuno», comincia a progettare i suoi

primi modelli ispirandosi alle marche più

rinomate esposte nelle tabaccherie siciliane.

«Il mio primo acquirente - ricorda - fu un

imprenditore nisseno che mi permise di avviare

un'attività artigianale. Era il 1980».

La sua produzione si distingue da subito per la cura

nel trattare i pezzi di radica dell'Erica Arborea, un

arbusto che cresce spontaneo sugli altopiani

siciliani, da cui ricava le pipe.

«I ciocchi vengono tagliati in abbozzi, bolliti,

selezionati, messi ad asciugare, lasciati maturare

per un periodo, da cinque a trent'anni, necessario a

dare compattezza alle fibre del legno. Trascorso il

tempo di stagionatura, sono pronti per essere

lavorati. Il segreto che ci rende unici dipende dalla

leggerezza e dalla porosità della tipica radica

siciliana.

La svolta arriva dall'incontro con Mario Lubinski -

titolare di una grande azienda che distribuisce sigari

e tabacchi di qualità - che inizia a esportare le

Amorelli nel resto d'Italia e all'estero: Germania,

Austria, Usa, Svizzera, Canada, Hong Kong sono i

Paesi in cui ottengono i maggiori successi.

Grandi personaggi del passato e del presente ne

hanno avuta o ne possiedono una.

A forma di pastorale per papa Wojtyla, un

sassofono per l'ex presidente Usa Bill Clinton, in

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oro e diamanti per l'ex cancelliere tedesco Helmut

Kohl e un prezioso narghilè, realizzato con un corno

di cervo cresciuto nei giardini palermitani di

Palazzo D'Orleans, per il re dell'Arabia

Saudita Abdullah Al-Saud.

Elaborazioni prima di allora impensate vengono

forgiate dal maestro nisseno. «Busbee, Frac, Nail,

Ghibli, Lyra, Fish tail sono i nomi delle serie

caratterizzate da singolari forme, colori e sapori.

Ritengo che fumare la pipa sia un insieme di

sensazioni olfattive, visive, tattili e gustative».

Negli ultimi anni inventa le texturizzate al laser.

«Fertility, Flowery, Penne di San Michele sono alcuni

esempi, impiegando in maniera originale i

macchinari moderni. Modelli per tutte le tasche, non

solo per collezionisti o uomini di successo». In

totale la produzione conta circa quattromila

esemplari all'anno e il mercato più redditizio è

quello estero.

Una maestranza che andrebbe tutelata ma che al

contrario, «viene ostacolata ed è destinata a

scomparire con me», sostiene amareggiato.

Anni spesi a combattere contro la burocrazia, «allo

scopo - dice - di ottenere, invano, contributi e

vantaggi per la crescita del territorio», lo hanno

sfiancato.

«Sono stato costretto a ridurre il numero dei miei

dipendenti. Oggi siamo solo in quattro. Oggi è

dura fare l'artigiano in Sicilia, persino i miei figli

hanno intrapreso altre professioni».

I VESPI SICILIANI

dagli amici di Lumie di Sicilia

*Miles gloriosus = il valore aggiunto

*Ma, non si era detto niente più pubblicità durante i

film trasmessi in TV? = che fa, spotte?!

*Digestione diffìcile = al fegato non si comanda

*Colpo di fulmine fu! = il soffio al cuore

*Sciopero degli autoferrotramvieri del sindacato

autonomo CO M U = Comu ??? . . . comu cci

abbasta l'arma di fari ancora scioperi?!

* Il Libro di cucina = tutto quello che avreste voluto

sapere sul lesso e che nessuno vi aveva mai detto.

* Le candidature agli Oscar = star wars

* Viaggio in Olanda = saranno paesi bassi, ma i

prezzi...!

* Fondamentalismo islamico = il tempio è tiranno

* Ad un imbianchino fiorentino = il palazzo pitti?

* Lotta alla mafia = ha subìto una Brusca frenata

* I vantaggi dell'ora legale = ora pro vobis

* Marito rassegnato = digerire aiuta la vita

* Il sarto:per cucirti un vestito ti scuce un sacco di

soldi

* La moglie del sarto = l'alter ago

* L'indossatrice = la sottiletta

* Il tabaccaio = un venditore di fumo

* Poligono di tiro = il centro-studi

* L'artificiere = il campione in carica

* Il "mecenate" del calcio = mena il fan per l'ala

* La domenica del tifoso = il calcio sui maccheroni

* Pugilato = occhio per occhio, dente perdente

* Lo storico = uno scrittore di successo

* La serenata = una cantata da basso

* Il ballerino = un uomo al passo coi tempi

* Lirica ad alto livello = un cost d'eccezione

* Il duo pianistico = l'accordo bilaterale

* Le misure della starlet = il bello della divetta

* Giochi al lotto? = ma nemmeno per sogno!

* Litigio fra enigmisti = la parolacce incrociate

* Vis grata puellae = il piano-forte

* Un'allegra partita a briscola fra vecchi amici =

carte diem

* Vino genuino = uva tantum

* Spesso nell'alcool si concepiscono idee geniali =

la fecondazione in litro

* All'osteria = hic sunt beones

* Il beone = beve ad bibitum: vivo, ergo rum.

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Il 5 marzo il Palazzetto dello Sport di Savona ha

preso il nome di un grande uomo:Settimio Pagnini.

Un mio ricordo:

Anno 1966

Dopo tanta attesa è arrivato il momento del derby.

La neonata squadra di pallacanestro Savona Basket

Club incontra in campionato la Cestistica Savonese,

forte di una tradizione societaria di oltre 18 anni.

La nostra è una squadretta dalle modeste qualità,

assemblata fra amici abbastanza “nanetti”, media

17,5cm.

In tutto il campionato vinceremo non molte partite,

ma questa era la partita più importante dell’intera

stagione.

Personalmente la vedevo come una partita

qualunque, ero a Savona da poco più di un anno, ma

avvertivo l’atmosfera elettrica già da tempo e non

solo per la rivalità cittadina.

Bubu, Felice, Franchino, Sergio, Piero sono caricati

a mille e il coach ribadisce qualche schema, dando

le consuete istruzioni.

Io potevo supplire alla modesta tecnica con una

corsa frenetica e continui raddoppi sui portatori di

palla.

Insomma dovevo ricoprire con intensità il ruolo di

“cacciatore”: cercare di recuperare palla,correre e

passare, perché i tiri li dovevano provare altri, più

dotati.

La gara è animata e continuo a correre, arrivato ai

limiti dell’ area dovevo solo ricevere la palla,

fintare e passare.

Ogni tanto, se libero da marcature, potevo

permettermi un tentativo di tiro.

“Infatti” dopo qualche tiro- ne fosse entrato uno

manco per storto- sento un ordine dalla panchina

avversaria:

“ Non fare fallo, lascialo tirare, intanto quello (che

sarei stato io) non ne mette una”.

La pura e semplice constatazione mi scatena però

dentro una stizza particolare.

Pochi secondi dopo provo a tirare e l’adrenalina fa

il miracolo: “sciuff” : 2 punti preziosi per noi.

Sulla ripresa del gioco da parte dei “nemici”,

intercetto un passaggio e volo verso canestro,

realizzandolo.

Due canestri di seguito non li farò mai più.

Torno verso centro campo e guardando gli occhioni

del Mister nemico - eravamo entrambi meravigliati

- gli rivolgo il più classico dei gesti dell’ombrello.

Pouff !

E’ subito rissa, mentre l’allenatore avverso sorride e

il mio -il grande Bruno Racchi- s’incazza con me.

Ovviamente vado fuori dal campo ma mi resta negli

occhi quel sorriso.

Dopo la partita andai a cercarlo per scusarmi,

vabbé che ero un giovane diciassettenne, ma….

Invece mi venne incontro e mi diede la mano.

Non ci dicemmo nulla.

Ho continuato ad incontrare quel volto per tanti

anni mentre aumentava progressivamente la

considerazione e l’ammirazione.

Prima al “Palazzetto” durante la mia corta carriera

di giocatore, poi al Coni e poi ancora, nei più

diversi ambiti cittadini. Alle tante feste dello e sullo

Sport.

E nelle occasioni in cui si presentava con quella che

era la divisa a cui teneva di più: ” Alpino”.

Avevo scoperto, nel frattempo tutta la sua attiva

militanza nella Resistenza, con l’adattissimo nome

di battaglia “Otto”.

L’anno scorso, al Nuovofilmstudio abbiamo

presentato il bel docufilm di Diego Scarponi

“Ribelli e fuorilegge” e ci siamo salutati e

abbracciati.

Alla fine della proiezione, l’ho intervistato per

chiedergli cosa doveva restare ai giovani di oggi di

quanto avevano dentro quei giovani di settant’anni

prima.

Il compagno “Otto” forte dei suoi 94 anni, senza

alcuna retorica, pacatamente ha parlato di libertà.

Nel frattempo vedere Settimio Pagnini fra le

poltrone di casa mia “ormai con Giovanna ci

viviamo lì dentro” e Scarponi padre, Serafino, uno

degli avversari in quella partita di mezzo secolo

prima e Felice Rossello,compagno di squadra in

quella partita, mi ha fatto ricordare uno degli

schemi di gioco di allora, il triangolo: il cosiddetto

“dai e vai”.

E subito ho pensato che forse è davvero semplice.

In fondo basta solo saper dare e saper andare.

r.a.

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COSE DI CASA NOSTRA

Il sodalizio Siculo Savonese “Luigi Pirandello” e

l’affascinante storia di Kolymbethra.

di Luciana Berello

Venerdì 26 febbraio 2016, presso la Sala Rossa del

Comune di Savona, il Sodalizio Siculo Savonese

“Luigi Pirandello” e le delegazioni FAI di Savona

Albenga-Alassio, hanno ospitato Giuseppe Lo

Pilato, Direttore del Giardino della Kolymbethra

sito nella Valle di Templi di Agrigento.Giuseppe Lo

Pilato ha illustrato con immagini, esperienze e

parole, il percorso di rinascita di un sito

archeologico di grande rilevanza naturalistica e

paesaggistica, dal 1999 affidato al Fondo Ambiente

Italiano, dalla Regione Siciliana, per un periodo di

25 anni.

Kolymbethra è uno dei luoghi di grande importanza

sia a livello territoriale che nazionale, per quanto

riguarda il recupero e la conservazione delle

bellezze artistiche e paesaggistiche italiane.

Kolymbethra è il termine greco con il quale si

indica un tipo di piscina utilizzata in età romana per

i giochi acquatici.

Il suo restauro paesaggistico e strutturale,

organizzato dal FAI, ha posto fine alla situazione di

abbandono venutasi a creare negli ultimi decenni

del Novecento, permettendo inoltre la riscoperta di

alcuni ipogei.

Kolymbethra e la sua riqualificazione rappresentano

l’esempio tangibile della possibilità di riportare alla

luce luoghi della nostra Italia ricchi di Storia.

Testimonianze di un passato che è la cultura del

nostro Paese e per renderla fruibile ai cittadini di

oggi e ai visitatori provenienti da altri Paesi.

La storia di Kolymbethra nel racconto

appassionante del Professor Giuseppe Lo Pilato.

” Incontrai per caso Kolymbethra nel 1987, quando

iniziai a lavorare come agronomo. Mi capitò un

episodio la cui importanza compresi solo dopo anni.

Un contadino che si prendeva cura della

Kolymbethra, chiese la mia consulenza per un suo

agrumeto sito nella Valle dei Templi, riguardante il

danno di una gelata tardiva.

Quel contadino, ad un certo punto, mi disse:

“Dottore, venga con me, la porto al Giardino

Kolymbethra!” Mi ritrovai in un luogo del quale

non conoscevo nemmeno l’esistenza!

In mezzo all’aridità della gelata, spiccavano la sua

bellezza e l’acqua che sgorgava da ogni suo angolo!

Il contadino, davanti a quello spettacolo della

natura, mi confidò: “Dottore, in tutta coscienza, non

guadagno più nulla con il mio lavoro, perché questi

aranci danno frutti con i semi, che nessuno vuole

più! Li coltivo perché non ho cuore di

abbandonarli!”

Avevo un’altra idea dei nostri agricoltori!

Che dividono le piante in “utili” e “inutili”.

Quel contadino, nonostante l’inutilità di quelle

piante, non riusciva a staccarsene!

Non era solo il mezzadro della Kolymbethra, che in

quegli anni era ancora di proprietà privata: era il

custode, magari inconsapevole, di una tradizione

millenaria.

Sullo sfondo del Giardino di aranci, amorevolmente

custodito dal contadino, si apre il paesaggio di

mandorli e ulivi attraverso il quale è possibile

raggiungere il Tempio della Concordia.

E’ questa la peculiarità della Valle dei Templi:

essere un sito di notevole rilevanza archeologica e

al tempo stesso paesaggistica.

Dove la campagna tradizionale siciliana è

rappresentata nei suoi caratteri fondamentali fino

agli anni ’50 del secolo scorso.

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Anni in cui l’urbanizzazione selvaggia arrivò a

stravolgere i suoi aperti paesaggi.

Il Parco è quindi anche il documento di una

Storia che è viva dall’inizio del corso delle Ere in

avanti.

Una Storia di cui tutti siamo figli: le apparteniamo,

da qui proveniamo.

Figli di quella generazione (ne è un esempio il

contadino mezzadro di Kolymbethra) che fino a

qualche anno fa si occupava di conservare quel

paesaggio. E così facendo manteneva intatto un

patrimonio della nostra Storia che appartiene sì, a

noi Italiani, ma anche all’Umanità intera.

Tra il Tempio di Vulcano e il Tempio dei Dioscuri,

esiste un avvallamento che anticamente ospitava

una diga. Parliamo di 2500 anni fa.

La diga era il bacino idrico della popolazione di

Kolymbetrha, al tempo stimata in 60.000 unità!

Quegli uomini inventarono…l’acqua!

La fonte di tutte le Civiltà.

Le prime città, infatti, si costruivano attorno a

fiumi, o in riva al mare.

Gli acquedotti che erano la rete idrica di

Kolymbethra, sono detti freaci, dal nome del loro

inventore, l’architetto Freace.

Costituivano, inoltre la riserva idrica della città in

caso d’assedio.

I 18 acquedotti costruiti 2500 anni fa, che

dissetavano gli abitanti di Atracos, e permettevano

loro di fare agricoltura, sono tuttora esistenti!

Tra le colture presenti nella Kolymbethra,

documenti risalenti al 1100, testimoniano

l’esistenza di un canneto all’interno del Giardino.

Molto probabilmente formato da canne da zucchero,

importate in Sicilia dagli Arabi.

A cavallo tra il 1600 e il 1700, iniziarono le

coltivazioni di agrumi. Che in Sicilia non vengono

chiamate agrumeti, ma bensì Giardini, come era

usanza Araba.

La loro coltura era puramente ornamentale: erano i

Giardini dei Re e dei Principi Arabi.

L’agrumeto sorge nel luogo dove, in epoca

precedente, sorgeva la piscina (Kolymbethra in

greco significa piscina).

Era per gli abitanti del tempo, un luogo di delizie,

oltre che un bacino idrico! Il recupero della

Kolymbethra ha unito, così, archeologia e

paesaggistica.

Quando il giardiniere-mezzadro, dalla cui

conoscenza iniziò il mio coinvolgimento in

Kolimbethra, smise di occuparsene, si avviò un

processo di inselvatichimento delle colture esistenti

che purtroppo durò anni!

Senza la mano, il cuore di quel giardiniere,

Kolymbethra entrò in agonia: in questo stato la

ritrovai dopo molti anni, quando ritornai a visitarla.

I rovi soffocavano gli aranci.

La mancanza d’acqua e irrigazione aveva reso aridi

i prati.

Trovai al mio ritorno un vero disastro, quando

invece mi aspettavo bellezza!

Mi assalì una grande rabbia!Eravamo nel 1995.

In quel periodo si lottava nella mia città, Agrigento,

contro l’abbattimento di siti archeologici, per dare

spazio alla cementificazione selvaggia.

Anche se esisteva una Legge che vietava di

costruire in quei luoghi patrimonio storico del

nostro Paese! Cercando di fare assolutamente

qualcosa contro lo spirito dominante di quel

momento, contro l’abusivismo edilizio, raccolsi

altri cittadini attorno a me!

Se una parte della città voleva arricchirsi costruendo

abusivamente nella Valle dei Templi, la parte

ambientalista che rappresentavamo, voleva piantare

alberi al posto di palazzine!

Non si è trattato di un momento facile!

Ci rivolgemmo alla Dottoressa Fiorentini,

Sovraintendente ai Beni Culturali.

Una donna del Nord, un’archeologa, la cui passione

per il suo lavoro l’aveva indotta a trasferirsi ad

Agrigento. Fu l’unica figura istituzionale che seppe

opporsi alla volontà dei costruttori di palazzine con

grande coraggio! Il suo primo passo, fu proporci di

creare un’Associazione tra noi ambientalisti, per

tutelare, conservare la bellezza di Kolymbethra.

Ci sentimmo motivati a proseguire la nostra

battaglia!

E, come spesso avviene, fu un caso a decidere una

svolta a nostro favore in questo senso.

Sono specializzato in Agricoltura Paesaggistica e

Archeologica.

Ricevo molte riviste specializzate nel mio settore.

Su una di queste, lessi del recupero di una Villa

Antica in Provincia di Varese da parte del FAI.

Una sigla, fino a quel momento a me sconosciuta!

Chiesi informazioni e mi parlarono di un gruppo di

aristocratici illuminati del Nord, i quali si

occupavano del recupero di opere d’arte in rovina.

Mi recai a Milano personalmente, deciso a chiedere

il loro aiuto per Kolymbethra.

Ottenni che, su mandato della Dott.ssa Fiorentini, il

Dottor Magnifico, vice- Presidente del FAI,

scendesse ad Agrigento per un sopralluogo.

Lo accogliemmo nel cuore della Kolymbethra,

attraverso un sentiero noto solo ad uno dei

dipendenti del Giardino. Accadde un fatto

straordinario: anche se eravamo a metà giugno, quel

dipendente trovò un’ arancia, e la offrì al Dottor

Magnifico. “Dottore, s’u manciassi” gli disse

porgendola dopo averla sbucciata.

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Man mano che assaporava il frutto, l’espressione

del Dottor Magnifico cambiava, come se nel sapore

di quel frutto esistesse tutta la sofferenza del luogo

che lo aveva prodotto! Sono tanti i luoghi che il FAI

ha nel cuore e a cuore. Ma Kolymbethra, negli anni,

con con mia grande soddisfazione, resta al primo

posto! La sua Storia è diventata una realtà positiva

anche nel presente!

Recuperando l’antico, abbiamo dato il via a

qualcosa di nuovo e di diverso contro le cattive

abitudini del nostro Paese. Tutti i lavori apportati in Kolymbethra sono stati

a costo zero per la Regione Sicilia. Fatto da non

sottovalutare! Nella Kolymbetrha si trovano tutte le

varietà di agrumi importate dagli Arabi in Sicilia

nel corso dei secoli.Sono presenti, tra le colture di

Kolymbethra, quattro varietà di arance, bergamotto

e da poco tempo anche il chinotto, grazie al

Sodalizio con la vostra città, Savona!

Un patrimonio agricolo-genetico che esiste solo in

Kolymbethra, dove gli agrumi sono arrivati e dove

hanno iniziato la loro storia!

Le immagini che più definiscono il senso del nostro

lavoro, sono le coltivazioni di agrumeti con sullo

sfondo, le rovine dei Templi, come ad esempio

quello dei Dioscuri.

Siamo anche riusciti a recuperare il sistema di

irrigazione degli antichi acquedotti freaci!

Perché è l’acqua l’anima della Storia dell’Uomo,

non solo di Kolymbethra!

Gli Arabi perfezionarono il sistema esistente, ed è

curioso sapere come, alcuni termini riguardanti i

vari tipi di irrigazione usati ancora oggi, abbiano

origine nella lingua araba.Ci siamo anche rivolti

alla contemporaneità dei mezzi. Introducendo in

alcuni luoghi del Giardino sistemi di irrigazione

moderni. La cui presenza resta comunque discreta

senza violentare il paesaggio antico.Una delle

grandi bellezze del nostro Paese è stata così ricreata

e chi vorrà visitare la Kolymbethra potrà respirarla

nei suoi Giardini!

Il significato del luogo sta nella possibilità di

comunicare tra gli alberi, cogliendo le sfumature

diverse ad ogni ora del giorno.I Templi sullo

sfondo, sono la testimonianza della nostra antica

civiltà Esperienza inconsapevole dei sensi,

dell’animo…appagante! E’ per questo che abbiamo

lavorato tanto e ancora continueremo per

conservare e tutelare Kolymbethra! Io stesso, i miei

collaboratori, i giardinieri. Per fare in modo che, il

fascino di Kolymbethra, possa unire gli animi di chi

vorrà fare la sua conoscenza! E’ una delle nostre

risorse più importanti! E non solo dal punto di vista

economico, sarebbe…arido (per usare un termine

agricolo…) se si riducesse tutto a questo!

Vivono, sono tangibili in ogni angolo del Giardino,

il rispetto delle nostre origini, dell’ambiente, della

Memoria della nostra identità di Italiani.

Tutela è dare valore a tutto questo!

Dimostrando che sbagliava chi voleva “fare i soldi”

distruggendo, cementificando! E’ possibile, invece,

trarre tutti maggiori vantaggi creando posti di

lavoro, lavorando per la conservazione e la

riqualifica dei luoghi di bellezza del nostro Paese!

Rendendoli fruibili anche nel loro aspetto culturale

e storico! Inaugurando Kolymbethra, abbiamo

issato la bandiera Italiana e suonato il nostro Inno

Nazionale.

Ma la Signora Fiorentini, il Sovraintendente alle

Belle Arti che ha creduto insieme a noi in questo

progetto, ha chiesto anche un brano tipico siciliano.

E tutti noi ci siamo ritrovati a cantare Sciuri Sciuri!

Kolymbethra è nata dalla collaborazione di una

donna del Nord e un uomo del Sud.

Questo significa che a contare, non è l’appartenenza

geografica, nelle persone.

Ma la loro umanità, la loro interiorità

Mi piace pensare che uno degli aspetti più

importanti del recupero di Kolymbethra sia questo:

il lavoro appassionato, coraggioso, di due italiani

che hanno a cuore il loro Paese!”

Che le cose siano così, non vuol dire che debbano

andare così. Solo che, quando si tratta di

rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare,

vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la

stragrande maggioranza preferisce lamentarsi

piuttosto che fare. Giovanni Falcone

Con tenacia, coraggio, passione, il Professor

Giuseppe Lo Pilato ha reso realtà il pensiero del

suo conterraneo Giovanni Falcone.

Una realtà non solo presente nell’Isola Sicilia.

Ma estensibile a tutto il nostro Paese.

E’ stato questo il senso dell’incontro voluto dal

Sodalizio Siculo Savonese “Luigi Pirandello” nella

Sala Rossa del Comune di Savona.

Page 20: : euterpe48@gmail.com Picciotti carissimi vasamu li mani. · fiorentina lettrice appassionata di poesia, ha l¶opportunità di incontrare il poeta siciliano che preferisce, proprio

20

Auguri di pronto recupero ai nostri Soci Aurelia

Trapani e Salvatore Finocchiaro, passati entrambi

di recente sotto le mani dei chirurghi.

Complimenti vivissimi al Milazzese Vincenzo

VITALE, Comandante della Capitaneria di Porto di

Savona, per aver pensato e realizzato sulla Costa

“Neoclassica”un incontro-patronaggio fra

l’Ist.Nautico “L.Pancaldo” e l’Ist. Nautico” Da

Vinci” di Milazzo

8 marzo Festa della Donna

Casino di Lettura

Il nostro Presidente Enzo Motta ha presentato

l’amica del “Pirandello” Monica Castello che ha

letto nell’occasione “Diario sentimentale di uno

str…” Occasione favorevole. Quando la coscienza

di un uomo decide di raccontarne la storia sono

guai... Monologo teatrale presentato per la prima

volta in lettura e di cui ci auguriamo una replica

autunnale. Un attento pubblico ha partecipato

apprezzando l’iniziativa. Mentre Monica ha così

commentato:

Magnifica serata, sala piena, applausi... Grazie ad

Enzo Motta e agli amici del Casino di lettura per

avermi invitato e ad Enrico Bonavera per essere

riuscito ad insegnare qualcosa anche ad una come

me...

APPUNTAMENTI DA NON PERDERE

OFFICINE SOLIMANO- CATTIVI MAESTRI

Sabato 2 aprile 2016 ore 20,30

ALLEGRIA DI NAUFRAGHI

Di e con Annapaola Bardeloni. Stefan Gandolfo al

contrabbasso. Compagnia Trabateatro.

La poesia non diventa pane quando hai fame, né ti

veste se sei nudo: ma la poesia ha musica, accenti,

ritmo, piedi che battono,dita che schioccano.

- La poesia? Ammémm'ha un poco salvato la vita.

- Quale poesia?

- La poesia. Ti parrebbe strano?! Eppure... quando

addosso ci avevo quel freddo assurdo che pareva

non finire mai, o quel caldo che mi strappava la

bocca... allora mi ripetevo la poesia.

Quella della scuola. Che magari neanche capivo, ma

diventava musica e magari anche preghiera e mi

segnava il passo e il respiro e i sospiri. Lo ha detto

Mario, neanche troppi anni fa. Oggi lo dice Igiaba,

lo dice Aminata, lo dice Carlos e... Tre ragazzi

seduti stretti sugli scogli. "Che la vita è questa. Ch'è

fatta della storia mia e della storia tua. E mica lo ha

detto Dio che in questo pezzo di terra ci puoi stare

solo tu".

Martedi 19 aprile ore 18,30

CASINO DI LETTURA

Il nostro amico Pierguido QUARTERO presenterà

il suo romanzo finanziario “La Lettera Perduta”

Seguirà apericena. Insistiamo per una nutrita

partecipazione.

Società Cattolica Via Famagosta

Sabato 16 aprile ore 16,30

Anna e Giuse CERVETTO presentano

Diario di Viaggio: MESSICO E GUATEMALA

Una videoproiezione in paesi affascinanti

Questo video si riferisce ad un viaggio effettuato

per visitare luoghi che hanno ospitato le civiltà

precolombiane dei MAYA , degli AZTECHI, degli

OLMECHI, dei TEOTIHUACANI, dei TOLTECHI,

degli XAPOTECHI. CITTA’ del MESSICO, SAN

CRISTOBAL DE LAS CASAS, PALENQUE,

MERIDA, CHICHEN ITZA, UXMAL, KABAH,

CITTA’ del GUATEMALA, CHICHICASTENANGO

ed infine TIKAL con la straordinaria Piramide del

SERPENTE BICEFALO dalla cui sommità lo sguardo

spazia nell’infinita foresta subtropicale.

Anche se in ritardo sono graditi vero?

Santuzzo