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2016 numero 3 – Aprile
Email: [email protected]
Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Finalmente lo scorso mese è
uscito il secondo libro della
nostra Emanuela.
Siamo alla fine del secolo
scorso.
Una giovane maestrina
fiorentina lettrice appassionata
di poesia, ha l’opportunità di
incontrare il poeta siciliano
che preferisce, proprio a
Firenze.
Con un’eccitazione particolare lo incontra e mostra
intelligenza e affascinante determinazione facendolo
innamorare. Il poeta, Mario Valastro, torna nella sua
casa a Catania ma ormai invaghito aspetta con ansia le
lettere di lei e avvia una fitta corrispondenza, incurante
di madre e zia che sin da subito osteggiano tale
relazione. L’innamoramento accelera gli eventi e si
sposano , ma dopo un magnifico viaggio di nozze,
appena giunti nella nuova (per lei) casa a Catania per
Fiammetta si presentano tempi difficili…..
Romanzo
d’altri
tempi?
Sicuramente
si sente la
passione
dell’autrice
per gli autori
e le storie
ambientate
nell’800.
Protagonista
la società
siciliana
dell’epoca
che
Emanuela
conosce molto bene per averla respirata nelle letture
e nei ricordi che le vengono dalla sua terra.
Ma a tradire la sua modernità sono le frequenti
trasgressioni di linguaggio - Emanuela si/ci diletta
anche con qualche anacoluto- che stridono,
volutamente, con un lessico misurato e specifico,
calzato a tono sui personaggi in crinolina.
“ Quattro dame cinguettose” ..
“ insigne clinico con la pelle insugherita”
Il tono pieno di pathos di molte pagine, dove
Fiammetta idealizza l’Amore e la Passione
amorosa, viene stemperato da altre descrittive in cui
la vena ironica dell’autrice ci dipinge gustosi
bozzetti.
“ Donna Maria Carmela… aveva indossato un
vestito bianco e verde pistacchio di alcuni decenni.
Era un abito pieno di trine e fiorellini di panno
che,addosso a lei , faceva la figura di una cassata
caduta a terra e ridotta a un impiastro di pan di
Spagna, ricotta e glassa”
“ Poi si alzò e cominciò a leggere a voce alta , e
più andava avanti, più la sorella sbiancava e si
avvizziva sulla sedia”.
“Dunque, soddisfatte, conciate come per il dì delle
feste e infarinate di cipria come triglie da
friggere…”
I personaggi sono delineati con i dovuti chiaroscuri.
Anche Fiammetta, dopo queste sue prime sfortunate
esperienze amorose, sarà portata a rivedere alcuni
suoi giovanili entusiasmi, a valutare con disincanto
il rapporto di coppia e a capire come la passione
travolgente soccombe se mancano il rispetto e la
considerazione dell’altro.
Fiammetta si fa comunque portavoce di idee nuove
per quell’epoca in cui da una moglie ci si aspettava
“ devozione, obbedienza, sacrificio” per dirla con le
parole di Mario Velastro, il marito di Fiammetta.
Di lì a poco il movimento di emancipazione
femminile troverà molte altre Fiammette in Europa
e negli Usa e alle donne, dopo molte battaglie, verrà
affermato il giusto riconoscimento dell’importanza
del loro ruolo nella società che si espliciterà
finalmente nel diritto di voto. Giovanna F.
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Gradevoli scoperte
Passeggiando fra
i volumi della
biblioteca ho
scoperto un libro
a me sconosciuto
di L.Sciascia
8 novembre 1913:
La contessa Maria
Tiepolo, moglie del
capitano Carlo
Ferruccio Oggioni,
uccide con un colpo di pistola sparato quasi a
bruciapelo l’attendente del marito, il bersagliere
Quintilio Polimanti, nella vita civile falegname, ma
ribattezzato dai giornali ebanista per cercare di
rendere meno evidente la differenza di classe.
Il processo che ne seguì è l’occasione per Leonardo
Sciascia di mettere in risalto vizi privati e pubbliche
virtù, spesso con un’ironia dirompente, da cui esce
un quadro per nulla lusinghiero degli uomini in
genere e di quel particolare contesto sociale.
Per qualche giorno l’Italia si distoglie da altri
pensieri per concentrarsi sulla contessa, che i
giornali definiscono subito «bellissima», mentre
descrivono il Polimanti come «bel giovane, alto,
capelli biondi e ricciuti».
Poi la vicenda scompare, perché incalzano altre
novità: il tango che arriva da Parigi, il furto della
Gioconda. Ma, quando si apre il processo, la
curiosità generale è di nuovo fortissima. Ora si
tratta di decidere: che cosa motivò quel colpo di
pistola? La difesa dell’onore?
O si può insinuare il sospetto di una passione?
«Nell’aula della Corte d’Assise d’Oneglia vapora e
aleggia L’amante di Lady Chatterley di Lawrence».
Ma l’assurdità del processo vuole che alla passione
si alluda solo come a qualcosa di improbabile e
funesto, così come – in coerenza con lo stile di una
certa Italia tronfia e trita di quegli anni – il
magistrato per nominare le donne parla di «sesso
gentile».
Più di mille lettere anonime giunsero in tribunale
durante i giorni del processo.
Evidentemente quella storia toccava un groppo di
pathos, terrore e sogno.
Sono continue annotazioni, riflessioni che
accompagnano gli atti del procedimento che, come
non poteva che essere prevedibile, si concluderà
con l’assoluzione dell’assassina.
Il sostegno indispensabile alle forze armate, appena
uscite vittoriose dalla campagna di Libia, e il patto
Gentiloni che chiamava alle urne i cattolici, prima
diffidati dal pontefice, a patto che il parlamento si
attenesse rigorosamente ai principi cristiani, non
cedesse alla tentazione di fare una legge sul
divorzio e considerasse pertanto la famiglia una e
indivisibile influenzarono i giurati e così accadde
che un colpevole, peraltro reo confesso, anche se a
suo dire per difendere la propria onorabilità,
diventasse di colpo innocente, in un iter che di
verità univoche non ne ebbe, ma tante, tantissime,
in un contesto fatalmente pirandelliano, in cui
apparenza e realtà si confondono, confondendo
anche chi è chiamato a giudicare.
Sciascia avvia questo libro come una «divagante
passeggiata nel tempo», nell’Italia del «1912 + 1»
(come scrisse una volta D’Annunzio per esorcizzare
il fatidico tredici), ma poi si abbandona a scavare
con affilato scalpello nelle testimonianze spesso
vacue ed esilaranti del processo.
Perseguendo due poetiche apparentemente
inconciliabili, quella della digressione e quella della
concisione, egli riesce a gettare la massima luce su
un oggetto proprio quando sembra parlare d’altro:
evoca un clima storico sprofondando nei dettagli del
processo Tiepolo e illumina il processo Tiepolo
vagando fra D’Annunzio e i futuristi, il patto
Gentiloni e la guerriglia in Libia, Pirandello e
Huxley.
Profondo conoscitore di quell’Italia dove ogni
pasticcio tende a presentarsi come un limpido
accordo, così come nel caso Tiepolo, un omicidio
passionale tende a presentarsi come difesa della
decenza.
Sciascia ha voluto scrivere la cronaca di un
processo pieno di pompose incongruenze: non
giudicando, ma lasciando lievitare i fatti per
leggerne la filigrana, che si rivela alla fine
nettissima e oscura.
Riassumendo “Innocente anche se colpevole”.
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Ecco cosa ci ricorda l’amico Sergio Giuliani
Ricorrevano,
l’anno appena
scorso, i
quarant’anni dalla
pubblicazione di
“Horcynus Orca”,
il diluviale, epico e
preziosissimo
romanzo di
Stefano D’Arrigo e
nessuno della
cultura “ufficiale”
se n’è ricordato.
La grande editoria
(Mondadori) allora
aveva costruito una snervante campagna di lancio:
l’autore recluso fra le braccia della moglie; la casa
editrice amorevole che provvedeva persino al vitto
dell’ammalato purché conducesse a termine l’opera
e così via.
Accadde però che il conto alla rovescia della
comparsa del libro produsse un vero e proprio
collasso di invenduto: sarebbe bastato poco a capire
che un’opera di quel tipo e di quella mole,
perfettamente in antitesi con la produzione di mini-
romanzi consolatori e graziosi, non sarebbe stata
letta che da pochissimi addetti ai lavori o da lettori
di rango capaci, solo essi, di paziente ricezione e
meditazione.
I critici, a parte i tre o quattro di mestiere, allora in
vita, non lessero certo il grande, omerico lavoro di
D’Arrigo e stroncarono non tanto il libro, quanto la
dissennata campagna pubblicitaria e i resi
s’abbatterono su uno scrittore già cagionevole di
salute ed ora annientato.
Eppure la Sicilia ha, in questo grande libro, la sua
epica, antica e moderna.
Figurale, certo, come tutta la grande letteratura
isolana novecentesca, da Vincenzo Consolo a Lucio
Piccolo di Calanovella, finissimo poeta che non si
conosce al di qua dello Stretto, ma perfettamente
calato nella realtà isolana al tempo dello sbarco
alleato, capace di grande fantasia metaforizzante,
ma sempre legata alle vicende tragiche di quel
periodo.
Passata l’occasione dell’anniversario, meno male
che la piccola casa editrice “Mesogea” di Messina
(una delle vivacissime nicchie di raffinata cultura;
un’altra ne ho alla mente, la “Girasole” di Valverde,
coi preziosi volumi di carta soffice a marginatura
ineguale, per i quali occorre il tagliacarte e le
elegantissime copertine “noires”) ha ristampato la
prima raccolta di poesie di D’Arrigo, “Codice
siciliano”, per la cura di Silvio Perrella, uscita nel
’57 dal prezioso editore Scheiwiller.
Si tratta di un mannello di 35 poesie monotematiche
e monocromatiche, incentrate sulla bellezza che
consuma l’anima dello Stretto, sui fiati di culture
che come venti d’Africa e del Continente portano e
temperano la calura, sull’ondare continuo di un
mare simbolo (e sintomo) del tempo che consuma
l’opzione del vivere e si fa subito, in una natura
umorosa, ricordo e sulla madre dall’augurale
anagrafe, Agata Miracolo, animatrice del sentire del
poeta.
Monocroma è l’essenza dinamica, guida della
raccolta, impersonata dal volo della quaglia che
ritorna e va via dall’Isola, come chi parte (e il
giovane D’Arrigo “volerà” a Milano, capitale di
editori) e ha di continuo nel cuore e nella mente un
Codice natìo che l’ha improntato e che non può più
e mai esser dimesso.
Viene alla mente il montaliano “…gorgo/ di fedeltà
immortale” per definire d’un tratto la sensibilità
cocciuta di D’Arrigo che si porterà nella mente, per
anni, il gran romanzo della “fera”, dell’orca
assassina che squassa l’edificio-codice e crea un
dramma dove si dispera della salvezza.
La salvezza era, è, in questo lene e assai ben
stampato librino che ritorna da un esilio più valido
che mai per la ricerca di un senso del vivere
all’interno delle bellezze e degli amori che ci sono
stati concessi, come due madri, la naturale e la terra
vivace, tutta colori e bello scambiar di culture,
un’isola sapiente che ha prodotto un amalgama di
dominazioni e di arte autoctona sempre in
avanguardia.
Tanto che lo Stretto ha fatto spesso da baluardo più
che da tramite, tanto da alimentare la poesia di
D’Arrigo di una gran voglia di volare e al tempo
stesso di risiedere.
Come la quaglia che è insieme bellezza del volo e
preda del cacciatore.
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla
fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre
del millenovecentoquarantatre, il marinaio,
nocchiero semplice delle fu régia Marina 'Ndrja
Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari
dello scill'e cariddi. (S. D'Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, 1975, pag.7).
Si apre così il labirinto del viaggio e del ritorno di
'Ndrja Cambrìa alla sua terra, a Cariddi,
nell'autunno del 1943.
'Ndrja percorre a piedi, cercando il modo di
raggiungere la Sicilia, una Calabria devastata, che si
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popola via via, di figure come lui sbandate dalla
guerra.
Grazie a una di queste, Ciccina Circé, riesce ad
attraversare lo Stretto.
Ma quanto troverà, approdando a Cariddi, è
tutt'altro dall'ambiente e dalla comunità che ha
lasciato andando in guerra; ognuno e ogni cosa è
stato segnato o travolto dalla miseria e dal degrado.
Si corrompono i codici della terra e del mare, si
stravolgono i comportamenti di gente fiera costretta
a una sopravvivenza meschina patteggiata con la
Morte che assume la forma dell'Orca agonizzante in
un mare che sembra fare di ogni creatura viva forza
di dissoluzione.
Per Ibn Hamdis, poeta arabo di Sicilia:
Se sono stato cacciato da un Paradiso,
come posso io darne notizia?
Il giorno muore ancora nei giardini,
dove oscura la zagara ne oscilla,
e qui altri Normanni accendono fuochi
intorno intorno e Sicilia come zita,
col suo bel portamento modulato
nella strofe degli anni a Siracusa,
l’occhio soffice,il dito inanellato,
nello sguardo del tuo addio
ancora imbruna,
sulla cara persona, la sua luce
di tortora che perde già la vita,
la sua pupilla sempre sul momento
che reclina sfregiando la memoria.
Se implora, è una spoglia di sole
che lamentata entra nella notte e tu
leghi a un cedro il tuo cuore d’Emiro,
l’Anapo al nostro orecchio navighi
ancora su una foglia di papiro,
perché tu sempre in gran segreto torni
in patria, incenerito fortilizio,
flagrante e clandestino qui rivivi
a sera quando odora il gelsomino,
fiore che d’aria accompagna il verso
lungo ed estenuante del tuo esilio
In una lingua che non so più dire
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda,
azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
Al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
ANCORA POESIA
Dissirviziu cronicu
Lu serviziu pustali è addivintatu
un dissirviziu ‘nfami e dissolutu:
Lu Ministru l’ha ligalizzatu,
è addivintatu un gran malannu acutu.
Avemu spissi voti riclamatu,
ma è tempu persu... riclamu pirdutu:
Si unu fa cunfrunti... e si siddia
l’accusanu di fari apologia.
E s’assisti ‘mputenti, ca un giurnali
parti a frivaru e arriva a fini aprili;
siddu riclami all’ufficiu pustali,
jocanu tutti a scarica varrili.
O pugnu di ‘ncuscenti e criminali,
iu li viria, a tutti lu minsili
ca poi ridutti all’estrema miseria
li trasferissi in massa a la SIBERIA. AdS
Sciuri senza primavera
Ora la me vita è chiù pisanti
ccu li pinseri ca ciaiu a la menti
ti chiamu comu chiamari a li santi
tu no rispunni: tu no dici nenti
Guardu li carusi di la scola
e l’occhi mia scurrunu lucenti
non pozzu diri mancu dda parola
se n’ta la scola t’anu misu assenti
Caminu comu n’omu nzalanutu
e lu me cori ristau vacanti
non cridu mancu ca tu si pirdutu
na gomma ti cancillau eternamenti
lassannumi ppi ricordu na priera
ppu n’ciuri ca no visti primavera
Ignazio Santagati
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SEI VOCI
Non fu il mare a raccoglierci
noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.
Calati da altopiani incendiati da guerre
e non dal sole,
traversammo i deserti del Tropico del Cancro.
Quando fu in vista il mare da un’altura
era linea d’arrivo, abbraccio di onde ai piedi.
Era finita l’Africa suola di formiche,
le carovane imparano da loro a calpestare.
Sotto sferza di polvere in colonna
solo il primo ha l’obbligo di sollevare gli occhi.
Gli altri seguono il tallone che precede,
il viaggio a piedi è una pista di schiene.
Erri DELUCA
Sogni proibiti
Sogni proibiti
Visti a colori e fantasia
Notte che cala
brividi senza paura
Gite importanti
Giorni di festa per noi due
Le tue parole
In un giardino di limoni
Cadono fili d’ombra
Cogli un frutto per me
Giocano i pensieri
Anche se non lo vuoi
Gioia spaurita
Ricchezza infinita per noi due
L’amore che passa
Tra i fili d’erba bagnata.
Questo che avete appena letto è il testo di una bella
canzone dell’amico Alfonso Miceli
Città di Bagheria ,
museo Guttuso,
Morando vicino
alla scultura di
Guttuso
U LAMENTU DI UN MORTU
AMMAZZATU PI SBAGLIU
Certu la vita e’ strana
ma la morti e’ chiu’ strana ancora
parlu cu cugnizioni di causa
di mortu d’ora ora
ora mancu mezzura
ca cadivu comu un piru
e l’anima mia scappo’
cull’ultimu respiru
la mia nunn’e’ prutesta
ne’ cuntestazioni
ma chiddu ca nu mi cala
e’ tutta a situazioni
u nasciri pi sbagliu
nunn’e’ tantu piccatu
quantu la malasorti
di muriri ammazzatu
sippo’ mu miritava
un ci avissi statu nenti
ma no sparatu o postu
di quarchi delinquenti
finiri li me iorna
cu quattru pallittuna
scangiatu pinnantru omu
talia chi sfurtuna
na vita di travagliu
rinunzi e sacrifici
l’unicu passatempu
li carti e quattru amici
parlannu di saluti poi
mancu na malatia
forsi quann’era nicu
morbillu e rusalia
percio’ nun mi capacitu
di chista frigatura
era troppu sicuru
ca ancora unn’era ura
basta ormai e’ fatta
unni parlamu chiu’
s’aviti la paziennza
vi cuntu comu fu.
Sirata d’allegria
festa di s. martinu
na manu di trissetti
sosizza castagni e vinu
vinu ca calava grittu
e siccomu era nuveddu
tantu nninni vivemu
ca erimu a liveddu
fazzu l’ultimu brindisi
pi tradizioni antica
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e doppu ma’aricogliu
dumani c’e’ fatica
salutu i me cumpagni
mi chiuiu a giacchittedda
e paccurzari la strata
m’infilu ndra na vaneddra
na notti fridda e scura
u celu senza luna
arrancu pi spicciarimi
quannu tuttantuttuna
mi sentu assicutari
na vuci darre’ i spaddi
mi dici unne’ ca scappi?
e spara quattru baddi
dintra ntisi nu focu
a tipu na vampata
vutavu a panza all’aria
e cadivu nno mezzu a strada
attornnu ntempu unnenti
si cummina’ un fangu
na speci di pantanu
di terra vinu e sangu
nunn’e’ na sensazioni
ca unu po spiegari
comu vi pozzu diri
l’avissivu a pruvari
ntrunatu piccom’era
capivu sulu ca chiddu
mi talia’ megliu
e dissi “nunn’e’ iddu”!
nun sulu fici dannu
stu gran cosa fitusa
sparti sinni scappa’
e mancu dissi scusa
turnatu lu silenziu
s’arricuglieru genti
nun sacciu mancu s’eranu
amici o me parenti
Chiffu’ ? cu e’ ? mischinu
successi u quarantottu
chiamti l’ambulanza
megliu a carrozza mortu
ognunu ca ncugnava
mi dava a so sintenza
chissa’ chi cummina’?
u sapi a so cuscenza
mi pari canusciutu
forsi era di quartieri
s’ammazzassiru tra iddi
unu menu tra li pedi
pi l’opinioni publica
stu tipu di reatu
e’ curpa chiu’ do mortu
ca di cu l’ha ammazzatu
Mi ficiru cripari
cu a raggia mezzu i denti
senza putiri diri
ca nun ci trasiva nenti
li forzi a ddu mumentu
mi vinniru a mancari
e comu mmucca a un cani
mi ntisi arrussicari
l’anima dintra lu corpu
mi scuppia’ fora
e m’arrisbigliavu cunfusu
unni mi trovu ora
c’e’ genti di tuttu u munnu
na fudda d’impazziri
nun si capisci nenti
cu e’ ca pi malatia
e cu pu ‘n’ incidenti
Dumannu informazioni
a unu allatu a mia
mi parsi di capiri
ca morsi prima i mia
e’ ca di stamatina
e ntisi di precisu
ca chiddi comu a mia
nun vannu nparadisu
ma viditi chi dispettu
chi sugnu scarugnatu
nun sulu ci fu sbagliu
ma curnutu e vastuniatu
sapiti chi vi dicu
si chistu e’ u me distinu
m’ammucciu ‘n da n’ agnuni
e aspettu l’assassinu
ca tantu o prima o poi
u chiama u patri eternu
lu pigliu cu la forza
e mu trascinu o’ nfernu.
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Elvio Fassone
“Fine pena: ora” Non è un romanzo di
invenzione, né un saggio
sulle carceri e non enuncia
teorie,ma racconta una
storia vera, un’opera che
scuote e commuove.
Una corrispondenza durata
ventisei anni tra un
ergastolano (Salvatore un catanese, del quartiere
Librino -il più malfamato della città- e il suo
giudice). Nemmeno tra due amanti, ammette
l’autore, è pensabile uno scambio di lettere così
lungo. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi
processo alla mafia catanese; il processo dura quasi
due anni, tra i condannati all’ergastolo Salvatore,
uno dei capi a dispetto della sua giovane età, con il
quale il presidente della Corte d’Assise ha stabilito
un rapporto di reciproco rispetto e quasi – la parola
non sembri inappropriata – di fiducia.
Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive
d’impulso e gli manda un libro.
Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore
che gli ricorda: «se suo figlio nasceva dove sono
nato io, adesso era lui nella gabbia».
Non è pentimento per la condanna inflitta, né
solidarietà, ma un gesto di umanità per non
abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere
il resto della sua vita.
La legge è stata applicata, ma questo non impedisce
al giudice di interrogarsi sul senso della pena.
E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con
un condannato.
Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di
emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in
carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando
le nuove norme rendono il carcere durissimo con il
regime del 41 bis.
La corrispondenza continua, con cadenza regolare –
caro presidente, caro Salvatore.
Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è
diventato senatore, è andato in pensione, ma non ha
mai cessato di interrogarsi sul problema del carcere
e della pena.
Anche Salvatore è diventato un’altra persona, da
una casa circondariale all’altra lo sconforto si fa
disperazione fino a un tentativo di suicidio.
Questo libro non è un saggio sulle carceri, non
enuncia teorie, è un’opera che scuote e commuove,
che chiede come conciliare la domanda di sicurezza
sociale e la detenzione a vita con il dettato
costituzionale del valore riabilitativo della pena,
senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di
qualsiasi condannato.
Elvio Fassone (Torino, 1938) è stato magistrato e
componente del Consiglio superiore della magistratura.
Senatore della Repubblica per due legislature è autore di
numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su
temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della
grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012). Uno
dei magistrati più colti, più integri, più garantisti (nel
senso vero e nobile del termine) che esistano in Italia
L’ergastolano è di Catania,il giudice,torinese è colui
che dopo averlo condannato decide di scrivergli —
«con che spirito leggerà queste parole, se non come
l’ipocrita tentativo del carnefice di sgravarsi la
coscienza accarezzando la sua vittima?» — gli
manda anche un libro, Siddharta, di Hermann
Hesse, leggenda sui sentimenti fraterni, più taoista
che indiana.
Come reagirà? Manderà al diavolo quello strano
giudice che gli scrive: «Potrà perdere la libertà per
un tempo anche lungo, ma non deve perdere la
dignità e la speranza»?
Salvatore invece risponde: «Presidente, io lo so che
lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge,
ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E io la
ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei
dice».
Mi hanno colpito particolarmente le seguenti frasi:
«La comunità offesa dal delitto si fa risarcire con
fette di vita prelevate chirurgicamente da quel
bisturi inappuntabile che è il processo».
Quello strano giudice gli scrive: «Potrà perdere la
libertà per un tempo anche lungo, ma non deve
perdere la dignità e la speranza»?
Salvatore invece risponde: «Presidente, io lo so che
lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge,
ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E io la
ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei
dice».
Poi un nuovo trauma.
Nella sua cella le guardie trovano un telefonino.
Salvatore non c’entra.
Sarebbe stato facile controllare i numeri.
Non viene fatto: tutti al 41bis, cancellata ogni
misura alternativa.
L’ergastolano scrive a Fassone: «L’altra settimana
ne ho combinato una delle mie: mi sono impiccato,
mi scusi». Un agente di custodia lo salva.
È passato più di un quarto di secolo. Elvio Fassone
osserva una fotografia di Salvatore. Quando l’ha
conosciuto era «un fascio di muscoli e di nervi,
pronto a scattare come una molla compressa».
Adesso sembra l’urlo di Munch.
r.a.
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Continuiamo la pubblicazione del libro del
nostro Umberto Gugliotta
IL ROSARIO DEL VESCOVO
Con il Capitolo quarto
Nella camera nuziale dei coniugi Tornabene
d’Altomare, dopo la morte di don Gioacchino,
nessuno era più entrato, tranne la vedova che ne
custodiva la chiave; donna Gerardina non vi
dormiva, ma vi trascorreva molte ore della giornata,
con la porta chiusa, da sola. Provvedeva
personalmente alle pulizie, aggiornava i libri dei
conti, cuciva o ricamava, ma, soprattutto, sedeva in
silenzio nella penombra; in quella stanza nessuno
era ammesso ad udienza.
La notte, invece, per un motivo mai confessato, ma
facilmente pensabile, la trascorreva in una delle
dodici stanze riservate agli ospiti, dove aveva
preferito trasferirsi già la prima notte di vedovanza.
Della particolare fattura del vasto alloggiamento,
della quale ogni rispettabile guida turistica
ampiamente ancora riferiva, si era molto parlato fin
dalla sua costruzione, effettuata in occasione del
rifacimento del palazzo, dopo il terremoto del 1693,
quasi si trattasse della ottava meraviglia del mondo.
In vero, c’era di che rimanere stupefatti,
specialmente se si teneva conto dell’epoca in cui era
stato progettato: più che di dodici sale, si trattava di
dodici, per così dire, piccoli appartamenti, non più
di dieci dozzine di metri quadrati ciascuno, dotati
fin dall’origine -e questo era il particolare
considerato esclusivo- di una sala da bagno che
occupava più della metà dello spazio totale,
interamente foderata da splendidi specchi, tali da
creare grande confusione a chi, per la prima volta,
vi si avventurava. Tutti i soffitti delle dodici
minuscole ma accoglienti residenze erano a
cassettoni stuccati in oro, con raffigurazioni
allegoriche, ognuna diversa dall’altra. In un lezioso
salottino privato, l’ospite poteva ricevere in
“déshabillé”.
Per decidere quale luogo fosse più adatto per la
celebrazione dell’anniversario della morte del
marito, donna Gerardina aveva dovuto riflettere a
lungo; le toccò, alla fine, scegliere fra la cappella e
la sua camera nuziale; preferì quest’ultima perché le
sembrò doveroso, però con rammarico, crucciandosi
di dover condivedere il luogo che, più di ogni altro,
di lei conosceva le più recondite intimità di corpo e
di spirito. Superato l’indugio, donna Gerardina
aveva ordinato di aprire finestre e porte -con cautela
perché la penombra restasse, almeno un po’- e di
sistemare poltrone, sedie e tavolini e qualsiasi altra
cosa potesse rendere confortevole un temporaneo,
breve soggiorno.
Gli ospiti, accompagnati da due servitori muniti di
lumi, avevano percorso il lungo corridoio che
portava al lato opposto del palazzo, dove li
attendeva la padrona di casa, immobile davanti alla
porta della sua camera, quasi volesse sbarrarne il
passo. Sedettero e si guardarono intorno, come se
cercassero un punto insignificante dove poter
posare gli occhi con naturalezza, per non creare
imbarazzo alla congiunta, della quale avevano
intuito il disagio.
Dopo qualche minuto di silenzio, don Vannino
disse:
- Rammentavo che questa stanza è speculare
rispetto alla sala in cui sarà servita la cena,
anch’essa è affrescata ovunque, ha le stesse
dimensioni e, come l’altra, si affaccia su una
terrazza assai grande. L’anno scorso, quando
venni per dare l’ultimo saluto al mio caro
Gioacchino, fra le lacrime e il buio, ben poco era
possibile vedere.
Non entravo qua da quando Gioacchino si sposò.
Però mi ricordo ancora che, quando ero
“picciriddu”, ogni tanto mi buttavo nel letto fra
mamma e papà, a giocare. … Ne è passato di
tempo.
- Ne è passato di tempo e ora di sei che eravamo
siamo rimasti in tre, io, tu e Carolina. Io prete e
quindi senza eredi, Gioacchino figli non ne ebbe e
neppure Fofò, per quanto si sa; per fortuna che tu
“nu masculu p’a casata u facisti: Ricuzzu.” E a
Ricuzzu il Signore ha voluto affidare l’avvenire dei
d’Altomare, l’avvenire di una stirpe conosciuta e
rispettata non solo in Sicilia ma in tutto il Regno
d’Italia.
Così precisò il Monsignore.
Gli ospiti si erano accomodati, chi su una sedia, chi
su una poltrona, in modo da formare un semicerchio
ai piedi del letto matrimoniale.
L’aria che si respirava nella stanza era ancora
pesante, nonostante l’apertura all’aria per una notte
e un giorno, e la luce appariva fioca, quanta ne
potevano diffondere i due soli lumi posati sopra il
comò, seppure aiutati dal poco chiarore offerto
dallo spicchio di luna, bassa sul belvedere.
Donna Gerardina posò uno scialle sulle spalle della
cognata Carolina che, o per l’emozione o per la
frescura che si intrufolava da una fessura lasciata
nella porta-finestra, dava segno di tremare.
Poi, rivolta al cognato Vescovo, fece per parlare,
ma lo squittire di una civetta proveniente dalle
vicine fronde di un albero, nel parco, la obbligò a
tacere; si riprese dallo smarrimento dopo qualche
istante e finalmente disse:
- “Putiemu accuminciari”.
Don Ignazio si alzò lentamente dall’ampia
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poltrona, si accomodò la veste e infilò la mano
destra nell’apertura della falsa tasca; frugò
all’interno della tonaca, indugiandovi qua e là,
per qualche minuto, finché, ormai spazientito,
riuscì a tirarne fuori un massiccio rosario di
stupenda fattura e di incalcolabile valore,
appartenuto ad un suo avo, anch’esso Vescovo,
vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700; la corona
del raro gioiello era costituita da pietre
preziose che, diverse per colore e per
grandezza, tenevano il posto dei grani, piccoli
e grossi; al termine, una croce d’oro,
minuziosamente cesellata, al centro della quale
era stato ricavato un piccolo incavo, e lì era
stata riposta, protetta da una scheggia di vetro
sagomato, una reliquia insolita e sacra: un
minuscolo lembo della veste di Gesù
crocifisso.
Don Vannino e donna Carolina, l’uno dalla tasca
della giacca, l’altra dalla borsetta, estrassero i loro
rosari che, per quanto anch’essi pregiati, non
potevano certo reggere il confronto con quello
posseduto dal fratello.
Donna Gerardina, fino ad allora rimasta in piedi
appoggiata al canterano, prese il suo rosario da una
piccola scatola che effigiava lo stemma dei
d’Altomare e finalmente si accomodò anch’essa. I
due adolescenti, seduti l’uno accanto all’altra,
avrebbero recitato le preghiere seguendo le altre voci,
così almeno era d’obbligo supporre, visto che, fra le
loro dita, non c’era alcuna corona.
Don Ignazio, dopo aver ripreso il suo posto, si schiarì
la voce ed iniziò:
- In nominePatris et Filii et Spiritus Sancti, Amen.
Dall’assorto silenzio si spiccicò il fruscio delle vesti
tese dal gesto del segno della croce.
- Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem,
factorem caeli et terrae, visibilium omnium et
invisibilium.
Et in unum Dominum, Iesum Christum, filium Dei
unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula;
Deum de Deo, Lumen de Lumine, Deum verum de
Deo vero, genitum non factum, consubstantialem
Patri, per quem omnia facta sunt.
Qui propter nos homines et propter nostram salutem
descendit de caelis et incarnatus est de Spiritu
Sancto ex Maria Virgine, et homo factus est.
Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus
et sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum
Scripturas; et ascendit in caelum, sedet ad dexteram
Patris; et iterum venturus est cum gloria, iudicare
vivos et mortuos, cuius regni non erit finis.
Et Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex
Patri procedit; qui cum Patre et Filio simul adoratur
et conglorificatur; qui locutus est per prophetas. Et
unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam.
Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum,
et especto resurrectionem mortuorum, et vitam
venturi saeculi.
- Pater noster, qui es in coelis,sanctificetur nomen
tuum, adveniat regnum tuum,
fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra;
La voce di don Ignazio, profonda e intonata,
imponeva pause sapienti al suo respiro; su di
essa, secondo il rito, sopravvenero le altre voci.
Era così iniziata quella particolare recitazione
delle preghiere nella quale voce solista e voci
corali si sarebbero alternate per tutta la durata
del rosario:
- panem nostrum cotidianum da nobis hodie,
et dimitte nos debita nostra
sicut et nos dimittimus debitoribus nostris,
et ne nos inducat in tentationem, sed libera nos a
malo. Amen.
L’inizio era stato un po’ stentato, senza ritmo:
l’attenzione dei partecipanti aveva incontrato
difficoltà di concentrazione, vagando chissà
dove. Ma su questo nessuno ebbe il tempo di
riflettere, perché la voce del Vescovo
immediatamente riprese:
- Ave, Maria, gratia plena, Dominus tecum,
benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus
ventris tui, Iesus.
Per questa Ave Maria, e per le due successive, la
risposta venne all’unisono:
- Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis
peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.
Amen.
Al termine delle tre orazioni, don Ignazio, anziché
restare brevemente in silenzio, continuò come se
fosse un’unica preghiera:
- Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.
E la voce corale:
- Sicut erat in principio, et nunc et semper et in
saecula saeculorum. Amen.
Il tono della voce del Prelato, nell’implorazione a
Dio ed al Figlio che seguì, rivelò la soddisfazione
per la pressoché immediata sintonia raggiunta dai
partecipanti:
Deus, in auditorium meum intende. Domine, ad
adiuvandum me festina.
Terminata la parte introduttiva del rosario, il
secondogenito Tornabene d’Altomare rivolse lo
sguardo verso i congiunti nella speranza, delusa
dalla modesta fonte luminosa, di scorgere sul viso
dei parenti qualcosa che rivelasse il loro stato
d’animo. Don Ignazio infatti si accingeva a
pronunciare il Primo Mistero del Dolore:
- Primum Mysterium Doloris. Agonia in horto.
Et egressus ibat secundum consuetudinem in
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montem olivarum; secuti sunt autem illum et
discipuli. Et cum pervenisset ad locum, dixit illis:
“orate, ne intretis in tentationem”. Et ipse avulsus
est ab eis, quantum iactus est lapidis, et, positis
genibus,orabat dicens: «Pater, si vis, transfer
calicem istum a me. Verumtamen non mea voluntas
sed tua fiat.”
Apparuit autem illi angelus de caelo confortans
eum. Et factus in agonia prolixius orabat. Et factus
est sudor eius sicut guttae sanguinis decurrentis in
terram.
Ciò detto, indugiò in silenzio, lo sguardo perso nel
vuoto del buio, immergendosi -così almeno
apparve- nella meditazione. Alcuni lo imitarono,
altri -i due nipoti- cercarono nelle poltrone
un’accoglienza che non potevano dare. Don
Ignazio, trascorsi pochi minuti, raccolse il prezioso
rosario che aveva lasciato nel grembo della veste e
proseguì:
- Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur
nomen tuum, adveniat regnum tuum, fiat
voluntas tua sicut in coelo et in terra;
Aveva cominciato di buona lena la famiglia
d’Altomare, senza dare tuttavia l’impressione
di voler andare di fretta. Venne puntuale la
risposta:
- panem nostrum cotidianum da nobis hodie,
et dimitte nobis debita nostra
sicut et nos dimittimus debitoribus nostris,
et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a
malo. Amen.
La voce solista:
- Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum.
Benedicta tu in mulieribus, et benedictus
fructus ventris tui, Iesus.
E, di rimando, la voce corale:
-Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis
peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.
Amen.
La prima decina di “Ave Maria” si era sciolta
rincorrendosi, una preghiera dopo l’altra, nella
stanza; via via, durante la recita, il raccoglimento di
donna Carolina doveva essersi attenuato perché la
sua voce si era progressivamente assottigliata, fino a
ridursi ad un esile filo; infatti, non appena i parenti
tacquero, prese a parlare di colpo, rivolgendosi al
fratello Monsignore:
- Mi chiedevo se non vi pare azzardato girare in
carrozza per strade di campagna o, magari a piedi,
per qualche vicolo deserto di uno sperduto paese,
con quel rosario in tasca. Io avrei paura, con i tempi
che corrono. Un giorno o l’altro, Monsignore, a
qualcuno potrebbe venire in mente di tagliarvi la
gola e così avrebbe sistemato tutta la vita sua e
quella dei suoi eredi. Sentitemi: io, se fossi in voi,
quel gioiello non lo farei vedere a nessuno, lo
lascerei non dico nella cassaforte di casa, ma
addirittura in banca, in una cassetta di sicurezza.
Don Ignazio ascoltò le parole della sorella con aria
di sufficienza; poi sospirando disse:
- Cara sorella, “tu si fimmina” e comprendere le
femmine è sempre stata, da che mondo è mondo,
cosa difficile; non riesco a capire se la tua è sincera
prudenza oppure voglia di parlare tanto per
parlare.
Comunque, a me finora, non è mai capitato di aver
paura. Non perché io sia coraggioso ma perché “a
mia mi canusciunu tutti” e tutti sanno che io vivo
per provvidenza del Signore e che se qualche soldo
riesco a risparmiare, perché mi privo di tante cose,
non resta nelle mie tasche, ma va in quelle di
qualche disgraziato padre di famiglia. E poi, se
questo non bastasse, io non esco mai da solo.
M’accompagna sempre Turuzzu Spanò, il mio
guardaspalle, fidato e discreto, direi invisibile,
anche se è alto più d’un metro e novanta e ha le
mani grosse quanto due cosce d’agnello. Mi porta
pure la carrozza. Turuzzu mi è affezionato, ora ha
quaranta’anni e me lo sono cresciuto io, quasi
come un figlio. Ma tu saresti soddisfatta se il tuo
fratello Vescovo andasse in mezzo ai “viddani”,
magari vestito come un prete di campagna? Che
cosa potrebbero pensare? Che sono come loro. Di
sicuro. E prenderebbero confidenza e perderebbero
il rispetto. Invece, per esempio, quando vado a casa
di un morto per dare la benedizione e dire una
preghiera, vedono il rosario, il gioiello come hai
detto tu, e capiscono tante cose che cento anni di
vita non riuscirebbero mai a infilargli nella testa.”
Tu si tu e io sugnu io, u Vescovo!”
Così aveva risposto don Ignazio.
Il secondogenito della famiglia Tornabene
d’Altomare, un bell’uomo assai prestante, sempre
curato nella persona, conservava ancora, per quanto
avesse superato da poco i sessanta, i capelli neri e
così folti da nascondere la chierica fra le onde
incollate dalla brillantina, non si sa se per caso o per
vezzo. Il suo ministero, senz’altro impegnativo, gli
consentiva comunque di condurre una vita
mondana, pur nel rispetto, magari solo formale,
della veste che indossava; d’altronde, essendo
persona molto affabile e colta, la sua presenza era
ambita in ogni salotto che egli assai raramente
disertava.
- Il mio voleva essere solo un consiglio, mi
auguro che non abbiate pensato che volevo
entrare nelle vostre cose.
- Non te lo avrei permesso e lo sai.
Così sorella e fratello si rimbeccarono.
Anche don Vannino sembrò dimenticare il motivo
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per il quale si trovava in quella stanza; infatti
intervenne:
- Un prete quale sei dovrebbe essere prudente
nel parlare, non arrogante …
Don Ignazio lo interuppe rintuzzando:
- “Nu parrinu u sapi comu avi a parrari”(2),
non sarai certamente tu ad insegnarglielo. Tu
guardati il latino, il greco e pure l’italiano, tua
moglie Angelica e tuo figlio Ricuzzu, io non
pretendo di avere qualcosa da insegnarti. Ti
ricordi come diceva nostra madre benedetta?
Io me lo ricordo ora e l’ho tenuto presente per
tutti i giorni della mia vita. Diceva: “chi
pecora si fa, il lupo se lo mangia”.
Donna Gerardina, che aveva ascoltato in
silenzio, intervenne stizzita:
- Spero che non siate venuti qui per aggiustarvi
i conti. Ben altri sono i motivi. Avrete altro
tempo e luogo dove fare questi discorsi. Mi
fate tornare alla mente quando eravate
giovani: sempre a pizzicarvi, anche per un
nonnulla. Ora è tempo di riprendere le nostre
preghiere.
Al Monsignore non parve vero di poter chiudere
l’astiosa discussione, anche perché, ripensandoci,
gli era sorto il dubbio di essere stato troppo
determinato nel rispondere alle parole dei congiunti
che, in verità, anche per il tono con cui erano state
pronunciate, certamente nessuno avrebbe giudicato
leggere.
Don Ignazio, dopo aver alzato gli occhi verso il
soffitto affrescato, come a trovarvi ispirazione,
riprese:
- Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.
L’eco della parola “Sancto” non si era ancora spento
che il coro si accordò con la voce del Vescovo:
- Sicut erat in principio, et nunc et semper et in
saecula seculorum. Amen.
Poi, sollecitando ripetutamente con un gesto della
mano la partecipazione dei congiunti, aggiunse:
- Domine Iesu, dimitte nobis debita nostra, salva nos
ab igne inferiori, perduc in caelum omnes animas,
praesertim eas, quae misericordiae tuae maxime
indigent.
Ancora una volta un’interruzione, improvvisa ed
inaspettata, arrivò dalla voce dell’esimio professore
don Giovanni Tornabene d’Altomare, l’ultimo dei
sei figli e l’unico a non avere alcunché delle
caratteristiche fisiche rintracciabili, in alcuni più e in
altri meno, negli appartenenti alla Casata: non la
statura, ché era piuttosto bassa, né la stazza troppo
pesante e neppure i lineamenti del viso, certamente
non belli ma, per sua fortuna, assai attraenti; invece
la signorilità del suo modo di fare era quella
naturalmente tipica e per nulla affettata dei
discendenti del nordico Crociato. In fin dei conti, il
contrasto fra il suo fisico di abbondante quasi
cinquantenne e la sua originale personalità gli
donava un fascino del tutto particolare. Con voce
pacata, affinata da circa venticinque anni di
insegnamento, cercando di evitare lo sguardo severo
della cognata, di nuovo adombrata, disse:
- Io, questa preghiera, il Gloria, fin da bambino -voi
tutti lo ricorderete sicuramente che a dieci anni
parlavo correntemente il latino, molto meglio del
parroco di San Giovanni e, per giunta, me l’avevo
imparato da solo- io, dicevo, fin da bambino, questa
preghiera, anzi le parole di questa preghiera, le
sentivo, Dio mi perdoni, nostre, fatte apposta per la
nostra famiglia, precise, molto di più del motto che
compare sul nostro stemma coniato da uno dei primi
avi, all’inizio della nostra storia, quando il nostro
nome era agli albori del suo glorioso cammino.
Ascoltate: “gloria in principio et nunc et semper”!
Ah…la maestosità della parola gloria e invece: ”e
maris fragore siderum silentium”! No, non regge!
Per carità, non vorrei sembrare blasfemo, la gloria
terrena non è quella dello spirito, lo so, ha un
significato diverso, che si riferisce al coraggio, alle
imprese compiute in difesa dei derelitti. E’ la gloria
terrena che si accumula e trasmette nel corso dei
secoli.
Ma è proprio questo il senso che ben si adatta alla
storia della nostra casata, che comunque, non si
dimentichi, ha dato alla Chiesa numerosi ottimi
fedeli servitori.
Mi piacerebbe attribuire alla nostra massima un
concetto, seppure tratto da una libera traduzione,
quale: “solo chi ha affrontato mille tempeste
conoscerà la gloria”.
Don Vannino tacque, guardandosi intorno, forse
aspettando che qualcuno volesse dire la sua, cosa
che non accadde. Anzi dedusse, dall’espressione del
viso dei congiunti, che il suo intervento era sembrato
fuori luogo; allora si scusò.
Il fratello Vescovo guardò il fratello con sussiego,
sospirò e fissò di nuovo la volta coperta di affreschi,
dei quali poteva scorgere molto poco a causa della
scarsa illuminazione; dopo un paio di minuti,
ricominciò da dove aveva lasciato:
- Secundum Mysterium Doloris. Flagellatio.
Tunc ergo apprehendit Pilatus Iesum et flagellavit.
Dette queste parole, sua Eccellenza Ignazio
Tornabene d’Altomare, Vescovo di Fontىspano,
strinse fra il pollice e l’indice il terzo grano grande,
pos le mani in grembo, chiuse gli occhi e si immerse
nella meditazione.
Qualche attimo dopo si riebbe e prese a strofinarsi
le dita delle mani per riattivare la circolazione del
sangue; poi, aperti gli occhi e volto lo sguardo
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tutt’intorno, come se volesse accertare che i parenti
fossero ancora lì, recitò :
- Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur nomen
tuum, adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua sicut
in coelo et in terra;
La voce corale scorreva ormai come un torrente,
quasi monotona nell’identico movimento dell’acqua
quando, a fissarla, appare sempre la stessa:
- panem nostrum cotidianum da nobis hodie,
et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus
debitoribus nostris, et ne nos inducas in tentationem,
sed libera nos a malo. Amen.
Non vi fu sosta fra il Pater e l’Ave:trascinata dalla
prima preghiera, la seconda seguى di getto per dieci
volte ed il Gloria , introducendo, per la seconda
volta, l’invocazione:
- Domine Iesu, dimitte nobis debita nostra, salva
nos ab igne inferiori, perduc in caelum omnes
animas, praesertim eas, quae misericordiae tuae
maxime indigent.
Che fosse esaurita la seconda delle cinque parti del
rosario doveva essersi accorto anche Tanu che, dopo
aver bussato con le nocche alla porta, la aprì e si
fermò sulla soglia, cercando di individuare donna
Gerardina; vi riuscì solo quand’ebbe abituato gli
occhi alla penombra, dopo una manciata di secondi.
Cercò nella voce un tono che non tradisse la sua
emozione. Disse:
- Eccellenza, perdonate, ma io ci dovevo parlare con
urgenza, mi dispiace…mi avevate detto di stare
attento che nessuno venisse a disturbare la
commemorazione del vostro santo marito, e invece…
”Comu vostra Eccellenza m’avia dittu,,ordinai a
Pippu u stalliere di pigghiari u calesse pi farici
l’incontru a Mimmu, l’omu di fiducia di vostra
cugnata; Pippu incuntrau a Mimmu appena fora,
nt’a campagna, e ora cca sunnu, nt’o palazzu.(1)”
Donna Gerardina smorzò il sorriso che le pizzicava
le labbra nel vedere l’impaccio del suo fedelissimo
servitore; si alzò e si avvicinò al canterano, prese
uno alla volta i due lumi e ne regolò la fiamma:
ripose il primo e, tenendo in mano il secondo, si
accostò a Tanu in modo che il maggior chiarore ne
illuminasse bene il viso e puntò nei suoi occhi lo
sguardo. Poi finalmente parlò:
- Queste sì che sono cose interessanti, Tanu!
Nevvero Carolina? E come ha fatto quel… si
chiama?…Mimmo, e come ha fatto Mimmo ad
arrivare fino qua?
Tanu aspettava questa domanda nella quale
riconobbe una bonaria ironia, senza tuttavia
adombrarsene. Rispose:
- Glielo stavo spiegando, Eccellenza. Pippo partì
non appena glielo dissi…niente bardature al
cavallo, e neppure sonagliere, solo il tempo di
imbrigliarlo e attaccarlo alla vetturetta…quattro o
cinque minuti…o forse un po’ di più, ora che ci
penso… perché dovette caricare gli arnesi per
riparare la carrozza della vostra eccellentissima
cognata…intanto non trovava i
lumi…insomma…facciamo dieci minuti… al
massimo. Usci dalla rimessa di gran carriera, con
la frusta in mano, passò il cancello sollevando terra
e sassi. Ora ora tornò. Con Mimmo e la
carrozza…aggiustata.
Tanu tacque per osservare lo stupore sul volto della
padrona; poi compiaciuto continuò:
- Pippo mi raccontò di aver incrociato Mimmo poco
fuori la cittaduzza, in contrada Badessa: “ci fici
signu ri fermarisi”e si fermò. Un miracolo,
Eccellenza, un miracolo! Era passata sì e no
mezz’ora dall’incidente…sì, insomma, da quando i
vostri eccellentissimi parenti avevano ripreso il
viaggio verso questa casa, e mentre Mimmo,
“accussì iddu stessu”mi spiegò, stava pensando
come poteva fare per accomodare la ruota
frantumata, passò di lì “u chiù megghiu carretteri
d’a Sicilia, don Giacomino Scuderi”, il più fornito e
il più gentiluomo di tutti i commercianti ambulanti
della provincia. Don Giacomino si scusò di non
avere la ruota giusta di misura, di dovergliene
adattare una un po’ più piccola che, comunque, per
un breve tragitto, avrebbe fatto il suo dovere.
Non si sa come fece a infilare il mozzo da solo e
non ci fu verso di mettergli in mano qualche
spicciolo, mi ha confidato Mimmo. Prima di
ripartire col suo capiente carretto incaricò Mimmo
di portare i suoi reverenti ossequi a vostra
Eccellenza, e di dirvi che di signori buoni, giusti,
onesti e leali quanto vostro marito, il principe
Gioacchino Tornabene d’Altomare, che lui ha
avuto il privilegio di servire, non ce ne saranno mai
più in questi feudi.
Donna Gerardina, visibilmente commossa, si
avvicinò alla cognata Carolina e, come le accadeva
di solito quando si rendeva conto di aver tolto
dall’ambascia una persona amica, non riuscì a
trattenere una lacrima nel sussurrarle:
- Contenta?
- Contenta?…Ma…
Donna Carolina non terminò la risposta perché Tanu
la interruppe con voce agitata:
- Bestia! Cento volte bestia che sono! Scimunito
senza testa…Io ero salito non per dirvi una storia,
non per Pippo o Mimmo, non per dire
“minchiate,…oooh…scusasse vostra Eccellenza,”
ma per riferirvi la mala ventura. La cavalla di
donna Carolina sta male. Dopo pochi minuti
dall’arrivo, ancora tutta bagnata di sudore, s’è
accasciata là nella rimessa.…Respira a fatica e
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butta acqua e schiuma dalla bocca spalancata.
Pare che sta morendo…pare, Dio non voglia!
Tanu aveva detto queste parole con una tale
concitazione che solamente la sua padrona, abituata
a siffatte manifestazioni, poté comprendere
l’effettiva portata del discorso; gli altri non andarono
al di là dell’intuizione di un increscioso incidente
alla cavalla. Con tutto ciò , un’allarmata pena
penetrò nell’animo di tutti i d’Altomare, senza però
degenerare in accorate considerazioni:
probabilmente ognuno, nel silenzio, cercava di
determinare l’importanza del fatto. Fu la figlia di
donna Carolina, Sofia Ajello, che, gettandosi
piangente tra le braccia della madre, suggerì l’idea di
un avvenimento drammatico.
- Mamma, che capitò a Rosetta?
Riuscì a pronunciare la ragazza.
I parenti erano ormai in piedi: donna Carolina,
tenendo Sofia per mano, prese a scendere lo scalone
e gli altri le andarono dietro, parlando a bassa voce.
Donna Gerardina aveva preso sottobraccio il nipote
Ricuzzu e se lo rimirava con amore.
Nella stanza da letto don Ignazio d’Altomare,
rimasto solo, abbandonò la comoda poltrona,
rassettò la sua veste, lasciando scivolare nella tasca
interna il prezioso rosario, lanciò un'occhiata a di là
della porta dove la fantastica prospettiva della
gradinata splendeva, allungandosi sotto decine e
decine di fiammelle. Ascoltò il rumore dei passi dei
congiunti sui gradini e poi il loro mormorio
allontanarsi per perdersi nella maestosa ampiezza
dell’androne. Sospirò e si diresse verso la terrazza.
Da basso il via vai dei servitori era frenetico, ma
silenzioso, e le rare parole erano sussurrate.
Innumerevoli rumori rivelavano una disordinata
attività verso un evento insolito ed inatteso: cigolii
di porte aperte e richiuse, scrosci d’acqua pompata
in recipienti di ogni foggia e materiale, sfriggoli di
cassetti aperti e subito richiusi, strascinio di ante
d’antichi armadi, stridore di chiavistelli, si
diffondevano all’interno del palazzo prima di
ammutolirsi nell’aria profumata del giardino.
Percorsa di buon passo, la strada acciottolata che
tagliava il parco, dal palazzo alla rimessa,
richiedeva almeno cinque minuti. Ai suoi lati erano
state accese numerose fiaccole il cui chiarore,
tremolante per la brezza della sera ormai inoltrata,
tracciava sul terreno una scia di luce paragonabile
alle luminarie sul Corso nella notte della festa di
San Giovanni Battista. Chiarore, fumo e profumo di
citronella avvolgevano, mutandole in
fantasmagoriche figure rossastre, le statue di pietra
collocate qua e là, nel corso di numerosi secoli, con
studiato disordine. …….. (segue)
PASTA COI BROCCOLI
E MUDDICA ATTURRATA
INGREDIENTI per 4 PERSONE
500 grammi di bucatini;
1 broccolo (cavolfiore, per gli amici del continente)
di media grandezza;
2 cipolle;
50 grammi di uva passa;
50 grammi di pinoli;
4 sarde salate;
olio extravergine d’oliva;
2 bustine di zafferano;
100 grammi di pangrattato;
2 cucchiaini di zucchero semolato; sale e pepe
(a proprio piacimento)
PROCEDIMENTO
Prendete l'uva passa ed i pinoli e metteteli in acqua
così che si possano ammorbidire.Nel frattempo
dedichiamoci al broccolo: lessate le cimette e le
parti più morbide dell'ortaggio e non gettate l'acqua
di cottura, perché la userete per bollire la pasta.
Tagliate finemente le cipolle e soffriggetele fino ad
imbiondimento.Poi, sempre nello stesso tegame,
aggiungete le sarde salate (già pulite e senza lische)
e pestatele come si deve per ridurle in poltiglia.
Aggiungete anche l'uva passa ed i pinoli dopo averli
opportunamente scolati.Tenete tutto sul fuoco per
qualche istante così che il sughetto si insaporisca.
E' quindi la volta di aggiungere il broccolo lessato,
accompagnato da un po' di pepe macinato e dallo
zafferano sciolto in un pochino di acqua (qualche
cucchiaio). Mescolate vivacemente.
Frantumate il broccolo fino a ridurlo quasi in
poltiglia.
Portate a cottura.
Non resta che cuocere la basta nell'acqua del
broccolo alla quale aggiungerete una bustina di
zafferano.
Se non fosse abbastanza eventualmente allungatela
con altra acqua e mettete una bustina di zafferano.
Non appena la pasta sarà pronta, unitela alla salsa di
14
broccoli e copritela con la mollica tostata.
Ma come si prepara la “muddica atturrata”?
Molto semplice: Prendete una padella e riponete al
suo interno del pangrattato.
Riscaldate sulla fiamma e fate tostare la mollica.
Spegnete la fiamma quando la mollica avrà
acquistato un colorito bruno.
A questo punto aggiungete un pochino di olio di
oliva, aspettate che venga assorbito e poi
aggiungete 1 o 2 cucchiaini di zucchero
(se non volete metterle, non fatelo.)
DETTI E PROVERBI
Taci e maci.
T’abballanu ‘ncapu la panza.
Taglia di Giuda.
Taglia lu strunzu cù lu filu.
Talialu che beddu !
Tali patri, tali figliu.
Taliari di mal’occhiu.
Tanti testi, tanti mazzi.
Tanticchia cchiù, tanticchia menu.
Ta talìatu ma’ a lu specchiu ?
Tavula ricca e tistamentu poviru.
Terra quantu vidi….casa quantu capi.
Terra fangusa…..spica granulusa.
Testa cun parla si chiama cucuzza.
Ti amu, ti stimu e ti rispettu….
ma chiddu chì mà fattu nun mi lu scordu.
Ti giuru quantu stimi la vista di l’occhi.
Ti manciasti tuttu lu sceccu
e ti sta’ cunfunnennu pi la cuda ?
Tinta ‘ddà terra ca ’un vidi patruni.
Tintu cù è mortu nnì lu cori d’atru.
Tintu pì chiddu chi avi bisognu.
Tintu cù mori, cù resta s’arrisetta.
Tintu quannu sciddica lu pedi.
Tirari acqua cu lu panaru.
Tira un carlinu e tiralu cuntinuu.
Ti ristaru ‘ngula comu li maccarruna di l’urtima
sira.
Ti si leggi ntàll’occhi.
Ti vò fari un nimicu ?, presta sordi a ‘n’amicu.
Ti vò ‘mparari a fari detta, accattati la chitarra
e la scupetta.
Ti vogliu bbeniri comu un rizzu ‘mpettu.
Per i non udenti:
taliari= guardare
tintu= cattivo o male per….
dettta: debiti
Il padre della pipa siciliana fatta a mano
«Un mestiere che scomparirà con me»
Salvatore Amorelli è partito 35 anni fa dal suo
piccolo laboratorio di Caltanissetta, diventando
simbolo di eccellenza e professionalità in tutto il
mondo.
Grazie alla cura con cui tratta un arbusto che cresce
sugli altipiani siciliani.
«Ma questa attività viene ostacolata, sono rimasto
l'unico artigiano in tutta l'Isola»
Tabacco di ottima qualità e una pipa d'autore:
secondo gli intenditori ci sono attimi in cui bastano
questi due ingredienti per assaporare il senso della
vita. Una convinzione su cui il nisseno Salvatore
Amorelli ha fondato un'attività imprenditoriale
lunga 35 anni e di grande successo, soprattutto
all'estero, dove il suo nome è associato a eccellenza
e professionalità.
Una passione iniziata per caso.
«Correva l’anno 1978, ero a Pisa, matricola alla
facoltà di informatica. Per il mio diciannovesimo
compleanno una ragazza mi regalò una pipa. Fu
amore a prima vista. L'anno successivo lasciai
l'università e ritornai a Caltanissetta con un'idea in
testa: fabbricare pipe», racconta.
Da quel momento in poi, senza «mai andare a
bottega da nessuno», comincia a progettare i suoi
primi modelli ispirandosi alle marche più
rinomate esposte nelle tabaccherie siciliane.
«Il mio primo acquirente - ricorda - fu un
imprenditore nisseno che mi permise di avviare
un'attività artigianale. Era il 1980».
La sua produzione si distingue da subito per la cura
nel trattare i pezzi di radica dell'Erica Arborea, un
arbusto che cresce spontaneo sugli altopiani
siciliani, da cui ricava le pipe.
«I ciocchi vengono tagliati in abbozzi, bolliti,
selezionati, messi ad asciugare, lasciati maturare
per un periodo, da cinque a trent'anni, necessario a
dare compattezza alle fibre del legno. Trascorso il
tempo di stagionatura, sono pronti per essere
lavorati. Il segreto che ci rende unici dipende dalla
leggerezza e dalla porosità della tipica radica
siciliana.
La svolta arriva dall'incontro con Mario Lubinski -
titolare di una grande azienda che distribuisce sigari
e tabacchi di qualità - che inizia a esportare le
Amorelli nel resto d'Italia e all'estero: Germania,
Austria, Usa, Svizzera, Canada, Hong Kong sono i
Paesi in cui ottengono i maggiori successi.
Grandi personaggi del passato e del presente ne
hanno avuta o ne possiedono una.
A forma di pastorale per papa Wojtyla, un
sassofono per l'ex presidente Usa Bill Clinton, in
15
oro e diamanti per l'ex cancelliere tedesco Helmut
Kohl e un prezioso narghilè, realizzato con un corno
di cervo cresciuto nei giardini palermitani di
Palazzo D'Orleans, per il re dell'Arabia
Saudita Abdullah Al-Saud.
Elaborazioni prima di allora impensate vengono
forgiate dal maestro nisseno. «Busbee, Frac, Nail,
Ghibli, Lyra, Fish tail sono i nomi delle serie
caratterizzate da singolari forme, colori e sapori.
Ritengo che fumare la pipa sia un insieme di
sensazioni olfattive, visive, tattili e gustative».
Negli ultimi anni inventa le texturizzate al laser.
«Fertility, Flowery, Penne di San Michele sono alcuni
esempi, impiegando in maniera originale i
macchinari moderni. Modelli per tutte le tasche, non
solo per collezionisti o uomini di successo». In
totale la produzione conta circa quattromila
esemplari all'anno e il mercato più redditizio è
quello estero.
Una maestranza che andrebbe tutelata ma che al
contrario, «viene ostacolata ed è destinata a
scomparire con me», sostiene amareggiato.
Anni spesi a combattere contro la burocrazia, «allo
scopo - dice - di ottenere, invano, contributi e
vantaggi per la crescita del territorio», lo hanno
sfiancato.
«Sono stato costretto a ridurre il numero dei miei
dipendenti. Oggi siamo solo in quattro. Oggi è
dura fare l'artigiano in Sicilia, persino i miei figli
hanno intrapreso altre professioni».
I VESPI SICILIANI
dagli amici di Lumie di Sicilia
*Miles gloriosus = il valore aggiunto
*Ma, non si era detto niente più pubblicità durante i
film trasmessi in TV? = che fa, spotte?!
*Digestione diffìcile = al fegato non si comanda
*Colpo di fulmine fu! = il soffio al cuore
*Sciopero degli autoferrotramvieri del sindacato
autonomo CO M U = Comu ??? . . . comu cci
abbasta l'arma di fari ancora scioperi?!
* Il Libro di cucina = tutto quello che avreste voluto
sapere sul lesso e che nessuno vi aveva mai detto.
* Le candidature agli Oscar = star wars
* Viaggio in Olanda = saranno paesi bassi, ma i
prezzi...!
* Fondamentalismo islamico = il tempio è tiranno
* Ad un imbianchino fiorentino = il palazzo pitti?
* Lotta alla mafia = ha subìto una Brusca frenata
* I vantaggi dell'ora legale = ora pro vobis
* Marito rassegnato = digerire aiuta la vita
* Il sarto:per cucirti un vestito ti scuce un sacco di
soldi
* La moglie del sarto = l'alter ago
* L'indossatrice = la sottiletta
* Il tabaccaio = un venditore di fumo
* Poligono di tiro = il centro-studi
* L'artificiere = il campione in carica
* Il "mecenate" del calcio = mena il fan per l'ala
* La domenica del tifoso = il calcio sui maccheroni
* Pugilato = occhio per occhio, dente perdente
* Lo storico = uno scrittore di successo
* La serenata = una cantata da basso
* Il ballerino = un uomo al passo coi tempi
* Lirica ad alto livello = un cost d'eccezione
* Il duo pianistico = l'accordo bilaterale
* Le misure della starlet = il bello della divetta
* Giochi al lotto? = ma nemmeno per sogno!
* Litigio fra enigmisti = la parolacce incrociate
* Vis grata puellae = il piano-forte
* Un'allegra partita a briscola fra vecchi amici =
carte diem
* Vino genuino = uva tantum
* Spesso nell'alcool si concepiscono idee geniali =
la fecondazione in litro
* All'osteria = hic sunt beones
* Il beone = beve ad bibitum: vivo, ergo rum.
16
Il 5 marzo il Palazzetto dello Sport di Savona ha
preso il nome di un grande uomo:Settimio Pagnini.
Un mio ricordo:
Anno 1966
Dopo tanta attesa è arrivato il momento del derby.
La neonata squadra di pallacanestro Savona Basket
Club incontra in campionato la Cestistica Savonese,
forte di una tradizione societaria di oltre 18 anni.
La nostra è una squadretta dalle modeste qualità,
assemblata fra amici abbastanza “nanetti”, media
17,5cm.
In tutto il campionato vinceremo non molte partite,
ma questa era la partita più importante dell’intera
stagione.
Personalmente la vedevo come una partita
qualunque, ero a Savona da poco più di un anno, ma
avvertivo l’atmosfera elettrica già da tempo e non
solo per la rivalità cittadina.
Bubu, Felice, Franchino, Sergio, Piero sono caricati
a mille e il coach ribadisce qualche schema, dando
le consuete istruzioni.
Io potevo supplire alla modesta tecnica con una
corsa frenetica e continui raddoppi sui portatori di
palla.
Insomma dovevo ricoprire con intensità il ruolo di
“cacciatore”: cercare di recuperare palla,correre e
passare, perché i tiri li dovevano provare altri, più
dotati.
La gara è animata e continuo a correre, arrivato ai
limiti dell’ area dovevo solo ricevere la palla,
fintare e passare.
Ogni tanto, se libero da marcature, potevo
permettermi un tentativo di tiro.
“Infatti” dopo qualche tiro- ne fosse entrato uno
manco per storto- sento un ordine dalla panchina
avversaria:
“ Non fare fallo, lascialo tirare, intanto quello (che
sarei stato io) non ne mette una”.
La pura e semplice constatazione mi scatena però
dentro una stizza particolare.
Pochi secondi dopo provo a tirare e l’adrenalina fa
il miracolo: “sciuff” : 2 punti preziosi per noi.
Sulla ripresa del gioco da parte dei “nemici”,
intercetto un passaggio e volo verso canestro,
realizzandolo.
Due canestri di seguito non li farò mai più.
Torno verso centro campo e guardando gli occhioni
del Mister nemico - eravamo entrambi meravigliati
- gli rivolgo il più classico dei gesti dell’ombrello.
Pouff !
E’ subito rissa, mentre l’allenatore avverso sorride e
il mio -il grande Bruno Racchi- s’incazza con me.
Ovviamente vado fuori dal campo ma mi resta negli
occhi quel sorriso.
Dopo la partita andai a cercarlo per scusarmi,
vabbé che ero un giovane diciassettenne, ma….
Invece mi venne incontro e mi diede la mano.
Non ci dicemmo nulla.
Ho continuato ad incontrare quel volto per tanti
anni mentre aumentava progressivamente la
considerazione e l’ammirazione.
Prima al “Palazzetto” durante la mia corta carriera
di giocatore, poi al Coni e poi ancora, nei più
diversi ambiti cittadini. Alle tante feste dello e sullo
Sport.
E nelle occasioni in cui si presentava con quella che
era la divisa a cui teneva di più: ” Alpino”.
Avevo scoperto, nel frattempo tutta la sua attiva
militanza nella Resistenza, con l’adattissimo nome
di battaglia “Otto”.
L’anno scorso, al Nuovofilmstudio abbiamo
presentato il bel docufilm di Diego Scarponi
“Ribelli e fuorilegge” e ci siamo salutati e
abbracciati.
Alla fine della proiezione, l’ho intervistato per
chiedergli cosa doveva restare ai giovani di oggi di
quanto avevano dentro quei giovani di settant’anni
prima.
Il compagno “Otto” forte dei suoi 94 anni, senza
alcuna retorica, pacatamente ha parlato di libertà.
Nel frattempo vedere Settimio Pagnini fra le
poltrone di casa mia “ormai con Giovanna ci
viviamo lì dentro” e Scarponi padre, Serafino, uno
degli avversari in quella partita di mezzo secolo
prima e Felice Rossello,compagno di squadra in
quella partita, mi ha fatto ricordare uno degli
schemi di gioco di allora, il triangolo: il cosiddetto
“dai e vai”.
E subito ho pensato che forse è davvero semplice.
In fondo basta solo saper dare e saper andare.
r.a.
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COSE DI CASA NOSTRA
Il sodalizio Siculo Savonese “Luigi Pirandello” e
l’affascinante storia di Kolymbethra.
di Luciana Berello
Venerdì 26 febbraio 2016, presso la Sala Rossa del
Comune di Savona, il Sodalizio Siculo Savonese
“Luigi Pirandello” e le delegazioni FAI di Savona
Albenga-Alassio, hanno ospitato Giuseppe Lo
Pilato, Direttore del Giardino della Kolymbethra
sito nella Valle di Templi di Agrigento.Giuseppe Lo
Pilato ha illustrato con immagini, esperienze e
parole, il percorso di rinascita di un sito
archeologico di grande rilevanza naturalistica e
paesaggistica, dal 1999 affidato al Fondo Ambiente
Italiano, dalla Regione Siciliana, per un periodo di
25 anni.
Kolymbethra è uno dei luoghi di grande importanza
sia a livello territoriale che nazionale, per quanto
riguarda il recupero e la conservazione delle
bellezze artistiche e paesaggistiche italiane.
Kolymbethra è il termine greco con il quale si
indica un tipo di piscina utilizzata in età romana per
i giochi acquatici.
Il suo restauro paesaggistico e strutturale,
organizzato dal FAI, ha posto fine alla situazione di
abbandono venutasi a creare negli ultimi decenni
del Novecento, permettendo inoltre la riscoperta di
alcuni ipogei.
Kolymbethra e la sua riqualificazione rappresentano
l’esempio tangibile della possibilità di riportare alla
luce luoghi della nostra Italia ricchi di Storia.
Testimonianze di un passato che è la cultura del
nostro Paese e per renderla fruibile ai cittadini di
oggi e ai visitatori provenienti da altri Paesi.
La storia di Kolymbethra nel racconto
appassionante del Professor Giuseppe Lo Pilato.
” Incontrai per caso Kolymbethra nel 1987, quando
iniziai a lavorare come agronomo. Mi capitò un
episodio la cui importanza compresi solo dopo anni.
Un contadino che si prendeva cura della
Kolymbethra, chiese la mia consulenza per un suo
agrumeto sito nella Valle dei Templi, riguardante il
danno di una gelata tardiva.
Quel contadino, ad un certo punto, mi disse:
“Dottore, venga con me, la porto al Giardino
Kolymbethra!” Mi ritrovai in un luogo del quale
non conoscevo nemmeno l’esistenza!
In mezzo all’aridità della gelata, spiccavano la sua
bellezza e l’acqua che sgorgava da ogni suo angolo!
Il contadino, davanti a quello spettacolo della
natura, mi confidò: “Dottore, in tutta coscienza, non
guadagno più nulla con il mio lavoro, perché questi
aranci danno frutti con i semi, che nessuno vuole
più! Li coltivo perché non ho cuore di
abbandonarli!”
Avevo un’altra idea dei nostri agricoltori!
Che dividono le piante in “utili” e “inutili”.
Quel contadino, nonostante l’inutilità di quelle
piante, non riusciva a staccarsene!
Non era solo il mezzadro della Kolymbethra, che in
quegli anni era ancora di proprietà privata: era il
custode, magari inconsapevole, di una tradizione
millenaria.
Sullo sfondo del Giardino di aranci, amorevolmente
custodito dal contadino, si apre il paesaggio di
mandorli e ulivi attraverso il quale è possibile
raggiungere il Tempio della Concordia.
E’ questa la peculiarità della Valle dei Templi:
essere un sito di notevole rilevanza archeologica e
al tempo stesso paesaggistica.
Dove la campagna tradizionale siciliana è
rappresentata nei suoi caratteri fondamentali fino
agli anni ’50 del secolo scorso.
18
Anni in cui l’urbanizzazione selvaggia arrivò a
stravolgere i suoi aperti paesaggi.
Il Parco è quindi anche il documento di una
Storia che è viva dall’inizio del corso delle Ere in
avanti.
Una Storia di cui tutti siamo figli: le apparteniamo,
da qui proveniamo.
Figli di quella generazione (ne è un esempio il
contadino mezzadro di Kolymbethra) che fino a
qualche anno fa si occupava di conservare quel
paesaggio. E così facendo manteneva intatto un
patrimonio della nostra Storia che appartiene sì, a
noi Italiani, ma anche all’Umanità intera.
Tra il Tempio di Vulcano e il Tempio dei Dioscuri,
esiste un avvallamento che anticamente ospitava
una diga. Parliamo di 2500 anni fa.
La diga era il bacino idrico della popolazione di
Kolymbetrha, al tempo stimata in 60.000 unità!
Quegli uomini inventarono…l’acqua!
La fonte di tutte le Civiltà.
Le prime città, infatti, si costruivano attorno a
fiumi, o in riva al mare.
Gli acquedotti che erano la rete idrica di
Kolymbethra, sono detti freaci, dal nome del loro
inventore, l’architetto Freace.
Costituivano, inoltre la riserva idrica della città in
caso d’assedio.
I 18 acquedotti costruiti 2500 anni fa, che
dissetavano gli abitanti di Atracos, e permettevano
loro di fare agricoltura, sono tuttora esistenti!
Tra le colture presenti nella Kolymbethra,
documenti risalenti al 1100, testimoniano
l’esistenza di un canneto all’interno del Giardino.
Molto probabilmente formato da canne da zucchero,
importate in Sicilia dagli Arabi.
A cavallo tra il 1600 e il 1700, iniziarono le
coltivazioni di agrumi. Che in Sicilia non vengono
chiamate agrumeti, ma bensì Giardini, come era
usanza Araba.
La loro coltura era puramente ornamentale: erano i
Giardini dei Re e dei Principi Arabi.
L’agrumeto sorge nel luogo dove, in epoca
precedente, sorgeva la piscina (Kolymbethra in
greco significa piscina).
Era per gli abitanti del tempo, un luogo di delizie,
oltre che un bacino idrico! Il recupero della
Kolymbethra ha unito, così, archeologia e
paesaggistica.
Quando il giardiniere-mezzadro, dalla cui
conoscenza iniziò il mio coinvolgimento in
Kolimbethra, smise di occuparsene, si avviò un
processo di inselvatichimento delle colture esistenti
che purtroppo durò anni!
Senza la mano, il cuore di quel giardiniere,
Kolymbethra entrò in agonia: in questo stato la
ritrovai dopo molti anni, quando ritornai a visitarla.
I rovi soffocavano gli aranci.
La mancanza d’acqua e irrigazione aveva reso aridi
i prati.
Trovai al mio ritorno un vero disastro, quando
invece mi aspettavo bellezza!
Mi assalì una grande rabbia!Eravamo nel 1995.
In quel periodo si lottava nella mia città, Agrigento,
contro l’abbattimento di siti archeologici, per dare
spazio alla cementificazione selvaggia.
Anche se esisteva una Legge che vietava di
costruire in quei luoghi patrimonio storico del
nostro Paese! Cercando di fare assolutamente
qualcosa contro lo spirito dominante di quel
momento, contro l’abusivismo edilizio, raccolsi
altri cittadini attorno a me!
Se una parte della città voleva arricchirsi costruendo
abusivamente nella Valle dei Templi, la parte
ambientalista che rappresentavamo, voleva piantare
alberi al posto di palazzine!
Non si è trattato di un momento facile!
Ci rivolgemmo alla Dottoressa Fiorentini,
Sovraintendente ai Beni Culturali.
Una donna del Nord, un’archeologa, la cui passione
per il suo lavoro l’aveva indotta a trasferirsi ad
Agrigento. Fu l’unica figura istituzionale che seppe
opporsi alla volontà dei costruttori di palazzine con
grande coraggio! Il suo primo passo, fu proporci di
creare un’Associazione tra noi ambientalisti, per
tutelare, conservare la bellezza di Kolymbethra.
Ci sentimmo motivati a proseguire la nostra
battaglia!
E, come spesso avviene, fu un caso a decidere una
svolta a nostro favore in questo senso.
Sono specializzato in Agricoltura Paesaggistica e
Archeologica.
Ricevo molte riviste specializzate nel mio settore.
Su una di queste, lessi del recupero di una Villa
Antica in Provincia di Varese da parte del FAI.
Una sigla, fino a quel momento a me sconosciuta!
Chiesi informazioni e mi parlarono di un gruppo di
aristocratici illuminati del Nord, i quali si
occupavano del recupero di opere d’arte in rovina.
Mi recai a Milano personalmente, deciso a chiedere
il loro aiuto per Kolymbethra.
Ottenni che, su mandato della Dott.ssa Fiorentini, il
Dottor Magnifico, vice- Presidente del FAI,
scendesse ad Agrigento per un sopralluogo.
Lo accogliemmo nel cuore della Kolymbethra,
attraverso un sentiero noto solo ad uno dei
dipendenti del Giardino. Accadde un fatto
straordinario: anche se eravamo a metà giugno, quel
dipendente trovò un’ arancia, e la offrì al Dottor
Magnifico. “Dottore, s’u manciassi” gli disse
porgendola dopo averla sbucciata.
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Man mano che assaporava il frutto, l’espressione
del Dottor Magnifico cambiava, come se nel sapore
di quel frutto esistesse tutta la sofferenza del luogo
che lo aveva prodotto! Sono tanti i luoghi che il FAI
ha nel cuore e a cuore. Ma Kolymbethra, negli anni,
con con mia grande soddisfazione, resta al primo
posto! La sua Storia è diventata una realtà positiva
anche nel presente!
Recuperando l’antico, abbiamo dato il via a
qualcosa di nuovo e di diverso contro le cattive
abitudini del nostro Paese. Tutti i lavori apportati in Kolymbethra sono stati
a costo zero per la Regione Sicilia. Fatto da non
sottovalutare! Nella Kolymbetrha si trovano tutte le
varietà di agrumi importate dagli Arabi in Sicilia
nel corso dei secoli.Sono presenti, tra le colture di
Kolymbethra, quattro varietà di arance, bergamotto
e da poco tempo anche il chinotto, grazie al
Sodalizio con la vostra città, Savona!
Un patrimonio agricolo-genetico che esiste solo in
Kolymbethra, dove gli agrumi sono arrivati e dove
hanno iniziato la loro storia!
Le immagini che più definiscono il senso del nostro
lavoro, sono le coltivazioni di agrumeti con sullo
sfondo, le rovine dei Templi, come ad esempio
quello dei Dioscuri.
Siamo anche riusciti a recuperare il sistema di
irrigazione degli antichi acquedotti freaci!
Perché è l’acqua l’anima della Storia dell’Uomo,
non solo di Kolymbethra!
Gli Arabi perfezionarono il sistema esistente, ed è
curioso sapere come, alcuni termini riguardanti i
vari tipi di irrigazione usati ancora oggi, abbiano
origine nella lingua araba.Ci siamo anche rivolti
alla contemporaneità dei mezzi. Introducendo in
alcuni luoghi del Giardino sistemi di irrigazione
moderni. La cui presenza resta comunque discreta
senza violentare il paesaggio antico.Una delle
grandi bellezze del nostro Paese è stata così ricreata
e chi vorrà visitare la Kolymbethra potrà respirarla
nei suoi Giardini!
Il significato del luogo sta nella possibilità di
comunicare tra gli alberi, cogliendo le sfumature
diverse ad ogni ora del giorno.I Templi sullo
sfondo, sono la testimonianza della nostra antica
civiltà Esperienza inconsapevole dei sensi,
dell’animo…appagante! E’ per questo che abbiamo
lavorato tanto e ancora continueremo per
conservare e tutelare Kolymbethra! Io stesso, i miei
collaboratori, i giardinieri. Per fare in modo che, il
fascino di Kolymbethra, possa unire gli animi di chi
vorrà fare la sua conoscenza! E’ una delle nostre
risorse più importanti! E non solo dal punto di vista
economico, sarebbe…arido (per usare un termine
agricolo…) se si riducesse tutto a questo!
Vivono, sono tangibili in ogni angolo del Giardino,
il rispetto delle nostre origini, dell’ambiente, della
Memoria della nostra identità di Italiani.
Tutela è dare valore a tutto questo!
Dimostrando che sbagliava chi voleva “fare i soldi”
distruggendo, cementificando! E’ possibile, invece,
trarre tutti maggiori vantaggi creando posti di
lavoro, lavorando per la conservazione e la
riqualifica dei luoghi di bellezza del nostro Paese!
Rendendoli fruibili anche nel loro aspetto culturale
e storico! Inaugurando Kolymbethra, abbiamo
issato la bandiera Italiana e suonato il nostro Inno
Nazionale.
Ma la Signora Fiorentini, il Sovraintendente alle
Belle Arti che ha creduto insieme a noi in questo
progetto, ha chiesto anche un brano tipico siciliano.
E tutti noi ci siamo ritrovati a cantare Sciuri Sciuri!
Kolymbethra è nata dalla collaborazione di una
donna del Nord e un uomo del Sud.
Questo significa che a contare, non è l’appartenenza
geografica, nelle persone.
Ma la loro umanità, la loro interiorità
Mi piace pensare che uno degli aspetti più
importanti del recupero di Kolymbethra sia questo:
il lavoro appassionato, coraggioso, di due italiani
che hanno a cuore il loro Paese!”
Che le cose siano così, non vuol dire che debbano
andare così. Solo che, quando si tratta di
rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare,
vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la
stragrande maggioranza preferisce lamentarsi
piuttosto che fare. Giovanni Falcone
Con tenacia, coraggio, passione, il Professor
Giuseppe Lo Pilato ha reso realtà il pensiero del
suo conterraneo Giovanni Falcone.
Una realtà non solo presente nell’Isola Sicilia.
Ma estensibile a tutto il nostro Paese.
E’ stato questo il senso dell’incontro voluto dal
Sodalizio Siculo Savonese “Luigi Pirandello” nella
Sala Rossa del Comune di Savona.
20
Auguri di pronto recupero ai nostri Soci Aurelia
Trapani e Salvatore Finocchiaro, passati entrambi
di recente sotto le mani dei chirurghi.
Complimenti vivissimi al Milazzese Vincenzo
VITALE, Comandante della Capitaneria di Porto di
Savona, per aver pensato e realizzato sulla Costa
“Neoclassica”un incontro-patronaggio fra
l’Ist.Nautico “L.Pancaldo” e l’Ist. Nautico” Da
Vinci” di Milazzo
8 marzo Festa della Donna
Casino di Lettura
Il nostro Presidente Enzo Motta ha presentato
l’amica del “Pirandello” Monica Castello che ha
letto nell’occasione “Diario sentimentale di uno
str…” Occasione favorevole. Quando la coscienza
di un uomo decide di raccontarne la storia sono
guai... Monologo teatrale presentato per la prima
volta in lettura e di cui ci auguriamo una replica
autunnale. Un attento pubblico ha partecipato
apprezzando l’iniziativa. Mentre Monica ha così
commentato:
Magnifica serata, sala piena, applausi... Grazie ad
Enzo Motta e agli amici del Casino di lettura per
avermi invitato e ad Enrico Bonavera per essere
riuscito ad insegnare qualcosa anche ad una come
me...
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
OFFICINE SOLIMANO- CATTIVI MAESTRI
Sabato 2 aprile 2016 ore 20,30
ALLEGRIA DI NAUFRAGHI
Di e con Annapaola Bardeloni. Stefan Gandolfo al
contrabbasso. Compagnia Trabateatro.
La poesia non diventa pane quando hai fame, né ti
veste se sei nudo: ma la poesia ha musica, accenti,
ritmo, piedi che battono,dita che schioccano.
- La poesia? Ammémm'ha un poco salvato la vita.
- Quale poesia?
- La poesia. Ti parrebbe strano?! Eppure... quando
addosso ci avevo quel freddo assurdo che pareva
non finire mai, o quel caldo che mi strappava la
bocca... allora mi ripetevo la poesia.
Quella della scuola. Che magari neanche capivo, ma
diventava musica e magari anche preghiera e mi
segnava il passo e il respiro e i sospiri. Lo ha detto
Mario, neanche troppi anni fa. Oggi lo dice Igiaba,
lo dice Aminata, lo dice Carlos e... Tre ragazzi
seduti stretti sugli scogli. "Che la vita è questa. Ch'è
fatta della storia mia e della storia tua. E mica lo ha
detto Dio che in questo pezzo di terra ci puoi stare
solo tu".
Martedi 19 aprile ore 18,30
CASINO DI LETTURA
Il nostro amico Pierguido QUARTERO presenterà
il suo romanzo finanziario “La Lettera Perduta”
Seguirà apericena. Insistiamo per una nutrita
partecipazione.
Società Cattolica Via Famagosta
Sabato 16 aprile ore 16,30
Anna e Giuse CERVETTO presentano
Diario di Viaggio: MESSICO E GUATEMALA
Una videoproiezione in paesi affascinanti
Questo video si riferisce ad un viaggio effettuato
per visitare luoghi che hanno ospitato le civiltà
precolombiane dei MAYA , degli AZTECHI, degli
OLMECHI, dei TEOTIHUACANI, dei TOLTECHI,
degli XAPOTECHI. CITTA’ del MESSICO, SAN
CRISTOBAL DE LAS CASAS, PALENQUE,
MERIDA, CHICHEN ITZA, UXMAL, KABAH,
CITTA’ del GUATEMALA, CHICHICASTENANGO
ed infine TIKAL con la straordinaria Piramide del
SERPENTE BICEFALO dalla cui sommità lo sguardo
spazia nell’infinita foresta subtropicale.
Anche se in ritardo sono graditi vero?
Santuzzo