Elisabetta Modena - Boorp Tutto Gratis · L Europa sarà cristiana, ... un autentico disastro...

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Elisabetta Modena

Il 74° libro Trilogia

“E quando questa lettera sarà stata letta da voi,

fate che venga letta

anche nella Chiesa dei Laodicesi,

e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi”

( 1 Colossesi 4,16 )

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© 2007 Elisabetta Modena progetto grafico: Francesco Tessarini foto cartina Europa antica: Brian Samodra (www.sxc.hu) Stampato per Lulu Press dalle Publicaciones Digitales, S.A. C/ San Florencio, 2 41018 Sevilla Spain

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LIBRO PRIMO

La punta di diamante

Roma

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“In questo nostro tempo il mondo ha bisogno

più di testimoni che di maestri”

(Paolo VI)

“L’Europa sarà cristiana, o non sarà”

(Giovanni Paolo II)

“L'Europa sembra incamminata su una via

che potrebbe portarla al congedo dalla storia»

(Benedetto XVI)

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Premessa

Questo è un libro di “christian fiction” – come dire – è un

romanzo cristiano. La terminologia è anglosassone perché

negli USA questo genere è molto più diffuso che qui, cito a

titolo di esempio il best-seller cristiano di Michael O’Brien Il

Nemico, tradotto in Italia dalle Edizioni San Paolo, o l’ultimo

di Rino Cammilleri Immortale Odium (per i tipi della Rizzoli);

ma questo genere, si può dire, l’abbiamo inventato noi. Da

Dante, a Manzoni, a Bacchelli, agli scrittori cristiani del

Novecento (anche a livello europeo) gli elementi in gioco

sono sempre due: la creazione letteraria e l’ispirazione

cristiana.

Riproporre il romanzo cristiano è quanto mai attuale. Non

solo per rispetto di un pubblico che ha desiderio di immergersi

in questo tipo di letture, ma anche per rispetto verso le nostre

radici cristiane che affondano in duemila anni di storia.

Caro lettore, anche se non ti professi cristiano, non

spaventarti. Non sentirti escluso. Questo è un libro per te, per

tutti gli uomini, perché il Vangelo è sempre alla portata di

tutti.

Elisabetta Modena

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VENERDI’ 14 Marzo

I Quel giorno era andato tutto storto ad Edoardo Righetti. A

cominciare dalla mattina. L’autobus delle sette e trentadue l’aveva lasciato a piedi:

peccato fosse l’unico mezzo che lo portasse in orario a scuola. Giustificati dall’assenza del loro prof, gli studenti si erano ritenuti autorizzati a provare in classe i brani del concerto di fine anno, col risultato di disturbare tutte le altre classi del corridoio. Alle otto e quarantacinque in punto, il resoconto che il Preside aveva servito ad un Righetti avvilito era stato così meticoloso e pungente da non lasciare ombra di dubbio su quel che ne pensava: un autentico disastro colposo. Il professor Righetti aveva cominciato a spiegare al Preside che nell’ora di punta, a Roma, era facilissimo perdere l’unica coincidenza che lo collegava con la scuola. Ma ahimè, invano.

Non finiva qui. Tornando verso casa, appena sceso dall’infausto autobus che quella mattina gli aveva procurato così tante noie (e che all’uscita da scuola contava, invece, ben 12 minuti di ritardo), non trovò più parcheggiata la sua automobile. Eppure rammentava di averla lasciata nel parcheggio custodito come tutte le altre mattine, con tanto di salato biglietto.

Si volse intorno per cercare il custode che, stranamente, sembrava sparito nel nulla.

S’impose di non perdere la calma. Appoggiò la borsa dei libri sulla nuda terra e si levò il cappotto, se non altro perché era più facile pensare con un minor strato di abiti sotto il sole sonnecchiante della città nell’ora di pranzo. Soprappensiero si passò le dita tra la barba ben curata, uno dei pochi vezzi rimastigli a lenire l’amara realtà che l’ora di religione non dava grandi soddisfazioni personali, e si slacciò i polsini della camicia per arrotolare le maniche sopra il maglione.

Mentre girava la testa a destra e a sinistra cercò di fare mente locale: quella mattina era iniziata in modo identico ad ogni altra. Guidava la macchina fino al parcheggio “Oasi”, che a dispetto del nome era una colata d’asfalto surriscaldata dal sole. Da lì prendeva l’autobus fino in centro. Era più

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comodo arrivare al liceo con mezzi pubblici, vista la spinosa questione del posto macchina: la scuola era in pieno centro storico, e il parcheggio per gli insegnanti consisteva in una minuscola porzione di cortile, già dai primi minuti d’ingresso presa d’assalto dalle biciclette e dai motorini degli studenti. Il Preside, dopo non pochi tentativi andati regolarmente a vuoto, aveva rinunciato a far rispettare l’ordine, anche perché il personale ausiliario nonché il corpo docente che avevano iniziato a montare la guardia, per difendere il proprio prezioso posto auto, si erano ritrovati inspiegabilmente graffi sulla carrozzeria delle automobili, ruote bucate, e simili altri atti di vandalismo. Così, a malincuore, avevano smesso di fare la ronda. E il parcheggio era diventato una landa di asfalto battuta dalle orde degli studenti che vi stanziavano, come ultimo avamposto in cui assaporare la loro libertà prima di entrare in classe.

Intanto la macchina non saltava fuori. Il professor Righetti setacciò il parcheggio in lungo e in largo nella timida speranza che eventuali balordi, forzata la portiera ed intrufolatisi dentro, per qualche strano, brutto scherzo gliel’avessero spostata di qualche metro per poi lasciarla là. Ed il custode? Beh, proprio in quel momento poteva essersi assentato per bere un caffè o mangiare un panino: all’una passata era naturale che anche i custodi mangiassero.

Oppure la sua macchina poteva essere stata rubata… rubata.

Al solo pensiero che gli fosse capitata una simile disgrazia iniziò a sudare freddo. Perché mai doveva succedere proprio a lui? E alla sua auto, una vecchia utilitaria? Capitava sempre ad altri… certo, lui non si era mai sforzato di pensare cosa avrebbe provato se fosse toccato a lui.

Si mise a perlustrare attentamente ogni angolo del parcheggio in cerca di tracce del furto di cui era sempre più certo ogni minuto che passava. Se solo l’autobus non avesse avuto quei 12 minuti di ritardo, si disperò tra sé, magari sarebbe arrivato in tempo per cogliere i malviventi sul fatto e dare l’allarme. O forse, nemmeno così ce l’avrebbe fatta.

“Devo fare qualcosa” decise. Si avviò sconsolato verso la cabina del telefono pubblico.

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Camminava a passi lenti, perché meditava su come dirlo a Laura, e maledicendo che il suo telefono cellulare si fosse appena scaricato.

Prese in mano la cornetta del telefono e digitò i numeri: “Pronto?” scandì una voce femminile. “Sono io, Laura. Oggi tornerò a casa più tardi perché devo

passare in Questura” riferì alla moglie cercando di mantenere la calma. “Ti chiamo per avvisarti”.

“Che è successo?” lo interrogò allarmata. “Devo recarmi alla polizia per sporgere una denuncia,

credo ci abbiano rubato l’auto”. “Oh santo cielo!” “Tornato al parcheggio, dopo l’ultima ora di lezione, non

c’era più la macchina. Sparita, capisci?” seguitò Edoardo. La reazione della moglie non si fece attendere. “E il custode? Lui è il primo che bisognerebbe denunciare!

Uno paga 150 euro di parcheggio al mese fidandosi che non succeda niente alla propria auto, e poi si ritrova lo stesso con il ben servito. Ma che trattamento è?! Adesso scrivo subito una lettera di protesta a Roma capitale perché i servizi privati di questa città sono inefficienti. Voglio far diventare rosso dalla vergogna quel dannato custode. Da domani più nessuno gli affiderà le proprie auto. Ma tu gli hai parlato? Gli hai detto che ti hanno rubato la macchina?”.

Edoardo avrebbe voluto controbattere che non sempre le cose vanno storte per colpa altrui. Ma preferì sorvolare.

“Il bello è che non c’è nemmeno lui qui al parcheggio” rispose.

“Ah, fantastico!” esclamò arrabbiata la moglie “sta sicuro che quello non lo rivedremo mai più. Il guaio è che l’assicurazione tenderà a darci il meno possibile per quel catorcio. Se almeno avessimo dato retta all’agenzia! A Natale, durante la promozione, ci aveva proposto di cambiare la nostra vecchia auto con la nuovissima Sidera. Ricordi? Ma noi avevamo da aggiustare la caldaia, accidenti…! Tutta colpa di questa dannata recessione che l’Italia non riesce a scrollarsi di dosso e, come sempre, sono le famiglie a reddito medio-basso a farne le spese! E che strategie mette a punto lo Stato per noi cittadini indebitati? Nessuna! E’ una vergogna che anziché

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salire i gradini della classifica dei paesi più ricchi, il nostro paese li stia scendendo! In più adesso ci si mettono pure le Stelle Spezzate… andiamo di male in peggio!”.

In quell’istante Edoardo sentì che suonavano alla porta di casa. La moglie troncò bruscamente il nuovo monologo che stava già intonando.

“Vado a vedere chi è” la sentì farfugliare. Edoardo tirò un sospiro di sollievo al pensiero che per

qualche minuto la moglie sarebbe stata impegnata con il postino, la vicina di casa o giù di lì. L’invettiva della moglie contro lo stato dell’economia italiana però era del tutto lecita: in termini musicali si sarebbe detto un de profundis. Edoardo ricordava che era soltanto un ragazzo quando aveva fatto scandalo la retrocessione economica dell'Italia dal 6° al 10° posto della classifica dei paesi più ricchi, e come negli anni successivi i governi non fossero riusciti a risollevare le sorti del paese. D’altro canto, paesi che un tempo erano considerati in via di sviluppo – Argentina, Turchia, Messico ed Egitto – ora occupavano quei posti lasciati liberi dalla retrocessione degli stati “poveri” dell’Unione (Italia in primis, ma anche Portogallo, Grecia, Polonia). I primi erano cresciuti in termini di P.I.L., possedevano un ottimo trend demografico, un contenuto grado di disoccupazione, indicatori economici che filavano a gonfie vele. La vecchia Unione Europea, invece, era alle prese con l’invecchiamento della popolazione, con le massicce ondate migratorie (dalla Russia, dal Medio Oriente e dall’Africa) e i correlati problemi sempre più complicati di integrazione sociale, con l’avvento del primo partito filo-musulmano moderato, con lo smantellamento progressivo dello stato sociale.

Come non bastasse, erano comparse le Stelle Spezzate, il gruppo terroristico di punta, presente nel paese senza che nessuno – magistratura compresa – riuscisse a chiarirsi le idee su cosa fosse esattamente. Quel che era certo era che questi nuovi terroristi puntavano a colpire il mercato finanziario. “Una nuova strategia terroristica” commentavano i giornalisti; una strategia che, intanto, minava il precario equilibrio del sistema capitalistico italiano.

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Per non parlare dei tre colossi del mercato che stavano incassando profitti faraonici una volta entrati nell’Olimpo del libero mercato nel corso del XXI secolo: Cina, India e Brasile.

Intanto Edoardo percepì in sottofondo, attraverso la cornetta, il brusio di voci maschili. Cominciò a preoccuparsi.

Laura tornò di lì a poco. La sua voce pareva leggermente alterata, anche se non manifestava segni di allarmismo:

“Torna subito a casa. Qui ci sono due agenti in borghese della polizia che vogliono parlare con te”.

Edoardo rimase per un attimo interdetto: che avessero di già ritrovato la macchina? E in una città come Roma?

“Domanda loro cosa vogliono” rispose, vagamente confuso, alla moglie. E aggiunse senza troppa convinzione: “Magari si tratta della macchina. Lascio sempre dentro il cruscotto una fotocopia del libretto di circolazione. Può essere accaduto che da quella siano risaliti al mio nome e così mi abbiano rintracciato a casa…”.

Ma non sembrava troppo sicuro di quello che stava dicendo. In quel momento tentava solo di spiegarsi cosa ci potessero fare due poliziotti a casa sua.

“Sì, intanto li faccio accomodare. Tu torna presto”. “E tu accertati che siano due poliziotti e non due furfanti”. “Sta tranquillo!”. “Mah, sarà. Però non riesco a stare tranquillo. Lasciali

aspettare fuori finché non sarò tornato. Senza mandato di perquisizione non possono entrare”.

“Guarda che so distinguere due delinquenti da due poliziotti!” commentò infastidita la moglie. “Comunque d’accordo. Faccio come hai detto. Tu pensa solo a tornare in fretta”.

“Allora prendo un taxi e sono lì; l’autobus ci impiegherebbe un’ora. Ci vediamo”.

“A tra poco”. Edoardo riattaccò. Doveva sbrigarsi: non riusciva più a

tenere a freno l’immaginazione.

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II

“Qui è tutto un caos. Non si può lavorare in questo modo! Per me è tempo di levare le tende!”.

Benjamin protestava, ma il tono di voce scherzoso tradiva che non avrebbe mai messo in pratica il proposito. Per il momento si limitava a dondolarsi sulla sua sedia di cronista super-pagato nella sede milanese del più importante quotidiano a diffusione nazionale, nonché di inviato speciale in quei luoghi dove il contributo della sua penna fosse risultato assolutamente indispensabile per rimpinguare le casse del giornale. Ma ogni tanto inveiva contro quello che definiva: “un sistema arcaico di fare giornalismo”.

“Non c’è un attimo di riposo. Sempre di corsa! Non si può fare nessun vero scoop perché non c’è nemmeno il tempo di leggere tutta la montagna di notizie che arrivano dalle agenzie di stampa! E’ pazzesco! ”.

Benjamin era un trentottenne alto, bruno, con un viso dai tratti simpatici e, soprattutto, era americano, il che aumentava a dismisura il suo fascino. A dare retta alle voci femminili della redazione, aveva già fatto gola ad un numero imprecisato di giornaliste e non, le quali si erano lasciate felicemente sedurre come api invischiate in un barattolo di miele.

“Da quando in qua un giornalista serio come te può permettersi di riposare?”.

Dalla sua scrivania Grazia gli concesse appena un’occhiata indagatrice, sollevando i suoi occhi color smeraldo che brillavano su un viso incorniciato da capelli neri come l’ebano.

“Da quando questo giornalista si chiama Tolosa ed è stato in lizza per il premio Pulitzer nella categoria dei giornalisti” bofonchiò un altro accanto alla scrivania di Grazia. “Chissà quale sarà la sua prossima destinazione: Parigi, Londra, Bruxelles… non vedi? È già stanco di stare qui!” commentò acido.

“Se avessi vinto il premio Pulitzer, sicuramente adesso non sarei qui a fare soltanto quello che mi ordinano di fare” rispose energicamente Benjamin, che non aveva ancora digerito (dopo otto anni) di essere entrato nella rosa dei

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finalisti e, mentre tutti lo davano per vincitore, di essersi visto soffiare l’ambito riconoscimento da un collega, amico fin dai tempi dell’università.

“La cronaca interna non mi ha mai attirato” aggiunse Benjamin, solito a rispondere senza mezze misure. Parlava – e scriveva – in modo chiaro e diretto. “Sono venuto in Europa per fare del giornalismo serio, non per scrivere pezzi insulsi solo perché a gente insulsa e mediocre piace leggerli!”.

Smise di parlare in modo che il concetto che aveva appena espresso entrasse bene in testa al suo collega: il riferimento era personale. Grazia dalla sua scrivania dischiuse le labbra in un leggero sorriso che non sfuggì a Benjamin.

“E poi che male c’è ad andare in giro per il mondo? Quando ne vale la pena, s’intende…”.

“E quand’è che ne vale la pena?” domandò Grazia senza sollevare la testa dallo schermo del computer.

“Ma per conoscere donne come te” le rispose Benjamin sfoderando un sorriso degno del miglior latin lover.

Lei scoppiò a ridere, pur continuando a non sollevare la testa.

“Dicci un’altra cosa, allora, signor don Giovanni: non hai mai avuto grane con le donne? Che so, qualche figlia segreta …” ribatté il collega invidioso.

“No, perché io le scelgo con cura”. Benjamin si portò una mano sulla fronte per tirarsi indietro

i folti capelli scuri che gli ricadevano sugli occhi. I due si stavano scrutando con aria di sfida.

“Ah, giusto, dimenticavo” fece l’uomo scuotendo la testa “Il signor Tolosa le vaglia come noi italiani facciamo con le macchine: che siano solo di grossa cilindrata e con buona tenuta di strada. Non vogliamo sorprese dai nostri gingilli, noi”.

“Esagerato!”. Grazia si sentì in dovere di intervenire, era risaputo da tutta la redazione che Benjamin era sì un Casanova, ma lo faceva con stile. Non aveva mai mancato di rispetto a nessuna delle sue conquiste.

Arrossì mentre prendeva le sue difese, si sentiva colta in flagrante perché un po’ lui le piaceva, (come ad almeno altre dieci sue colleghe), ma avrebbe fatto carte false pur di non

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farglielo capire, idem le sue dieci colleghe. Esperienza comune, infatti, era che le storie fra colleghi non durassero più di due o tre mesi, specialmente se ci si trovava solo a letto.

Però il collega bilioso non la smetteva di punzecchiare pesantemente Benjamin.

Grazia, stufa di non riuscire più a concentrarsi sul lavoro come voleva, per zittirlo andò giù pesante: “Guarda che sappiamo che temi che Benjamin ti possa soffiare il posto di capo-redattore. Non sarà per caso che se hanno intenzione di assegnarlo a lui, è perché lo merita di più ?”. “Ecco, troppo tardi. L’ho detto” pensò. “Adesso certamente me la farà pagare cara”.

“Non ho bisogno delle tue lodi, Grazia” intervenne Benjamin serio. “Lascia perdere: ti ringrazio, ma la proposta non l’ho ancora ricevuta, e anche se la ricevessi, non è detto che l’accetterei”. E rivolgendosi al collega: “Sono un uomo che non si ferma mai a lungo nelle redazioni che gira, per natura mi piace cambiare; preferisco viaggiare, conoscere posti nuovi, situazioni e persone diverse. Ma senza approfittarmene”. I suoi occhi chiarissimi brillarono intensamente attraverso gli occhiali. “Spero di potermi togliere da qui al più presto, per non darti più alcun fastidio” aggiunse secco e pungente come carta vetrata.

“Vedremo, signor Tolosa…Vedremo, dunque, cosa riserveranno le prossime settimane” rispose l’altro con uno strano sorrisetto sulle labbra, e con gli occhi fissi sul monitor lampeggiante.

In quel momento Benjamin notò un brulichio maggiore del solito scuotere tutta quanta la redazione, ma pensò si trattasse delle breaking news delle agenzie stampa. Per sicurezza lanciò un’occhiata a Grazia: se ne stava china sullo schermo, esattamente come poco prima. Tutto tranquillo.

Si alzò dalla sua scrivania e si avviò in direzione della macchinetta del caffè, in fondo alla redazione.

“Italiani!” pensò Benjamin tra sé “Simpatici e allegri finché si scherza insieme, ma voraci come lupi se fiutano di perdere i diritti che ritengono spettino a loro! ”. E amareggiato lasciò che il filo dei pensieri scorresse in caduta libera.

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“Cos’è dunque una promozione? È un riconoscimento di valore che deve andare a chi lo merita davvero. È una vergogna che uno diventi caporedattore solo per anzianità di servizio e logica interna del giornale. Come si può pensare di meritare un posto simile, con una responsabilità tutt’altro che marginale, senza essersi sudati uno per uno i pezzi di cronaca da inviato speciale; senza essersi misurati fino all’ossessione con i logoranti reportage da ogni angolo della terra che interessa all’opinione pubblica; senza aver plasmato il proprio stile al punto da dare filo da torcere a chiunque si azzardi a imitarlo anche solo da lontano…”. Stavano frullandogli per la testa tutte queste considerazioni, quando all’improvviso gli si materializzò davanti Grazia.

Gli si era avvicinata mentre lui stava sorseggiando il terzo caffè di quella giornata, non si era accorto di nulla.

“E così vuoi andartene?”. Il tono di voce impersonale mascherava il fatto che ciò la preoccupava.

Infilò la sua chiavetta personale nel distributore di bevande e schiacciò per ottenere un decaffeinato, giusto perché non sembrasse che lei gli stesse correndo dietro.

Benjamin si immaginò che Grazia sottintendesse dell’altro. Si trattenne dal farle gli occhi dolci che pure gli sarebbero venuti spontanei: “Non so. Ho il presentimento che Milano non faccia più per me. È grigia anche quando c’è il sole, io non sono abituato a vivere senza la luce”. Era così scuro in volto mentre parlava, che Grazia pensò che stesse vivendo esattamente quello che aveva appena descritto.

“Ma perché hai accettato di venire a lavorare qui, allora? Perché non sei rimasto in Spagna?”. Per mascherare l’imbarazzo del leggero tremolio nella voce s’affrettò a trarre fuori dalla tasca della camicetta un pacchetto di sigarette light; ne accese una immediatamente, l’aria tra i due si riempì di impalpabili volute di fumo. Benjamin si accigliò, ma non le chiese di spegnere la sigaretta.

“L’Italia mi è sempre piaciuta: speravo mi avrebbero mandato su e giù per il paese a seguire gli avvenimenti importanti di cronaca. Vedi, io ho un’ossessione che non mi dà tregua” le spiegò con calore “lo scoop. Sia quando sono in giro, sia quando sono qui in redazione, quest’idea è come un

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tarlo nella mia mente. La rode scendendo sempre più in profondità dentro di me. E non è facile liquidarla dicendo che è soltanto la proiezione della voglia di successo, di riscatto personale. Vivo perennemente insoddisfatto perché mi pare di non essere all’altezza del mio ruolo di giornalista. Continuo a dirmi che se fossi veramente famoso, non dovrei stare qui a prendere ordini da qualcuno che sta sopra di me; vorrei essere io a scegliere cosa scrivere. Invece mi tengono incollato alla mia sedia, e ora ci sarebbe in ballo nientemeno che la promozione a caporedattore… tutto per manovrarmi meglio!”. Benjamin era seriamente deluso. “A proposito” si soffermò un attimo nel tentativo di cercare le parole più appropriate “ non è fra i miei sport preferiti infilare conquiste femminili una dietro l’altra. Brentani l’ha detto solo perché è invidioso!”. Così si chiamava il collega malevolo.

“Lo so, non c’è bisogno che ti scusi per la performance di poco fa”.

Grazia dischiuse le labbra e ne uscì una delicata spirale di fumo. Distanziò la sigaretta mentre continuava a scrutarlo, ma ora sul suo viso si era affacciato un timido sorriso, che a Benjamin parve davvero spontaneo e genuino, la risposta naturale alla sincerità con cui lui aveva parlato.

Lui respirò l’aria un po’ infastidito, rimanendo in silenzio. Gettò un’occhiata sullo stanzone in cui si trovava: erano disseminate ovunque scrivanie con telefoni che squillavano in continuazione; la gente batteva freneticamente le mani sulle tastiere dei computer senza staccare gli occhi dallo schermo. Si chiese per quanto sarebbe resistito lì dentro, senza la prospettiva di uscire a lavorare in mezzo alla gente. Senza la possibilità di svolgere ricerche approfondite come gli piaceva tanto fare. Gli uscirono parola amare dalla bocca:

“Mi sento comandato a bacchetta, come un animale da circo. Ma ti dirò di più: anche se mi volessero rinchiudere nella loro meravigliosa gabbia dorata, come fossi un uccello esotico, dandomi la promozione e quant’altro hanno in programma per me, sarebbe inutile. Non si può impedire ad un usignolo di cantare: anche chiuso in gabbia, riuscirebbe sempre a convincere qualcuno, col suo canto struggente, a socchiudergli la porta”.

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“È questo che stai aspettando? Qualcuno che venga a portarti via? Perché non mandi tutto all’aria allora, e te ne torni in America? Un po’ di fama l’hai raggiunta. Non dovrebbe essere così difficile rimediare una cattedra di giornalismo in qualche Università. Insegneresti per un po’ di mesi, conosceresti un sacco di giovani e potresti viaggiare per tenere corsi e conferenze!”.

Benjamin scoppiò in un’allegra risata. “Lo sai che sei davvero piena di idee?! Vedrai che prima o poi ti ascolterò!”.

Grazia sorrise, senza però riuscire a guardarlo negli occhi. Non le usciva più niente di bocca al pensiero che lui potesse andarsene davvero. Anche se solo un attimo prima aveva scherzato su quell’eventualità, in cuor suo sapeva di aver fatto centro.

Intanto la sigaretta era terminata: schiacciò la cicca nel portasigarette e lo salutò con la scusa di dover tornare al lavoro.

Benjamin la osservò dirigersi verso il computer della sua scrivania; vista di spalle Grazia era davvero carina: un vitino sottile dentro la camicetta bianca, pantaloni larghi e scarpe col tacco alto. E poi quella cascata di ricci neri. Davvero niente male. Il passaparola maschile (che esisteva al pari di quello femminile) le attribuiva un flirt nientemeno che con il direttore, risalente ancora a qualche anno addietro; il che avrebbe spiegato, agli occhi dei più smaliziati – che di solito sono proprio quelli che ci azzeccano – il perché una giornalista come lei con un curriculum buono sì, ma non eccessivamente brillante, sarebbe passata senza tanta gavetta dalle pagine di cronaca milanese a quelle di politica interna del paese.

La postazione di Grazia era perennemente fissa sulle agenzie stampa che battevano le notizie da Montecitorio. Adesso poi che si avvicinavano le elezioni politiche, era scrupolosissima: non perdeva d’occhio neppure per un istante gli sviluppi delle discussioni sui progetti di legge fermi in Parlamento, approdati lì nel corso della quinquennale legislatura.

Ma Benjamin, che sapeva leggere tra le righe dei comportamenti dei suoi colleghi, aveva capito che la stella di

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Grazia era in declino. Il caporedattore la massacrava di lavoro, i colleghi cercavano di farle le scarpe, non aveva amici fidati su cui poter contare per sfogarsi un po’; era un anno che lei stava resistendo dignitosamente, piena di buona volontà, assediata dal nugolo di nuovi pupilli (e pupille) del direttore – il quale ora la trattava al pari di tutti gli altri suoi collaboratori – che miravano alla sua poltrona. Al momento di andare a casa, la sera, la vedeva con un viso stanco, tirato, sotto il trucco con cui mascherava il suo sfinimento. Impiegava tutte le energie nel difendere il suo posto con le unghie e con i denti. Benjamin si domandava per quanto tempo ancora la forza di volontà, che indubbiamente Grazia possedeva in somma misura, l’avrebbe sostenuta. Col passare degli anni infatti si era fatto l’idea che il giornalismo smorzasse la vivacità e l’entusiasmo degli esordi giovanili, e che questo valesse un po’ per tutti. Grazia poi gli sembrava particolarmente sensibile, quasi inadatta ad un mestiere dove le poche firme che contavano si battevano a suon di editoriali. Aveva stima di Grazia. Gli faceva persino tenerezza vederla così magrolina, sepolta sotto la montagna di carte che si ergeva minacciosa sul suo tavolo di lavoro. Indubbiamente era uscito con donne più belle e affascinanti di lei, ma nessuna che avesse la sua anima gentile.

Fin da subito si era reso conto che lei nutriva un debole per lui. Un’avventura con Grazia non gli sarebbe dispiaciuta, già in passato aveva avuto storie con donne che lavoravano nel suo stesso campo ed erano durate più del previsto. Benjamin piaceva alle donne: era bello, famoso, aveva soldi da spendere ed era dotato di fascino. Quando valeva la pena lui non se le faceva certo scappare, ma il fatto era che non gli accadeva di innamorarsi veramente.

Ora, se avesse fatto la corte a Grazia, sentiva che la loro storia sarebbe scorsa entro i soliti binari. Da un lato ne aveva voglia, ma dall’altro qualcosa lo frenava. Stranamente, gli dispiaceva poter farla soffrire. Di solito con le altre donne non gliene sarebbe importato un granché: tanto peggio per loro, dal momento che erano loro ad innamorarsi di lui. Ma Grazia era intelligente e graziosa. Quando la scorgeva non riusciva a scrollarsi di dosso l’immagine che gli suscitava dentro: il

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mazzo di girasoli di Van Gogh, e per questo non riusciva ad acquietarsi. Era arrivato a sperare con tutto il cuore di andarsene presto. Lei avrebbe sofferto un po’, ma poi l’avrebbe dimenticato. Invece, ironia della sorte, le cose sembravano progredire proprio per il verso contrario e, quando al danno si aggiunge la beffa, lei aveva capito benissimo le sue intenzioni.

Con questi pensieri per la testa non si accorse che era da poco passato mezzogiorno e non aveva ancora messo nulla sotto i denti. Tanto più che in quella giornata sembrava non esserci nulla da fare, nemmeno il direttore si era ancora fatto vedere in giro.

Decise di fare un salto a casa per finire la scatola di pizze surgelate che gli era rimasta nel freezer – anche se era un attentato alla sua dignità ridursi a mangiare pizze surgelate in Italia – e perché doveva spedire un’e-mail dal computer portatile del suo appartamento.

Fu attento a non farsi vedere da Grazia mentre sgusciava via dalla redazione. In strada mise in moto la sua berlina e puntò in direzione di viale Loreto.

Arrivato sotto casa per prima cosa raccolse la posta che traboccava fuori dalla cassetta delle lettere. Quel giorno spuntava anche un telegramma: dalle fattezze riconobbe che era americano. Incuriosito gettò un occhio sul mittente, si rassicurò nel vedere che si trattava di una persona che conosceva bene. Ma la sorpresa più grossa venne aprendolo, una volta entrato in casa: a parte il messaggio scarno, conciso e oscuro, una grossa L blu acceso campeggiava sullo sfondo del telegramma, circondata da ghirigori d’argento. Il testo suonava strano e perentorio al tempo stesso:

“È urgente che ti rechi a Roma per un lavoro importante. Garantisco che si tratta di una faccenda davvero seria. L’indirizzo a cui ti devi presentare è: via dei Tigli, n°3. Entro Domenica al massimo. Assoluta segretezza. Fammi sapere se accetti. Frank”.

Benjamin era esterrefatto. Ma come poteva mollare tutto per correre subito a Roma? E il giornale? Chissà se, a questo, Frank aveva pensato. E perché avvisarlo di una faccenda così importante con un banalissimo telegramma?

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Si buttò sul letto a pensare con quale scusa avrebbe potuto svincolarsi dagli impegni di lavoro per recarsi a Roma. Mah, più ci pensava, più il progetto gli sembrava irrealizzabile. Ma cosa si era inventato Frank?! Certo che se aveva inviato d’urgenza un telegramma non c’era tempo da perdere e bisognava trovare al più presto una soluzione. Se almeno avesse dovuto occuparsi di un qualche fatto o personaggio di Roma! E invece niente. Tutta cronaca milanese.

Nel frattempo accese il televisore e infilò nel microonde la pizza surgelata, mise la tovaglietta americana sul tavolo rotondo in mezzo alla stanza e aggiunse tovagliolo, bicchiere, posate e Coca-Cola. Sintonizzò la tv sul canale dei documentari storici della BBC, il telegiornale l’avrebbe guardato dopo. Voleva rilassarsi un po’ con la sua materia preferita, la storia. Si rilassò a tal punto che, dopo mangiato, si distese sul divano sempre con l’intento di pensare alla faccenda del telegramma, e s’addormentò.

Squillò il telefono. Benjamin si svegliò di soprassalto, ricondotto alla realtà dal suono metallico del cordless che lampeggiava come un mini luna-park. S’accorse in quel momento che aveva fatto una gran bella dormita, perché l’orologio a muro segnava le 15.30.

“Pronto?” rispose Benjamin seccato che l’avessero disturbato nel bel mezzo della sua siesta.

“Sono Grazia, ciao”. Pausa. Poiché dall’altra parte Benjamin rimaneva in silenzio, lei si fece coraggio e proseguì. “Ti disturbo?” domandò fiduciosa.

“Stavo leggendo certi appunti…” rispose vago e circospetto, perché Grazia non l’aveva mai chiamato a casa prima d’allora.

“Sarò breve, allora. Devo farti una proposta”. “Che tipo di proposta?”. Benjamin temette che volesse

invitarlo a cena o da qualche parte. “Non c’è nulla di cui ti devi preoccupare” gli rispose

cercando di apparire convincente. “Si tratta di una proposta di lavoro”.

“Oh, caspita!”. Benjamin cominciò a respirare meglio. Grazia dall’altra parte della cornetta proseguì rincuorata:

“Senti, ti ricordi quando hai detto che volevi andartene da

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Milano?” e prese tempo, affinché la sua proposta risultasse più allettante: “Ti andrebbe di partire fra un paio d’ore alla volta della capitale?”.

“Aspetta, non ho capito bene: vuoi dire che ci sarebbe la possibilità di andare a Roma?”. Benjamin era esterrefatto. D’improvviso cominciò a sperare che si potesse realizzare il messaggio del telegramma. “E chi andrebbe a Roma?”.

“Io, naturalmente. Ti ricordo che stai parlando con l’addetta alla pagina di politica interna. A Roma sta entrando nel vivo l’indagine parlamentare a proposito degli onorevoli coinvolti nello scandalo delle Stelle Spezzate. Lo sai anche tu che da mesi non si discute d’altro. Potrei portarti con me, se vuoi. Conosci il detto, no: due teste pensano meglio di una”. Ecco, di nuovo Benjamin ricominciò a temere una possibile avance. Non lo convinceva del tutto la proposta di Grazia.

“Ho capito. Devi andare ad impratichirti con l’arte del cesello nel vasto campo della politica italiana, e ti serve la mia sottile perizia: tessera dopo tessera ricostruire il puzzle dello scandalo, prima che lo facciano i tuoi avversari, e possibilmente meglio.” scherzò Benjamin che si sentiva superiore a lei per l’esperienza fatta in patria nel reportage di famosi scandali. “E cosa dirà il caporedattore? In fin dei conti è ancora lui a dirigere il balletto dei movimenti di noi giornalisti”.

“Qui ti sbagli. Appena sei andato via ti ha cercato come un disperato l’ormai ex-caporedattore fresco di nomina a direttore della nuova testata L’Italia che cambia; voleva andarsene al più presto lasciandoti le consegne, peccato che tu fossi introvabile...”.

“Ma diavolo, se ne va già via?! Questa proprio non ci voleva!” esclamò seccato Benjamin, che dall'agitazione si mise a camminare avanti e indietro per l'appartamento. Teneva il cordless con una mano e il telegramma con l'altra; il nervosismo crescente gli metteva addosso un sudore freddo come raramente aveva provato. “Ma non può andarsene così, su due piedi”.

“Perché, cosa ti saresti aspettato? Che tutti ti salutassero con tanto di festicciola e aperitivi all'americana?”

“Non scherzare! E chi prenderà il suo posto allora? E poi

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come sarebbe a dire che vuole mollare il giornale a me? Scusa tanto, ma il nostro direttore si è per caso volatilizzato?”

“Come, ancora non lo sai?! Non guardi più i notiziari?! Ha lasciato il giornale! E’ di questo primo pomeriggio la notizia delle sue dimissioni. Ho in mano la lettera in cui tu vieni nominato capo-redattore dal Consiglio di Redazione, proprio come ti aspettavi.”

“Senti, lasciamo perdere la nomina, non so ancora se la voglio” le rispose spazientito. “Sta succedendo tutto così in fretta… Ma perché diavolo l’ha lasciata a te?” domandò incuriosito.

“Perché sono io la nuova direttrice del giornale!” esplose Grazia colma di gioia.

“COSA?!”. Appoggiò il telegramma fradicio per averlo troppo tenuto in mano sul solito tavolo che gli faceva da scrivania e da tavolo da pranzo insieme, e sprofondò sul divano a riprendere fiato. “E perché il direttore se ne sarebbe andato?”

“Benjamin, tutte le agenzie stampa alle dodici e trenta in punto hanno battuto la notizia che il nostro direttore è stato indagato per collusione con le Stelle Spezzate! Figurati il polverone che è venuto fuori!

È emerso che i carabinieri, con regolare mandato rilasciato dal GIP, all’alba gli sono piombati in casa per perquisire ogni singolo centimetro quadrato, trovando un bel mucchio di carte, documenti, relazioni dettagliate, nonché materiale informatico, che lo collegava alle Stelle Spezzate. A tutt’ora è in stato di fermo!

Così, dopo una bollentissima riunione del Consiglio di Redazione in cui ti abbiamo cercato disperatamente ma tu non rispondevi nemmeno sul cellulare, sono stata eletta io come direttrice, alla quasi unanimità. Temporaneamente, a dire il vero. Finché giungerà la nomina ufficiale decisa dal Consiglio degli azionisti del giornale. Già stanotte il Consiglio dovrebbe riunirsi, al massimo domattina. I capi al vertice devono ancora scrivere il comunicato stampa di commento a quanto è appena successo. Pensa, sarebbe troppo bello per essere vero…” Grazia lasciò correre la fantasia, mettendo per un attimo da parte il suo tono professionale “…potrebbero puntare sulle

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mie credenziali e confermarmi direttrice: quale onore! Dipende da quanto grosso diventerà lo scandalo e da quanto bene lo saprò gestire…”.

“E da quanto realmente avranno bisogno di te” pensò amaramente Benjamin.

Benjamin capì che Grazia, sotto l’apparente meticolosità con cui gli stava riferendo tutte quelle notizie allarmanti, anelava con tutte le sue forze all’ambíto avanzamento di carriera. Dal canto suo era sempre più sbigottito: cominciava davvero a pensare che gli italiani fossero tutti matti. Senza contare che non c’era da essere tanto allegri per la nomina come direttrice: poteva essere un’abile mossa per mettere Grazia definitivamente da parte, la prima volta che lei avesse fatto un passo falso.

Però finalmente le cose cominciavano ad assumere contorni più chiari e distinti: “Ecco perché non riuscivamo a metterci in contatto con il direttore stamani, e a casa sua e sul suo cellulare non rispondeva nessuno!” rifletté Benjamin pensieroso. “Ha tentato di nascondere lo scandalo fino all’ultimo! Uhm, dovevamo immaginarlo che c’era sotto qualcosa! Ed ecco perché questa mattina non si è tenuta la consueta riunione del Consiglio di Redazione, quella in cui si decide che linea tenere sulle principali notizie di pubblico dominio. Mi è parso strano. Ma, davvero, non potevo certo aspettarmi una simile causa!”.

Grazia continuò: “Inutile dire che dalle agenzie la notizia dell’arresto del direttore è rimbalzata nel bel mezzo della discussione in atto oggi alla Camera, poco dopo che il Ministro dell’Economia aveva appena iniziato a leggere il suo annuale resoconto finanziario. Ti lascio immaginare il malumore che ha iniziato a serpeggiare di sottobanco tra le fila dei deputati: il direttore del più grande quotidiano nazionale appartenente alle Stelle Spezzate, il gruppo che ha come obbiettivo principale la distruzione del sistema capitalistico europeo!”

Benjamin s’immaginò la scena. Tremò al pensiero che le Stelle Spezzate fossero in grado di arrivare a colpire così in alto, personaggi così influenti ed illustri come uomini politici di spicco ed intellettuali raffinati come il suo ex-direttore. La

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strategia la conosceva fin troppo bene, i giornali ne avevano scritto all’infinito, in televisione si erano sprecati i talk-show ed erano addirittura stati scritti molti saggi: tuttavia era ancora inspiegabile come le stelle spezzate potessero far breccia in persone altamente qualificate, che occupavano posti di enorme rilievo finanziario, politico e sociale con l’unico fine conclamato di destabilizzare l’economia nazionale. Da non crederci!

Intanto Grazia continuava come se nulla fosse: “E la bomba secondo me non è ancora esplosa del tutto. Per questo voglio andare a Roma a sondare di persona che aria tira”.

“Lo hanno saputo le agenzie prima di noi?” s’informò perplesso.

“Sì, è così. Ma non mi stupisco. Capita che siano le agenzie, ormai, a comunicare le notizie ai diretti interessati, anche quando sarebbe più logico che siano loro a saperle per primi. Ormai il potere delle agenzie stampa è enorme” commentò amareggiata Grazia. Riprese immediatamente: “Comunque, com’era naturale e prevedibile, alle due infuriava già la riunione di cui ti ho raccontato poco fa. Per fartela breve, e ti garantisco che chi non c'era si è perso una battaglia all'ultimo sangue, la maggioranza del Consiglio di Redazione ha votato te come caporedattore temporaneo, finché non sarà designato dall’assemblea degli azionisti quello nuovo. E guarda bene che potrebbero benissimo riconfermarti. Sarebbe la cosa più naturale del mondo. Quanto a me, invece, la scelta ha a che fare con questioni di immagine: è parso intelligente promuovere una figura giovane e non compromessa con la politica come nuovo direttore, per salvare i nostri lettori da pericolose migrazioni verso altre testate. Hai capito a cosa mi riferisco?”.

“Sì, è tutto fin troppo chiaro. Però è presto per cantare vittoria. Senti un po’, non mi sembra una mossa giusta allontanarti dalla redazione proprio ora che hai il doppio incarico; praticamente sei anche la direttrice: non vedo la necessità di catapultarti a Roma per inseguire chissà quale pista particolare che sveli per la prima volta i meccanismi segreti delle Stelle Spezzate”.

Grazia tergiversava. Capiva le argomentazioni di

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Benjamin, ma era sintonizzata su un’altra lunghezza d’onda, che le faceva sembrare assurdo che un direttore di giornale non si recasse là dove c’era la notizia. Benjamin proseguì nel suo tentativo di farla rinsavire:

“Ma perché diavolo non mandi qualcun altro? Vado io, se vuoi. E tu rimani tranquilla a Milano, seduta alla tua nuova, grande scrivania, a sorvegliare che quelli che oggi ti hanno votata, domani non ti si rivoltino contro e ti scippino il giornale…”.

“Non saprei…”. Grazia era veramente indecisa. “Ti fidi di me, vero? Mi era parso che noi due fossimo

sempre stati sinceri l’uno con l’altra”. “Eppure non ci vedo nulla di male ad assentarmi” insistette.

Mentre Benjamin ragionava in termini di convenienza o meno di un’azione, Grazia era impulsiva, prendeva di petto le questioni e ragionava in termini di giusto o sbagliato. Per lei era giusto recarsi a Roma per avere le informazioni che le servivano. Anche perché se la sua “talpa” non trovava lei, avrebbe spifferato a qualche altro giornalista le sue informazioni, creandole così un grave danno professionale. Perciò non mollò la presa: “Solo per stasera. Domani a mezzogiorno sarò già di ritorno, tanto al giornale il direttore arriva sempre intorno alle dieci: due ore in più non faranno poi una così grande differenza… porterò con me delle testimonianze così schiaccianti sull’operato delle Stelle Spezzate che potrò sventolare il vessillo della vittoria davanti agli allocchi del Consiglio di Amministrazione! E’ il mio momento Benjamin, e non voglio lasciarmelo scappare. So perfettamente i rischi che corro”. E poi in uno scatto d’orgoglio: “Diamine, posso tacere alla mia redazione dove passo la notte! Non trovi?”

“Se vuoi omettere che la passi con me, è tutto ok” sdrammatizzò Benjamin. Grazia in sottofondo mugugnava. Ma poi fattosi serio: “Ho paura per te. Se va storto qualcosa? Lascia che sia io a correre il rischio. Se poi il tuo agente segreto si rivela una fregatura? Finora nessuno ha mai conosciuto qualcosa sulle Stelle Spezzate più di quanto loro stesse abbiano deciso di far trapelare alle più grandi agenzie stampa del mondo. E tu pensi di riuscire a scalfirle?

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“Non io. Ma la mia fonte sì”. Benjamin rifletté un istante. Dopo quella sfibrante, lunga

discussione, concluse che senza dubbio gli conveniva accettare la proposta della sua nuova direttrice. Così si decise: “Ti auguro solo di non sbagliarti. Allora, quand’è che si parte? Naturalmente andiamo in incognito?” scherzò.

“Ah, ah”. Grazia scoppiò a ridere divertita: “Pensavo che potremmo partire in macchina: i nostri spostamenti passerebbero più inosservati. Ti aspetto a casa mia fra un paio d'ore, il tempo di mettere qualcosa in borsa e prenotare l'albergo”.

“A proposito” le domandò incerto Benjamin che, un po’ per prudenza, un po’ per opportunità, voleva mettere in chiaro la situazione fra loro due: “Non è che con la storia dell’indagare insieme daremmo ugualmente un po’ troppo nell’occhio? Immagino già le chiacchiere: il famoso giornalista Tolosa è stato visto aggirarsi per le strade di Roma in compagnia nientemeno che della sua nuova direttrice… chiunque potrebbe immaginare che fra di noi c’è del tenero. E io non voglio. Mi capisci?”. Meglio essere duri subito, pensò, piuttosto che raccogliere dopo i cocci di una storia partita male e finita ancor peggio. Ne sapeva abbastanza e non voleva commettere di nuovo gli errori fatti in precedenza.

Per Grazia fu come ricevere una stoccata in pieno viso. Ma seppe controllarsi. Rispose con tono distaccato:

“Che gli altri pensino quello che vogliono. La mia fonte d’informazione è attendibilissima e mi ha messo in guardia sulla gravità della situazione politica odierna. Cosa che, per altro, chiunque è in grado di capire da solo. Perciò non ho nulla in contrario al fatto che, in un momento così difficile, la direttrice ed il capo-redattore di un giornale si occupino di persona, recandosi sul posto, dell’evento gravissimo che oggi sta maggiormente a cuore agli abitanti del nostro paese. Non trovi anche tu? Ma naturalmente, se vuoi, puoi rimanere a Milano e sarò ben felice lo stesso”.

“Mah, sarà come dici tu. Non mi hai convinto del tutto, ma obbedisco. Dimmi l’indirizzo e sarò da te in un baleno”.

Grazia gli diede le coordinate per raggiungerla dove

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abitava, ma appena Benjamin capì che avrebbe impiegato un’ora solo per attraversare la città, ritrattò gli accordi appena presi:

“Stai troppo lontano: ho da sbrigare delle faccende prima di partire. Sarei da te con parecchio ritardo. Facciamo che fra poco ti avvii e vieni tu a prendermi” e le spiegò velocemente la strada. “Viaggeremo con la mia auto”.

“Sì, si può fare. Allora a dopo” concluse Grazia con piglio deciso. E riagganciò.

Dopo una telefonata così estenuante la mente di Benjamin era ancora più confusa. Già il telegramma lo aveva spiazzato, ma ora proprio non si capacitava di come fosse potuto succedere che in un solo pomeriggio il suo capo si fosse dimesso, e che lui e Grazia fossero stati prescelti per guidare il giornale.

Gli pareva di trovarsi su un'enorme scacchiera, in cui tutti gli avvenimenti si mettevano in moto per farlo andare a Roma, proprio come diceva il telegramma. Evidentemente era destino che lui dovesse andare a Roma. In più, un certo gusto dell'avventura non gli dispiaceva; anzi, chissà che non ci venisse fuori anche un bello scoop.

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III Non è prassi consolidata che un nuovo direttore di

giornale, fresco di nomina, abbandoni il suo ufficio per recarsi nel bel mezzo del ciclone – metaforicamente parlando.

Grazia se ne rendeva perfettamente conto e si aspettava che la riunione degli azionisti di maggioranza del giornale si occupasse del problema della direzione della testata con tutta la serietà e la lungimiranza possibili. Se la poltrona della dirigenza del giornale, infatti, non poteva dirsi vacante, perché di fatto c’era lei a reggere una sorta di continuità con il passato “pulito” del giornale, rimaneva però la difficoltà di come colmare un posto di enorme responsabilità con una figura che godesse della stima di tutti. A lei pareva di possedere le doti che occorrevano per guidare un giornale: equilibrio psico-attitudinale, ottima preparazione culturale, intuito e tempistica perfetti, capacità di mediazione tra i giornalisti della redazione, conoscenza dei processi di stampa. Chissà se anche gli azionisti l’avrebbero pensata allo stesso modo.

Ritta in piedi davanti all’armadio aperto, in accappatoio, con i capelli ancora umidi profumati del suo bagnoschiuma preferito, stava preparando la borsa da viaggio. Accatastava ordinatamente tutto il vestiario sul letto, insieme a qualsiasi altro oggetto di cui avesse avuto bisogno. Il pensiero corse inevitabilmente al suo informatore segreto, c’era solo da sperare che veramente avesse delle notizie importanti da riferirle, altrimenti avrebbe avuto ragione Benjamin: che, cioè, stava commettendo l’errore più grosso della sua vita.

Però su una cosa Benjamin aveva ragione: l’ex-direttore, cadendo in disgrazia, aveva trascinato con sé una mezza dozzina delle firme più illustri del giornale, tutti suoi strettissimi collaboratori e tutti – a quanto pareva – invischiati più o meno nello scandalo. Pertanto l’occhio vigile di Grazia le diceva di stare attenta: aveva la netta sensazione di essere stata scelta dal Consiglio di redazione solo perché la rosa di papabili candidature era davvero esigua. Che questo suo exploit trascorresse veloce come una meteora?

Si paralizzò di fronte ad un simile pensiero. Fece uno

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sforzo notevole per scrollarselo di dosso. No. C’era anche Benjamin dalla sua parte. Anche se di fatto non era stato presente alla votazione, lui contava parecchio nella redazione e l’avrebbe sicuramente difesa: avrebbe alzato la voce contro quelli del Consiglio se ce ne fosse stato bisogno. Sì, avrebbe dimostrato all’intera redazione ed al Consiglio di Amministrazione il suo valore e la sua reale capacità di dirigenza.

Decise di dare una vigorosa spallata a quei tristi pensieri, e per distrarsi cominciò a ripercorrere gli eventi salienti della giornata trascorsa, sforzandosi di far compiere alla sua mente un passo a ritroso. Si concentrò sulle vicende accadute in Parlamento, ripensando alle immagini viste in Internet quel primo pomeriggio: un drappello di risoluti parlamentari aveva cercato di boicottare la relazione che il Ministro delle Politiche Economiche Comunitarie1 stava tentando di esporre a gran voce.

Già dall’inizio della relazione, infatti, si erano levati alti mormorii di disapprovazione per il modo in cui il Ministro aveva condotto la bollentissima indagine dal titolo: “Politiche europee per il sostegno e lo sviluppo economico dell’Italia”. E poi come recitava il sottotitolo: “ Quali vantaggi offre il nuovo assetto politico-culturale europeo in relazione allo stato di recessione economica in Italia. Gli scenari possibili per la difesa dello Stato dalle Stelle Spezzate”.

La relazione avrebbe dovuto spiegare due fatti inammissibili: come era potuto accadere che esponenti politici di rilievo (sia del governo che dell’opposizione) appartenessero al più spaventoso gruppo eversivo degli ultimi decenni, le Stelle Spezzate, e come mai in Parlamento nessuno si fosse accorto di niente. Di che razza di copertura godevano?

Che in questo nuovo, spietato gruppo terroristico vi

1 Dalla seconda metà del XXI secolo il Ministro delle Finanze è stato sostituito da quello delle Politiche Economiche Comunitarie [n.d.r.]; la libertà di scelta del ministro in materia di provvedimenti fiscali da adottare nel nostro paese si è andata sempre più assottigliando, fino a ridursi a qualcosa di puramente rappresentativo. Tutte le decisioni importanti vengono prese a Bruxelles, e il ministro è stato ridotto ad un mero esecutore.

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entrassero personaggi illustri dell’alta finanza italiana, questo era emerso fin dall’inizio dell’inchiesta, iniziata un anno prima. Ma che a questi si aggiungessero anche uomini politici, tutto ciò suonava come un fatto di una gravità inaudita! In breve tempo questo nuovo nucleo terroristico stava richiamando sempre più l’attenzione dei media dell’Unione Europea.

Gli infidi deputati in questione, quelli che avevano venduto l’anima alle Stelle Spezzate, erano stati messi sotto processo con l’accusa di aver ordito manovre occulte per rallentare ed indebolire l’economia italiana, già di per sé sufficientemente indietro rispetto ai parametri che le erano stati imposti da Bruxelles. L’infrazione dei parametri era considerata dalla Commissione Europea come materia grave. Per questo si prevedevano imminenti e pesanti tagli dei fondi europei destinati all’Italia, che avrebbero gettato il Paese ancora di più sull’orlo del baratro; come se ad un moribondo che ha freddo ed è già senza coperta, volessero togliere anche il vestito per farlo morire più in fretta.

Oltre alla relazione del Ministro, il Governo aveva disposto un’ulteriore indagine, parallela alla prima, che avrebbe dovuto essere letta e discussa in Parlamento entro brevissimo tempo, per fornire ai partiti coinvolti la possibilità di prendere atto della situazione generale e “far pulizia” al loro interno dell’insensato operato dei loro membri. La notizia dell’indagine dell’apposita Commissione Parlamentare (soprannominata prontamente dai giornali “la vendicatrice spietata”) era caduta nell’aula di Montecitorio come la ciliegina sulla torta: tutti gli onorevoli aspettavano i risultati soltanto per vendicarsi gli uni degli altri.

Ma cos’era accaduto per arrivare fino a questo punto? Da dove traeva origine la difficile congiuntura economica in cui versava l’Italia? Da dove erano spuntate fuori queste Stelle Spezzate?

Grazia immaginò di dover scrivere un articolo di fondo (il suo primo articolo di fondo!) in cui porre tali domande e fornire le sue risposte.

Un anno prima era entrata in vigore la Nuova Costituzione Europea (per l’esattezza “Nuova e Riveduta Costituzione

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Europea a ragione dell’allargamento a 27 degli Stati Membri”), che in realtà era una semplice ritrascrizione di tutti gli articoli con l’aggiunta di quelli che riguardavano la Turchia come nuovo stato membro, e di poche altre cose marginali.

In quel periodo in Italia era scoppiato il caso di alcuni manager influenti che si erano dimostrati legati al nuovo movimento culturale elitario delle Stelle Spezzate, una specie di derivazione dell’antico movimento “no global” del secolo precedente. A mano a mano che quest’ultimo andava scomparendo (e ormai si poteva ben dire che non rappresentasse altro che un’ombra del passato) prendeva vigore questo nuovo, sconosciuto gruppo nato da una costola sua.

Le Stelle Spezzate non si consideravano né un gruppo terroristico, né un’associazione eversiva, né un partito; ma una nuova realtà di tipo politico-culturale-sociologico. Alcuni commentatori avevano azzardato delle analogie con la Massoneria. Alcune sue priorità le aveva rese note il gruppo stesso in un laconico comunicato stampa fatto pervenire nello stesso giorno, alla stessa ora, alle redazioni dei principali giornali europei. Così si sapeva che, oltre ad esistere, questa nuova “associazione” perseguiva il fine di pugnalare l’Unione Europea assestando colpi mortali al suo sviluppo economico: un odio motivato dal desiderio di mettersi al servizio dell’ascesa di altre economie mondiali, specialmente di quelle dei paesi africani e, più in generale, del cosiddetto 4° e 5° mondo. Una “motivazione giustizialista” l’avevano definita subito gli analisti più esperti.

La cosa più sorprendente di tutte era che le Stelle Spezzate consistevano in un raggruppamento massimamente eterogeneo di persone, riunitosi segretamente da tutta l’Unione Europea con l’unico intento di farla crollare, e i cui aderenti si contavano tra le fasce più alte – per censo – della popolazione. Su di loro si era messa ben presto ad indagare la Polizia Finanziaria Europea, dal momento che i reati erano tutti inerenti l’ambito dell’economia: speculazioni finanziarie, frodi, scalate rocambolesche che si trasformavano in precipitose frane di capitali, falsi in bilancio, corruzione,

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aggiotaggio e via dicendo. E tutto ciò aveva cominciato ad accadere in ogni stato dell’Unione Europea.

Era come se nel corpo del sistema economico si fosse intrufolato un virus mortale, che non mirava solo ad annientare l’intero organismo finanziario dei paesi più ricchi, ma voleva la resa totale dei paesi stessi. E non ci si capacitava di come potesse essere accaduto che un cancro simile potesse essersi diffuso così capillarmente, fino ad aggredire l’intero sistema, senza che nessuno si fosse accorto di nulla, se non ormai troppo tardi.

Si trattava di reati motivati non dall’intento di corrompere o dalla voglia di arricchirsi – come riferivano le brevi rivendicazioni delle Stelle Spezzate – ma da un’idea diabolica non ancora completatasi e nemmeno ben definita agli occhi dei competenti organi di ricerca europei: qualcosa che doveva avere a che fare con l’anarchia.

Infatti si era scoperto (tramite la pubblicazione del manuale d’ingresso nel movimento, dopo che un “pentito” l’aveva diffuso) che gli aderenti tramavano per la caduta dei governi nazionali con ogni mezzo (delegittimazione, sabotaggio… fin anche l’uso della forza), così da rendere instabile l’esistenza stessa dell’Unione Europea. Se all’interno dei suoi stati, infatti, avesse regnato l’anarchia, come avrebbe potuto resistere nel tempo un’ Unione di Stati sovrani?

Così gli esponenti delle Stelle Spezzate erano ben presto stati indagati per il reato di eversione “virtualmente armata” (un velocissimo decreto-legge aveva tamponato l’assenza normativa a riguardo) – e da notare che il processo aveva cambiato ben tre procure in dieci mesi perché ogni volta emergeva che qualcosa o qualcuno in quelle procure avrebbe potuto inficiare il procedimento giudiziario.

A questo si era aggiunto che la concorrenza del dollaro, dello yen e della Ren Min Bi2 aveva drasticamente limitato il potere d’acquisto dell’euro, e i cittadini italiani come quelli di tutta Europa erano davvero malcontenti, per non dire furibondi, con i loro governi e con Bruxelles, perché nessuno di loro si risolveva a prendere misure protezionistiche a

2 Moneta cinese (ovvero: Moneta del popolo).

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salvaguardia degli interessi europei, fermando l’ascesa inarrestabile dei prezzi. Anzi, pareva che le frenetiche riunioni dei ministri dell’economia non portassero alcun frutto, ma mostrassero un’Europa impelagata negli interessi delle singole nazioni, in quelli delle potentissime lobby e dunque dilaniata da spinte centrifughe autodistruttive.

“Eh sì” rimuginava Grazia tra sé “l’Europa, nata da un secolo appena, rischia già di morire: proprio l’economia che tanto ha contribuito a costruire l’Unione Europea ora sembra rivoltarlesi contro e spaccarla a colpi di inflazione, perdita del potere di acquisto dei salari, disoccupazione, smantellamento del welfare”.

Pensieri di questo genere le frullavano per la testa e la impensierivano non poco. Occorreva solo che li scrivesse nel suo editoriale.

“Stiamo andando incontro ad una crisi epocale come quella del 1929 per gli Stati Uniti” disse a sé stessa malinconicamente ad alta voce. Lo spettro di quel passato lontano aleggiava nell’aria.

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IV

L’orologio appeso alla parete segnava le 13.45. Giulia scoccò una rapida occhiata in quella direzione prima di calcolare quanto tempo le restava per la pausa pranzo. Si trovava all’interno del centro commerciale ubicato a poca distanza dal luogo dove lavorava, stava contemplando con occhi sognanti gli articoli della lista di nozze che – a detta del biglietto promozionale – era la più strepitosa offerta di quel genere da che gli uomini avevano contratto la solenne usanza di sposarsi.

Sfiorandoli con le dita della mano, accarezzava delicatamente i piatti di porcellana dipinti a mano, così recitava il cartellino a fianco, e seguiva con lo sguardo le linee arzigogolate del disegno in stile impero. Parevano perfetti per un sontuoso banchetto imbandito al Palazzo d’Inverno dello zar di Russia e, perché no, pensò Giulia, anche per la nuova fiammante credenza che attendeva lei e Roberto al terzo piano di un elegante caseggiato a schiera nuovo di zecca. Le sue dita lunghe sfiorarono i calici di cristallo: vide riflesse le unghie laccate di rosa confetto. Era appena uscita dalla beauty-farm all’interno del centro commerciale e si compiaceva dello splendido risultato ottenuto. Chissà cosa avrebbe detto Roberto che l’aspettava per i panini ed il caffè al loro solito bar; si chiese se gli sarebbe piaciuta.

Uscì dal negozio di articoli da cucina e attraversò il lungo corridoio del centro commerciale, lasciandosi scivolare alle spalle come vestiti smessi le vetrine dei negozi. Si diresse verso il loro solito bar in fondo al piano, accanto alla libreria. Lui era già là che l’aspettava, seduto comodamente ad un tavolino: con una mano sfogliava il giornale, l’altra la teneva affondata nella tasca della pesante giacca a vento blu scuro; una grossa sciarpa rossa che pareva fatta a mano gli penzolava dal collo.

Giulia nel salutarlo affettuosamente gli sfiorò la guancia con un bacio; lui premurosamente si alzò per prendere i pacchi che lei teneva in mano e sistemarli accanto al tavolino.

“Hai svaligiato qualche negozio per portarti dietro tutta questa roba?” le chiese lui sorridendo. Quando Roberto

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sorrideva tutto il viso gli si illuminava lasciando trasparire un animo dolce e sensibile, una delle prime caratteristiche di cui Giulia si era innamorata.

“No, sono solo alcune cose di cucina che mi mancavano. Anzi, che ci mancavano, dovrei dire ora – e lo scrutò dall’alto con gli occhi che le brillavano e un sorriso malizioso. “Hai visto che brava donna di casa hai? Mi sono procurata alcune casseruole e padelle per prepararti deliziosi pranzetti!” gli disse lei con un tono di voce gioviale.

“Non ho bisogno di prove. Ho già gustato alcuni dei tuoi più succulenti manicaretti e ne sono stato molto soddisfatto. Dì un po’, invece, vuoi assomigliare ad una delle attrici di Hollywood che sei diventata tutta bionda?” le chiese scherzando.

“Lo so, non ti piaccio, vero?” fu la sua risposta. Al che corrugò la fronte, mentre insinuava una punta di dubbio nella voce.

“Uhm… quasi quasi non vengo più a vivere con te: non ti riconosco più!” la provocò lui.

“Oh, non ti preoccupare, ho già deciso. Non verrò più a farmi i capelli qui” sentenziò Giulia “ho visto come lavorano e non mi piace: mi hanno resa troppo appariscente; guarda il trucco: sembro pronta per una cerimonia! E poi è troppo caro”. Concluse il suo ragionamento sapendo di esagerare un poco, perché in verità le era piaciuto come l’avevano truccata. Ma quella del trucco era una questione che non le interessava più di tanto, perché quello che le premeva di più era di accondiscendere alle opinioni del suo ragazzo.

“Bene, così non ascolterai più i consigli delle tue amiche”. “Ma Luciana si era trovata così bene qui…” pigolò Giulia

in tono sconsolato “E poi ficcano troppo il naso negli affari dei clienti: la ragazza che lavorava alla mia acconciatura ha voluto sapere tutto di noi: sul fatto che andiamo a vivere insieme, perché anche lei ci starebbe pensando col suo ragazzo…”

“E tu cosa le hai raccontato?” Roberto cominciò ad incuriosirsi.

“Beh, che noi non vediamo l’ora! Le ho detto: sai, l’emozione di avere una casa tutta per noi, con i nostri mobili!

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Le ho raccontato che è stata dura traslocare lì tutta la nostra roba, dell’opposizione dei miei, della solita trafila di quando due vanno a vivere insieme: spine da aggiustare, lampadari da appendere, forniture di servizi da allacciare e così via”.

Mentre i due conversavano il barista si avvicinò al loro tavolo per appuntarsi su di un bloc-notes le ordinazioni. Giulia lo salutò allegramente e gli disse che quel giorno aveva voglia di un toast integrale e di un succo all’ananas. Roberto invece ordinò il solito cheesburger e coca-cola.

Appena il barista voltò le spalle per tornare dietro al bancone, Giulia notò che Roberto aveva assunto un’aria assorta e vagamente meditativa. “A cosa stai pensando?” gli chiese.

“Voi donne avete l’incredibile capacità di parlare con chiunque delle vostre cose private” dichiarò lui, a cui evidentemente non era piaciuto che Giulia avesse spiattellato alla prima ragazza conosciuta la loro decisione di andare a vivere insieme.

“È solo perché tu sei più riservato di me” si difese lei. “Mah, sarà. Comunque fra i miei amici l’ho detto solo a

Remo e a Giorgio. E poi naturalmente a Claudio”. “E sul lavoro?”. Giulia cercò di mascherare il suo

irrigidimento accavallando le gambe. “Hai paura di fare brutta figura con tutti i tuoi colleghi sposati?” lo arringò. A lei pareva che in certi momenti lui si comportasse da vigliacco. “Che c’è di strano? In fondo è sempre una scelta degna di rispetto: si tratta di noi due che, dopo un anno che ci frequentiamo, abbiamo convenuto di affittare l’appartamento dei nostri sogni per andare ad abitarci. Se i tuoi cosiddetti amici ti conoscessero davvero, dovrebbero stimarti e non dire alcunché”.

“Devi sempre dare spiegazioni e fare ragionamenti tu, vero?” Roberto cominciava a spazientirsi “è solo che dei fatti miei parlo con chi voglio io”.

“Ehi, guarda che da domenica diventano fatti nostri”. “Sì, e continuerò a parlarne con chi voglio io. Tu fa’ come

ti pare” esclamò seccato lui, e si sistemò meglio sulla sedia, come a ribadire il concetto.

“Da me all’ospedale lo sanno già e non hanno fatto una

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piega”. “Evidentemente l’ospedale è più evoluto di un semplice

ufficio” bofonchiò Roberto decisamente irritato. Si alzò per andare a pagare entrambe le consumazioni, anche se era in anticipo perché il barista non le aveva ancora portate.

A questo punto Giulia si rassegnò al vedere che la loro querelle non accennava a sbloccarsi; e poi non voleva infastidirlo troppo.

“Bèh, a me basta che sia sicuro tu di quello che vuoi fare. Il resto non mi interessa” gli rispose in tono conciliante quando lui tornò al tavolo. “Gli altri possono dire quello che vogliono. Noi ci amiamo e questo mi basta”. Poi lo guardò negli occhi sorridendogli, gli prese le mani e gli sussurrò: “Sono sicura che domenica daremo inizio ad una storia bellissima di cui non ci pentiremo mai! Io ti amo e voglio stare con te, Roberto”.

“Sì, da domenica abiteremo sotto lo stesso tetto. È quello che voglio anch’io” la rassicurò lui.

“Bene, sono felice di vedere che la pensi così anche tu”. Giulia era decisamente più serena. Diede una veloce occhiata all’orologio e s’accorse che era quasi giunta l’ora del suo turno in ospedale. Inghiottì velocemente il toast ed ingollò il succo. “Il caffè lo prenderò durante la pausa all’ospedale!” spiegò a Roberto che la stava osservando mangiare tutta trafelata.

“Non fare un’indigestione! Vabbé che quella roba dovrebbe andare giù subito… non è pesante” commentò lui.

“Adesso devo correre in corsia altrimenti mi troverò una nota di ritardo da parte della caposala. Ci vediamo stasera” si chinò per dargli un altro bacio, riprese i sacchetti e si allontanò soddisfatta del loro appuntamento.

Roberto era rimasto seduto da solo al tavolino. Era

trascorso un altro quarto d’ora in cui aveva finito di leggere il giornale e aveva ordinato un caffè fatto come si deve, non come quello che avrebbe bevuto Giulia al distributore dell’ospedale. Ora di fronte gli rimanevano i resti del caffè che aveva sorseggiato con calma e della lattina di coca-cola ormai prosciugata. Il barista aveva già fatto piazza pulita del

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bicchiere e del piatto di Giulia. Roberto contemplò la tazzina e il bicchiere vuoti, e percepì

dentro di sé la sensazione di qualcosa che finisce. Una fitta acuta gli attraversò lo stomaco. Non era mai stato bravo nel chiudere i capitoli della sua vita, e ora che si trattava di abbandonare la condizione di single per abbracciare quella di convivente di Giulia non si sentiva ancora del tutto pronto; per fortuna lei non si era accorta delle sue titubanze, doveva essere follemente innamorata, pensò Roberto. Eppure le insistenze di Giulia anziché chiarirgli le idee ed entusiasmarlo verso il “grande passo”, aumentavano in lui resistenze, dubbi, confusione ed imbarazzo.

Non aveva genitori da lasciare per andare a vivere con Giulia, perché li aveva già lasciati cinque anni prima per spostarsi dall’Abruzzo a Roma in cerca di lavoro. L’unica cosa da lasciare era il suo mini-appartamento, di cui per altro stava scadendo il contratto d’affitto e per il quale non era previsto un ulteriore rinnovo. Era stato questo, infatti, il trampolino di lancio per maturare la loro decisione.

Nell’anno che aveva trascorso insieme a Giulia, Roberto aveva imparato che lei era una donna che dei ragionamenti faceva il suo punto di forza e affermava le sue convinzioni con sicurezza granitica. L’idea di andare a vivere insieme le si era affacciata quasi per caso nella mente; ma subito dopo, trovandola perfetta per le loro esigenze, le si era installata nella testa fino a non uscirne più.

Giulia possedeva inequivocabilmente l’idolo della perfezione: non poteva permettersi di sbagliare; anzi, non esisteva nemmeno la possibilità di fare qualcosa che le desse la sensazione di perdere tempo o soldi. Le veniva da morire all’idea che non tutto quadrasse esattamente come diceva lei.

Lo stesso valeva per il loro nuovo appartamento: Giulia non vedeva l’utilità di continuare a vivere separati, trascorrendo il tempo un po’ da uno, un po’ dall’altro, sperperando denaro per tenere in piedi due case quando, con la precaria congiuntura economica che stava attraversando l’Italia, conveniva sicuramente riunire le forze e abitare sotto lo stesso tetto. Quante più cose si sarebbero potuti concedere con i soldi risparmiati! Eh sì, perché Giulia oltre che

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perfezionista era anche ambiziosa. Roberto, dal canto suo, era l’opposto di Giulia: timido,

impacciato, insicuro. Mentre lei aveva la fortuna di avere un lavoro di cui andava fiera, lui si era dovuto adattare ad un impiego che non lo gratificava minimamente: il rivenditore di computer. Aveva imparato a metterci serietà e professionalità, ma non sprizzava scintille come Giulia. Non che non avesse doti personali: possedeva un vero e proprio talento per la programmazione informatica; ma il proprietario del negozio non era interessato a permettergli di perfezionare le sue conoscenze e abilità. Così l’unica cosa su cui Roberto poteva contare era arrangiarsi a casa, da solo, di notte, davanti al suo computer, scambiando informazioni con cervelloni informatici conosciuti nelle chat, o scaricandosi corsi e programmi pre-pagati da Internet. Il suo lato pratico gli diceva che doveva arrangiarsi alla meglio. Idem per la casa: a conti fatti – contratto d’affitto scaduto, niente proroga, magro stipendio, prezzi delle case schizzati alle stelle, e in sottofondo a tutto ciò, uno Stato inesistente nel tutelare i cittadini più deboli, anzi, sempre più in balia degli scandali, dei potentati e delle lobby economiche – tanto valeva veramente unire le forze. Già alcuni suoi amici vivevano insieme per dividersi le spese dell’affitto o del mutuo di una casa, se volevano far avanzare i soldi per fare la spesa, pagare gli altri mutui dell’auto e dei mobili, le bollette, potersi permettere un viaggetto all’anno e quant’altro era nella lista personale dei desideri di ciascuno. Era un modo per sentirsi meno soli in un mondo che faceva sempre più paura, nel quale lo spettro della povertà galoppava a passi da gigante e bisognava mascherare l’ansia per il futuro.

Roberto continuava a contemplare sconsolato le sue consumazioni, in quel venerdì di metà Marzo, in mezzo all’andirivieni di gente sconosciuta e al chiacchiericcio assordante. Non aveva fretta, solo continuava a martellargli in testa l’idea che non poteva più tirarsi indietro con Giulia. E finalmente capì: s’accorse che aveva paura. Non tanto che andasse storto uno degli innumerevoli preparativi in cui si trovavano affaccendati da due mesi a questa parte. Né delle spese da dividere, delle rispettive abitudini da conciliare, del loro tempo libero da gestire, degli amici da integrare nella loro

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nuova vita. No. Si trattava piuttosto di un senso di paura in generale: paura di non essere all’altezza delle aspettative di Giulia. Paura di essere fagocitato nel vortice impetuoso dei suoi discorsi, dei suoi impegni. In ultima analisi: paura che qualcosa andasse storto fra loro due, per colpa sua. Di Roberto. Da qualche parte dentro di lui, una vocina gli diceva: “Stai attento a quello che stai per fare!”.

Si alzò sentendosi appesantito, anche se aveva mangiato solo il cheesburger più un frutto che si era portato da casa, e si diresse stancamente verso il suo posto di lavoro. Ad ogni passo la sua mente trovava da fantasticare su un’infinità di cose: su tutte quelle di cui al momento non disponeva, ma che avrebbe ardentemente voluto possedere. In certi casi la cura migliore – sapeva – era pensare completamente ad altro. Qualsiasi cosa, pur di non dover continuamente tornare col pensiero a ciò che, lasciandogli spazio, avrebbe occupato da solo tutta la testa.

L’aria che si respirava fuori dal centro commerciale era mite e tiepida, come se il clima volesse far assaporare con congruo anticipo il caldo tepore dei giorni più estivi. Malgrado ciò, il cielo non risplendeva dell’azzurro intenso tipico delle più belle giornate d’estate. Quel primo pomeriggio, infatti, l’orizzonte era d’un grigio plumbeo, tendente al cielo sbiadito di montagna quando sta per giungere un acquazzone. Qualche folata di vento freddo s’infilava, quasi per scherno, nel bel mezzo di quella giornata che avrebbe potuto essere calda e primaverile.

Roberto si strinse nella sua giacca a vento, levando gli occhi, ogni tanto, verso il manto cinereo del cielo. Un colpo di vento lo colse di sorpresa e gli scompigliò malamente la sciarpa.

Si avviò sempre lentamente, con l’aspetto sconsolato, verso la grandiosa via Nomentana3. Il suo tragitto era più o meno sempre lo stesso: doveva raggiungere, con le dovute scorciatoie, la zona dell’Esquilino, a ridosso della stazione ferroviaria di Roma Termini. Da lì infilava il lunghissimo viale Pretoriano, lungo il quale sarebbe sbucato nel “Viale 3 Nel frattempo a Roma hanno fatto grandiose opere pubbliche, di cui la ristrutturazione del Colosseo è la più celebre.

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delle Scienze”, proprio nel cuore della Cittadella Universitaria. Metà degli affari del suo negozio, infatti, proveniva dagli studenti dell’Università. Gli piaceva lavorare potendo contare, come clienti, sulle giovani promesse degli studi umanistici e scientifici; non c’era da annoiarsi. Ma non voleva neppure stare lì dentro in eterno.

Mentre si aggirava per il quartiere del Castro Pretorio (in direzione del Tiburtino), e rimirava le splendide vestigia del passato aureo di Roma disseminate ovunque gli capitava di posare lo sguardo, coltivava nel suo cuore la speranza segreta che, un giorno, avrebbe avuto anche lui un suo Mecenate che l’avrebbe sollevato dalla squallida routine della vita di negoziante.

D’un tratto si ricordò che quella mattina era giunto in negozio un telegramma per lui. Il fatto era alquanto strano, pensò. Ma non vi aveva dato peso: immaginò che si trattasse di una qualche comunicazione dei suoi padroni di casa che avevano mandato il telegramma al negozio, anziché al solito indirizzo. Non aveva fatto in tempo ad aprirlo subito, e poi se n’era dimenticato. Ma adesso gli venne in mente che poteva essere di Claudio, il suo più caro amico d’infanzia. Era il solo, infatti, a possedere l’indirizzo del negozio. Roberto si rammentò di aver accennato al suo amico che di lì a poco avrebbe cambiato appartamento. “Senza dubbio” disse tra se “mi ha mandato una comunicazione urgente in negozio perché ha paura che, nel caso io mi fossi già trasferito, il telegramma potesse andare perso. Ma perché non mi ha telefonato, allora?” rimuginava perplesso. “Non poteva domandarmi a voce il nuovo indirizzo?”.

Fece qualche altro passo, frugando nelle tasche della giacca a vento alla ricerca del telegramma. Strappò la busta e la aprì. Quel che lesse lo lasciò a bocca aperta. Si fermò nel bel mezzo del marciapiede, bloccando una comitiva di turisti dell’est Europa, a giudicare dall’accento delle loro imprecazioni, che procedeva ordinatamente in fila indiana dietro di lui.

Non aveva mai ricevuto un telegramma simile: “Devi recarti in Viale dei Tigli, n. 3. Qui a Roma. Massimo

entro domenica. È una questione della massima importanza. Segretezza assoluta, però. È in ballo una faccenda molto

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grossa. Fidati. Ciao, Claudio. Fammi sapere nel caso tu non andassi.

P.S. Se mi cerchi sono a Mosca per questo week-end. Il mio cellulare ce l’hai, anche se a volte non rispondo perché sono tempestato di telefonate. Comunque vada, Auguri!”

Roberto era talmente sconcertato che si sedette a riflettere su una panchina lì accanto, una di quelle panche di pietra lisce e dure disseminate lungo i marciapiedi romani. Un sacco di domande facevano a pugni nella sua testa per avere subito risposta: “Cosa voleva dire Claudio con questo telegramma incomprensibile? Perché non essere più chiari? Di che faccenda si trattava?”

E poi su una cosa Claudio era stato limpidissimo: se Roberto avesse provato a cercarlo, lui non si sarebbe fatto trovare. Ma non aveva senso! Lui e Claudio erano come fratelli: si erano sempre detti tutto. Roberto decise che se qualcosa era in ballo, e Claudio voleva metterlo al corrente seppure in quella maniera tanto astrusa, doveva essere certamente qualcosa per cui il gioco valeva davvero la candela. Roberto si fidava ciecamente del suo amico carissimo. “È inutile pensarci su più di tanto” concluse tra sé, “se Claudio sa qualcosa, è sicuramente qualcosa di bello, che forse può giovarmi. Vedremo di che si tratta”.

Si alzò dalla panchina nel mentre arrivava l’autobus. Una vecchietta credette che lui salisse, ma Roberto gli fece cenno con la testa che non ne aveva l’intenzione. Si accomodò la sciarpa che una bizzarra folata di vento gli aveva nuovamente scompigliata, e si avviò spedito verso il negozio. Il telegramma gli aveva riacceso la speranza di poter cambiare lavoro. Si avviò leggero come una piuma trasportata veloce dal vento.

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V

Edoardo scese trafelato dal taxi. Si era stupito di essere riuscito nell’ardua impresa di

attraversare senza intoppi il raccordo anulare e di aver trovato tutti i semafori verdi sulla circonvallazione. Tutto ciò aveva contribuito a risollevargli da terra il morale.

Saldato il conto con l’autista cacciò le chiavi nel cancelletto di casa con trepidazione. La camicia che indossava era tutta sudata per l’agitazione e la cravatta era diventata un pezzo di stoffa sgualcita che gli pendeva dal collo.

Mentre girava la chiave nella serratura gli capitò di posare l’occhio sull’auto scura che era parcheggiata qualche metro più indietro sullo stesso lato del marciapiede. Si irrigidì tutto d’un colpo; quasi gli mancò il respiro al vedere la targa dell’auto. Poche lettere erano bastate a metterlo in agitazione, un semplicissimo trigramma come SCV perché d’improvviso sentisse quanto lui fosse fragile ed impotente. Non poteva credere ai suoi occhi.

Aprì la porta di casa e in un attimo fu nello studio della moglie. Laura stava dipingendo una natura morta. Appena lo vide entrare posò i pennelli e si alzò per andargli incontro.

“Li hai visti? Sono lì fuori” gli domandò prendendogli dalla mano la borsa con i libri di scuola ed il registro.

“Si, sì, li ho visti” rispose pensieroso. E si diresse in cucina, dove la finestra dava sulla strada, a sbirciare da dietro le tende.

“C’è qualcosa che non va?” lo rincorse Laura, accortasi della faccia del marito.

Edoardo aveva assunto un’espressione strana. “A cosa stai pensando?” gli chiese visibilmente preoccupata.

“Uhm, sto valutando una cosa…” di rimando lui, con l’aria assorta.

“Guarda che ho fatto come hai detto tu. Ho tenuto i poliziotti fuori di casa. Loro sono stati molto gentili e hanno detto che avrebbero aspettato il tuo rientro per parlarti”. Laura stava sforzandosi di interpretare l’atteggiamento scontroso di suo marito, che da quando era entrato in casa era diventato

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irriconoscibile. “Ma cosa ti sta succedendo, Edoardo? Cosa c’è da valutare?”

“No, niente. È che non dovremmo farli entrare. Perché non mi hanno convocato direttamente in Questura se avevano qualcosa da chiedermi, anziché venire loro qui? Non vedo il motivo di tale disturbo: che dei poliziotti si accollino l’onere di andare di persona a casa di un onesto cittadino per porgergli delle domande. Non ha senso! Qualsiasi cosa sia, non trovi che sia un po’ strano?” si girò verso la moglie che stava seguendo attentamente ogni virgola del suo discorso. “Tanto più che senza mandato di perquisizione non possono entrare!”.

“Ma cosa stai dicendo? Non ti capisco più! Perché non farli entrare? Vuoi intralciare il corso di una ricerca non rispondendo alle loro domande? Guarda di non metterti nei guai rifiutando di collaborare con le forze dell’ordine” il tono della moglie era diventato quasi supplichevole. “Non fare nessuna pazzia, per favore!”.

Ma Edoardo perseverava nei suoi propositi, senza dar troppo peso alle parole allarmate della moglie:

“Un piano, ecco cosa c’è da definire !” s’illuminò. “Eh? Ma non hai nessun reato pendente, non sei andato

contro la legge, a cosa ti serve un piano?” arrancò Laura dietro i ragionamenti del marito, sempre più stupita e incapace di comprendere. “Non vorrai per caso mentire ai poliziotti, vero? Non si può architettare una trama a proprio piacimento!”.

“No, non sto architettando niente; anche se lo farei se potessi. Maledizione!” esclamò, con l’occhio indagatore puntato sulla finestra per spiare le mosse di quegli ospiti inattesi: “Non c’è più tempo, stanno già scendendo dalla macchina!”.

“Sentiamo cosa hanno da dirci, almeno. Che male possono farci?”

“Che male possono farci, dici ?!”. Edoardo si voltò verso di lei, afferrandola per le spalle. Per

una frazione di secondo scrutò il viso angosciato della moglie, che domandava ardentemente di capire, di essere messa al corrente della motivazione di tutti quegli strani, incomprensibili farfugliamenti del marito. Alla fine le sue labbra si dischiusero nella spiegazione tanto sospirata:

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“Ascolta” disse con voce ferma e decisa “lascia sempre parlare me. Quelli non sono due poliziotti. Sono due agenti in borghese che vengono dal Vaticano e probabilmente hanno qualche messaggio per me. Capisci adesso perché ero preoccupato? Sono passati dieci anni. Ormai avevo dimenticato tutto e mi ero messo il cuore in pace”.

Per Laura fu come ritornare con la memoria ad un passato lontanissimo, che solo pochi istanti prima era sepolto nella sua coscienza come fosse appartenuto ad una vita precedente. Dopo tanti anni si sentiva estranea alle vicende della vita di suo marito accadute prima che si sposassero, sebbene lei ne fosse al corrente per intero, o almeno così pensava. In effetti qualche volta le era venuto il sospetto che Edoardo non le avesse raccontato proprio tutto; ma quei dubbi erano come dei piccoli flash, lampi fugaci che si perdono nel buio della notte.

“Non temere. Vedrai che andrà tutto bene” disse Laura. Dopodiché riuscì solo ad abbracciarlo forte.

In quel momento suonarono il campanello. Edoardo diede di nuovo un’occhiata alla finestra della

cucina prima di dirigersi verso l’ingresso ed aprire. Capì che non poteva tirarsi indietro. Aveva soppesato attentamente tutte le possibilità a sua disposizione, ma le aveva pure scartate tutte.

Fuori le nuvole si stavano addensando e il cielo stava assumendo un aspetto minaccioso; di lì a poco avrebbe piovuto.

Aprì la porta e una sferzata di aria fredda lo investì in pieno viso. Due uomini in completo scuro si trovavano ora di fronte a lui. Potevano avere su per giù trentacinque anni. Uno era abbastanza stempiato, con occhiali dalla montatura dorata finissima che gli conferivano un aspetto onesto e rispettabile. L’altro era un tipo moro, alto, slanciato, con una valigetta blu in mano; di primo acchito faceva pensare che fra i due lui era la mente. Nemmeno lui, tuttavia, sembrava troppo pericoloso. “Buongiorno. Lei è il signor Righetti?” disse quello dei due con gli occhiali.

“Sì, sono io. Con chi ho il piacere di parlare?”

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“Mi chiamo Kreutz, e questo è il mio collega Wassen. Penso che lei s’immagini chi siamo; ecco i nostri tesserini di riconoscimento”.

L’uomo con gli occhiali allungò due documenti con impresso lo stemma del Vaticano. Per Edoardo non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di aprirli talmente conosceva bene quel tipo di documento. Ad ogni modo li prese e li aprì. I nomi corrispondevano. Lesse che erano di nazionalità svizzera.

“Accomodatevi pure” fece segno Edoardo subito dopo aver restituito i documenti. “È meglio non farci sorprendere dall’acqua”, e fattili entrare li guidò lungo il corridoio d’ingresso.

I Righetti abitavano in una vecchia villa di stile liberty disposta su due piani. L’avevano ereditata dalla nonna di Laura, una volta che lei era passata a miglior vita alla bellezza di centouno anni. Avevano cominciato con le ristrutturazioni più importanti, come rifare i due bagni e la cucina, e di anno in anno avevano proseguito cercando di renderla il più confortevole possibile. Visto che non avevano figli, Laura aveva adibito quella che avrebbe dovuto fungere da stanza dei bambini a studio personale, per il suo lavoro di pittrice. Aveva raggiunto notorietà nell’ambiente romano, e non solo in quello, visto che ora stava progettando una mostra a Milano e aveva per le mani varie proposte di compratori stranieri.

Edoardo condusse i due ospiti nel salotto messo a nuovo dopo la recente ritinteggiatura. I muri odoravano ancora di vernice fresca.

Laura aveva insistito per cambiare la disposizione dei mobili, in modo da rendere i suoi quadri maggiormente visibili; ora nella stanza dominava una solida tela raffigurante un paesaggio autunnale: con i suoi colori intensi e brillanti era talmente suggestivo da dare l’impressione di essere stato posto lì per dare il benvenuto agli ospiti.

I visitatori si sedettero sui due divani color crema disposti ad angolo attorno ad un tavolino basso e trasparente su cui erano posati vari soprammobili.

“Lei e sua moglie avete una bellissima casa” esordì l’uomo con gli occhiali appena si fu seduto. “Accogliente e spaziosa. I quadri poi sono splendidi. Vivi, direi. Se avessero voce

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persuaderebbero chi li contempla che queste pareti sono illusorie, e che la natura con i suoi paesaggi d’incanto aspetta e attira il visitatore dietro il sottile strato di muro”.

“Sì, mia moglie è un’ottima pittrice” rispose Edoardo stringendo la mano di Laura, seduta al suo fianco. “Posso offrirvi qualcosa?”

“No, grazie. Non vogliamo abusare del suo tempo e della sua gentilezza, professore” continuò l’uomo. “Vengo subito al dunque”. Si fece dare la valigetta dal suo collega e ne estrasse una lettera che porse prontamente ad Edoardo. “Ecco, dovrebbe fare la cortesia di leggere questa lettera, innanzitutto”.

Edoardo si alzò per prendere la lettera dalla mano dell’uomo che gliela porgeva, e fece qualche passo verso la scrivania sull’altro lato della stanza per prendere il tagliacarte. Osservò che proveniva dall’Ufficio Affari Esteri del Vaticano. Una volta aperta, lesse ad alta voce lo scarno contenuto, a prima vista redatto di pugno da una mano sapiente e delicata. La calligrafia appariva uno snodarsi preciso e rassicurante di lettere tracciate con una leggera inclinazione verso destra; nel loro complesso i solchi delle lettere facevano pensare a dei fiumi o a delle montagnette digradanti dolcemente nel mare, perché la vocale finale della parola era tracciata sempre con energia, prolungando la linea finale della parola.

“Egregio prof. Righetti, è con la più viva e profonda fiducia nelle sue doti e

capacità, che per altro ha già avuto modo di dimostrare ampiamente, che la preghiamo di rendersi disponibile per la traduzione della “Lettera di San Paolo apostolo ai Laodicesi”.

La Lettera in questione è frutto di una scoperta recentissima: non serve che le dica il valore inestimabile di un documento simile; anche se non è possibile parlare di testo rivelato o ispirato, perché come lei ben sa l’elenco dei testi sacri che rientrano nel Canone Ecclesiastico è stato definito dal Concilio di Nicea, tuttavia siamo quasi certi nel riferirle che ci troviamo di fronte ad un testo sicuramente “pio” o “devozionale”, che rispecchia le caratteristiche della predicazione paolina. Per i motivi che le verranno spiegati

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“de visu” dai nostri inviati, non è stata ancora divulgata in pubblico la notizia del ritrovamento. I nostri inviati sono incaricati di fornirle, sempre a voce, ulteriori dettagli e chiarimenti. Altre informazioni perverranno in seguito, nel caso lei accetti di lavorare all’incarico offertole, offrendoci così il regalo gradito della sua cortese e preziosa collaborazione.

Joseph Card. Mac Collough, Ufficio Affari Esteri, Città del Vaticano, addì 14 Marzo c.m.”.

Appena Edoardo ebbe finito di leggere la lettera, intervenne l’uomo che fino a quel momento era rimasto in silenzio: “Suppongo che lei desideri una spiegazione più dettagliata, professore”.

Edoardo annuì stupito. “La situazione è questa: circa un anno fa presso una chiesa

rupestre in Turchia è stato rinvenuto un antichissimo codice; a detta degli archeologi che finora l’hanno preso in esame risalirebbe ad un periodo databile prima del X secolo d.C.; con ogni probabilità era indirizzato ad una delle prime comunità cristiane.

Per il buono stato in cui si trova il manoscritto la portata della scoperta è paragonabile a quanto avvenuto con i rotoli di Qumran, pervenuti nelle grotte ubicate vicino al Mar Rosso il secolo scorso. Sappiamo tutti che solo in presenza di un ambiente assolutamente privo d’aria, ad esempio sotto la sabbia, dentro grotte nascoste o in fessure praticate nella roccia, la pergamena si mantiene quasi intatta.

Quello che è emerso, appena il manoscritto è stato tradotto dal greco, è stato a dir poco strabiliante. Il manoscritto è risultato essere una Lettera Apostolica, per la precisione la Lettera di S. Paolo ai Laodicesi, che come lei saprà è stata considerata perduta fin dai primi secoli della cristianità. Il testo non lascia ombra di dubbio: nel saluto iniziale alla comunità cristiana Paolo fa esplicita menzione del nome di Laodicea, la città in cui si trovava questa prima comunità, alla quale era indirizzata la Lettera. Anche la traduzione dell’intera Lettera, poi, confermerebbe l’attribuzione che è stata fatta. Ci sono altri precisi riferimenti al nome dell’antica città dell’Asia Minore e ai suoi abitanti, e a ciò si aggiunge che vengono

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citate anche le comunità contemporanee di Tessalonica, Efeso e Corinto. Mi creda, professore, questa Lettera è stata studiata e ristudiata più volte. Una commissione composta da teologi biblisti che vantano la più grande esperienza nel settore e da archeologi specializzati in papirologia l’ha scrutata e sviscerata centimetro per centimetro. E badi bene, si tratta di due rotoli di pergamena. Quest’équipe è stata nominata appositamente dalla Segreteria di Stato, con il beneplacito del Santo Padre. Alla quasi unanimità la commissione ha ritenuto che il manoscritto ritrovato si possa considerare autentico. Ha qualche domanda, a questo punto, professore?”.

“Sì” disse Edoardo con calma. “Posso anche credere che il ritrovamento sia autentico. In effetti la questione dell’esistenza di un'ipotetica Lettera indirizzata ai Laodicesi è una diatriba di vecchia data: nel capitolo 4° della Lettera di S. Paolo ai Colossesi l’apostolo fa cenno4ad una lettera che lui stesso avrebbe inviato alla comunità di Laodicea e che poi sarebbe dovuta arrivare fino alla città di Colossi, perché anche questa comunità cristiana ne trovasse edificazione spirituale. Ma essa non è mai pervenuta fino a noi, perciò si è creduto che fosse andata perduta, o che addirittura si trattasse, più semplicemente, di una lettera giuntaci sotto un altro nome. Eppure c’è una cosa che non capisco. A sentire il vostro resoconto, va tutto bene. Allora, qual è il problema, se siete venuti fin qui per domandare il mio aiuto?”. Scrutava i due agenti del Vaticano come volesse leggere con gli occhi nei loro cervelli.

“Lei ha ragione, professore. Un problema c’è” intervenne l’altro dei due, quello più alto e moro. “Ci sono dei punti oscuri nel testo. E questa è la questione più difficile: interpretare certe frasi sibilline”.

“Frasi sibilline? Quando mai un apostolo ha usato frasi sibilline per predicare ad una comunità cristiana?” obbiettò Edoardo.

“Queste frasi sibilline, chiamiamole così, non sono nel testo dell’apostolo. Sono note a margine della pergamena, 4 Colossesi 4, 16: “E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi, e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi”.

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proprio sul bordo, come se qualcuno avesse voluto annotare qualcosa. Noi abbiamo fatto l’ipotesi che queste note siano state poste a margine dalla comunità stessa di Laodicea, mentre la Lettera veniva letta e commentata all’interno di una celebrazione eucaristica; magari sono note di qualche presbitero o del Vescovo della città, appunti che si era fatto per ricordare gli argomenti da trattare nell’omelia, insieme alle ammonizioni da fornire, ai consigli da elargire e alle disapprovazioni da distribuire. Poi nel viaggio di questa lettera verso la città di Colossi, come aveva lasciato intendere di fare l’apostolo Paolo, la Lettera è andata perduta”.

“E da quando in qua un Vescovo che deve fare un’omelia si scrive a margine della Lettera da commentare delle note assurde e incomprensibili? Stiamo parlando delle prime comunità cristiane, perbacco! Della Chiesa! Dubito fortemente che un ipotetico Vescovo del IV° o V° secolo d.C. scrivesse delle note su un testo apostolico!”.

“È per questo che siamo venuti da lei” ammise a malincuore. “La commissione di esperti ha valutato l’autenticità della Lettera, ma non ha saputo risolvere la questione delle note a margine. Ha azzardato anche un'altra ipotesi, più realistica. È possibile che la Lettera sia giunta a Colossi e che da lì, poi, sia andata perduta. Che qualcuno l’abbia ritrovata dopo un certo tempo, magari quando già le comunità cristiane in Asia Minore stavano sparendo, e usata come pezzo di papiro per redigere degli appunti personali; come è avvenuto all’incirca per l’assai noto manoscritto custodito nella Biblioteca Civica di Verona: il cosiddetto manoscritto dell’ “indovinello veronese”, che è alle fondamenta della lingua italiana. Tutti gli studenti lo conoscono. È un foglio di pergamena scritto in latino, un atto notarile; ma sul cui bordo l’amanuense che redasse il documento, chissà se per facezia o per noia, riportò dei segni grafici, delle lettere, assolutamente di basso profilo, un indovinello per l’appunto. Fu un colpo di genio: perché l’autore ignoto ci lasciò, così facendo, le prime tracce della formazione del “volgare”, la lingua italiana così come si costituì staccandosi progressivamente dal latino”.

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Edoardo annuì. Era visibilmente eccitato dal mistero che si apriva inaspettatamente davanti ai suoi occhi, ma provava un misto di risentimento e insieme di rammarico al pensiero che fossero venuti a cercarlo dopo tutti quegli anni. Non era un sentimento ben definito: alla rabbia per il sentirsi di nuovo “incastrato” si sommava il suo orgoglio personale che gli insinuava di essere indispensabile per la missione; una punta di nostalgia per i successi che aveva riscosso in gioventù addolciva la tristezza del ricordo dei fatti che erano seguiti. E da ultimo, anche se non meno importante, si aggiungeva il fatto di essere sposato. Non se la sentiva di lasciare sola la moglie per seguire le vicende di uno sbrindellato papiro che l’avrebbe fatto stare lontano da casa forse per mesi.

“Cosa vi aspettate che faccia?” domandò Edoardo dibattuto tra la voglia di rifiutare l’intera faccenda e il sincero desiderio di saperne di più.

“Noi siamo venuti qui per spiegarle i risvolti del lavoro di traduzione di queste strane note a fianco della Lettera ai Laodicesi. Se lei accetta, dirigerà la nuova équipe di esperti chiamati a studiare a fondo queste difficili note, che per ora restano un enigma. Vede, a noi è stato dato l’incarico di portarle con la massima segretezza e tempestività il telegramma che ora tiene in mano. Le abbiamo riferito fedelmente il quadro della situazione fino ad oggi. È evidente che solo se accettasse di prendersi in carico la traduzione delle note, insieme alle altre persone incaricate, sarebbe possibile rivelarle di più. Ma allora, soltanto allora. Per il momento non ci è consentito di esporle altro, eccetto il fedele resoconto del ritrovamento che le abbiamo riportato”.

“Naturalmente, immagino non dovrò fare parola con nessuno, sia che accetti sia che rifiuti l’incarico”.

“Mi duole dirlo, ma dovremo farle firmare un documento in cui lei ammette di essere al corrente di informazioni riservate, e con il quale si impegna a non rivelarle a nessuno, eccetto i suoi colleghi di lavoro” rispose sempre lo stesso uomo.

“Divertente! Potrei sapere quali sono gli altri componenti dell’équipe?”

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“Saranno loro stessi a mettersi direttamente in contatto con lei, tempo uno o due giorni al massimo”.

“Come credete che possa accettare un lavoro simile, senza conoscere chi sono i miei collaboratori?”

“I collaboratori non la riguardano. Mi spiace, queste sono le direttive. D’altronde l’équipe è stata scelta dal Cardinale Mac Collough; lei deve solo svolgere la funzione di dirigerla. Ma i membri sono già stati decisi”.

“E non potete dirmi nient’altro?” “Nient’altro”. “Loro sono a conoscenza della natura della missione? Di

tutte le informazioni che mi avete appena rivelato?”. “No. Per ragioni di sicurezza queste informazioni vanno

mantenute il più possibile riservate. Perciò sarà lei a dover introdurre la questione ai membri dell’equipe, la prima volta che v’incontrerete”.

“Devo raccontare tutto quello che mi avete detto?”. “Solo quello che riterrà opportuno. Come primo incontro,

immagino si tratterrà di un preliminare”. “Torno a ripetere: come pretendete che vi possa offrire il

mio aiuto se mi fate conoscere a malapena le coordinate iniziali di tutta questa storia?” insistette Edoardo.

“Senta, noi le abbiamo riferito tutto il possibile. Come vede il Vaticano le offre fiducia, e nutre speranza nella sua intelligenza, nella sua preparazione, nel suo spirito rigoroso. Ma non è nostra intenzione convincerla a forza a collaborare al progetto”.

“Diciamo che sono propenso ad accettare, allora”. Guardò Laura che appariva tranquilla. Fece un cenno del

capo come per acconsentire alla decisione del marito. “Datemi del tempo per decidere però. Questa è la mia unica

richiesta e la sola condizione che pongo. Voglio prima conoscere i miei collaboratori. E devo anche discutere con mia moglie di questo progetto. Voi mi capite, vero?”.

“Dovremo consultarci con il nostro superiore, in questo caso” spiegò il funzionario del Vaticano, visibilmente dispiaciuto del prolungarsi della discussione. “D’altronde mi rendo perfettamente conto che lei ora, professore, ha una famiglia; non può decidere così, su due piedi. Siamo stati un

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tantino ingenui nel pensare che avrebbe acconsentito subito alle nostre richieste…”. Per la prima volta Wassen era imbarazzato. Ma si riprese in un attimo: “Mi permette di fare una telefonata?” chiese a Edoardo. Ed estrasse dalla valigetta blu un cellulare.

Edoardo lo accompagnò in corridoio perché il funzionario avesse più privacy. Nel frattempo l’altro dei due, quello con la sottile montatura d’oro, Kreutz, rimase nel salotto a conversare con i padroni di casa. Trascorsi cinque minuti, che a Edoardo parvero interminabili, Wassen ricomparve in salotto visibilmente soddisfatto. “Il Cardinale Mac Collough acconsente ad una proroga di 72 ore. E’ un uomo veramente gentile e disponibile. In effetti, non eravamo al corrente che lei si fosse sposato, professore. Da quando ha lasciato l’insegnamento all’Università, lei capisce, non abbiamo più seguito le sue vicende personali. Siamo rammaricati di questa “svista”. Ma ora siamo contenti che le cose si siano aggiustate nel migliore dei modi” spiegò tranquillamente. “Allora, ripasseremo lunedì alle 13.00. Le va bene?” domandò infine. “Benissimo”. Edoardo sorrise compiaciuto. Era riuscito nel suo intento.

A questo punto Kreutz si alzò con l’intenzione di congerdarsi; si avvicinò a Wassen che era rimasto in piedi, accanto alla porta.

“Ci rivediamo lunedì, professore. Spero che accetterà l’invito del Cardinale Mac Collough a lavorare al progetto” disse Kreutz. Aveva esordito lui con le presentazioni all’inizio dell’incontro, adesso pareva voler essere sempre lui a porgere il commiato. Fra Kreutz e Wassen però, Kreutz era proprio quello che non mostrava troppa convinzione sul fatto che Edoardo avrebbe accettato l’offerta di lavoro. Sembrava mettere in conto un possibile diniego. Invece Wassen no: era più rilassato e fiducioso. Costui strinse forte la mano ad Edoardo, prima di lasciarsi. Mentre Kreutz, fatto appena un cenno di saluto col capo, uscì nell’aria gelida mentre goccioloni d’acqua cominciavano a bagnargli gli occhiali sul viso.

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Tornato in salotto, Edoardo sprofondò su un cuscino del divano con l’intenzione di concentrarsi ulteriormente su tutto quello che le sue orecchie avevano sentito e i suoi occhi avevano visto.

“Dunque siete in sette?” commentò Laura. “Così hanno detto. E i primi dovrebbero già mettersi in

contatto con me questa sera o tutt’al più domani”. Edoardo non si capacitava di come delle normalissime persone potessero riuscire a lasciare casa, lavoro e famiglia per imbarcarsi in un progetto che gli sembrava fare acqua da tutte le parti. Non che non fosse interessante. Anzi, il progetto così esposto era molto importante. L’esistenza o meno della Lettera ai Laodicesi era un autentico rebus irrisolto per i teologi fino a quel momento. Ma gli pareva che il progetto non fosse condotto con il necessario rigore scientifico.

“Che ne dici? C’è da credere a quello che ci hanno raccontato? Ti fidi di loro?” insistè lei dubbiosa.

“Uhm, il codice l’avranno scoperto sicuramente alcuni anni fa. Non succede che degli archeologi o chi per essi trovino un giorno un antichissimo reperto e così, di punto in bianco e in pochissimo tempo, lo facciano arrivare allo studioso competente perché ne esamini il valore” cominciò a riflettere ad alta voce Edoardo. “Intanto c’è tutta la burocrazia vaticana: un mare di uffici, protocolli, monsignori e vescovi per i quali il suddetto reperto deve passare fino ad arrivare all’ufficio competente. E poi c’è un altro problema: come si sono comportate le autorità turche, visto che l’oggetto in questione è stato rinvenuto in Turchia; insomma, bisognerebbe sapere quanti giri ha fatto il nostro manoscritto”.

“Ma i due inviati del Vaticano non ti hanno detto che è stato ritrovato solo un anno fa?” gli obbiettò Laura.

“Sì, le orecchie le ho anch’io, Laura. Ho sentito quello che dicevano. Ma sai: “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Per quel che ne so, è troppo poco un anno di tempo per eseguire sul manoscritto un intero lavoro di traduzione del testo, di pulitura e analisi biochimica del rotolo di papiro, insieme a tutti gli altri esami che la prima commissione di lavoro avrà ritenuto necessario effettuare”.

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“Senza contare, a dire il vero, che non ci hanno mostrato nemmeno una foto di questi presunti importantissimi papiri. Non ti sembra strano? Che ci sia qualcosa che non va?” azzardò Laura.

“Sì, è vero. Anch’io me ne sono accorto. Penso sia dovuto al fatto che non sapevano se avrei accettato di collaborare con loro. Perché vedi, cara” e qui Edoardo si alzò dal divano e le si mise davanti. “Perché qui si tratta di sapere, e questa è veramente la cosa più importante, perché sono venuti da me, ora” e scandì in modo solenne e perentorio le ultime due parole.

“Come, pensi che prima di venire da te abbiano provato ad interpellare qualcun altro?” gli domandò Laura, quasi offesa per quello che il marito aveva inteso dire. Eh sì, perché Edoardo Righetti – quarantasei anni compiuti – un tempo era stato un brillantissimo e giovanissimo docente di Patristica all’università Gregoriana di Roma. Era ormai acqua passata per lui, e davvero tanta ne aveva lasciata scorrere via per dimenticare quel periodo. Fatti accaduti in un remoto passato che ora, nella nuova veste di professore di religione, si sforzava di far passare in sordina. Non voleva che si sapesse in giro che lui, tempo addietro, era stato un'altra persona. Che studenti e docenti lo avevano rispettato alla stregua di un luminare, lo avevano guardato dal basso in alto intimoriti, lo avevano invitato ovunque c’era odore di dibattiti culturali eruditi… Eppure dentro di lui il ricordo di quel periodo fin troppo felice e ricco di ambiziosi progetti e di strepitose idee era ancora vivo; a volte la nostalgia gli bruciava come una ferita aperta bagnata dall’acqua salmastra del mare, allora Edoardo proteggeva ancora di più quel ricordo, lo riponeva in un cantuccio segretissimo del suo animo e stava lì, quieto ma non addormentato, come la brace sotto la cenere.

Ora, a quarantasei anni, il suo passato era tornato prepotentemente a bussare alla porta. Lo aspettava al varco una decisione difficile da prendere.

“A volte dobbiamo fare i conti col nostro passato, anche se di malavoglia” affermò a voce alta Edoardo di fronte alla moglie che lo guardava attonita. “Capisci che ci deve essere un motivo se sono venuti fin qui a cercarmi? Dopo tutti questi

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anni, proprio ora si ricordano che esisto?!” sbottò spazientito. “Ti ricordi perché mi fecero quelle enormi pressioni per lasciare la cattedra di Patristica?”.

“Mi hai sempre detto che fu perché il progetto che stavi portando avanti non venne più riconfermato dopo la nomina del nuovo Rettore. Dicevi che non gli piacevano le tue ricerche. In più” e qui Laura si addolcì al ricordo “ci dovevamo sposare. Così il nuovo rettore ti chiese, in mancanza di un finanziamento per mezzo del quale tu potessi lavorare, di lasciare vacante la tua cattedra fin tanto che non si fosse ripresentata la possibilità di reperire nuovi investimenti per la ricerca universitaria che ti riguardava. Peccato che non se ne fece più niente di quella specie di promessa, e tu venisti praticamente messo da parte, liquidato come un ferro vecchio che si butta via. Salvo poi, all’inizio del nuovo anno accademico, quando tu ormai avevi già presento la tua lettera di dimissioni e questa era già stata accettata dal Rettore, trovare miracolosamente i fondi per coprire le spese della ricerca. Purtroppo la cattedra venne affidata ad un pupillo di fiducia del nuovo Rettore, che portava avanti per suo conto altri studi giudicati più interessanti e maggiormente proficui da promuovere”. Laura si accalorava ancora quando le capitava di riassumere questi fatti.

“Già, l’unico rammarico a proposito di quegli anni è l’essere stato troppo ingenuo. Troppo accondiscendente con il Rettore e con il Senato accademico. Ero sicuro di essere ormai arrivato ad una posizione di rilievo, sicura, stabile, che nessuno avrebbe potuto togliermi o portarmi via. Mi ritenevo una celebrità nel mio campo: chi mai si sarebbe sognato di intralciarmi il lavoro?” sospirò amaramente Edoardo, “e ti ricordi perché al Rettore non piacevano le mie ricerche?” la incalzò. Negli occhi neri gli ardeva il guizzo di una segreta intuizione, come due gemme di rubini rilucenti sul fosco sfondo di una notte tempestosa.

Laura si sforzò di tornare con la mente a quel periodo in cui lei e il marito si erano conosciuti e fidanzati: “Dunque… fammi riflettere, avevano fatto scalpore alcune notizie sui giornali…” all’improvviso le tornò la memoria di quei fatti lontani, e la sua espressione si colorì di colpo “Sì, ora ricordo:

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vent’anni fa venne pubblicato un saggio filosofico di un tuo conoscente, faceva lo scrittore se non sbaglio…”. Edoardo si atteggiò in un’espressione di compiacimento mentre la moglie continuava sull’onda dei ricordi: “Chissà per quale motivo fosti tirato in ballo anche tu nelle diverse recensioni dell’opera… l’abbinamento del tuo nome con quello dello scrittore non piacque all’interno degli ambienti più formali della Gregoriana, rigorosa e ortodossa fin nel midollo, e ciò suscitò un vespaio di polemiche. Ma io so che cessarono, ad un certo punto, tutte quelle dicerie pretestuose e antipatiche su di te e sul tuo “amico”; a sentire le voci ingiuriose, avreste scritto assieme il saggio, e così via… Non erano tutte un mucchio di stupidaggini?”

“Lo erano. Ma valsero a mettere in guardia il nuovo Rettore su di me, e a convincere il Senato accademico che un insegnante troppo giovane, eccentrico, baciato dal successo repentino della sua buona stella, non poteva meritare tutti gli onori che, senza pensarci troppo, gli erano stati tributati. In pratica: un insegnante ancora inesperto “di mondo”, che poteva essere fuorviato anche dai suoi amici più fidati. Non serve che ti dica che quell’insegnante, così bene tratteggiato dai discorsi del rettore, ero io”.

“Perché adesso, allora, gli agenti del Vaticano sono tornati per proporti di lavorare con loro? Non è sempre lo stesso ambiente?” domandò Laura.

“La Gregoriana è una cosa, i Dicasteri Pontifici un’altra. La prima è un’università, la quale è libera di gestirsi in piena autonomia, secondo i propri organi decisionali interni. I secondi, come l’Ufficio Affari Esteri ad esempio, fanno capo più direttamente al Santo Padre, anche se con tutta un’ articolata rete burocratica. Questa volta è lo stretto entourage del pontefice che mi sollecita a collaborare. Qualcuno si è ricordato di me, anche se sono passati vent’anni”.

“Che vuoi fare?”. “Se è davvero una cosa importante, lo capirò. Per il

momento non farò niente di niente. Lascio che le cose vadano avanti da sole, come devono andare. Io aspetto. Aspetto chi dovrà mettersi in contatto con me”.

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VI Giulia salì in fretta le scale che la conducevano al reparto

di terapia intensiva del Policlinico Umberto I dove lavorava. Si era legata i capelli a coda di cavallo senza nemmeno guardarsi allo specchio perché, come da due settimane a quella parte le sue colleghe non dimenticavano di farle notare, era perennemente in ritardo sull’orario di lavoro.

“Guarda che non ti posso coprire in eterno” la rimproverava Maria, la sua fedelissima collega nonché migliore amica, “prima o poi mi scopriranno e saranno guai per tutte e due” le ripeteva in continuazione.

Giulia sapeva che la sua amica aveva paura che qualcuno scoprisse il loro piccolo imbroglio: era Maria infatti a timbrare il cartellino di Giulia ormai regolarmente da quindici giorni, nonostante fosse fatto strettissimo divieto di timbrarsi i cartellini a vicenda. Ma Giulia aveva trovato il modo di nasconderlo nell’armadietto della sua amica, di cui possedeva le chiavi, e nessuno si era accorto del loro segreto scambio. E la fortuna le assisteva: per tutto il mese le due amiche avrebbero osservato gli stessi turni di lavoro.

Giulia si domandava in che modo riusciva a non arrivare mai puntuale sull’orario di lavoro. Se lo chiedeva ogni volta che saliva di corsa le scale o prendeva l’ascensore per fare ancora più in fretta, e pur tuttavia non riusciva a trovare una risposta convincente. Per questo non si dava pace.

“Forse ho troppe cose a cui pensare” diceva fra sé, amareggiata che tanto darsi pensiero per i suoi continui ritardi non conducesse ad alcuna conclusione durevole. “Roberto ha lasciato che organizzassi da sola tutte le faccende per la casa nuova, così prima sono sempre stata trattenuta dalle agenzie immobiliari per trovare l’appartamento in cui andare a vivere, poi sono venute le corse ai vari mercatini dell’usato e ai centri commerciali per arredarlo, e così via. Ora non ne posso proprio più!” ammise sconsolata.

È vero che il suo ragazzo si era accollato la parte tecnica: allacciamenti di luce, acqua e gas; poi la sistemazione di prese elettriche, la tinteggiatura, l’attacco di mensole varie e dei

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lampadari. Giulia lo sapeva, ma li riteneva lavori da uomo che – nella sua testa – era d’obbligo li realizzasse Roberto.

“Perdiana, il grosso l’ho fatto io, però!” pensava. Considerò che tutta questa spesa energetica rubava un sacco di tempo e di concentrazione alla sua normale routine di lavoro.

A volte le affiorava l’idea che Roberto non fosse poi così convinto di andare a vivere con lei, ma scacciava immediatamente questo pensiero perché non le sembrava possibile. Lui non si era mai dimostrato contrario, anzi, la cosa era tutta a suo vantaggio perché si sarebbe trovato ad abitare di lì a poco in una casa più grande e più bella, con la garanzia che avrebbero diviso equamente le spese. Lei si sarebbe accollata l’affitto, lui cibo e bollette. Avevano fatto i conti più di una volta e in modo molto meticoloso. Messe le cifre nero su bianco, a lei era parsa l’idea migliore del mondo. E lui non aveva trovato nulla da ridire.

Roberto era un uomo di poche parole: non si era perso in elogi sperticati sulla laboriosità della sua ragazza. D’altro canto lei aveva imparato dalle storie precedenti ad apprezzare nei discorsi degli uomini la sostanza piuttosto che la forma, e Roberto quasi ogni giorno dedicava le ore serali alla sistemazione dell’appartamento e l’ultimo fine settimana aveva tinteggiato tutte le pareti e grattato il vecchio comò da mettere in camera. A conti fatti, per Giulia questo era segno che lui ci teneva quanto lei alla loro nuova casa.

Arrivata in corsia considerò con una punta di rammarico che il tempo per pensare era sempre meno di quello che si sarebbe voluta concedere. Il lavoro l’attendeva puntuale come un’incombenza impossibile da rimandare ulteriormente.

All’improvviso si sentì toccare la schiena. Giulia si girò di scatto. Maria, la collega soccorritrice, le si era avvicinata. Aveva la sua stessa anzianità di lavoro, dal momento che erano entrate insieme cinque anni prima. Si erano conosciute al corso di laurea per infermieri specializzati.

“Ciao Giulia, ben arrivata. Anche oggi ci attende la nostra fatica quotidiana, vero?”.

“Grazie che non manchi di ricordarmelo, Maria” rispose. Iniziò il suo giro. Quando varcò la soglia della prima

stanza, la numero trentuno, il paziente dormiva. “Accidenti” si

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disse “dormono tutti a quest’ora! Dovrò svegliarlo per prendergli la temperatura!”.

Non aveva tempo da perdere. Stava per pronunciare ad alta voce la parola “sveglia!” e

battere le mani quando lesse sulla cartella clinica che il dottore aveva prescritto proprio quella mattina di smettere il trattamento con gli psicofarmaci. Non ne capiva il motivo. “È troppo presto smettere adesso. Ripiomberà in una nuova crisi” pensò. Guardò meglio la cartella, leggendo nel diario giornaliero, e vide che, infatti, quella mattina non gli era stata data nessuna pastiglia. L’unica cosa rimasta da fare era prendergli la temperatura corporea.

Uscì velocemente dalla stanza e si diresse senza indugi dalla sua collega. Maria si trovava in piedi, ferma al tavolo della caposala. La condusse in disparte:

“Maria, senti. Lo sapevi che hanno tolto gli psicofarmaci al numero trentuno? Eppure secondo me senza quelle medicine ricadrà senz’altro nella forte depressione da diabete cronico, quella in cui stava prima!”. Giulia ricordava che l’uomo era già lì da tre settimane, ricoverato d’urgenza dopo essere stato ad un passo dal coma diabetico. In più aveva avuto delle crisi ipertensive, che i medici non sapevano del tutto spiegare: arrivavano improvvise, a prima vista indipendentemente dal diabete e dall’insulina che prendeva regolarmente per prevenire la malattia. E per concludere si sapeva che era affetto da una forte depressione. Lui stesso l’aveva spiegato al dottore, una volta che lei era presente al turno di visita mattutino.

“Sì, lo so. Penso che i medici vogliano valutare quanto sia realmente depresso. Il suo stato d’animo ora viene alterato dalle medicine che prende. Secondo me vogliono mandarlo a casa, e devono sapere come resisterebbe ad una dose minore di psicofarmaci”.

“Ma è presto per mandarlo a casa. Non hanno risolto il problema della pressione. E non hanno fatto tutte le analisi che dicevano di voler fare. Non capisco”.

“Se stessimo a protestare tutte le volte che dimettono un paziente, non la finiremmo più! Lo sai anche tu quanto spesso succede che i medici non risolvano mai del tutto le malattie

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per cui uno viene ricoverato. Hai voglia, spiegare come funziona il corpo umano!” esclamò la sua collega.

“Però rimango della mia idea. Non si butta fuori uno che è stato ad un passo dal coma”.

La sua amica le si avvicinò, e a voce bassa le sussurrò: “Lo ammetto. Anche per me non è del tutto chiaro. Ad ogni

modo ti posso dire che stamattina è stata qui la madre. Me l’hanno raccontato. Ha parlato col dottore per quasi un’ora, e poi mi è sembrato che fossero giunti ad un accordo. Alla fine del loro colloquio, il dottore ha preso la cartella del numero trentuno e ha levato gli psicofarmaci, come hai visto tu stessa. Non riesco ad immaginare, però, cosa si siano detti”. Maria la guardò allargando le braccia. Di più davvero non sapeva.

“Grazie, Maria. Vorrà dire che perderemo il paziente più giovane e misterioso del reparto”.

Giulia si voltò per tornare a vedere se, nel frattempo, il paziente della stanza numero trentuno si fosse svegliato.

Entrò nella stanza. Era un giovane di circa trentacinque anni, di bell’aspetto,

che in quel momento stava continuando a dormire placidamente; le mani erano distese lungo i fianchi e i ricci biondi gli ricadevano sul cuscino. Non pareva assolutamente ammalato. Lo osservò meglio e vide che indossava un costosissimo pigiama di Valentino. Al polso aveva un bracciale d’oro, e sempre d’oro era la collana che gli cingeva dolcemente il collo. Dalla collana pendeva una medaglietta, ma Giulia non vide cosa raffigurasse.

Sul comodino c’era un mazzo di fiori, una scatola di cioccolatini e due romanzi di grido. “Le solite cose che hanno tutti” pensò. Poi le cadde l’occhio sotto il cuscino: spuntava un libriccino. Stette per un attimo a riflettere sul da farsi: si sentiva spinta dalla curiosità a prenderlo per dargli un’occhiata furtiva. D’altro canto qualcosa la tratteneva: una sensazione di pericolo, come se si stesse intrufolando in qualcosa a lei estraneo e vietato. Lo scrutò ancora una volta: stava sempre dormendo, i tratti gentili del viso rilassati nel sonno.

Alla fine prevalse la curiosità e si avvicinò pianissimo. Sfilò il libriccino delicatamente da sotto il cuscino,

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vergognandosi un poco per quello che stava facendo. Usò la massima attenzione per non far alcun rumore. Lo prese e lo sfogliò: era un libriccino piccolo, sottile e tutto sottolineato; sembrava minuziosamente studiato. Poi guardò il titolo e l’autore. Giulia rimase sorpresa, trattenne il fiato per una frazione di secondo: l’autore era il paziente del letto numero trentuno!

Ebbe subito un legittimo momento di smarrimento. Era confusa. Contemplò nuovamente l’uomo che dormiva, leggermente trasecolata. Dopodiché si rimise a sfogliarlo più avidamente. Fu colpita dalla copertina: si trattava di una foto scattata su qualche scogliera mediterranea. Il mare era increspato e di un blu profondo; sopra le acque si stagliava un cielo plumbeo. Da un lato una collina brulla e spoglia digradava a strapiombo sul mare; l’unico elemento visibile era una vecchia costruzione in mattoni abbandonata. Poteva essere un’antica chiesa trasformata in un minareto, poi andato in rovina, perché accanto alla consueta struttura che somigliava ad un tempio classico col timpano – tipico delle chiese cristiane – si ergeva accanto un’altra costruzione cilindrica alta e sottile, proprio tipo una piccola torre.

Sempre più incuriosita e attratta dalla foto sulla copertina rilesse il titolo: “Viaggio a Calcedonia” di Martin Fischer. In copertina non c’era scritto nient’altro. E niente pure sul retro. Sfogliò nuovamente le pagine, vergate con una difficile calligrafia, minuta e stretta, che sembrava essere stata prodotta da una penna stilografica. Si trattava di note a margine di ogni pagina stampata. Non aveva ancora letto il testo, però. Giulia pensò che si trattasse di un piccolo romanzetto, forse autobiografico. Lo soppesò sulla mano e lo rigirò: non erano nemmeno 100 pagine.

Lo aprì alla pagina iniziale e iniziò a leggere: “Per un ebreo oggi è giunta l’ora del riscatto. Dopo i bui secoli in cui il mio popolo ha vissuto relegato in oscuri ghetti per l’orgoglioso disprezzo delle genti cristiane; dopo essere stato emarginato e bollato ad imperitura memoria della più infamante accusa possibile, quella di deicidio, questo popolo fiero e coraggioso è risorto; è rinato più forte di prima. Si è dedicato ai commerci e ai traffici, arricchendosi, pur senza

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volerlo. I cristiani hanno lasciato che maneggiassimo noi il tanto vituperato denaro: loro avevano troppa paura di corrompersi e di dannarsi l’anima! Ma poi, quella stessa gente arricchitasi grazie ai nostri commerci e alle nostre banche, ci ha di nuovo sopraffatti. Nel XX secolo. La nuova tragedia si è chiamata Olocausto, e seconda guerra mondiale. Dovevamo morire tutti. Ma il Signore protegge il suo popolo e l’ha salvato; così oggi esso è ancora vivo; anzi, combatte vittorioso per rientrare in possesso della sua terra. Quella terra che fin dalla notte dei tempi ci appartiene, a cominciare dalle promesse fatte al nostro padre Abramo.

Io ebreo di Gerusalemme, rimasto orfano dei miei genitori a causa della infame guerra dei palestinesi contro il mio popolo, ho intrapreso questo viaggio verso le mie radici, conscio che il mio è il popolo che per primo è stato benedetto da Dio.

Ma è successo qualcosa che ha cambiato la storia. È successo che ho scoperto che tutti i popoli sono stati benedetti dallo stesso Dio…”

“Cosa sta leggendo?” l’uomo si era svegliato all’improvviso e con un gesto brusco della mano aveva strappato il libriccino a Giulia, mentre lei era ancora intenta nella lettura.

Non si era accorta che lui aveva aperto gli occhi appena un istante prima, e aveva allungato il braccio per riprendersi il suo libro.

“Mi scusi, lo so che ho fatto una cosa che non dovevo fare. Mi ha incuriosita la copertina… sono una grande lettrice di romanzi, pensavo si trattasse di uno nuovo appena uscito nelle librerie e che mi fosse sfuggito…”. Giulia cercò di imbastire una scusa che suonasse credibile.

“La curiosità è femmina” sentenziò l’uomo con voce severa, per nulla indulgente verso la spiegazione offerta dall’infermiera. “Comunque non è un romanzo, non è mai stato in libreria e non è leggibile da nessuno. Mi sono spiegato?”.

“Sì, mi scusi tanto” ripeté Giulia arrossendo; si sentiva colta in fallo. “In effetti aspettavo che lei si svegliasse per prenderle la temperatura di oggi” cercò di cambiare

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argomento e di riportare la conversazione sul piano professionale.

“Naturalmente. Mi dia il termometro e poi esca di qui”. L’uomo aveva sempre lo stesso tono di voce tra il seccato,

l’offeso e il burbero. Lei preferì non ribattere nulla: gli consegnò il termometro e uscì dalla stanza. Una volta fuori, tirò un sospiro di sollievo: non s’aspettava una freddezza simile. D’accordo che un po’ matto e strano lo era, stando a quello che le avevano riferito le sue colleghe, ma ora era toccato proprio a lei sperimentare il caratteraccio di quello strano tipo, e a ciò si aggiungeva quello che aveva letto.

Un senso di tristezza la colse inaspettatamente. Quel Fischer tanto maleducato, che probabilmente aveva sofferto non poco, e anzi, proprio a così tanto patire era imputabile il suo pessimo comportamento, andava incontro ancora una volta ad eventi sconfortanti. Appena fosse stato dimesso, con ogni probabilità gli sarebbero sopraggiunte delle nuove crisi. Lui non ne era a conoscenza, ma lei sì.

Scrollò la testa: l’intera situazione era più grande di lei. Decise di non pensarci più perché non erano fatti suoi, e mandò un’altra collega a prendere il termometro per la registrazione della temperatura corporea.

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VII La Mercedes di Benjamin era davvero confortevole. Da un

paio d’ore stavano viaggiando sull'autostrada diretti a Roma e non avevano smesso un minuto di parlare. Grazia commentava con dovizia di particolari tutti gli episodi del pomeriggio.

Benjamin, a sua volta, era un getto continuo di domande: come l'avevano presa i colleghi, come se n'erano andati capo-redattore e direttore, qual’era la nuova linea del giornale, quali decisioni avrebbero dovuto prendere insieme e quali no.

“Ti trovo un tantino dispotica…” puntualizzò Benjamin, fattosi serio perché Grazia era diventata più dura e pungente di come la conosceva.

“Mi sento addosso una grande responsabilità, Benjamin. Tu non hai le mie preoccupazioni: ti basta correre dietro a tutte le idee che ti vengono in mente; e non stai certo a chiederti se un’idea che piace a te, piacerà anche agli editori. No, Benjamin, anche volessi non potrei mai comportarmi come te, ora”.

“Tiri troppo in fretta le conclusioni. Né io né te sappiamo come potrei comportarmi… non sono mai stato direttore! Quando lo diventerò anch’io ti farò sapere. Allora vedremo se ci hai visto giusto” ribattè ironico.

Ancora un po’ del tono acido di Grazia, e pure lui sarebbe diventato secco e scontroso.

Ma Grazia non stette nemmeno ad ascoltarlo. Continuò sull’onda dei pensieri: “Per giunta sono solo direttore temporaneo”.

“Comunque direttore. A conti fatti sei tu che comandi, no?”.

“Accidenti, penso di sì” sbuffò. “Però mi osservano! È esasperante: ancora non so se ho già la loro fiducia, o se devo conquistarmela. Vorrei tanto poter essere certa di azzeccare sempre gli articoli e gli editoriali giusti per la linea del nostro giornale…” ammise soprappensiero. “Speriamo di non star facendo un’idiozia con questo viaggio a Roma”.

“Questa è bella! Ti sei dimenticata che me l’hai proposta tu questa gita di lavoro?! Ti sei già pentita della decisione presa?”

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“No, certo che no. Non darmi retta, a volte penso ad alta voce. A Roma otterremo informazioni fresche di prima mano, vedrai” disse Grazia. Ma lo diceva più a sé stessa, come se ammettere un buon esito del sopralluogo servisse più a tranquillizzarla dalle sue paure, che a crederci veramente.

Quando furono le sette, si fermarono ad un autogrill nei pressi di Bologna per mangiare.

Benjamin si allontanò dal tavolino su cui avevano appoggiato le birre e i panini caldi con la scusa di andare alla toilette. Ma appena uscito si precipitò alla cabina pubblica e fece il numero del servizio informazioni gratuito del gestore telefonico:

“Operatore numero 104. Buonasera”. “Buonasera” rispose Benjamin. “Vorrei avere il numero di

telefono dell’abbonato che risiede all’indirizzo Via dei tigli, 3. Roma” domandò con tono impassibile.

“Un attimo, attenda in linea” rispose l’operatore. Benjamin sentiva che l’operatore stava battendo

velocemente i tasti sul suo terminale; ecco, adesso non gli rimaneva che sperare di ricevere questo benedetto numero telefonico, pensò.

Per fortuna l’operatore non si fece attendere troppo: Benjamin annotò velocemente il numero sul suo taccuino in pelle.

“Mi può dire il nome dell’abbonato?”. “Attenda un altro attimo, per cortesia”. Ci vollero pochi istanti di attesa questa volta perché subito

la voce disse: “L’utente da lei cercato risponde al nome di Righetti

Edoardo”. “Molte gra…”. Benjamin non fece in tempo a ringraziare

che l’operatore aveva già riagganciato. Ottenuto ciò che si era prefissato, tornò dentro soddisfatto.

La mossa successiva sarebbe stata di arrivare in centro a Roma entro le nove, anzi, possibilmente prima, perché così avrebbe telefonato immediatamente a questo Edoardo Righetti. Non voleva rimediare subito una magra figura telefonandogli a sera inoltrata: poteva compromettere l’intero compito cominciando così male. Del resto non poteva

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chiamare dal suo cellulare perché la telefonata sarebbe stata registrata sulla scheda e non voleva lasciare nessuna traccia che potesse far risalire al compito che Frank gli aveva affidato. L’avrebbe chiamato da un telefono pubblico.

Ritornò da Grazia. Lei gli sorrise mentre lui si accingeva a sorseggiare la birra:

“Hai qualche preferenza per l’albergo?” gli chiese. Aveva per le mani la sua agendina su cui annotava tutti gli

alberghi in cui era stata; sfogliava le pagine alla ricerca di qualche appunto su Roma.

“Dannazione, qui non trovo niente!” esclamò spazientita mentre girava le pagine con una tale foga che quasi le staccava “di solito è utile scrivere i posti dove mi fermo: serve a rintracciarli subito in casi di emergenza come questo. Vuoi vedere che ho sbagliato agendina, e ho lasciato a casa quella giusta?”.

“Si vede che non è un caso di emergenza” la interruppe Benjamin divertito.

“Non sto nemmeno ad ascoltarti” bofonchiò lei un po’ irritata “conosci qualche albergo in cui potremmo piazzarci?”

“Intendi un albergo che funga da nostro Quartier Generale da dove annunciare un imminente colpo di stato da parte delle frange ribelli del Parlamento?”

“Sì, esatto” e addentò un pezzo del suo panino con le melanzane “e in cui tu fungerai da mio segretario, mentre io scriverò un reportage da prima pagina”.

“Potremmo passare da un tipo che conosco molto bene” fece Benjamin con nonchalance “forse potrebbe ospitarci lui la prima notte e poi ci darebbe le indicazioni che ci servono per un buon albergo; un’informazione da un romano è sempre meglio di un appunto sulla tua agendina, tanto più che un’agendina viola non mi ispira tanta fiducia”.

“E come si chiama questo tuo amico?” Grazia si dimostrava interessata, mentre era occupata a mordere un altro boccone del suo panino.

“Edoardo” le rispose cercando di stuzzicare la sua curiosità “Edoardo Righetti. Non lo vedo da una vita, ma forse è proprio l’uomo che ci serve. Mente fine, ha cultura, insomma

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è un’intellettuale. Lui saprebbe farci una panoramica sulla situazione politica attuale”.

Benjamin non poteva credere che fosse tutto così enormemente semplice. Prima aveva scoperto la persona che si celava dietro il misterioso telegramma di Frank, e ora stava convincendo Grazia a presentarsi a casa sua. L’idea che gli era venuta era proprio una buona trovata. Stabilì, in cuor suo, di mettercela tutta per persuadere Grazia; anche a costo di inscenare lì, su due piedi, qualsiasi cosa.

Finì il suo panino con la salsa messicana e si fece dare da Grazia la piantina stradale di Roma per ripassare il percorso più veloce fino a via dei Tigli, che era situata nella parte nord-est della città.

“Mentre tu rispolveri la strada per arrivare dal tuo amico io mi assento un attimo” gli disse Grazia che si avviò verso la porta da cui prima era uscito Benjamin.

Grazia era confusamente eccitata. In quel momento avrebbe dato chissà cosa per mantenere un ferreo controllo di sé. Invece si sentiva frastornata da tutto quello che le era successo in una sola giornata: la nomina a direttrice del giornale, i complimenti dei suoi colleghi, i loro incoraggiamenti e le promesse che l’avrebbero aiutata; ed ora il viaggio a Roma – splendida città – con l’uomo più affascinante della redazione.

Fece appello a tutto lo spirito pratico che possedeva per costringersi a rimanere con i piedi ben ancorati a terra.

“Rigore e disciplina: ecco a cosa devi aggrapparti!” rammentò a sé stessa “Ricordati quanto hai sudato prima di arrivare dove sei adesso. Prudenza!”.

Entrò nella toilette per signore con questi pensieri nella testa. La toilette era larga e spaziosa e non c’era nessuno dentro oltre a lei. Appoggiò lo zaino sul marmo dei lavandini e fece un po’ di ginnastica al collo e alle braccia per distendersi e rilassarsi. Poi fece uscire l’acqua dal rubinetto e si lavò accuratamente le mani e le tempie.

Era stanca, avrebbe voluto andare a dormire in quel momento. Invece la aspettavano altre due ore di macchina. Avrebbe schiacciato un pisolino sul sedile, pensò, accanto a

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Benjamin. Il solo pensiero di essere accanto a lui bastava a renderle più piacevole il viaggio.

Tirò fuori dallo zaino la spazzola e la passò sui lisci capelli corvini che le arrivavano alle spalle. Li portava raccolti sulla nuca da un fermaglio che toglieva solo in casa, quando non aveva da lavorare, perché non riusciva a concentrarsi a scrivere con i capelli sciolti sulle spalle, le davano una sensazione di fastidio e di disordine.

Si spruzzò un tocco di essenza di lavanda e si guardò allo specchio. Aveva trentacinque anni, ma come età dimostrava di essere sotto la trentina. Aveva sempre cercato di curarsi e di mantenersi carina, ma nonostante questo aveva avuto solo storie brevi e scarsamente significative. Alla fine si era buttata a capofitto sul lavoro e in breve tempo aveva fatto carriera.

Sola, in piedi davanti alla sua immagine riflessa nello specchio, meditava. Si sentiva addosso la responsabilità del nuovo incarico. Guardandosi dentro sapeva che in verità era meglio dividerlo con qualcuno. E infatti apprezzava che il consiglio di redazione avesse eletto quasi all’unanimità Benjamin come suo collaboratore. Ma se lui avesse lasciato l’incarico, non sarebbe stato certo facile trovare la persona adatta a rimpiazzare Benjamin.

Scrollò la testa e respirò profondamente, come per ritornare al punto dove era rimasta; guardò l’orologio: le sette e quarantacinque. Era ora di ripartire, Benjamin probabilmente la stava già aspettando. Chiuse lo zaino ed entrò velocemente nel WC.

Prima di uscire dalla toilette si guardò allo specchio un’ultima volta e ripromise a sé stessa che avrebbe tenuto gli occhi bene aperti per svolgere al meglio il suo lavoro.

Le nove di sera. Benjamin e Grazia erano imbottigliati con

la macchina all'altezza di Fiano Romano, poco prima dello svincolo per Roma Nord. Per giunta aveva cominciato a piovere a dirotto. L’acqua che cadeva fitta impediva la visuale delle corsie.

La fila di auto ferme formava una sinistra, lugubre processione intervallata da centinaia di fari rossi accesi, minacciosi; lanterne scarlatte danzanti nella pioggia. Aveva

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tutta l'aria di una coda lunga almeno quattro, cinque chilometri, perché erano fermi già da un po' senza che nessuno si muovesse. Intanto il tergicristalli spazzava via con furia ritmica l’acqua che a fiotti si riversava sul parabrezza.

“Questa proprio non ci voleva!” esclamò Benjamin spazientito, che già contemplava svanire la sua brillante idea di chiamare Edoardo Righetti direttamente da Roma. “Trovami se alla radio stanno segnalando l'incidente” sbottò rivolto a Grazia.

Forse si trattava di un incidente di poco conto, pensava Benjamin; ancora un quarto d'ora, mezz'ora al massimo e una volta sgombrate le corsie il traffico avrebbe ripreso a scorrere regolarmente. Oppure no. D’altronde era in corso un violento acquazzone. Avrebbero dovuto aspettare ore prima che le forze dell'ordine sbloccassero la situazione. Magari sarebbero dovuti intervenire anche i vigili del fuoco, chi poteva saperlo? In effetti dalla sua posizione non vedeva altro che l'oscurità della notte, punteggiata dai minuscoli fanalini rossi delle automobili accese.

“Ma stai cercando le frequenze giuste o stai dormendo, Grazia?!” sbraitò di nuovo, questa volta più accalorato.

Sentendo che il suo compagno di viaggio la chiamava per nome, Grazia scattò seduta sul sedile dove si era raggomitolata, dopo essere placidamente scivolata nel sonno.

“Eh, cosa c'è?” chiese a Benjamin sbadigliando e stropicciandosi gli occhi “lo sai che stavo sognando? È sbagliato svegliare qualcuno nel bel mezzo di un sogno: può essergli di grave danno”. E dopo un altro sbadiglio, ed essersi nel contempo guardata intorno fugacemente “Ma siamo tutti fermi!” esclamò sbalordita. “Adesso cosa si fa?”.

“Per la terza volta, Grazia, cercami le frequenze alla radio dove parlano dell'incidente!” rispose secco Benjamin. Era diventato nervoso e aveva alzato notevolmente il tono di voce.

Senza dire una parola Grazia allungò subito la mano per accendere la radio e sintonizzarla sulla frequenza giusta. “...E infine segnaliamo sette chilometri di coda sulla A1, a sei chilometri dall’uscita di Roma Nord... Il prossimo aggiornamento fra trenta minuti". Pausa. E poi la speaker

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riprese con la consueta voce melodiosa “Lasciamo ora spazio per un'altra canzone: una bellissima voce italiana...”

“Vuoi che spenga o che lasci acceso?” domandò a Benjamin.

“Lascia pure acceso, basta che tieni basso il volume. In questo momento sto pensando” le rispose in modo frettoloso, senza guardarla. E poi aggiunse, come stesse pensando da solo ad alta voce, non badando alla sua collega che invece lo stava ascoltando: “Maledette strade italiane: mai che si decidano ad allargarle. Il tratto appenninico, poi, andrebbe raso al suolo e al suo posto dovrebbero costruire un viadotto a quattro, cinque corsie! Come in America! Lì sì che sanno come si costruiscono le strade! ”.

“E’ perché là avete tutto lo spazio che volete. Per questo fate autostrade enormi” sbottò Grazia.

Sbirciò il suo compagno: si era tutto rabbuiato in volto; una vena pulsava velocemente sulla fronte corrugata. Aveva tutta l'aria di essersi indurito, come se qualcosa non andasse per il verso giusto.

“Dopo tutto cos'era successo?” pensò Grazia, “un normale incidente come ne capitano sempre sulle autostrade italiane”. Lei non si stava certo agitando in quel modo. Per di più alla radio non avevano menzionato feriti o peggio ancora vittime: quindi la situazione si sarebbe certamente sbloccata. Ci volevano solo un po’ di pazienza e di buon umore.

“Non prevedo niente di buono” sentenziò Benjamin accigliato.

“Cosa intendi?” Grazia cominciava a spazientirsi del carattere scontroso e irascibile del collega.

“Che arriveremo a Roma a notte inoltrata!” sibilò a denti stretti.

“Anche se non pernottiamo dal tuo amico, ci sono pur sempre gli alberghi. Quelli sono aperti tutta la notte” cercò di essere il più ragionevole possibile, per non irritarlo di più.

Ma Benjamin sembrava non stare ad ascoltarla. “Accidenti, Grazia, ma non capisci? Non potrò chiamare il mio amico! Anche ammesso arrivassimo entro le dieci, non è certo l’ora di disturbare qualcuno che potrebbe essere sul punto di andare a

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dormire!” proseguì sul punto di perdere la poca pazienza rimastagli.

Per un attimo Grazia rimase di sasso. Calò il silenzio tra loro.

La colonna di auto ferme non faceva nessun accenno a muoversi. Ognuno di loro due guardava fuori dalla propria parte di parabrezza e rifletteva. La musica della radio, in sottofondo, era l’unica distrazione dai pensieri più cupi. Il gelo forzato comunque durò poco, perché all’improvviso Benjamin sembrò riscuotersi, come uscisse in quel momento dallo stato malevolo di poco prima.

Tornato in sé, si rese conto di aver un po’ esagerato irrigidendosi a quel modo. Per fortuna, Grazia aveva incassato con dignità.

Si voltò verso Grazia con l’intenzione di riannodare il filo interrotto del loro dialogo precedente: “Scusami. Ti faccio preoccupare con questo mio caratteraccio, vero? Eppure capisci cosa mi passa per la testa: succede così quando si muore d'impazienza dalla voglia di vedere un vecchio amico, o una persona cara. Non trovi? E tu quando pensi di sentire la tua talpa?”.

“Gli telefonerò dall’albergo per metterci d’accordo” rispose evasiva.

Per la prima volta Benjamin guardò con dolcezza la sua collega. Voleva che Grazia non pensasse male di lui, anche se tra colleghi giornalisti erano abituati a trattarsi senza i guanti di velluto. “Non c’è tempo per i convenevoli e i modi garbati”: quante volte aveva sentito gli altri giustificare a quel modo la loro durezza. Lui stesso non ci faceva più caso se gli capitava di essere sbrigativo, a volte persino maleducato. Pazienza! Colpa del duro lavoro di giornalista. Ora però si ritrovò ad ammettere tra sé che essere stato sgarbato con Grazia gli dispiaceva. In fondo voleva che Grazia non stesse in pensiero, né per la situazione in cui si erano imbattuti, né tanto meno per lui.

“Allora, come ti senti adesso ?”. Le prese per un attimo la mano.

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Colta alla sprovvista da quella piccola e innocua avance, Grazia sentì che sarebbe diventata dello stesso colore di un peperone se non si fosse data da fare a rispondere qualcosa.

“Tutto o.k.” riuscì a rispondere, e ritrasse in fretta la mano. Respirò per prendere aria.

“Ma sei sempre così intrattabile con tutti, o sono io che ho la capacità di farti uscire dai gangheri? Siamo appena partiti e già ti arrabbi con me perché mi sono addormentata: santo cielo, ma devo domandarti il permesso per chiudere gli occhi? Perché poi non chiami col cellulare il tuo amico, se proprio ci tieni così tanto?” tagliò corto.

A lui non rimase altro da fare che rimettere le mani sul volante, guardando sconsolato le macchine davanti a sé. Tutto stava fermo: un lunghissimo serpentone rosso in letargo.

La radio che nel frattempo era rimasta accesa, seppure a volume basso, rilasciò proprio in quel momento le note sofisticate e romantiche di una famosa canzone d’oltreoceano di qualche anno prima. Grazia si stiracchiò per rilassarsi: non valeva la pena di prendersela tanto. La musica era venuta a distrarla: ogni nota che vibrava nell’aria assomigliava ad una dolce compagna che alleggeriva la tensione tra lei e Benjamin.

“Oh, ecco un po’ di sana musica americana!” disse Benjamin, per spezzare l’aria.

“È una delle mie canzoni preferite, questa!” aggiunse di rimando Grazia. C'era un lievissimo fondo di piacere nel tono della sua voce.

Senza che lei dicesse nulla, Benjamin alzò il volume per ascoltare meglio, sperando di affievolire l’incomprensione che si era creata. Il cuore appesantito di Grazia sussultò di una piccola gioia.

Bastarono poche note diffuse nell'abitacolo dell'auto a scemare il nervosismo tra loro due, lasciando il posto ad un'atmosfera più distesa.

Grazia appoggiò la testa contro lo schienale morbido della Mercedes, rilassandosi alla voce calda del cantante di colore. Chiuse gli occhi. Come onde del mare che si infrangono sulla spiaggia i suoi pensieri andavano e venivano dolcemente, cullati dal rumore del motore acceso dell'auto in sottofondo. “In fondo sono successe troppe cose, tutte in una volta. Facile

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che i nervi non reggano, sia i miei che i suoi…” pensò. In realtà godeva della sensazione del tepore della mano di lui sulla sua pelle. Aveva fatto in tempo a sentire la sua stretta forte e sicura, anche se solo per un attimo.

Quando la canzone finì Grazia aprì gli occhi. Benjamin la stava guardando. “Come va?” le domandò con aria conciliante.

“Peccato che siamo ancora fermi!” gli rispose. Intanto Benjamin era ancora lì che la guardava, in silenzio.

I suoi occhi chiarissimi la fissavano con naturalezza; non era uno sguardo intenso, né preoccupato, né particolarmente significativo. Semplicemente la guardava. Allora lei sentì nascerle dal profondo una nuova fiducia in sé, e sentendosi a suo agio propose:

“Senti, ricominciamo da capo. Sei d'accordo?” “Penso sia la cosa migliore” le sorrise. Si strinsero le mani. “Allora intesi. Cambiamo discorso. Raccontami di te e di

Edoardo: è da tanto che lo conosci? E come vi siete incontrati?” Grazia aveva evidentemente voglia di portare la conversazione su altri argomenti.

Benjamin fu colto alla sprovvista. Non aveva immaginato di destare la curiosità della sua amica nominando Edoardo. Questo nome doveva passare semplicemente come una notizia tra le tante buttate lì, e ci sarebbe riuscito se non avesse commesso l’errore di perdere la pazienza a causa della coda che li aveva sorpresi in autostrada. Adesso non rimaneva che rimediare a quell’imprudenza. Non poteva più tirarsi indietro. Doveva raccontare una storia il più verosimile possibile, sperando solo di non combinare altri guai.

“Siamo stati compagni di corso per un anno, quando sono venuto a Roma dall’America per frequentare i corsi di Lingua e Letteratura italiana alla Sapienza. Avevo una borsa di studio dal mio college” fin qui Benjamin non aveva detto nulla di falso perché era veramente venuto per un anno a studiare in Italia “per la verità mi interessava unicamente approfondire la lingua, perciò non seguivo proprio le lezioni all’Università. Tenevo un programma di studi tutto mio: fermarmi nei bar a parlare con chi trovavo sorseggiando amabilmente un caffè; scrivere articoli per un settimanale mediocre, che mi avrà

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pagato tre o quattro volte in tutto; frequentare regolarmente i corsi di Storia Contemporanea, la mia passione… – anche questo era tutto vero – Edoardo devo averlo incontrato una delle rare volte che andavo a sentire le lezioni di italiano, perché mi ricordo che lui era iscritto a Lettere …” speriamo di avere inventato giusto, si augurò Benjamin.

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SABATO 15 Marzo

VIII

Il giorno successivo Giulia si ripromise di non pensare al paziente della stanza numero trentuno, per concentrarsi solo sull’appartamento.

Purtroppo quella mattina il lavoro di archiviazione degli esami fatti dai pazienti durante i mesi precedenti si stava rivelando di una noia mortale. Mentre sbrigava l’incombenza la sua mente si trastullava col pensiero della rivista di cucito che aveva appena comprato, per ricamare a punto croce su tutti e quattro i cuscini del divano la scritta “home, sweet home”.

Intanto sfilava uno dopo l’altro gli esami dalla loro busta e controllava che il nominativo sul foglio corrispondesse all’intestazione sulla busta; poi sigillava la busta e alla fine riponeva pacchi di buste chiuse nell’armadietto con la scritta: “Analisi di laboratorio: pazienti A-L, Luglio-Dicembre 2056”.

Nel frattempo il suo sguardo si posava con noncuranza sulla stanza, tracciando un percorso che dalla finestra si spostava sugli oggetti disposti qua e la sul tavolo, fino ad adocchiare ogni tanto sulle buste il nome stravagante di qualche paziente. Accanto a lei, su un mobiletto più basso, tre enormi scatole di fogli l’aspettavano per essere ancora inventariati.

Fu un attimo. Di sfuggita le cadde l’occhio su un nome: Martin Fischer, e su una data: il 6 Agosto dello scorso anno. “È già stato ricoverato qui sette mesi fa!” le balenò nella mente.

D’un tratto il plico di fogli che teneva in mano divenne preziosissimo. Le sfiorò la mente l’idea che, forse, doveva riporlo nella busta attigua e farla finita. Morta lì. “Sta diventando una persecuzione: me lo ritrovo anche adesso, qui…” pensò. E si rammentò pure che lui l’aveva già rimproverata per essersi impossessata di qualcosa di suo che non le apparteneva. “La curiosità è femmina…” aveva acidamente sentenziato.

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Ora si ripresentava la medesima situazione, a un solo giorno di distanza. Valutò il da farsi, incapace di staccare le dita da quei fogli. Pochi secondi le furono più che sufficienti per decidere: alla fine abbandonò ogni remora e scorse freneticamente ognuna delle facciate degli esami di Fischer. “In fondo” rispose a sé stessa come per scusarsi “lo faccio soltanto per capire cosa gli è successo e, se posso, poterlo aiutare”.

Arrivò fino in fondo: era tutto a posto. Sembrava un ricovero per un semplice accertamento clinico, esami di routine per un check-up completo. Ricominciò a percorrere da cima a fondo la lista una seconda volta: emocromo, glicemia, urine… niente. Non riusciva a trovare niente che non andasse bene. “Ma come, se adesso è qui debole come un uccellino…” macinava dentro di sé. Allora di colpo capì. In realtà sei mesi prima Fischer stava benissimo! Solo dopo di allora doveva essergli successo qualcosa di grosso che l’aveva condotto ad un passo dal coma diabetico e tutto il resto!

Si passò le mani tra i capelli e rimuginò pensierosa. Si alzò per cercare nell’archivio altri eventuali ricoveri, ma non ne trovò. Fece mente locale: è vero che aveva deciso di non prestare più attenzione a quell’uomo, ma ora, dopo aver scoperto una cosa così importante, vedeva quell’ammalato sotto un’altra luce. Avrebbe voluto capire cos’era che l’aveva condotto fino a quel punto.

Alzò la testa e guardò fuori dalla finestra per schiarirsi le idee. La luce era soffice, dorata, segno che le fredde giornate di Marzo ormai cominciavano a mitigarsi. Sbirciò veloce l’orologio al polso: le dieci di mattina. Quell’orario le risuonò in testa come un campanello d’allarme. Si levò in piedi bruscamente e corse fuori dalla stanza: a quell’ora Fischer avrebbe già potuto essersene andato! In fondo era dal giorno prima che tirava aria di dimissioni per il paziente della stanza numero trentuno. Giulia se lo rammentava bene. E se fosse veramente già stato dimesso? Se non avesse più potuto vederlo? Era frustrante aver scoperto quell’indizio, e non poter fare più niente.

Si diresse a passo veloce verso la stanza numero trentuno, ma si bloccò di colpo. Ritta sulla soglia della stanza emergeva

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una distinta signora impellicciata, all’apparenza poco più che cinquantenne, che parlava col medico di turno. La sua figura così addobbata nella lunga pelliccia si stagliava sul dottore in camice bianco. Giulia vide che il medico di guardia quella mattina era il dott. Albrigi, il braccio destro del Primario; a quanto ne sapeva lei, era una brava persona.

La signora ascoltava attentamente, annuendo ogni tanto con modi cortesi. Da costei emanava una sorta di placida tranquillità. Per un attimo Giulia immaginò sua madre al posto di quella donna facoltosa, e le si materializzò la scena davanti agli occhi: sua madre tutta indaffarata a porre domande al dottore, agitata ogni qualvolta lui avesse aperto bocca, in apprensione al momento di congedarsi, spazientita una volta rimasta sola per non averne saputo di più. Davvero sua madre, un’instancabile pettegola, minuta come un topolino, riusciva in modo infallibile a far perdere a chiunque le buone maniere.

Era quello uno dei principali motivi per cui aveva deciso di andarsene dalla casa dei suoi genitori, causando loro un dolore vivissimo, specialmente nel padre. Costui avrebbe voluto vederla felicemente sistemata con una bella fede al dito, invece lei l’aveva deluso dandogli la notizia – a lui solo – che sarebbe andata a convivere con il suo ragazzo. Non c’era nessun matrimonio in programma.

“Ah, se ne va a stare con quello?”. Giulia aveva sentito i genitori scambiarsi le rispettive vedute in cucina, a porta chiusa ma con un tono di voce che purtroppo passava i muri. Sua madre pareva isterica: “Bè, che se ne vada pure e non provi a tornare, perché nel qual caso dovrà passare sul mio corpo…!”. “Ma Rebecca, ragiona, è tua figlia. E se poi si accorge di essere stata troppo precipitosa? Se lui non fosse l’uomo per lei? Se ci chiede di riaccoglierla in casa? Tu le vuoi lasciare la porta chiusa?” martellava suo padre addolorato. “Sì, sbarrata. Così impara che non è il modo di vivere giusto, quello…” inveiva la madre. “Non ti riconosco più, Rebecca. Mi dispiace, ma hai torto. Un genitore non può mai comportarsi come se il figlio fosse solo un cane da bastonare quando ne commette una delle sue. Bisogna capirli, questi nostri figli, comprenderli, accettarli, amarli, perdonarli…”continuava suo padre con commovente ardore.

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Ma la madre non era nemmeno stata ad ascoltare le ultime parole che già era lì, pronta a rimbeccare: “Io non voglio che lei se ne vada via in questo modo”, e poi gridando sempre più forte “NON-LO-TOL-LE-RO! Che razza di scelta è, quella di Giulia? Almeno andasse a vivere da sola! Quel ragazzo non mi piace un bel niente. Le mangerà i soldi. Ecco perché non dovrebbe andare a starci insieme”.

Giulia a questo punto non era più stata ad ascoltare, si era rifugiata in camera sua e aveva acceso lo stereo. Certe frasi era meglio non sentirle.

Scacciò dalla mente il ricordo di quella sera e della litigata furibonda dei suoi genitori.

Ora si trovava in ospedale, e il suo turno non era ancora terminato.

Aveva appena allontanato il ricordo di sua madre, quando sentì il dott. Albrigi che la stava chiamando. “Giulia, la prego” le stava dicendo in modo garbato “porti questa cartella clinica nella sala della capo-reparto”. Giulia accorse. Poi il dottore si voltò, e con il viso verso l’interno della camera, il braccio levato in aria come per cingere la schiena del giovane e accompagnarlo fuori: “Il nostro più giovane paziente ci lascia. In effetti mi dispiace” disse rivolto a quella che doveva essere la madre dell’uomo “sa, abbassava l’età media qui dentro. Peccato, comunque meglio fuori che dentro. È naturale”. Il giovane non mostrò la minima traccia di un sorriso. La signora si limitò ad annuire col capo in una specie di approvazione. Fu sul punto di porre una domanda, ma si trattenne. Giulia era lì accanto a loro. Appena il dottore le mise in mano la cartella, Giulia cercò con noncuranza di lanciare uno sguardo fugace sulla voce “dimissione”, ma evidentemente il suo sguardo dovette risultare troppo allusivo, perché il dottor Albrigi senza preavviso le afferrò la cartelletta, togliendogliela maldestramente di mano. Lui si avvide del gesto audace, e come per scusarsi affermò, con la consueta cortesia: “Mi scusi tanto, Giulia, mi ero dimenticato di aggiungere una cosa nel compilare la scheda clinica. Capita a tutti di sbagliare, quando ci sono troppe visite da svolgere…”.

E poi rivolto alla signora e all’uomo che ormai erano giunti ad un palmo dalla porta pieghevole per uscire, disse: “Allora,

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vi auguro buon proseguimento. Per qualsiasi cosa io e il primario siamo qui” e accomiatandosi allungò la mano per stringere quella della signora impellicciata. Non toccò invece l’uomo, ma si limitò ad un semplice: “Stia bene, Martin”. Si girò e s’affrettò a passi rapidi e lunghi verso la sala della caporeparto.

Giulia rimase lì davanti a loro a bocca aperta, con la sensazione di essere stata colta in flagrante. Non sapeva cosa fare. Scoccò un rapido sguardo alle due persone davanti a lei, in procinto di partire. Le loro espressioni risultavano indecifrabili. Ma ad un tratto la signora impellicciata si fece avanti, e le chiese con voce suadente: “Mi scusi, signorina, può dirmi qual è la prossima volta che è di turno il primario, qui in reparto?”. Giulia notò che possedeva un accento straniero. L’uomo accanto alla signora guardava Giulia di traverso, con un mezzo sorriso più simile ad un ghigno, dava sempre l’impressione di stare sulle sue. Giulia notò lo sguardo fiero e altèro, la postura eretta, il contegno sprezzante.

Ricambiò il fare disgustoso dell’uomo ignorandolo, e fissò invece la signora per la quale sfoderò un bellissimo sorriso, rispondendole: “Il dott. Cespi, il primario, è qui solo il lunedì mattina, tra le nove e le dieci. Vuole che gli riferisca qualcosa?”.

“No, grazie…”. Ora la signora parve indugiare alquanto perplessa, come stesse soppesando quali parole usare. “Ecco, se non è troppo disturbo, può lasciare detto al dott. Cespi che ci telefoni al più presto? Oppure mi metterò io in contatto con lui, sempre che lo trovi, nel suo studio. È sempre via tra convegni, riunioni e altro del genere…”. Guardò Giulia, la quale a sua volta contraccambiò con uno sguardo comprensivo, annuendo col capo perché era vero che il primario era spesso irreperibile. Continuò apparentemente più a suo agio: “Lui conosce bene la mia famiglia, e la mia, ehm…situazione”. Il tono di voce aveva assunto una nota d’ansia e d’imbarazzo. Nella mente di Giulia s’affacciò la terribile ipotesi che, forse, la signora volesse alludere ad una questione della massima importanza. Un’espressione attonita e sbigottita le si dipinse in volto. Fissò con più attenzione la signora, che pareva volesse dirle con la sola forza dello

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sguardo: “Mi aiuti, faccia presto, si tratta di una faccenda di vita o di morte”. Ma che non fosse elucubrare un po’ troppo, si chiese Giulia?

Impaziente l’uomo trasse un sospiro di fastidio, sbuffò e guardò torvo la donna. Aprì bocca: “Oh, insomma, la vuoi smettere, zia?!” esclamò spazientito. A Giulia parve di non avere sentito bene. Ma allora quella non era sua madre? Intanto l’uomo continuava a parlare: “Sto bene, fidati! Adesso però andiamo. Non ti basta quello che ti ha appena detto il dottore?”. E prese la valigia come per mettere fine a quella che ai suoi occhi era sicuramente un’inutile discussione.

Fu come un lampo. La donna si spaventò, s’avvicinò a Giulia fingendo di stringerle la mano per salutarla, ma le farfugliò velocemente nell’orecchio: “ Per piacere, signorina, dica al dott. Cespi di chiamare subito la signora Pollmann. Lo faccia, la prego… vedrà che sarà ricompensata…!”. Poi senza indugiare oltre, si voltò verso il giovane che aveva già aperto la porta del reparto e l’attendeva dandole le spalle, pronto ad andarsene. I due scomparirono dietro di essa.

Giulia rimase lì inebetita, davanti alla porta ormai richiusa. Non aveva capito bene se doveva svolgere un semplice favore o se aveva appena ricevuto un incarico di grande importanza.

“Sarà ricompensata!...” le rimbombava nelle orecchie, mettendola sull’attenti. La cosa non le piaceva affatto. Si voltò, tornando indietro sui suoi passi più perplessa che mai.

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IX

I tavolini sotto il patio ricolmo di verde erano già tutti apparecchiati per la colazione.

Si accedeva al patio attraverso un ampio salone, che all’occorrenza fungeva anche da sala da pranzo, che collegava la hall dell’albergo con il pergolato ombreggiato sul retro.

Quasi tutti i clienti che in quel momento soggiornavano all’albergo “De Nevers” si trovavano nella veranda, a sorseggiare le loro calde bevande della prima colazione.

Su un tavolone centrale, addobbato con una tovaglia bianca di lino ricamata, pressoché identica a quelle più piccole che ricoprivano gli altri tavolini, era stata appoggiata una quantità considerevole di cibo. C’era una grande macchina per l’acqua calda che erogava, a richiesta, tè, caffè, cappuccino, e vari infusi. Bricchi di latte caldo fumante erano appoggiati lì accanto, insieme a thermos di caffè, e a caraffe di succo d’arancia e di pompelmo. Biscotti, fette biscottate, panini soffici e freschi, miele e marmellate erano ordinatamente disposti in bella fila, a destra della macchina elettrica. Alla sinistra stavano tutti i dolci immaginabili: brioches, croissant, torte di mele e di mandorle, crostate alla frutta, mignon alla crema. Un’enorme cesto di frutta spuntava dietro la macchina erogatrice delle bevande.

Un cameriere girava tra i tavoli a prendere le ordinazioni dei clienti.

Il patio era tutto lastricato di cotto. Lungo il perimetro erano disposte colonne di legno chiaro a cadenza regolare, alte circa due metri e mezzo. Dalla sommità spiccavano un balzo fino a congiungersi tutte in un unico punto centrale, originando una specie di cupola i cui costoloni di legno parevano i raggi di una stella. L’edera la ricopriva tutta per intero. Sui tronchi di legno che svettavano fino alla volta stavano attorcigliati rami di glicine. Infine nei quattro angoli alle estremità vasi enormi di primule, viole e ciclamini attiravano gli sguardi dei turisti, estasiati da tanta bellezza.

Grazia si era sistemata su un tavolo d’angolo, uno di quelli con solo due sedie. A dispetto della meraviglia che emanava da quell’ambiente, aveva un’aria seccata e scontrosa. Aveva

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già fatto colazione, una semplice brioche con cappuccino, e il cameriere aveva già provveduto con solerzia a sparecchiare il tavolo. Lei era rimasta lì, a buttare giù appunti sul suo notebook. La sua borsa era ordinatamente appoggiata sull’altra sedia. Sul tavolo aveva disposto con precisione meticolosa il suo telefono cellulare, la sua agendina viola e la guida tascabile di Roma. Più in là, il consueto pacchetto di sigarette e l’accendino con la scritta: “Roma, I love you”. L’aveva appositamente prelevato dalla sua personale collezione di accendini, prima di partire.

In quel momento aveva smesso di scrivere e il viso era appoggiato sul palmo della mano, sollevato in direzione della finestra più vicina. Fuori il cielo era sempre cupo, come quello bigio lasciato a Milano il giorno precedente. Pesanti nuvoloni lo fendevano, minacciando bufera. La spessa coltre sembrava incombere sulle teste dei passanti che camminavano frettolosi lungo la strada. Solo l’aria era più calda rispetto a quella del nord Italia. Grazia se n’era resa conto subito la mattina appena alzata, quando aveva aperto le finestre e aveva respirato l’aria di Piazza di Spagna. Riusciva anche a scorgere il Tevere in lontananza, in fondo alla stradina dell’albergo costeggiata su ambo i lati da vecchi palazzi.

Seduta al tavolo, sempre con lo sguardo fisso alla finestra, si concesse una pausa per accendersi una sigaretta. Ripensò al suo risveglio: quella mattina si era alzata felice. Felice di essere lì, felice che con lei ci fosse Benjamin.

Erano arrivati a notte fonda, spossati come non avessero fatto altro che sollevare sacchi di piombo per tutta la giornata. Erano riusciti a malapena ad accordarsi sull’orario di ritrovo per la colazione; tra sbadigli vicendevoli e strofinii degli occhi, a tutti e due era parso ovvio che non sarebbero comparsi fuori dalle loro stanze prima delle nove.

Così appena alzata, Grazia si era fatta la doccia e lavata i capelli. Aveva perso un po’ di tempo anche ad arricciarsi i capelli, mentre li asciugava con dei grossi bigodini. Di modo che una volta che li avesse raccolti come sempre sulla nuca, avrebbe lasciato cadere ad arte alcune ciocche morbide qua e là. Si era contemplata allo specchio felice del risultato, dopo aver indossato un completo informale che metteva in risalto il

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viso olivastro e i lucenti capelli neri. Si era truccata con cura. Non avrebbe potuto fare di meglio e più in fretta. Alle nove in punto era giù nel patio che sorseggiava il suo cappuccino, intenta a scrutare il salone su cui si avvicendavano avanti e indietro i vari ospiti. Ma di Benjamin neppure l’ombra.

Fece colazione con calma, mentre le lancette dell’orologio si spostavano verso le nove e un quarto, e poi verso le nove e trenta. Ancora niente. Così non le era rimasto che concentrarsi da sola sui più recenti avvenimenti del giorno. Si era collegata attraverso il web alla redazione, e stava spulciando le varie notizie, inviando e-mail ai suoi collaboratori; il telefono lo riservava alle necessità più impellenti, mentre con la “talpa” si era già accordata per vedersi di lì a poco. Si era fatta consegnare anche svariati altri quotidiani, e ora, dopo averli sfogliati senza dimostrare il benché minimo interesse, guardava distrattamente il brutto tempo che incombeva fuori dalla finestra. Il suo sguardo era spento, deluso, vuoto.

Lei e Benjamin erano letteralmente capitati in quell’albergo, senza tanta premeditazione. Usciti al casello di Roma Nord verso la mezzanotte precedente, sotto una pioggia battente, non avevano la benché minima idea di dove pernottare.

Mentre si lasciavano alle spalle il grande raccordo anulare per imboccare la strada provinciale che li avrebbe inoltrati in direzione di Roma città, Benjamin, sopraffatto dalla stanchezza, decise che era giunto il momento di prendere in mano la situazione. E seriamente. “Adesso facciamo come dico io” affermò con un tono che non ammetteva repliche.

Grazia rimase in silenzio, più assonnata che sveglia, aspettando ulteriori spiegazioni. Infatti Benjamin proseguì: “Tempo fa ho dormito in un albergo in Piazza di Spagna. Un posticino tranquillo e carino. Un po’ caro, ma ne vale sicuramente la pena. E poi, soprattutto, è l’unico che conosco. Non voglio girare ore e ore per la città, di notte, alla ricerca di una pensioncina sgangherata, solo per risparmiare un po’ di soldi. Quindi, non ci rimane altra scelta”.

Grazia bofonchiò un “ok”; avrebbe voluto chiedergli con chi c’era stato, ma era troppo oppressa dal sonno. Si sforzò di

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tenere a mente che gliel’avrebbe sicuramente domandato l’indomani.

Un po’ di curiosità, però, man mano che la città cominciava ad intravedersi, si affacciò nella mente di Grazia. “Come si chiama quest’albergo?”.

“Hotel de Nevers” rispose lui. “Quando c’ero stato, ho sentito i proprietari spiegare che avevano scelto quel nome perché erano innamorati della Francia. Così hanno pensato bene di assegnare al loro albergo un nome francese”.

“Forse speravano di catturare gli schizzinosi turisti francesi. Va benissimo, comunque. Purché abbia un buon letto e si mangi bene”.

“Vedrai, sarai soddisfatta”. Dal Corso di Francia, nel frattempo, avevano imboccato il

Viale dei Parioli, e infine la via Pinciana, arrivando così a ridosso del Campo Marzio. Ormai erano nel cuore della Città Eterna. Si lasciarono alle spalle Trinità dei Monti – nel mentre, sfilavano accanto alla famosa scalinata – e poi Benjamin puntò diritto verso Piazza di Spagna. Ormai era quasi l’una di notte. Anche se era ormai del tutto addormentata, Grazia riuscì ad emettere un “Che beeella!”, prima di piombare in un lieve dormiveglia. Proprio in quel momento Benjamin voltò in uno dei tanti vialetti caratteristici e spense il motore.

“Siamo arrivati” disse rivolto a Grazia. Ma poiché lei ormai dormiva, la svegliò scuotendole vigorosamente il braccio e poi la spalla. “Grazia, andiamo, su dai che ti aiuto a scendere. Sembra che tu non dorma da una settimana!”.

Grazia aprì di malavoglia gli occhi e si guardò intorno. La viuzza doveva essere molto frequentata di giorno, visto che si trovava praticamente dietro una delle piazze più famose di tutta Roma. Ma ora si sarebbe potuta certamente dire buia e spoglia, se non per i pochi lampioni stile ottocento che la illuminavano fiocamente. La facciata dell’albergo ricordava lo stile anni venti, con rami di lillà che le crescevano intorno e si arrampicavano su per i muri. La porta era un bel modello restaurato di Art Nouveau. Una lampada Tiffany poggiava pigramente sul bancone della reception.

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Anche all’interno erano disposti ad arte tocchi del passato. Di fronte al bancone della reception s’intravvedeva un prezioso orologio a pendolo, funzionante. Nell’altra stanza in ombra si ergeva un bar in legno con un massiccio piano in marmo. Nell’entrata c’era anche una fontanella di marmo finta.

Il portiere prese le loro generalità e consegnò loro una chiave d’ottone dalla foggia antiquata. “Che siano autentiche?” pensò Grazia. Sentì la voce del portiere che scandiva “Camere numero venti e ventuno, signori”. Dopo di che, senza tanti convenevoli e morti di sonno, avevano infilato la scalinata verso i piani superiori ed erano scomparsi dietro le porte delle loro rispettive stanze.

Purtroppo Grazia aveva preso le ultime parole di Benjamin alla stregua di quelle di un testamento autografo. Senza ombra di dubbio era sicura che si sarebbero visti alle nove della mattina successiva. Si ricordava solo, mentre si sfilava i jeans per infilarsi senza indugio sotto le coperte, che aveva pensato: “Chissà cosa direbbero al giornale, se sapessero che io e Benjamin siamo qui…”. E poi il sonno aveva preso il sopravvento.

Benjamin quel sabato mattina si era levato con un’ora di

anticipo sul loro appuntamento, perché voleva sgattaiolare fuori dall’albergo per chiamare con comodo Righetti. Solo che, mentre era lì che gironzolava per Piazza di Spagna con l’intenzione di imboccare Via Condotti, diretto verso “L’antico Caffè Greco” da dove erano passati un mucchio di scrittori, musicisti e artisti stranieri, gli sovvenne che, forse, non era il caso di disturbare un tranquillo signore così presto.

Si lasciò trasportare dalla folla di turisti che aveva già cominciato ad invadere la Piazza e le sue vie adiacenti: un fiume in piena che ogni tanto spandeva dei rivoli ora attorno alla scalinata spagnola, ora sul sagrato delle chiese celebri, ora all’interno delle vie più caratteristiche. Benjamin fu trascinato dalla corrente fin davanti all’insegna del “Caffè Greco”. Il locale aveva una saletta interna zeppa dei ritratti e dei busti degli avventori più famosi. L’americano la rigirò in lungo e in largo: i piccoli tavolini ovali abbelliti in cima da una sottile

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lastra di marmo erano già quasi tutti occupati, anche se erano passate da poco le otto e trenta. Non gli rimase che sorseggiare in piedi il suo caffè lungo, assaporandone l’aroma forte ed intenso all’inizio di quella che gli pareva una promettente giornata. Anche lui era rimasto colpito dalla temperatura mite di cui si godeva in città, nonostante la coltre color grigio fumo che incombeva sulla sua testa; ma era troppo preso dall’idea di dover a tutti i costi mettersi in contatto con Righetti. Per cui, senza far troppo caso al tempo atmosferico, s’incamminò per il centro storico aspettando che venissero almeno le dieci per telefonare. Si era completamente dimenticato delle parole rivolte a Grazia quella notte. Per la verità, gli sembrava di non aver detto proprio un bel niente. Rammentava solo di aver aperto in tutta fretta la porta della camera e di essere piombato a peso morto sul letto. Doveva essersi svestito, però, perché la mattina si era ritrovato sotto le coperte, in canottiera e boxer.

Ora era tranquillamente seduto su una panchina che sfogliava avidamente il quotidiano per il quale lavorava. Ma aveva gettato anche lì accanto quelli della concorrenza. Li avrebbe letti più tardi. Indossava dei pratici jeans scuri ed un golf verde chiaro dallo scollo a V, con sotto una camicia a quadratini bianchi e blu. La giacca l’aveva lasciata in albergo perché c’era troppo caldo per girare con quella.

Dopo aver passato in rassegna con avidità tutti i quotidiani, dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere, dopo aver analizzato ogni bancarella di frutta e verdura presente sulla piazza, venne il momento tanto atteso: l’orologio di Trinità dei Monti batté dieci rintocchi.

Benjamin non poteva attendere più a lungo. Si alzò dalla panchina e si avviò puntando dritto verso la cabina pubblica di fronte alla chiesa. Non voleva che la sua telefonata risultasse rintracciabile. Frank gli aveva detto di usare la massima segretezza. Pensò che doveva trattarsi di un lavoro delicato, forse riguardava alcune informazioni segrete di cui avrebbe potuto entrare in possesso, forse era un bene anche l’attuale situazione critica in cui versava il paese: le sue informazioni sarebbero state pagate dal giornale a peso d’oro... Compose il numero e aspettò.

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“Pronto?” rispose Edoardo. Il sabato aveva lezione a fine mattinata, per cui era ancora a casa.

“Parla Righetti?” domandò Benjamin. “Sì. Io con chi parlo, invece?” domandò l’altro con voce

neutra. “Mi chiamo Benjamin Tolosa. Sono un giornalista

americano. Lavoro da alcuni anni qui in Italia, come cronista per uno dei maggiori quotidiani nazionali”.

“Sì, la conosco, di nome intendo dire. Leggo il suo giornale tutti i giorni e vedo spesso i suoi pezzi siglati. Ha un bel modo di scrivere. Mi piace”. Era un complimento sincero. Benjamin lo avvertì subito, e si sentì enormemente più a suo agio. Parlò più apertamente: “Senta, siamo tutti e due uomini impegnati, almeno così presumo, quindi non voglio farle perdere tempo prezioso”. Edoardo lo incoraggiò, mostrando di gradire: “Vada pure avanti, signor Tolosa”.

L’altro dunque proseguì: “Vengo ora al punto: ho ricevuto proprio ieri un telegramma in cui mi si fa viva richiesta di farle visita per l’eventualità di una grossa cosa in ballo. Sa dirmi se è vero?”.

“Eccome!” esclamò Edoardo. “Posso confermarle che si tratta di un lavoro della massima importanza e, ehm, anche della massima segretezza, per ora”.

Benjamin non credeva alle proprie orecchie. Era molto soddisfatto. “Può dirmi se, secondo lei, si tratta di una cosa che potrebbe riguardare più da vicino il mio lavoro di giornalista?” domandò speranzoso. Aveva in mente che il materiale segreto di cui disponeva Righetti potesse in qualche modo comprendere anche delle informazioni sulle Stelle Spezzate”, l’argomento in assoluto di maggiore interesse nel paese. D’altronde i giornali non parlavano d’altro in quei giorni. Benjamin diede per scontato che l’unico stimolo a rivolgersi ad un giornale fosse dettato proprio dal motivo di possedere notizie riservate sugli avvenimenti che angustiavano così pesantemente l’Italia. Era probabile che anche Frank fosse capitato, per puro caso, nel giro di questi canali sotterranei di informazione.

“Certamente” rispose, “naturalmente una volta che sarà possibile divulgarle. Le assicuro che lei farà un colpo da

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maestro con queste rivelazioni. Senza dubbio avrà l’esclusiva. Ma tutto ciò avverrà più avanti, non ora”. Edoardo stava pensando alla risonanza mondiale della scoperta che il Vaticano aveva per le mani, una volta che fosse stata resa di dominio pubblico.

Benjamin, invece, che già si vedeva stringere tra le mani il premio “Penna d’oro” per il miglior giornalista dell’anno, era ormai praticamente certo che le notizie riservate possedute da quell’uomo fossero di natura politica. Per scrupolo domandò ancora: “Ha capito che sono un giornalista, vero? Mi conferma che le informazioni che lei possiede potranno venire utili al mio giornale? Che potrebbero avere a che fare, diciamo, con il problema della sicurezza nazionale? Con il bene supremo della nazione?”. Benjamin pensava che con quelle talpe, fatte uscire al momento giusto in prima pagina, forse l’Italia avrebbe potuto evitare il colpo di stato, o qualsiasi altra cosa le Stelle Spezzate stessero tramando di nascosto.

Edoardo per un attimo non capì cosa volesse intendere il giornalista, perché proprio in quel momento sua moglie gli urlò qualcosa dalla cucina. Riuscì solo a distinguere le parole finali della frase: “…per il bene della nazione”. Pensò che il giornalista volesse alludere all’effetto che avrebbe avuto la scoperta, una volta diffusa attraverso le reti tv e la carta stampata. Così rispose:

“Sicuramente. Si tratta di divulgare informazioni preziose per il bene dell’umanità” asserì senza battere ciglio. Stava pensando al valore assolutamente imperituro della Lettera ai Laodicesi. Una scoperta importantissima quanto la stele di Rosetta.

“Allora d’accordo. Non resta che vederci per parlarne di persona. Quando possiamo incontraci?” domandò Benjamin infervorato.

“Il prima possibile, direi”. “Per me anche subito”. Benjamin era raggiante. Peccato

che Edoardo non lo potesse vedere in viso. “No, ora no” rispose cortesemente Edoardo. “Devo andare

a scuola. Sono un insegnante. Potremmo vederci nel pomeriggio. Può venire a casa mia, se le è possibile,

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naturalmente. Presumo che lei sia notevolmente più impegnato di me”.

Benjamin si era aspettato che Edoardo fosse come minimo una persona con entrature nella politica. Che facesse il sotto-sotto-segretario di qualche ministro, o almeno il vice-vice-capo sindacalista o qualcos’altro del genere, insomma. Poteva anche lasciar correre che fosse un docente universitario o uno scrittore, ma un semplice professore questo no, non se l’era immaginato. Pensò che qualcosa non quadrasse. Ma dopotutto, poteva essersi perso qualche passaggio al telefono. Ridomandò: “Scusi, vorrei essere sicuro. Mi conferma che lei è il referente di una specie di inchiesta segreta sulle condizioni in cui versa oggi l’Italia?”.

Edoardo convenne. “In un certo senso, sì. Mettiamola così: la conoscenza di un libro molto, molto importante per la storia della nostra nazione sta per venire ridiscussa, ampliata, le cose potrebbero cambiare… in meglio, naturalmente. Presto l’italiano medio, che gode di una discreta cultura storica, troverà delle novità su cui riflettere ed entusiasmarsi. Le interessa?”.

Edoardo si riferiva evidentemente alla Bibbia; presto ogni persona avrebbe saputo che una parte di questo millenario libro era saltata fuori proprio ora. Non avrebbe potuto essere integrata tra i libri canonici, ma che importava: bastava fosse autentica, per giustificarne un simile valore. Benjamin al contrario pensò subito ai libri della massoneria, o di qualche setta o associazione segreta: era altamente probabile che fossero stati adottati dalle Stelle Spezzate; quei classici testi che, dati in pasto ad un pubblico famelico di notizie fresche, da soli facevano tendenza, senza bisogno di pubblicità.

Era tutto perfetto, allora. Rimaneva solo da accordarsi sulle modalità con cui si sarebbero visti:

“Va bene se la raggiungo io, oggi pomeriggio? Verso le quattro e trenta, diciamo?”. Aspettò. Dall’altro capo del telefono arrivò la conferma: “Va benissimo. Solo la devo informare di una ultimissima cosa. Può darsi che, per oggi pomeriggio, non saremo presenti tutti”. Benjamin sussultò. Come, non erano lui e il Righetti i soli a sapere di quella scoperta meravigliosa?

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“Come tutti?” s’informò col cuore in gola. Voleva che lo scoop fosse suo: solo suo.

“Ecco, vede, c’è un gruppo di persone che lavora all’edizione definitiva di un documento così importante. Sa, è veramente una cosa grossa. Lei e io, per quanto bravi possiamo essere ognuno nei nostri rispettivi campi di sapere, non siamo sufficienti ad interpretare correttamente un simile ritrovamento”.

A Benjamin parve di cominciare a capire un po’ meglio. Un grosso manoscritto della massoneria era stato ritrovato. Lui avrebbe fatto parte dell’equipe di lavoro:

“Ma almeno avrò l’esclusiva, quando sarà ora di rendere noti i risultati?” obbiettò.

“La conferenza stampa sarà presieduta nientemeno che da lei in persona. Le va bene?”. Edoardo era tranquillo e sicuro di sé. A Benjamin quelle parole sembrarono un sogno. Se fosse stato un tantino meno ottuso e meno assorbito dai suoi pensieri, si sarebbe ricordato di domandare chi fosse a finanziare la ricerca di tale preziosissimo reperto. Perché se avesse solo sentito che era il Vaticano ad aver avviato il progetto, avrebbe sicuramente capito che di un testo massone non si poteva certo trattare, e che quindi il lavoro in ballo non c’entrava un bel niente con la politica. Ma, tant’è, il desiderio di gloria rende ciechi. Benjamin era così immerso nel contemplarsi già ricco e famoso, che si dimenticò di fare la fatidica domanda. Dall’altro capo del filo Edoardo non disse nient’altro. Cosicché Benjamin riagganciò con la certezza di avere finalmente trovato la gallina dalle uova d’oro.

Fece un’altra telefonata dalla cabina pubblica per accordarsi su ritrovo che avrebbe avuto quella sera, con vecchie conoscenze risalenti ai tempi del suo primo soggiorno a Roma. Preferì chiamare nuovamente dal posto pubblico per risparmiare il credito sul suo telefono cellulare.

Tornò in albergo che era quasi mezzogiorno. Aveva anche una discreta fame. Meditava già che non sarebbe stato niente male farsi portare giusto qualche piatto gustoso ad uno di quei carinissimi tavolini che aveva intravisto all’uscita dall’albergo. Davvero quel patio meritava molto, pensò tra se. E non c’era motivo per pranzare da solo. Avrebbe invitato

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anche Grazia, cosicché si sarebbero scambiati i risultati delle loro rispettive ricerche di quella mattina.

Bussò alla porta della collega. Nessuna risposta. Bussò di nuovo, più energicamente. Di nuovo nulla. Dall’interno della camera non proveniva nessun rumore. Alla terza volta batté vigorosamente il pugno sul legno della porta, dicendo a gran voce: “Grazia, ci sei?”. Questa volta un debole sibilo: “Avanti”, fu tutto quello che ottenne.

Benjamin entrò nella stanza vagamente confuso e accigliato. “Non mi hai sentito bussare?” domandò scocciato.

“Perché, avevi bussato?” gli rispose in un soffio Grazia. Gli voltava le spalle, era china sulla scrivania, intenta a scrivere sul suo notebook. Il fumo di una sigaretta si levava dalla sua sagoma, librandosi in alto in disegni che si smorzavano in un baleno. “Non ti avevo proprio sentito. È da tanto che sei lì fuori?”. La voce un soffio sempre più gelido, con una punta di sarcasmo.

Benjamin cercò di non fare troppo caso alla scontrosità della sua collega. D’altro canto era anche la sua direttrice, in quel momento, e voleva strapparle la conferma a poter lavorare sulle vicende caotiche della situazione interna del paese.

“Sì, era da un po’ che bussavo. Ma lasciamo perdere. Ho da darti delle favolose notizie”. E rimase in attesa che lei si voltasse.

Ma Grazia non lo fece. Continuò a battere sui tasti del computer, come fosse quella la sua unica preoccupazione e non ci fosse nessun altro nella stanza. Benjamin cominciò a innervosirsi. Solo quando lui prese ad avvicinarsi, lei gli rispose:

“Anch’io devo comunicarti qualcosa. Parto. Il consiglio di amministrazione del giornale ha fissato una conferenza stampa per oggi pomeriggio alle 16.00. E quegli idioti non mi hanno nemmeno avvertito. Evidentemente pensano di poter fare a meno di me. Che imbecilli! Ma il consiglio di redazione ha minacciato ostruzionismo: mi hanno chiamato subito; e tutti i colleghi mi vogliono là al più presto. Quindi finisco di spedire queste e-mail e vado via col primo aereo. Ho già chiamato

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l’aeroporto: ho prenotato un volo Fiumicino-Malpensa per le ore 13.00”. Gli spiegò secca.

“Torniamo tutti e due?” chiese in un affranto bisbiglio Benjamin, sapendo che stava sgonfiandosi come un pallone bucato tutto il lavoro messo in piedi con tanta perizia.

“No. Tu devi restare. C’è un’altra conferenza stampa. Sempre alle 16.00”.

“Cos’è, la replica in parallelo della tua, soltanto fatta qui a Roma?”.

Lei si voltò: aveva un’espressione truce dipinta sul volto. Benjamin domandò subito scusa. Grazia proseguì: “Il portavoce del governo farà il punto della situazione davanti ai giornalisti sullo scandalo che in Parlamento agita così tanto le acque. Darà anche notizie degli onorevoli indagati e quantaltro voi gli domandiate, suppongo”. Era sempre acida e fredda.

“Tirano brutte acque, eh?! Soprattutto per i politici. E mi dispiace anche per come ti sta trattando quel branco di vecchi idioti del consiglio di amministrazione” pronunciò Benjamin, grattandosi il mento, segno che era preoccupato. Per spezzare l’aria cupa provò a cambiare il tono del discorso. “Beh, non vuoi stare a sentire le mie favolose novità, invece? Così ti tiri un po’ su di morale!”.

Ma Grazia bofonchiò un “No. Ho da fare”. E gli girò nuovamente le spalle.

“No!?” fece lui di rimando, incredulo. “Hai sentito. No”. “Come sarebbe a dire no? Ma non mi stai nemmeno a

sentire?”. E poi gridando: “E, per piacere, voltati!” “Senti, Benjamin” gli rispose, facendo un mezzo giro con

la schiena “sinceramente non credo che tu abbia delle informazioni utili, veramente utili intendo. Sarai andato a bighellonare in giro per Roma, parlando con qualcuno che conosci tu che ti avrà raccontato delle mezze frottole. Più o meno la penso così”. E si voltò tornando allo schermo del computer, aggiungendo: “non ho tempo da perdere, io”.

Benjamin fumava dalla rabbia. Stava per esplodere, ma si trattenne. Aveva davanti il suo capo. Provò a scoprire le carte.

“Ti sbagli. Ho raccolto informazioni sulle Stelle Spezzate. Ho parlato al telefono con Edoardo, il mio vecchio amico. Lui

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può confermarmi l’esistenza di un progetto, per ora segreto e portato avanti da un’associazione senza scopo di lucro il cui nome non è ancora stato diffuso, per la divulgazione di uno fra i più importanti testi delle Stelle Spezzate; cosi che tutti gli italiani, leggendo quelle cialtronerie, capiscano quanto male questo movimento sta provocando in tutto il paese”.

“Ah sì?”. Indifferente. “Oggi andrò a trovare Edoardo a casa sua” concluse sicuro

di sé. “Ne dubito. Oggi tu hai la conferenza stampa a

Montecitorio. Alle 16.00, ti ricordo. E poi devi inviarmi il tuo articolo entro le 21.00, per andare in stampa domani mattina” sentenziò lei irremovibile.

“Beh, vuol dire che da Edoardo andrò dopo” obiettò Benjamin.

“Non credo proprio. A meno che tu non voglia farti invitare per cena dal tuo amico. E magari farti raccontare di questo libro tra una bistecca e una foglia d’insalata. A scrocco”.

Benjamin stava per sibilarle “vipera”, ma si trattenne ripetendosi in continuazione che aveva di fronte la sua direttrice. Però lui era il caporedattore, diamine! Prese coraggio e disse:

“Puoi anche non credermi, ma almeno fammi provare. Lo vedrò domani, allora, e poi proverò a buttare giù due righe che spieghino come abbiamo rintracciato questa pista promettente. Che ne dici?”.

“Per me ci faresti solo la figura dello scemo. Che prove hai? Hai con te il libro, per caso?”

Lui non ne potè più. “Ma cosa ti prende?” esclamò “Siamo venuti fin qui a

Roma per indagare sui fatti sinistri accaduti in Parlamento. Me l’hai proposto tu stessa, o non ti ricordi più quello che mi hai detto al telefono per convincermi a seguirti?! E adesso che abbiamo dell’ottimo materiale, tu ci sputi sopra. Proprio non ti capisco”.

A queste ultime parole Grazia sussultò. “Finiamola qui o perderò l’aereo” troncò secca. “Per

piacere, esci di qui, Benjamin”.

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Ma lui continuò sullo stesso registro: “E poi c’è sempre da vedere se ti riconfermano direttrice. In fondo la conferenza stampa è oggi alle 16.00, come hai detto tu stessa. Sei preoccupata per il giornale?” azzardò lui.

“Sì” sospirò. E poi: “E per qualcos’altro, anche”. Grazia pensò alla sua talpa. Non si era fatta trovare. In realtà non sapeva cosa fosse successo, poteva darsi che all’ultimo momento fosse stata minacciata; sta di fatto che era la seconda delusione che incassava quella mattina, non ne poteva più.

“Puoi dirmi di che si tratta?”. “No” fu la risposta secca ed irremovibile. Ad un tratto a Benjamin si accese una lampadina in testa.

Grazia era arrabbiata con lui. Come un lampo gli guizzò in testa il ricordo che la sera prima si erano dati appuntamento giù nell’atrio, in veranda, per la colazione. E lui non c’era andato. Un sorriso piano piano spuntò ad incorniciargli il viso. Grazia era sempre girata.

“Uhm,…allora lascia che ti dica, prima che tu parta, che sono in debito con te” disse con fare enigmatico.

Grazia cadde nella trappola come una leonessa che precipita in una buca scavata apposta in un terreno cedevole e franoso.

“Cosa vuoi dire, Benjamin?” domandò con l’aria di non fidarsi dell’amico.

“Solo questo. Che tu sei in credito”. Benjamin cominciava ad assaporare di averla in pugno.

“Spiegati meglio, o levati di torno”. “Ecco, volevo solo intendere, che tu sei in credito con

me… di una colazione!” Grazia si voltò di scatto, scarlatta in viso. “Io non ho bisogno di niente da te! Nemmeno di una

colazione!”sbraitò. “Peccato, pensavo che ci tenessi, almeno un pochino” la

stuzzicò. “Cosa vuoi insinuare, rammollito di un americano? Io non

accetto inviti al posto di quelli vecchi di cui ci si è dimenticati!” ruggì.

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“Ecco, vedi che ci tenevi?! Perfetto. Stai sicura che ti sei giocata il mio invito a pranzo per domani, nel caso tu facessi ritorno qui a Roma”.

“Non c’è bisogno che sprechi il tuo prezioso tempo a darmi ordini! Se ritornerò o meno, lo deciderò io. Solo io. Ora lasciami lavorare in pace, e non interferire nelle mie decisioni”.

“Fai tanto la preziosa perché ti è rimasto sullo stomaco che mi sono dimenticato l’invito che ti avevo fatto!” le buttò in faccia Benjamin, carico d’ira.

“È solo che non voglio aggiungere il mio nome alla lista delle tue conquiste in terra italiana” sibilò Grazia.

“Stai tranquilla, a me piacciono tutte le donne tranne quelle in carriera!” ringhiò, e se ne andò sbattendo rumorosamente la porta.

Non poteva sapere di star ferendo Grazia nel più efficace dei modi.

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X

Quando uscì dall’Ospedale, Giulia sbrigò alcune commissioni urgenti ritardando il suo rientro a casa. Alla fine arrivarono in un attimo le sei del pomeriggio.

Sebbene la sera si stesse avvicinando inesorabile, gettando sulle cose le sue lunghe ombre nere, quel poco di luce che ancora resisteva le faceva pensare che anche i momenti bui della vita possono essere illuminati dal chiarore della speranza; la speranza di capire, prima o poi.

“Perché Fischer si è sentito male?”. Per tutto il giorno Giulia non era riuscita a levarsi di torno questa considerazione.

Staccò gli occhi dal cielo che stava digradando verso un malinconico blu e si appoggiò soprappensiero alla fermata dell’autobus. Non poteva fare a meno di pensare che quel suo viaggio a Calcedonia c’entrasse qualcosa. Ma il libricino degli appunti di viaggio le era stato violentemente strappato di mano: era evidente che Fischer voleva far passare tutto sotto silenzio, forse aveva dei segreti. A pensarci bene, osservò Giulia, quell’uomo era proprio il tipo di persona bella ed enigmatica che poteva celare un sacco di misteri.

Nel frattempo arrivò l’autobus. Si ravviò i capelli nei pochi secondi di attesa prima che il portellone per salire si spalancasse. Salì i gradini, procedendo lungo il corridoio centrale a passi svelti e sicuri; i tacchi alti degli stivaletti la slanciavano, un uomo di mezza età che doveva scendere alla fermata successiva le cedette cortesemente il posto. Giulia sorrise per ringraziare e si sedette. Vide la propria immagine riflessa nel vetro dell’autobus, mentre sullo sfondo si stagliava l’imbrunire della sera.

Sospirò. Quella sera stessa Giulia aveva deciso di raccontare per filo

e per segno a Roberto tutto ciò che riguardava il paziente della stanza numero trentuno. Del mistero che avvolgeva il suo ricovero in ospedale, dei suoi sintomi, della terapia prescrittagli e delle ancora più strane ed inspiegabili dimissioni. Riconosceva che quella dolce fantasticheria in cui

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si trastullava era un misto di sollecitudine per lui, ma anche di spaventosa attrazione. Però lei amava Roberto. Ne era convinta. Si rifugiò nell’idea che sarebbe bastato parlargliene per far svanire quell’ossessione, esattamente come una bolla di sapone che si scioglie al sole.

Dunque, a parte un leggerissimo velo d’ombra che le perdurava contro voglia sul volto, quella sera Giulia era allegra. O almeno si sforzava di esserlo. Aspettava solo il momento giusto per confidarsi con Roberto. Avviluppata nella sua tuta rosa shocking tanto da sembrare appena uscita da un cartone animato, con un’espressione giuliva sul volto, era convinta che da quella domenica lei e Roberto avrebbero condiviso insieme le loro vite e il loro tempo. La loro unione sarebbe risultata fantastica, amabilmente invidiata da tutti.

Stavano sbrigando gli ultimi preparativi. “È incredibile quanto c’è da lavorare per sistemare una

casa!” commentò Roberto, che stava trafficando dietro ad una serie di prese in cucina.

“Però è diverso quando quella per cui ci si affatica tanto è la propria” gli fece eco Giulia che stava disponendo ordinatamente il frullatore e altri piccoli elettrodomestici in un ripiano in basso. Armeggiava con grazia, al pari di una regina occupata nell’ordinaria amministrazione del suo regno.

“Siamo solo in affitto: non dimenticarlo!”. “Ma è pur sempre casa nostra, finché ci stiamo. E secondo

me, staremo qui un bel po’ di tempo. Tu che ne dici?”. “Può darsi. Tutto è possibile”. Mentre prendeva la scala per avvitare il bulbo del

lampadario al soffitto, proseguì: “Tutta questa fatica però, non ti sembra un po’ sprecata?

Arredare ogni angolo di questa casa fin nei dettagli, per poi magari dover andare via fra qualche anno. Speriamo che tutti i mobili nuovi che abbiamo preso vadano ancora bene…” mugugnò. Roberto era un uomo pratico: non poteva fare a meno di fare simili considerazioni, solo che non erano per nulla romantiche, né tanto meno rassicuranti.

“Parli come se dovessimo rimanere qui giusto un paio d’anni. Cosa potrebbe spingerci ad andare via? Io non riesco proprio ad immaginarmelo. Secondo me staremo benissimo

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qui per un sacco di tempo”. Le si affacciò un dubbio nella mente. “Non è che vuoi trasferirti al tuo paese, vero? Trovare lavoro là…? Perché in questo caso come farei io a lasciare l’ospedale? Dovrei chiedere il trasferimento con congruo anticipo e non è detto che in qualche A.S.L. della zona, lì nel tuo caro Abruzzo, ci sia un posto libero così in fretta… E non sono nemmeno tanto sicura di volermi allontanare da Roma: ci sono dei negozi così belli, qui! Come farei senza, laggiù ?”.

A Roberto quest’ultima affermazione parve assolutamente fuori luogo. Comunque Giulia aveva centrato nel segno. Era da qualche mese, esattamente da quando lei aveva cominciato a tempestarlo di inviti per andare ad abitare insieme, che a lui era venuta voglia di ritornare in Abruzzo; se non proprio nel suo paesello, almeno lì nei dintorni. Ma quello era un sogno nel cassetto. E in un cassetto chiuso rigorosamente a chiave con tanti giri.

Tanto per rispondere qualcosa e mettere a tacere Giulia che stava pericolosamente avventurandosi vicino al suo cassetto segreto, buttò lì la prima cosa che gli venne in mente:

“Supponi che per sbaglio tu rimanga incinta. Ci servirà una stanza anche per il pupo. Qui non ce l’abbiamo una camera da letto in più”. In effetti gli piacevano proprio tanto i bambini, e Giulia lo sapeva. Era una delle prime cose che lui le aveva detto, all’inizio della loro relazione.

Giulia per una frazione di secondo lo squadrò: in quel preciso momento era ritto sulla scala, con i suoi jeans sbiaditi ed il vecchio maglione di lana blu, stava finendo di montare il lampadario a pagoda, scelto proprio da lei in un negozio del centro. Gli si leggeva sul viso la solita aria tra il riflessivo e il divertito, anche se in quel momento aveva stampata sul volto un’espressione un po’ sorniona. Evidentemente stava pensando a come sarebbe stato bello avere lì, sotto la scala, in una carrozzina dai disegni patchwork, un bimbo che dormiva beato.

“Lo so che lo dici solo perché ti piacciono i bambini, vero?”. E lo chiese con un tono di voce nient’affatto neutrale.

Roberto sospirò. Era un bene che quel cassetto rimanesse chiuso a doppia mandata.

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“Certo, non ti preoccupare. Anch’io starò attento a non commettere imprudenze. Te lo prometto”. rispose a malincuore. E da una parte remota della sua coscienza qualcosa gli gridava che un bambino non poteva essere solo un errore. In nessun caso. Ma chissà se anche Giulia la pensava allo stesso modo. Pareva proprio di no.

Ora il lampadario-pagoda era stato avvitato. Roberto notò

che pendeva leggermente di lato perché il filo elettrico del lampadario era più corto della catena che scendeva anch’essa dal bulbo, alla quale era appesa la raffinata pagoda: purtroppo il filo impediva alla catena di distendersi in tutta la sua lunghezza. Non vi diede troppo peso.

Lanciò un’occhiata veloce attorno alla stanza. Era soddisfatto. Non c’era nulla da ridire, in effetti, circa la bravura di Giulia nel sistemare la loro cucina.

Pensò all’indomani. Non smetteva di ronzargli per la testa il messaggio del telegramma ricevuto il giorno addietro, con l’ingiunzione di recarsi in Via dei Tigli. Per questo motivo quella sera era irrequieto. Per fortuna, si trattava di una via di Roma. Andare in un’altra città sarebbe stato impensabile per uno come lui, con una compagna che voleva sapere ventiquattr’ore su ventiquattro dove lui si trovava.

“Vado a prendere piatti, bicchieri e posate dagli scatoloni!” esclamò nel frattempo Giulia, che scomparve rapidamente dietro la porta. Risuonavano i suoi passi, di corsa lungo il corridoio dove erano accatastati gli scatoloni con le cose imballate provenienti dalla casa di Roberto.

“Meno male che Giulia non mi legge nel pensiero” si ritrovò a pensare Roberto un po’ cinicamente “altrimenti chissà quale grana mi pianterebbe se si accorgesse dell’ insicurezza dei miei sentimenti verso di lei”.

Tutto ad un tratto una vocina esile esile, che gli parve risalire da un recondito anfratto della sua coscienza, sbottò all’improvviso: “Ma che cavolo stai facendo, Roberto? Sei sicuro di voler vivere con lei? D’accordo che ti piace un sacco, è la ragazza giusta per te, e via dicendo; ma desideri veramente con tutte le tue forze abitare gomito a gomito con lei? Sei sicuro di volere proprio questo?”.

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“Che ti prende?!”. Un’altra voce, questa volta un po’ più forte e virile, proveniente dalla testa, gli si parò davanti per domare quella precedente. “Ci hai pensato e ripensato più volte, e hai capito che tu vuoi stare proprio con lei. Ed è naturale che due persone che si vogliono bene, ad un certo punto decidano di andare ad abitare insieme. Rilassati, Roberto, tanti lo fanno…”.

“Sì, ma di solito lo fanno avendo già l’intenzione di sposarsi, dopo un pò di convivenza insieme”. Di rimando la stessa vocina esile. “Pensa che bello, sposare la donna che ami. Avere dei bambini! Concentrati su quello che desideri!”.

“Ma piantala di parlare di matrimonio! È roba da matusalemme! Da secolo scorso! E poi Giulia non ha mai tirato fuori nemmeno una volta, per sbaglio, la faccenda del matrimonio! Impara da lei!” rispose subito, secca, l’altra voce. Ad ogni intervento, diventava più decisa e robusta.

Ma anche quella più flebile non scherzava. “Eh, piano Roberto, che a capire le donne non s’impara mai abbastanza! Puoi dire di conoscere Giulia veramente a fondo? E se ti capitasse qualcosa d’improvviso, una malattia, un rovescio finanziario… come faresti? Avresti ancora l’appoggio di Giulia?”. Anche quella vocina acquistava timbro e volume.

“Non cominciamo a fare la cornacchia. Roberto, stai solo buttando lì delle supposizioni, senza conoscere veramente il futuro. Attieniti rigorosamente ai fatti. E questi parlano fin troppo chiaro: tu sei senza una casa, la tua ragazza – bontà sua – ne trova una che va bene per tutti e due, decidete insieme di andare a starci. Qui finisce tutta la storia”.

Nel mentre entrò Giulia che lo apostrofò con voce squillante:

“A cosa stai pensando, amore? Sei così taciturno… È perché sei troppo stanco, vero?” e si fermò davanti al tavolo della cucina, dove lui si era seduto a contemplare la sua nuova dimora. Purtroppo la postura che aveva assunto lasciava trapelare il suo malumore: ingobbito sulla sedia, alquanto meditabondo, aveva tutta l’aria di uno che è schiacciato da un peso insopportabile. Giulia se ne avvide, anche se non trasse subito le conseguenze peggiori. Si limitò a pensare che il

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malessere del suo ragazzo fosse semplicemente dovuto all’eccessiva stanchezza.

“Vittoria!” gli risuonò dentro la prima vocina, quella esile. La sua coscienza lo ammonì: “Dille che non sei sicuro, diglielo, diglielo, diglielo, su… ora…”. Ma la vocina si smorzò in fretta, perduta nelle pieghe del suo animo. Senza indugio le subentrò la voce razionale, che smorzò ogni briciola di indecisione:

“Mi è venuto in mente che devo ancora dare il mio nuovo indirizzo a tre o quattro vecchi amici, giù al mio paese. Pensavo di farlo domani mattina. Telefonerò loro da casa mia, prima di venire qui” s’inventò. Temporeggiare con se stesso per lui era diventato un’abitudine. Conosceva bene le pecche del suo carattere: insicurezza, mancanza di un vero senso di intraprendenza, sfiducia di sé. L’unico motivo per cui aveva avuto il coraggio di venire via dal suo paesino, era per imitare il suo grande amico Claudio. Ma anche qui i diversi destini di entrambi avevano ben presto scoperto le carte: uno squallido lavoro per lui, una vita di successo per l’altro.

Nonostante tutto, ora Claudio era ricomparso nella vita di Roberto, e con una proposta a dir poco strana. Eppure Roberto si sentiva attirato. In fondo, anche se invidiava l’amico, non per questo non gli voleva bene, o non si fidava di lui. Anzi, l’affetto che nutriva per lui smorzava almeno in parte le fitte d’invidia che lo prendevano quando pensava alla vita magnifica che Claudio conduceva: sempre in giro per il mondo, e con una provvista interminabile di denaro. Era certo che la proposta dell’amico riguardasse un’opportunità di lavoro: traspariva dal telegramma. Ma Claudio non aveva pensato a Giulia. Roberto si rendeva perfettamente conto che quella domenica non poteva piantarla in casa, da sola, il primo giorno nella loro fiammante nuova casa, con la scusa di un folle incarico arrivatogli via posta da un vecchio amico d’infanzia, che non si faceva più vedere da anni!

I pensieri di Giulia, nel frattempo, dovevano essere stati del tutto diversi, perché lei gli rispose perfettamente tranquilla:

“Certo, tesoro. Fai bene a chiamarli. Naturalmente è d’obbligo festeggiare l’entrata nel nostro nuovo appartamento con una splendida cenetta, che m’incarico personalmente di

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preparare: sai, quelle cose a lume di candela, champagne e tutto il resto”.

Roberto era pallido. Aveva a disposizione solo la mattina per provare a rintracciare il tizio che abitava in Viale dei Tigli, al numero tre. E se mentre era là da lui, la faccenda si fosse protratta per parecchio tempo, come avrebbe fatto? Senza contare che doveva trasferire ancora le ultime casse di vestiti, e consegnare le vecchie chiavi di casa al legittimo proprietario.

Giulia pareva non accorgersi dell’irrequietezza del suo ragazzo.

A questo punto Roberto si alzò, ancora vagamente incerto sul da farsi, ma deciso in ogni caso a far sì che Giulia non s’accorgesse minimamente di quanto gli stava passando per la testa in quel momento. La deliziosa cenetta della sera successiva lo allettava parecchio: lei era bravissima in cucina e lui sentiva già l’acquolina in bocca al pensiero delle prelibatezze che lei gli avrebbe cucinato.

“Ehi, ma non l’hai montato bene!” sbuffò Giulia d’un tratto. Si stava riferendo al lampadario che penzolava un po’ storto, dalla cima del soffitto. Si era rabbuiata alla vista di quell’imperfezione. Emise un gemito di delusione.

“È perché il filo della corrente elettrica è troppo lungo, rispetto a quello che tiene su la tua pagoda; se l’avessi lasciato pendere diritto dal soffitto, ci sfiorerebbe senz’altro le teste” le spiegò lui con pazienza.

“Ma mi prometti che lo sistemerai, domani, caro?” gli domandò, con un fondo di caparbietà nella voce.

“Va bene: lo accorcerò. Promesso”. “Allora, d’accordo”. Giulia gli sorrise radiosa. Roberto

l’attirò a sé e con un bacio appassionato la rassicurò più di mille parole.

Fu a questo punto che Giulia sentì che era arrivato il momento opportuno. Roberto era senza dubbio stanco, ma teneramente ardente nei suoi confronti. Non gli avrebbe mai parlato se si fosse dimostrato freddo o scontroso.

“Senti, caro, è da stamani che volevo confidarmi con te. All’ospedale hanno fatto confusione con un tizio: una brutta storia, sicuramente. Più ci penso, più mi dispiace per lui”.

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“Cosa hanno fatto?” domandò Roberto. Era sempre emaciato, ma attento.

“Te l’ho detto. Sono preoccupata. Hanno dimesso uno a cuor leggero. Non era mai successo prima, almeno in questi ultimi cinque anni, da quando sono arrivata. Il punto è che gli hanno sospeso la terapia farmacologia che il primario aveva appositamente messo in piedi per lui; ora vogliono lasciarlo senza. Ma così ripiomberà nel male di cui soffriva prima!”

“Ma sono pazzi o che altro?” rispose energico e accorato Roberto.

“Non lo so. È come se ci fosse un velo di mistero in tutta questa vicenda. Stamani, per caso, ero presente alle dimissioni di quell’uomo: le ha firmate il vice-primario, in assenza del primario che era ad un convegno. Il fatto strano è che poi la zia, che è venuta a prenderlo, sembrava voler parlare col primario a tutti i costi. Mentre il vice, al contrario, pareva essere d’accordo col paziente: che non c’era bisogno di ulteriori pareri. Dovevi vedere quanto erano tranquilli! L’uomo, in particolar modo, pareva contento di andarsene. Non era affatto preoccupato per la sua salute! Non così la zia che scalpitava allarmata, nonostante si desse un certo contegno per dissimulare i suoi timori, e voleva sapere quando trovare il primario per parlargli. Ha menzionato, tra le righe, che sarebbe giunta persino a pagarmi, purchè io l’avessi messa in contatto con il primario. Evidentemente pensava che suo nipote e il vice-primario potessero essere in combutta, o giù di lì”.

“Per sospendere i farmaci? Ma che malattia ha quell’uomo? E perché diavolo è venuto a prenderlo la zia?” domandò accigliandosi. Anche per lui qualcosa in quella pazzesca vicenda cominciava davvero a non quadrare.

“E’ un uomo giovane, sui trantacinque anni, su per giù”. Spiegò Giulia, ma vedendo che Roberto si accigliava ancora di più, s’affrettò ad aggiungere: “Ma è molto, molto malato. E’ stato ricoverato una settimana fa per una crisi diabetica, aggravata da altri problemi di cui però non sono in grado di riferirti, perché non ho mai visto la sua cartella clinica. Proprio oggi il vice-primario me l’ha tolta di mano, quando s’è accorto che ci avevo messo sopra gli occhi. Comunque

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aveva sfiorato il coma, prima di entrare. Per giunta l’abbiamo internato che prendeva dei forti psicofarmaci, in seguito ad un brutto periodo depressivo in cui era scivolato. Ora il vice-primario gli ha sospeso quasi tutti i farmaci: gli rimangono giusto i medicinali per abbassare la pressione e l’insulina, naturalmente; ma via gli anticoagulanti, via gli psicofarmaci.”

“Come fai a sapere che soffre di depressione?”. Roberto era perplesso.

“Ho sentito il vice-primario che parlava di questo paziente con la capo-sala. Ma non ha aggiunto altro”.

“Uhm, e così tu ascolti le conversazioni dei tuoi diretti superiori… lo fai sempre?” Roberto fiutava che Giulia gli stava nascondendo qualcosa. Lei capì e decise di troncare la conversazione confidenziale:

“Ascolta. E’ solo che volevo consigliarmi con te su cosa devo fare. La zia mi ha fatto quella strana proposta: che forse mi ricompenserebbe, se la mettessi subito in contatto col primario. Lui conosce di cosa soffre l’uomo in questione. Secondo te, dovrei cercare di reperire il dott. Albrigi, il primario, ed esporgli i fatti?”

“Come faresti, scusa, a cercarlo?” “Bèh, lui lascia sempre un recapito in ospedale, per le

urgenze. Ma lo sanno solo il suo vice e la caposala. Potrei cercare di saperlo da uno dei due.

Roberto stette qualche secondo a riflettere. “Lascia perdere tutto” concluse. Non disse altro,

considerando chiusa la questione. Anche se laconico, a Giulia piacque il consiglio. Si rendeva

conto che avrebbe dovuto mettere sopra l’intera faccenda una pietra tombale. E che avrebbe dovuto cercare di dimenticare un nome, Martin.

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XI Quella sera in albergo Benjamin stava scrivendo la

relazione della conferenza stampa da inviare alla redazione del giornale.

In camera regnava un’atmosfera ovattata, complice la abatjour accesa sul tavolino e la finestra socchiusa dalla quale spirava l’aria fresca della sera e la luce del lampione di fronte. “Roma è veramente bellissima di sera” pensava Benjamin.

Soltanto le grida degli ultimi turisti che dovevano ancora ritirarsi nei ristoranti per cenare e il chiasso di alcuni ragazzi che stavano correndo nella via sottostante rompevano quel magico incantesimo.

Nonostante i rumori che provenivano dalla finestra aperta, Benjamin aveva quasi terminato l’articolo.

Lo turbava un velo di preoccupazione per il modo in cui si era separato da Grazia. Cominciva anche a nutrire fondati sospetti che l’incontro di Grazia con il suo informatore segreto non avesse sortito gli effetti sperati, altrimenti lei non si sarebbe comportata in modo così pungente con lui.

Tolse le mani dalla tastiera del computer e rilesse soddisfatto la schermata video:

“Roma. Ore 16.00. La sala della conferenza stampa è brulicante di giornalisti intervenuti per ascoltare il resoconto dell’onorevole Felice – mai nome fu più appropriato. Ci strattoniamo con i gomiti fra noi colleghi per accaparrarci i posti più visibili, in modo che l’onorevole (chiunque si occupi seriamente di politica interna sa che l’onorevole Felice è miope come una talpa) si accorga senza troppa fatica delle nostre mani alzate.

Il giornalista accanto a me (non faccio nomi per la legge sulla privacy) ha un vistoso anello sulla mano destra, la collega davanti a me ha un completino rosso fuoco mozzafiato. Non vado oltre per rispetto alla categoria cui io stesso appartengo. Per la verità avevo pensato di mettermi il mio cappello da cow-boy, ma qualcuno me l’ha sconsigliato.

L’onorevole, che oltre ad essere cieco come una talpa è anche assonnato come un tasso appena uscito dal letargo, arriva incespicando un paio di volte. Si riaggiusta gli

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occhiali. Ma ha per caso dormito mentre era in riunione? Ce lo domandiamo tutti più o meno apertamente.

Ci aspetteremmo un comunicato stampa di circa un quarto d’ora. Invece ci accorgiamo che il foglio dattiloscritto che l’onorevole tiene ben stretto in mano è uno solo. Vuol dire che lo leggerà tutto in tre minuti.

Infatti l’onorevole si limita a ben poche novità sull’andamento dell’inchiesta: questa prosegue con la massima discrezione e la massima accuratezza, per non tralasciare nessun indizio. Ma non ci sono sostanziali novità. Il neo-partito Fondazione Risorse Nuove (appena alla sua seconda legislatura) sta operando con successo insieme agli altri partiti per circoscrivere lo scandalo; in più sta preparando un disegno di legge per togliere l’immunità ai parlamentari indagati.

Noi rimaniamo delusi. Una giornalista con un ampio decolté alza la mano e prova a sondare che aria tira: “Signor onorevole, quanti partiti sono coinvolti nello scandalo?”. L’onorevole Felice fa un cenno col capo: per ora è ancora topsecret.

Altra domanda: “Sono aumentate le procure che stanno indagando sulle Stelle Spezzate e sui parlamentari corrotti?”.

Di nuovo l’onorevole Felice fa un cenno col capo: questa volta sembra che voglia alludere ad un no.

Ennesimo tentativo di domanda: “Onorevole Felice, a che punto dell’inchiesta siamo secondo lei?”. A questo punto l’onorevole si sistema la cravatta e abbozza un sorriso: “E’ presto per dirlo, troppo presto…”. Chi ha orecchi intenda.

Sono tentato di porre anch’io una domanda. Alzo la mano, ma la collega con il completino rosso mozzafiato mi precede: “Onorevole Felice, come si stanno comportando le Stelle Spezzate in questo frangente?”. Tutti la guardiamo: nessuno ha compreso bene la domanda. Infatti l’onorevole strabuzza gli occhi e si avvicina al microfono: “Prego?”. “Sì, intendevo dire” spiega la giornalista inbarazzatissima: “ora che le Stelle Spezzate non possono più contare sul loro piano d’azione segreto, che per nostra fortuna è venuto allo scoperto, cosa crede che faranno per riguadagnare terreno?”.

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L’onorevole la guarda un po’ stralunato e risponde: “Non so mettermi nella testa di un gruppo eversivo”.

A me sembra che tutta la politica italiana in questo momento stia impazzendo. Non c’è alcuna risposta seria delle istituzioni alle Stelle Spezzate: al momento assistiamo unicamente al travagliato lavoro della commissione investigatrice dalla quale, però, non trapela alcuna indiscrezione. E assoluto silenzio anche dalle questure che stanno indagando.

Speriamo che almeno i cittadini onesti non rimangano in silenzio, ma creino una coscienza civile sempre più coesa contro questo gruppo eversivo che vuole soltanto dividere l’Italia, e riversare odio, dubbio ed incertezza nel futuro del paese.

Firmato: Benjamin Tolosa”. Ecco, l’articolo poteva andare. Inviò immediatamente il file

dal suo portatile e attese di ricevere la risposta da Milano. Quando comparve la solita lucetta verde della ricezione avvenuta, si sentì più tranquillo. Ora sapeva che Grazia stava leggendo il suo articolo, o l’avrebbe letto di lì a poco, e poi l’avrebbe sicuramente chiamato per discuterne insieme.

Mentre attendeva si alzò in piedi e prese a passeggiare per la camera. Dalla finestra intravvedeva le coppiette che passeggiavano abbracciate lungo la strada sottostante.

Ripensò a Grazia: aveva preso l’aereo inutilmente. All’ultimo momento la conferenza stampa di Milano era stata rimandata al lunedì successivo, in tardo pomeriggio, per l’indisposizione repentina di uno dei soci più importanti (e più vecchi) del Consiglio di Amministrazione. Una raffica di mail aveva avvisato del cambio di programma.

Doveva convincere Grazia a tornare a Roma il più presto possibile: la pista-Righetti poteva davvero dimostrarsi un’arma vincente.

Dopo soltanto cinque minuti squillò il suo cellulare: dal numero riconobbe che era Grazia.

“Pronto?”. Benjamin era calmo e rilassato. “Benjamin stammi a sentire. L’articolo fila via liscio, ma ci

sono alcune cose che devi correggere”.

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“Mi stai dicendo che devo ritoccarlo?” “Devi togliere le allusioni ai vestiti dei giornalisti, agli

accessori, ecc.. Non siamo Vogue”. “Ma danno il tono della riunione. Anche perché notizie

vere e proprie non ce ne sono”. “E allora si scrive che non trapelano notizie, non che la

tizia davanti a te ha la minigonna…”. “Ma vuoi che la gente compri il nostro giornale oppure

no?” “Sì, ma voglio che mantenga un certo stile! Lo so che a

volte il vecchio direttore ti concedeva qualche libertà d’espressione, ma qui te ne sei presa davvero troppa. Ne hai approfittato”.

“Voi italiani non capirete mai come si fa giornalismo”. “Inventandosi le notizie?” “Non intendevo dire che bisogna inventarle; basta saperle

pilotare con intelligenza…” “Benjamin, ascolta: devo chiudere la conversazione.

Correggi l’articolo e mandamelo. Altrimenti lo farò correggere qui a Milano da qualcuno altro”.

“D’accordo. Aspetta, un’altra cosa: puoi tornare qui, diciamo domani?”

“A che scopo? Ci sei già tu lì!”. “Sì, ma domani sera vado dal mio amico Righetti, e vorrei

che ci fossi anche tu. Ho la sensazione che scopriremo delle cose interessantissime. E’ la tua occasione d’oro per acapparrarti lo scoop del secolo.”

“Vedremo, intanto ci penso. Ti richiamo quando ho un po’ di calma.”

“A dopo, va bene. Ciao”. Per Benjamin era fatta. Grazia sarebbe venuta. Non era

stata per nulla titubante. L’aveva solo sentita stanca. Lavorava troppo. Ma d’altronde, era la direttrice. Con l’aereo, in un’ora sarebbe stata lì.

Si disse che voleva proprio aiutarla. Se la talpa di Grazia non aveva funzionato, adesso sarebbero stati più fortunati.

Telefonò a Righetti per spostare il loro appuntamento alla domenica sera e scese per cena.

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DOMENICA 16 Marzo

XII

Venne domenica. Arrivò con lo stesso inesorabile procedere del tempo per il quale alla domenica sarebbe seguito il lunedì.

La radiosveglia sul comodino di Roberto gracchiò come una vecchia cornacchia che emette grida stridule per attirare l’attenzione. Segnava le otto. Lui si rigirò nel letto, facendo emergere dallo spesso strato di coperte quel tanto di braccio che bastava per spegnerla, e si rificcò sotto la trapunta.

“Accidenti a quel trabiccolo! Devo buttarlo via” fu il suo primo pensiero, che proseguì per suo conto: “Giulia non vorrà nemmeno stare a sentire di tenere sul comodino una radiosveglia vecchia di vent’anni” considerò Roberto, ancora tra i fumi del sonno.

Rimase immobile, nel tepore delle lenzuola, a riflettere su quello che aveva appena pensato: radiosveglia… Giulia… Giulia fu il suo secondo pensiero. E poi, come per magia, gli si materializzò subito il terzo: che per quel che ne sapeva lui, entro qualche ora non avrebbe più abitato lì.

A quella durissima constatazione sentì scivolargli via il sonno senza poter fare nulla per trattenerlo. Si alzò a malincuore e si trascinò sotto la doccia per schiarirsi le idee. Quando emerse – i pori della pelle dilatati per il getto d’acqua bollente – si sentì un altro.

Passò per la casa ad alzare le tapparelle. Fiotti di luce biancastra si sparsero per la casa. Roberto aveva già tolto le tende: la vista dei vetri spogli gli mise addosso un pò di malinconia. Notò che fuori il cielo era grigio e coperto di uno spesso strato di nubi basse, fitte. Sembrava dovesse piovere a momenti.

Fece un’abbondante colazione a base di caffelatte con biscotti presi dal pacco rimastogli da finire. Una volta sazio e corroborato, andò a prendere il telegramma che aveva accuratamente nascosto dentro le pagine del manuale di un nuovo programma multimediale appena uscito: era il posto più sicuro dal momento che Giulia non sarebbe mai andata a

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frugare dentro un libro simile. Quei libri non potevano interessarle di meno: era attratta solo dai best-seller di grido e dai rotocalchi.

Roberto lesse e rilesse il telegramma: tornò daccapo per almeno cinque volte; sperava ogni volta che affiorassero da quel piccolo e sottile foglietto delle parole, invisibili ad una prima lettura, che gli facessero balenare nella mente il motivo di quello scarno invito, indirizzato proprio a lui. Macché. Gli sorgeva una sempre più palese irritazione per il tono perentorio usato da Claudio.

Scoraggiato da una simile assenza di indizi, si decise a fare l’unica cosa che gli era rimasta da fare: alzò la cornetta del telefono per farsi dare dal servizio automatico il numero telefonico dell’abbonato che corrispondeva a quelle generalità.

Riagganciò dopo aver annotato il nome e il numero di telefono all’interno del telegramma. Forse la matassa poteva cominciare a sbrogliarsi.

Stava per accingersi a soddisfare la sua curiosità, il dito indice già puntato sulla prima cifra del numero telefonico appena trovato, quand’ecco che squillò il campanello della porta.

“Aspetto visite?” si chiese Roberto. Conosceva già la risposta: no. Lasciando il foglietto del telegramma col prezioso numero di telefono appuntato con un fermacarte sulla scrivania, andò ad aprire. Fuori dalla porta c’era Giulia, in mano un vassoio con due cappuccini coperti e una mezza dozzina di paste.

“Sorpresa!”, cinguettò tutta euforica. “Sono le nove di questa splendida domenica mattina! Ti ho portato la colazione!” e gli ficcò in mano il vassoio. Visto che lui aveva una faccia scura e non si scostava per lasciarla entrare, aggiunse:

“Non so quanto ti fosse rimasto in casa da mangiare, sai, con tutta la roba negli scatoloni. Ho pensato che potevi anche morire di fame. Naturalmente non avrei mai potuto permetterlo”. Lo squadrò, ritta sulle gambe, l’espressione metà speranzosa e metà seccata, quasi aspettasse la sua superflua approvazione.

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“Ah, sì” cominciò lui, imbastendo qualcosa che assomigliasse vagamente ad un ringraziamento: “grazie, amore, ehm…, con questo tempaccio, correre fuori casa per venire qui da me così presto, sì insomma…” e lanciò un’occhiata di traverso al finestrone della cucina, che si intravedeva dal corridoio, per accorgersi con un tuffo al cuore che dei bei raggi di sole stavano bucando, trionfanti, lo spesso strato di nubi. “Cioè…” disse rivolto a Giulia, scostandosi per lasciarla entrare: “solo un’ora fa minacciava pioggia, e adesso guarda che sole!”. E con un profondo sospiro aspettò che varcasse la porta d’ingresso, per richiuderla un attimo dopo alle sue spalle.

Ma non si sarebbe dato per vinto. No. Il suo amor proprio ferito gli diceva di non lasciar correre.

“Senti, tesoro, non avevamo detto che ci saremmo visti oggi pomeriggio? Per la precisione, l’avevi affermato proprio tu ieri sera, tanto solennemente… ricordi?” E mimando il modo di fare di Giulia, tirò fuori le sue parole della sera prima: “ Ci vediamo per una cenetta con champagne, e tutti gli ammennicoli vari…”. E la guardò sottintendendo: “Allora?”.

Lei si voltò con fare angelico. “Oooh, sì, è vero…! Sai che me n’ero dimenticata? Scusa

tanto, è grave?”. E poi, sgranando i suoi occhi truccati alla perfezione, lo circuì cinguettando come un usignolo: “Che buffo! Me l’hai fatto ricordare tu il nostro appuntamento di stasera!”. Ma a Roberto più che un suadente uccellino, parve un uccello rapace pronto a ghermirlo con i suoi artigli. E poi era semplicemente impossibile che lei si fosse dimenticata del suo invito, con inclusa la magnifica cena che sicuramente era ancora da preparare; ma poteva benissimo essere che avesse già comprato tutto quanto le occorreva al centro commerciale, e poi avesse chiuso il cibo in freezer. Sperò con tutto il cuore che non fosse così.

Roberto si riprese in fretta dall’effetto sorpresa di cui si era servita Giulia per piombargli in casa.

“Ho già fatto colazione. Da solo” sbottò risoluto. “Nel qual caso mangerò tutto io” rispose, facendo finta di

niente. E cominciò a slegarsi la cintura del cappotto di

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cachemere color cammello che l’avvolgeva dalla testa ai piedi. Le conferiva una linea sinuosa da giovane gazzella.

“Accomodati pure” disse lui brusco, e indicò la cucina. “Tu non mi fai compagnia?”. “Adesso non ho tempo. Ho da fare, in salotto”. E si barricò

in un lampo nell’altra stanza. Gli venne la tentazione di chiudere a chiave la porta, ma resistette.

Sentì attraverso il sottile muro che divideva i due locali che nel frattempo lei si era accesa la radiolina portatile. Immaginò senza tanta fatica che stesse inzuppando la brioche nel cappuccino.

Si rigirò per un po’ il foglio del telegramma tra le mani, non sapendo più se telefonare o meno. Aveva perso quella grinta che soltanto pochi minuti prima gli aveva permesso di sollevare senza sforzo la cornetta del telefono. In più ora non era solo: temeva che Giulia si accorgesse del suo piccolo segreto.

Alla fine prevalse un sano senso d’orgoglio: “Oh, insomma, quante storie per comporre un numero di telefono!”. E con un improvviso scatto in avanti digitò il numero, premendo con forza sui tasti. Rimase in attesa.

Uno squillo. Due squilli. Oh bella, era un numero di Roma: quanto ci metteva a

rispondere? Tre squilli. Quattro squilli. “Quasi quasi riaggancio”. Cinque squilli. Al sesto una voce forte e sicura echeggiò

dall’altra parte della cornetta: “Pronto?” “Ehm, buongiorno. Mi chiamo Sperati. Roberto Sperati.

Lei non mi conosce. La chiamo per un telegramma che ho ricevuto ieri l’altro, con l’invito di venire da lei; ecco, vede, io non vorrei disturbare…insomma…” Roberto si accorse che non riusciva a destreggiarsi molto bene con la spiegazione.

“Oh bene, lei è il terzo! Finalmente le cose cominciano a girare per il verso giusto. Venga che l’aspettiamo!”. Era sempre la stessa voce forte e sicura di poco prima, soltanto con una nota di divertimento in aggiunta.

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“Sì, ehm, allora quando posso venire?”. Roberto saggiò il terreno.

“Anche subito, se vuole. Prima si comincia, meglio è” rispose lo sconosciuto. “Cos’è, uno scherzo?” pensò Roberto che non ci stava più capendo nulla.

“Subito non posso…Vede, oggi trasloco…” cercava di temporeggiare.

“Le faccio i miei auguri, allora, per la sua nuova casa” disse la voce, pacata e risoluta al tempo stesso “senta, riuscirebbe a raggiungerci stasera? Noi qui aspetteremo… tanto anche il suo collega arriverà per quell’ora. Sono io che avrei voglia di conoscervi subito, ma aspetterò. D’accordo?”

Roberto si convinse che, in effetti, si poteva benissimo trattare di un nuovo impiego nel vasto campo del software, la sua specialità. E da quel che aveva capito, c’era anche la possibilità che il tizio cercasse un gruppo di programmatori.

Capitolò in breve. “D’accordo” si arrese. “Alle nove?” “Non può un po’ prima, diciamo verso le otto?”. Roberto

sospirò: c’era la cena di Giulia, nella loro nuova casa. La sua nuova casa. “Accetta il lavoro e falla finita!” gli rimbombava nella testa la voce virile.

“Vada per le otto, allora. D’accordo”. E riagganciò, bianco come un cencio. Adesso sì che doveva vedersela con Giulia.

Cercò di scacciare quel cruccio assillante e pensò all’uomo della telefonata. Dalla voce forte e sicura gli sembrava un tipo a posto, un manager probabilmente. Non che avesse abbandonato del tutto l’idea di uno scherzo, ma qualcosa gli diceva di fidarsi. Claudio non si era mai preso gioco di lui!

Ma gli ritornò in mente la cena con Giulia ad una velocità sorprendente: come avrebbe fatto a svignarsela, da casa sua, alle otto di sera?

Conosceva Giulia: avrebbe voluto venire via insieme con lui a tutti i costi. Stette cinque minuti a meditare su come levarsi da quell’impiccio. Ritto davanti alla scrivania: una mano che sventolava il telegramma, l’altra con cui si grattava la testa. Si sbottonò il secondo bottone della camicia, per pensare meglio.

Invitare anche lei? Era una possibilità… però c’era la faccenda della segretezza. Escluso. Svignarsela di nascosto?

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Con un segugio come la sua ragazza?! No: idea cancellata. Inventare una scusa? Ma lui non era bravo a recitare commedie, lei se ne sarebbe accorta subito. E avrebbero litigato. Portarla al cinema e poi fingere un mal di pancia atroce, crampi e tutto il resto per tornare a casa? Ma lei sarebbe rimasta lì a guardare il film, con il suo uomo che si sentiva male? No, impossibile. Anzi, avrebbe avuto anche da ridire sulla sua salute cagionevole, perché non era possibile che una meravigliosa cenetta preparata con tanto amore e bravura finisse per procurargli un’indigestione… Che fare?

Dopo altri dieci minuti, era sempre daccapo. “Angelo custode, aiutami tu!” pensò come ultima, estrema ratio.

Chiuse gli occhi e quando li riaprì aveva deciso: avrebbe portato con sé anche lei. Al diavolo la segretezza.

“Da oggi condividiamo il nostro tempo ed i nostri impegni” considerò con fare pragmatico “è la soluzione migliore”.

Confortato da un simile pensiero, ritornò in cucina da Giulia. Seduta sullo sgabello del tavolo a gambe accavallate, stava leggendo l’ultimo romanzo rosa comprato in edicola. Levò gli occhi dalla pagina quando sentì la porta che si apriva e vide comparire la sagoma di lui sulla soglia della porta.

“Ciao” gli disse tranquilla. “A che punto sei con valige e scatoloni?”

“Di là è tutto pronto” rispose. Meno male che aveva avuto l’accortezza di finire tutti i vari imballaggi la sera precedente, rimanendo sveglio fino a molto oltre la mezzanotte. Così mentre lui pochi attimi prima era al telefono, lei aveva creduto che stesse sistemando le ultime cose.

“C’è ancora un po’ di cibo per me?” domandò con accento speranzoso.

“E’ rimasto solo il cappuccino, freddo ovviamente. Per le brioches non mi hai chiesto di tenerti qualcosa da parte”. Pronunciò la frase con aria ironicamente dispiaciuta, per fargli capire che si trattava di una piccola vendetta per il modo in cui era stata accolta. Roberto rabbrividì al pensiero che la sua ragazza si era divorata per intero sei paste.

“Fa niente” commentò affabilmente Roberto, senza raccogliere la sfida. “Cominciamo bene!” si ritrovò invece a pensare. “Ti va di uscire?” le chiese.

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“E’ proprio quello che volevo” esclamò felice. Appariva sollevata. Era evidente che non aveva voglia di trascorrere la restante domenica in casa, con un cielo multicolore trafitto da meravigliosi squarci di sole. Chiuse di scatto il libro, seguendo diligentemente Roberto fin sulla porta. In un attimo furono entrambi pronti per uscire.

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XIII La domenica sera in cui Roberto aveva fissato

l’appuntamento “di lavoro” sarebbe rimasta impressa nei suoi ricordi come qualcosa di memorabile.

Nel primo pomeriggio il cielo si era rabbuiato, non facendo presagire nulla di buono. Verso sera aveva iniziato a piovere come se si fossero aperte le cataratte del cielo. La perturbazione annunciata dal TG Meteo era finalmente arrivata, fin troppo impetuosa a giudicare dalla furia degli elementi. Scrosci violenti si abbattevano sulle strade spazzate dalla furia temporalesca e picchiavano senza tregua sui vetri dell’auto di Roberto. Sembrava che di lì a poco il tergicristallo sarebbe stato strappato via dai getti torrenziali d’acqua, o afferrato dalle raffiche di vento impetuose che scuotevano le fronde delle piante ai lati della strada. Il cielo era buio pesto. I lampioni sulla strada parevano quasi spenti.

Giulia stava rannicchiata sul sedile anteriore, le sue gambe sottili strette insieme, quasi incollate l’una all’altra, tremava leggermente per il freddo anche se indossava il pesante cappotto; le dita si muovevano convulsamente sulla borsetta di pelle, lasciando ogni volta le impronte della sua frenetica presa.

Non proferiva parola perché questo le pareva il modo più efficace per investire silenziosamente Roberto di tutta la sua collera. L’aveva strappata dal loro romantico tête-à-tête, l’aveva trascinata fuori dal loro caldo nido, l’aveva rinchiusa in macchina dopo un’affannosa corsa sotto un’acqua torrenziale, e adesso era già mezz’ora che procedevano a rilento lungo le vie allagate della città. Per le strade deserte avevano incrociato solo qualche altra autovettura temeraria che si avventurava sotto il diluvio al pari di loro. Più ci pensava e più si convinceva che il motivo che lui le aveva addotto per tutta quella fatica sovrumana suonava semplicemente assurdo.

“Mi ero già accordato con questo signore per parlare di lavoro” le aveva spiegato Roberto, senza tanti giri di parole. “Col trambusto del trasloco mi ero dimenticato di dirtelo. Purtroppo non c’è alternativa: devo vedere questo tale proprio

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stasera, è uno sempre in viaggio… è difficilmente reperibile, non voglio perdere la possibilità di un nuovo posto di lavoro” aveva concluso laconico.

Lì per lì lei aveva accettato di accompagnarlo, ma ora si stava pentendo amaramente della decisione presa. Avrebbe dovuto lasciarlo andar via da solo. Ma certe cose, purtroppo, non si possono prevedere in anticipo, magra consolazione.

Roberto invece non osava proferire parola per il timore pienamente fondato che lei esplodesse di rabbia, lo investisse di orripilanti improperi e gli mandasse a monte l’accordo preso. Cercava di mantenersi rilassato, sfoderando una calma al limite dell’innaturalezza e sforzandosi di apparire sicuro di sé. Guidava con attenzione ed, in fondo, pensava che l’acqua era fuori e loro erano dentro.

“Magari stasera avessi un colpo di fortuna per cambiare lavoro!” rimuginava. Sapeva bene di aver raccontato una frottola alla sua ragazza ma, come talvolta succede, aveva finito in cuor suo per desiderare proprio che una simile circostanza si avverasse. Nel pensare alla sua triste condizione di sradicato dalla sua famiglia d’origine, una fitta di nostalgia gli attraversò lo stomaco e risalì fino al cuore. Ripensò al suo paesello sull’Appennino abruzzese da cui era partito molti anni prima in cerca di fortuna, carico di speranze e di sogni nel cassetto. A quei tempi era talmente giovane e baldanzoso che non aveva riflettuto troppo nel voltarsi indietro per vedere cosa lasciava; senza pensarci due volte era salito su un treno ed era partito, e da quel giorno il paesello e la sua famiglia erano rimasti soltanto dei bei ricordi del suo passato, da rispolverare a Natale e a Pasqua.

Il lavoro l’aveva anche trovato, si può dire, e in fretta. Anzi, si reputava fortunato perché non era mai stato senza lavorare ma, come era accaduto ad altri suoi vecchi amici d’infanzia, aveva fatto l’amara esperienza di partire con l’entusiasmo dei diciotto anni, pieno di slanci, di passioni e di desideri da realizzare, e di accorgersi, una volta giunto a destinazione che – come dice il proverbio – l’erba del vicino è sempre più verde. Sì: il paesello era rimasto lassù sui monti, lontano, a guardare uno dei suoi figlioli levarsi in volo sulle ali della felicità verso mete migliori. Ma a dare il benvenuto al

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ragazzo nella grande città era stata una sottile e strisciante solitudine, la quale, scoprì ben presto Roberto, lo avrebbe accompagnato in tutte le sue giornate, in ogni cosa che faceva, da quando apriva gli occhi la mattina, ancora disteso a letto, a quando li chiudeva la sera. Se gliel’avessero predetto, non avrebbe mai creduto che avrebbe provato una così intensa nostalgia per la sua famiglia.

Dopo tutti gli anni trascorsi nella capitale, volendo tirare le somme, non avrebbe saputo dire a sé stesso se ne fosse valsa veramente la pena. Rivide sfilare mentalmente davanti a lui il corso di programmatore frequentato di giorno, mentre la sera lavorava come cameriere in una pizzeria del centro per mantenersi. Poi le prime collaborazioni con i negozi di software, quasi gratis. E sempre la stessa pizzeria di sera. Dopo un paio d’anni finalmente i primi contratti, tutti a tempo determinato. Solo dopo cinque lunghi anni il primo posto fisso presso una squallida software house di un’ anonima catena in franchising, una come cento altre. Aveva mollato la pizzeria, ma non era ancora riuscito a mollare la software house per saltare in meglio. Eppure lui sognava con tutte le sue forze il colpo di fortuna: entrare in una grande azienda produttrice di programmi per computer e da lì cominciare la scalata al successo.

Mentre tali pensieri attraversavano la sua mente, il temporale continuava ad infuriare. Lui si manteneva sempre vigile, con gli occhi incollati alla strada; ecco, avevano appena svoltato in via dei Tigli. Si ricordava che il telegramma riportava come numero civico il numero tre, oltrepassarono un grosso condominio a più piani con le tapparelle tutte ermeticamente chiuse e poi parcheggiarono di fronte ad una graziosa villetta in squisito stile liberty che pareva appena uscita da un angolo di Parigi.

“Bella la casa del tuo prossimo datore di lavoro” commentò acida Giulia.

“Come ti ho già spiegato, è un conoscente alla lontana che mi ha proposto di scambiarci delle “vedute di lavoro”. Così le ha definite. Cosa c’è che non va, scusa?”

“Come cosa c’è che non va?!” urlò lei furibonda lanciandogli un’occhiataccia inceneritrice. Ormai era evidente

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che non si tratteneva più “C’è tutto che non va! Ma perché non annullare l’incontro visto il maltempo!?” gli chiese come fosse la decisione più ovvia che avrebbe preso chiunque sano di mente.

“Impossibile” s’impuntò lui duro. “Ti ho già spiegato che questo è un tipo irreperibile, viaggia parecchio, un appuntamento con lui è prezioso come l’oro. E poi c’è da dire che è lui che mi ha dato questo orario per incontrarci. E se a lui va bene, va benissimo anche per me”. Lo disse con un tono che significava: “e la discussione finisce qui”.

Saltarono giù velocemente dalla macchina. Roberto provò un attimo fugace di gioia quando la sentì sbuffare:

“Quasi quasi torno a casa”. Ma ripiombò nella cruda realtà quando, un attimo dopo,

aprì bocca obiettando: “Però non posso guidare da sola per tornare, con tutta questa acqua. Non me la sento”. Non gli rimase altro da fare che suonare il campanello.

Fortuna voleva che l’ingresso avesse due piccole colonne ai lati della porta che sorreggevano un piccolo timpano sporgente, sotto il quale si ripararono in attesa che la porta si aprisse. C’era anche una piccola lanterna appesa proprio sopra l’entrata, la sua debole luce valeva per loro come il faro per i marinai in una notte buia e tempestosa.

Non dovettero aspettare molto: pochi istanti appena ed un uomo di circa quarant’anni si affacciò sulla soglia, facendosi subito da parte per farli entrare.

“Oh eccovi, accomodatevi” li introdusse con garbo nel foyer. “Siete stati molto coraggiosi ad avventurarvi per le strade allagate da questo tempaccio! Venite a scaldarvi dentro, davanti al caminetto: ve lo siete proprio meritato!”.

Giulia non degnò Roberto di uno sguardo e seguì l’uomo lungo un sontuoso corridoio con appese alle pareti varie raffigurazioni dell’antica Roma imperiale; seguivano poi serigrafie degli scavi, e immagini di altri soggetti più “religiosi” quali mosaici raffiguranti il buon pastore, simili a quelli rinvenuti nelle prime catacombe cristiane. Giulia sprizzava odio per Roberto dalla testa ai piedi, ma sembrava intimorita dall’autorevolezza che emanava dal portamento del

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padrone di casa e dalla raffinatezza dell’abitazione. Non aveva mai visto niente del genere.

Roberto richiuse la porta, mise le mani nelle tasche della giacca a vento e seguì i due davanti a lui. Ebbe la netta sensazione che ormai non si poteva più tirare indietro.

Al termine del corridoio voltarono a destra in un ampio salone rettangolare, con la stessa litania di quadri appesi alle pareti. Roberto notò che non c’era nessuna porta a separare l’ambiente dal resto della casa, ma si entrava in esso semplicemente da un vano spazioso sormontato da un arco a tutto tondo, con i mattoni in bella vista. A richiamare alla memoria che quell’abitazione doveva aver conosciuto tempi più austeri, un antico focolare domestico restaurato integralmente catturava subito l’attenzione, sulla parete di fronte. Due spesse colonne lo attorniavano, costituite da due tronconi di granito scuro poggianti pesantemente sul pavimento di cotto. Era acceso, qualche fiamma più lunga delle altre emanava dei bagliori ramati.

La luce soffusa proveniente da una piantana alogena in un angolo, i sofisticati abbellimenti come l’arco d’ingresso, la cornice di stucco che correva lungo tutto il perimetro del soffitto (e la cui foggia era ripresa da un elaborato ghirigoro al centro di esso), qualche pianta negli angoli morti della sala, le tende di broccato, tutto conferiva alla stanza un’aria di nobile eleganza, che intimorì Roberto il quale osservava tutto con occhi sgranati.

Aleggiava nell’aria un cocktail indefinito di odori: un misto di tabacco, di colori ad olio e di legna bruciata. Si respirava nell’aria una sensazione di cordialità, come se i convenuti fossero stati tutti amici di lunga data che si ritrovavano per commentare un anno trascorso lontano gli uni dagli altri. Né Roberto, né Giulia avevano ancora proferito parola, ma gli altri nella stanza parevano tutti perfettamente a loro agio.

Ben presto l’uomo si voltò verso i due nuovi arrivati per presentarsi:

“Mi chiamo Edoardo Righetti” disse allungando una mano per stringere prima quella di Giulia e poi quella di Roberto. “E questa” proseguì indicando Laura che si alzò dal divano andando loro incontro “è mia moglie Laura. Qui alla mia

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destra abbiamo il signor Tolosa” continuò Edoardo nella presentazione “che viene da Milano: lavora qui in Italia, ma è americano… E’ accompagnato dalla sua collega, la signorina Tommasoni. Sono giornalisti della più importante testata nazionale”.

Benjamin e Grazia strinsero con calore la mano ai due nuovi arrivati e scambiarono con loro sorrisi vicendevoli.

Benjamin indossava un maglione rosso di lana dal collo alto. Era un capo informale, che in quella stanza però, col camino acceso, gli faceva caldo. Ogni tanto si passava una mano lungo il collo per allargarsi la dolcevita del maglione. Grazia invece era in tenuta da lavoro: giacca di tweed con maglietta aderente sotto, e jeans professionali. I capelli ribelli acconciati con la solita molletta sulla nuca.

“Io sono Roberto Sperati e questa è la mia fidanzata Giulia Bellocchio” farfugliò in fretta Roberto “e sono tecnico programmatore in un’azienda di software. Sono qui per quell’avviso di cui le ho accennato al telefono” snocciolò tutto d’un fiato al padrone di casa. Agli altri due lanciò solo rapidi sguardi sfuggenti.

Edoardo annuì, sorridendo. Pregò gli ospiti di accomodarsi sui divani, poi esordì

dicendo: “Innanzitutto vi ringrazio di essere qui. Visto che ci siamo

già presentati, passo subito a spiegare il motivo della riunione: mi hanno offerto di coordinare un lavoro che ora io dovrei esporvi nella veste di miei futuri collaboratori, se accetterete”.

Benjamin e Grazia si rimisero ad ascoltare con vivo interesse.

Giulia invece era sorpresa e frastornata; continuava a pensare che non era valsa la pena di venire fino lì per un incontro così strano. Si consolò riflettendo che, prima o poi, sarebbero dovuti tornare a casa.

Roberto, seduto accanto a lei sul divano, non si capacitava di come Claudio fosse riuscito a venire a conoscenza di un progetto di lavoro che sembrava combaciare perfettamente con i suoi desideri di gloria più nascosti. E chissà come aveva fatto a proporre a questo emerito sconosciuto il suo nome.

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“Se devo essere sincero” continuò Edoardo con tono piano come stesse spiegando una noiosissima lezione “io nutro alcuni dubbi a proposito di questo progetto, al contrario del qui presente signor Tolosa che sprizza scintille” e scoccò un’occhiata perplessa a Benjamin “mentre d’altro canto la sua compagna si è dimostrata più prudente” continuò.

“Collega di lavoro” puntualizzò Grazia. “Sì, mi scusi signorina” s’interruppe Edoardo “e comunque

ora che ci siamo quasi tutti proporrò per intero la questione e valuteremo insieme il da farsi”.

“Come quasi tutti?” domandò curiosa Giulia. Roberto trattenne a stento la stessa domanda. Benjamin saltellava per l’eccitazione. Grazia era accigliata.

“Sì, certo” le rispose Edoardo garbatamente “non ve l’avevo ancora detto, quindi non potevate saperlo. Il progetto prevede che vi lavorino 7 persone. E noi qui ora siamo in 6…”. Lasciò in sospeso la frase perché fu colto da un dubbio che esternò subito:

“Perché tutti, vero, avete ricevuto il telegramma che parlava di quest’incontro?”.

Laura, seduta accanto al marito, seguiva in silenzio lo svolgimento degli avvenimenti senza fare commenti. Gli altri quattro si guardarono negli occhi senza dire una parola; Benjamin e Grazia erano seduti accanto ai padroni di casa sul divano più lungo, Roberto e Giulia si erano accomodati in quello più corto a due posti.

Per una frazione di secondo Benjamin giurò di aver colto un lampo di terrore nello sguardo di Roberto, ma decise di non farci caso e tornò a concentrasi sulla sua situazione. Rifletté velocemente. Grazia non poteva sapere niente del telegramma, e non voleva che ne venisse a conoscenza proprio ora. Tanto meno sapeva se, dell’altra coppia lì presente, entrambi avessero ricevuto il telegramma, o solo uno dei due. Quindi abbozzò l’espressione di uno che voleva sdrammatizzare un po’ e disse con il tono di voce più spudorato possibile:

“Oh bella, sì che l’abbiamo ricevuto il telegramma io e Grazia” mentì, abbozzando uno dei suoi magnifici sorrisi, e poi rivolto a Grazia che si era girata di scatto incredula: “Sai, è per quella faccenda del tuo nuovo incarico che non te ne

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avevo ancora parlato”. E fece una pausa perché la sua collega si ponesse in ascolto di quello che lui le avrebbe raccontato. Riprese: “Ma l’altro ieri pomeriggio ho trovato un telegramma nella posta, sì, ehm… e dentro, nel messaggio, compariva anche il tuo nome. Conteneva la proposta di recarci qui a Roma per un’importantissima dritta di lavoro… Siccome me l’ha mandato…” e qui stava per dire Frank, ma si bloccò al pensiero che poi avrebbe dovuto spiegare a tutti chi era Frank, “Insomma, l’ho ricevuto e basta e siccome dentro eri nominata anche tu…, e siccome quello stesso pomeriggio mi hai chiamato per domandarmi di venire a Roma con te, ho fatto mentalmente due più due: ho pensato che anche tu ne fossi informata. Cioè, che anche tu avessi ricevuto la stessa soffiata per mezzo telegramma. L’ho dato per scontato. Poi in macchina abbiamo chiacchierato d’altro e mi sono dimenticato di parlartene. Capita, no?”.

A questo punto Grazia avrebbe potuto rispondere “Ma io non ho ricevuto nessun telegramma!” e tutto l’ingegnoso palco di menzogne di Benjamin sarebbe miseramente crollato. Senza contare che non aveva alcun senso, a rigor di logica, ricevere una soffiata giornalistica attraverso un telegramma. Ma, vuoi perché la mente delle donne segue vie imperscrutabili dalla capacità di previsione maschile, vuoi per qualche motivo a lui sconosciuto, Grazia aveva ascoltato con precisione Benjamin e l’aveva trovato assolutamente convincente; lei si limitò soltanto ad annuire col capo esclamando:

“Beh, dopo fammi vedere il telegramma” e continuò a guardarlo come in attesa di successive informazioni o delucidazioni.

Benjamin si stupì della risposta della sua collega, innocente ed al tempo stesso disarmante, ed in cuor suo cominciò a dispiacergli di aver cacciato Grazia in quel pasticcio.

Roberto era rimasto in silenzio durante tutta la performance dell’americano. Una volta che quest’ultimo aveva chiuso brillantemente il suo racconto, pensò bene di imitare la meravigliosa spiegazione offertagli dal giornalista confermando che aveva ricevuto il telegramma a nome di

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entrambi, ma non l’aveva riferito a Giulia, oberato dallo stress del trasloco.

Giulia lo guardò attonita: solo ora veniva a sapere di una cosa così importante come un telegramma. Rimase ad ascoltare sulle spine il resto della storia, titubante su quello che avrebbe potuto dire o fare il suo fidanzato. Le si materializzò in mente alla velocità della luce che lei, però, non avrebbe mai cambiato lavoro.

“Dunque, dov’ero rimasto?” ricapitolò Edoardo. “Ah sì, per i telegrammi allora siamo a posto. La cosa si risolve così: siamo stati tutti convocati per telegramma. Penserete che è un mezzo un po’ antiquato, ma chi l’ha scelto voleva farci percepire l’idea della serietà e della tempestività di questa operazione, infatti mi sembra che tutti l’abbiate chiaro, se siete venuti qui stasera”.

“Ne manca uno, caro” sottolineò Laura, rivolta al marito. Lo disse piano, quasi per non disturbarlo mentre lui ragionava.

“Il settimo dovrebbe essere qui a momenti, sempre se ha deciso di venire. Ormai è davvero tardi. D’altronde non ho avuto in anticipo la lista dei nominativi scelti. Spero venga anche l’ultimo, così saremo proprio tutti; solo mi toccherà iniziare da capo un’altra volta… bah, speriamo arrivi presto… Allora, signori e signore, è presto detto chi è l’artefice di questo strano raduno” riprese Edoardo con calma “si tratta nientemeno che del Vaticano”. E qui si bloccò perché tutti digerissero il colpo.

In effetti la notizia li lasciò tutti e sei in un silenzio di tomba. Edoardo rimase tranquillo, aspettando con interesse le reazioni dei suoi ospiti.

Laura si sentiva un po’ imbarazzata per il contegno del marito, che si stava chiaramente godendo l’effetto-shock che aveva prodotto con quella rivelazione. Per questo aumentava in lei il disagio, minuto dopo minuto. Gli altri quattro seduti sui loro divani si guardavano gli uni gli altri, lanciandosi vicendevolmente sguardi attoniti ed indagatori, come se in quel momento fossero stati indiani che lanciavano segnali di fumo in richiesta di aiuto.

“Oh, non c’è di che allarmarsi. Il Vaticano rappresenta qui solo il committente del progetto” riprese Edoardo. “Si tratta di

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allestire un’equipe di sette persone che dovrà lavorare allo studio di un reperto archeologico importantissimo; vale a dire: catalogazione del manufatto in questione che è un manoscritto datato come anteriore al mille d.C., analisi della pergamena e delle tracce di scrittura, traduzione della parte che ancora non è stata tradotta – ammesso che ci riusciamo perché questo è uno dei punti per i quali hanno chiesto la nostra preziosa collaborazione –, confronto con altre pergamene dello stesso periodo per individuare tracce di pollini, resine, fibre e simili, stesura di un apparato critico a fianco della traduzione, e così via. Edoardo sarebbe andato avanti tranquillamente nell’esposizione, se contemporaneamente tutti non l’avessero assalito con una miriade di domande.

L’esclamazione che tornava ad intervalli regolari, sulla bocca di tutti, era:

“NON E’ POSSIBILE!!” “Io non sono certo tra le persone più indicate per tradurre

un codice” ironizzò Roberto “sono un programmatore! Come faccio ad esservi d’aiuto se non ho mai visto un codice in vita mia?!”

“E io sono un giornalista!” Benjamin si contorceva sul divano, non riuscendo a stare fermo. Muoveva freneticamente gambe e braccia, in modo concitato.

“Sì, come mai hanno scelto noi?” intervenne Giulia. “Io sono una semplice infermiera”.

“E io sono una giornalista come lui” sbottò Grazia indicando Benjamin “in più oberata di lavoro perché dirigo il quotidiano per cui lavoro”. Senza dubbio dimostrava di essere la più risolutamente decisa a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di avventurarsi in un’impresa simile.

Edoardo riprese la parola: “Sì, lo so. Qui entro in gioco io. Sono un professore. Ora

insegno religione in un Liceo umanistico, ma per più di dieci anni ho insegnato Patristica alla Gregoriana, l’Università dei Gesuiti, famosa in tutto il mondo per il suo indiscusso rigore scientifico. E’ per questo che dovrò coordinare io l’intera equipe” spiegò.

Chissà per quale motivo, però, il fatto che avesse insegnato in Università scivolò via dalle orecchie di tutti come l’ acqua

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piovana. L’avevano sentito, sì, ma erano tutti uomini abituati a guardare al presente: per loro contava soltanto il qui e l’ora. Ragion per cui ad ognuno dei presenti si stampò in testa che Edoardo, ora, era un comunissimo insegnante di religione. La materia del curriculum scolastico più bistrattata e canzonata dagli studenti. Quando tutti udirono che il loro presunto coordinatore era un normalissimo professore di religione, pensarono che di sicuro doveva esserci stato un motivo per quella scivolata così in basso, e che questo motivo era da imputarsi sicuramente a qualche passo falso di Edoardo. In silenzio, cominciarono a guardarlo con altri occhi. Ognuno a modo suo, infatti, provò un acuto senso di delusione che non si sforzò di celare.

“Dunque lei è un prof.?” chiese divertito Benjamin, con un’aria canzonatoria.

“Adesso sì” rispose freddo Edoardo. Stava perdendo il controllo della situazione, e tutto ciò non gli piaceva affatto.

“Il Vaticano ha chiamato mio marito perché vent’anni fa era un brillantissimo docente alla Gregoriana. Le sue ricerche nel campo dei primissimi manoscritti cristiani non sono ancora state superate. Pensate che all’Università utilizzano ancora come manuale di patristica il libro scritto da lui” aggiunse Laura per risollevare l’immagine del marito.

“Prima di venire messo da parte per contrasti di vedute col Rettore, per l’esattezza” precisò Edoardo. “Da allora insegno religione a scuola, e questo è tutto”.

“Ora il punto è” ed Edoardo cercò di essere il più categorico e persuasivo possibile, visto il clima di sconforto che si era repentinamente instaurato “perché hanno scelto noi? Nessuno di noi ha neppure i requisiti minimi per un lavoro di questo tipo. Io stesso sono fuori dall’ambiente da tanti anni, e voi siete rappresentanti delle più svariate professioni. Però siamo tutti sicuramente in gamba, nel nostro lavoro. Dannatamente in gamba, ci scommetto. E questo in Vaticano lo sanno. Potrei immaginare che lì in quegli uffici abbiano pensato ad un programmatore” e guardò Roberto “volendo usare il computer nella traduzione della pergamena: ci sono programmi di traduzione simultanea e probabilmente lei, signor Sperati, dovrà scriverne uno apposito al nostro caso. E’

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molto frequente, per non dire che succede nella stragrande maggioranza dei casi, che il manoscritto sia rovinato sui lati, e che molte parole vadano ricostruite a senso logico perché sono incomplete. Un programma informatico ci aiuterebbe a scartare subito significati potenzialmente inutili dei frammenti di scrittura, attraverso delle funzioni basate sul calcolo della probabilità. Così si velocizzerebbe il lavoro”. Fece una pausa: Roberto lo guardava colmo di meraviglia. Non si era mai avventurato nel vasto campo dell’informatica applicata all’archeologia, per questo non riusciva a farsi un’idea chiara della posta in gioco. Edoardo proseguì, cercando di offrire una presentazione a tinte vivide, per riuscire convincente e per stuzzicare nel suo uditorio la voglia di mettersi all’opera. “Potrebbero aver pensato poi ad un ufficio stampa per il contatto con i media” e guardò i due giornalisti; “ed infine potrebbero aver pensato ad un’infermiera perché” e qui fece una grossa pausa, schiarendosi la voce, per creare più suspance “Beh, ecco, perché il manoscritto è stato ritrovato in Turchia, e bisognerà andare là per consultarlo. Suppongo che in Vaticano abbiano pensato che qualcuno potrebbe anche farsi del male: nel qual caso sarà lei ad intervenire in nostro soccorso, signorina” concluse, rivolto a Giulia.

Di nuovo tutti aprirono bocca ma non ne uscì che aria. Erano tutti ammutoliti dallo stupore.

“Io non vado da nessuna parte, tanto meno in Turchia. Non ci sto capendo niente di tutta questa storia” scandì Giulia con voce determinata.

“Sì, è ora di dare un taglio a quest’idiozia” le si affiancò Grazia “ma che ci mandino i loro professori, laggiù”. Anche lei era irritata e spazientita. “Come se avessimo tempo da buttare via! Io dirigo un giornale, un’enorme responsabilità poggia sulle mie spalle: anzi, i miei collaboratori mi staranno già cercando. Stanotte usciamo in stampa e io ho gettato a malapena un occhio sii menabò delle pagine più importanti”. Si alzò, prendendo con sé notebook e cellulare “scusatemi, ma devo comunicare con la redazione a Milano” esclamò. E in un attimo uscì dalla stanza, rifugiandosi nello studio di pittura di Laura.

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Solo Benjamin non disse nulla. Meditava in silenzio. Assorto. Lo sguardo perso nella danza delle fiamme del focolare acceso.

“Un attimo di pazienza, signori. Non voglio che pensiate che il card. Mac Collough, il diretto responsabile di questa strana impresa, sia una persona senza la testa sulle spalle. E’ a capo dell’Ufficio Affari Esteri del Vaticano, corrisponde all’incirca al nostro ministro degli esteri, e per quel che mi ricordo è una volpe, quanto ad intelligenza. Il fatto è, purtroppo, che non sono stato messo al corrente di alcune altre informazioni rilevanti, che però ci saranno fornite se accettiamo il lavoro” disse Edoardo, accortosi che tutti cominciavano a dubitare del buon senso della proposta del Vaticano.

“Comunque nessuno di noi vuole andare in Turchia, questo è certo” disse Roberto, facendosi portavoce di tutti.

“Neanch’io ci voglio andare, se è per questo” gli rispose Edoardo. “Anzi, io sono stato fin da principio assai scettico riguardo a questo progetto. Fin dalla prima volta, quando me l’hanno presentato gli agenti del Vaticano”.

“Ma quanto ci pagherebbero, se ci andassimo?” esordì Benjamin, dopo la sua lunga pausa di riflessione. Il tono di voce era tornato quello scherzoso di sempre. “Se ho ben capito, il manoscritto ritrovato riguarda un codice preziosissimo, applicandoci al quale con metodo, rigore scientifico e disciplina potremmo produrre notevoli risultati. Pensateci bene: questo papiro ci farebbe diventare in un batter d’occhio tutti ricchi e famosi!” proruppe con un’affermazione gioiosa.

“COOSA !? Lei sarebbe disposto ad andare?” domandò Giulia inorridita.

“Beh, cos’ho da perdere? A me è sempre piaciuto viaggiare: posso fare l’inviato speciale ad Ankara, con l’incarico di produrre tutta una documentazione per il giornale su questa importantissima scoperta archeologica. Interviste, descrizioni avvincenti per spiegare le tecniche usate per l’approccio alla pergamena, e via dicendo” le rispose regalandole il più ampio sorriso che poté.

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“Ma è un progetto che non ha né capo né coda, è semplicemente una pazzia” sentenziò di nuovo Giulia. Era sconvolta: “Non andrei là nemmeno per tutto l’oro del mondo. Non ho nemmeno capito che cosa dovremmo fare!”.

“Dovremmo cercare di decifrare quel pezzo di pergamena. Prima lo facciamo, prima veniamo via. E se mi becco una spina mentre cammino nel deserto, vengo da te per togliermela” la provocò.

Roberto lo guardò assai male. Sembrava indeciso se aprire bocca, o lasciar correre. Lasciò correre perché subito Giulia sibilò:

“Non ti curerei MAI!”. “Forse cambierai idea” le rispose con calma Benjamin. “La faccia finita” gli disse Roberto “E’ solo capace di

pensare ai soldi?” “Non so quanto ci pagherebbero” intervenne Edoardo

preoccupato per la tensione che stava surriscaldando gli animi “non l’ho chiesto agli agenti del Vaticano, e non mi sarebbe mai venuto in mente di domandarlo, comunque. Questo è solo un incontro preliminare. Non ha senso parlare di denaro, ora. E finiamola qui, per piacere” tagliò corto. Nel corso della serata per la prima volta aveva perso la pazienza.

Benjmian se ne accorse e cercò di non urtarlo più. “Allora, cosa decidete?” si rivolese Laura a tutti per tirare

le fila della discussione. “Io non andrei mai” rispose dura e risoluta Giulia “se non

capisco una cosa, non ha senso che la faccia”. Le pareva di aver appena pronunciato un’affermazione lapalissiana come il teorema di Pitagora.

“Neppure io” si unì deciso Roberto. “Io nooo!” urlò Grazia dalla stanza accanto. Evidentemente

doveva aver sentito anche lei, e si premurava di dare la sua risposta.

“Neanche a me pare una cosa fattibile” sentenziò Edoardo. “Eppure c’è qualcosa che non mi torna… Per come conosco l’ambiente vaticano, non credo in uno sbaglio. Se vi hanno mandato il telegramma con la proposta di lavoro, chiamiamola così, un motivo c’è. Anche se per il momento sembra sfuggirci.

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Per me il motivo principale della validità di questo progetto – e badate che io pure, la prima volta, l’ho criticato – sta nel fatto che siete stati scelti: voi e me. Esattamente noi, e non altri. Presumo sicuramente che in Vaticano ci forniranno altri particolari che al momento ci sono ignoti, ma che potrebbero spiegare questo mistero. C’è ancora tempo per decidere: fino a domani alle tredici, quando torneranno qui gli agenti del Vaticano. Potrebbe essere la nostra occasione d’oro: non dobbiamo buttarla al vento solo perché vogliamo capire tutto subito!”.

“Ben detto Righetti!” esclamò estremamente soddisfatto Benjamin. “Sono perfettamente d’accordo. Credo di essere nel giusto quando penso di essere l’unico che partirebbe anche adesso. Voglio che lo sappiate: tutta questa avventura mi piace un sacco!”.

Edoardo ringraziò con un cenno del capo per il calore dimostrato nella risposta dall’americano, e proseguì nella sua arringa:

“E poi parlo anche come credente” qui sapeva di mettersi un po’ a nudo, ma decise di correre il rischio: “Non so voi, ma io sono un cattolico praticante e credo nella figura e nell’operato del Santo Padre. E’ vero che il Vaticano, con tutto il suo apparato burocratico, può far pensare più al motore di una prospera industria che ad un luogo dove vivono persone che s’impegnano a vivere santamente, ma vi invito a non fermarvi solo alla facciata, costituita – lo sappiamo – da uffici, protocolli, manovre politiche, invidie e altre simili cose anche meschine. Io guardo più in là, a quello che deve pensare e volere il card. Mac Collough con i suoi collaboratori, in comunione col Santo Padre. In fondo, il cardinale dipende direttamente dal Papa: lui sarà sicuramente al corrente del progetto”. Avrebbe voluto rivelare qualcosa di più sulla Lettera ai Laodicesi, ad esempio dire che di questo si trattava: di una lettera apostolica, ma qualcosa lo trattenne. “Per tutti gli anni che ho frequentato dall’interno quell’ambiente vi posso certamente dire che stanno facendo sul serio, credetemi. Dall’esterno l’apparato vaticano può sembrare una fredda macchina che esegue ordini, e anch’io non nego di essere stato scottato… Vi potrete domandare perché, dopo essere stato

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messo da parte così malamente, privato della docenza universitaria venti anni fa, io ora voglia ancora lavorare in quest’ambiente che mi ha tradito e mi ha lasciato a casa, disoccupato, quando stavo per sposarmi. Ebbene vi dico che non lo so. Non nego che nutro una certa serie di dubbi a riguardo, tuttavia ne sono affascinato. Vi assicuro che veramente il manoscritto in questione è importantissimo, mi verrebbe da paragonarlo ai rotoli di Qumran ritrovati il secolo scorso, che hanno rivoluzionato la storiografia del periodo in cui nacque Cristo. Per me, non lo nego, sarebbe un po’ una seconda possibilità di tornare ai miei vecchi studi ed interessi universitari, e anche una seconda occasione di successo” concluse.

“Anch’io sono cattolico” rispose Benjamin esternando un sorriso della massima cordialità “Senta, mettiamo da parte i formalismi. Posso chiamarla per nome, dandole del tu?”.

“Certo, Benjamin. Lo stesso vale per me, vero?” gli fece eco Edoardo. “Sai, pensavo fossi protestante”.

“No, i miei genitori sono cattolici. Ho anche frequentato scuole cattoliche. Siamo un gruppo forte in America!”.

“Ehi, basta con questo tête-à-tête” esclamò Giulia spazientita. “Io non vado più in chiesa da una vita. Siete contenti?” e lanciò loro un’occhiata inceneritrice.

“Per me non è un problema” disse Benjamin “ognuno è libero di professare la fede che vuole, o la non-fede”.

“Stiamo andando troppo sul personale” commentò acida Giulia. “Non mi piace”.

“Oh, che male c’è?” Roberto aveva preso la parola, non senza un po’ di fatica, lasciando trapelare una certa insicurezza nel tono di voce. Però ci teneva a dire la sua perché continuò: “Io mi sono riavvicinato da poco tempo alla chiesa. Ora vorrei continuare su questa strada” e guardò Giulia sott’intendendo con lo sguardo un efficacissimo: “Hai capito?”.

“Sono felice per te, Roberto” disse Edoardo, che evidentemente era passato al tu anche con lui. Roberto si sentì un po’ più a proprio agio. Benjamin si limitò a sorridergli. “Posso domandarti come è successo?”.

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“Ho incontrato delle persone; all’inizio ero scettico, non volevo accettare la loro proposta di approfondimento del significato e del valore dell’essere cristiani. Ma piano piano mi sono accorto che gli incontri di preghiera, che mio malgrado ho iniziato a frequentare insieme a loro, scendevano come un balsamo dentro il mio cuore stanco e deluso. Adesso posso dire di aver scoperto che la fede non è un’esperienza solitaria, bensì da vivere insieme. C’è una Chiesa che mi accompagna, ci sono dei fratelli. Non sono più solo. È tutta un’altra cosa rispetto a quando ero ragazzo e andavo in chiesa tanto per fare, solo per seguire le istruzioni dei genitori, per ricevere i sacramenti. Quella è stata un’esperienza adolescenziale, e devo ammettere che anche la mia fede era rimasta ferma a quella stagione della mia vita”.

“Come per tutte le cose anche la fede deve diventare adulta” intervenne Benjamin colpito da quella sincera testimonianza.

Roberto gli sorrise e scosse affermativamente il capo. “Che la fede sia un’esperienza comunitaria è un dato di

fatto, Roberto. Pensa alle nostre comunità parrocchiali, alle associazioni, ai movimenti, ai conventi, agli ordini monastici e claustrali… insomma, anche Gesù si è circondato degli apostoli, non è rimasto da solo! Le esperienze solitarie esistono, penso a certe forme del monachesimo, ma sono più circostanziate e rare” disse Edoardo.

Giulia, che non ne poteva più di un così becero sodalizio maschile, si alzò scrollando le spalle e disse:

“Bèh, se abbiamo finito gradirei tornare a casa!” e guardò torva Roberto.

“Sì, sono le 10.45” lanciò una rapida occhiata al suo orologio “è ora di andare” disse a malincuore.

“Proprio ora che ci stavamo conoscendo meglio: è un peccato andare via adesso che non abbiamo ancora deciso niente di definitivo” propose Benjamin, nel tentativo di venire in soccorso di Roberto. Si rivolse anche a Giulia: “Lasciate passare ancora dieci minuti, per vedere se arriva il settimo, altrimenti andrete via”. Ormai in tutti il tono informale aveva preso il sopravvento sul rigido formalismo dell’inizio.

“A quest’ora non arriverà più nessuno” troncò secca.

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“Beh, aspettare non costa nulla” provò a buttare lì Edoardo, “solo fino alle undici”.

“Roberto, andiamo a casa, per favore. Non stiamo più ad ascoltare tutte queste assurdità!”. E allungò la mano per afferrare la sua borsa appoggiata sul tavolo.

“Potresti accompagnarla a casa e poi tornare qui. Che ne dici, Roberto? Così aspettiamo il settimo uomo misterioso e discutiamo meglio”. Benjamin aveva parlato nel suo solito tono scherzoso. Giulia lo guardò di traverso.

“Non si può. Io e Roberto abitiamo insieme” sibilò Giulia, tagliente come il vetriolo. Pronunciò l’ultima parola scandendo bene le lettere. Aveva l’espressione di una a cui sarebbe bastata una goccia in più per far traboccare dalla bocca improperi ed insulti.

Roberto si manteneva incerto sul da farsi, quando all’improvviso si sentì scampanellare alla porta. Tutte le teste si voltarono a guardare l’orologio appeso alla parete sopra il divano: le ventidue e cinquantacinque.

Roberto emise un sospiro di sollievo, aveva dipinta in volto l’espressione di un naufrago scampato alla tempesta, quando le nubi si diradano e spunta un raggio di sole.

Benjamin esclamò a gran voce: “Avevo proprio voglia di sapere chi sarebbe stato il

settimo. Magari non sono l’unico americano!”. La sua faccia era l’emblema dell’entusiasmo.

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XIV

Laura guardò il marito che – tutti aspettavano quel momento – si alzò lentamente e si avviò verso la porta, curioso di conoscere quale fosse l’ultimo componente del gruppo.

Mentre Edoardo era di là in corridoio, fece capolino Grazia dallo studio di Laura, esclamando:

“Fra cinque minuti sono da voi. Ho da aggiornarvi sui fatti del giorno… Ci sono delle novità…” lasciò la frase in sospeso e corse via.

Le lancette della pendola procedevano con il loro inesorabile “tic-tac”. Scandivano il tempo come se dentro l’antiquato oggetto fosse stato nascosto ed innescato il dispositivo di una bomba ad orologeria. La tensione diventava più palpabile di minuto in minuto.

Poi udirono distintamente due voci che si avvicinavano dal corridoio.

Edoardo si fermò sotto la volta d’ingresso del salotto; la sua espressione, però, lasciava trapelare un insolito disagio, carico d’ una insofferenza che non riusciva a celare. Nessuno ci fece caso, ma lui si sentiva come se gli fosse stato sottratto da un ladro all’improvviso, senza il tempo di rendersene conto, il suo abitudinario savoir-faire. Adottò una presentazione dai toni formali e cortesi, sperando che gli altri non si accorgessero del suo cambiamento d’umore.

“Sono lieto di farvi conoscere il settimo ed ultimo membro di questo progetto di ricerca: un vecchio collega dei tempi dell’università, il prof. Martin Fischer, tuttora noto archeologo professionista”.

E in quel momento fece il suo ingresso nella stanza l’uomo biondo che Giulia ricordava bene, per averlo visto solo il giorno prima in ospedale. Tutti parvero felicemente sorpresi. Tutti meno lei.

Laura gli andò incontro, dicendo semplicemente un: “ Martin, che piacere!”. Lui fece un cenno col capo in risposta al suo saluto. Dopo di che fece lo stesso cenno in direzione degli altri.

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Benjamin era al settimo cielo. Si agitava sul divano, accompagnando i gesti con le consuete esclamazioni sue tipiche:

“Finalmente una persona adatta a portare avanti questo dannato progetto! Magari potrà spiegarci qualcosa di più di quanto sappiamo finora. Non che tu, Edoardo” disse in direzione del padrone di casa, che lo scrutava rabbuiato “non sia stato all’altezza, finora; tuttavia mi sembra che stiamo ancora brancolando nel buio”.

Roberto pareva palesemente soddisfatto. Solo Giulia non riusciva a staccare gli occhi di dosso dal nuovo venuto. Troppo forte era la sorpresa e l’emozione di rivederlo lì tra loro, in modo del tutto inaspettato. Cercava di darsi un contegno, reprimendo sguardi troppo allusivi, ma suo malgrado si ritrovava come ipnotizzata dalla presenza di quell’uomo. Si ricordò che ne aveva parlato a Roberto soltanto la sera prima. Per fortuna non gli aveva detto come si chiamava. Altrimenti ora Roberto si sarebbe accorto che, tanto per dirne una, quel paziente non era poi così tanto malato.

Giulia si era comportata come il suo ragazzo le aveva consigliato: “Lascia perdere!”. Ed infatti non aveva informato il primario, al contrario di quello che le era stato segretamente richiesto dalla zia del paziente. Giulia non se l’era sentita di fare una cosa simile. Provava una certa ripugnanza per il modo in cui aveva agito la signora Pollmann verso di lei, prospettandole una ricompensa; in più possedeva una buona opinione del dott. Albrigi, il vice-primario, anche se non capiva il perché di quelle dimissioni tanto frettolose. Sta di fatto che ora, in casa di Edoardo Righetti, di fronte a Martin Fischer, provava disagio al pensiero che lui sapeva della richiesta che sua zia le aveva fatto, e quel disagio aumentava al pensiero che, magari, Fischer potesse credere che lei avesse agito di conseguenza, allettata dalla futura ricompensa. Si sforzava di non pensarci, ma era come se avesse un mattone sullo stomaco.

“Dio, fa che non mi parli!” pensò Giulia tra sé. E da quel momento cercò di tenere gli occhi bassi, sperando che lui non l’avesse riconosciuta.

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Martin sfoggiava un soprabito elegante e molto costoso, a giudicare dalla foggia e dalle rifiniture. Al momento, però, era tutto fradicio di pioggia, e portava calcato sulla testa un cappello a falde larghe, perfettamente combinato col soprabito. Si levò il pesante soprabito e il cappello, zeppo d’acqua anch’esso, per darli ad Edoardo.

“Vado ad appenderlo all’entrata, sperando ci sia posto!” disse Edoardo. E scomparve di nuovo dietro l’arco, verso il corridoio.

Martin, che sotto l’impermeabile indossava una giacca a quadri scozzese con cravatta e dei pantaloni di lana finissima, andò a scaldarsi vicino al caminetto. Passando davanti agli altri, Roberto non poté fare a meno di notare l’estrema ricercatezza dei suoi abiti e l’accuratezza con cui li indossava. Si sarebbe potuto credere finanche che da giovane avesse fatto l’indossatore. Il suo portamento era alto, fiero, pareva possedere lo spirito di un guerriero mentre incedeva sicuro verso il fuoco. I lineamenti del suo viso sembravano scolpiti da una mano d’artista che nell’insieme pareva si fosse ispirato ad uno dei personaggi dei quadri romantici: un viso estremamente bello ma in ombra, un corpo slanciato, robusto, armonioso, stagliato su uno sfondo temporalesco, la fronte spaziosa, i capelli biondi, ricci, che gli ricadevano a ciocche folte sugli orecchi, il naso aquilino leggermente a punta, la bocca piccola e sensuale. Sembrava la statua di un Apollo greco, mentre era fermo davanti al caminetto, girato, dando la schiena agli altri del gruppo.

Roberto, che aveva osservato attentamente i lineamenti del suo viso e il portamento generale mentre gli passava accanto, tornò a guardare i suoi jeans consunti e le sue scarpe da ginnastica ed avvertì nel suo animo un moto d’invidia. Non fece nulla per dissimularlo. Per di più aveva notato l’atteggiamento strano di Giulia, la quale aveva smesso all’istante di fare l’isterica.

Benjamin era il solo che apparentemente era rimasto sé stesso, ma Roberto aveva fatto in tempo ad osservare un guizzo negli occhi dell’americano mentre Martin attraversava la stanza.

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Edoardo fece subito ritorno nel salotto. Rimasto in piedi sotto l’arco, disse rivolto a Martin:

“Dì anche a loro quello che hai iniziato a dirmi prima, nell’anticamera, quando sei arrivato”.

Martin si voltò, girando le spalle al camino, e con un tono freddo ed accademico cominciò a raccontare:

“La pergamena di cui stavate parlando prima che arrivassi, l’ho scoperta io in Cappadocia tre anni fa. Stavo lavorando nei sotterranei di un antico monastero disabitato, rimasto però fortunatamente in piedi e abbastanza intatto, quando vi ho letteralmente sbattuto contro. Era accuratamente ripiegata e nascosta in un angolo morto del sotterraneo, accanto ad una colonna portante, un punto sempre al buio, sporco e ricoperto di sabbia e detriti. Era arrotolata. Se non ci avessi messo per caso gli occhi proprio sopra, non l’avrei mai vista. L’ho presa, l’ho pulita e con la mia equipe di ricerca l’abbiamo portata al museo della città, domandando di essere ricevuti dal direttore. Lui ascoltò la storia, diede un’occhiata al ritrovamento, e ci mandò all’istante dal sovrintendente alle belle arti di Ankara. Nel frattempo avvertii la curia turca, la quale si mosse subito in maniera esemplare, riuscendo a farsi assegnare dallo stato la custodia del manoscritto, vergato in greco antico.

Per tutti questi motivi, insieme anche ad una certa insistenza del Vescovo, la sovrintendenza lo lasciò definitivamente alla Curia vescovile, la quale però me lo tolse per un anno per mostrarlo ad altri studiosi. Quando s’accorse che sorgevano sempre gli stessi interrogativi, tornarono da me. Venerdì scorso, in tarda mattinata, sono stato nuovamente ricontattato dal Vaticano: ho saputo che per il manoscritto era stato allestito un vero e proprio gruppo di ricerca che ne curasse la traduzione e l’apparato critico. C’è un ulteriore complicazione dovuta al fatto che sulla pergamena in questione sono presenti delle note a margine di cui non si capisce il significato, come degli appunti incomprensibili. Il lavoro più arduo è scoprire cosa significhino. Naturalmente il fatto che compaiano queste note, secondo me, è un elemento che gioca a favore della veridicità del testo, che risulta databile tra il V° ed il X° secolo d.C.; dall’analisi microscopica del materiale residuale imprigionato nelle fibre

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della pergamena (pollini e quant’altro), questa sembra risalire alla regione dove sorgeva l’antica città di Laodicea, e con tutta probabilità si tratta di una Lettera dell’apostolo Paolo. La Lettera di San Paolo ai Laodicesi. Era andata perduta: ora è stata ritrovata.

Ho accettato il lavoro con riserve. Prima volevo conoscervi, a parte te, naturalmente, Edoardo”.

Mentre parlava aveva usato un tono asciutto e distaccato, con il risultato di rendersi maggiormente antipatico ogni minuto che passava. Alla fine tutti lo stavano guardando con un’aria vagamente disgustata.

Ma Martin non sembrò scomporsi. Con aria imperturbabile iniziò a distribuire ai presenti alcune cartine della Turchia antica per mostrare dove si trovassero la città di Laodicea ed il luogo del ritrovamento della pergamena, il cui sito archeologico – come aveva spiegato – era ubicato nella regione della Cappadocia; al momento della distribuzione cerchiò con un pennarello rosso il luogo doce sorgeva la chiesa rupestre in cui era venuto alla luce il prezioso reperto.

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Esaurita la spiegazione aspettò che si presentassero. Benjamin batté tutti in velocità, intervenendo per primo

nelle presentazioni che erano rimaste da fare: “Io sono Benjamin Tolosa. Sono un giornalista americano,

e lavoro nella redazione del maggiore quotidiano italiano come reporter. Da quello che ho capito, dovrei mettermi a disposizione per l’ufficio stampa in questo lavoro”. E gli tese la mano.

Martin gliela strinse, accennando ad un lieve sorriso. Poi fu la volta di Roberto:

“Roberto Sperati, tecnico programmatore” disse porgendogli anche lui la mano. L’altro gliela strinse rimanendo impassibile.

Giulia si limitò a dire il suo nome rimanendo seduta. Anche con lei Martin rimase neutrale e distaccato, impenetrabile. Benjamin riprese la parola dicendo:

“Di là c’è la mia direttrice, Grazia Tommasoni. Anche lei fa parte del gruppo” mentì. “Come lei saprà dai giornali, è stata eletta da poco direttrice dal consiglio di redazione, a seguito delle precipitose dimissioni dell’ex-direttore, invischiato nello scandalo delle Stelle Spezzate. Il Consiglio di Amministrazione dovrebbe decidere a breve se revocarle la nomina o confermargliela. Naturalmente tutti in redazione ci auguriamo che Grazia venga confermata. E’ una validissima giornalista, esperta nel suo settore. Ha letto tutto il polverone che sta venendo sollevato dai giornali in questi giorni?”

Martin annuì col capo e intrecciò le mani dietro la schiena. “Bene” disse “per me si può cominciare anche domani”.

“Martin, tu stai correndo troppo” intervenne Edoardo allarmato, intendendo farsi portavoce del sentimento generale del gruppo. “Spiegaci, secondo te, perché siamo stati scelti proprio noi, con le nostre competenze certo non esaustive, per questo importantissimo e delicatissimo progetto del Vaticano. Mi risulta estremamente difficile da capire”.

“La cosa io la vedo così: occorrerà recarsi là per fare delle ricerche. In Turchia voglio dire. Ogni ricerca archeologica va fatta sul campo. Io e te, Edoardo, daremo una prima occhiata da vicino. I colleghi giornalisti costituiranno l’ufficio stampa: rilasceranno dispacci alle agenzie, interviste ed altro ancora.

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Maggiore sarà la pubblicità, maggiore sarà la possibilità che si facciano avanti potenziali sponsor interessati all’impresa, desiderosi che il loro nome compaia tra i mecenati della traduzione della Lettera ai Laodicesi. D’altronde essa è un tesoro per tutta l’umanità: è naturale che anche altri, oltre al Vaticano, vogliano partecipare alla gloria e agli utili che ne deriveranno; provate solo a pensare ai suoi vari utilizzi: esporla nei musei, effettuare riprese documentaristiche… immaginate che giro di soldi si verrà a creare!”.

A Edoardo non piaceva molto che Martin parlasse così, in termini di vile denaro, di una Lettera Apostolica. Era un po’ come ridurre una cosa pia, uno scritto di pugno di un qualche santo, ad una mera fabbrica di soldi. Per la verità non gli piaceva nemmeno come Martin non si fosse fatto alcun problema a rivelare così precipitosamente, e senza tatto alcuno, che il manoscritto in questione era nientemeno che uno scritto di San Paolo. Tutta la faccenda gli dava sommo fastidio, e non gli era certo sfuggita l’aria di arroganza e superiorità che sprizzava dall’archeologo. Tuttavia non lo interruppe. Si limitò a guardare verso dove era seduto Benjamin: era curioso di osservare la reazione dell’americano a tanta noiosa saccenteria. Ma lui stava ascoltando attentamente, lo sguardo fisso su Martin che continuava a raccontare in maniera pedante.

Martin proseguì nella sua accurata spiegazione. Il tono di voce era sempre noiosamente formale: “Il collega programmatore ci aiuterà a non perdere tempo prezioso. Una nuova branca dell’archeologia moderna utilizza i mezzi informatici per potenziare e velocizzare la ricerca, perché il profitto che scaturirà dalle scoperte archeologiche sarà direttamente proporzionale alla tempestività della ricerca. Una ricerca proficua e veloce vale più di una lenta e dispersiva: sia in termini di immagine, che in termini di sponsor. Ergo, il dottor Sperati dovrà occuparsi di studiare i programmi di traduzione simultanea e combinata, forse dovrà scriverne uno apposito, e la licenza in tal caso ovviamente sarà sua. Potrebbe farci un bel mucchio di soldi, quando la venderà a qualche software house. Può darsi che dovremo incrociare il greco antico con altre lingue dello stesso periodo, per decifrare le

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spinose note a margine. Penso che di queste vi avrà già parlato Edoardo”. I presenti annuirono. Soltanto Roberto alzò la testa per prendere coraggio, dicendo:

“Io non sono laureato. Tuttavia farò del mio meglio”. Roberto vedeva davanti a sé, in questo progetto, il riscatto tanto agognato. Ma Martin gli scoccò uno sguardo di commiserazione. Poi andò avanti: “Il computer ci serve. E’ indubitabile. Ci aiuterà con la prova delle combinazioni dei frammenti di pergamena rimastici di quel periodo e di quell’area geografica; alla fine tutto si riduce al solito calcolo delle probabilità. La nostra pergamena, infatti, è inframmezzata da alcuni buchi: si tratta pertanto di verificare se tra i frammenti pervenutici da quello stesso periodo storico e posizione geografica, non ce ne sia per caso qualcuno corrispondente alle dimensioni e alla sagoma dei buchi sul nostro reperto, ma di questo avrà modo di occuparsi in dettaglio l’esperto del gruppo”. Stranamente non guardò Roberto. Pareva sdegnarlo e non curarsi della sua presenza.

“Come ho già detto prima, bisognerà andare sul posto a scoprire indizi. Una volta là, i nostri nomi conteranno parecchio. Se riusciremo nell’intento, essi saranno pronunciati con venerazione attraverso la risonanza mondiale dei media. Che nel mezzo del deserto turco ci sia io o un mio collega di Oxford, faremmo più o meno la stessa cosa, non trovate? Però ci sono io. E ci siete voi. Non so perché abbiano scelto proprio noi. Ma a me sta bene così. Anzi, mi reputo fortunato, perché diventeremo tutti famosi”.

Più Roberto lo guardava e più lo trovava decisamente insopportabile. A parte il fatto che Martin sembrava possedere al massimo grado un’aria snob e aristocratica che gli conferiva un’aura di austera misteriosità, trattava Edoardo e Benjamin come suoi pari, mentre lui e Giulia venivano sistematicamente ignorati, era troppo evidente. Arrivò anche a pensare che se non fossero esistiti, sarebbe stata la stessa cosa per Martin.

Una voce forte e risoluta dentro di sé gli suggeriva: “Fagliela pagare a quel fantoccio fanatico!”.

Però, di fronte all’atteggiamento sprezzante di Martin, anche l’altra vocina, quella più esile, si era affacciata e ora gli stava insinuando che, forse, non era il caso di mettersi contro

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uno come Martin. “Stai alla larga da uno così…” gli suggeriva. “Non è saggio che ti arrabbi con quello lì… è evidente che si sente una specie di divinità nel suo campo di lavoro; bè, tu lascia che lo pensi pure… e cavati al più presto da questa situazione. Devi dire: mi dispiace, ma non posso proprio impegnarmi. Arrivederci”.

Senza contare che Giulia era divenuta improvvisamente taciturna, e lui non riusciva a spiegarsene il motivo. “Probabilmente è arrabbiatissima con me” sospettò. Ma non ne era del tutto convinto. Per non aggravare ancora di più la situazione con la sua compagna, si alzò in piedi per congedarsi. Prevalse dentro di lui la vocina flebile.

“Beh, mi pare che la situazione sia arrivata ad un punto morto. Signori, io sinceramente non saprei come aiutarvi. Quindi sono del parere di restarmene fuori da tutta questa faccenda. Troverete qualche altro programmatore più bravo di me” disse; ed aggiunse, con una leggera smorfia mista di rammarico e di disincanto: “Non sarà poi così difficile, vedrete”.

“Ma il telegramma l’hai ricevuto tu” protestò energicamente Benjamin “non se ne parla nemmeno. Lassù in alto vogliono te”. E guardò gli altri come per cercare approvazione.

Martin non disse niente. Roberto era al limite della sopportazione con quell’americano. Gli veniva da alzarsi e prenderlo a pugni. Edoardo non sapeva che dire: gli si leggeva in faccia che non sapeva che posizione assumere. Se rincuorare Roberto, esortandolo a dare la sua disponibilità, o lasciarlo stare rispettando la decisione appena presa. Roberto pensò che l’indecisione di Edoardo fosse dovuta al fatto che lui stesso non credeva più di tanto nel progetto. Lo osservò meglio: probabilmente se fosse stato solo per lui, avrebbe lasciato perdere. Ma era come se stesse affrontando un combattimento interiore. Ora che era entrato in scena Martin, ad Edoardo la cosa doveva apparire più seria e affascinante.

Alla fine prevalse nel padrone di casa un guizzo di orgoglio, forse per prendere le distanze da Martin che si comportava come se lui fosse stato il capo, e tutti gli altri i suoi sottoposti.

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“Se devo essere sincero” rispose a Roberto allargando le braccia, dando così l’impressione di accompagnare le parole con un gesto di apertura nei suoi confronti “vorrei te, Roberto, nella nostra equipe. Non sono ancora convinto del tutto di accettare quest’offerta di lavoro, ma se accettassi di condurla” e sottolineò il termine perché tutti capissero che il capo potenziale era lui “io voglio te. Ti ho conosciuto e sono soddisfatto. Anch’io propendo per ritenere che qualcuno ci ha selezionati, in base a qualche motivo a noi sconosciuto, e non dobbiamo tirarci indietro. O tutti o nessuno”.

“O tutti o nessuno, ben detto, Edoardo!” Benjamin era raggiante. “Hai colto perfettamente lo spirito di questo lavoro. Noi saremo uniti in un solo grande intento: restituire all’umanità un testo di incalcolabile valore. Pensate: se questo manoscritto è davvero così importante come sembra, finiremo sui libri di testo delle scuole. Saremo citati sui manuali di archeologia e di teologia. Noi sette: ci pensate!?”.

Giulia, per la prima volta dall’apparizione di Martin, sorrise. Si voltò a guardare Roberto. Dai tratti del viso appariva visibilmente più distesa e rilassata, come se l’idea della celebrità le fosse pian piano entrata in testa, e le piacesse molto. Abbozzò una mezza frase, sottovoce, più rivolta al suo ragazzo che agli altri: “Io non butterei via questa occasione, Roberto… mi sembra che ci potresti lavorare sopra. Nei ritagli di tempo, insomma, voglio dire. Poi se la cosa dovesse veramente prendere piede come si sta progettando, allora le potresti dare più spazio. Deciderai in seguito se è possibile, l’importante è che non ti lasci sfuggire questa possibilità. Cose di questo tipo capitano una volta sola nella vita”.

“Sei attratta soltanto dall’idea del successo e della fama” le rispose lui, che continuava a nutrire seri dubbi sul lavoro e scarsa fiducia nelle sue capacità. “Ragiona: secondo me c’è una possibilità su mille di riuscire a mettere in piedi qualcosa di valido. Non ci conosciamo neanche tra di noi! Ma che razza di lavoro potrebbe venirne fuori!? Quanto a me, poi, dovrei cominciare a studiare da zero certi programmi di analisi dei testi e di traduzione simultanea… Non so proprio dove trovare il tempo, e la voglia”.

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“Sono tutte scuse” ribatté lei. Cominciava a tirar fuori la grinta. “E’ che non ti va perché questo lavoro non ti ispira. Perché non ci credi!” trattenne a stento la voce, ma si vedeva benissimo che avrebbe voluto gridarglielo in faccia.

“Beh sì. E se anche è così? Potrò avere dei dubbi, e scusa tanto se li ho, ma mi sembra la cosa più normale del mondo”.

“Non è normale perdere un’occasione simile!” ringhiò lei. “Tu non sei normale” le urlò lui perdendo la pazienza.

“Solo 20 minuti fa volevi andartene via a tutti i costi! Ora dopo che il signor Fischer – Roberto pronunciò il suo nome a denti strettissimi – ha dipinto un futuro dorato per chi riuscirà nella difficile impresa di tradurre questo manoscritto, che per inciso non so da cosa arguisce che ci riusciremo, ecco che tu cambi idea e ci caschi come un’allocca! Per piacere: svegliati e torna con i piedi per terra”.

Lei lo guardava torva. Sembrava tremasse di rabbia, ma lui continuò sullo stesso tono: “Per me non ce la faremo. Non mi sento a mio agio, non conosco nessuno del gruppo a sufficienza per riuscire a lavorare serenamente. Credo proprio che non ce la farò: per questo non me la sento di prendermi un impegno simile”.

“Tu non ti senti all’altezza di prenderti un impegno simile!” sibilò lei.

A queste parole Roberto si sentì trafitto dalla cruda verità. Se ne accorse subito e si fece scurissimo in volto.

“Io vado a casa” disse senza guardarla. “Se vuoi andiamo. Se decidi di restare, fatti accompagnare a casa da un taxi” e si avviò verso la porta. Un attimo prima di oltrepassarla si ricordò che nella stanza c’erano anche gli altri, che avevano assistito sbigottiti a quella lite. Si fermò e si girò verso di loro: erano tutti muti come statue di pietra.

“Scusatemi. La mia ragazza dice che sono un vigliacco. Credete quello che vi pare. Io me ne torno a casa. Piacere di avervi conosciuto”. Parlò stancamente, senza energia né entusiasmo nella voce, come avesse perso ogni gioia di vivere.

Edoardo, che era rimasto impietrito come gli altri, si riscosse velocemente e gli corse dietro. Si udivano i due parlottare nel corridoio. Gli occhi degli altri erano tutti puntati su Giulia. Martin girò le spalle al gruppo, e si mise a guardare

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il caminetto. Forse voleva scaldarsi i piedi, o le gambe, dato che i suoi stessi vestiti parevano ancora umidi. Comunque era chiaro che voleva rimanere fuori da quella bega. Laura non sapeva che fare o che dire, mentre il marito era di là, da solo, a trattare con il primo membro del gruppo che dava segno di resa completa e definitiva. Benjamin disapprovava la sfuriata, ma gli faceva anche pena la fanciulla, per cui le disse in tono amichevole:

“Ti prego, non lasciarlo andare via così triste e sfiduciato! Abbi un po’ di comprensione per il tuo fidanzato!”.

“E’ lecito avere dei dubbi” intervenne Laura, che però non se la sentì di usare lo stesso tono informale dell’americano: “l’importante è risolverli insieme. Vada a parlargli”.

“Non lasciarlo da solo” tornò a esortare Benjamin. Commossa dalle parole appena pronunciate appositamente

per lei, e un po’ vergognandosi di aver perso in così malo modo la calma, Giulia uscì dalla stanza e raggiunse Roberto ed Edoardo in corridoio. Roberto aveva già indossato la giacca a vento e stava per andarsene. Quando la vide si arrestò e attese. Quando gli fu davanti, lei gli sussurrò piano: “Scusami, ho esagerato. Sentiamo solo il parere di tutti prima di andare via. Ti chiedo soltanto questo, prima di andare via. Poi il signor Righetti riferirà tutti i pareri, e sarà il Vaticano, allora, a decidere”.

“Sì, giusto, ha detto bene, signorina” approvò Edoardo, al quale parve un discorso saggio. E rivolgendosi a Roberto: “Penso che farò proprio così: raccoglierò i pareri di tutti quanti, e poi domani alle tredici, davanti agli inviati del Vaticano, glieli riferirò con precisione, senza tralasciarne alcuno. Ci penserà l’ufficio del Card. Mac Collough a sbrigarsela e se tu cambi idea non devi fare altro che dirmelo entro domani”.

Roberto capitolò, e tutti e tre tornarono in sala. Anche Giulia nel frattempo aveva già indossato il cappotto, pronta per andarsene; ad un primo colpo d’occhio sembrava aver fatto pace con Roberto.

Edoardo spiegò che avrebbe sentito le opinioni di tutti e le avrebbe riferite al suo diretto superiore, responsabile del progetto.

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Benjamin confermò entusiasta la sua adesione incondizionata. Senza ombra di dubbio era il più idealista. Martin si limitò a confermare un: “Io ci sto”, sottolineando io, come se gli altri non gli interessassero. Giulia sorrise, azzardando un: “Mi piacerebbe provarci. In effetti ho cambiato idea. Prima ero spaventata dalla prospettiva del viaggio in Turchia, ma adesso mi sembra che tutto sommato siamo una buona squadra, mi sento più incoraggiata…”. Accanto a lei Roberto non disse nulla. Edoardo lo prese per un no, anche se il proverbio dice: “Chi tace acconsente”. Quanto a sé stesso esclamò: “Vada per la maggioranza. Comunque io ci rifletterò sù questa notte. Speriamo che il sonno porti consiglio, come si suol dire”. Alla fine di tutto parve alquanto sollevato. Laura gli sorrise, lasciando trapelare però un velo di preoccupazione. “Farò tutto quello che posso per aiutarvi” disse risoluta.

“Manca solo Grazia” esclamò Benjamin allegro, “vado a chiamarla!” e si allontanò in un baleno. Altrettanto velocemente li rividero comparire: questa volta però era lui ad avere la faccia allarmata e gli era anche sparita la consueta espressione gioviale dal volto. Grazia si piantò in mezzo alla stanza, esclamando a voce alta: “In queste ore il Parlamento deve votare la fiducia al governo. E’ un momento cruciale. Sono stati scoperti altri tre esponenti del governo appartenenti alle Stelle Spezzate. E’ un autentico stillicidio, non finisce più. Sta succedendo il finimondo a Montecitorio: vi lascio immaginare. Quelli dell’opposizione hanno paura che ancora un poco e venga fuori che anche il Presidente del Consiglio e le più alte cariche siano coinvolte. Naturalmente il governo sdrammatizza e assicura che si tratta di casi isolati. Ma la paura è fortissima. E’ in pericolo l’esistenza stessa delle nostre istituzioni. Non so se mi spiego. Mi dispiace, ma non posso mollare il giornale. Non se ne parla nemmeno. Ho già spedito una e-mail per avvisare quelli della redazione che rientrerò a Milano domani mattina prestissimo”.

“Quanto a te, Benjamin” e si voltò a guardare l’americano “il tuo compito per ora è di fare un’ottima cronaca da qui. Resta e facci sapere tutto quello che sta succedendo in questi attimi cruciali. Ti consiglio di venire di là con me, nello

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studio, e di dare un’occhiata tu stesso ai resoconti in tempo reale delle agenzie stampa”. Parlava scandendo bene le parole, ma era trafelata e spossata. Benjamin assunse un’espressione di malavoglia sul viso e le rispose: “Agli ordini, capo”. Tuttavia aggiunse: “Mi tengo comunque a disposizione per questo progetto”. Edoardo gli fece cenno col capo che aveva capito.

Grazia, che si sentiva completamente coinvolta nella situazione di pericolo in cui versava il paese, continuò sullo stesso tono: “E poi il Consiglio di Amministrazione del giornale sta per nominare il nuovo direttore del giornale. Dovrebbe riconfermarmi, forse, me lo auguro… sta di fatto che devo fare del mio meglio. E vi assicuro che è mia intenzione non deludere nessuno, né i lettori del giornale, né la redazione, né tanto meno il consiglio di amministrazione. Devo tenermi disponibile a qualsiasi nuovo ordine che potrei ricevere” concluse.

A questo punto Benjamin, esasperato da così tanta miopia sul progetto del Vaticano, si piazzò davanti alla sua collega, come per persuaderla del contrario:

“Ma Grazia, usa la tua testa adesso e rispondimi. Non pensi che potrebbe esserci un collegamento tra le Stelle Spezzate, che sembrano perseguire la destabilizzazione del paese ad ogni costo, ed il manoscritto? Lo so che la sto sparando grossa, ma pensaci bene: tutti i personaggi affiliati al movimento eversivo sono uomini di cultura, pensa solo al nostro direttore e ai suoi collaboratori. Ora, in più, si aggiungono anche un ministro e due sottosegretari, se ho ben capito quello che ho letto mentre ero di là con te, come se questo gruppo schifoso fiutasse per proprio conto una pista segreta… e se stessero cercando qualcosa? Se volessero appropriarsi loro della Lettera ai Laodicesi per venderla, camuffarla, deriderla, distruggerla o che so io? Magari contiene qualche informazione segreta…! C’è sempre il fatto delle note a margine che anche per gli esperti del Vaticano sono risultate incomprensibili: e se contenessero una qualche spiegazione sul futuro prossimo della terra?!”

“Dai, Benjamin, non venire fuori con queste idiozie, per favore. Il passato lascialo dov’è. E poi, da quanto ho capito,

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questo manoscritto è già stato rivoltato come un calzino da un’equipe di studiosi eccellenti. E tu adesso vorresti farmi credere che voi sareste più esperti degli esperti?” ironizzò Grazia con un mezzo sorriso.

“Saremo più fortunati, se il cielo ci aiuta” la redarguì Benjamin. “Se andiamo d’accordo e ci aiutiamo come una squadra affiatata vedrai che ci riusciremo. Tutti i normali gruppi di ricerca finiscono per aggrovigliarsi in dispute velenose tra i componenti, che si stimano tutti gran cervelloni. Per cui uno non vuole conformarsi a quello che dice un altro, anche se quest’altro ha ragione. E così facendo, il gruppo naufraga”.

“E voi cosa avreste in più di un’equipe esperta e famosa?” lo pungolò.

“Che non siamo esperti. Tanto meno ai massimi livelli. Per questo dobbiamo aiutarci, veramente. Altrimenti tanto vale rimanere a casa, e non cominciare nemmeno”.

“Hai ragione” disse Edoardo “Forse hanno pensato proprio questo, nel convocarci qui, stasera”.

Grazia, sempre in piedi in mezzo alla stanza, scrutò Benjamin. Non si era ancora spostato e rimaneva ben posizionato di fronte a lei. Era come un nemico da superare, se lei voleva ottenere che lui si sedesse o almeno si spostasse. Ma l’americano era un osso duro. Aveva parlato buttando fuori adrenalina da tutti i pori, ed era ancora carico di tensione. Aveva tenuto il tono concitato di chi crede a tutto quello che dice, e ci mette l’anima nel cercare di convincere anche gli altri. Grazia doveva far sì che quella commedia finisse, ed al più presto. Cambiò tattica:

“Benjamin, per favore, non farneticare. Io rischio il posto se non scrivo i miei articoli ed eseguo il mio dovere di direttrice. Ho il giornale da seguire, prima di tutto”.

“E’ un momento cruciale, però. L’hai detto tu stessa” riprese. Sembrava animato da un fuoco interiore che lo divorava “pensaci bene: devi accorgertene! Le due cose sono sicuramente collegate. Diavolo: come fai a non rendertene conto!?”

Edoardo cercò di mediare. Si alzò in piedi anche lui per esprimere il proprio parere: “Ma se anche fosse, se cioè le due

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cose fossero veramente intrecciate tra loro, la qui presente direttrice dovrebbe comunque lavorare. Come farebbe a seguirci?” obbiettò.

“Ma la farei io la rassegna stampa!” proruppe Benjamin, come annunciasse la soluzione difficilissima di un rebus. E poi rivolto a Grazia: “Tu mi affiancheresti ogni tanto, giusto quando puoi…”.

“Ma sei pazzo?! Perderei la faccia inseguendo un progetto di lavoro come il vostro! E poi, Benjamin, tu avrai da seguire i tuoi filoni di inchiesta. Non ti potrei mai assegnare degli articoli su qualcosa di ancora non ben definito. Hai un nome importante da difendere. Che figura ci faresti?!” rispose Grazia spazientita.

“Mi farò dare questa inchiesta. Che tu lo voglia o no. Non ne voglio altre” sbuffò sicuro di sé.

“Ma non hai uno straccio di prova per convincere gli altri, su al giornale, che quello che dici sia vero!”.

Benjamin la guardò per un attimo non sapendo cosa replicare. Era stato davvero messo alle strette e con tutte le sue forze cercava qualche appiglio per difendere ancora la sua tesi, che però era difficilmente sostenibile perché gli mancavano vere prove. All’improvviso sentì alle sue spalle una voce pacata:

“In tal senso posso aiutarla, signor Tolosa”.

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XV

Martin si era staccato dal fuoco ed aveva mosso qualche passo verso il centro della stanza, accanto ai due giornalisti che discutevano animatamente come due attori sul palcoscenico. “Lei ha ragione, e mi congratulo per la sua perspicacia. Le darò tutte le prove che vuole”.

Tutti lo guardarono esterrefatti. Prima ancora che Benjamin potesse aprir bocca per dire qualcosa, Martin proseguì: “Sono io il responsabile che ha fatto aprire l’inchiesta che sta falcidiando così tanti nomi illustri. Io sono il cosiddetto “pentito” di cui hanno parlato i giornali: colui che prima faceva parte delle Stelle Spezzate, e ora non più”.

Cadde un silenzio irreale nella stanza. Grazia era senza parole. Tutti gli altri ammutoliti. Da Edoardo trapelava un’ombra di disapprovazione quando esclamò:

“Martin, eri dalla loro parte? Ma cosa ci stavi a fare?!” Benjamin gongolava per la rivelazione appena ricevuta e

per l’enorme fiducia accordatagli da quello strano ed enigmatico individuo. Si pavoneggiava in mezzo a tutti per aver fatto centro in maniera così brillante. Roberto e Giulia erano paralizzati dallo stupore. Dimenticarono in men che non si dica che stavano per andare a casa, e rimasero piantati in piedi insieme agli altri, infagottati nei loro cappotti. Nel frattempo la disapprovazione di Edoardo si era tramutata in aperto disgusto, e non si curava di celare il viso sempre più ombroso ed incupito. Laura era bianca come un cencio.

A Grazia non rimase che cedere. “Mi arrendo” disse infine. “Se riuscirai a convincere me e la redazione nel farti dare l’inchiesta, fornendoci prove e fatti attendibili, ti appoggerò e farò tutto il possibile per aiutarti”.

Tutti la applaudirono, tutti tranne Martin. Senza dubbio la confessione di Martin aveva avuto l’effetto

di ricompattarli tutti, a sorpresa, e nello stesso momento. La prima a muoversi fu Grazia, che corse di là perché

squillò il suo telefonino cellulare. Poi fu la volta di Edoardo che, come padrone di casa, prese subito la parola:

“Martin, ma c’è un’inchiesta anche su di te, per caso?”.

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“No” rispose. “Sono rimasto in mezzo a loro per sei mesi. Mi avevano raggiunto con la scusa di scrivere un articolo per la loro rivista, “Il crepuscolo dorato”. E quasi stavano per riuscire ad incastrarmi. Sai, la loro è una rivista che arriva solo per abbonamento, e devo dire che sono rimasto molto impressionato dal numero di abbonati. Arriva anche a semplici simpatizzanti, insegnanti, liberi professionisti. Apparentemente è una rivista di cultura, solo molto ricercata, liberal e snob. E’ difficile, comunque, entrare nel suo circuito di distribuzione. E’ una cosa molto esclusiva e bisogna essere presentati da qualcuno che sia già abbonato per sottoscrivere a propria volta l’abbonamento. Secondo me, tanti non hanno nemmeno capito che è l’organo ufficiale di trasmissione delle idee del movimento. Ma iniziando da quelle pagine patinate, passi poi a leggere i loro scritti. I saggi degli articolisti di punta, intendo; quelli che scrivono quasi tutte le volte sulla rivista. Per inciso, è trimestrale. Cominci a frequentare i loro salotti mondani, i circoli d’intrattenimento. Naturalmente devi sempre essere presentato da uno che sia già inserito a sua volta. E questo scatena nel neofita la ricerca spasmodica di farsi agganciare dai personaggi in vista dell’entourage. E’ una lotta all’ultimo sangue, e anche all’ultimo euro. Così facendo non ci si accorge, intanto, di aver già iniziato a vedere le cose in un certo modo… e il dado è tratto. Diventi dei loro, senza accorgertene. E’ una metamorfosi seducente perché fa leva sull’ambizione smisurata dell’uomo a raggiungere le fonti del potere. Alletta e stuzzica l’intelligenza delle persone attraverso lo sfoggio di un’erudizione non convenzionale, cosicché si è convinti di sapere quello che gli altri comuni mortali non sanno. Ma nel frattempo più si frequentano i loro salotti e i loro ambienti, più viene iniettato un veleno malefico che uccide l’interesse per le cose normali, quelle di tutti i giorni, trovandole noiose, banalmente proletarie o borghesi, sciatte. L’apatia si trasforma pian piano in disgusto, e il disgusto in odio. Odio per la vita, per il prossimo. Per i familiari, che magari non sono nemmeno a conoscenza dei nostri interessi e di come li abbiamo approfonditi. Alla fine si arriva, senza nemmeno sapere come e perché, a giudicare con sprezzante alterigia e superiorità morale le vicende politiche e

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mondane che ti circondano, gonfi solo di una cieca volontà di dominio sugli animi deboli.

“Le Stelle Spezzate non vogliono cambiare il mondo, né tanto meno salvarlo. Non vogliono redimerlo, come i cristiani. Non vogliono conquistarlo come i musulmani. No: niente proseliti, né con la predicazione, né con la forza bruta. Vogliono solo sedurre con il nettare delle loro idee, per mostrarne al mondo la forza. Per mostrare quanto gli altri, quelli che non la pensano come loro e rimangono fuori dai loro circuiti di comunicazione, siano degli stupidi, dei superstiziosi, dei poveri trogloditi che ragionano come uomini primitivi.

“Ma al posto della conoscenza del mondo così come la si ottiene dai libri scolastici, non propongono nessuna nuova visione della realtà e delle cose, al contrario di ciò che accadeva, per esempio, per le ideologie del secolo scorso. Il capitalismo insisteva sulla necessità del libero mercato in modo che, esente da soffocanti leggi di regolamentazione, facesse da motore per diffondere sempre più ricchezza tra i popoli. Il comunismo sovietico e poi il socialismo europeo hanno puntato invece sul bisogno di un’elevazione dei ceti più bassi fino ad un livello dignitoso di reddito, uguale per tutti. Solo che entrambi, così facendo, hanno fatto dilagare la piaga della corruzione e del materialismo: sia i capitalisti, affamati di ricchezza tanto da far diventare il mercato soltanto il luogo dove vige la legge del più forte; tanto i socialisti, nel tentativo di apparire i salvatori del mondo e i portatori della vera giustizia: quella che distribuisce tutto a tutti.

“Aderendo alle Stelle Spezzate si riceve solo un odio sviscerato per tutti i cittadini dell’Europa, e per l’Europa stessa. Per il resto si rimane vuoti dentro, e presto questo vuoto, questo non-senso, viene colmato dalla rabbia e dall’orgoglio, dal disprezzo per la vita e da un odio feroce. E’ un circolo vizioso: il male che diventa sempre più male assoluto.

“Non ne sarei mai uscito da solo. Ma è successo un imprevisto: mi sono ammalato, gravemente… e in quei momenti di sofferenza, mentre ero fermo a letto, mentre ricevevo le cure amorevoli di persone che si sono dimostrate

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veramente amiche, qualcosa dentro di me è cambiato. L’odio instillatomi si è incrinato, come un vaso che si rompe in mille pezzi. Il loro incantesimo si è spezzato”.

“Come hai fatto a lasciarli?” gli chiese Edoardo, con interesse crescente. Anche gli altri non si erano persi una sillaba del suo racconto e non gli staccavano gli occhi di dosso.

“Il destino si è rivelato più forte delle loro malvagie trame. Mentre mi trovavo in un posto a svolgere ricerche per conto loro, in un bellissimo anfratto nella parete rocciosa a picco sulla spiaggia, non so come sono precipitato. Qualcuno mi ha raccolto da basso e mi ha portato all’ospedale per le prime cure: penso si trattasse di uno o due pescatori del luogo. Questo tale ha raccontato di avermi trovato svenuto sulla spiaggia. Per fortuna in quel punto non c’erano scogli o sassi aguzzi. Però ho fatto un volo di sei o sette metri e ho riportato diverse contusioni e una frattura piuttosto grave alla gamba destra. Sono rimasto in ospedale quasi due mesi, però mi è servito: lontano dai miei familiari, con il loro stile di vita dispendioso, e soprattutto lontano dai discorsi che si erano impressi in me frequentando le Stelle Spezzate, ho ritrovato il senno perduto. Il peggio è venuto dopo. Una volta fuori dall’ospedale ho trascorso un periodo di convalescenza come ospite di un tale che avevo conosciuto nel mio stesso reparto. Aveva un piccolo negozio di rigattiere, una persona semplice e di buon cuore. Ma soprattutto tanto saggio e con così tanto spirito pratico che la sua presenza è stata per me benefica come un balsamo. Gli ho raccontato tutto e lui mi ha invitato a stare da lui quanto volevo. Tutto il tempo che mi sarebbe servito per riprendermi da quei mesi d’inferno.

“Intanto le Stelle Spezzate hanno aspettato che fossi arrivato da quel piccolo negoziante, per venire a cercarmi. Quando hanno realizzato che non volevo più collaborare con loro, sono passati alle minacce vere e proprie, finché hanno tentato di screditarmi sul lavoro facendomi passare per matto. I miei credono che io sia affetto da una fortissima depressione con tendenze suicide: sapete, per via del tuffo dalla scogliera. Ma di quella caduta io stesso non so ancora capacitarmi, so solo che non mi sono buttato di proposito, anche se non ho la

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benché minima idea di come sia potuto accadere. Forse ho perso i sensi, a causa delle crisi di diabete che ultimamente mi stanno capitando, sempre piuttosto forti”.

Giulia sobbalzò a sentire quelle parole. Le rivelazioni che Martin stava inanellando una dopo l’altra a proposito della sua vita privata confermavano l’intuizione iniziale che le era sorta quando l’aveva conosciuto in ospedale. Era un uomo che aveva bisogno di aiuto. E non era così malato come i suoi familiari volevano far credere a lei e al Primario. Tutto sommato, forse era stato un bene che Albrigi gli avesse fatto cessare gli psicofarmaci.

“Non hai paura che attentino alla tua stessa vita?” gli chiese Edoardo preoccupato. Per un momento aveva messo da parte il torvo risentimento che prima aveva stampato in faccia.

“L’ho messo in conto, per questo voglio aiutare chi, come il signor Tolosa, ha scelto di lavorare per stanare quelle carogne scellerate e portarle al tribunale della Corte Europea. Infatti serve un tribunale sovranazionale per giudicarli, perché sono ramificati in tutta l’Unione, altrimenti ogni stato li tratterebbe in maniera diversa se li giudicasse per proprio conto, mentre sono tutti ugualmente colpevoli di cospirazione eversiva, anche se di fatto non c’è l’uso delle armi”.

Laura espose i suoi dubbi a riguardo: “Ma come può un tribunale sovranazionale come quello dell’Aja, specializzato in crimini contro l’umanità, intervenire contro un movimento che, per quanto abbia valori assai discutibili, dimostra di non voler rovesciare gli stati con l’uso della forza? Ammesso sia questo quello che voglia. In Europa c’è libertà di espressione. Viviamo tutti in stati democratici. A me sembra che, senza che li si trovi con le armi in mano, sia difficile incriminarli”.

“Il proverbio dice che si uccide più con la lingua che con la spada” affermò Benjamin. “Signora, questo movimento è eversivo fin nel suo midollo, perché si propone come scopo finale la destabilizzazione dell’Unione Europea. Ha presente gli scritti ritrovati in casa del mio ex-direttore? Ebbene, quelle pagine, così come le ho potute leggere al momento della loro pubblicazione, si prefiggono di smembrare l’Unione, colpendola al cuore: nel suo mercato. Nei suoi processi

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economici, nei suoi scambi commerciali, negli affari. E mi duole dirlo: ma non ci potrebbe essere arma più potente”.

Laura sospirò e abbassò il capo, preoccupata. “Il pericolo c’è ed incombe” riprese Martin con nervosismo

e apprensione visibili, agitando convulsamente le mani sudate “le menti diaboliche che guidano l’organizzazione hanno capito che quando si vuole distruggere un continente si fa più presto se si lede la sua economia. Vogliono far diventare l’Europa come era l’Africa il secolo scorso: un ammasso di stati poveri, non più coesi tra di loro, indeboliti e bisognosi continuamente di aiuto, in guerra perpetua tra loro e dentro di loro. Gli europei ridotti alla fame, disoccupati, morenti. Pensate che scenario!

Il loro progetto si è già in parte realizzato: dare vita, in ogni stato dell’Unione, ad un piccolo gruppo che diffonda come un virus letale queste idee, celate sotto forma di suadenti percorsi culturali da proporre ad uomini ignari ma ambiziosi di eccellere nel campo della formazione e del sapere. E ora è iniziata anche la seconda parte del piano: infondere paura nella popolazione dell’Unione, per dare alla situazione attuale una concreta possibilità di destabilizzarsi a tutti i livelli: politico, economico, sociale”.

“Stai parlando di un clima di paura come se fossimo in guerra. Ma dove la vedi? Mi dispiace deluderti, ma non ti seguo” rispose perplesso Edoardo.

“Mi dispiace invece deludere la tua indiscussa perspicacia, ma siamo già di fatto in guerra, mio caro amico. Le Stelle Spezzate corrompono l’ordine mondiale economico. Ciò comporta instabilità, oscillazioni dei titoli in Borsa, crisi del mercato finanziario, ristagno degli scambi commerciali, perdita del potere di acquisto, inflazione, recessione. La storia insegna che gli uomini sono sempre scesi in piazza per difendere il prezzo del pane.

Ma destabilizzare l’ordine economico è solo l’antefatto, la punta dell’iceberg. Il più è una guerra segreta, invisibile, sconosciuta alla maggior parte della popolazione, e noi qui presenti stasera siamo l’avanguardia di quelli che la combatteranno. Ma per vincere un nemico così ben nascosto, come un serpente che si cela in mezzo all’erba alta, è

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necessario colpirlo alla testa e schiacciargliela”. E qui Martin tacque un istante e fece come per raccogliere le forze per dire qualcosa che gli riusciva difficile: “Bisogna colpire le menti malvage a capo della cellula principale, la numero uno, quella da cui tutte le altre sono nate. Le Stelle Spezzate la chiamano “Dimora Originaria” e pochi, quasi nessuno, sa dove si trovi esattamente”.

“Ci sono troppe cose che non capiamo” interruppe Benjamin, “troppi punti oscuri. Dov’è dunque questa Dimora Originaria? E dove sono questi segnali di guerra in atto? Quali sono stati i segni premonitori e le avvisaglie di tutto questo? E soprattutto, perché il Vaticano e non qualche altro organismo nazionale starebbe preparando il contrattacco? Scusa, ma da quando in qua la Chiesa è autorizzata a combattere contro un movimento politico-culturale, per quanto fanatico e pericoloso?! La Chiesa può combattere eresie, o esortare contro certi modi falsi e sbagliati di pensare e di agire, come ha fatto in passato. Come ha fatto, ad esempio, contro il nazismo e il comunismo nel secolo scorso. Può emettere Encicliche, Esortazioni Apostoliche, può radunare migliaia di persone in piazza, può manifestare e protestare pacificamente, può usare la sua Diplomazia, ma non può combattere con le armi: oh bella, le crociate sono finite da un pezzo! ”.

Anche Edoardo mostrava di condividere le stesse idee e disse rivolgendosi a Martin: “Il nostro collega americano ha ragione. La Chiesa non può combattere nel senso di reprimere con le armi o con qualcosa di simile. Le uniche armi della Chiesa sono la preghiera, i sacrifici, la carità verso i poveri… insomma, la Chiesa è vittoriosa quando è unita al suo Signore, a Cristo, quando sale in croce con lui. Lo si è visto nelle Chiese perseguitate dell’Est Europa, della Russia ad esempio, durante i regimi comunisti del secolo scorso. Quelle Chiese hanno patito feroci persecuzioni: sterminio di fedeli e sacerdoti, divieto di celebrare, divieto di pregare, proibizione persino di tenere in casa la Bibbia ed altro ancora. Eppure quella sofferenza è servita a purificare la fede di quei popoli; le persone che non hanno perso la fede, anche se in alcuni casi è costato loro la vita, alla fine hanno visto la vittoria del Signore: il comunismo è crollato. Dio è fedele con il suo

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popolo. Se la Chiesa sta unita a Lui nelle persecuzioni, anche nei momenti difficili o cruciali come quello odierno di cui tu ci stai raccontando, Martin, allora il Signore si impegnerà certamente a salvare la sua Chiesa. Io ne sono profondamente convinto”.

Al sentire quelle parole il viso di Martin fu attraversato per un attimo da una smorfia di cattiveria. Ma fu così rapida che nessuno la notò. Riprese con calma:

“Non metto in dubbio che la Chiesa non possa combattere come fanno le singole nazioni, cioè con l’uso della forza. E’ ovvio. Quello di cui l’umanità ha bisogno, ora, è di una chiara indicazione di dove si trovi la verità e di dove si celi, invece, l’inganno. E le Stelle Spezzate indubbiamente, pur presentandosi come l’unica verità per gli uomini, di fatto sono un colossale errore. Il problema è che i singoli stati, ormai, sono troppo deboli. Non possono fare molto per convincere la gente a non provare paura, odio, rancore, sete di vendetta, voglia esasperata di giustizia contro questo potente ma inafferrabile gruppo. Guardate l’Italia: al punto in cui siamo arrivati non sappiamo se il governo riuscirà a durare un’altra settimana; e anche fosse votata la sfiducia e si andasse a nuove elezioni, nessuno andrebbe a votare senza la paura e l’incertezza sul futuro. Un macigno pesa sulle nostre teste: rendetevene conto. Non siamo più sicuri di nulla. Anche il mio vicino di casa potrebbe far parte delle Stelle Spezzate. Guardatevi attorno! Lei è un giornalista, signor Tolosa: queste cose dovrebbe saperle meglio di me. L’Italia è in una fase di recessione: la povertà sta dilagando tra le fasce deboli della popolazione e lo stato non è in grado di arginarla, né tanto meno di contrastarla. E’ marcio fin nelle ossa: ormai il virus è arrivato fin dentro il Parlamento. Chi lo toglierà ora? O forse lei pensa che, alla fine, tutto s’aggiusterà? E’ forse così ingenuo, signor Tolosa?”.

Benjamin per la prima volta rimase in silenzio, figurandosi mentalmente uno scenario da incubo. Martin proseguì. “Io, insieme al Cardinale Mac Collough e al suo staff”, Edoardo gli lanciò un’occhiataccia sentendo parlare con tanta familiarità del capo della sua missione “pensiamo che le note a margine della Lettera ai Laodicesi siano in realtà una specie

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di messaggio cifrato. Di un periodo successivo naturalmente, diciamo di circa cinquanta, ottanta anni dopo la sua stesura originaria. Pensiamo che questo manoscritto appartenente alle prime comunità cristiane contenga una visione o delle tracce per interpretare i tempi in cui viviamo, una specie di seconda Apocalisse. Voi tutti sapete che l’Apocalisse fu scritta durante la terribile persecuzione di Domiziano per infondere coraggio ai cristiani che venivano martirizzati come bestie da macello. Ma la sua interpretazione va ben oltre i tempi in cui questo testo è stato scritto, e si rivela valida anche per i giorni nostri: la lotta tra il bene e il male, tra l’esercito del demonio – il drago dell’Apocalisse – e le schiere angeliche capeggiate dall’Arcangelo Michele. Ed infine colei che schiaccerà la testa al male definitivamente… Ebbene, venendo alla Lettera ai Laodicesi, lo staff del Cardinale Mac Collough, e lui per primo, ritengono che questa lettera, ritrovata così incredibilmente proprio in questi anni, sia una chiave interpretativa vincente che la Provvidenza di Dio manda per sconfiggere l’odierno pericolo che incombe sull’umanità. Pensate se le Stelle Spezzate dilagassero fino a conquistare l’intera Europa! Sarebbe la fine per tutti!”.

Fece una pausa per schiarirsi la voce, per dare a tutti il tempo di rendersi conto della gravità del problema e perché fossero in grado di elaborare a sufficienza quella mole enorme di informazioni che Martin stava fornendo loro tutte in una volta. Poi riprese, il tono di voce più pacato e narrativo, come si accingesse a raccontare un fatto storico:

“Il manoscritto circolava nelle prime comunità cristiane. Vi ho già spiegato che la precedente commissione di saggi ha stabilito che per stile, contenuto e sintassi il testo è potenzialmente attribuibile al cosiddetto “apostolo delle genti”, a San Paolo. E io dico che lo è veramente. Dalla lettura del testo, per quello che mi è stato riferito, si evince una visione simile a quella dell’Apocalisse, anche se non è proprio uguale perché S. Paolo non è S. Giovanni, i loro intenti sono decisamente diversi, per non parlare poi dei loro stilemi… però il messaggio che ne esce è simile: in questo caso una comunità precisa (e non la Chiesa Universale come nell’Apocalisse di S. Giovanni) è minacciata da un pericolo

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concreto. La prospettiva è che questo pericolo dilaghi sempre di più, per cui Paolo si dilunga nell’ammonire, nel correggere e nel suggerire con insistenza la preghiera, l’assiduità nello spezzare il pane (cioè la messa) e la pratica delle opere di pietà e di misericordia. Poi, però, l’avvertimento dell’apostolo si dimostra vano: i cristiani di Laodicea perdono la fede, la comunità muore. La lettera rimane accantonata da qualche parte, finché se ne perde persino la memoria. Le altre comunità cristiane non sono a conoscenza del manoscritto, perché nel periodo in cui la chiesa di Laodicea andava sempre più corrompendosi, si è anche progressivamente isolata. Oppure, più semplicemente, la lettera è andata perduta.

Poi essa ricompare nel XXI secolo con delle note a margine.

Il Vaticano propende per datarle ad un periodo sicuramente successivo alla stesura della lettera: in effetti alcuni studi fatti sull’inchiostro, sui pollini e su tutto il resto spostano quella sconosciuta calligrafia di un’ottantina d’anni più avanti rispetto alla datazione della testo principale della pergamena. Immaginiamo cosa sia potuto accadere: un uomo che sa leggere e scrivere trova la pergamena, la legge e capisce che si tratta di un vecchio scritto cristiano, ma ormai il cristianesimo lì è morto, e così lui la usa per scriverci a fianco le sue considerazioni. Ma già qui sorge un problema: se l’ipotetico scriba non è minimamente interessato al contenuto cristiano della lettera, perché non cancellarla del tutto, raschiarla cioè, e scriverci sopra tutte le annotazioni che voleva? Mac Collough mi ha risposto che, in linea ipotetica, al nostro scrivano avrebbe potuto dispiacere cancellare un prezioso documento come quello, per cui si è limitato a scribacchiare qualcosa a margine, per mostrare il documento in un secondo tempo, con il suo contenuto, ad una sede vescovile e farsi pagare, in cambio del rilascio del manoscritto. Ma io personalmente ho un’altra idea. Naturalmente siamo nel campo delle libere supposizioni, ma se l’apostolo Paolo, visitando quella comunità cristiana ormai corrotta dal denaro, proprio come si verifica anche oggi, avesse fatto a voce delle brevi catechesi che spiegavano ancor meglio la lettera, e poi queste per qualche motivo sconosciuto

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avessero cominciato a girare per le altre comunità cristiane… capite: queste, le glosse, e non la lettera. Cominciano cioè a far parte della tradizione orale della Chiesa. Poi la lettera va perduta, o qualcosa di simile. Ma la sua spiegazione più dettagliata rimane viva, tramandata di voce in voce. Due secoli dopo il nostro scrivano di cui sopra trova la lettera e capisce di cosa si tratta. Conosce anche l’aggiunta orale, perché è uno dei pochi cristiani rimasti in Asia Minore, cosicché la annota a margine. Sono frasi veloci, apparentemente incomprensibili perché il suo scopo è quello di sintetizzare in maniera svelta le catechesi dell’apostolo: perché lui, che le conosce per esteso, e ne comprende il significato da quei brevi cenni, le avrebbe usate come base per ricostruire tutto il discorso. Improvvisamente lo scrivano muore, o gli viene rubato il manoscritto. Anche la spiegazione orale col tempo sparirà del tutto, non più tramandata dalle comunità cristiane della Turchia che cominceranno ad indebolirsi, fino a soccombere con l’avanzata dell’Islam.

Ora veniamo a noi e al nostro tempo: se Paolo, allo stesso modo di Giovanni, su ispirazione dello Spirito Santo, avesse fatto rivelazioni su qualcosa che era pericoloso allora come adesso?

Le cose riguardanti lo spirito non mutano, e se duemila anni fa si affermava che un certo vizio è mortale, lo è anche al giorno d’oggi, per l’anima pura che vuole vivere alla luce di Dio. Purtroppo su tante questioni morali oggi la mentalità è cambiata, ma una fetta sostanziosa di gente ritiene che i principi del Vangelo siano ancora assolutamente validi.

Quindi, lo ripeto un’ultima volta: se Paolo avesse parlato esattamente del male che affliggeva Laodicea - e lo si evince dalla lettura del passo - e se si considera che, guarda caso, quel male si sta ripetendo oggi su scala mondiale, e se Paolo avesse rivelato a voce anche l’antidoto… e l’antidoto fosse scritto in quelle note…”.

“L’antidoto alle Stelle Spezzate?” domandò Benjamin che nella sua testa aveva già fatto due più due. Anche Edoardo, tuttavia, dallo strano brillio degli occhi lasciava trapelare che era arrivato alla stessa conclusione.

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“Esattamente. Se l’Apocalisse rivela l’importanza della figura di Maria, ad esempio, nello sconfiggere il maligno, e questo valeva ai tempi della persecuzione di Diocleziano, vale per i nostri, e ancora più varrà proprio alla fine dei tempi, nulla vieta che Paolo abbia potuto rivelare, sempre per divina ispirazione, le caratteristiche della strada perversa di chi vuole arricchirsi a tutti i costi, arrivando a distruggere il proprio fratello, il proprio vicino e l’intera comunità. Guarda caso, ad una lettura odierna, sembra tratteggiare in modo assai convincente proprio le Stelle Spezzate. E se poi Paolo avesse rivelato un qualche particolare… ad esempio un’altra città che in futuro avrebbe potuto fare la stessa fine di Laodicea… una città che ora, magari anche per puro caso – ma esiste mai il caso in una visione di fede? – si fosse talmente corrotta da ospitare la “Dimora Originaria”?!”.

Lo shock fu improvviso e completo. Per un lungo, infinito attimo tutte le facce degli astanti scrutarono Martin incredule, non sapendo se ritenerlo un genio o un esaltato visionario. L’aveva sparata troppo grossa. Prima che qualcuno potesse aprire bocca, lui continuò sullo stesso registro:

“Quando trovai il manoscritto, vidi anche la strana calligrafia a margine, evidentemente diversa dalla mano che aveva steso la parte centrale. Ma non ci pensai troppo su, anche perché di lì a poco mi tolsero la pergamena per farla studiare da una commissione appositamente creata. Passò il tempo, e non detti troppo peso alla cosa. Nel frattempo avevo perso ogni notizia circa il lavoro della commissione di esperti. Pochi giorni fa, quando parlai con Mac Collough, e lui mi spiegò all’incirca il contenuto della Lettera, mi balenò improvvisa come un lampo l’associazione tra quella situazione di malcontento e malvolere del passato, e l’analoga situazione odierna. Parlai al Cardinale, il quale naturalmente mi ascoltò con pazienza, e mi disse che era un’ipotesi, un po’ troppo ingegnosa, ma pur sempre un’ipotesi. Però per me rimane lampante il collegamento”.

“Sinceramente, Martin, un’ipotesi del genere mi pare troppo debole. Vorresti farci credere che un improbabile copista cristiano prima del Mille ha cominciato a mettere mano a quella Lettera, scrivendo a fianco del testo i suoi

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appunti personali, che in teoria sarebbero le catechesi orali della visita di Paolo alla comunità di Laodicea? Quindi avremmo la lettera e anche i sermoni aggiuntivi… ma poi purtroppo il copista è prematuramente scomparso… Però in quegli appunti, peraltro così incomprensibili da risultare quasi cifrati, ci sarebbe il riferimento ad una città che, ieri come oggi, era marcia e corrotta all’inverosimile… non la città di Laodicea, ma un’altra che l’apostolo avrebbe portato come esempio massimo di corruzione… quella stessa città che oggi, involontariamente per chi l’ha deciso, è anche sede della “cellula madre” delle Stelle Spezzate? Andiamo, Martin, mi sembra una trama da racconto giallo! Non è per caso che vuoi a tutti i costi rifarti del cattivo trattamento che hai subito ad opera delle Stelle Spezzate? Scusa tanto se te lo dico, ma per me tutto questo non ha senso”.

Tutti sembrarono per un momento convenire con l’obiezione così evidente di Edoardo. Solo Martin rimase imperturbabile. Anzi, non mostrava segni di cedimento nel sostenere la sua versione dei fatti. L’impressione era quella che fosse in atto un duello invisibile tra i due intellettuali. Nessuno era in grado di prevedere chi dei due avrebbe vinto.

Martin riprese con le sue argomentazioni. Nonostante fosse sudato, ormai, a forza di parlare, era impressionante il suo ferreo autocontrollo:

“Edoardo, amico mio, è che sei miope nello scrutare i segni dei tempi. Perché mai la Lettera è stata ritrovata proprio ai giorni nostri, nell’epoca in cui stiamo vivendo, e proprio adesso ci viene chiesto di studiarla con attenzione dai rappresentanti della più grande autorità morale del mondo? Il nostro è un periodo di crisi politica e sociale: la nostra cara Italia non se la sta passando affatto bene col caos che sta suscitando questo movimento fanatico… per non parlare dell’Europa… ormai manca solo che perdiamo anche il concetto di cittadini europei, oltre che le tradizioni delle nostre singole patrie! Guardatevi tutti intorno e ditemi: quanti immigrati stranieri provenienti dall’Asia e dall’Africa vedete entrare nell’Unione Europea con l’idea di lavorare, guadagnare i tanto desiderati soldi occidentali, ma avendo in animo di non corrompersi affatto con la mentalità e le idee

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della nostra società attuale!? Anzi, odiano tutto questo pullulare di benessere, edonismo, velleità razionalistiche, mollezza dei costumi che tutti siamo in grado di riconoscere presenti nella nostra Europa, e anche in Italia. E ancora, lasciatemi andare un po’ oltre con la visione delle realtà future: quante di queste persone, magari di quelle che si sistemeranno tra le fasce più agiate, credete che possano confluire ad ingrossare il bacino di utenza delle Stelle Spezzate? Non ci penserebbero due volte a fare qualcosa per il loro tornaconto, anche a discapito dei paesi che danno loro il pane da mangiare per sè e per le loro famiglie!

Credetemi, i tempi sono maturi: la storia si ripete, oggi come ieri. Quelle note a margine della pergamena possono benissimo parlare di una particolare situazione critica del cristianesimo nell’Asia Minore dei primi due, tre secoli dopo Cristo, nella quale imperversavano eresie, come anche di un’analoga situazione critica oggi, nell’Europa quasi altrettanto scristianizzata. La Lettera parlava sì della situazione di allora, ma anche di noi qui ed ora. E’ urgente che, sapendo come stanno veramente le cose, ci affrettiamo ad intervenire prima che questo movimento degenere faccia così tanti adepti da cancellare i valori del cristianesimo e della democrazia stessa, e ci riduciamo ad un branco di primitivi in cui vige la legge del taglione!”.

Edoardo rifletté per qualche attimo. Poi disse: “Tutto quello che racconti è estremamente affascinante, Martin, non lo nego. Ma suppone che la Chiesa si sia accorta di questo pensiero negativo che sta fagocitando in così poco tempo una miriade di vittime, dovrebbe cioè averne già riconosciuto le avvisaglie, esattamente proprio come hai spiegato tu. Ma perché non farne parola con i fedeli, allora? Perché non una lettera pastorale, un’esortazione apostolica, un’enciclica o che so io…?”.

“Ma non capite?!” esclamò Martin veramente allarmato “gli stati si stanno progressivamente paralizzando: come in Italia è scoppiata la crisi di governo e la situazione è così critica, altrettanto starà scoppiando o scoppierà negli altri stati. E speriamo che da tutto questo non nasca qualcosa di peggio, per esempio una guerra civile europea! Non è da sottovalutare

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questa eventualità, mi viene paura anche solo a pensarci! Ma il pericolo c’è: le Stelle Spezzate iniettano l’odio per la vita, l’apatia, il menefreghismo, l’accidia e il malcontento cronicizzati. In chi prova tali distruttivi sentimenti è spontaneo desiderare di togliere la vita a sé (senza rendersene conto, naturalmente) e agli altri. Rammentate che un mese fa in Francia hanno arrestato per “antifrancesità” il ministro della cultura? Hanno cercato in tutti i modi di far passare la cosa sotto silenzio… Ma il governo è già cambiato cinque volte in un anno… E in Germania lo stesso… Spagna e Portogallo stanno nascondendo al mondo i loro problemi interni con le masse di immigrati.

“E quanto ai segni premonitori, non vi siete accorti di quel che sta accadendo? E’ come se dalle massime gerarchie scendendo ai Vescovi, e finanche ai parroci, tutti gli uomini di Chiesa parlassero come un’unica voce che mette in guardia dalla tentazione di pensare che nel nostro paese non va bene niente, dalla tentazione di rigettare la colpa sugli altri, dalla tentazione di dire sbuffando: “Ma sì, tanto non cambia niente!” e anche dalla tentazione più estrema, quella di chi odia talmente gli altri che è capace di finire col fare del male a sé stesso… Siete tutti a conoscenza del fatto che l’emulazione dei suicidi può provocare un vero e proprio flagello!

Martin non aveva più fiato, ma continuò: “Solo la Chiesa ha l’autorità morale e i mezzi sufficienti per sconfiggere questa nuova specie di eresia del XXI secolo. O altrimenti sarà la sconfitta della Chiesa, anche se personalmente ritengo che lo Spirito la protegga e la assicuri vincente. Io stesso sono sicuro di essere vivo per miracolo, dopo tutto quello che mi è successo. Credetemi: le Stelle Spezzate vogliono la Lettera ai Laodicesi prima che ci arriviamo noi, per proteggere l’ubicazione della Dimora Originaria”.

Martin tacque. Fu come se un fiume di parole avesse inondato gli altri sei. Le loro facce parevano stregate: tutte inebetite e attonite, che guardavano in direzione di Martin. Un misto di stupore, incredulità, paura, scetticismo si rincorreva su loro volti, lasciando intravedere la lotta che sicuramente avveniva dentro quei cuori. Sulle facce i sentimenti si rincorrevano.

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Ognuno di loro però aveva mostrato un vivo interesse. Aveva fatto impressione il racconto di come l’archeologo fosse sopravvissuto alla caduta dalla scogliera, l’avevano ascoltato tutto d’un fiato, attentissimi. E questo sincero desiderio di sapere manifestava che qualcosa, nel suo racconto così accorato, li aveva colpiti. Che poi credessero veramente a tutta la sua congettura, questo era un’ altra questione. Ma qualcosa di autentico doveva pur esserci, sembravano pensare tutti. Avevano sentito risuonare una nota di verità nelle parole dell’archeologo ed ora quella nota vibrava dentro di loro come qualcosa di profondo, vero, autentico. Non c’era da scherzare, né da pensarci troppo: quel giovane uomo, pallido ed emaciato, dall’apparenza rude e solitaria, aveva ragione: era in gioco il futuro dei loro paesi, fors’anche il destino stesso delle loro vite.

Edoardo prese la parola, interpretando il sentimento di tutti:

“Martin, è evidente che tu sai più cose di tutti noi messi insieme. A questo punto credo che non ci rimanga che accettare la proposta e aspettare di ricevere informazioni più sicure e dettagliate dal Vaticano. Pensi che potremo essere ricevuti tutti in udienza dal Cardinale Mac Collough per ottenere maggiori dettagli?”.

“Sicuramente” rispose. “Se ho capito bene, domani entro le tredici devi dare la risposta. Ritengo che, avendo tutti accettato di collaborare al progetto, puoi richiedere subito un incontro”.

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XVI Quando Martin terminò di parlare, la pendola segnava le

due di notte. Dopo la sua lunghissima spiegazione a tutti era parso chiaro che non c’era più nulla da aggiungere, perciò Martin, Giulia e Roberto se ne andarono via alla spicciolata, senza ulteriori commenti, con la percezione di un’oscura minaccia incombente sulle loro teste.

Benjamin e Grazia consultarono internet per cercare un volo per Milano alle prime luci del mattino. Benjamin non si capacitava di come la sua direttrice fosse perfettamente lucida e sveglia, mentre la sua testa ciondolava pesantemente da una parte e dall’altra e sentiva gli occhi chiudersi, pesanti come due macigni.

Scoprirono che era programmato un volo dell’Alitalia alle 7.15: Grazia non avrebbe potuto chiedere di meglio; quanto a Benjamin, lei accettò la sua richiesta di arrivare in redazione con più calma, nel corso della giornata.

Edoardo si offrì di ospitarli. “Entrambi i divani in questa stanza sono divani letto, potete

usarne uno ciascuno per riposare. Queste sono le ore cruciali della notte, un buon sonno ristoratore dopo tutte queste notizie cupe sono certo che farà bene a tutti”. E chiese a Laura che portasse giù dal piano di sopra delle coperte e dei pigiami.

“I letti sono già fatti con lenzuola fresche e pulite” aggiunse come a voler rendere l’offerta più gradita “sono sempre pronti caso mai trascorresse qui la notte qualche nostro parente. Non abbiamo figli, ma abbiamo un gran numero di persone che frequentano questa casa” spiegò lasciandosi sfuggire uno sbadiglio. “Usate pure il bagno e la cucina con tutta la tranquillità che volete, se desiderate farvi una doccia o prepararvi un caffè domani mattina”. E ciò detto, uscì dalla stanza dopo aver augurato loro ancora una volta la buona notte.

Laura fece capolino poco dopo reggendo due pesanti plaid di lana. “Dovreste avere caldo a sufficienza” disse.

Una debole fiamma perdurava nel camino. Aprì i due divani letto con l’aiuto di Benjamin, mente

Grazia si profondeva in mille ringraziamenti. Benjamin

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invece, da buon americano, abituato a fare di necessità virtù e avvezzo ad un sano senso pratico, non perse tempo in convenevoli vari, ma aiutò Laura a sistemare le coperte e a tirare giù le tapparelle; poi la seguì per un rapido giro di ispezione della casa.

Grazia invece andò a spegnere la piantana alogena nell’angolo, poi si decise a chiudere con aria rattristata il suo note-book.

“Ora sono completamente irrintracciabile” commentò scherzando quando vide ricomparire Benjamin da sotto l’arco. “Ho spento tutti i miei strumenti di potere. Del resto ci vuole un po’ di stacco. Ti ricordi che anche al giornale verso le due di notte si spengono le ultime luci sul nostro piano?”.

“Sì, sì” rispose lui sottovoce sedendosi sul divano più grande e cominciando a sciogliersi i cordoni delle sue Timberland. “Uhm, però conoscendoti un po’, avrai sicuramente con te il cercapersone. E’ per quello che sei relativamente tranquilla. Guarda me, invece: nulla di nulla” disse alzando le braccia. “Tutto rigorosamente spento. E sono orgoglioso di non aver mai portato con me un cercapersone. A proposito” e pronunciò le parole con una leggera punta di ironia “nulla in contrario se mi prendo il divano matrimoniale?”

“Fai pure” gli rispose imitando il suo stesso tono “tanto sei abituato a fare quello che vuoi. Per non parlare della mania di grandezza di voi americani… Per caso hai intenzione di spogliarti qui davanti a me?” aggiunse con un garbato accento malizioso visto che Benjamin aveva cominciato a sfilarsi il pesante maglione rosso e a slacciarsi i pantaloni.

“Senza dubbio l’atmosfera mi eccita” ammise. “Comunque sono a pezzi. Ho troppo sonno. Voglio infilarmi sotto le coperte e spegnere il cervello il prima possibile”.

Grazia divenne rossa tutt’a un tratto, intravedendo Benjamin armeggiare con i vestiti e rimanere in t-shirt e boxer. Per fortuna lui non se ne avvide perché la stanza era illuminata solo dal debole lume delle ultime fiamme che già accennavano a spegnersi. Nell’aria vibrava ogni tanto il leggero schiocco delle braci. Cercò di rimanere impassibile e con lo stesso tono scherzoso di prima gli disse:

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“Allora non mi rimane che augurarti la buonanotte; io me ne vado in bagno invece” gli rispose in un soffio, e afferrato il suo beauty-case gli passò accanto per uscire dalla stanza. Ma dovette ammettere con sé stessa, una volta fuori, che la sua era una dignitosa fuga nelle retrovie piuttosto che la risposta di una donna che sa tenere testa ad un uomo piacente, di cui forse è innamorata. Si trincerò in bagno con il fiatone, nonostante il bagno distasse solo due metri dal salotto. Si lavò i denti e fece con comodo tutte le consuete operazioni notturne: tanto non aveva sonno. Si truccò, si sciolse i lunghi, morbidi capelli e li spazzolò con calma, poi stese sul viso il sottile velo di crema che metteva sempre. Per ultimo infilò il pigiama.

Il suo pensiero correva inevitabilmente alla stanza al di là del corridoio: al solo rammentare che di là l’aspettava lui, alla debole chiarore di poche braci in tutto, provava un tremito lungo tutta la schiena ed il rossore di poco prima le saliva al viso e quasi glielo incendiava. Non riusciva a guardarsi allo specchio senza darsi della stupida e della ragazzina.

Si sforzò di essere seria e di pensare che nel giro di poche ore tutto sarebbe finito: basta con il loro romantico tête-à-tête, basta con la loro confidenziale conversazione, basta con quell’intimità fra di loro tanto temuta e desiderata insieme. Avrebbe preso un taxi e poi un aereo con destinazione lo scalo sicuro della sua Milano.

Ritornata nel salotto in penombra trovò Benjamin che stava russando sotto le coperte del suo divano letto. Lo vide distintamente perché il fuoco non si era ancora spento, ma arrivava appena, come intensità, alla fiamma di due o tre candele messe insieme.

Lo squadrò con calma, rilassandosi al vedere che dormiva di già, felice almeno di potersi prendere quella piccola soddisfazione di contemplare l’uomo da cui era attratta senza che lui se ne accorgesse.

Notò che si era sistemato non in mezzo al letto matrimoniale, ma che dormiva alla destra della testata e ne fu sorpresa. Se solo l’avesse saputo, gli avrebbe chiesto di fare cambio, perchè lei al contrario non prendeva mai sonno subito e trascorreva anche un paio d’ore ad avvoltolarsi nel letto.

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Benjamin dormiva beato come un bambino: i capelli folti e arruffati poggiavano sul cuscino; la testa leggermente reclinata di lato, un braccio sfuggiva fuori dal lenzuolo e gli cingeva il petto, la mano nerboruta e delicata insieme si alzava e si abbassava sul torace, secondo il ritmo del respiro.

Le parve bello come uno dei suoi attori preferiti. Solo gli occhiali erano del tutto fuori posto su quel viso così ben scolpito. Pensò che si doveva essere addormentato di sasso, dimenticandosi di levarli. Stette a guardarlo per due o tre minuti come ipnotizzata. Ad un certo punto, quando nella sua mente realizzò che quegli occhiali indosso proprio stonavano, sentì una spinta irrefrenabile ad accostarglisi vicino per toglierglieli.

“In fondo gli faccio solo un piacere” si disse “lo sanno tutti che con gli occhiali intorno si dorme male”.

Il desiderio che la spingeva verso di lui fu più forte delle innumerevoli remore che la sua testa perspicace formulò assai prontamente.

Si avvicinò chinandosi leggermente su di lui e allungò una mano per sfilargli gli occhiali, ma inaspettatamente lui aprì gli occhi. Lei si paralizzò all’istante con la mano accanto al suo naso, davanti due occhi azzurri che la guardavano sospettosi. Ci fu un attimo di silenzio che le parve lunghissimo e interminabile. Alla fine si decise:

“Volevo solo toglierti gli occhiali” borbottò imbarazatissima “nient’altro”.

“È un pensiero gentile, grazie” e lasciò che lei allora glieli togliesse.

Grazia si rialzò subito di scatto. Era imbarazatissima e provava una crescente dose di vergogna, acuita dalla consapevolezza di essere stata ferita nell’amor proprio. Immaginò come sarebbe dovuta apparire la scena ai suoi occhi. E di fatti Benjamin le chiese subito dopo:

“Perché volevi togliermi gli occhiali?” il suo tono comunque era calmo e gentile.

“Pensavo potessero darti fastidio” si limitò a dire facendo uno sforzo sovrumano per mantenere un’aria serena e distaccata. “Come hai fatto a capire che mi sono avvicinata?” gli chiese.

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“Ho percepito qualcosa che si muoveva attorno a me” le rispose. Lei si allarmò. Poi lui scoppiò a ridere:

“Ma no, non preoccuparti. Non ho nessun potere extra-sensoriale!” esclamò ridendo di gusto. “Mi è giunta una scia del tuo profumo: l’ho riconosciuto. Ma non chiedermi come ho fatto a riconoscerlo” le spiegò. Sembrava quasi divertito di averle fatto prendere così tanta paura.

Grazia si rabbuiò. Le si leggeva sul volto che ci era rimasta male e non osava aprire bocca. La sua espressione era più loquace di un’intera spiegazione. Rimase ferma immobile, ma non potè fare a meno di continuare a guardarlo.

Allora Benjamin si sollevò sulla schiena e si mise a sedere sulla sponda del letto, prendendola per il braccio la costrinse ad inginocchiarsi accanto a lui. Un moto irrefrenabile di tenerezza lo spinse, senza pensarci troppo, ad allungare il braccio e sfiorarle delicatamente con la mano i neri capelli lisci che le ricadevano sulle spalle. Era la prima volta che glieli vedeva sciolti.

Grazia lo lasciò fare, era come se avesse intuito che lui desiderava dirle qualcosa. Infatti un attimo dopo Benjamin sembrò commuoversi, come stesse mettendo da parte per un momento quella scorza di uomo duro e un po’ spaccone che era attaccata a lui come la sua stessa ombra. Le disse:

“Hai un animo sensibile, che ti permette di accorgerti di cose piccole come questa: che avevo ancora gli occhiali intorno. Lo accetti un complimento sincero?”

“Naturalmente”. “In questo momento mi ricordi le fatine buone delle favole

che vengono a togliere dai guai il protagonista coraggioso ma altrettanto maldestro” le sussurrò. Poi si chinò su di lei e le diede un bacio sulla guancia, sempre accarezzandole i capelli. “Ti ho detto delle fate perché ricordo che, da piccolo, i miei genitori mi mettevano a letto raccontandomi le fiabe, ed io volevo sempre quelle in cui c’era qualche fatina buona che veniva pazientemente in soccorso dell’eroe capace il più delle volte di combinare soltanto guai. Quello della fatina era il personaggio che in assoluto più preferivo. Forse perché sono un idealista, uno che crede ancora adesso nei propri sogni.

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Te lo dico perché credo di essermi già messo abbondantemente nei guai accettando questo strano progetto del Vaticano. Mi stuzzica, per questo ho accettato, anche se per ora mi sembra totalmente senza criterio. Ho la netta sensazione che non so dove ci porterà. Mi credi?”.

“Non hai dato quest’impressione quando parlavi con gli altri”.

“Indossiamo tutti una maschera per non fare brutta figura quando ci troviamo con gli altri, e anche perché loro non ci leggano dentro”.

“Ma sei sincero con me, adesso?”. “Assolutamente sì”. “Perché?”. “Te l’ho detto: perché mi ricordi la fatina delle mie favole”. “Tu saresti l’eroe che si mette nei guai?” gli chiese Grazia,

stupita di quella inaspettata confidenza. “Proprio così. Hai afferrato il concetto”. “E io sarei la tua buona fatina azzurra?” riprese. “Sì, che mi viene a salvare”. “Lo sai che il complesso di Cenerentola Freud l’ha già

spiegato da un bel po’ di tempo?” “Ma Freud è anche tramontato da un bel po’ di tempo”. “Ma io non ti devo salvare proprio da un bel niente, in

questo momento” gli rispose caparbiamente. “Anzi, ti ho già rovinato il poco tempo che ancora ti resta per dormire”.

“Eppure io ho la netta sensazione che mi salverai da qualcosa. Non so da cosa di preciso, ma sarai molto preziosa, a suo tempo”.

“Oh, Benjamin, piantala! Lo so che mi stai tirando ancora fuori la storia della Turchia! Guarda che lì ci vai da solo, se proprio vuoi andarci”.

“Chissà, staremo a vedere. Io non ne sarei così tanto sicuro”.

“Non m’interessa. Per adesso sono qui e faccio la giornalista. Non voglio occuparmi di nient’altro che del mio lavoro”.

Le sovvenne però un’idea bizzarra. “Però una magia posso farla, se proprio lo desideri” gli disse con aria divertita.

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Allungò la mano per afferrare una matita riposta insieme a numerose altre penne in un piccolo vaso trasparente sul tavolino in mezzo ai divani, e disse agitandola in alto a guisa di bacchetta magica: “Adesso chiudi gli occhi e dormi fino a domattina!” e gli toccò la fronte con la bacchetta mentre le sue labbra si schiudevano in un bellissimo sorriso. Sapeva di aver appena fatto una sciocchezza, ma adesso non aveva più paura di fare brutta figura.

Benjamin le sorrise, poi si voltò e chiuse gli occhi.

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LUNEDI’ 17 Marzo

XVII

Alle prime luci dell’alba di lunedì un totale silenzio avvolgeva la casa di Edoardo. Nessuno si accorse di una macchina che sostava davanti all’ingresso della villa aspettando qualcuno, per poi allontanarsi pochi minuti dopo con al suo interno uno dei partecipanti alla riunione.

L’unico rumore nella casa rimaneva la pendola nel corridoio che batteva regolarmente ad ogni ora.

Quando essa batté otto rintocchi, si accese il ronzio di una radio dalla cucina; fu allora che Benjamin aprì svogliatamente gli occhi. Filtrava già la luce dalle tapparelle abbassate.

Una tenue vocina dentro di lui gli fece notare che aveva dormito un po’ troppo. Però era contento di aver potuto riposare così saporitamente.

A disturbare quella sensazione di beato risveglio venne prontamente un fastidiosissimo pensiero, che gli si materializzò nella mente con la stessa precisione di un orologio svizzero: a quell’ora Grazia doveva essere già partita. Si girò verso il tavolino per afferrare l’orologio: le 8.05. Percepì distintamente un nodo alla gola per il dispiacere di aver dormito così a lungo e di non essersi accorto che Grazia si era alzata, lavata, vestita, aveva raccolto le sue cose ed era uscita di casa. Doveva essersi mossa leggera come una farfalla, accidenti!

Poi un altro pensiero fulmineo venne a scacciare il precedente: diamine, non era certo un reato dormire un po’! E poi era stata lei a decidere di non svegliarlo, che colpa ne aveva lui!? Aveva tutto il diritto di dormire quanto voleva dopo l’ interminabile discussione della sera precedente!

E da ultimo gli si affacciò anche il pensiero più audace e temerario che avesse concepito, man mano che la ragionevolezza aumentava e la lucidità prendeva il sopravvento sui ricordi: che cioè, tutto sommato, quella notte non era successo niente, niente di definitivo e irreparabile con Grazia. Sì, si era mostrato tenero ed affettuoso, ma non gli

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pareva di aver compiuto mosse false come farle credere che lui provasse qualcosa per lei.

Si alzò dunque dal divano-letto canticchiando My way, cercando di riprodurre con la voce la cadenza armoniosa di Frank Sinatra, e si avviò verso il bagno. Una volta uscito, dopo circa una mezz’ora, incrociò Edoardo che stava scendendo le scale per dirigersi in cucina a prepararsi la colazione.

L’orologio appeso in cucina segnava le 8.45 quando Benjamin, vestito di tutto punto, se ne stava comodamente seduto a tavola a chiacchierare col padrone di casa. Edoardo indossava dei comodi jeans ed una felpa da ginnastica. Benjamin scoprì che il lunedì era il giorno libero di Edoardo.

Fecero colazione insieme concedendosi un bel po’ di tempo, loro due soli. Laura era ancora di sopra a prepararsi. Edoardo aveva servito in tavola un enorme vassoio di legno intagliato e dipinto a mano contenente la caffettiera ancora fumante, il bricco del latte, vari tipi di brioches e biscotti, nonché una confezione ancora da aprire di fette biscottate con due vasetti di marmellata. Tutte leccornie che per l’americano valevano comunque niente rispetto alla bontà del caffè italiano, ormai conosciuto e apprezzato come uno dei migliori prodotti del paese. Sapeva bene che era una delle cose che avrebbe rimpianto quando avrebbe deciso di lasciare la penisola. D’altronde come privarsi di quell’attimo fugace di piacere intenso quando la miscela scura riempie gorgogliando la tazzina, mentre l’aroma forte e deciso si libra in alto fino a stuzzicare le narici?

Dall’espressione di Benjamin Edoardo lesse quello che stava passandogli per la testa, e gli domandò a bruciapelo:

“Hai intenzione di vivere qui per un tempo ragionevolmente lungo, vero?”.

Il giornalista scoppiò a ridere, ma Edoardo proseguì imperturbabile: “L’Italia è il paese più bello del mondo! Bellezze di ogni tipo: naturalistiche, storiche, archeologiche, artistiche, culturali, enogastronomiche… potrei andare avanti per un’ora intera a enumerarle senza fermarmi! A dir la verità è un vero peccato che il nostro manoscritto sia stato trovato in Turchia. Questo depone a suo sfavore, non trovi? Avrei

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preferito lavorare su un reperto italiano” ragionò Edoardo immerso nelle sue riflessioni, come se stesse inseguendo il filo di un qualche pensiero che doveva esserglisi affacciato in quel preciso momento nella testa. Poi cambiò subito espressione e riprese la conversazione con lo stesso tono amabile di un attimo prima.

Parlarono del più e del meno per una buona mezz’ora, avendo molta cura di spazzolare tutto il cibo. Stavano affrontando il tema dello scandalo in Parlamento quando Benjamin ebbe come una folgorazione improvvisa e cambiò discorso: “Posso fare una piccola ricerca dal tuo computer?” domandò. “Vorrei accedere alla banca dati della Biblioteca Nazionale Digitale per trovare informazioni sul partito più forte del momento, Fondazione Risorse Nuove. Per come ne sta parlando la stampa, sembra che esso rappresenti la sola via d’uscita che il paese ha per salvarsi dallo scandalo delle Stelle Spezzate; la Fondazione, infatti, sta tessendo una preziosa opera di mediazione con le altre componenti politiche”.

“Sì, ed è una cosa strana: è una delle obiezioni che ieri sera volevo rivolgere a Martin. Lui si è dilungato a spiegare come le Stelle Spezzate siano un pericolo imminente. Invece a me sembra che i fatti dimostrino quanto meno il contrario: la commissione parlamentare sta indagando egregiamente, magistrati integerrimi e politici onesti continuano a lavorare per il bene del paese, Fondazione Risorse Nuove è il partito che più si sta impegnando a vasto raggio per arginare la crisi di governo. Meglio di così!

Proprio non mi spiego la divergenza tra quello che ha raccontato Martin ieri sera, per il quale stiamo precipitando nel baratro, e quanto apprendiamo invece dagli organi d’informazione, secondo cui l’Italia sta lentamente risalendo la china. Martin si difende dicendo che è la sua versione dei fatti quella che conta. Tuttavia non so davvero cosa pensare.

Ma torniamo a noi. Hai tempo di fermarti qui? A che ora devi partire?”.

“Se sei d’accordo ripartirei dopo aver conosciuto gli agenti del Vaticano; stamattina passeranno di qui, giusto?”. Edoardo non si mostrò entusiasta dell’idea, ma non disse nulla. Si limitò ad annuire in segno di approvazione.

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“Bene, così saremo in due a trattare con loro” rispose Benjamin, come al solito ottimista e palesemente soddisfatto.

Visto che non c’è niente di meglio che unire le forze

davanti ad un obiettivo condiviso quando si scoprono interessi comuni e affinità caratteriali, Benjamin ed Edoardo si misero di buona lena davanti allo schermo polifunzionale nello studio personale di Edoardo.

L’americano ebbe modo di osservare, con suo grande compiacimento, che il professore possedeva un buon modello di Digital Box, il dispositivo digitale che collegava insieme televisione, radio, computer e quanti elettrodomestici di casa si fossero voluti installare al pannello di controllo.

Davanti al computer Benjamin aveva assunto un’aria professionale: sembrava quasi aver subito una trasformazione, tale era la sua velocità nel muoversi dentro la rete. Edoardo si era sistemato accanto a lui spinto dalla curiosità di osservare cosa avrebbe scoperto d’interessante.

Benjamin sfrecciava come un fulmine all’interno dei vari reparti della Biblioteca Nazionale Digitale, come fiutasse una pista che solo nella sua mente si stava dipanando con sufficiente chiarezza. Dopo un breve percorso dal reparto iniziale di Storia a quello di Storia d’Italia, e poi a quello di Storia dei Partiti politici italiani, diede istruzione al computer perché gli rendesse disponibile Storia dei partiti politici italiani del XXI secolo, e allorquando gli comparve l’elenco di tutti i partiti esistenti o che erano esistiti negli anni addietro, scelse la riga che conteneva il nome che stava cercando: Fondazione Risorse Nuove. Gli apparvero allora le varie opzioni che poteva scegliere. Aveva davanti una sconfinata quantità di materiale a sua disposizione, una raccolta davvero esaustiva (aggiornata di settimana in settimana, come recitava il messaggio pubblicitario che compariva sul fondo dello schermo ogni 2 minuti) in grado di soddisfare ogni tipo di informazioni che avesse desiderato sul partito. Contò mentalmente che sul monitor lampeggiavano a colori otto diversi itinerari percorribili.

“Non so cosa scegliere: ci sono troppe opzioni potenzialmente interessanti” sbottò infastidito.

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“Lo sai che la Biblioteca Nazionale Digitale è immensa! Milioni e milioni di pagine di libri digitalizzate!” abbozzò Edoardo, nel tentativo di calmare il suo ospite. Rimase per un istante soprappensiero come gli stesse sorgendo un dubbio, perché gli chiese subito dopo: “Ma non è meglio cercare informazioni sulla Fondazione Europea, quella che ha sede nel Parlamento a Bruxelles? In fondo è lì che bisogna andare se si vogliono trovare spunti sufficientemente chiari per comprendere le sue finalità, i suoi obiettivi, le sua caratteristiche meno visibili e meno note… Non credi?”.

“Hai ragione! Come ho fatto a non pensarci prima?!” esclamò Benjamin, dispiaciuto che l’idea non fosse venuta a lui.

Uscì velocemente dalla schermata che aveva davanti per tuffarsi nuovamente nello scaffale iniziale della Biblioteca Digitale. Da Storia passò a Storia dell’Unione Europea, da lì ancora a Storia dei Partiti Dell’Unione Europea.

“È una caratteristica assolutamente inedita di questo partito risultare diffuso capillarmente in ogni stato dell’Unione Europea, compreso il Parlamento Europeo a Strasburgo” riflettè ad alta voce Benjamin. “Vediamo cosa troviamo” suggerì.

“Secondo me fra un’ora saremo zeppi di materiale” gli rispose Edoardo.

Dopo una manciata di secondi di attesa apparì davanti ai loro occhi la successiva schermata. Conteneva l’elenco di tutti i partiti presenti a Strasburgo in quel momento, con l’aggiunta di quelli che lo furono in passato e che ora semplicemente o non c’erano più, o avevano dato vita ad aggregazioni nuove. Benjamin diede l’o.k. al computer per vedere New Resources Foundation.

“Diamine, credo che ci abbia visto giusto, Righetti” disse Benjamin leggermente sorpreso.

“La fortuna aiuta gli audaci” commentò Edoardo rallegrandosi con l’americano per la rapidità e la precisione con cui stava conducendo la ricerca.

La schermata era cambiata e ora si dipartivano sul monitor le possibili opzioni percorribili, tutte perfettamente allineate una sotto l’altra fino a formare una lunga colonna. Benjamin

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ed Edoardo si stavano convincendo ogni minuto che passava che si stavano cimentando in un’ardua impresa per la complessità del materiale a disposizione, ma erano decisi ad andare fino in fondo nel cercare di scoprire qualche novità significativa sulla Fondazione. Al momento le strade che si profilavano loro davanti risultavano tutte allettanti al pari di meravigliosi luoghi inesplorati.

“Proviamo il loro Statuto, mi sembra la scelta migliore per cominciare. Voglio proprio leggere cosa contiene. Chissà a quali valori si ispira e che obbiettivi si propone” suggerì Edoardo. “Non mi sono mai occupato di questo partito, non sono entusiasta di quello che propone”.

Benjamin dunque eseguì prontamente, trovandosi anche lui d’accordo. Pochi istanti e comparve la schermata che aspettavano impazientemente.

“C’è veramente di che rimanere stupiti!” fu il primo commento a caldo di Benjamin “ma lei aveva idea di una cosa simile?!”. Edoardo, anch’egli fortemente impressionato, mormorò:

“Sembra più il manifesto programmatico di un movimento culturale, piuttosto che il programma di un partito politico”.

“Evidentemente è tutt’ e due” dedusse Benjamin dalla lettura.

“Non c’è altra spiegazione. È la prima volta che lo vedo. M’ impressiona davvero. Senza contare che la Fondazione Europea rappresenta il centro, il cuore propulsore di tutte le altre Fondazioni nazionali. Esse si rifanno al partito transnazionale nel prendere posizione sui vari fatti che accadono nei singoli paesi. È sempre stato così: la Fondazione italiana, ad esempio, è attentissima a seguire le direttive che le arrivano da Bruxelles, dove ha sede la Fondazione Europea. Non avevo mai pensato di cercare notizie sulla Fondazione, anche perché per quel che mi riguarda” e si voltò per guardare l’americano in volto “beh, ecco, non ho mai votato questo partito durante le elezioni. Per questo non mi è mai venuta l’idea di informarmi sui suoi statuti e sulle sue caratteristiche”.

“Quanto ha preso alle ultime elezioni?” domandò perplesso Benjamin.

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“Si è attestato intorno all’otto, nove percento di voti. Come lei sa è al governo con gli altri partiti che hanno vinto le elezioni. Hanno avuto letteralmente un colpo di genio firmando tutti il Manifesto dei Partiti che promuovono la pace nel mondo come impegno stabile e duraturo nel tempo. Non che anche l’opposizione non volesse sottoscrivere la pace, naturalmente, secondo le condizioni e le regole che sappiamo si prefigge, ma tant’è che gli altri l’hanno battuta sul tempo organizzandosi per stampare e diffondere tra la gente il Manifesto. Io stesso sono rimasto di sasso”.

Mentre il padrone di casa raccontava, Benjamin annuiva con la testa. Si ricordò di aver letto come erano andate le cose dai giornali spagnoli, perché in quel momento si trovava in Spagna per vacanza. In più qualcosa gli era stato riferito dagli amici spagnoli di lunga data.

Edoardo continuò: “ L’opposizione non sapeva cosa controbattere. Anche perché era divisa sulla linea da seguire per arginare in tempo l’ascesa di consenso nei sondaggi dei partiti del Manifesto. E con la sua indecisione si è giocata le elezioni!”

“Davvero una bella pensata! La cosa in assoluto più particolare è che la Fondazione è un partito che non si dichiara né di destra, né di sinistra; in effetti, è ormai tramontata la distinzione che solo cinquan’anni fa divideva i partiti tra quelli di destra, di centro e di sinistra. Senza dubbio è ormai passata ai libri di storia e lì rimarrà”.

“Ah, quella!? Sì, ormai è sparita nel senso che la intendevano i nostri progenitori del secolo scorso. Non ha più senso parlare di destra e sinistra come le si pensava allora. Una volta serviva a distinguere differenti visioni del mondo: a seconda che si fosse dell’una o dell’altra parte, di destra o di sinistra cioè, si dava una precisa lettura dei fatti che accadevano. Prospettive indubbiamente diverse tra loro, ma entrambe assai sostenibili. Oggi non ha più senso una distinzione simile: nuovi sono i problemi da risolvere e nuove le soluzioni da approntare. Senza contare che il criterio ideologico che era a monte della distinzione è tramontato, e quello economico – vale a dire il dare spazio ad un’economia più o meno liberista – oggi non è più un criterio sufficiente per

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fare distinzioni tra una parte e l’altra. Eh sì, i tempi sono proprio cambiati, persino il vecchio sistema del welfare di matrice socialista è scomparso dall’Europa”.

Benjamin annuì, dopodiché i due uomini rimasero in silenzio leggendo ciascuno le pagine che sfilavano davanti ai loro occhi. Benjamin le faceva scorrere man mano che Edoardo faceva un cenno di assenso con la testa.

Quando ebbero letto quello che interessava loro, si guardarono l’un l’altro perplessi. Edoardo pareva vagamente accigliato e ombroso. Benjamin rifletteva assorto.

Poi Edoardo commentò ad alta voce: “Nemmeno qui in Italia la Fondazione ha un programma così esteso e particolareggiato. Certi punti che qui vengono nominati non li ho mai sentiti dire dai suoi deputati, quando questi vengono intervistati. Davvero non so che dire”.

“Bé, diamo una bella stampata a tutte queste pagine e poi torneremo indietro per guardare la pagina italiana della Fondazione, magari. Quella in cui ero entrato prima”.

“Sono d’accordo” gli fece eco Edoardo. E la stampante cominciò a ronzare buttando fuori i fogli.

“Senti, devo chiederti un favore” esordì Edoardo dopo che

Benjamin ebbe raccolto i fogli stampati e li ebbe sistemati in una cartellina che infilò prontamente nella sua ventiquattrore. Sopra la cartellina vi aveva scritto NRF (New Resources Foundation) con un pennarello preso in prestito dalla scrivania di Edoardo. Benjamin lo guardò aspettando che il professore si spiegasse.

“Non dire nulla di questa nostra piccola ricerca a Martin” continuò allora Edoardo “Sento che è importante procedere in questo modo”.

Benjamin gli lanciò un occhiata indagatrice, come per ricavare qualcosa di più dal viso di Edoardo. Ma l’espressione del professore restò indecifrabile. Con una battuta cercò di sdrammatizzare.

“D’accordo. Allora, acqua in bocca!” gli rispose. Ma Edoardo sentì il bisogno di fornirgli ulteriori dettagli

perché aggiunse: “È che non mi fido di Martin. Mi spiace, ma di più non posso dirti”.

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In quel momento la pendola del corridoio batté le 12.00. Benjamin guardò prima Edoardo, seduto accanto a lui. Poi alzò gli occhi sopra la testa dell’uomo che in quel momento lo stava ospitando, con una calma che sentì quasi innaturale dentro di lui, e posò lo sguardo sulla finestra posta esattamente dietro il professore. Dopo il temporale pazzesco della notte precedente, fuori splendeva il sole. Lo contemplava stagliarsi nitidamente in alto, contro un cielo terso, di un azzurro pulito e immacolato che in quel momento gli rammentò lo stesso cielo di casa sua, quello su cui si gonfiavano al vento i panni freschi di bucato che sua madre stendeva ad asciugare nel prato di casa.

Avvertì dentro di sé una specie di cortocircuito. Fuori il sole che risplendeva: la luce, la chiarezza. Dentro quella casa qualcuno che gli insinuava il dubbio, che gli diceva di non fidarsi di Martin; e poi tutte quelle pagine appena lette sulla Fondazione di cui non capiva la portata, gli parevano difficilmente comprensibili, ma che intuiva potevano nascondere qualcosa di grosso.

“Che impressione mi ha fatto Martin Fischer?” si chiese. Riandò ai ricordi di quella notte, rammentò le parole ascoltate e quelle che lui stesso aveva proferito; ebbe la netta sensazione che Martin non gli suscitasse nulla di sgradevole. Ci ripensò ancora una volta, ma non ricavò nulla, anzi, cominciò a percepire dentro di sé tutta l’enorme distanza che lo separava da quel professore di religione, tutta l’estraneità del suo essere americano rispetto alla gente e al paese che lo ospitavano, tutta la differenza di un suolo che non era il suo, aperto, multiforme, multiculturale.

Si affrettò a rispondere a Edoardo: “Forse stai correndo un po’ troppo, insomma, mi sembra

un’esagerazione!”. L’accento e il tono rivelavano una nota d’indifferenza.

Ma Edoardo non mollò la presa: “Hai notato l’espressione di Giulia quando Martin ha fatto

la sua comparsa in salotto?” Benjamin si ricordava benissimo di Giulia. Come non

ricordarsene? Era davvero bella. Ma non ricordava affatto che

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espressione avesse assunto il suo viso quando Martin era entrato nella stanza la notte precedente.

“Era terrorizzata” riprese Edoardo. E scandì bene la parola lettera per lettera una seconda volta “ter-ro-riz-za-ta!”.

“Non ci ho fatto caso” ripeté Benjamin strabiliato. “Bé, non pensiamoci più, per ora” concluse Edoardo. Si

alzò per stringergli la mano: “Devo andare a prepararmi le lezioni di scuola per questa settimana. Ci vediamo più tardi”. Quando fu sulla soglia della porta, prima di svoltare in corridoio, si girò e gli disse col tono affabile di sempre: “Chiedi pure qualunque cosa di cui avessi bisogno, a me o a mia moglie. Saremo felici di poterti essere utili”.

E scomparve alla sua vista dopo essere uscito dalla stanza.

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XVIII Rimasto solo, Benjamin scoprì di essere esausto. Si sentiva

stanco e spossato come se avesse praticato due ore di jogging, o come se avesse corso la celeberrima maratona di New York a cui ogni anno cercava di partecipare, impegni di lavoro permettendo. E pensare che era semplicemente rimasto seduto tutta la mattinata. Decise che era giunto il momento di distrarsi.

Si alzò dirigendosi verso la finestra di fronte alla scrivania: in due rapide falcate aveva già raggiunto i vetri e osservava di mala voglia la gente che passava fuori. “Appaiono tutti immersi nelle loro faccende” pensò, notando l’andirivieni frettoloso dei passanti e lo sfrecciare delle macchine lungo la strada. “Così, a prima vista, la vita della gente sembra scorrere normale: il giorno seguente simile a quello trascorso”. La Fondazione con il suo strano programma, fin troppo bello – gli pareva – per essere vero, gli sembrava una cosa lontana, inverosimile.

Sentì l’impulso di uscire. Aveva poco tempo, però, a sua disposizione, prima che arrivassero gli emissari del Vaticano. Decise che avrebbe passeggiato quel tanto che bastava per chiamare Grazia sul cellulare, mentre si sgranchiva le gambe. L’idea gli piacque, avvisò Edoardo che usciva, e in meno di cinque minuti si ritrovò fuori per strada, sullo stesso marciapiede che poco prima aveva sbirciato dalla finestra.

L’idea di chiamare Grazia e di raccontarle le ultime novità lo solleticava. Si fermò all’edicola all’angolo della strada per comprare un po’ di giornali. Si rammentò che non si era più tenuto informato della situazione politica italiana così incandescente e instabile. “E se avessero già nominato il nuovo direttore del giornale ?” si chiese.

I suoi timori svanirono allorquando vide che il governo non era ancora caduto – segno che non era stata votata la sfiducia – e che la poltrona del principale quotidiano nazionale era ancora vacante. Come ebbe modo di leggere dalla prima pagina di quello stesso giornale, infatti, il sottotitolo recitava “Presidenza ricoperta ad interim dalla dott.ssa Tommasoni, già responsabile della cronaca di politica interna”. Benjamin

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diede una scorsa veloce all’articolo: il verdetto sulla nuova nomina, ad opera del consiglio di maggioranza degli azionisti del giornale, slittava di poco; si sarebbe dovuto sciogliere entro le successive 24 ore.

“Ho ancora tempo perché Grazia mi affidi il caso che ha a che fare con la Fondazione…” rimuginò infilandosi i giornali sottobraccio. “Poi il nuovo direttore dovrebbe solo riconfermarlo. Sì, devo insistere con lei perché si decida ad assegnarmelo” si disse risoluto.

Intanto aveva svoltato sulla strada principale e costeggiava il lunghissimo viale, lasciandosi alle spalle uno dopo l’altro i platani che dietro di lui andavano a formare una scia interminabile. Era una giornata piacevolmente calda, il sole di primavera diffondeva placidamente i suoi morbidi e vellutati raggi, nell’ora del meriggio.

Inforcò gli occhiali da sole e si sbottonò il giubbotto in pelle. L’aria tiepida gli accarezzava il volto spettinandogli i capelli neri lucenti. Notò che la strada era affollata, era il traffico dell’ora di punta, di tanto in tanto incrociava qualche giovane ragazza che si lasciava sfuggire un fugace sguardo d’interesse per lui; non ne era affatto sorpreso.

Così, tra gli slalom per non andare a sbattere contro la gente sul marciapiede e le occhiate garbate delle sue giovani ammiratrici, tirò fuori di tasca il telefono cellulare e digitò il numero della redazione. Si fece passare l’ufficio del direttore.

“Pronto?” la voce di Grazia suonava già stanca e vuota alle 12.30 di quella bellissima mattinata di primavera.

“Indovina chi sono?” scherzò Benjamin con voce acuta e squillante. Grazia dovette scostare il ricevitore dall’orecchio.

“Dove sei?” domandò. Aveva capito al volo chi era. “Sono all’aperto, sotto un sole splendente, nel pieno di una

radiosa giornata di primavera. E non c’è nemmeno freddo!” “Non ho tempo di giocare a Sherlock Holmes, Benjamin”

disse Grazia leggermente spazientita “dimmi dove ti trovi. Sei ancora a Roma?”.

“Yes, of course”. “Come stanno andando le cose, lì?” e mentre parlava si

appoggiò allo schienale della sedia. Con una mano teneva il ricevitore, con l’altra tamburellava sui tasti del computer

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accanto a lei. Era in procinto di terminare l’articolo di politica interna che sarebbe dovuto comparire il giorno seguente sul giornale. “Accidenti, Benjamin, sei ancora a Roma!” pensò irritandosi.

“Vorrei essere lì per parlarti di persona. Proprio adesso sono uscito in strada a fare due passi perché ero stanco di rimanere in casa dei Righetti. Stamattina ho fatto una piccola ricerca, collegandomi alla Biblioteca Nazionale Digitale per ottenere informazioni sul partito del momento: Fondazione Risorse Nuove, e quello che ho scoperto è a dir poco sconcertante. Strabiliante, oserei dire”.

“Non tenermi sulle spine…” cominciò a dire Grazia impaziente. Proprio in quel momento però qualcuno bussò alla porta, per cui Grazia dovette con un orecchio ascoltare Benjamin e con l’altro rispondere al collega che si era presentato nel suo ufficio.

“Allora, tieniti salda perché sto per spararla grossa” le rispose Benjamin eccitato. “La Fondazione centrale a Bruxelles, insieme a tutte le sue succursali – chiamiamole così – ha un doppio scopo. Apparentemente il suo statuto non lascia ombra di dubbio: s’impegna a fini benefici per la promozione di scopi umanitari. Realizza il dialogo tra i partiti sulle questioni politiche più spinose come su quelle più semplici, evita con una vigilanza senza eguali di dare spazio agli interessi personali dei suoi singoli membri, per dedicarsi completamente al raggiungimento del bene comune, della pace e della sicurezza. Per l’Italia come per L’Europa. Ma stando a quello che ho intuito, leggendo tra le righe e aggiungendo poi alle informazioni raccolte il racconto di Martin di ieri sera, ho concluso che la Fondazione trama alle spalle delle nazioni un fine molto più subdolo. È come se volesse plagiare le persone… è in atto il tentativo di creare una nuova visione dell’uomo… dovresti leggere anche tu che razza di discorsi!”.

Grazia lo interruppe. Non aveva capito bene. “Benjamin, aspetta un momento: mi sono persa le tue parole iniziali e ho sentito solo la fine del tuo discorso. Ma mi sembra che ti stia confondendo! Volevi dire che hai cercato del materiale sulle Stelle Spezzate, vero? E hai trovato che plagiano le persone e

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via dicendo…” lo corresse. Grazia cercava di trovare una logica in quello che lui le aveva appena raccontato.

Benjamin rimase in silenzio per qualche secondo, tanto che Grazia cominciava a temere che fosse caduta la linea telefonica. Poi sentì Benjamin esclamare a gran voce: “Ma certo! Grazia sei fantastica! Ora ho capito… che stupido, pensare che avevo il collegamento proprio sotto gli occhi, e non lo vedevo…! E’ tutto merito tuo. Brava! Questo sì che spiegherebbe molte cose… mi viene in mente proprio adesso che ci penso…”. Benjamin sarebbe andato avanti per altri dieci buoni minuti nello stesso modo, con frasi sconclusionate, se Grazia dall’altra parte, a corto di tempo per chiacchierare, non avesse troncato senza pietà le mezze frasi del collega, domandando:

“Cos’hai capito che a me sfugge ancora, di grazia?”. “Ma è evidente: finora pensavo che le Stelle Spezzate e

Fondazione Risorse Nuove operassero come due entità distinte. Perciò ti stavo dicendo che, letto lo statuto del partito, semplicemente non mi era piaciuto un bel niente. In più mi hanno colpito i fatti tremendi raccontati da Martin ieri sera… e pensavo che nessun partito, neppure con le più belle intenzioni del mondo, potrebbe tirare fuori un uomo dalla tristezza in cui lo possono gettare i fatti più paurosi e terribili della sua vita. Poi tu mi hai fatto scattare qualcosa nel cervello: dicendo che mi ero sbagliato, mi hai dato invece la chiave giusta per capire! Grazia, in qualche modo le Stelle Spezzate e Fondazione Risorse Nuove sono collegate! Non capisco come, ma ne sono certo: c’è un collegamento tra di loro!”.

Grazia lo interruppe di nuovo. “Ci risiamo, Benjamin! Io non ti seguo. Cosa c’entra la Fondazione con quanto ha detto Fischer ieri sera? Lui ha parlato delle Stelle Spezzate, per quel che vi ho seguiti stando di là nello studio della signora Righetti. Non ha mai parlato della Fondazione. Per quel che ne so, è un partito come tutti gli altri. Solo con degli obbiettivi più vasti perché si propone una visione completa dell’uomo: filosofica, sociologica, politica e antropologica. In questo senso è un partito unico nel suo genere, il primo che sia mai esistito. Ma da qui a dire che plagia le persone col suo

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statuto… Benjamin, ce ne vuole di fantasia! Sei sicuro di quello che dici?”.

“Certo! Mi sto accorgendo del collegamento tra le Stelle Spezzate e la Fondazione proprio adesso che te ne parlo! Questo spiegherebbe molte cose… sì! Il guaio è che tu non c’eri quando Martin ha fatto il suo resoconto. Non hai ascoltato la sua esperienza e i fatti che gli sono accaduti. Fatti terribili, credimi. Ha parlato delle Stelle Spezzate come si trattasse di una enorme, malvagia piovra che ha tentacoli lunghissimi, e uno di questi potrebbe persino arrivare fino nelle aule della politica, magari con un partito, o una parte di esso…”.

“Ricominciamo” sbuffò. “Sono solo parole, Benjamin. Io devo avere fatti per credere. Anche tu dovresti andarci piano con i sospetti. Solo perché ieri sera ti è andata bene intuendo che le Stelle Spezzate vorrebbero impossessarsi della Lettera di San Paolo, non significa adesso che qualsiasi supposizione tu faccia, debba essere per forza vera!”.

“Se solo potessi…” riprese lui. “Benjamin, tu sei lontano. Se ancora lì a Roma e sei tutto

preso dalla discussione di ieri sera. Ma se solo tu fossi qui a Milano, respireresti un altro clima, ti accorgeresti che nessuno muove un cronista dandogli come pista da seguire solo una mera supposizione… Occorrono fatti Benjamin, fatti, che sono proprio ciò che tu non hai. Mi dispiace, Benjamin. Ma non posso fare nulla per te”.

“I fatti ce li hai davanti agli occhi e non li vedi: il nostro giornale è nella bufera dello scandalo, il governo rischia la sfiducia da un momento all’altro, nel paese si respira un’aria di malcontento generale che rasenta una vera e propria sfumatura di odio per chi non è schierato dalla propria parte politica Fiuto nell’aria qualcosa di grosso, basterebbe una scintilla perché la miccia della rivolta nelle piazze si accenda. Manifesterebbero tutti gli uni contro gli altri. Tu sei direttrice ancora per poco. Diamine, non ti bastano questi fatti?! Cosa vuoi di più?!” le rispose concitato Benjamin, cercando di farla ragionare. Doveva stare attento però a non alzare troppo la voce, perché già la gente cominciava a voltarsi curiosa verso di lui, per guardare chi è che stava quasi urlando al telefonino.

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Senza aspettare che lei gli rispondesse, continuò: “Grazia, ascoltami, ti prego. Devi lasciarmi tentare. Iniziare. Lancerò lo scoop sul giornale. Del tipo: “Quanto sappiamo veramente del partito del momento: Fondazione Risorse Nuove? E’ davvero meritevole dei nostri elogi per lo sforzo di mettere d’accordo tutte le forze politiche in modo da superare questa angosciosa situazione, o c’è sotto dell’altro?”. Voglio che in giro se ne parli; voglio far conoscere all’opinione pubblica tutto quello che so”.

“Non so se è una buona idea”. “Io ci credo. Sento che non sto sbagliando nel seguire

questa pista”. “Mi servono prove. E che siano significative, molto

significative”. “Ti mando un’intervista a tre colonne con Martin Fischer.

Potremmo uscire con quella, domattina in terza pagina”. “Cosa vuoi che ne sappia Fischer della Fondazione! Lui

faceva parte delle Stelle Spezzate!” gli urlò Grazia incollerita. Ma si scusò subito con lui, cercando di darsi un contegno: “Uffa” sbottò. “È attendibile uno come Fischer? Io non so davvero cosa pensare!”. La voce di Grazia adesso arrivava affranta. Benjamin non se ne curò. Tirò diritto come se lei non avesse avanzato obiezioni.

“Questo è il momento opportuno: finché tu sei direttrice. Un altro direttore probabilmente vorrà mettere tutto a tacere. O adesso o mai più. E una volta aperto il tappo alle notizie, la loro corsa non potrà più essere fermata”.

“Benjamin, io mi gioco il lavoro. Come fai a non capire? Non dico la poltrona di direttrice, quella so già che non sarà mai mia. L’aria che si respira qui non è delle migliori. Ma se mi licenziano? La prima cosa che farà il nuovo Consiglio di redazione del giornale sarà di smentire questa nostra linea e di infangarci. Ci butteranno addosso ogni sorta di veleni e di nefandezze”. La sua voce giungeva spezzata, incrinata dall’emozione e dai dubbi. Era delusa di come stavano procedendo le cose, circolavano già le voci su una sua probabile sostituzione.

“No, fidati di me. Se cadiamo, cadremo insieme”.

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“Bella consolazione! Tanto tu, poi, puoi tornare in America!”.

“Non ti lascerei mai da sola con una situazione simile che incombe sulle nostre teste. Starei al tuo fianco”.

“Benjamin, non ti rendi conto di quello che dici. Che lavoro faremo se ci dovesse andare male?”

“Fonderemo un giornale nostro!”. “Oh insomma, basta!” gridò Grazia. E la sua voce risuonò

acuta attraverso il telefono e fece fare a Benjamin un leggero balzo con la testa.

“Se non mi dai l’o.k. propongo la storia ad un altro giornale, e vedrai che mi daranno carta bianca” disse risoluto.

“Non puoi farlo. Il tuo contratto è vincolato a questo giornale” gli ricordò allarmata.

“No, se mi licenzio” rispose lui, indurendosi sulla sua posizione.

“Sei solo testardo e caparbio” replicò arrabbiata. Grazia non sapeva più cosa obbiettargli. Cominciò a temere

veramente che lui dicesse sul serio. Se ne sarebbe andato. E anche da lei, forse.

“Benjamin, ti parlo come collega e soprattutto come amica. Se almeno mi consideri tale, ti prego, ascoltami: pensa bene a quello che stai facendo. Non seguire solo il tuo istinto. Pensa anche a noi, che siamo qui a Milano, in redazione, che facciamo il nostro onesto lavoro. Ti stimiamo tutti. Se te ne vai, e per giunta in questo modo, è come se ci tradissi! Siamo un'unica squadra. Potremo vincere solo se staremo insieme, se rimarremo uniti”. Gli parlava col cuore in mano. Benjamin ascoltava attento, in silenzio. Grazia continuò: “Dammi qualche ora per sondare che aria tira qui a Milano, per domandare il parere dei consiglieri di redazione, per investigare l’opinione di qualche mia conoscenza esperta nel campo. Voglio formarmi un quadro attendibile della situazione, e poi valutare bene il da farsi. L’Italia non è l’America: dove avete fatto dimettere il Presidente Nixon, ottanta anni fa, ai tempi dello scandalo Watergate… Ma se ci sta il giornale, io sono con te”.

Benjamin parve soddisfatto della proposta, perché le rispose: “D’accordo, aspetterò fino a stasera. Può darsi che

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domani tu sia ancora direttrice. Dì a tutti, però, che se il responso sarà sfavorevole, mi licenzierò”.

“Sì, riferirò ogni tua parola”. “Dì a tutti che non ho niente con nessuno. È una questione

di principio: di seguire una cosa in cui credo. Mi capisci?”. “Sì che ti capisco, Benjamin” Grazia era affranta da una

simile prospettiva. Sentiva che le veniva gettato addosso un peso insostenibile. Aveva voglia di piangere: l’ombra di due grossi lacrimoni fece capolino, inavvertitamente.

Benjamin si accorse della voce incrinata della sua amica. “Stai bene?” le chiese.

“Non proprio” gli rispose. “Senti, lasciamo da parte il fatto che sei la direttrice del

giornale. Tu mi credi?” le domandò accorato. Pausa. Grazia non sapeva cosa rispondere. Emise un timido

“Ecco…” cercando di abbozzare un qualche discorso, ma non le uscivano le parole di bocca.

“Grazia, per amor del cielo, che idea te ne sei fatta? Eri da Edoardo anche tu ieri sera! Hai conosciuto tutti quelli ospitati a casa sua. Ci credi forse tutti matti?”.

Lei avrebbe voluto rispondere “Sì”, ma sapeva che non poteva. Benjamin le parlava ora in tono concitato: se fosse stato presente lì con loro una terza persona, un perfetto sconosciuto all’oscuro di tutti i precedenti, anch’essa avrebbe capito quanto Benjamin tenesse alla sua idea. Tuttavia Grazia non voleva nemmeno tradire la fiducia dell’amico dandogli un’immagine di sé falsa, acconsentendo a cedere al suo punto di vista.

“Se vuoi il mio parere, tutta questa storia del nostro ex-direttore e dei parlamentari coinvolti nelle Stelle Spezzate mi sembra una grossa montatura, magari fatta ad arte”. Tuttavia pronunciò le parole facendo uno sforzo enorme per essere convinta di quello che diceva.

“Ah sì!? Questi scandali sarebbero finti, secondo te?” la incalzò.

“Qualcuno che vuole incastrare quei poveri malcapitati sotto tiro… ed usa le Stelle Spezzate per depistare le indagini” azzardò.

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“Qualcuno che volontariamente vuol far fuori un avversario?”.

“Potrebbe essere”. Capì amaramente che lui si era troppo intestardito, ed aveva sposato la versione delle Stelle Spezzate come il male assoluto.

“Allora è evidente che abbiamo due visioni completamente differenti delle cose che stanno succedendo in questo paese. Non posso che augurarti che abbia ragione tu, lo spero per te. Ma io non cambio idea. Secondo me il paese versa in un grave pericolo, peccato che nessun italiano sia serio a tal punto da accorgersene!”.

Grazia era sull’orlo di mettersi a pregarlo per telefono di scusarla e di dimenticare tutto quello che lei gli aveva appena detto, ma una parte di sé non riusciva in nessun modo a credere che quanto affermato con tanta sicurezza da Benjamin potesse essere vero. Sentì che le sue parole risuonarono beffarde: “Vuoi dire che le Stelle Spezzate potrebbero manovrare una parte di Fondazione Risorse Nuove? E’ proprio questa la tua idea? Proprio non ti sembra un tantino azzardata? Che so… la sceneggiatura di un libro americano di fanta-politica?”

“I libri seri lasciali scrivere a noi, per piacere. Voi italiani limitatevi a scrivere i libri di cucina e di giardinaggio”.

“Li abbiamo già scritti, e con successo. Siete voi che vedete scandali ovunque, e non essendo in grado di scrivere che quelli, giungete al punto di inventarveli!”.

“Non inventiamo niente. Se li vediamo è perché ci sono. E peggio per voi: non venite a chiamarci quando sarete arrivati con l’acqua alla gola! Io non ci sarò più, allora. E tanto meno nessun americano verrà a salvare questo paese”.

Grazia per un momento ebbe paura. Risentì le lacrime affiorarle di nuovo. “Benjamin, che vuoi dire? Cosa hai in mente di fare?”. La voce ridotta ad un esile filo, già strozzato sul nascere.

“Tu pensa al tuo giornale. Buona fortuna!” tagliò corto. E riagganciò.

Dall’altra parte Grazia scoppiò a piangere, battendo un pugno sul tavolo. “Stupido e testardo d’un americano!” sbottò con gli occhi rigati di lacrime.

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XIX Giulia aveva appena terminato di sistemare le tende alla

finestra della camera da letto ed era contenta di sè. Vi aveva lavorando tutta la mattina. Aveva sfogliato una notevole quantità di riviste di arredamento durante il mese precedente, informandosi sui vari tipi di tende, poi si era persino fatta un book ritagliando le fotografie che più le piacevano. Alla fine si era fatta un’idea sufficientemente buona di quello che voleva per la sua camera, e così aveva provveduto a comprare tessuto e ganci. Naturalmente il palo su cui aveva issato il pesante tendaggio l’aveva fatto montare a Roberto.

Visto che nessuno dei due poteva contare su di una ragguardevole disponibilità di denaro sui rispettivi conti in banca, si erano dovuti arrangiare alla meglio nello scegliere i mobili con cui arredare la casa.

Per la cucina avevano optato per una soluzione pratica: un mobilio essenziale che si snodava lungo tutta la parete dove si trovavano gli agganci di acqua, gas ed elettricità. Dal punto di vista estetico, Giulia aveva insistito per una composizione semplice e lineare, in betulla con il piano di lavoro in marmo rosa. Tutte le ante superiori erano leggermente intagliate con un bel ghirigoro, che ricordava gli intagli ornamentali delle cucine tirolesi.

La cucina prevedeva anche un tavolino con due sedie. Al momento non prevedevano ospiti a cena, né amici per un drink o un party, dato che la casa – a sentire quello che andava dicendo Giulia – era ancora troppo spoglia.

Avevano sistemato in salotto un divano, nuovo di zecca anche quello. Giulia si era innamorata di un magnifico modello a tre posti, color rosso rubino, e aveva insistito tantissimo per acquistare proprio quello. Vuoi perché la stanza era quasi del tutto spoglia, vuoi per la tonalità accesa del divano, era la prima cosa che si notava appena entrati nell’appartamento. Il resto della sala consisteva in un tavolo rotondo con sopra una vecchissima TV, chiaramente di seconda mano, che Roberto spacciava come un super affarone, ma che era il cruccio di Giulia. Secondo lei era del tutto fuori posto in quella sala, un ferro vecchio in mezzo a oggetti nuovi

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splendenti, e per questo la considerava ancora meno che antiquariato. Ma Roberto continuava ad essere orgoglioso del suo acquisto fatto tramite il giornale alla rubrica: “Compro tutto, Vendo tutto”.

L’orgoglio di Giulia, invece, era la loro camera da letto. Insieme alle tende che aveva scelto con una cura maniacale. E ora ammirava con l’animo traboccante di gioia il risultato che si era prefissata per tempo, e che ora aveva puntualmente raggiunto.

Era in piedi. Alle sue spalle la sponda del letto, di fronte la porta-finestra che dava su di un terrazzino.

Ora Roberto era fuori al lavoro, e lei aveva appena terminato gli ultimi ritocchi della loro camera, tende comprese. Si sedette sul letto a riflettere. Rimirò la camera per accertarsi che nulla fosse fuori posto. Era una maniaca dei particolari: lo sapeva, e lo stesso non riusciva a farne a meno.

Voltò la testa a destra, e vide l’enorme armadio color avorio, con le ante scorrevoli e le maniglie che davano l’impressione di sottili bastoncini incollati sopra.

Si alzò dal letto e si girò di spalle: passò in rassegna il letto matrimoniale. Si erano trovati subito d’accordo su quel modello a prima vista un po’ antiquato, ma che a loro piaceva moltissimo. Sulla testiera in ferro battuto era riprodotta una rappresentazione stilizzata, solo vagamente abbozzata; somigliava all’incirca ad uno stemma araldico, con in mezzo due tortore che dormivano, quietamente accovacciate l’una accanto all’altra. Anche se Roberto gradiva quel modello di letto, l’aveva quasi lasciata secca commentando: “Puoi pensare a tutto, vedendo le tortore, meno che a noi due che tubiamo vicini”. Ogni volta che si rammentava di quella considerazione così poco poetica, la scacciava subito via dalla memoria inorridita.

Poi Giulia voltò di nuovo la testa, questa volta a sinistra, e i suoi occhi si posarono beati sul comò in vecchio stile custodito gelosamente prima nella sua vecchia camera, ed ora nella loro stanza, dopo un considerevole sforzo di Roberto per trasportarlo da casa dei genitori a casa loro. Con lavoro da certosino lui l’aveva prima raschiato, poi ridipinto ed infine

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completamente riverniciato di un colore simile al frassino, e collocato accanto al letto.

Giulia si vide riflessa nello specchio ovale, fissato sopra il comò. Era pronta per uscire e recarsi al lavoro. Il suo turno iniziava di lì a poco, alle 14.00 di quel fresco pomeriggio di primavera. Vide il suo pullover di cachemere rosa, il tubino, il foulard a quadri. Esaminò l’acconciatura: era a posto. Si guardò le mani: avrebbe tanto desiderato che Roberto le avesse regalato l’anello di fidanzamento come regalo d’ingresso nella loro nuova casa. Non che si volesse sposare subito. Né aveva alcunché da recriminare al suo ragazzo, dato che in realtà non avevano mai parlato di matrimonio. Ma lei era imbevuta fino all’inverosimile di film romantici dove il lui di turno a sorpresa scopre le carte con la sua lei, rivelandole il desiderio di sposarla e regalandole, ovviamente, un fantastico anello.

Ma lei era altrettanto sicura del sentimento che provava per il suo uomo? Avrebbe accettato un eventuale anello come proposta di matrimonio?

Solo per un attimo si pose la domanda che non aveva il coraggio di farsi: amava Roberto? E quanto lo amava? Sì, provava una forte attrazione per lui, si sentiva protetta e compresa. Lui si era sempre dimostrato pronto a esaudirla in qualsiasi desiderio, cosa che per lei equivaleva ad una dichiarazione scritta di amore e fedeltà. Ma, nonostante tutto ciò, non riusciva ad ammettere con se stessa, in ultima analisi, di essere sicura di quello che c’era fra lei e Roberto.

Provò a immaginarsi con l’anello al dito: sentì che sicuramente lo voleva. Anzi, con una certa freddezza, che un po’ la sorprese, si ritrovò a pensare che l’avrebbe voluto in ogni caso, anche se poi le cose fossero andate male tra di loro. Ma poi si dispiacque di un pensiero così orribile. Possibile che bastasse solo l’attaccamento ad un gioiello per renderla felice? Era davvero così cinica?

In realtà non sarebbe stata maldisposta a sposare Roberto, dopo un po’ di convivenza. Di nuovo, però, aveva la sensazione che la sua mente si difendesse, con un simile ragionamento, da ben altre cose, sepolte dentro di lei. Paure ancestrali, desideri repressi, catene da cui nemmeno sapeva di

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essere avviluppata né quanto fossero pesanti. Le tornò in mente l’esame di psicologia sostenuto per laurearsi in scienze infermieristiche: tutto il corso universitario di allora era stato incentrato su un argomento che non era più riuscita a scrollarsi di dosso: il lato ombra, il lato segreto che ciascuno porta dentro di sé, e che di solito pochi conoscono. Esso è temuto per quanto nasconde della nostra personalità, dei nostri desideri, dei nostri bisogni; il lato ombra si aggira in silenzio dentro di noi, come uno spettro, per anni e anni. Salvo poi affiorare nei momenti più imprevisti, nelle decisioni difficili da prendere, facendo leva sulle nostre paure e sulle nostre debolezze. Che stesse emergendo, ora, il suo lato segreto?

Sospirò ripensando alla notte precedente. La loro prima notte nella nuova casa. Purtroppo erano tornati così tardi e così sfiniti che poco ci mancava si addormentassero vestiti sul letto. Non era certo quello che si era immaginata. Ma d’altronde, rifletté con calma, chi poteva prevedere in anticipo che quella sera sarebbero stati attesi e ospitati a casa della famiglia Righetti?

E poi, all’improvviso, senza volerlo, il pensiero corse subito a Martin Fischer. L’uomo ricoverato soltanto qualche giorno prima nel suo reparto d’ospedale. L’uomo che l’aveva spiazzata come una stupida ragazzina: affascinata da quell’individuo, si era ridotta a osservarlo di nascosto mentre lui dormiva, a sfilargli il libro da sotto il cuscino col desiderio inconfessabile di scoprire informazioni su di lui.

Ora quasi stentava a credere di averlo ritrovato. Così presto e così inaspettatamente. Eppure si vergognava di provare simili pensieri per un uomo che non fosse il suo Roberto. Cominciò a venirle paura. Si era per caso innamorata di Martin? No. Anzi, in fondo aveva timore di lui. E perché, allora, rischiava di pensarci in ogni momento? Percepiva dentro di sé come due forze opposte, che quasi si combattevano. Da un lato il sentimento dolce e affettuoso per Roberto, che la tranquillizzava. Dall’altro una specie di richiamo fatale per Martin, al cui solo pensiero rabbrividiva. Si rese conto che per quell’uomo provava un misto di paura e tenerezza insieme. Paura perché lui riusciva senza sforzo a metterla a disagio. Tenerezza perché lo trovava solo, indifeso,

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vulnerabile. Come una calamita si sentiva attratta verso di lui dalla sua aura di mistero.

Scacciò questi pensieri dalla testa e si alzò. Decise che non avrebbe più pensato a quell’uomo: per causa sua troppi turbamenti inquietavano la sua anima. Prese con sé la borsetta appoggiata per terra, e si diresse verso l’entrata. Staccò con cura il cappotto appeso all’attaccapanni e lo infilò, stando attenta a chiudersi bene tutti i bottoni. Diede una rapida occhiata agli stivali per vedere se erano ben lucidati, inforcò gli occhiali da sole e uscì.

Roberto era ritto in piedi, di fronte al bancone del negozio.

L’uomo dietro al bancone gli stava impacchettando un costoso soprammobile in vetro di murano scelto appositamente per Giulia.

Già da un po’ di tempo aveva capito che lei si aspettava un regalo da lui: una specie di benvenuto d’ingresso nella loro nuova casa. Così era entrato nel negozio di liste nozze e articoli da regalo, quello davanti al quale passava tutti i giorno durante la pausa pranzo, e le aveva comprato un delizioso vaso da fiori affusolato, creato appositamente per i mazzi di rose, di gigli, di calle, di orchidee, insomma, per tutti i fiori dal gambo lungo, specialmente quelli costosi. Naturalmente di lì a poco avrebbe provveduto anche ai fiori: il fiorista sarebbe stato la sua seconda tappa, una volta fuori dal negozio di liste nozze.

Erano le 13.45: Roberto era in piena pausa pranzo. Si era concesso una piccolissima digressione dal suo abituale giro del dopopranzo, decidendo di passare da quei due negozi per i suoi acquisti.

Quel giorno aveva deciso di dedicare quella preziosa quindicina di minuti al regalo per Giulia. Per fortuna il negozio di liste-nozze faceva orario continuato. Vi era entrato senza una precisa idea di quello che voleva regalarle, e infatti era stato subito assalito da una commessa velocissima che gli aveva fatto vedere in soli cinque minuti più cose di quante lui riuscisse a ricordare. Gli era passata di fronte una caraffa di Christian Dior dal manico d’argento, un set di posate arabesche eccezionali per una cena in stile turco, cornici

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d’argento di tutti i gusti, chincaglierie varie assolutamente imperdibili tutte rigorosamente di cristallo Swarosky, addirittura un’ interminabile collezione di tazzine di porcellana dipinte in stile barocco che la commessa voleva affibbiargli mentre lui si dava da fare a spiegarle che la sua ragazza non si trastullava con tazze e piattini. Alla fine la commessa, esausta, chiamò il padrone che riuscì in pochi minuti a tirare fuori da un luogo non meglio precisato lo straordinario vaso di Murano.

“E’ soddisfatto dell’acquisto?” gli domandò il negoziante in tono confidenziale.

“Altroché. Quel vaso starà benissimo in salotto” e le dirò di più: “mi piacerebbe che non mancassero mai fiori freschi in casa: la abbelliscono moltissimo”.

“Ha ragione, sa! Mia moglie li compra freschi al mercato tutte le settimane. E’ proprio bello entrare in casa, ed essere accolti per prima cosa dalla bellezza di un vaso di fiori veri”.

Roberto era felice di trovare un tale che, una volta tanto, fosse d’accordo con lui, e uscì dal negozio soddisfatto del regalo.

Giulia fece il suo ingresso puntuale in reparto. Corse di

filato all’armadietto, dove infilò il camice bianco e la cuffia in testa. Poi cominciò il consueto giro di visite per la corsia. In quel momento erano ricoverati pochi pazienti. Fece due rapidi conti: se la sarebbe cavata in venti minuti.

La caposala la salutò con la consueta cortesia con cui era solita salutare tutte le infermiere di quel reparto. Era una donna slanciata, con un corpo armonioso e snello, tuttavia dal carattere asciutto. Poco propensa alle chiacchiere, precisa e metodica. Trattava tutte le colleghe con garbo e gentilezza, ma esigeva puntualità, cura nel lavoro e non ammetteva l’ozio nei tempi morti. Trovava sempre qualcosa da far fare alle sue subalterne, anche di notte. Con affabilità e discrezione dispensava ordini e accoglieva richieste.

Quel pomeriggio pareva abbastanza taciturna. Giulia notò che lo era particolarmente con lei. Si domandò se, quella mattina, la caposala avesse riferito al primario che Fischer se n’era andato. E se il primario si fosse per caso arrabbiato. Era

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accaduto proprio durante il suo turno dello scorso venerdì. Ma, in fondo, lei non poteva averne colpa. Cosa rimproverare ad una semplice infermiera? Non era certo lei a prendere l’iniziativa di mandare a casa la gente.

Dunque, lei non poteva farci niente. Se la caposala era taciturna con lei, pazienza. Magari era una sensazione temporanea. Un momento di passaggio. O magari si sbagliava.

Quindi tanto valeva aspettare e vedere cosa sarebbe successo. Stava rimuginando tutte queste cose, quando la caposala le venne incontro.

“Buon pomeriggio, Giulia”. “Salve, Olga”. Era prassi normale darsi del tu. Tuttavia

Giulia sentiva un certo imbarazzo. “Stai tranquilla, va tutto bene” la calmò la caposala, che a

quanto pareva si era accorta di un’ombra di malessere passata sul viso di Giulia. “E’ solo che hai una visita. Una persona. L’ho fatta passare perché c’è poca gente oggi, in reparto. Però fai presto, cinque minuti, non di più. Intesi?”.

Giulia annuì, senza capire. Pensò fosse Roberto che si era dimenticato le chiavi di casa, o qualcosa del genere.

Si avviò incuriosita verso l’ingresso del reparto, dove erano posizionate delle panchine per i visitatori dei pazienti. Erano sempre piene durante gli orari di visita. Ma alle due e trenta di quel lunedì di Marzo non c’era nessuno. Eccetto un uomo giovane, di bell’aspetto, con fulvi capelli biondi che si annodavano in ricci all’altezza delle orecchie.

Le infermiere che avevano occasione di passare lì davanti gli gettavano occhiate di apprezzamento. Il viso del giovane non era chiaramente visibile perché era chino, intento a leggere qualcosa. Sembrava uno studente universitario, solo un po’ avanti negli anni. Tuttavia non lasciava trasparire alcunché di strano o pericoloso. Per un attimo Giulia non lo riconobbe. Poi ebbe un tuffo al cuore.

In quello stesso istante Martin alzò gli occhi e la guardò. Incredibilmente le sorrise. Pareva un altro. Non aveva nulla dell’aspetto distaccato, aristocratico e snob della sera precedente. Aveva invece movenze dolci, morbide, disarmanti. Lei aveva deciso di non avere più a che fare con l’uomo spregiudicato che fino ad allora l’aveva disprezzata,

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almeno così lei pensava. Ma adesso si trovava davanti un viso nuovo, era come se lo scorgesse soltanto ora, veramente, per la prima volta. Sentì che la sua bocca si schiudeva in un sorriso di risposta.

Imbarazzata gli andò incontro. Martin si alzò a sua volta. Era tranquillo, continuava a

sorriderle. Pareva aspettarla per dirle qualcosa. Nell’uscire dal reparto insieme a lei, le cinse le spalle in un gesto di cavalleria che lasciò Giulia frastornata. La sua dolcezza era disarmante.

Quando dopo dieci minuti Giulia rientrò al lavoro, capì che nella sua vita nulla sarebbe stato più come prima.

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XX In confronto allo stupore che aveva provato la prima volta

che aveva aperto la porta di casa agli agenti del Vaticano, e la cui visita aveva suscitato in lui un’ondata di sentimenti contrastanti, la seconda volta Edoardo fu più preparato a riceverli.

Accanto ad Edoardo ora non sedeva più Laura, ma Benjamin. Esattamente dirimpetto a loro, anche Kreutz e Wassen apparivano più a loro agio. Una bella differenza rispetto al contegno rigido e legnoso che avevano dimostrato la prima volta. Benjamin era rientrato appena in tempo per incrociarli sulla porta d’ingresso: con le loro giacche inamidate, i cappotti lunghi un po’ funerei e la loro valigetta ventiquattrore davano l’impressione di una coppia di esseri strani, che si aggiravano per la città assolata come due avvoltoi. Alla loro vista Benjamin ne fu alquanto intimorito, ma per fortuna Edoardo aveva ormai imparato a conoscerli, ed ora si manteneva davanti a loro relativamente tranquillo. Per non essere da meno, Benjamin adottò subito la serena pacatezza di Edoardo.

Fatte le rispettive presentazioni e dopo i primi convenevoli di rito, Edoardo attaccò senza perdere altro tempo: «Veniamo subito al dunque, egregi signori. Io ed il mio

collega americano, anch’egli come me nell’equipe di lavoro, a nome di tutti i componenti del gruppo abbiamo intenzione di accettare l’incarico offertoci dal Vaticano». I due agenti manifestarono piacere e si congratularono con loro. Edoardo proseguì: “Ci mettiamo dunque a vostra disposizione, naturalmente nei tempi e nei modi che ad ognuno di noi sono consentiti dagli impegni personali e di lavoro. Però ci sono alcune cose preliminari che vorrei chiarire con voi. Innanzitutto ho bisogno di sapere almeno in generale il contenuto della Lettera ai Laodicesi. E, in secondo luogo, se si può veramente ritenere autentica”.

Benjamin, che lo stava ascoltando, pensò che volesse accertarsi se quello che aveva riferito loro Martin la sera precedente combaciasse con le informazioni degli inviati del

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Vaticano. “Quanto è furbo!” pensò “non si fida di quello che ci ha raccontato l’archeologo”.

Edoardo riprese: “E poi c’è un’altra questione serissima”. E qui fece una pausa per scandire bene le parole: “Non ho nessuna intenzione di lavorare con Martin Fischer”. Il suo tono non ammetteva repliche. Benjamin lo guardò stupito, al limite della meraviglia. Anche i due agenti sgranarono gli occhi, rimanendo alquanto interdetti.

“Sia chiaro” disse “l’equipe è garantita. Hanno tutti accettato, chi più entusiasticamente, chi meno. Solo un membro” Benjamin capì che si stava riferendo a Grazia “ha escluso del tutto il suo apporto. Ma, questo è il punto, per quel che mi riguarda è evidente che tra me e Martin c’è uno di troppo: o uno, o l’altro”.

Wassen, quello dei due con la sottile montatura d’oro, cercò di riprendersi in breve dallo stato di impasse provocato dalle amare parole di Edoardo.

“Professor Righetti” rispose “una cosa per volta: risolviamo intanto la prima questione. I nostri esperti, alla presenza del Card. Mac Collough e di altri prelati molto competenti, hanno visionato a lungo la lettera e non hanno trovato nulla da ridire. Con tutta probabilità è autentica, e per questo si può considerarla nel genere delle lettere pie. Anche se, a rigore, non può entrare a far parte degli scritti canonici, ossia dei testi sacri ispirati direttamente da Dio. Pertanto è probabile che tutto ciò che la lettera contiene sia edificante, credibile, ma certamente da non ritenersi oggetto di fede. Un po’ come per le rivelazioni private: sono raccomandabili, ma non aggiungono nulla alla rivelazione pubblica fatta con i Vangeli”.

Di tanto in tanto Edoardo annuiva con la testa. Anche Benjamin mostrava vivo interesse, soprattutto era meravigliato, come fosse la prima volta che ascoltava simili discorsi.

“Inizia con il solito saluto alla comunità di Laodicea. Poi prosegue con gli ammonimenti: imitare il messaggio di Gesù Cristo, essere veri seguaci del Cristo, nei fatti e non solo a parole. Esorta poi la comunità con alcuni consigli pratici, perché li rimprovera di un eccessivo attaccamento ai beni.

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Stanno diventando troppo tiepidi, insulsi, “né caldi né freddi”. Termina con un’invocazione allo spirito, per altro molto bella. Nell’insieme non è assolutamente in contrasto con l’immagine della Chiesa di Laodicea che si trova nell’Apocalisse: una chiesa per la quale il pericolo veniva dalla mollezza di costumi e dalla vita condotta agiatamente, nel benessere”.

“Fin qua mi sta bene. Tutto concorda… anche Martin ha tratteggiato un’immagine simile di Laodicea. Eppure per Martin Fischer quelle note sono essenziali: ce l’ha spiegato stanotte. Lui ha tutt’altra visione dei fatti; perciò, come la mettiamo? E perché l’avete inserito nell’equipe, anche se la pensa in maniera così diversa da voi?” chiese Edoardo.

“Solo il Cardinale potrebbe risponderle. Noi non lo sappiamo” risposero concordemente.

Edoardo sospirò. “Presumo che il testo me lo farete vedere solo nel caso io accetti, giusto?”. I due uomini annuirono. “Mac Collough le consegnerebbe la copia della traduzione, ed una anche a tutti i suoi colleghi, così come è stata preparata fino ad ora”.

“Ma quello che mi sta più a cuore” riattaccò Edoardo per nulla turbato “è la presenza o meno di Martin Fischer. Ho avuto dei trascorsi infelici, in parte per causa sua. Conservo dei brutti ricordi. Davvero, non potrei occuparmi di quella lettera, stando fianco a fianco con Fischer” spiegò perentorio.

“Penso di capire a cosa allude, professore” prese la parola Wassen. “Quando il Cardinale vide la lista per la prima volta, obiettò subito che voi due non potevate lavorare insieme. Fu così che la lista venne abbandonata sul suo tavolo, nella vaga speranza di escogitare una soluzione. Giacque lì per alcune settimane; apparentemente il Cardinale sembrava essersene dimenticato. Un giorno, all’improvviso, ci chiamò: aveva la lista in mano. Lì per lì, fummo sorpresi. Ci disse che non c’era soluzione se non tenere tutti e sette i nomi. Nessuno poteva essere cancellato. Questa era la sua decisione definitiva”.

“Cioè, lui non se la sentì di cancellarne nessuno” corresse Edoardo. “Lasciò sia il mio nome che quello di Fischer: che ce la sbrigassimo noi! Bella trovata! Davvero formidabile la diplomazia vaticana!” esclamò Edoardo.

“Adesso lei sta presumendo troppo, professore”.

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“Ah sì?”. Benjamin si azzardò a sussurrare un: “Non è che sta

lavorando un po’ troppo di fantasia, Edoardo?”, ma ammutolì vedendo l’espressione truce con cui lo ricambiò immediatamente il professore.

Kreutz proseguì: “Le consiglio di essere meno precipitoso nel trarre le sue conclusioni. Le assicuro che il Cardinale ha sempre sperato, e spera tuttora, che accettiate entrambi. E devo dire, per la verità, che il signor Fischer non ha fatto alcun problema”.

“Bella scoperta! L’ha trovato lui il papiro!” sbottò Edoardo. Wassen e Kreutz lo guardarono stralunati, colti alla sprovvista dal sincero rimbrotto. Sollevarono le braccia, sconsolati. Era la verità. Ma cosa replicare? A tanta disarmante evidenza anche Benjamin non sapeva cosa obbiettare. Intanto Edoardo si era infervorato ed aveva anche alzato il tono di voce: “E poi perché diavolo affidare a me la direzione dei lavori, quando a tutti è parso chiaro, ieri sera, che lui ne sapeva più di tutti quanti noi messi insieme!? Va bene l’umiltà, la mitezza e la carità cristiana, non dico che queste virtù io non le debba praticare, ma quando è troppo è troppo! Non stiamo qui a prenderci in giro, signori: di fatto è lui che ci ha spiegato per filo e per segno un sacco di cose stanotte, più di quante ne abbiate spiegate voi due a me. Anzi, mi sono fatto un quadro della situazione solo grazie a lui! Allora, se è chiaro che comanda lui, dicevo, perché mai dovrei dirigerla io questa baracca? Ma per chi mi avete preso? Per il benefattore dell’umanità, che guida l’equipe di gloriosi ricercatori nelle lontane steppe turche? Beh, no. Grazie tante, ma io sono di troppo” concluse secco.

Ci furono un paio di minuti di silenzio in cui nessuno osò aprire bocca. Alla fine Benjamin, se non altro per pura curiosità, buttò lì la domanda che aveva in animo fin da tutta la mattina, quando Edoardo l’aveva messo in guardia da Martin.

“Scusa Edoardo, ma perché ce l’hai tanto con Martin Fischer?” azzardò. Ricevette in un battibaleno un’occhiata sprezzante dal padrone di casa. Benjamin si pentì di quello che aveva appena chiesto. Edoardo continuava a non rispondere.

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Benjamin guardò prima dalla sua parte, poi voltò la testa dall’altra parte, tornando a scrutare gli uomini del Vaticano. Ma quelli tenevano le labbra sigillate.

“Andiamo, avete perso tutti quanti la parola?”. Benjamin stava allarmandosi. Nessuna delle bocche degli altri si era ancora mossa. I due agenti del Vaticano tenevano gli occhi incollati su Edoardo, ed Edoardo li teneva fissi su di loro. Benjamin non capiva se Edoardo aspettava che parlassero, o se li stava minacciando in silenzio affinché tenessero le loro bocche ben cucite.

A quel punto entrò Laura. A giudicare dall’espressione del volto, aveva sentito gli ultimi scambi di battute. Si avvicinò a Benjamin, mettendogli le mano sulle spalle. Lui intuì che stava per rivelare qualcosa. Qualcosa di importante. Infatti con voce esile, addolorata come se fosse stato doloroso il ricordo che si accingeva a richiamare alla memoria, cominciò a raccontare:

“Anni fa mio marito era docente alla Gregoriana. Insegnava patristica, ed era molto stimato e rispettato da tutti. Dovevamo ancora conoscerci, o meglio, ci saremmo conosciuti di lì a poco. Lui sarebbe stato il mio insegnante. Ad un certo punto fu eletto un nuovo rettore, che entrò ben presto in attrito con Edoardo. Questi gli sospese la cattedra, senza alcun valido motivo e abusando del suo potere, per darla a Martin Fischer, che a quel tempo era il pupillo del rettore. Da quel momento mio marito non ha messo più piede in università, perché la cattedra non gli è stata più restituita. Né gli è stato offerto nessun altro incarico”.

“Grazie. Laconica, ma indubbiamente esaustiva” concluse Edoardo.

“Non immaginavo una cosa simile… davvero… altrimenti non avrei mai osato domandare spiegazioni, cioè… se avessi saputo di mettere il dito nella ferita aperta… scusami, Edoardo” farfugliò Benjamin imbarazzatissimo. “Non immaginavo che le cose stessero così, adesso capisco… mi dispiace davvero tanto”.

Laura si avvicinò al marito, e questa volta, parlò con serietà, come per convincerlo: “Sono passati più di vent’anni, Edoardo. Nel frattempo anche Fischer ha fatto dell’altro. E’

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rimasto lì ad occupare la tua ex-cattedra solo per due anni, poi ha lasciato il campo libero. Sappiamo che se ne è andato a fare delle ricerche per proprio conto… Per quel che ne sappiamo, caro, potrebbe essere stato “usato” a sua volta. Il rettore potrebbe averlo costretto a prendere il tuo posto, e lui ha subito le pressioni del suo superiore, salvo poi partire appena ne ha avuto la possibilità. Per questo ti dico: metti da parte il tuo legittimo risentimento, è davvero ora, sono io che te lo chiedo, tua moglie”. Laura era dolce, ma decisa allo stesso tempo. Mentre parlava Edoardo teneva la testa bassa, come stesse seguendo il corso dei suoi pensieri che gli si materializzavano davanti come ombre cinesi. Dopo poco l’alzò e disse:

“Non prometto niente. Lui è l’uomo che mi ha rovinato la carriera, l’insegnamento, la passione che sentivo crescere dentro di me per la mia materia di studio… non so se sarò dei vostri. E’ troppo difficile per me stare con Fischer. Davvero. Non so se ci riuscirò, è più forte di me”.

Laura chinò il capo. Sentiva di non riuscire ad incrinare la visione granitica che il marito aveva davanti agli occhi. Si riscosse solo quando sentì Edoardo continuare:

“Tuttavia vi darò la lista di tutti quelli che si sono messi in contatto con me per il progetto della Lettera. Credo che ci saranno delle sorprese. Io mi voglio riservare un tempo ulteriore per decidere se prendervi parte, o lasciar perdere definitivamente. In fondo io non sapevo che lui fosse uno dei componenti…” disse rivolto a Wassen e a Kreutz, sottintendendo che avessero fatto apposta a tralasciare quell’informazione essenziale, “me lo sono ritrovato in casa stanotte… è stato un autentico shock. Per educazione ho recitato la parte del perfetto padrone di casa che accoglie i suoi ospiti, ma, signori, lo potete capire da soli… è inutile che giriamo in tondo, io non lo posso soffrire. Per me è stata una tortura averlo in casa”.

Wassen e Kreutz fecero un cenno col capo, per dimostrare che capivano perfettamente. Wassen gli rispose: “Professor Righetti, lei non ha bisogno di giustificarsi in alcun modo. E’ tutto comprensibilissimo. C’è solo una cosa che vorremmo lei tenesse in considerazione, ed è la seguente: anche se è vero

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che la scoperta della Lettera è del sig. Fischer, lui comportandosi da suo subalterno ammette esplicitamente che vuole lei come capo dell’equipe. E’ lei l’autorità nel gruppo, di fatto, non Fischer. La prego di capire: è come se il sig. Fischer volesse riparare al gesto compiuto tanti anni fa, quando le ha portato via la cattedra – volente o nolente, non lo sappiamo – e ora accettando di obbedire ai suoi ordini, fa un chiaro segno di ammenda. E’ un segno che va colto. In ultima analisi, può essere una richiesta di scusa”.

Edoardo alzò gli occhi verso l’inviato del Vaticano, che in quel momento aveva appena terminato di parlare. Traspariva dagli occhi dell’insegnante una accesa lotta interiore per decidere. Il suo sguardo era concentrato in un punto imprecisato sulla mensola del camino. Sudava leggermente.

Dopo un lunghissimo minuto di silenzio che parve interminabile: “E va bene” disse infine. Tutti intorno erano muti, ma si trattava di un silenzio carico di gioia; non di timore come quello che era calato poco prima, quando Benjamin si era azzardato a chiedere a Edoardo il motivo dell’astio per Martin.

“Ma badate bene, è a me che do una seconda possibilità; non a Martin Fischer” annunciò perentorio Edoardo.

Tutti i presenti in sala si sentirono sollevati da una situazione incresciosa. Si congratularono con lui per la scelta coraggiosa: perché mostrava di mettere da parte il rancore personale per collaborare ad un progetto grandioso, più importante delle singole diatribe personali.

Edoardo lasciò che i presenti sprecassero con lui le solite parole di circostanza. Ma strette le mani e svolti i convenevoli di rito, stanco e col cuore pesante, accomiatò tutti conducendoli alla porta. Compreso Benjamin.

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XXI

Aveva suonato il campanello inutilmente. Si era ricordato in ritardo che Giulia non poteva essere arrivata a casa, perché il suo turno di lavoro quella sera terminava alle nove di sera.

Roberto gettò uno sguardo fugace al suo orologio da polso: le otto meno un quarto. Svogliatamente cercò nella tasca della giacca a vento le chiavi di casa, e con quelle si accinse a varcare il portone d’ingresso. Dopo essersi richiuso i pesanti battenti di ferro alle spalle, s’incamminò con passi lenti e strascicati verso la ringhiera che accompagnava la tromba delle scale. Un gradino dopo l’altro, a fatica. Pensava che avrebbe dovuto cenare da solo. La prospettiva non lo rendeva felice. Sperò che Giulia gli avesse preparato qualcosa nel frigo, qualcosa di pronto da scaldare nel forno a microonde. Ma di solito doveva arrangiarsi, perché Giulia – pur essendo una bravissima cuoca – cucinava solo quando ne aveva voglia. Il che non capitava troppo spesso. Così alla fine di quella giornata, la prima trascorsa dal termine dell’estenuante incontro a casa di Edoardo, era stanchissimo; ragione per cui accarezzava l’idea di mangiare qualcosa di veloce per poi rilassarsi, magari davanti ad una buona lettura.

Sotto braccio portava come trofeo il pacco-regalo, l’acquisto del pomeriggio, dalla cui confezione si stagliava un faraonico fiocco rosso. Ma non era finita. Sotto l’altro braccio reggeva un mazzo di rose rosse – una dozzina – incartato con un foglio di carta trasparente su cui erano appuntati finti diamanti. Emergevano qua e là come perle. Un simile ornamento senza alcun dubbio era di sicuro effetto. In più la dozzina di rose era legata lungo i gambi da un nastro di raso color oro.

Se non altro per il regalo, pensò Roberto, una bella cenetta proprio se la sarebbe meritata.

Passò i consueti giri di chiave nella serratura e la porta si aprì allo scatto dell’ultimo giro. In casa tutto buio. Solo i lampioni accesi fuori dalla finestra emettevano una fioca luce, che però si perdeva quasi del tutto prima di oltrepassare le tende delle finestre dell’appartamento.

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A tentoni – preferì non accendere luci per mantenere quell’atmosfera ovattata – si diresse verso la camera. Lì era buio pesto. Il doppio strato di tende di Giulia svolgeva egregiamente la sua funzione. Imprecò dovendo accendere la luce (un lampadario che sembrava un calice di cristallo rovesciato): varie volte aveva discusso con Giulia sul fatto che lui avrebbe preferito due buone abat-jour in camera, piuttosto che puntare tutto sul lampadario di cristallo penzolante dal soffitto che gli ricordava una lunga e stretta campana, per nulla aggraziata. Di sera amava la compagnia delle luci tenui, discrete, soffuse. Non di una lampadina da 100 watt del calice gigante di cristallo che gli pendeva sopra la testa; ma se voleva cambiarsi d’abito, non poteva rischiare di infilare per sbaglio il pigiama al posto della tuta da ginnastica.

Passò dal bagno per lavarsi le mani e darsi una pettinata ai capelli. Dopodiché raccolse il pacco-regalo che aveva lasciato sul divano, e lo sistemò per bene accanto ai cuscini. Naturalmente su un divano rosso, un fiocco gigante sempre rosso faceva del suo meglio per non risaltare. L’effetto non era granché. Quel che appariva, comunque, era la grandezza del pacco. Se non altro per la mole di quella confezione così ben incartato Giulia avrebbe dovuto essere fiera di quel regalo.

Infine per terra, facendo in modo che si appoggiassero al divano per restare in piedi, mise le rose incartate con quella bellissima carta lucente. Fece qualche passo indietro per rimirare l’effetto d’insieme dei due regali: era davvero splendido. Non c’era che dire. Un trionfo.

Soddisfatto dalla sala si portò in cucina; lì non c’era niente che lo attendesse. Non un piatto di minestra, né una fetta di polpettone o una terrina di verdure miste. Roberto si arrese all’evidenza. Anche questa volta avrebbe preparato lui qualcosa per entrambi. Già gli sembrò di sentire la voce armoniosa di Giulia che gli diceva:

“Tesoro, tu torni a casa prima di me, la sera. Lo sai! Puoi benissimo preparare tu un piatto di pastasciutta per tutti e due…io lavoro fino alle nove di sera! Come faccio? Lo sai anche tu che il mio lavoro ha questi inconvenienti…”. E sentì anche la sua risposta, scontata: “D’accordo, vada per due bei piatti di pasta alle acciughe”. Infatti tolse le acciughe dal frigo

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e cominciò a farle sfrigolare nella padella, dopo avervi versato un filo d’olio d’oliva. Nel frattempo mise a scaldare sul fornello più grande la pentola dell’acqua calda per la pasta, e iniziò anche ad apparecchiare la tavola.

Alle otto e quaranta aveva già mangiato comodamente, ascoltato il radiogiornale della serata – la notizia principale era che il governo non era ancora caduto – e preparato nel forno a microonde il piatto di pasta per Giulia. Pronto appositamente per essere riscaldato.

Andò a sedersi sul divano, mentre aspettava la sua ragazza. Aprì distrattamente una rivista di computer che era ancora avvolta nel cellophan, e si mise a sfogliarla pur avendo la testa da tutt’altra parte. Ma non dovette attendere molto perché di lì a poco sentì le chiavi girare nella toppa della porta.

Giulia spuntò in mezzo alla luce della stanza risaltando nitidamente, come una silouette scura spicca meravigliosamente su uno sfondo chiaro: il suo cappotto lungo era di color nero, stretto in vita da una cintura. Era avvolta in uno stupendo scialle turchese. I biondi capelli scomposti sulle spalle, cosicché lo scialle li metteva ancor più in risalto. Roberto le sorrise compiaciuto:

“Sei bellissima, anche dopo il lavoro; anche quando sei stanca”.

Giulia lo ringraziò del complimento, ma adocchiò in un lampo il regalo enorme posto con cura sul divano. E il mazzo di rose magnifico. Gli corse incontro. Appoggiò la borsetta sul divano, e si sfilò velocemente il cappotto con lo scialle, buttandoli lì in qualche maniera.

“Oh, Roberto, hai capito che desideravo tanto un regalo per la nostra nuova casa…! E me ne hai fatti due…!”. E tutta in estasi lo abbracciò a lungo. Poi gli si sedette accanto per aprire il pacco. Prima staccò con cura il fiocco dalla confezione, commentando che l’avrebbe messo da parte per addobbare i regali di Natale; poi cominciò a scartare i fogli in cui era avvolto il regalo. Quando tirò fuori dalla scatola il prezioso vaso di vetro di Murano, i cui colori alla luce della lampada riverberavano da un fuxia acceso, fino al rosa tenue e poi all’indaco, Giulia aveva dipinta in faccia una autentica commozione. Gli occhi le si erano fatti lucidi.

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“Roberto, è bellissimo…” disse sinceramente, mostrando di apprezzare il regalo. “E pensare che io volevo l’anello…sì, mi ero intestardita su quello, ma anche questo è bellissimo; va bene, altroché. Hai avuto troppo buon gusto, caro, veramente…e le rose, poi…sono splendide…” disse prendendo il cellophan con le rose, e senza finire la frase corse precipitosamente in cucina a mettere i fiori nel vaso. Anche perché stava cominciando a piangere dalla commozione.

Roberto notò sconcertato la strana reazione di Giulia. Sì, i regali le erano piaciuti. Ma l’uscita di scena così tempestiva l’aveva spiazzato. Assomigliava ad una fuga in extremis. Roberto sapeva che Giulia aveva delle reazioni inaspettate o improvvise; ma da lì a piangere per aver ricevuto in dono un vaso di fiori con tanto di rose fresche annesse, e a volatilizzarsi un secondo dopo in cucina senza dire una parola, sinceramente non ne capiva il motivo.

Pensò che anche lei fosse esausta dopo una dura giornata di lavoro, in cui però doveva aver trovato lo stesso il tempo di recriminargli – nelle sue fantasticherie romantiche – che lui non le aveva ancora fatto un vero regalo con la R maiuscola (peccato che lei volesse l’anello però; ci avrebbe pensato più in là nel tempo…) per la loro nuova casa. Quindi ora lui l’aveva colta di sorpresa. Lei si era pentita di aver pensato male di lui, e le si si era scatenata improvvisa ed inarrestabile la reazione di pianto.

Gli venne in mente che potesse aver bisogno di un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, perciò aprì la borsetta e vi frugò dentro. Quel che vi trovò lo raggelò.

Quando Giulia tornò Roberto era lì che l’aspettava. Seduto nella stessa identica posizione di quando lei era uscita dalla stanza. Con la borsetta aperta sulle ginocchia. Con due occhi incendiari su di lei.

Giulia capì al volo, e si mise ancora di più a singhiozzare. Roberto la squadrò da cima a fondo prima di attaccare:

“Perché tieni il libro di quello stronzo di Fischer nella tua borsetta?” le domandò. Ma più che come una domanda, suonava come un interrogatorio.

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Giulia cominciò a balbettare: “Me l’ha dato lui…” e si fece di tutti i colori. Era sempre in piedi, in mezzo alla stanza, con il vaso di rose in mano. Incollata al pavimento.

Roberto divenne incandescente: “E perché mai te l’avrebbe dato?”. Sembrava una belva sul punto di divorare la preda.

“Non lo so…” gli rispose Giulia. Tanto più lui aumentava il tono di voce, tanto più lei lo diminuiva.

“Mi sembra fin troppo evidente che tu lo conoscevi già quel manichino bellimbusto, se avevi il suo libro in borsa! Dì la verità!” ruggì con la forza di un leone.

“E’ stata una pura fatalità. Una coincidenza” sussurrò. “E’ stato ricoverato in reparto per alcuni giorni, ma poi è stato dimesso sabato mattina…; sì, è vero: l’ho rivisto poi domenica sera da Righetti, ma hai visto tu stesso che Martin non si è ricordato di me…” farfugliò in un soffio.

“Non pronunciare il suo nome in casa mia!” urlò. “Casa nostra, volevi dire” sottolineò, per mettere in risalto

quella che era un’evidenza. Ma poi tornò subito all’argomento principale: “Non ti preoccupare. Farò tutto quello che vuoi, d’accordo. Solo, per piacere, calmati. Non ti ho mai visto così arrabbiato!”

“Mi calmerò quando sarò sicuro che quell’essere abominevole sarà uscito dalla mia vita. E dalla tua” urlò.

“Sì, Roberto. Adesso basta, calmati”. Le parole le venivano fuori in mezzo al pianto. Ma Roberto non aveva l’aria di volersi calmare tanto facilmente. Tornò alla carica, tuonando furioso come un uragano impazzito:

“Ma che bisogno c’era di venire a portarti questo maledetto libro, se non si ricordava di te? Te lo dico io quel che ha fatto quel disgraziato: ha finto di non averti mai visto prima, la sera da Righetti. In realtà era ben felice di averti rincontrata!”. E tenne il libro in alto stretto nel pugno della mano, mentre urlava dalla rabbia, per poi gettarlo con disprezzo sul tavolo della TV. Il libro si piegò a metà, sul costolone della copertina era chiaramente visibile il titolo: “Viaggio a Calcedonia”.

Giulia sapeva che quello era il libro che Martin le aveva visto sfogliare il venerdì precedente, di nascosto mentre lui dormiva. Si era assopito in modo così tranquillo e beato, che lei non si era preoccupata del rimprovero che avrebbe potuto

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ricevere a leggere una cosa personale del paziente, se Martin si fosse risvegliato di colpo e l’avesse pescata a sfogliare le pagine senza il suo permesso.

“Non lo so…” sussurrò di nuovo. Non poteva stargli a raccontare tutta la storia; certo non mentre lui era in preda a quell’attacco di gelosia.

“E’ ora che cominci a dirmi la verità, Giulia” la apostrofò. “Allora, sentiamo. Ti ho chiesto perché hai un suo libro. Te l’ha dato oggi?”.

Giulia annuì. Riuscì ad aggiungere in un bisbiglio: “E’ venuto all’ospedale…”.

Roberto trasalì. In un balzo fu da a lei e ringhiò senza controllarsi: “E cosa ti ha detto quel figlio di…?!”. Aveva afferrato Giulia per le spalle. Lei lottava con se stessa per lo sforzo di farsi venire le parole da dire: “Voleva che avessimo questo libretto. Tutti noi del gruppo di Righetti. Ha detto che è importante che l’avessimo, nel caso che le Stelle Spezzate lo facciano fuori all’improvviso. E’ venuto da me perché era già in ospedale per conto suo: prima aveva parlato col primario, per problemi personali di salute… ti giuro che si è fermato due minuti. Non ha aggiunto altro e se ne è andato”. In quel momento Giulia si era levata un macigno enorme dalla coscienza.

Roberto continuava a stringerla alle spalle. Era furibondo. Odiava Fischer per il disgusto e il disprezzo con cui era stato trattato da lui domenica sera. In più ora veniva a sapere che quel bastardo aveva fatto visita alla sua ragazza. Per Roberto tutto ciò suonava nella sua testa come cento campanelli d’allarme messi assieme. Non ci vedeva più dalla rabbia. Se avesse avuto davanti Fischer l’avrebbe preso a pugni.

Giulia si lamentò della presa: “Mi stai facendo male, Roberto”.

Roberto parve rinvenire e la lasciò subito scusandosi. Ma la sua faccia continuava ad essere fredda come il marmo. “E’ tutto qui?”.

“Sì”. “Non è accaduto nient’altro?”. “Nient’altro. Te lo giuro” rispose Giulia con voce strozzata.

In mano sempre il vaso di fiori. Ma sapeva di aver appena

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mentito. Per caso guardò le spine delle rose, proprio davanti ai suoi occhi.

“Mi dirai se ti gira ancora intorno, non è vero?” le domandò ombroso e accigliato.

“Certo. Come vuoi tu”. “Sì, perché nel qual caso lo ammazzo di persona”. Giulia trasalì. “Vedrai che è stato un puro caso, non verrà

più in ospedale. Non ce n’è motivo”. “Va bene. Scusa la mia reazione brutale, ma odio Fischer.

Spero di non rivederlo mai più in vita mia”. Ma Giulia non si era dimenticata che lei e Roberto si erano

impegnati a far parte dell’equipe di ricerca di Righetti, in cui purtroppo era presente anche Fischer. Osò domandargli:

“Come farai a lavorare con lui, allora?” Roberto la incenerì con uno sguardo fulmineo. “Non hai

ancora capito che io non voglio entrare a far parte di quella gabbia di matti!? Un americano borioso, un professore che è stato silurato a suo tempo, un ebreo strafottente che sa solo rubare la donna di un altro…! E tu hai il coraggio di chiamarli un’equipe di ricerca? Ma se sono solo un’insieme di spazzatura! Io non voglio avere a che fare con tutta quella gentaglia indigesta!”

Fu Giulia questa volta a raggelarsi. Aveva dato per scontato che Roberto, magari premendo un pochino, alla fine avrebbe ceduto e avrebbe acconsentito a lavorare nel gruppo. Adesso vedeva tutto il suo castello di idee crollare. Non sapeva cosa pensare, e soprattutto cosa rispondergli. Una parte di lei avrebbe voluto gridare che voleva i soldi, la fama, e che era disposta anche fare un viaggio fino in Turchia, per questo. Anche con Martin. Anzi, l’idea le piaceva. La parte di lei più saggia e razionale, invece, le suggeriva che doveva a tutti i costi allentare la tensione nel suo ragazzo. Doveva calmarlo. Perciò riprese, sforzandosi di rimanere tranquilla:

“Scusa. Non avevo capito. Pensavo che alla fine avresti accettato. Ma farò anch’io quello che tu ritieni meglio. E’ vero che tutto il progetto mi sembra alquanto azzardato e impraticabile”.

“Spiegati meglio”.

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Lei appoggiò finalmente il vaso di rose sul tavolo. Poi disse: “Certo, lo farei per i soldi. Se si trattasse di stare via solamente due o tre settimane. Sarebbero un po’ le nostre ferie, d’estate. Ma sta tranquillo che non piace nemmeno a me quel Fischer. E’ troppo saccente, dispotico. Una vera sciagura per tutta l’equipe. Secondo me, anche provassimo a iniziare, torneremmo indietro a mani vuote, con uno come lui al nostro fianco. Sei d’accordo? ”. Parlò più per convincere lui, però, mentre dentro di lei si faceva sempre più strada la certezza di voler partecipare alle ricerche. E con Martin Fischer, non senza di lui.

Roberto era sempre di pessimo umore. Scrollò la testa: “Questo lavoro è un’autentica pazzia. Io e te non andremo. Specialmente con Fischer nell’elenco. Basta: ho deciso. Si farà così”.

Parlò secco e con un tono di voce che risultava assolutamente inamovibile. A Giulia crollò tutto: ebbe un sussulto. Roberto vide balenare un lampo di disperazione nei suoi occhi, mentre esponeva la decisione appena presa. Allora tutto gli fu chiaro: lei voleva andare via, lei voleva partire con Martin! L’aveva anche detto un minuto prima: sarebbe stato bello fare una vacanza in Turchia! Seguire ogni tanto, giusto una volta al giorno, i risultati dei professionisti: di Edoardo, di Martin, dell’americano. Loro avrebbero lavorato in prima linea. Lei – con Roberto – se ne sarebbe stata all’indietro, protetta da quegli altri.

“Hai fatto male i conti, mia cara!” esplose impetuoso Roberto. “Tu non vai da nessuna parte! Adesso abiti qui con me!” la minacciò.

“Cosa vorresti dire?” domandò Giulia, che stava trovando un po’ di coraggio alla prospettiva che Roberto, veramente, le impedisse di provare a partecipare all’impresa.

“Che io e te adesso viviamo insieme. Conta anche quello che decido io, adesso. E io non voglio che tu parta soltanto per inseguire un malato di mente come quel Fischer…”

“Ah si, eh?” strillò Giulia. Riacquistava sempre di più la voce. “Non sei padrone delle mie azioni. E per fortuna non sono incatenata a te: non ti ho sposato, per fortuna!”

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“Per amor del cielo, lascia perdere che non siamo sposati. Per me è come se lo fossimo, sì, insomma…viviamo insieme. Non ti basta? Condividiamo tutto… e nonostante questo, tu dici che io non conto un fico secco?”. Si stava arrabbiando di nuovo.

“Non sto dicendo che non sono contenta di te e di noi. Ma che sei troppo opprimente. Mettiamo che io parta…beh, dopo tornerei qui. Da te. Non va bene?”.

“NO! No che non va bene!” le urlò incollerito. “Come potrebbe andare bene? E magari, nel frattempo, cadi tra le braccia di Fischer! Ma non capisci che è pericoloso?!”. Senza accorgersene batté un bugno sul tavolo con tale foga che il tavolo tremò, e il vaso di rose sobbalzò pericolosamente.

“Mi stai dando della donna che va a letto col primo uomo che trova? Perché se è così, tu sei uno stronzo, allora!”

“Non parlarmi in questo modo!” “Nemmeno tu! Stai solo facendo un mucchio di

insinuazioni malevoli e calunniose sul mio conto!” “Saresti capace!” “Bugiardo!” “Ma dai, dimmi la verità: l’ho capito che ti piace

Martin…!” tuonò furioso. Era la stoccata peggiore che potesse darle. Giulia lo disintegrò con lo sguardo. Ma non fu capace di dirgli di no. Che non era vero.

A quel punto Roberto preso da una furia incontenibile e con un gesto della mano rovesciò il vaso di rose sul pavimento. “Sai quello che ti dico, allora? Vattene pure via con quel demonio!” le urlò dietro.

Giulia scappò in camera impaurita, chiudendosi dentro a chiave. Si gettò sul letto a piangere disperata.

Roberto cominciò a raccogliere i pezzi di vetro del vaso.

Mai regalo era durato così poco. E per colpa sua. Li ammucchiò in un angolo, sotto il tavolo della TV. Poi andò in bagno a prendere lo straccio per asciugare l’acqua che era caduta per terra. Raccolse le rose – almeno quelle erano ancora riutilizzabili – e le mise in una caraffa di ceramica, che andò a prendere in cucina. Lavorare lo faceva sentire meglio.

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Almeno per qualche minuto non pensava con ogni atomo del suo cervello a Giulia e a Martin insieme.

Quando ebbe finito, il pavimento era perfettamente pulito. Le rose di nuovo sul tavolo. Aveva scopato per terra e gettato i pezzi di vetro nella pattumiera. “Ecco la gloriosa fine del regalo per la casa nuova” pensò, mentre chiudeva il sacchetto con le schegge di vetro e lo sporco.

Scese in strada a portare via la spazzatura: aveva bisogno di prendere aria. Mentre era ancora in casa, aveva udito i singhiozzi di Giulia dalla camera da letto. La sua solita vocina esile gli aveva suggerito: “Sta piangendo perché l’hai ferita. Non è vero che ti lascerebbe per Martin. Le hai fatto una scenata di gelosia bella e buona. Adesso ti calmi, poi vai di là e le chiedi scusa”.

Ma la voce più autoritaria non si fece attendere: “Piange perché sa di aver sbagliato. Una donna sa sempre perché piange. E lei piange perché si sente in colpa. Anche solo con la mente, ma ti ha tradito”. A quella considerazione la faccia di Roberto divenne di nuovo paonazza. Per fortuna che già da un po’ stava passeggiando fuori, lungo il marciapiede, in direzione del bar aperto più vicino. Aveva incrociato qualche passante frettoloso che gli aveva lanciato occhiate smarrite. Chissà che espressione devo avere, pensò. Forse metto paura. Però era impossibile fare a meno di notare gli sguardi allarmati delle persone che lo oltrepassavano.

La vocina esile non si diede per vinta: “Adesso sei fuori casa. E’ meglio, così ti rilassi. Ti bevi qualcosa di caldo, poi magari le compri una scatola di dolci o cioccolatini come richiesta di scuse, torni a casa e fate la pace. Vuoi passare fuori tutta la notte? Dove andresti a dormire?”.

“Roberto, è una questione di principio” riaffiorò la voce potente. “Lei ha sbagliato. Non ti ama, è chiaro. Fatti un giro, poi torni a casa e dormi sul divano. Domani mattina le dici che te ne vai. Te l’ha fatta troppo grossa. E poi non sei mai stato convinto di questo esperimento di convivenza…”.

La vocina esile tornò con tutta la forza che potè: “Non gettare via questa storia in un modo così palesemente stupido! Tu le vuoi bene. Altrimenti non avresti reagito in quel modo. E lei pure, è innamorata di te. Altrimenti adesso non sarebbe

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là che piange, da sola, in camera. Se proprio devi arrabbiarti con qualcuno, prenditela con Martin! E’ lui il colpevole di tutta questa odiosa faccenda! E’ lui che come una serpe ha avvicinato Giulia senza che lei se ne rendesse conto!”.

“Taglia con tutti e due, Roberto. Con Giulia e con Martin. O lei ti tradirà per davvero”. La voce più robusta aveva scacciato nuovamente quella debole.

Intanto era arrivato al bar. Si chiamava “L’attimo di follia”: gli venne in mente, oltrepassando la soglia, che prima, durante il burrascoso litigio con Giulia, potesse essere stato colto da un raptus di pura follia. Scosse la testa per riaversi da tutto quell’incubo che attanagliava ogni centimetro quadro del suo corpo. Tremava a scatti, gli era comparso un doloroso mal di testa che non accennava ad andarsene. Capì che, con tutta probabilità, gli si era fermata la digestione. Di fatti, poco dopo, spuntò anche un fastidioso mal di stomaco. Persino con le mani non riusciva a stare fermo, perché gesticolava di continuo. “Non controllo nemmeno una parte del mio corpo, accidenti!” pensò. “Tutta colpa di quell’imbecille di Fischer… se lo trovo lo tolgo dalla faccia della terra! Non faccio altro che un piacere all’umanità!”.

Con simili pensieri si avvicinò al bancone, per ordinare da bere. Lo stomaco gli bruciava forte, il dolore era aumentato. Disse al barista che voleva un amaro digestivo, possibilmente alle erbe. L’uomo dietro al banco, uno spilungone alto, tarchiato e che aveva dei modi di fare sbrigativi, gli chiese se un Unicum poteva andargli bene. Roberto scosse affermativamente la testa, soprapensiero. Gli chiese poi di portarglielo al tavolo. Dopo che il barista grugnì come conferma, Roberto si diresse mollemente verso il primo tavolo libero, dotato di postazione telematica incorporata. Da quando era diventato d’uso comune per ogni bar dotarsi di tavoli con annessi gli schermi telematici per l’uso del computer, della rete informatica e dei giochi, a Roberto piaceva molto venire al bar. Ci stava anche per un’ora intera. Naturalmente la regola era che, dopo la prima mezz’ora gratis (il cui prezzo ricadeva in realtà nella consumazione), ciascuno avrebbe dovuto pagare il servizio offerto dalla postazione telematica. E dal momento che non si trattava di una cifra irrisoria, ciò era

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sufficiente a tenere a freno la smania dei clienti di restare collegati al video per ore.

Si sedette svogliatamente e allungò la mano sul tasto apposito per collegarsi alla schermata iniziale del video. Gli apparve la solita pubblicità, insieme alle varie opzioni possibili da scegliere. Poteva accedere alle funzioni del computer, oppure inviare o scaricare mail, navigare nella rete, sprofondare nei giochi telematici a tre dimensioni, farsi una chiacchierata con chi volesse, e altre possibilità del genere.

Roberto era indeciso. Voleva distrarsi, perché la testa era sempre sintonizzata su Giulia e Martin insieme. Pensò di mandare una mail a Claudio, il suo amico più caro, insultandolo – però – per averlo mandato a cercare lavoro in mezzo a gente da cui era meglio stare alla larga, sotto ogni aspetto. Si accinse quindi a cliccare sull’opzione mail, ma sbagliò rigo. Imprecò di nuovo, perché invece era finito dentro la rete. Avrebbe potuto navigare, ma non era certo che fosse la cosa giusta. Fu attratto però dalle varie opzioni in cui poteva calarsi per navigare nella rete: c’erano tantissime strade. Pagine gialle per la ricerca di servizi, Pagine Bianche per la ricerca delle imprese, Pagine Rosse per sciogliere dubbi e ricevere consigli utili; e poi ancora: Pagine marroni: tutto quello che c’è da sapere nelle ultime ventiquattro ore, con la sotto-opzione in Italia e all’Estero. Lesse anche che poteva scegliere tra: Pagine rosa: sfoglia i più recenti pettegolezzi, e Pagine grigie: tutto lo sport minuto per minuto. Ma scartò quelle due possibilità perché non era interessato né a l’una, né all’altra. Infine notò: Pagine nere: la cronaca aggiornata all’ultima ora, Pagine blu: le previsioni meteorologiche, Pagine Viola: gli ultimi necrologi dei personaggi famosi, e infine Pagine Verdi: tutta la musica che vuoi ascoltare. Chissà per quale motivo – non se lo sapeva spiegare nemmeno lui – mentre leggeva le varie strade percorribili, gli venne voglia di sapere qualcosa di più sulla situazione politica attuale. Al radiogiornale delle venti lo speaker aveva annunciato, con voce concitata, che nel governo era in atto una fittissima discussione per decidere le linee guida da mantenere nella situazione caotica del momento, con lo scandalo dei parlamentari indagati. Il governo era in piena

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bufera, ma tant’è che doveva cercare di non venire sepolto dalle mozioni di sfiducia che partivano come cannonate dall’opposizione.

Ciccò su Pagine marroni, e aspettò qualche secondo. La nuova schermata era suddivisa in tanti riquadri. Poteva scegliere tra le notizie delle varie testate giornalistiche nazionali, tra le reti televisive telematiche, tra il telegiornale multimediale, tra le posizioni dei singoli partiti e altro ancora. Scelse i giornali: forse inconsciamente era rimasto colpito dal fatto che nell’eventuale equipe di ricerca di Righetti ci fossero due giornalisti della più importante testata italiana. Gli si snocciolarono una serie infinita di titoli di quotidiani, su un lato quelli che possedevano l’edizione anche cartacea, sull’altro solo quelli telematici. Lesse senza passione i vari titoli, facendoli scorrere uno dopo l’altro, tutti noiosamente simili. Poi si fermò. C’era un titolo nuovo tra i giornali telematici che lo incuriosiva, destando il suo interesse: “L’eco americano”. Ci cliccò sopra e poi lesse tutto d’un fiato:

“Potrebbe una tromba d’aria spazzare via il governo italiano? E’ quello che si augura in questo momento il portavoce del principale partito italiano dell’opposizione. Ecco quello che il vostro fedele reporter sente pronunciare alle 20.45 di questa sera: “Ci vorrebbe altro che una tromba d’aria per ripulire il Parlamento da quei vermi viscidi del governo che hanno fatto combutta con le frange eversive del paese!”. Io gli domando: “Intende le Stelle Spezzate, Onorevole?”. A pronunciare quel nome il portavoce dell’opposizione quasi sviene. Io lo raccolgo subito e cerco di rianimarlo: “Onorevole, mi perdoni, e cosa mi sa dire dei vermi viscidi trovati dalla vostra parte? Farete venire appositamente un uragano anche per loro?”. Il portavoce mi regala lo sguardo più gelido che gli riesce, e poi mi dice: “Quelli non sono vermi. Sono poveri ingenui caduti nel tranello di quell’ odioso gruppo eversivo. A quelli ci pensiamo noi. Andranno un anno intero in una comunità di recupero per parlamentari che hanno perso di vista il perseguimento degli obiettivi del loro partito.

L’Onorevole si congeda con una certa fretta e mi lascia impensierito. Sono davanti a Montecitorio e osservo

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l’andirivieni impazzito degli altri onorevoli: altro che lo scatenarsi di una tempesta tropicale! Qui sembra che tutte le forze della natura si stiano dando convegno: gelo artico nei partiti del governo, preoccupatissimi di vedere andare in fumo tutta la paziente tela di leggi e leggine che hanno intessuto finora, mentre onde alte dieci metri soffiano dall’opposizione e si riversano sul malcapitato governo per seppellirlo definitivamente. Qualche raggio di luce spunta dall’opera instancabile dell’unico partito esente da questo scandalo, Fondazione Risorse Nuove. Si erge alto e possente come un faro nella tempesta, il porto assolato per il naufrago quasi senza vita, l’unica ancora di salvezza in un mare di partiti corrotti e abominevoli. Che sia vero quanto appare?

Il vostro inviato americano non ne è del tutto sicuro. Da queste pagine on-line lancio un appello e me ne prendo pure la responsabilità: chi sa parli. Ho delle informazioni private, che divulgherò in stretto giro di posta, a proposito della Fondazione. E a me risulta che anche l’inossidabile, l’ indefettibile, l’ innocentissima Fondazione ha i suoi scheletri nell’armadio. So quello che dico. Soprattutto ho fatti concreti che lo dimostrano. Ripeto: chi sa parli. Io ho i miei nomi, ma per ora voglio tenerli ancora protetti da eventuali ritorsioni che si potrebbero scatenare su di loro, se questi facessero una esplicita intervista al sottoscritto. Perciò lo ripeto ancora una volta: finiamola con un’omertà perfettamente in malafede. La verità venga allo scoperto, o l’Italia precipiterà nel buio”.

Firmato: Benjamin Tolosa. Roberto rimase di sasso al resoconto di Benjamin. Si

domandò perché uno come Benjamin, che aveva conosciuto di persona la sera prima, scrivesse su un giornale telematico e non sul solito quotidiano per il quale aveva detto di lavorare, quando si erano trovati a casa di Righetti.

C’era un altro articolo di Benjamin. Forse lì avrebbe trovato la risposta. Lo scelse, e aspettò i soliti cinque secondi perché il video visualizzasse l’articolo. Roberto fu ancora più elettrizzato che dall’articolo precedente:

“Mi chiamo Benjamin Tolosa. Sono nato a New York. Mio padre è spagnolo, mia madre americana. Sono venuto per lavoro qui in Italia cinque anni fa. Oggi lascio definitivamente

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il mio precedente impiego presso il maggior quotidiano nazionale, perché sono al corrente di fatti terribili, che riguardano anche il mio ex-giornale. Sono un libero cittadino. Non voglio diventare suddito di uomini malvagi e corrotti che vogliono manovrare di nascosto il mio – adesso – ed il vostro paese.

Perciò ho deciso di fondare questo nuovo giornale telematico: “L’eco americano”. Spero, col vostro aiuto di lettori, che prediligendolo ogni giorno alle altre testate telematiche, e spargendone la voce ed il gradimento ai vostri amici e conoscenti, questo giornale s’ingrandisca sempre di più, fino a diventare la voce libera e responsabile dell’Italia. Sono americano, ma sono anche italiano. Ora. Concludo con un augurio sincero: Buona Fortuna, Italia!”. Firmato sempre: Benjamin Tolosa. E poi era allegata la sua personale mail per mandare o ricevere qualsiasi commento politico, domanda, informazione.

Roberto era strabiliato. Ripensò a quanto Fischer aveva raccontato la sera precedente, al disegno eversivo delle Stelle Spezzate, e collegò immediatamente quanto aveva sentito con quello che Benjamin aveva appena scritto.

Cliccò sulla mail di Benjamin, e gli scrisse: “Sono Roberto Sperati. Ho appena letto i tuoi articoli tratti dall’Eco americano. Sono molto impressionato. Cosa vuoi dire, esattamente? C’entra quello che ci ha raccontato Fischer ieri sera? E come hai fatto a mettere in piedi dall’oggi al domani un giornale telematico? Non è complicato? Scusa tutto questo incalzare di domande, ma sono davvero molto confuso per tutto quanto sta succedendo in Italia, oltrechè nel gruppo che tu sai. Insomma, so che capisci sicuramente a cosa alludo. Tienimi al corrente dello svolgimento dei fatti, se ci sono novità significative”.

Con grande stupore di Roberto, Benjamin evidentemente era collegato col suo computer alla rete telematica, perché gli rispose nel giro di pochi minuti.

“Ciao, Roberto. Sono molto felice di scriverti. Potermi mettere in comunicazione con te è per me un fatto importantissimo. Stavo lavorando da casa al mio nuovo

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giornale telematico che hai avuto modo di conoscere proprio ora.

Stavo raccogliendo della pubblicità on-line, perché è l’unico modo di tenere aperto in rete il mio giornale (oltre che pagando la salata tassa di iscrizione mensile al provider che gestisce il servizio della pubblicazione di questi quotidiani). Naturalmente non ti nascondo che, se non mi chiamavo Tolosa, quelli del provider non mi avrebbero mai dato il permesso di aprire la mia pagina di informazione quotidiana. In effetti già altre volte prima d’ ora avevo provato a prendere contatti con diversi provider per aprire un giornale tutto mio. Adesso ho firmato un contratto secondo cui più visitatori cliccano la mia pagina d’informazione ogni giorno, più il mio lavoro diventa stabile, sicuro e remunerativo: con la prospettiva abbastanza certa di avere un vero futuro in rete. Altrimenti dovrò chiudere “ baracca e burattini”, come dite voi.

Quello che sta succedendo nel nostro paese è grave. Martin ne sa più di quanto ci ha raccontato ieri sera. Bisogna che, accettando di lavorare con Edoardo, Martin si senta a suo agio per parlare più a lungo con noi di quello che sa… Devi renderti conto che siamo davvero fortunati ad aver conosciuto uno come Martin. E’ senza dubbio un uomo di grandissimo valore. E’ riuscito a venire fuori dalle Stelle Spezzate. Solo per questo bisognerebbe conferirgli la medaglia d’oro. Ci ha riferito a che punto è il disegno nascosto eversivo nel nostro paese; ma l’ha fatto fin dove è riuscito ad arrivare, senza paura di venir fatto fuori… Evidentemente ci ha raccontato solo quanto poteva. Ma c’è dell’altro che non ci ha detto. Ma che si intuisce. Perciò dobbiamo convincerlo, standogli vicino in questo nuovo importantissimo progetto di lavoro, a rivelarci ciò che sa in più. Sicuramente potremmo fermare la miccia già innescata della bomba che rappresentano le Stelle Spezzate. Potremo riportare fiducia in un paese martoriato dalla paura e dagli odi velenosi tra i vari partiti. Potremo rivitalizzare il mercato, ridare spinta alla ripresa economica. Adesso le cose vanno sempre peggio, a livello di salari, voglio dire. Lo vedi anche tu che il potere d’acquisto dei salari è sempre più basso, e i

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prezzi invece schizzano in alto come stelle. Fra un po’ ci toccherà mangiare il riso cinese e la pizza sudamericana, anziché i prodotti nostrani. Rispondimi in fretta. Grazie. Benj. ”.

Ecco, ora aveva capito. Benjamin aveva abbandonato il suo ex-giornale perché – a suo dire – era manovrato dalle Stelle Spezzate. E pareva anche che Martin fosse l’unico in grado di contrastarle. A Roberto non piacque che Benjamin parlasse così bene di Fischer. Anzi, gli dava sullo stomaco. Adesso erano in due che stravedevano per lui. Pensò che, se non altro, almeno Edoardo si era dimostrato poco condiscendente verso Fischer.

Invece fu colpito dalla descrizione della situazione politica fatta dall’americano. Si rammentò che Fischer aveva detto che loro erano la punta di diamante che era stata scelta per combattere le Stelle Spezzate. Possibile? In fondo, chi erano loro per ricoprire un ruolo così strategico ed essenziale per il paese intero? Non si capacitava di come potesse essere vero tutto quello che aveva udito la sera precedente da Righetti. Però gli vennero in mente le parole di Benjamin: proprio perché loro costituivano un gruppo anomalo, forse avrebbero avuto delle chance di vittoria. Non formavano la solita equipe di cervelloni tutto sapere e burocrazia, che si sarebbero arenati al primo contrasto serio di vedute.

Qualcosa dentro di lui gli diceva che doveva fidarsi della capacità di guida di Edoardo e del progetto del Vaticano. Provava una specie di urgenza nei riguardi dell’intera faccenda. Sentì in quel momento di avere una responsabilità morale, a nome di tutto il popolo italiano. Sentì che doveva prendere parte al progetto. Sentì, a malincuore, che Giulia aveva ragione. Ci si sarebbero dedicati durante le vacanze.

Sospirò profondamente. Ora che la sua mente si era dischiusa alla visione della verità, e che il suo cuore gli diceva che era giusto così, non scorgeva altra via d’uscita che quella. Non poteva tirarsi indietro. Però qualcosa morì dentro di lui, quella sera, mentre prendeva quella decisione. Capì che non sarebbe più riuscito a guardare Benjamin e Giulia nello stesso modo in cui li guardava prima. Dentro di lui era come se loro fossero già passati dalla parte del nemico.

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Si alzò lentamente, lasciando lo schermo del computer acceso sulla pagina web che aveva appena letto. Non si degnò nemmeno di rispondere a Benjamin.

Venne il gestore del bar, l’uomo tarchiato che stava dietro al banco delle ordinazioni, a spegnere lo schermo del computer da tavolo.

Pagata la consumazione, Roberto uscì nell’aria fredda della sera. Il mal di stomaco gli si era attenuato, ma la testa continuava a pulsargli fortemente. S’incamminò triste verso casa. Non era ancora in grado di prevedere se avrebbe chiesto scusa a Giulia. Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a parlarle, l’indomani. Provava ancora troppa rabbia, per lei e per Martin.

Anche se col passare della serata si era convinto che la colpa di quanto successo fosse più di Fischer che di Giulia, ormai si era incrinata la fiducia nella sua ragazza. L’unica cosa di cui era certo era che avrebbe dormito sul divano.

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XXII

La redazione del giornale era in piena e frenetica attività alle 22.30 di quel lunghissimo lunedì. Grazia era ancora seduta alla scrivania del suo ufficio, quasi nella stessa posa di quando Benjamin le aveva telefonato quel giorno. Si era alzata pochissime volte: per lei il tempo era come fosse diventato un inferno. Un lungo, vuoto, disperato fluire di minuti senza senso. I fatti le scorrevano accanto, uno dopo l’altro, ma li vedeva come se facessero parte di un fiume lontanto, che procedeva lento ed ingombrante, e di cui soprattutto non conosceva la mèta. E tra lei ed il fiume, a peggiorare la situazione, stava una zona melmosa, un acquitrino pregno di insetti molesti e odori malsani in cui si sentiva in trappola.

Aveva paura. Pensava al suo destino al giornale. A Benjamin. E si sentiva sopraffatta dagli eventi. Era come se questi le sfuggissero al controllo e lei non riuscisse a staccarsi da quella maledetta palude in cui era già immersa con tutti e due i piedi: il fiume restava sempre troppo lontano dalla sua portata, per raggiungerlo con la sola forza delle sue gambe.

Non afferrava più gli eventi. Il venerdì precedente, quando aveva proposto a Benjamin il

viaggio a Roma, si sentiva forte, sicura di sé, risoluta. Addirittura con una punta di scaltrezza, non priva di malizia femminile, aveva invitato il suo collega a Roma; lei sperava che ciò servisse ad aumentare la confidenza tra di loro, lo desiderava con tutte le sue forze.

Invece quegli stessi eventi le si erano rivoltati contro: per un motivo inspiegabile avevano assunto una loro piega; e ora la situazione pareva precipitare sempre più. Si chiese quale fosse la ragione di così tanta confusione. Forse l’ebbrezza del nuovo incarico le aveva giocato un brutto tiro, quell’incarico a cui stava aggrappata con tutta sé stessa; nonostante la responsabilità che gravava ora su di lei, però, non era riuscita a rimanere fredda e distaccata nella conduzione del giornale come avrebbe voluto.

E non voleva perdere Benjamin. Cosa fare? Accettare o meno un’eventuale nomina che la riconfermasse alla direzione? Oppure tenere la sua pagina di politica interna?

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Quali condizioni porre, e quali garanzie chiedere? Che peso dare ai discorsi di Benjamin? Aveva fatto qualche tentativo di sondare la fondatezza delle parole dell’amico con qualche telefonata ai suoi informatori, ma non ci aveva cavato un ragno dal buco: tutti cadevano dalle nuvole. Così più cercava di realizzare qualcosa, più brancolava nel buio.

Un leggero picchiettare alla porta la riportò alla realtà dei fatti. Grazia avrebbe potuto rispondere semplicemente “Avanti!” rimanendo seduta dietro la scrivania, ma dando sfogo alla tensione crescente, si alzò ed andò ad aprire. Davanti a sé trovò un distinto vecchietto in Loden e cappello a falde. Dal Loden sbottonato pendeva una sciarpa bianca e sotto s’intravedeva un completo color sabbia e una cravatta a righe. Le scarpe marroni erano tirate a lucido. Grazia l’aveva visto poche volte, ma lo riconobbe subito. Era uno dei più anziani azionisti del giornale.

“Buonasera, dottor Verri” disse Grazia porgendogli la mano.

“Buonasera a lei, dottoressa” le rispose compito l’ospite, stringendole saldamente la mano.

“Bastava una vostra telefonata” proseguì Grazia che si trovava impreparata dinanzi ad un simile inaspettata circostanza “voglio dire, bastava una telefonata per dirmi cosa avete deciso. Non serviva che lei si scomodasse a venire fino qui, così, adesso, di notte…” farfugliava. Era imbarazzata.

“Oh, sciocchezze, dottoressa. Venire qui da lei è un vero piacere. Sono io che devo chiederle di sopportare un vecchio barbagianni come me. Mi è solo un tantino brigoso muovermi per via dell’artrite, che non mi dà pace, ma ho qui il mio fedele compagno su cui contare” e alzò il bastone dando qualche colpetto al pavimento, come per ribadire quello che aveva appena detto.

Grazia indicò la comoda sedia imbottita accanto alla scrivania, e aiutò il Verri a sedervisi. “Anche se sono un vecchio ultra ottantenne zoppicante” continuò l’azionista del giornale “posso sempre muovermi per venire a fare una visita importante”.

“Allora, mi dica tutto; l’ascolto” attaccò Grazia decisa. E tornò a sedersi dietro la scrivania.

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“Bene, dottoressa, ha capito subito che non mi piace parlare a vanvera, facendo giri vuoti di parole. Mi creda, sono davvero lusingato di essere venuto io, di persona, qui, a parlarle questa sera. Naturalmente a nome di tutto il Consiglio di amministrazione” esordì compito il vecchio.

“Sì, certo. La ringrazio” rispose Grazia. “Per cominciare, siamo tutti convinti della professionalità

del suo operato e della responsabilità con cui ha condotto il giornale in questi tre giorni. Sono pochi, sicuramente; ma per la difficile situazione creatasi a seguito dello scandalo, so che sono stati giorni difficili da gestire. Non posso che ribadire che a lei va tutta la nostra stima per come ha guidato le cose finora. Sono tempi duri questi, signorina, mi creda”. Grazia si limitava ad annuire col capo, mostrando la massima attenzione.

“Lo sa che le vendite non sono affatto calate, anche se siamo stati investiti da tutte queste calamità?” Il tono del vecchio si era fatto più acceso, i tratti del volto brillanti. Evidentemente, però, non considerava che Grazia potesse intervenire col fare domande, perché continuò indisturbato: “Anzi, proprio oggi abbiamo registrato il picco di consensi, battendo per copie vendute il nostro diretto concorrente. Lei sa a quale giornale mi riferisco”. Grazia ebbe solo il tempo di annuire col capo, dal momento che l’altro non accennava minimamente a lasciarle spazio. Cominciava ad impazientirsi.

“Questo ci ha fatto riflettere: vuol dire che la nomina in ballo è attesa non solo da voi, dall’intera redazione voglio dire, ma anche dagli italiani. Da tutti gli italiani. Quindi non bisogna deluderli. Ma c’è un’altra questione importante che si è posta con urgenza davanti a noi: sappiamo che la gente aspetta il nome del nuovo direttore più per curiosità, che perché s’intenda realmente di come vanno le cose in questo mestiere. La gente ha semplicemente voglia del cambiamento come un fattore rigenerante dopo tutti questi scandali, noi dobbiamo tenerne conto. Quindi, crediamo che il nome da proporre debba riuscire a destare consensi tra la gente, debba infondere ottimismo, fiducia, voglia di ricominciare. Purtroppo so bene che la gente non si immagina certo tutta la fatica che c’è dietro il lavoro di giornalista: la ricerca delle

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informazioni, le fonti da vagliare e valutare, i pezzi da scrivere, la linea politica – a volte tocca – da seguire… Non voglio dilungarmi con lei su queste cose. Le sa meglio di me. Dunque: noi abbiamo cercato un nome che raccogliesse preferibilmente il massimo accordo possibile tra la gente e sa, abbiamo fatto segretamente dei sondaggi: è la cosa di cui vado più orgoglioso. Dopo le farò vedere, se vuole” mentre parlava il Verri sprizzava una freschezza e una vivacità che stupirono Grazia “quindi il nome, dicevamo… Capisco che sarà ansiosa di sapere, ma la prego di avere ancora qualche minuto di pazienza. Dunque, occorreva che il nome che cercavamo fosse gradito al pubblico di lettori, ma che allo stesso tempo mostrasse anche delle garanzie e delle credenziali per salvaguardare l’integrità, l’onestà, la laboriosità del mestiere di giornalista, e del ruolo che sarebbe andato a ricoprire. Ecco, le faccio vedere i sondaggi”. E tirò fuori dalla tasca interna del cappotto un foglio piegato in quattro. Lo distese meticolosamente sul tavolo affinché lei potesse leggerlo con chiarezza.

“Come può vedere lei stessa dai grafici, ogni giorno abbiamo commissionato all’agenzia incaricata dell’appalto l’incarico di rilevare l’andamento delle vendite del giornale, con in più l’accordo di sottoporre ai lettori e alla gente comune un elenco di possibili direttori “papabili” e valutare così i loro giudizi. Per una maggiore correttezza abbiamo consultato sia la gente comune, sia una cospicua rappresentanza di parlamentari, di tutti gli schieramenti. E ogni giorno cambiavamo persone, così da avere il più vasto raggio di opinioni. I nomi più gettonati, per così dire, sono il suo stimatissimo collega Brentani (Grazia si ricordò immediatamente di quando il venerdì mattina precedente lui avesse preso in giro lei e Benjamin)” intanto con l’indice della mano destra faceva scorrere i grafici “e l’amministratore delegato della TV di stato, che potrebbe anch’egli ricoprire tranquillamente l’incarico in questione, proposta che viene sia dal governo sia dall’opposizione”.

Mentre il vecchio parlava, Grazia si sentì mancare la terra sotto i piedi. Il suo nome non era scritto da nessuna parte. Non era nemmeno stato contemplato tra i “papabili”. Si sforzò di

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rimanere calma e di continuare ad ascoltare, controllando in modo ferreo il suo stato d’animo esacerbato. Anche se, potendolo, avrebbe benissimo appallottolato i grafici e gettati nel cestino della carta straccia.

“Come lei stessa noterà, man mano che sono trascorsi i giorni, tra i papabili sono aumentate in percentuale significativa le “quotazioni” del suo collega tra la gente, e dell’amministratore delegato tra i parlamentari. La scelta, a questo punto, si poneva necessariamente tra questi due. Ora, veniamo a stasera, quando il Consiglio di amministrazione si è riunito, certo lei vorrà sapere…” il vecchio la guardò “cosa abbiamo deciso”. Pausa. I suoi occhi erano astuti e scintillanti come quelli di una vecchia volpe. Grazia si preparò al colpo.

“Vogliamo dar prova di una lungimiranza di vedute, così abbiamo deciso di affidare la nomina vacante al più giovane dei due concorrenti. Ci auguriamo che egli sappia realizzare e condurre a buon fine uno scrupoloso progetto di lavoro, sappia mettere insieme una squadra affiatata, sappia prevedere certe linee di tendenza che potrebbero emergere proprio ora, con questa situazione confusa nel nostro paese e che va certamente districata…”. Il vecchio parlava e nello stesso tempo teneva Grazia sotto controllo, come un predatore tiene stretta la preda che ha appena cacciato. “Quindi sono onorato di dirle che il nuovo direttore del giornale è il signor Brentani. Devo solo aggiungere che abbiamo già provveduto ad informarlo di persona”.

Grazia diventò impassibile. “Mi risulta che in questo momento non sia qui” rispose

asciutta. “Sì, in effetti l’abbiamo rintracciato a casa. Naturalmente

ha accettato. Devo dire che siamo tutti estremamente soddisfatti. È d’accordo anche lei?” i suoi occhi scintillarono di nuovo.

“D’accordissimo” mentì. “C’è qualcos’altro che volete dirmi?” proseguì Grazia

facendosi animo. “In fondo lei è venuto fin qui di persona solo per dirmi che devo farmi da parte. Per questo non c’è nessunissimo problema. Ma non bastava una semplice

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telefonata per sollevarmi dall’incarico? L’avrei accettata altrettanto volentieri quanto la sua visita”.

“Lei mostra un’acuta intelligenza, dottoressa, frequentare certi ambienti le ha giovato, direi”. Il vecchio assunse un’espressione enigmatica.

“Quali ambienti, mi scusi?”. Grazia era nervosa. “Ma quelli del suo vecchio direttore, signorina”. “Non capisco”. Si allarmò. “Lei forse tralascia il fatto che è stato proprio lui, il suo

vecchio direttore, a nominarla direttrice; e con che tempismo, poi! Ci ha letteralmente scalzati di mano. Si era già dimesso prima di essere arrestato, avendo annusato la brutta aria che tirava intorno al lui. E prima che il Consiglio di Amministrazione prendesse in mano la situazione, ha fatto pervenire al Consiglio di Redazione una nota in cui auspicava vivamente che fosse lei a prendere il suo posto. Che bel giochetto, non trova?”.

“È stata una nomina temporanea, soltanto finché non foste intervenuti voi” si difese Grazia. “È stato per non lasciare il giornale nel caos. Perché potesse uscire lo stesso tutte le mattine in edicola. Altrimenti c’era il rischio reale che il giornale non andasse più in stampa: senza un direttore che organizzasse e gestisse il lavoro da fare. E poi lo prevede anche lo statuto del nostro giornale. È un evento rarissimo, ma è previsto, e noi giornalisti abbiamo firmato lo statuto al momento della nostra assunzione”. Questa volta era il Verri che non parlava, e dunque Grazia continuò: “Io ero presente. Guardi che si sbaglia. La mia nomina è emersa insieme ad altre 2 o 3 candidature, e il Consiglio ha valutato la più opportuna. Tutto è accaduto alla luce del sole”.

“Mi permetta di farle notare che so anch’io come sono andate le cose”.

“Lei non era presente” lo incalzò Grazia. “Ma ho chi mi può confermare, e parlo di più di una

persona, che l’ex-direttore pur senza essere presente ha ordito dietro le quinte affinchè il Consiglio votasse come voleva lui”.

“Aveva stima di me, sì, questo non lo nego. Tutt’oggi non riesco a capacitarmi di come potesse essere coinvolto nello

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scandalo. Comunque, non ho nulla a che fare con lui e con gli ambienti pericolosi che può aver frequentato”.

“Oh via, sappiamo tutti che tra voi due c’era qualcosa” e un sorriso malizioso affiorò sul volto.

Grazia era sconvolta. Sia arrabbiò furiosamente. “Ma non è vero!” urlò. “Io c’ero, quel pomeriggio: i colleghi hanno espresso la loro personale convinzione che avevo le carte in regola per meritarmi il posto. Mi hanno elogiato, pur riservando parole di riguardo anche per gli altri. Persino Brentani era ben disposto nei miei riguardi. Poi il Consiglio ha votato, in piena libertà. Lo scritto di cui lei parla io non l’ho mai visto girare”. Le mani e il volto le sudavano. La sensazione di pericolo la sovrastava, imminente come una condanna a morte. Fece una pausa, respirò e disse in tono pacato: “Lei mi sta calunniando. O forse devo dire voi…”.

“Guardi che ho io il coltello dalla parte del manico. So bene come sono andate le cose. Lei ora è troppo emozionata e concitata: non può ricordarsi tutto per filo e per segno. Deve capire, lei tralascia qualcosa…”.

Grazia di scatto si bloccò; “Lei tralascia qualcosa…” le ronzava in mente. Alla fine le parole le echeggiarono come la molla di una serratura a scatto, che si apre all’improvviso una volta infilata la chiave giusta. Quel pomeriggio lei si era assentata cinque minuti per andare a cercare Benjamin, quando aveva poi scoperto che aveva già lasciato la redazione. Cosa era accaduto in quei cinque minuti? I suoi colleghi avevano litigato tra loro? L’avevano calunniata? Era apparsa volutamente, estratta ad arte da qualcuno, la fatidica carta vergata proprio dalla mano del direttore? Al suo rientro si ricordava che avevano discusso tutti insieme un altro po’, apparentemente senza concludere niente. Infine proprio Brentani (che ora avrebbe dovuto prendere il suo posto) con una cortesia che non era da lui – Grazia lo sapeva bene – propose che tutti votassero lei per l’incarico, affidandoglielo temporaneamente. Le era parso uno dei momenti più belli di tutta la sua vita. Quanto le sembrava distante, ora!

Grazia s’irrigidì e chiese a denti stretti: “Cosa è successo mentre io ero fuori?”.

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“Oh, brava, dottoressa. La sua memoria comincia a tornare”. Il sorriso beffardo sempre più grande.

“La smetta di prendermi in giro!”. “Mi spiace, ma sono terribilmente serio”. “Allora, cosa è stato detto?”. “Me lo dica lei”. “Non lo so. Non riesco ad immaginarmelo”. “Allora verrò in suo aiuto: Brentani ha mostrato la lettera

scritta di pugno dal vostro ex-direttore in cui lui esortava i giornalisti a esprimere per lei la loro preferenza”.

“Ecco il Giuda!” pensò Grazia in quel momento. “Non è vera una sola parola di quello che dice. Lei sa che sono tutte balle!” si sfogò. Tremava di rabbia.

“Suvvia dottoressa, si calmi, la prego. Non sono qui per farle la morale. Non m’interessa sapere se l’ex-direttore ha scelto lei perché credeva nella sua bravura o solo perchè voi due avevate una storia… e comunque non sarò certo io a ficcare il naso nei vostri affari privati…”.

“Ma non esiste nulla! Niente di niente! Come faccio a farglielo capire?! I miei colleghi non mi hanno accennato minimamente a quello che lei mi ha detto” si difese con tutto il coraggio che possedeva in corpo.

“Non ne avevano il tempo e così hanno tagliato corto. E poi dovevano anche essere esterrefatti di quanto stava succedendo”. Il vecchio pareva prenderci gusto nell’affondare glia artigli sempre più a fondo. Grazia si sentiva ormai senza scampo.

“E poi che senso avrebbe avuto offrire a me l’incarico solo perché l’aveva chiesto il nostro ex-direttore? Non gli abbiamo certo giurato fedeltà assoluta, tanto meno in sua assenza… e per un motivo così assurdo, meschino…” ragionò.

“Ho parlato con Brentani: mi ha rivelato che avevano paura di ritorsioni da parte delle Stelle Spezzate, così lui e i colleghi hanno pensato, sul momento, di accettare la proposta così come era stato chiesto loro. Una nomina temporanea: un’ottima idea! Salvo poi passare la patata bollente al Consiglio di Amministrazione appena possibile, tempo qualche giorno. Una splendida mossa, direi. Mi sono complimentato con lui” spiegò orgoglioso.

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“È cinque anni che lavoro correttamente e onestamente! Qui tutti lo possono confermare”.

“Mi permetta, scusi. In cinque anni lei ha fatto una ascesa rapidissima, che fa davvero pensare… dubitare, le va meglio il termine?”.

“Voi volete mettermi fuori gioco!”. “Dottoressa, lei è perspicace. Comunque non c’è nessuna

volontà da parte nostra di essere crudeli, purtroppo è solo il triste gioco delle parti”.

“Non avete prove. Secondo me quella lettera è una pagliacciata bella e buona. Solo che sono io ad andarci di mezzo”.

“Oh, finiamola qui, per piacere. Abbiamo le testimonianze dei suoi colleghi. Parli con loro, se vuole. Ora, la prego, raccolga le sue cose e lasci libero l’ufficio. Spero per lei che il suo nome non venga fuori in tutta questa brutta faccenda. Da parte nostra, le assicuro che non apriremo bocca. In fondo, come vede, le vogliamo bene, vogliamo proteggerla”.

Si alzò, senza porgerle la mano. “Sono certo che non avrà difficoltà a trovare un nuovo giornale per cui scrivere. Lei ha tutta la mia stima. Tantissimi auguri”. Le sorrise, poi si girò e uscì dalla stanza. A Grazia parve che il Verri fosse trionfante come stesse raccogliendo gli applausi da un palcoscenico.

Guardò l’orologio da polso: mezzanotte passata. Per qualche istante sentì il toc-toc del bastone che

accompagnava i passi del vecchio. Poi più niente. “Mi hanno licenziata” ripetè a sé stessa sottovoce. E

sprofondò annichilita nella poltrona. Indugiò col pensiero su quelle tre parole, come per farsele bene entrare in testa. Dentro si sentiva vuota, spenta, delusa.

Sia alzò lentamente, cominciò a raccogliere le sue cose. La mente era rimasta lucida, ma si comportava come un automa: non sentiva più battere il cuore. Ci mise cinque minuti ad accatastare alla rinfusa tutta la sua roba sul tavolo. Attorno non toccò nulla, lasciò il disordine consueto. Spense il computer della scrivania. Ficcò tutto nella sua borsa, infilò sciarpa e cappotto, si mise a tracolla il suo computer portatile e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle tutto quello che finora era stato il suo mondo.

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XXIII Gettò maldestramente la borsa in macchina, si sedette alla

guida sbattendo rumorosamente le porta dell’automobile. Ogni minuto che passava, cominciava a montarle la rabbia. Le sembrava che un destino crudele giocasse ai dadi con lei, vincendo solo per prenderla in giro; uno scherzo amarissimo. Le vennero improvvisamente in mente i ricordi della sua infanzia: quando i suoi compagni di giochi si spassavano un mondo a tagliare la coda alle lucertole. “Tanto poi ricrescerà loro” dicevano a lei scandalizzata per una azione così orribile. O come quando li vedeva andare a caccia di lumache, con l’unico scopo di portarle a casa perché venissero cucinate. Rabbrividì al pensiero delle lumache cucinate nel piatto. Proprio come allora, anche in questo momento non poteva farci niente: era il più forte che calpesta ingiustamente il più debole.

Accese il motore e s’infilò a velocità sostenuta lungo i viali della Milano notturna. Il riquadro fosforescente dell’orologio segnava le 12.20. Non aveva voglia di andare a casa, né tanto meno di dormire. Ma non era nemmeno abituata a girovagare da sola in macchina, a zonzo per le strade semivuote, nel cuore della notte.

Guidò svogliatamente, la testa perfettamente altrove rispetto alla prudenza che solitamente occorre sulla strada. Le si affollavano alla mente i più disparati pensieri, come se la sua testa fosse stata simile ad un mercato pullulante di gente, carico di banchi con ogni genere di mercanzie. Le pareva di passare da un banco all’altro, colpita dalla bellezza di ciascuno, salvo poi accorgersi che, una volta allontanatasi da uno, non si ricordava più cosa contenesse. Altrettanto puntualmente le scivolavano via le più diverse idee, e non riusciva a tenerle fisse davanti a sé per più di una manciata di secondi. Solo un’idea, da quando aveva infilato la chiave nel motore e aveva imboccato la strada, aveva tallonato la sua mente, perseverante come un segugio e al tempo stesso discreta come un gatto sornione che sta accucciato a fare le fusa.

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Dopo 10 minuti, infatti, accostò al marciapiede e parcheggiò al lato della strada. Si era fermata accanto ad un moderno condominio dalle rifiniture signorili, elegante nel suo insieme. Quasi tutte le tapparelle delle finestre erano abbassate. Solo qua e là spuntava ancora qualche luce.

Il bar sotto il condominio, al livello della strada, era ancora aperto. Non ci pensò due volte. Uscì dall’auto, risoluta, ed entrò nel locale. Si accorse subito che all’interno pulsava una discreta vita notturna. “Meno male” pensò “che non sono capitata in uno squallido bar con solo due o tre persone dentro”. Si guardò intorno: il posto le piaceva, era carino. L’arredamento rammentava volutamente i saloon western, con tavoloni lunghi e panche su cui stavano appollaiati gruppi di amici a bere birra, bibite e alcolici. Lungo le pareti scorreva un rivestimento di legno, con appese in cima, a cadenza regolare, delle lanterne dalla luce fioca. Grazia si domandò se dentro vi bruciassero delle candele vere. Qua e là quadri di cavalli, praterie e soldati con i loro reggimenti.

“È molto affollato per essere un lunedì sera” considerò, mentre si dirigeva con qualche sforzo verso il bancone delle ordinazioni. In alcuni punti, infatti, il passaggio tra i tavoli si faceva stretto e dovette farsi largo con qualche spintone delle braccia. Arrivata, notò che qualche sgabello sotto il banco era libero, così ne scelse uno e ci si sedette sopra. Si tolse il cappotto, che appoggiò sulle gambe accavallate, e ordinò un cocktail. Adorava l’Alexander, ma optò per un Desperados. Aveva bisogno di qualcosa di forte, pur senza volersi ubriacare. Lanciò una rapida occhiata indagatrice d’intorno, quasi nessuno l’aveva notata o seguita con lo sguardo. Alla sua destra e alla sua sinistra emergevano dai tavoli gruppetti di amici, coppie di fidanzati o conoscenti occasionali, vere e proprie compagnie di veterani avventori dei locali notturni.

Si tranquillizzò, respirò profondamente e aspettò il suo Desperados, che arrivò di lì a pochi minuti. Voleva rilassarsi, senza il pericolo di fare brutti incontri: non era venuta a rimorchiare e cercò di non darlo assolutamente a pensare. Assunse un contegno serio e dignitoso, come di una che aveva tutto il diritto di gustarsi in santa pace un drink, e che magari

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aspettava visite. In quel momento desiderò tantissimo avere un appuntamento. Invece era sola.

Gustò lentamente il Desperados e tirò fuori dalla borsa il telefonino. Era acceso. Nessuna chiamata ricevuta, nessuna persa; evidentemente proprio nessuno l’aveva cercata. Tanto meno Benjamin. “Sei un’idiota” si disse. “Venire sotto casa sua, sperando che lui capisca, non si sa come, che tu sei qui sotto”. E scrollò il capo. Il brusco movimento della testa le fece cadere il fermaglio con cui teneva avvolti i lunghi, ribelli capelli neri. Se lo tolse rapidamente, lasciando che le ciocche le ricadessero morbide, sciolte lungo la schiena.

Qualche ragazzo dai tavoli accanto cominciò ad adocchiarla. Lei teneva stretto il suo cocktail e tamburellava con le dita sul bicchiere. Soppesava se telefonare o meno a Benjamin, per raccontargli quanto era accaduto quella serata. E per dirgli, eventualmente, che si trovava lì sotto, nel bar. Le pareva che una delle poche finestre da cui proveniva luce nel palazzo potesse essere la sua, almeno a giudicare da come si ricordava la disposizione dei campanelli sul citofono, quando il venerdì precedente era passata a prendere l’amico per partire alla volta di Roma. Aveva lasciato parcheggiata in strada la sua auto (Benjamin le aveva assicurato che il posto era al sicuro da furti d’auto e dai piccoli vandalismi notturni) ed erano partiti con la macchina di lui, più veloce e confortevole.

Nel frattempo non si era accorta che uno dei ragazzi che l’avevano osservata dal tavolo vicino si era alzato, e stava venendo verso di lei. Gli altri ridacchiavano e borbottavano concitatamente fra loro. Il ragazzo le si parò dinanzi e senza tanti giri di parole le chiese:

“È sola, signorina?”. Grazia lo guardò sorpresa, arrossendo in volto. “Accidenti,

proprio quello che temevo e non volevo accadesse” pensò tra sé. Prese tempo sorridendogli. Nel mentre lo squadrò da cima a fondo: sembrava a posto. Era un ragazzo normale, sulla trentina, né bello né brutto.

“Si e no” rispose. “Che risposta è?” le domandò l’altro incuriosito. E accennò

ad una leggera risata. Il giovanotto non sembrava affatto intimidito, anzi, ci prendeva gusto.

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Si sedette sullo sgabello accanto che si era appena liberato. “Posso offrirle qualcosa?”. “Non so se ho ancora tempo di fermarmi. Fra poco vado”.

Si accorse con orrore che le piaceva stare al gioco, tenendolo sulle spine.

“Mi chiamo Giorgio. Sono qui con i miei amici” e fece un cenno con la testa indicando dove stavano seduti loro. E poi a bruciapelo: “Ma perché una bella ragazza come te è sola?”. La guardò per un istante, poi aggiunse: “Scusami, posso darti del tu?”.

“Ho fatto una scommessa. Sto aspettando di vedere se vinco” rispose enigmatica. Poi allungò la mano: “Grazia”, disse, stringendo quella dell’altro.

“Allora, posso offrirti qualcosa nel caso tu vinca?”. “È meglio di no” sorrise divertita. “Perché se vinco, è

perché arriva qui il mio ragazzo” mentì. Ma poi si rabbuiò, pensare a Benjamin la faceva arrabbiare. “Ma forse è meglio se la perdo, così mi offri da bere…”.

“E fra quanto dovrebbe arrivare, lui?”. “Dovrebbe essere già stato qui, in effetti” concluse

laconica. “Vorrei poterti sollevare d’animo, sei diventata triste. È

importante che lui venga? O forse è meglio che tolga il disturbo: magari ti sono d’impiccio…”. Sembrava naturale, rifletté Grazia. Però si disse di stare in guardia, perché per quel poco che aveva conosciuto gli uomini, erano tutti bravissimi a farle credere cose eccezionali, salvo poi scoprire da sola che nella realtà le cose stavano ben diversamente.

“Per la verità un motivo ci sarebbe per brindare…” rispose con calma. “Però accetto solo spumante”.

“E quale sarebbe il motivo?”. “Sono stata licenziata, circa mezz’ora fa. Sono una

giornalista.” Il ragazzo rimase sinceramente colpito. “Certo non te

l’aspettavi, vero, bello mio?” pensò fra sé Grazia. E stette ad aspettare la reazione del giovanotto, la quale non si fece attendere, segno che poi tanto inesperto con le donne non era. Le si avvicinò un poco, quel tanto che bastava, come per

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rispondere con un gesto all’intimità della rivelazione, e le sussurrò dolcemente:

“Allora, vada per lo spumante; brindiamo ad un futuro migliore e più promettente, e magari anche ad incontri più fortunati. Ti va?”.

Grazia gli sorrise. La mano di lui era già terribilmente prossima a quella di lei; Grazia stava già cominciando a pensare che, tutto sommato, forse poteva fidarsi di quel giovanotto. E aveva una voglia matta di prendergli la sua mano robusta, sicura, da uomo, per stringerla. Stringergliela forte, perché dentro si sentiva distrutta. Stava quasi per allungare la sua mano quando sentì sulla sua spalla una stretta di mano decisa, persino troppo brusca, e una voce familiare che diceva al giovanotto: “Spiacente, ragazzo, ma la signorina stasera è già occupata”. Allora il ragazzo guardò Grazia come per ricevere ordini, ma lei tenne la testa bassa, imbarazatissima. Il giovane incassò il colpo, si scusò e filò via di corsa, leggermente dispiaciuto per la sortita finale improvvisa e inaspettata. Al tavolo gli amici ridacchiavano.

Poi Benjamin si parò di fronte a Grazia, scurissimo in volto, e l’apostrofò secco:

“Si può sapere cosa diavolo volevi fare? Ti ho vista, sai, appena sei entrata”.

Grazia rimase turbata al sentire che per tutto il tempo che lei era rimasta nel locale, Benjamin l’aveva osservata. E ora, per giunta, la rimproverava. Senz’altro in cuor suo la stava anche giudicando.

“Pensi male di me?” gli chiese. “Non so cosa pensare. Dimmelo tu”. “Ma tu cosa ci facevi, qui, a quest’ora?”. “La stessa domanda potrei farla io a te. Comunque, sono

sceso a prendere delle lattine di Coca e di birra. Stavo andandomene quando ti ho vista entrare. Mi sono fermato e ti ho guardato. Non è un locale per signore sole, questo. E tu lo sai. Cosa sei venuta a fare qui?”.

Grazia sospirò. “Cercavo te” disse, sollevando la testa e guardandolo. Lo fissò con due occhi tristi come quelli di una cane addolorato. Poi aggiunse con un filo di voce: “Sono stata licenziata, appena adesso”.

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Benjamin rimase di sasso. La sua solita gioia gli scomparve dal volto, su cui si stampò invece un misto di sollecitudine e dolore.

“Mi dispiace, davvero” riuscì a dire. Il suo contegno era serio ed asciutto. Stava sempre ritto in piedi davanti a lei. Rifletteva. “A quanto pare non hanno perso tempo a toglierti di mezzo. Ma a che gioco stanno giocando?”. Pareva più colpito dal brutto torto che Grazia aveva subito, piuttosto che intento a consolare l’amica.

“È curioso. Mi domandi la stessa cosa che loro hanno chiesto a me; o meglio, che il Verri, quell’essere spregevole, mi ha chiesto”. Grazia era affranta e sconsolata, tuttavia non sembrava accorgersi dello spirito da paladino vendicatore dell’amico.

“Ma almeno ti rendi conto che ti hanno a bella posta messo da parte? Non vogliono che lavori per loro perché hanno già fiutato che non sei più dalla loro parte. Secondo me la Fondazione ha la longa manus nel Consiglio di amministrazione…”. Il suo animo esacerbato si scaldava ad ogni parola che pronunciava. Grazia lo guardò confusa.

“Non capisco, Benjamin. Stai dicendo che la Fondazione possa centrare qualcosa in tutto questo? Mi sembra incredibile solo a pensarlo”.

“Ma è così, credimi”. “Benjamin, siamo alle solite: ti dico che ti sbagli. E non

voglio litigare di nuovo con te, per favore”. Grazia stava diventando isterica. Benjamin se ne accorse e tentò un diverso approccio al

discorso, meno insidioso e sdrucciolevole di quello con cui era partito a spron battuto. Si sedette sullo sgabello su cui fino a poco prima era sistemato il giovanotto allontanato in malo modo da lui stesso:

“Grazia, so che sei piena di rabbia e di dolore. Te lo si legge in faccia, e per quel poco che ti conosco, credo di poter affermare che stai veramente male. Io ora sono qui, con te. Vedi, per miracolo ci siamo incontrati. Tu volevi cercarmi e sei venuta qui, fidandoti della tua ispirazione interiore. Io, non so nemmeno perché, sono sceso da casa. Avevo sete, e non c’era nulla in frigo e la dispensa era vuota. Potevo bere solo

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l’acqua del rubinetto. Quando ti ho visto mi sono stupito, e ti ho seguito con lo sguardo. Ho notato che eri sola, inerme; qualcosa, forse, ti doleva, perché avevi un’aria assorta, triste. Ho pensato che potevi essere arrabbiata con me per la telefonata di questa mattina: quindi, se eri in collera con me, era meglio che mi togliessi di torno. Però qualcosa mi impediva di andarmene: avevo come i piedi incollati al pavimento. Hai ordinato da bere, e nel frattempo mi dicevo: “Basta, con tutta probabilità sta aspettando qualcuno. Andiamocene!”. Mi ero finalmente scollato, quando ho notato con la coda dell’occhio il gruppetto di amici che stavano a poca distanza da te, e ho sentito distintamente il giovane che ti si è avvicinato, pronunciare prima agli altri: “Ci provo io! Scommetto 50 euro che accetta da bere e mi dà il suo numero di telefono!”. Gli altri si infervorarono tutti, cominciando a raccogliere i soldi della scommessa. Quanto a me, mi è divampato dentro un fuoco d’ira, per cui mi sono fermato in un angolo, appoggiato al muro, e vi guardavo. Chi mi ha notato, avrà pensato che fossi un maniaco! Ma non m’interessava certo quello che potessero pensare di me gli altri, in quel momento! Il resto della storia lo sai da te, come è andata a finire, intendo dire. Adesso che sono qui, però, voglio dirti tutto”.

Grazia gli fece cenno di andare avanti. Benjamin si avvicinò di più a lei, un braccio appoggiato sul bancone, su cui aveva posato il sacchetto delle lattine, l’altro braccio che muoveva e gesticolava come per dare più tono ed effetto a quello che diceva.

“È probabile che la Fondazione, attraverso i suoi scopi culturali, sia giunta a controllare anche il Consiglio di amministrazione del giornale. Secondo me, prima hanno fatto fuori l’ex-direttore perché non dava più loro le garanzie che si aspettavano, e ora hanno fatto fuori te perché si sono accorti che avrebbero commesso lo stesso errore, se ti avessero lasciata fare quello che volevi”. E allargò le braccia con aria sconsolata.

Grazia riusciva solo a pensare che avrebbe voluto buttarcisi dentro quelle braccia, ma Benjamin mostrava di non cedere ad abbracci e carezze consolatrici.

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“Anche il Verri ha detto che non posso offrire loro garanzie soddisfacenti…”. A questo punto si arrabbiò e lo investì delle sue accuse, scostandosi da lui: “Sei anche tu dei loro, che mi esprimi le tue convinzioni con una precisione e una sicurezza tali del miglior matematico? Tutta questa faccenda per te è riducibile ad un facilissimo teorema: La Fondazione controlla il giornale, ma purtroppo è perfida e cattiva. Prima caccia il povero ex-direttore, che pure l’aveva in simpatia. Ora caccia me, che non mi ha mai avuto in simpatia. Conclusione: la Fondazione si dimostra perfida e cattiva. C.V.D. Allora, sei contento del tuo perfetto sillogismo?” gli gridò Grazia dritto in faccia. E poi aggiunse: “Non siamo dentro un film americano, dove voi sgominate i criminali con una facilità incredibile. E non mi sono nemmeno mai piaciuti i vostri kolossal!”.

Benjamin si sentì come investito da un secchio di acqua gelata. Non disse niente. Grazia lo guardava sempre torva. “Lasciami in pace, ti prego” gli intimò.

“Ti aveva offerto da bere, prima, quello?”. E indicò con un cenno del capo il capannello di amici che si erano ritirati ancora più in disparte.

“Gli avevo chiesto dello spumante, per brindare al mio licenziamento. È stato gentile con me, sai, per me voleva solo provare a rasserenarmi un poco. Non mi interessa se poi aveva altre intenzioni” e in tono più secco “Non voleva certo espormi la sua visione completa e granitica degli eventi”.

“Mi dispiace. Avrei dovuto offrirti io da bere, e subito. Prima di farti tutti questi sproloqui”.

“Magari senza fare tutti questi sproloqui”. “Mi chiedi troppo: la volpe perde il pelo, ma non il vizio”. Grazia si ammorbidì in una risata distensiva. Gli domandò:

“A proposito, quand’è che sei arrivato qui a Milano?”. In effetti l’ultima volta che l’aveva sentito risaliva alla tarda mattinata di quel giorno, e si trovava ancora a Roma. Ora pur venendo a cercarlo proprio sotto casa sua, non era così tanto sicura che lui fosse già tornato.

“Poco fa. Il tempo di salire in casa, aprire il frigorifero e constatare che non c’era niente da bere. Ho viaggiato di notte per fare prima: volevo essere a Milano entro mezzanotte; domani mi aspetta una nuova giornata di lavoro”. Grazia lo

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guardò storta. Lui aggiunse prontamente: “Nel senso che devo procuramelo il lavoro. Ma torniamo a noi: ho parlato troppo, e forse in modo un po’ sconsiderato. Adesso vieni su con me, in casa, e mi racconti la conversazione che hai avuto col Verri. Voglio un resoconto preciso, tutto: per filo e per segno. Ti prometto che lascerò parlare te e io ti ascolterò in silenzio. Lo giuro!”. E alzò la mano destra come per giurare sulla Bibbia, durante i processi americani.

“Hai dello spumante in frigorifero?”. “Ho di meglio: ho dello champagne”. “Ma non avevi detto che non avevi nulla da bere?”. “E ti pare che mi metto a bere champagne di notte, per

giunta da solo?”. “Non è un po’ tardi per parlare?” disse guardando

l’orologio. Un po’ temeva la proposta di Benjamin, per lei alquanto ardita.

“Guarda che è quasi l’una e il locale chiude. Io voglio sapere come si sono svolti i fatti. E poi, scusa, tanto siamo stati licenziati tutte e due, no? Dormiremo domani mattina!”.

“Vada per il sì, allora” rispose Grazia felice. Gli sorrise, porgendogli sciarpa e cappotto. Lui l’aiutò ad infilarseli, pagò al barista la consumazione; poi la prese sottobraccio e uscì insieme a lei nella notte.

L’appartamento di Benjamin fu per Grazia un’autentica

sorpresa. Si era immaginata una visione d’insieme quale appariva dalle riviste patinate di Arredare Country, rivista che ogni tanto spulciava quando andava a fare visita ai suoi genitori, o per lo meno qualcosa di simile ai meravigliosi interni dei palazzi residenziali ultra-chic filmati dalle produzioni cinematografiche hollywoodiane. Una disposizione delle cose accuratamente disordinata, morbidi divani e tende dai colori abbinati, raffinati tappeti orientali sul pavimento di maiolica, e stampe di pregio appese alle pareti. Insomma, un mobilio che trasudava comodità, praticità e voglia di vivere, unite ad una certa mollezza dei costumi e agiatezza dello stile di vita.

Invece il primo colpo d’occhio fu terrificante. Tutto era all’insegna della provvisorietà, al limite di una sobria

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frugalità. Non che mancassero i mobili: quelli c’erano. E non che Benjamin non disponesse di denaro, rimuginò Grazia tra sé nel contemplare tanta disarmante parsimoniosità.

La porta d’ingresso si apriva su una grande sala da giorno, pulita e ordinata, ma alquanto formale e poco attraente. Su uno dei due lati perpendicolari alla porta d’ingresso era incastonata la cucina: una fila lungo tutta la parete di pezzi combinati con elettrodomestici ad incasso; il tutto di un colore poco gradevole: marrone laccato. Lungo la parete opposta si trovava un normalissimo divano a tre posti di cotone, blu, esattamente sotto la finestra senza tende. Di fronte all’ingresso la rimanente parete ospitava una di quelle librerie nordiche dall’aspetto poco azzeccato, con incastrato dentro un unico, enorme componente che fungeva da nuovissimo computer multifunzionale. Attorno vi erano stipati una notevole quantità di libri, pile di giornali e di riviste.

Grazia pensò che se ci fosse stato bisogno di traslocare, metà della fatica sarebbe stata già fatta: infatti non ci sarebbe stato che da prendere le pile di libri e inscatolarle. Rimaneva poi da smontare il computer e, probabilmente, impacchettare qualche piatto e bicchiere.

In mezzo alla stanza si ergeva possente come un platano un tavolone rotondo, che poggiava su di un tappeto ricamato. Il tappeto era l’unico elemento che dava un tocco di calore all’intero arredamento. Grazia notò un vaso di fiori freschi sul tavolo e si stupì. Lo soppesò furtivamente con lo sguardo e poi guardò Benjamin di traverso, pensierosa. Cercò di non dare a vedere la sensazione di disagio che aumentava esponenzialmente man mano che rimaneva in piedi sulla porta d’ingresso, incerta sul da farsi.

“Così abiti qui?” disse alla fine, lasciando trapelare qualcosa del suo stato d’animo stupito e un po’ smarrito.

“Non ti piace?” le domandò lui, mentre chiudeva la porta alle loro spalle.

“Me l’aspettavo diversa…”. Grazia si stava ancora guardano intorno. Era in piedi, in mezzo alla stanza. Davanti a lei il vaso di gerbere, rose, lilium e gigli profumatissimi. Appoggiò la borsa sul tavolo, accanto ai fiori. Di fronte a lei vide il computer acceso, e una considerevole mole di fogli

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sparsi sulla doppia mensola sporgente che fungeva da scrittoio inglobato alla libreria norvegese.

Benjamin si tolse la giacca e la gettò sul divano. Poi appoggiò il sacchetto di lattine sul bancone della cucina e cominciò ad armeggiare con le ante dei pensili, tirando fuori un vassoio, due bicchieri e un sacchetto di patatine che dispose su un piatto di plastica.

“Ti aspettavi un appartamento più accogliente, m’immagino…” le disse Benjamin, voltandole la schiena perché trafficava con i bicchieri puliti e accantonava alla rinfusa nel secchiaio i piatti sporchi. “Però l’hai detto tu stessa che io non sono capace di stare fermo in un posto. Ti ricordi?”. Intanto versò la Coca- Cola nei bicchieri e andò da lei tenendo il vassoio su una mano. Lo appoggiò sul tavolo e le porse uno dei bicchieri. “Venerdì mattina scorso, rammenti, al giornale, mentre sorseggiavamo il caffè durante la pausa delle 11…”.

Grazia gli sorrise. Ricordava perfettamente. Poi guardò il bicchiere che lui le porgeva:

“Ma non è champagne!” si lamentò. “Per quello c’è tempo più tardi. Adesso accomodati, prendi

fiato e poi raccontami quanto è successo al giornale. Voglio sapere cosa ti ha detto quello spregevole del Verri, tutta la conversazione che hai avuto con lui. Dopo anch’io devo farti degli aggiornamenti per quanto riguarda il progetto del Vaticano”.

“Oh, insomma, ancora quello!” sbuffò Grazia. Si era tolta sciarpa e cappotto, appoggiandoli con delicatezza sul divano, e si era seduta sulla sedia, accavallando le gambe. Era nervosa.

“Quello è il mio e il tuo futuro” insistette lui. Era in piedi di fronte a lei.

“Oh, che ne puoi sapere tu del futuro? E del futuro nostro per giunta? Sei per caso un indovino?” rispose stizzita.

“Vedo più in là di te” rispose con calma Benjamin. “Vedo che sia io che te siamo senza lavoro, per il momento. Io mi sono licenziato mentre tu sei stata licenziata. E vedo che abbiamo sotto il naso un’opportunità da non gettare alle ortiche, come vorresti fare tu, purtroppo”.

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“Sei un vulcano di idee e di progetti, Benjamin: io non ce la faccio a stare dietro a quello che dici. Non ne ho né la forza, né tanto meno la voglia” rispose piena d’amarezza. Il dolore parve riaffacciarsi acuto nel suo animo, le parole le erano uscite di bocca lente, pesanti. Sospirò, e appoggiò la testa, reclinata leggermente, sul palmo della mano.

“Ti ripeto che non sei da sola. Dai, inizia a raccontarmi…” la incalzò Benjamin, mettendole una mano sulla spalla.

“Non so se mi farebbe bene” rispose piano Grazia. E poi in uno scatto d’orgoglio: “Anzi, penso proprio che non dovrei dirti un bel niente, che non avrei dovuto salire da te…”. Ma lui non colse il tacito rimprovero a sé stessa sotto quelle parole.

Benjamin la guardò in silenzio. Si era limitato ad appoggiare il suo bicchiere sul tavolo e ad accomodarsi su di una sedia accanto a lei.

Grazia continuò, senza sollevare la testa, tradendo l’accento di ira nella voce: “Da un lato vorrei aprirmi con te, parlarti, dirti tutto…Dall’altro, però, ho paura a riversare su di te tutta questa fiducia, ad appoggiarmi su di te così tanto, perché so che ad un certo punto accadrà che tu dovrai andartene, e io…” non riuscì a finire la frase. Si vergognava troppo di ammettere “e io non sopporterei di rimanere qui da sola, senza di te”.

Ma Benjamin, questa volta, capì al volo. Appoggiò anch’egli le braccia sulla tavola, come per inchinarsi verso di lei, e le disse con dolcezza:

“Ho sperato che non arrivasse mai un momento come questo. Invece era destino che prima o poi capitasse; è ora di parlare di noi: hai ragione. Devo ammettere comunque che hai già capito tutto di me, senza che io non dicessi nemmeno una parola. Saresti stata davvero brava come direttrice del giornale”.

Grazia spinta dalle parole dell’amico, proseguì titubante, consapevole che si stava giocando il tutto per tutto. Ma ormai non voleva più tirarsi indietro. Gli parlò in tutta sincerità, solo il tremolio nella voce tradiva l’intima palpitazione del cuore, acceso da una punta di risentimento per il fatto che non aveva

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ancora capito se anche Benjamin fosse attratto da lei, o se la considerasse soltanto una grande amica:

“Io mi sento vuota e delusa, Benjamin. Raccontarti del colloquio avuto col Verri, al giornale, mi farebbe bene solo se potessi riversare questo fiume di parole e pensieri vorticosi in una persona che mi sostiene, mi incoraggia…insomma che mi vuole bene. Vicino a me ho bisogno di qualcuno di più di un amico, in questo momento. Ho pensato che forse avresti potuto essere tu, questa persona… Quando sei comparso inaspettatamente giù di sotto al bar, e poi quando mi hai invitato a salire qui, ho cominciato a sperare che forse, dopo tutto, non mi ero sbagliata; che anche tu potevi provare qualcosa per me… Invece mi sono sbagliata, vero?”. E sollevò la testa, lo sguardo intenso, penetrante poggiava su di lui.

Benjamin prese le mani di Grazia e le serrò intorno alle sue; sostenne lo sguardo dritto nei suoi occhi verde smeraldo. Per un attimo si vide riflesso e si sentì mancare il coraggio. Per questo fece un ulteriore sforzo di volontà.

“Ascoltami” le parlò “forse sono io che dovevo parlare con te, questa sera. Non tu con me. Come ben sai, sono qui in Italia da cinque anni, ormai. Ma lo sai perché me ne sono venuto via dall’America?”.

Grazia scosse il capo per dire di no. Si sentiva puntato addosso lo sguardo di lui, intenso, quasi le trapanava l’anima, ed il respiro.

Benjamin continuò, in tono più accorato, alzando la voce ed aumentando la stretta delle mani: “Sono scappato. Sì, mi ero innamorato di una mia collega, purtroppo non ricambiato, e non sopportavo l’idea che la donna che amavo non potesse stare con me! E il lui fortunato lo conoscevo, per giunta! Così ho tagliato la corda. Io non sono capace di accettare uno smacco, un rifiuto. Piuttosto sparisco. Se stasera fossi stato al tuo posto, ad esempio, e avessi subodorato aria di licenziamento, non avrei perso tempo a redigere da me stesso la lettera di dimissioni e a scomparire alla velocità della luce. Sono fatto così, credimi. Anche adesso: tu sei qui, davanti a me, che mi dici che da me vorresti un impegno stabile, durevole, su cui poter contare… eppure io non mi sento pronto. Non ce la faccio: non sono sicuro di quello che provo

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per te. È la verità! Oddio Grazia, mi dispiace immensamente… vedo che ti sto ferendo… desidero stare con te, credimi, ma se poi non funzionasse tra noi due, me ne pentirei amaramente; mi sentirei responsabile del fallimento, mi sentirei terribilmente in colpa…”.

Grazia aveva chinato nuovamente il capo per tutto il tempo in cui Benjamin aveva parlato. Due sentimenti lottavano con tenacia nel suo animo: la rabbia di fronte all’impotenza in cui versava Benjamin nel prendere una decisione sulla loro storia, e nello stesso tempo la pietà per lui, una pietà però che non era semplice commiserazione, ma piuttosto la resa serena, sincera e amorevole di fronte alla verità ormai emersa alla luce. Capiva che lei, da sola, non aveva il potere di far sì che lui l’amasse, che ricambiasse almeno in parte i suoi sentimenti. Per il momento era così: aveva solo da accettare il fatto. Si sarebbe arrabbiata più tardi, e prevedibilmente molto.

Raccolse tutta la forza che aveva, e si sforzò di mettere insieme una risposta, senza sapere bene cosa gli avrebbe detto, imponendosi un ferreo autocontrollo per non scoppiare in un pianto dirotto davanti a lui:

“Ti ringrazio che ti preoccupi per me. In un angolo del mio cuore l’ho sempre saputo che prima o poi avrei rischiato anch’io di perdere di nuovo la testa per un collega giornalista…l’ho già fatto un'altra volta. Peccato come a volte l’esperienza non insegna nulla” e alzò su di lui gli occhi lucidi e commossi, da cui traspariva un sorriso che si stava schiudendo per incorniciare tutto il suo viso. “Anche la mia testolina intelligente mi ammoniva: “Stai attenta a quello lì!”. E nonostante questo, mi sono lasciata coinvolgere troppo da quello che provo per te”.

Questa volta fu Benjamin ad imbarazzarsi. Era anche curioso di sapere per quale uomo Grazia avesse perso la testa prima di lui. Ma non osava chiederglielo.

Intanto Grazia, che ormai aveva iniziato a parlare e voleva arrivare sino in fondo, si alzò in piedi: “Rimarrei qui solo se anche tu fossi innamorato di me. Lo so che è chiedere troppo…”.

“Non dire così. Mi fai sentire inutile” le rispose. “Non dire sciocchezze”.

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“Almeno tieni presente tutto quello che ti ho appena detto”. “Lo serberò nel mio cuore, te lo prometto. Ma, vedi,

sarebbe stato meno doloroso se fin dall’inizio non ci fosse stata nessuna confidenza tra noi due. Invece ci siamo conosciuti, la relazione si è approfondita, ed ora è tempo di tirare le somme: non mi è sufficiente sapere che l’amore che provo per te è corrisposto solo da bei discorsi, per quanto per te siano pieni di significato a me non servono un bel niente. Non mi consolano di una virgola. A me basterebbe un tuo sì; o un bel no motivato. Non una spiegazione per un non so, seppure detta nel più dolce dei modi. È la logica dell’amore, Benjamin: o rispondi, ricambiando anche tu a quell’amore con cui tu sei amato a tua volta; o si spegnerà anche quel poco di amore che provi per me. Non è colpa mia”.

“Ma parli come se fosse colpa mia, che non riesco a volerti bene. Eppure un po’ te ne voglio”.

“È troppo poco, per iniziare una storia seria tra noi due. Lo sai anche tu.”

“Ma come si fa ad amare di più una persona?”. “Non è a me che lo devi chiedere.” E dentro di sé pensò:

“Io l’ho già fatta la mia parte. Adesso tocca a te capire che sentimenti nutri veramente per me”.

Benjamin rimase in silenzio. Grazia raccolse le sue cose dal divano, fermandosi a

guardare i fiori sul tavolo un ultima volta: “L’inverno è ormai agli sgoccioli” disse infilandosi il cappotto. I fiori le avevano suggerito l’immagine della bella stagione alle porte. Si stupì lei stessa dell’augurio spontaneo che gli fece: “Chissà che con la primavera imminente tu non senta nascere qualcosa di nuovo, dentro di te. In generale, naturalmente, intendo dire. Davvero. Ti auguro di tutto cuore di provare un giorno, per una donna, quello stesso sentimento che hai provato tanto tempo fa, nel tuo paese. Ecco, vedi, ora sono io ad augurarti buona fortuna! Senza rancore”. L’ultima cosa che desiderava era lasciarlo in malo modo, dando libero sfogo da parte sua – pur senza volerlo del tutto – alle reazioni più disparate ed incontrollabili. Non voleva mostrare che pendeva dalle sue labbra. Voleva uscire da quella casa a testa alta, magari con una stretta di mano; ma Benjamin era rimasto seduto davanti

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al suo bicchiere di Coca-Cola ancora intatto. Lo sguardo spento, fisso nel vuoto. Era l’immagine dello sconforto e dell’apatia.

“Cosa vuoi fare per il progetto del Vaticano?” si ricordò di domandarle Benjamin. Il tono di voce deluso e indispettito.

“Considerami tolta. Tanto io non sono mai stata menzionata in quel telegramma” rispose con una punta d’orgoglio nella voce.

“L’avevi capito?” domandò stupito. Alzò la testa per guardarla.

“Sì, fin da subito, quella sera a casa di Edoardo. Ma non volevo farti fare una magra figura. Per quello sono stata al gioco”.

“Grazie”. “Grazie a te”. Chiuse la porta con un tonfo. Benjamin la guardò uscire;

sentì che dentro qualcosa gli faceva male, ma non sapeva dargli un nome. Che strano destino, pensò, per uno che delle parole fa il suo mestiere!

In un attimo Grazia si ritrovò nuovamente in mezzo all’aria fresca e pungente della notte. Era fuori dal condominio, e nello stesso tempo – considerò con una vena di nostalgia – fuori dalla vita di Benjamin. E anche fuori dal suo lavoro. Per un attimo le parve di essere fuori da tutto, fuori dal mondo. Ma scoprì pure che era in pace con sé stessa. Respirò a pieni polmoni l’aria salubre della notte, e fu contenta della sensazione di fresco respiro che provò in quel momento.

Quando alla fine salì in macchina, Grazia si rallegrò al vedere che anche il proprietario del bar, proprio quello che le aveva servito il Desperados, stava chiudendo la saracinesca del locale per tornare a casa. “È proprio ora che torni anch’io a casa”, pensò. E avviò in fretta il motore.

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MARTEDI’ 18 Marzo

XXIV

Il martedì ebbe inizio con un messaggio a reti unificate del Presidente del Consiglio – alle nove di mattina – che annunciava che la crisi di governo era in atto. La nottata non aveva partorito nessun accordo soddisfacente tra i partiti della maggioranza, pertanto si sarebbero dovuti rimettere nelle mani della massima carica dello Stato, il Presidente della Repubblica, qualora fosse stata approvata la triplice mozione di sfiducia presentata dai partiti dell’opposizione. La votazione era prevista per le ore 17.30 di quella giornata. 5Nel corso della nottata, mentre i partiti di maggioranza non avevano siglato nessun patto per salvare il salvabile, quelli dell’opposizione si erano accordati su un’unica, articolata mozione di sfiducia da presentare alle due Camere del Parlamento, e c’era la reale possibilità che tale manovra riuscisse.

Il capo del governo era un uomo alto e dignitoso, sulla settantina, con un fisico prestante, ancora in forze. A dispetto dell’età, aveva conservato un aspetto piacente: le tempie spaziose si distendevano come un campo assolato sul suo viso di uomo maturo; le attraversava un rivolo profondo, una specie di scanalatura che poteva sembrare un solco indelicato, segno dell’avanzare dell’età. Lo sguardo era penetrante, i capelli brizzolati, il naso signorile ed adunco. Non portava gli occhiali, anche se quella mattina gli sarebbero serviti per evitare il contatto diretto sullo schermo televisivo delle sue pupille troppo dilatate. Anche al più innocuo dei telespettatori sarebbe venuto il ragionevolissimo sospetto che, forse, il Presidente non era poi tanto sicuro di quello che diceva. La calma che dimostrava era solo apparente. Quei suoi occhi troppo dilatati tradivano un’angoscia segreta.

5 Il capo dello Stato ha il potere di sfiduciare il presidente del consiglio, quando si verifichi che questi non è più in grado di governare, cioè di avere una maggioranza. Tutto ciò secondo la nuova costituzione italiana

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Dagli schermi della TV il Presidente appariva per nulla invidiabile: nonostante la sofisticata perizia dei truccatori e l’accortezza del sarto personale che gli aveva fatto indossare un completo informale per non allarmare gli italiani già sufficientemente impauriti sul futuro del paese, le telecamere non mentivano. La consueta espressione dell’uomo capace e sicuro di sé alla guida del paese già da cinque anni non era perfetta come sempre; non riusciva a mascherare un velo di preoccupazione negli occhi marroni, appesantiti dalla nottata insonne. Quegli occhi che di solito assomigliavano a quelli di un levriero, appuntiti ed intelligenti, ma quel giorno avevano il gonfiore smorto di uno spinone.

Proclamò con tono serio, sofferto e grave che in quella giornata si sarebbero giocate le sorti del paese. E che se la mozione di sfiducia fosse passata, il Presidente della Repubblica si sarebbe accollato il tempo necessario per verificare la possibilità di un governo provvisorio, avviando la consultazione di prammatica dei partiti presenti nel Parlamento italiano. Ma per il momento restava da provare la strada della votazione della triplice mozione, che sarebbe avvenuta a scrutinio segreto, prima di passare a sondare altri percorsi più o meno tortuosi (tutti capirono che sottintendeva anche il peggio del peggio: le elezioni anticipate).

Disse anche che la “Vendicatrice Spietata”, l’apposita commissione parlamentare che stava indagando sullo scandalo degli onorevoli appartenenti alle Stelle Spezzate, sarebbe passata di competenza dal governo al CSM, trasformandosi così in una commissione extra-parlamentare. Tutto ciò al fine di rassicurare maggioranza e opposizione dell’assoluta neutralità della magistratura nello svolgimento delle indagini. E poiché erano salite a sei le magistrature che indagavano sulle Stelle Spezzate, il Presidente annunciò che le avrebbe riunite in una sola, tramite decreto-legge, naturalmente dopo essersi consultato con il Presidente della Repubblica, con l’opposizione, e con il CSM.

Infine domandò al Paese che s’impegnasse a mantenere un clima di pace, imperniato sul rispetto reciproco tra cittadini e sul senso civico di ognuno fin tanto che – nel caso che la mozione di sfiducia venisse confermata – il Presidente della

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Repubblica non avesse sciolto il riserbo di rito sugli eventuali partiti che sarebbero entrati a far parte della nuova maggioranza, e sul nome dell’ incaricato di apprestare il nuovo esecutivo.

La cosa che più gli premeva – disse con tono accorato, portandosi una mano sul petto – era che il paese rimanesse calmo, e che ci si trattenesse dal fare speculazioni finanziarie ora che la nazione era in un momento di estrema debolezza. Non serviva certo un economista, infatti – continuò sempre sulla stessa riga, un po’ scherzando ma non troppo – per spiegare agli italiani che i titoli della borsa stavano oscillando paurosamente, in concomitanza all’incerto panorama economico e politico. La necessità più urgente era che il mercato azionistico italiano non affondasse ancora di più: era già di per sé sufficientemente precario ed instabile.

Dopodiché salutò il popolo italiano e si congedò. Il discorso non durò più di dieci minuti. Ma, naturalmente, appena le telecamere furono spente su Palazzo Chigi, ogni rete televisiva e ogni testata giornalistica si gettarono a capofitto nel tentativo di indovinare quali sarebbero stati i nuovi componenti del governo post-scandalo Stelle Spezzate, dando già per spacciata la fine dell’attuale governo. E già si cominciava a chiamare il nuovo esecutivo con il soprannome scaramantico di “governo giustiziere”. Di fatto, come appariva chiaro dalle interviste fatte ai passanti per strada da solerti giornalisti messisi immediatamente ad indagare, gli italiani non aspettavano altro se non di far giustizia. Se la sarebbero fatta anche da soli.

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XXV Bussarono alla porta. “Avanti!” rispose il Cardinale. Kreutz e Wassen entrarono nello studio spazioso, messo

ancor più in risalto dall’arredamento spartano. Si erano ormai abituati ad avere a che fare con il loro superiore, un irlandese dai modi burberi e dal carattere forte come una quercia secolare. All’epoca della nomina a responsabile della segreteria per gli affari esteri del Vaticano, il Cardinale era il primate d’Irlanda. Stupendo tutti per l’assoluta mancanza di spirito di adeguazione al suo nuovo incarico, arrivò a Roma esternando un muso lungo ed imbronciato: chiaramente non aveva gradito l’avanzamento di ruolo. Tuttavia si mise al lavoro manifestando il carattere di fondo tipico della sua gente: contadini testardi, abituati ad avere a che fare con una terra dura ed ostile. A tutti quelli che gli domandavano se non volesse far ritorno in Irlanda, lui rispondeva che quello era il suo nuovo posto, da cui nulla l’avrebbe distolto. Se a Dio andava bene così, andava bene pure a lui. Non si era portato molto dal Vescovado di Dublino, cosicché all’inizio l’ufficio pareva ai suoi due sottosegretari alquanto sobrio, per non dire povero. Le uniche due cose che possedeva erano la foto dei genitori che teneva in una cornice d’argento sulla scrivania, e un dipinto della brughiera irlandese appeso alle spalle. L’aveva appeso appositamente dietro le spalle perché – come diceva a tutti quelli che gli chiedevano spiegazione – a forza di guardarlo avrebbe cominciato a provare troppa nostalgia per la sua terra natia, e quest’ultima avrebbe potuto compromettere il suo onesto lavoro.

In breve, la sua faccia spigolosa ed ossuta cominciò a circolare per giornali e reti televisive, ricevendo elogi da chi lo amava e spregi da chi lo trovava sgradevolmente antipatico. Ma lui continuava imperterrito a svolgere le sue funzioni e a portare avanti il suo ministero. Era uno dei capi della Diplomazia Vaticana, rappresentava il Ministro degli Esteri del Vaticano.

Era giunto a Roma come “rimpiazzo temporaneo” soleva scherzare amabilmente, soltanto cioè finché non avessero

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trovato uno più adatto di lui. Invece era rimasto lì, suo malgrado. Non di rado lo si sentiva dire che quell’incarico era troppo gravoso per uno come lui avvezzo all’austerità, a trattare rudemente le persone, a vivere in semplicità e parsimonia. Gli mancava il lavoro pastorale di cui andava orgoglioso quando stava a Dublino, e che per lui era il fiore all’occhiello della sua diocesi; gli mancava la verde campagna irlandese, con le bestie al pascolo ed il cielo tempestoso; gli mancava la preghiera mattutina e serale quieta e silenziosa nel suo Vescovado. Ora così tanto lavoro diplomatico era per lui estenuante. Ad ogni modo cercava di lamentarsi il meno possibile.

Quella mattina il Cardinale stava scrivendo una lettera: chino sui fogli, la penna vergava la pagina a fatica – capitava sovente di sentirlo lamentarsi che le cose scritte non gli riuscivano bene –, infatti accanto a lui, sulla scrivania, c’erano diversi fogli appallottolati ed altri erano stati gettati alla rinfusa nel cestino.

Portava gli occhiali, ma solo per la sua presbiopia da vecchiaia: aveva già settant’anni sulle spalle, e li dimostrava tutti. Era ingobbito dal peso degli anni e delle fatiche. Aveva la fronte tutta coperta di rughe. In mezzo al viso appuntito, attraversato da pochi capelli bianchissimi che un tempo dovevano essere biondi, due occhietti vispi e azzurri. Nell’insieme la testa era piccola, non tanto bella, scolpita come un oggetto di seconda mano o un modello che serva solo da prova, per cui non gli si dà tanta cura al momento di rifinire i particolari. Così altrettanto quel viso sembrava portare con sé qualcosa d’incompiuto, di male aggraziato, di rustico e sbrigativo. La testa piccola poggiava su una figura alta e slanciata: si sarebbe detto uno stecchino d’uomo su cui non c’era niente di buono da scommettere.

Ad un carattere così schietto e rude, quasi da montanaro, corrispondeva una stringatezza altrettanto singolare delle abitudini. Il suo carattere era la diretta conseguenza di quella parvenza: un animo di gigante imprigionato in un carattere legnoso, ispido, rude e poco propenso alla chiacchiera. Un uomo di poche parole e di gesti asciutti, ma non per questo meno sentiti.

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“Ecco la lista che ci ha fornito il professor Righetti” esordì Wassen, che si era fatto avanti dalla porta rimasta aperta.

Il Cardinale alzò gli occhi azzurri quasi trasparenti sull’aiutante, per poi rimetterli subito dopo sulla lettera che stava scrivendo.

“Me la porti qui” pronunciò accigliato. Wassen si avvicinò, mentre Kreutz rimase in piedi, fermo

sulla soglia, la porta sempre socchiusa. Wassen fece scivolare la lista redatta personalmente dalla mano di Edoardo sulla scrivania del Cardinale.

Il Cardinale non la degnò minimamente di uno sguardo. Wassen rimase in piedi davanti alla scrivania per dieci minuti, aspettando che il Cardinale desse una occhiata fugace alla lista e impartisse loro nuovi ordini. Era abituato a questi tempi morti, e stava in piedi a gambe leggermente allargate per sentirsi meglio piantato sul pavimento, le braccia conserte sul petto o distese lungo i fianchi. Anche Kreutz aveva assunto la medesima postura, e aspettava con un’ espressione indecifrabile sul volto.

Alla fine il Cardinale si decise a mettere mano alla lista: l’afferrò con la mano sottile e ossuta e la portò sotto gli occhiali. La studiò attentamente per altri dieci minuti, in silenzio, socchiudendo gli occhi ogni tanto come se stesse meditando o pregando. I due sottosegretari lo lasciarono fare senza interromperlo, conservando sempre la medesima postura del corpo, accompagnata da una faccia neutra ed impassibile.

“La lista non è corretta” sbottò irritato il Cardinale alla fine. “Ma che diavolo è successo in questo gruppo?”.

I due sottosegretari lo scrutarono palesemente sconcertati. Non avevano previsto una simile eventualità. Wassen prese la parola:

“Eminenza, cosa intende dire? Lo sa anche lei che non abbiamo mai potuto prendere visione della lista che lei ha redatto personalmente. I telegrammi non sono partiti da noi. Per cui non mi so spiegare che cosa sia successo nel frattempo”. Kreutz si limitò a chiudere la porta e ad allinearsi al suo collega. Ora parevano due scolaretti in punizione davanti al maestro.

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“Oh, è molto semplice, Sigmund. I nomi che il professor Righetti ha compilato non sono quelli che avevo scritto io. O meglio, lo sono solo in parte. Due sono diversi”.

“Cosa può significare, Eminenza?” “Secondo te cosa significa?” lo rimbrottò il Cardinale. “Ecco… che due persone che si sono presentate dal

professor Righetti domenica sera non erano quelle che lei ha scelto. E’ così?”

“Precisamente. Vedo che non sei ancora una testa di rapa, Sigmund. E tu cosa dici, Frederich?”

“Mi chiedo se il professor Righetti abbia subodorato qualcosa, cioè che due elementi del gruppo erano fasulli… che se ne sia accorto?” espose pensoso Kreutz, più che altro con l’intenzione di venire in soccorso del collega.

“In effetti il professor Righetti, mentre ci congedava durante l’ultima visita, ci ha detto che troveremo delle sorprese: che volesse intendere proprio questo? E anche fosse, come faceva a saperlo?” si affrettò a domandare Wassen, che non aveva dimenticato quella strana annotazione di Edoardo.

“Perché lui è intelligente, molto intelligente, miei cari ragazzi. Deve avere intuito da solo che qualcosa nel gruppo, così come se l’è visto piombare a casa sua, non funzionava bene… o forse ha capito qualcos’altro. Chissà. Comunque, bisogna risolvere questa faccenda” avvertì imbronciato il Cardinale.

“Chi sono le persone in più?” interrogarono in coro gli altri due.

“Le due donne. Io non le avevo inserite”. “La giornalista e l’infermiera?” domandarono come un sol

eco, stupiti. “Proprio loro. Io avevo suggerito una coppia sposata al loro

posto, due ottimi esperti di papiri. Non capisco che fine ha fatto il telegramma che doveva raggiungerli… sarà andato perso… bah, chissà”.

“O loro non hanno voluto saperne…” espose Wassen. “O l’hanno cestinato, pensando che fosse uno scherzo, o un

errore…” buttò lì Kreutz. “O voi siete due zucconi… non capite che c’è stato un

contrattempo? Sicuramente è accaduto qualcosa del genere,

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perché non è possibile che non abbiano nemmeno risposto al telegramma attraverso una lettera con cui respingere – se non altro – la proposta che abbiamo fatto loro. Non si resta indifferenti ad un telegramma simile. Anche se non l’abbiamo fatto spedire noi, so benissimo chi l’ha fatto, e vi posso assicurare che una qualsiasi risposta era scontato attendersela. Se quella coppia non l’ha fatto, è perché è successo qualcosa”.

“Allora, Eminenza, che si può fare?” Il Cardinale abbassò gli occhi sulla lista e rimase in

silenzio. Con le dita ossute tamburellava sul foglio che stava vergando a mano prima che i suoi due sottosegretari entrassero nello studio. Dopo alcuni minuti di riflessione, annunciò risoluto:

“Direi che se queste due donne sono finite nella lista, è un segno preciso ed inconfutabile della Divina Provvidenza, e dunque noi dobbiamo lasciarcele. Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”6 recitò, citando Dante. “Ora: spedite a tutti i nominativi redatti dal professor Righetti il telegramma per convocarli qui, domani. Lo so che c’è solo un giorno di preavviso, ma non si può fare altrimenti. Il tempo scorre implacabile e non dobbiamo lasciarcelo sfuggire. Domani è festa nazionale. Tutti sono a casa dal lavoro, per la festività di San Giuseppe. Mi auguro che non si siano presi precedenti impegni e che possano essere ricevuti tutti qui, in udienza da me. Io esporrò loro l’intero progetto che li riguarda da vicino, così che possano conoscerlo e decidere di prendervi parte, una volta per tutte.”

“Benissimo, allora procediamo” disse Wassen. “Un attimo” interruppe Kreutz. Le teste di Wassen e del

Cardinale si girarono di scatto su di lui. “Mi ricordo proprio ora che il professor Righetti ha accennato che la signorina Tommasoni non avrebbe intenzione di prendere parte al progetto. Cosa facciamo dunque?”

Il Cardinale si accigliò. “Ah, davvero? Bravo, Sigmund. Meno male che te ne sei ricordato”. E poi rivolto a Wassen: “Tu stai più attento, la prossima volta! Non devi lasciarti sfuggire una cosa importante come questa! L’intero lavoro che

6 Inferno III, 95-96

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aspetta il gruppo del professor Righetti potrebbe venirne danneggiato. Questa donna potrebbe giocare un ruolo importante nell’intera vicenda, un ruolo che va al di là delle nostre capacità previsionali e delle nostre aspettative. E’ necessario che vi prenda parte!”

“Ma come fare? Lei non ne vuole sapere!” “Avete capito per quale motivo rifiuterebbe?” li interrogò il

Cardinale. “Beh, lei ha detto che era troppo indaffarata con il suo

giornale, che non poteva muoversi dalla redazione di Milano; l’altroieri era ancora la direttrice.” rispose Kreutz. “Certo, ora che è stata sollevata dall’incarico forse potrebbe cambiare idea… mi dispiace davvero tanto per lei, chissà come si sentirà ora che l’hanno messa completamente da parte” aggiunse pensoso.

“Questo mondo è pieno di falsità e di menzogne, dovreste già saperlo. Nostro Signore l’hanno messo in croce per aver detto la Verità!” esclamò stizzito il Cardinale. “La signorina Tommasoni sperava nell’integrità professionale e morale del Consiglio di Amministrazione del suo giornale. E magari lei aveva anche le carte in regola per essere una brava giornalista. Ma il mondo, con le sue regole per la sopravvivenza dei più forti, mette il bastone tra le ruote alle persone semplici ed oneste. Anche lei ne ha fatto le spese, purtroppo” finì di dire il Cardinale con amarezza.

“Ma Lei crede che forse, ora, accetterebbe? Insomma, visto che non ha più quella responsabilità così gravosa sulle sue spalle”.

“Può darsi di sì, può darsi di no. Capire cosa si cela dietro la singola scelta di una persona… magari potessimo! Invece è un tentativo alquanto arduo. Troppe volte il mio acume ha subito degli smacchi. Mi sono arreso all’evidenza: in settant’anni di vita non sono ancora riuscito a capire secondo quali parametri l’uomo faccia uso della sua libertà. Comunque ci penserò io. Pregherò e troverò la soluzione giusta, e poi vi darò istruzioni in merito”.

“E poi c’è anche un altra faccenda importante” si rammentò sempre Kreutz. “Il professor Righetti ha dimostrato

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insofferenza per il suo collega Fischer. Non voleva nemmeno lavorare con lui, all’inizio. E’ stata sua moglie a convincerlo”.

Il Cardinale questa volta sospirò profondamente. “Sì, me lo aspettavo. Fischer è quello che è: meravigliosamente indisponente. Per non parlare di quello che ha fatto a Righetti… ma nessuno comunque mi può levare dalla testa il pensiero che per il gruppo lui costituisca una vera e propria presenza indispensabile. Capiranno più avanti in che modo”. Pausa. Poi riprese: “Tuttavia lo devo ammettere: Fischer è un dono di Dio, ed insieme anche una croce, è luce e tenebra insieme. Mi auguro che il gruppo non si spacchi a causa sua”. A pronunciare quelle ultime parole si fece serio. Poi abbassò la testa, come per concentrarsi a pensare.

I due sottosegretari rimasero in attesa di venire congedati. Ma il Cardinale aveva già abbassato la testa sul foglio che già da prima aveva lasciato in sospeso. I due sottosegretari allora uscirono dall’ufficio senza far rumore e senza aggiungere altro.

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XXVI Grazia stava innaffiando le viole sul terrazzo. Il quotidiano

di quella mattina (il suo ex-giornale ormai) era gettato in malo modo su una poltrona di vimini, sull’altra erano accantonate alla rinfusa vecchie cassette di legno da spaccare e buttare via, insieme ad una pianta morta durante l’inverno. Per terra la bacinella con il bucato da stendere.

Sul tavolo rotondo di vimini che faceva pendant con le sedie, le tracce di un tentativo abortito di lettera, accanto a tre tazzine di caffè, ad un pacco di biscotti integrali e una coppetta di frutta secca, e all’immancabile pacchetto di sigarette, questa volta quasi vuoto.

Grazia appoggiò per terra l’annaffiatoio e tornò al suo tavolo da lavoro. Da quasi una settimana aveva trascurato il piccolo giardino personale che aveva fatto crescere con orgoglio sul terrazzo e per il quale serbava grande cura e dedizione. Quelle piante si erano rivelate per lei una continua miniera di nuove scoperte. Si era resa conto di possedere il pollice verde. Senza fatica, infatti, aveva accumulato sul suo balcone – protetto dai muri spioventi del tetto del condominio – una discreta quantità di piante, sia da interno sia officinali. Era di queste, in particolar modo, che andava fiera. Aveva imparato a prepararsi da sola decotti e tisane per i malesseri di stagione, e ne ricavava sempre un notevole giovamento.

Quella mattina era già vestita di tutto punto. Si sentiva stranamente corroborata, sebbene la notte non avesse chiuso occhio. Aveva spinto sedie e tavolo del terrazzo quasi in prossimità del cornicione, sotto la luce del sole, e mentre annaffiava le sua piante godeva beata di quel tepore: la palla infuocata le accarezzava la pelle come se i suoi raggi fossero dita delicate e rassicuranti, e stava lì ad assaporare quel morbido e prolungato abbraccio.

Si guardò intorno: le ultime gocce di brina risplendevano sulle foglie illuminate dal sole, i colori delle piante sembravano più vivi e i raggi dorati facevano brillare gli oggetti su cui si posavano come cristalli d’ambra luccicanti. L’aria era pulita, frizzante. Il cielo perfettamente terso. Si

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respirava nell’aria una fresca fragranza di agrumi, nonostante fosse solo Marzo.

Pensò che era strano che si sentisse così sveglia. Probabilmente era tutta la tensione nervosa accumulata in quei giorni a procurarle quell’effetto – ipotizzò volendo trovare un motivo a cui addossare il motivo di quella frenesia in corpo – perché non era normale che se ne stesse lì, quasi tranquilla e piena di energie, a sbrigare faccende quando soltanto il giorno prima aveva perso in un sol colpo il lavoro e l’uomo su cui aveva riposto i suoi sogni.

Non riusciva ancora a provare rabbia verso Benjamin: la ferita era troppo fresca. Si erano lasciati troppo “cortesemente” la sera prima, e ciò ritardava l’eventuale collera nei suoi confronti, perché non era possibile per una stessa persona – cioè per Grazia – dire addio serenamente ad un uomo e abbandonare subito dopo tanta educata cortesia per inveire come un cinghiale feroce contro di lui.

Già: perché non si era arrabbiata subito con lui, allora? Perché non gli aveva mollato in faccia un bel ceffone? Perché non gli aveva urlato che si era comportato male, che tutte quelle meravigliose chiacchierate fatte insieme l’avevano illusa che fra loro potesse esserci del tenero, e che lui volesse fare seriamente con lei? Avrebbe risparmiato il tempo e la fatica occorsi per corrergli dietro.

Sì: doveva confessare la verità a sé stessa, la verità che le faceva male e che dunque non voleva ammettere: che cioè, anche dopo essere stata scaricata da Benjamin, – almeno così le sembrava –, non era capace di fare una sfuriata davanti all’uomo che amava. Così era lì che vegetava, come le sue piante, aspettando che, dal nulla, in maniera imprecisata, sorgesse a riscattarla il momento in cui si sarebbe scrollata di dosso quella cappa anormale di buon umore, per mettersi finalmente a piangere, gridare, battere pugni e imprecare.

Eppure sentiva dentro di sé che il momento liberatorio era vicino: sapeva perfettamente che quello strano stato d’animo inspiegabilmente arzillo le sarebbe durato ancora per poco. Forse era appunto per questo che aveva cominciato a staccare velocemente delle bacche di calendula: stava preparandosi una tisana rilassante, voleva giocare d’anticipo sul momento in cui

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sarebbe stata scossa dal brusco cambiamento d’umore e si sarebbe lasciata andare a violente sferzate di collera contro il suo destino cieco e crudele. In cucina si era già sistemata l’ultimo libro della sua scrittrice preferita, comprato a Natale ma che per impegni di lavoro non era ancora riuscita nemmeno ad aprire. Un bel plaid caldo ed avvolgente era pronto sul divano, nel caso volesse sprofondare nella lettura adagiata su morbidi cuscini. Leggere, per non pensare a nient’altro. Evadere, da tutto e da tutti.

Qualche segnale dell’imminente cambiamento d’umore in effetti c’era già stato: quella notte non aveva chiuso occhio; appena levatasi in piedi aveva bevuto solo caffè e fumato quasi un intero pacchetto di sigarette, benché non fossero ancora le nove di mattina. E soprattutto non riusciva a scrivere. La verità era che stava scrivendo a Benjamin per scrivere a sé stessa. Iniziava le frasi, ma non riusciva a finirle. E il non poter padroneggiare come voleva il suo migliore mezzo espressivo la irritava.

Rilesse quanto aveva scritto finora: Caro Benjamin, vorrei accomiatarmi definitivamente dalla tua vita

lasciandoti un ricordo di me. Lo so che tutto ciò può sembrare sciocco o vanitoso, ma è più forte di me. Abbi pazienza. E’ che hai lasciato un’impronta nella mia anima, sicuramente tuo malgrado, e di questo te ne sono grata. Perciò voglio dedicarti il mio ultimo articolo da direttrice del nostro ex-giornale. Ormai entrambi siamo disoccupati. O meglio, io sono disoccupata. Quanto a te ho visto il tuo nuovo giornale on-line: naturalmente ti auguro con tutto il cuore che le cose procedano bene e che l’idea funzioni. Ti sei esposto davvero tanto: ma è inutile che te lo dica. Lo sai già tu per primo.

Quest’articolo che ti accludo non l’hanno pubblicato, dunque si può dire – a ragione – che è un inedito. Se vuoi, puoi pubblicarlo, te ne cedo i diritti. Praticamente te lo regalo. Spero di potermi considerare sempre una tua amica, non solo una tua collega.

Grazia. La lettera le sembrò buona: né particolarmente mielosa, né

fredda e distaccata. Prese una busta, vi infilò dentro lettera ed

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articolo e vergò sul frontespizio il suo recapito. Poi sigillò i lembi, la girò e scrisse sul retro l’indirizzo di Benjamin, cercando di scrivere la busta con una calligrafia soddisfacente. Non voleva spedirgli una mail perché in una delle prime confidenze che si erano scambiati si erano detti che entrambi amavano scrivere le bozze a mano. Ora voleva dimostrarglielo.

In quel momento squillò il telefono. Grazia sobbalzò: il pensiero in un sol attimo corse ad un'unica persona. Si precipitò dentro ad alzare la cornetta:

“Pronto?” la voce tremante. “Buon giorno. Qui parla il Cardinale Mac Collough, sono il

responsabile dell’Ufficio Affari Esteri del Vaticano. Penso che il mio nome non le risulti sconosciuto, dico bene?”. Poiché Grazia gli rispose affermativamente, continuò: “Intanto mi scuso se la disturbo così di buon mattino, non sono ancora le nove. Si starà domandando il motivo di questa telefonata: vengo subito al punto. Ecco, vede: mi risulta che lei ha preso parte alla riunione per coordinare un lavoro di ricerca promosso dal mio dicastero a casa del professor Righetti la scorsa domenica sera. Naturalmente questa mia telefonata non vuole allarmarla in alcun modo, dottoressa. E’ soltanto, chiamiamola così, una telefonata “prudenziale”, che vuole far restare la faccenda entro termini assolutamente non ufficiali… mi sto accertando di persona di come si siano svolte le cose quella sera. ”

Grazia tagliò corto: “Sì, è vero. Vi ho partecipato” rispose con voce glaciale. Non capiva perché un rappresentante della Curia Pontificia l’avesse chiamata. Per questo era sospettosa.

“Vorrei che si sentisse a suo agio, dottoressa. Non le voglio fare alcuna rimostranza. Se si sta domandando perché io in persona le sto telefonando, ecco, vede…” proseguì Mac Collough. Ma Grazia lo interruppe cogliendo subito la palla al balzo: “Esatto, mi stavo proprio domandando il motivo di questa telefonata”.

Mac Collough non si scompose. “Allora, dove eravamo rimasti? Ah sì, beh, riprendiamo il filo dei discorsi: che lei abbia preso parte alla riunione va benissimo, dottoressa. In

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realtà ne sono molto soddisfatto, anche se la sua presenza non era prevista. Ma tanto lei lo sa già, non è vero?”

“Sì, lo so già. Me l’ero immaginata”. “Posso sapere chi l’ha invitata?” “Sono stata invitata da Benjamin Tolosa. Mi aveva detto

che quella sera potevamo concludere un’importante intervista di lavoro, ad un certo Edoardo Righetti, un suo conoscente; e che poi, forse, c’era anche dell’altro lavoro da fare. Io pensavo si trattasse di raccogliere informazioni e materiale vario per il giornale, lui invece aveva in mente ben altro: il telegramma, intendo… Comunque, a sentir lui, questo Righetti avrebbe dovuto essere un intellettuale romano molto addentro la politica, proprio quello che ci serviva in quel momento per il giornale”. Grazia si sorprese a sbottonarsi così tanto.

Mac Collough le domandò: “Continui a raccontarmi della faccenda del telegramma, per favore. E’ qui che c’è stato l’equivoco, vero? Cioè lei ha creduto che il sig. Tolosa le avesse raccontato la verità”.

Grazia si stupì ancora che il Cardinale le leggesse fin dentro il pensiero. In effetti stava pensando proprio alla bugia di Benjamin del telegramma inviato a nome di entrambi. Di nuovo, suo malgrado, si ritrovò a rivelargli: “In realtà è stato il mio collega ad aver ricevuto il telegramma. Lui mentì dicendo che l’aveva ricevuto a nome di entrambi. Io, lì per lì, gli credetti, ma poi, quando mi resi conto che quello di cui si discuteva quella sera da Righetti non centrava di una virgola col nostro giornale, mi spostai in un'altra stanza per collegarmi alla redazione. Sentii tuttavia che loro continuavano a discutere sulla Lettera ritrovata, ma le parole mi giungevano solo a tratti. Solo più tardi ho scoperto l’amara verità: che cioè Benjamin mi aveva usata per recarsi a Roma da quel Righetti”. Era la prima volta che le usciva di bocca quel ragionamento, e a malincuore si accorse che le cose erano andate proprio così. In quel preciso istante sentì esploderle dentro tutta la rabbia repressa per Benjamin. Ora sapeva che lui l’aveva usata! Cominciò a tremare dalla rabbia, e senza accorgersene trovò nel Cardinale un alleato per sapere la verità, e per sputare in faccia a Benjamin e a tutta quella

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stupida equipe di ricerca. Solo si tratteneva nell’ esprimere tutto il suo disgusto per quel lavoro davanti al Cardinale.

“Quindi il signor Tolosa l’ha invitata a titolo personale, non a nome del Vaticano?” domandò Mac Collough.

“Esatto. Il telegramma l’aveva ricevuto solo lui, e mi ha fatto credere che fosse anche per me. Mi dispiace per questo equivoco, comunque penso di aver fatto una buona cosa a levarmi di mezzo il più presto possibile. Praticamente subito: fin dall’inizio ho detto a tutti i convenuti che non volevo in alcun modo prendere parte al progetto di ricerca. Non m’interessa”. E poi si stupì nuovamente di quanto le uscì di bocca, sebbene razionalmente sapesse di essere arrabbiatissima per l’intera faccenda, di avercela a morte per lo sgarbo fattole ad arte da Benjamin: “Anche se adesso, lei certo lo saprà già, sono praticamente disoccupata…”.

Aveva l’impressione che una parte di sé, assolutamente incontrollabile, stesse dicendo al Cardinale che adesso era libera per accettare un nuovo incarico di lavoro.

“Mi rincresce, sì. Ho letto tutta la storia sui giornali e sono mortificato per lei. Mi aspettavo che la riconfermassero. Per la verità ho letto anche gli articoli sul nuovo quotidiano on-line del sig. Tolosa. Veramente interessanti:… uhm, originali, direi”.

Grazia sussultò. Provò un impeto di antipatia per il Cardinale.

“Ma veniamo a noi: mi creda, per noi non c’è nessuna difficoltà se ha preso parte alla riunione degli interessati. Il mio dicastero, che sponsorizza il lavoro dell’equipe, non ha mosso obiezione. Anzi, le dirò di più: sono rimasto profondamente colpito dalla piega che hanno assunto gli eventi: una piega per così dire, inaspettata… anche se non c’è nulla di inaspettato per un uomo di fede. Giusto?”.

Grazia fu colpita dal commento del Cardinale. Per non parlare del fatto, poi, che stava intrattenendosi al telefono nientemeno che con il capo della Diplomazia Estera Vaticana. Provava un misto di timore, imbarazzo, piacere nonché nello stesso tempo risentimento: perché lo stupore per quell’insolita telefonata si accompagnava all’idea – sempre più consistente col passare dei minuti – che dal Vaticano la volessero in

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qualche modo raggirare. Ciò che non ci si sa spiegare mette paura. Tale era il sentimento che stava provando Grazia in quel preciso momento.

“Cosa vuol dire?”. Non capiva cosa c’era di inaspettato. Il Cardinale percepì la diffidenza nel tono di voce della

donna, e provò a usare ancora più tatto: “Non voglio metterle paura, signorina”. Decise che era

meglio abbandonare il termine dottoressa, che rendeva la donna distante e diffidente. “Mi sono messo personalmente in contatto con lei perché ho valutato attentamente la situazione, e sono giunto alla conclusione, dopo quanto è successo, che sarebbe meglio che anche lei facesse parte del gruppo di ricerca. E’ un invito ufficiale. Che ne dice: se la sente di accettare?”.

Finalmente Grazia capì: volevano proprio incastrarla di nuovo in quell’odioso gruppo di ricerca.

“Assolutamente no” rispose convinta. “E non cerchi di farmi cambiare idea, Eminenza”. Ora che aveva capito cosa voleva il Cardinale, non aveva alcun problema a chiamarlo secondo la prassi usuale. Anzi, stava cominciando a divertirsi.

Questa volta si stupì il Cardinale, ma si riprese immediatamente e tornò a affondare un altro colpo con incalzante maestria:

“Pensavo che la sua presenza nel gruppo di ricerca fosse un elemento prezioso per tutti”.

“Io penso il contrario” rispose stizzita. Poi le venne in mente un sospetto: “Non è che mi volete dei vostri perché ormai so già parecchie cose su questa presunta Lettera di San Paolo?”

Sentì il Cardinale che rideva, dall’altra parte della cornetta. Nessuno dei due si dava per vinto.

“No, signorina. Non è questo il motivo. Vuole sapere la verità?”

“Certo, ammesso che possa dirmela”. “E’ la pura verità, glielo garantisco”. “Bene, allora la voglio sentire”. “Le cose stanno così: che lei mi creda o no, io vedo le cose

da un punto di vista particolare, del tutto personale. Sono un uomo di Chiesa, perciò vedo i fatti che accadono secondo una

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precisa logica: cioè quella divina. Certo, non posso pretendere che anche gli altri vedano le cose allo stesso modo in cui le vedo io. Ma non importa. Ora, è vero che la lista in questione inizialmente non prevedeva il suo nome, ma poi è successo dell’altro: una specie di errore; il signor Tolosa l’ha invitata. Mi dica lei: è stato uno sbaglio, una perdita di tempo come sostiene lei, od un’interessante novità?”. Ma la domanda era retorica, perché proseguì senza dare alla giornalista il tempo di rispondere. “E’ vero: il suo collega ha commesso una scorrettezza nei suoi riguardi, assumendosi una libertà indebita. Ma io credo che lui abbia agito secondo retta coscienza – badi che questo è molto importante, è il nocciolo di quanto le sto dicendo – pertanto, mosso da quello che io, uomo di Chiesa, chiamo lo Spirito Santo. Vedendo tutto questo, sono giunto alla conclusione che il mio capo voglia anche lei nell’equipe”.

“Il suo capo?” lo interrogò Grazia stupita. “E chi altri, sennò?” Grazia soppesava parola per parola quanto le aveva

spiegato il Cardinale. Poi si decise: “ La ringrazio. E’ tutto perfettamente chiaro. Sta di fatto che io continuo a vedere le cose a modo mio, e non m’interessa affatto la sua offerta di lavoro”.

“La mia è più di un’offerta di lavoro: è una visione di vita”. “Qualunque cosa sia non la voglio. Vuole che le mandi una

rinuncia per iscritto?” “No, no, non ce n’è bisogno. Non è questo che intendevo.

A quanto pare lei è irremovibile”. “Praticamente sì”. Entrambi avevano la sensazione che il duello fra loro fosse

all’epilogo: ora si sarebbe visto chi sarebbe stato il vincitore e chi il perdente. Il Cardinale cambiò schema tattico:

“Allora un lavoro non lo vuole. E’ così? Che altro vorrebbe cercare? Vuole continuare a fare la giornalista? Dopo quanto è accaduto credo che non sia tanto difficile supporre che nessuno più la prenderebbe. Scusi se sono un tantino duro, ma a questo punto diciamoci le cose in faccia, ne conviene?”.

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“Non aspetto altro. Per me va benissimo. Comunque è ovvio: voglio restare nel mio campo, a livello lavorativo” commentò scontrosa.

“Ma chi le darebbe nuovamente fiducia? Chi le darebbe un nuovo incarico? Ormai è sulla bocca di tutti che lei era una simpatizzante del suo precedente ex-direttore. E’ più facile credere questo per la gente, che credere alle sue parole di discolpa”.

“E lei a chi crede? A quello che riportano i giornali, o a me? E mi scusi tanto, ma come può farsi un’idea di come sono andate veramente le cose, se non ha nemmeno mai sentito la mia personale versione dei fatti…”

“Il quotidiano del Vaticano è l’unico che non le ha sputato in faccia. Anzi, riporta una fedelissima presentazione del suo profilo di giornalista e della sua schietta professionalità. Mi basta aver letto quest’articolo. E poi, comunque, ho le mie attendibili fonti d’informazione… ho svolto anch’io le mie ricerche per ottenere referenze su di lei…” lasciò la frase in sospeso, ma era chiarissimo a cosa si riferiva. A Grazia non sfuggì la sottile precisazione.

“La ringrazio della fiducia accordatami. Mi fa davvero piacere. Comunque non cambio la mia posizione. Non m’interessa affatto la sua proposta di lavoro”.

“Ma lo sa anche lei che è un’utopia per ora restare nel giornalismo, con l’aria che tira! Io le offro l’unico modo per fare quello che lei vuole: cioè fare giornalismo serio, senza scendere a compromessi con le testate nazionali. A lei serve un lavoro vero, come quello che io le sto offrendo, che la riabiliti agli occhi degli italiani sfiduciati da come stanno andando le cose in Italia, impauriti dal clima di ferocia che si sta diffondendo tra la gente. Mi dispiace dover tirare fuori queste cose nella nostra conversazione, ma lo sa anche lei che, per quanto lei si ritenga vittima innocente di un enorme angheria, tantissimi italiani stanno credendo più a quanto riportano le chiacchiere di salotto, piuttosto che ascoltare le giuste parole di difesa di un innocente. Occupandosi dell’ufficio stampa della scoperta della Lettera ai Laodicesi, lei potrebbe dimostrare agli italiani quanto è brava ed onesta nel suo lavoro, e che quanto hanno riportato i giornali sul suo

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conto sono solo infami calunnie. Ascolti: io e lei siamo simili. Diciamo tutti e due la verità. E lei questo l’ha capito, non è vero?”.

Grazia sentì che era vero. Qualcosa dentro di lei cominciò a sgelarsi. Gli rispose:

“Sì, lei mi sembra sincero. Ci tengo a dirle, però, che io non sono credente. Ammettiamo per assurdo, s’intende” ci tenne a precisare “che io vi prenda parte, beh, come farei a lavorare in un gruppo che si occupa di una Lettera Apostolica così impregnata di fede e di valori cristiani? E come farei a sopportare della gente così diversa da me? Io non vado in Chiesa come loro, almeno mi pare che loro siano praticanti, così mi è sembrato”.

“Non importa affatto. Lei rimane quello che è, e vedrà che non troverà nessun problema di convivenza. Anche gli altri membri dell’equipe non sono certo tutti santi!”.

“Io non parteciperei nemmeno per tutto l’oro del mondo ad alcuna messa o altro del genere… quelle cose lì, insomma; lei mi intende, vero?”.

“Limpido e cristallino”. Grazia sospirò. Mac Collough era di una schiettezza

disarmante. Era come infliggersi una punizione. In più, se non stava attenta, rischiava per finire di accettare pur di levarsi di torno quella telefonata, pur di scrollarsi di dosso quella presenza così insistente ed inquietante del Cardinale. Anche se lo sentiva solo per telefono, cominciava a percepirne l’enorme tempra interiore. Aggiunse con aria vagamente colpevole:

“Ma io non posso lavorare con voi… non ora”. “Mia cara ragazza” Mac Collough passò all’atteggiamento

paterno, accortosi favorevolmente dei primi segnali di cedimento: “Io ne ho di anni sulle spalle. Mi dia retta: questo lavoro è stato preparato appositamente per lei”.

Grazia non si arrese nemmeno questa volta. Voleva finirla: “Tanto vale che glielo dica, allora: è Benjamin che non posso vedere. Ho intenzione di non avere più alcunché da spartire con lui”. Dall’altro lato del telefono il Cardinale rimase in silenzio, così Grazia proseguì, titubante: “C’è stata una specie di storia, fra noi due, che però ora è finita… se così si può dire… sì, diciamo che è stato un flirt che si è spento ancora

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prima di poter sbocciare” disse per dare l’idea della situazione. Si rendeva conto di stare dicendo la verità al Cardinale. Proseguì: “Ed ora non me la sento affatto di vederlo. Anzi, se potessi lo cancellerei dalla mia vita”.

Il Cardinale continuava a rimanere in silenzio. “Eminenza, è lì?” “Sì, certo”. “Allora, ha capito?” “Certo che ho capito”. “Quindi vede anche lei che io non posso lavorare con

loro…cioè con Benjamin” si affrettò a correggere. Ogni volta che pronunciava il suo nome, lo stomaco le si contorceva.

“Oh, io non mi preoccuperei: a tutto c’è una soluzione”. “Cosa vuol dire?” “Che le propongo di fare a modo mio… non si dimentichi

che io sono un grezzo irlandese, con una discreta pratica delle cose della vita… Ascolti: tra un tipo di strada ed il suo opposto, in realtà c’è sempre una terza via”.

“Quale via intende?” “La via che ha stabilito il Signore… basta scorgerla”. “Ho smesso di andare in chiesa da un bel po’ di tempo,

eccellenza. Non capisco dove vuole arrivare”. “Ma, suo malgrado, il Signore non ha mai smesso di starle

appresso. E Lui sa benissimo dove vuole arrivare”. “Avanti, sia più chiaro: cosa intende?”. “Ho in serbo una proposta che sembra fatta appositamente

su misura per lei”. Grazia sospirò: “Cominci con l’indicarmela, allora, sono

curiosa”. E il Cardinale le spiegò per un buon quarto d’ora tutto

quello che c’era da sapere.

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XXVII Il Palazzo di residenza dei Fischer consisteva in una villa

tardo-rinascimentale ristrutturata dopo l’Unità d’Italia. Si ergeva possente e maestosa sui colli del lago di Bracciano, tra densi uliveti, macchie verde scuro di pini marittimi e chiazze turchesi dei laghetti artificiali che, tutt’intorno al grande lago, fornivano vivai per l’allevamento di anguille pregiate.

Era una casa enorme, con sontuose stanze ricche di mobilio d’antiquariato e arredate con lusso. Possedevano una collezione privata di dipinti dei pittori fiamminghi del Rinascimento, una serie impressionante di porcellane dal 1600 al 1800 perfettamente conservate, due auto d’epoca, una Rolls Royce e una Maserati, insieme ad alcuni arazzi in perfetto stato ereditati dagli antenati.

Tanto spazio e tanto sfarzo erano divisi però tra un esiguo numero di componenti della famiglia.

Il giovane signor Fischer – come lo chiamavano i domestici – occupava da solo l’intero piano superiore (quello con l’enorme terrazza). Dato che aveva perso entrambi i genitori quando era ancora un bimbo in fasce, viveva con i parenti rimasti. La zia, vale a dire la sorella di suo padre, lo degnava di amorevoli premure, condite purtroppo con l’idea che il giovane e bel nipote fosse in qualche modo “malato”. Non si spiegava altrimenti il carattere ombroso del ragazzo, le sue prolungate assenze (per lavoro, diceva il rampollo Fischer, ma che fosse vero?), le sue pochissime parole, il suo riserbo al limite della scontrosità, come se lui le tenesse nascosto qualcosa volutamente. Perciò era più che naturale che sospettasse che il giovanotto avesse qualche tara mentale, e si comportava in modo tale che Martin aveva perfettamente capito cosa le passava per il cervello.

I nonni erano più di là che di qua – come si suole dire – e il rapporto tra loro ed il giovane nipote mutava drasticamente a seconda che seguisse l’asse nonno-nipote, oppure nonna-nipote: nel primo caso c’era una specie di guerra aperta perché i due non si potevano soffrire; mentre nel secondo caso c’era un’alleanza pressoché inscindibile dovuta ad affinità di carattere e di vedute. Poi c’era una sorella che viveva in casa

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con un bambino di dieci anni, dopo che era stata lasciata dal marito quando lei era rimasta incinta. Non si era mai capito se il marito l’avesse lasciata perché il bambino non era suo, o se fosse perché – più semplicemente – non voleva mocciosi fra i piedi. Sta di fatto che la poverina (si chiamava Lia) viveva quasi sempre chiusa nelle sue stanze al pian terreno, incollata spasmodicamente al suo figliolo come l’edera sta avvinghiata al muro che la sorregge. Non si capiva se era il figlio a sorreggere la madre, o piuttosto viceversa.

Attorno alla villa padronale sfilavano ettari ed ettari di vigne e di oliveti, coltivazioni di tabacco e vari appezzamenti di alberi da frutta: nell’insieme tutti questi terreni rendevano così bene che i loro proventi bastavano a coprire le spese di una villa così enorme. Come ciò non bastasse, la villa veniva affittata per cerimonie, mostre, spot pubblicitari, riprese cinematografiche ed altro del genere, ed in più una parte era anche aperta al pubblico, cosicché i proventi di tanta lucrosa amministrazione finivano nelle tasche dei Fischer; o meglio, si tramutavano in copiosi depositi bancari i cui movimenti erano controllati rigorosamente dall’ufficio-contabilità della famiglia, il quale era situato in una stanza al primo piano della villa ed era vigilato dal giovane Fischer in persona.

Infine c’erano i laghetti per la coltivazione di trote, uova di salmone e anguille. E quei proventi finivano dritti a sponsorizzare le ricerche archeologiche sempre del giovane. Zia e sorella si limitavano a mandare aventi l’enorme casa, a gestire – per quel che potevano – il patrimonio (mobiliare ed immobiliare), e soprattutto a spiare di nascosto le mosse del primo erede maschio in ordine di grado di parentela, cercando di capire quel che gli frullava per la testa. E a proteggere il pronipote, il figlio di Lia, sperando – un giorno – che questi potesse rimpiazzare il debole, malaticcio, depresso, stralunato nipote.

Martin si trovava al primo piano della villa, seduto alla scrivania in stile ottocento del suo studio. Le pesanti tende di velluto color porpora erano fermate ai lati da grosse fasce di seta, per permettere al sole di mezzogiorno di entrare nella stanza e di spandersi tutt’intorno.

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Quella mattina si era alzato più presto del solito, facendo prendere un bello spavento a zia e sorella che stavano facendo colazione nella sala grande, quando se lo videro comparire vestito di tutto punto in mezzo a loro, così repentinamente che non osarono domandargli se dovesse andare da qualche parte, o dovesse sbrigare non si sa quale incombenza. Solo suo nipote lo salutò allegramente con un gioviale: “Ben svegliato, zio Martin!”.

“Buongiorno, David” sorrise Martin scompigliando i capelli al nipote. C’era intesa tra di loro.

Poi la vista di zia e sorella lo fecero ripiombare nella sua abituale apatia.

Martin bevve del succo d’arancia e scelse una fetta di torta di mele dal carrello dei dolci, poi trangugiò uno yogurt magro ed infine un frutto.

Quando fu pronto uscì. Le due donne lo scrutarono per capire se quella mattina stesse più male del solito, ma lui non badò a loro, ricambiò i saluti di suo nipote e s’incamminò verso l’ingresso. Naturalmente sapeva benissimo di non essere malato, anzi, di non avere assolutamente niente di spaventoso, orrendo o impronunciabile. Ma era talmente difficile spiegarlo alle due donne, e soprattutto convincerle, che da un pezzo vi aveva rinunciato e lasciava che pensassero quello che volevano. Anche perché in questo modo – si era reso conto – s’intromettevano di meno nella gestione dei beni di famiglia. Probabilmente lo lasciavano fare, aspettando che gli capitasse il fatidico crollo psichico e che venisse internato in qualche ospedale psichiatrico, così da lasciare a loro il controllo sull’intero patrimonio. Ma tanto lui sapeva che quel giorno non sarebbe mai arrivato.

Ora, comodamente intronizzato nel suo ufficio, stava controllando alcune fatture che avrebbe dovuto consegnare all’ufficio contabilità, che consisteva in un unico dipendente nella stanza accanto ed il cui compito era quello di catalogare, archiviare, registrare e via dicendo l’innumerevole mole di pratiche derivanti dalla gestione dei beni della famiglia Fischer.

All’improvviso fece irruzione il nipote gridando a gran voce:

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“Zio, zio, accendi subito la TV: stanno assaltando la Borsa, lo ha detto il nonno!”. Dietro di lui, infatti, arrancò un vecchio stanco – che a onor del vero era il bisnonno del bambino – che aveva tutta l’aria di un fantasma talmente era magro e malridotto. Tuttavia conservava nei modi di fare un po’ di quella irruenza che doveva avere avuto in passato, perché appena entrato nella stanza rimbrottò il nipote adulto:

“Martin, sbrigati ad accendere. Il paese è nel caos: hanno appena preso d’assalto la Borsa Valori a Milano. Potremmo perdere una gran fetta di soldi nel giro di mezzo minuto! Le azioni staranno precipitando a livelli mai visti da un secolo a questa parte!”, disse tutto d’un fiato, e poi sprofondò nella poltrona di chinz di fronte alla scrivania di Martin, aspettando di guardare lo schermo gigante che campeggiava sulla parete a fianco. Sulla faccia era stampata un’espressione peggio che da funerale. Il nipotino si sedette anche lui sull’altra poltrona che era in coppia con quella su cui stava il bisnonno, e tutti e due puntarono gli occhi su Martin.

Lui digitò immediatamente una serie di comandi sul video del computer, e lo schermo ultrapiatto sulla parete vicina prese a mandare immagini di una piazza invasa da centinaia di persone inferocite che cercavano di entrare nell’immenso edificio della Borsa Valori di Milano. Martin non aveva detto una parola nel frattempo, stava guardando anche lui il resoconto del telegiornale speciale trasmesso in diretta sul primo canale delle reti televisive di stato. Il suo viso si era fatto d’un tratto serio e cupo, come se non fosse preoccupato tanto per i soldi della famiglia che in quel momento potevano stare sfumando alla velocità della luce, quanto per qualcosa d’altro. Infatti disse:

“Nonno, stai calmo per favore. E’ un fatto grave, senza ombra di dubbio. Ma da qui ad allarmarsi così tanto come stai facendo tu… del resto non hai mai capito come funzionano le leggi del mercato. Mi domando come avresti fatto a fare fortuna se non avessi avuto la nonna accanto a te che ti diceva come investire, mossa per mossa! Comunque fidati di me e non perderemo un centesimo, anzi…” e una smorfia crudele apparve sul suo bel viso riposato, quel martedì mattina che era

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già stato ribattezzato dallo speaker della TV il “martedì nero” d’Italia.

Intanto le immagini continuavano a fluire sul grande schermo dello studio. Ben presto anche il responsabile dell’ufficio contabilità che stava nell’altra stanza accorse di lì, richiamato dalle notizie ad alto volume che aveva sentito attraverso la parete.

“Ho sentito… è terribile, signor Fischer… quello che sta succedendo… non capisco come può essere avvenuto…”. L’uomo parlava al vecchio senza guardare il Fischer giovane, ma poi si voltò dalla parte di quest’ultimo, che non era poi così tanto preoccupato, e riprese: “E anche per lei, mi dispiace… un altro pensiero gravissimo si aggiunge a quelli che ha già… questo proprio non ci voleva, chissà come può essere avvenuto, insomma, ma nessuno se lo aspettava, diavolo mondo?”.

Martin non si curò di tutto quell’allarmismo, e in segno di risposta non si premurò d’altro che di muovere il braccio destro in un gesto scocciato, come quando si cerca di uccidere una mosca. Il bambino sorrise all’esclamazione colorita dell’uomo della contabilità, anche se respirava la crescente tensione nell’aria. Tutti rimasero incollati al teleschermo a sentire le informazioni preoccupanti dalla diretta del reporter. Una logo campeggiava sulla sinistra dello schermo, raffigurante l’edificio della Borsa Valori con sopra la scritta: “Martedì nero”, ed una striscia in basso in sovrimpressione compariva continuamente, aggiornando le notizie. In quel momento si poteva leggere: “Ore 11.58: assalto alla Borsa. Lo scenario è impressionante: finora le stime parlano di 15 feriti gravi e un numero imprecisato di contusi. Ma le cifre cambiano in continuazione”, e la voce concitata e frettolosa dello speaker che riportava i fatti: “Poco prima di Mezzogiorno un gruppo di giovani uomini – probabilmente disoccupati da lunga data – ha sfondato in segno di protesta la porta a vetri della sede della Borsa di Milano. Quella che doveva essere, però, solo un’azione dimostrativa – e di questo ne siamo sicuri – si è trasformata invece in una ressa caotica e impetuosa, aggravata dall’insorgere all’improvviso in aiuto dei dimostranti di centinaia di persone malcontente a causa

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della crisi economica che imperversa nel nostro paese: lavoratori che sbarcano a fatica il lunario, padri e madri di famiglia, giovani disoccupati, immigrati, clandestini, donne sbucati fuori letteralmente dal nulla e che si sono lanciati dentro il palazzo a distruggere tutto. La polizia sta cercando di frenare l’ondata distruttiva di questi pazzi scatenati con il lancio di lacrimogeni e con gli idranti, ma è incredibile come alla scia di gente che cade a terra colpita dalle manovre della polizia, si aggiunga subito un numero ancora maggiore di manifestanti. E così facendo cresce di minuto in minuto l’oceano di folla che si sta spingendo dentro la borsa. Ormai è tutto un tumulto in cui si faticano a distinguere i ribelli dagli agenti; letteralmente impossibile svolgere qualsiasi attività dentro l’edificio: al piano terreno – lo si capisce dai rumori, dalle urla della gente e dal passaparola dei rivoltosi – moltissimi computer vengono gettati a terra con foga inaudita e distrutti. Gli operatori di borsa vengono picchiati, i monitor colpiti con ferocia bestiale, il cartellone gigante che campeggiava nel mezzo del palazzo è stato ripetutamente sventrato con una serie di spari da armi da fuoco rubate alla polizia.

Il cronista che vi parla in questo momento è al di fuori del palazzo, protetto da un cordone di poliziotti che difende tutti gli addetti-stampa presenti qui a riferire dell’attacco sconvolgente ed imprevisto. C’è costernazione e paura nella gente tutt’intorno: i milanesi corrono in aiuto dei poliziotti, per incoraggiarli, sostenerli, mettersi in mezzo a loro e difenderli; purtroppo arrivano anche a picchiare i manifestanti, e questo certo non aiuta alla cessazione delle ostilità. Intanto sono arrivati precipitosamente anche Carabinieri e Guardia di finanza in aggiunta al già tempestivo intervento della polizia. Eppure altra gente intemerata corre all’attacco, schierandosi con i rivoltosi: è incredibile! Sembra che non abbiano paura di venir arrestati dagli agenti che sono sul posto: anzi, si divincolano, urlano, e purtroppo piombano su di loro soverchiandoli. Ci duole dirlo ma è così: purtroppo c’è pericolo per i poliziotti; la calca disumana si sta moltiplicando con ritmo impressionante: la proporzione è di tre o quattro ribelli per agente, è difficile

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fermarli anche usando i getti degli idranti, i gas lacrimogeni ed i manganelli. Alcuni facinorosi riescono a impossessarsi delle armi da fuoco dei poliziotti e le portano all’interno o se le passano tra loro. Ecco, mi dicono dalla regia che a Palazzo Chigi il governo si sta consultando febbrilmente col capo dello Stato – che ricordiamo è anche il capo delle Forze Armate Italiane - per decidere se mandare sul posto anche l’Esercito, oppure no. Al Quirinale, nel frattempo, si fa sapere che è meglio che gli italiani stiano al sicuro nelle proprie case e che non scendano in strada a sostenere le forze dell’ordine che sono già ben equipaggiate; naturalmente il Presidente è in stretto contatto con il primo ministro e si sono messi in video-collegamento permanente sulla linea apposita.

Ma, ecco, un attimo: dall’interno dell’edificio provengono anche spari, adesso. Tutti noi cronisti siamo incollati alle finestre che stanno andando in frantumi per cercare di captare qualche urlo disperato, qualche grido che serva per farci capire cosa sta succedendo all’interno. Intanto è difficile anche per noi perché piovono schegge dall’alto, e i poliziotti ci avvertono di tenerci bassi per evitare pallottole impazzite. E’ difficile capire cosa stia succedendo e stia avendo la meglio, se i rivoltosi o gli agenti dello Stato. Se soltanto mezz’ora fa qualcuno avesse prospettato lo scatenarsi di tutto questo inferno, vi giuro non gli avrei creduto. Nessuno di noi capisce quale sia stata la molla che ha fatto sì che normali cittadini – o tutt’al più tranquilli irregolari – in un attimo di follia (o lucidità per loro?) si siano trasformati in belve scatenate e si siano scaraventati con una furia impressionante su un edificio che, in effetti, può rappresentare simbolicamente il centro di quel sistema economico che li affama. E’ vero che l’economia sta andando male in questo frangente, è vero che le stelle spezzate stanno portando caos e scompiglio nel nostro paese, è vero che il governo che era praticamente caduto si è rimesso all’opera soltanto per questa emergenza. Ma da qui a scatenare questo inferno ci vuole una vera e propria volontà distruttiva, un odio feroce per le istituzioni, un malcontento che rasenta il disprezzo degli altri e la follia. Italia: dove stiamo andando?...”

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Martin spense lo schermo. Di scatto tutti gli altri tre presenti nella stanza si voltarono verso di lui stupiti.

“Che cosa ti è saltato in mente? Accendi subito!” gli urlò il nonno incollerito. Era pallido e cadaverico come un cencio, tutto tremante. Era evidente che la notizia dell’assalto gli aveva messo in corpo una tale paura che, gli pareva, poco mancava che potessero piombare in casa a portare via i suoi averi.

Anche il nipotino gli scoccò un’occhiata significativa, e il contabile si limitò a sgranare gli occhi incredulo, ma non disse nulla. Come già le due donne di casa, anche lui aveva paura del signorino Fischer. Nel frattempo anche la zia e Lia si erano unite al gruppetto in salotto, ansiose fino alla punta dei capelli, e stavano guardando anche loro le terribili immagini in diretta.

Martin replicò calmo: “E’ tutto a posto. State tutti calmi. E’ solo una rivolta; terribile sì, e paurosa: come dire di no?! Ma al giorno d’oggi tutto il mercato finanziario è collegato in rete. Non serve a niente entrare nella Borsa di un paese e sfasciarla, quando le azioni di quel paese non si trovano fisicamente in quel posto, ma nei computer di tutto il mondo, prodotte dalle imprese e dai servizi fornitori di tali ricchezze. Quella gente consiste solo in un branco di stupidi imbecilli. Certo che ci sta facendo un favore enorme…”. E poi rivolto al suo contabile: “Compra immediatamente un bel po’ di azioni di queste imprese che adesso ti dirò”. E si chinò immediatamente a redigere una non breve lista di nomi.

Al vecchio Fischer ci vollero alcuni minuti di tempo per capire le mosse del nipote, ma quando tutto gli fu chiaro e gli si materializzò in testa l’idea di cosa aveva intenzione di fare Martin, si buttò d’impeto sulla scrivania per prendergli la lista. Ma Martin si tirò indietro velocemente e lasciò che il vecchio sbattesse contro il mobile.

“Io non ti do il permesso di fare una simile infamia!” tuonò incollerito il vecchio. “Adesso che è un momento estremamente difficile e precario per il nostro paese, tu… tu fai una simile porcheria!” e batté il pugno sul tavolo. Ma Martin si era già alzato e stava continuando ad allungare la lista, scrivendo in piedi appoggiandosi al vetro della finestra.

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Tutti gli altri erano sbigottiti. Il contabile aveva capito, ma non osava interferire. Zia e sorella erano impietrite, incollate alla parete come fossero dei soprammobili. Il nipotino non capiva e guardava ora il bisnonno, ora lo zio.

“Calmati, nonno” rispose naturale Martin. “Parli proprio tu che mi hai sempre detto che questo non è il nostro paese, e che mi hai fatto promettere di accrescere il capitale di famiglia. Che fai, ora: ti tiri indietro? Vuoi davvero che le nostre azioni precipitino sempre più in basso, insieme a quelle di questo paese le cui ricchezze sono solo il sole, la terra da coltivare, e un sacco di vecchi ruderi? Eh, allora, non è sempre quello che andavi dicendo tu stesso? O adesso cambi bandiera, solo perché ti fa comodo?”

“La mia terra è Israele. Lo so. Ma io vivo in Italia e mi considero anche italiano. Sei tu che stai disonorando la nostra famiglia, volendo comprare azioni che adesso valgono poco, solo per rivenderle dopo ed arricchirti. Vuoi speculare sulla debolezza del paese! Ma in questo modo stai ammazzando anche tu l’Italia! Sei come quei farabutti che sono entrati nella Borsa per farla a pezzi…! Non te lo permetterò!” gridò, e così facendo attraversò la scrivania da un lato e si gettò sul nipote per afferrargli la lista. Ma Martin fu ancora una volta più veloce: spinse il contabile da un lato, mettendogli in mano la lista, e gli intimò sottovoce: “Fai come ti dico, o sei finito! Col vecchio me la vedo io”. Quello si levò di torno in un battibaleno.

Il vecchio cadde male su un piede e lanciò un grido. Lia gli si avvicinò biascicando un “Nonno, stai bene?”, e cercò di sostenerlo. Ma quello non si diede per vinto, si attaccò con una mano al pesante tavolo da lavoro di suo nipote e con respiro affannoso continuò l’accesa discussione:

“E’ così che ti ho insegnato, per caso? Eh? Rispondimi, sciagurato!”

Martin lo guardò di traverso con un sorriso beffardo: “Ah, mi hai insegnato qualcosa, forse? Perché non ricordo: mi pareva che fossi troppo impegnato in politica per starmi dietro… mi pareva ci fosse la nonna con me tutti i pomeriggi, quando tornavo da scuola. E sai chi mi correggeva i compiti e mi faceva lezioni di algebra, ragioneria e contabilità? Ma

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guarda un po’: sempre la nonna… e chi mi preparava da mangiare? Aspetta, non ricordo: era la nonna, per caso? E dov’erano mio padre e mia madre, se non con te, quando li hai convinti a venirti dietro in Palestina e lì sono saltati in aria su quella mina! Oh, so già quello che stai per dirmi: c’era la guerra: loro sapevano di mettersi in una situazione pericolosa… beh, non m’importa un fico secco! Chi di noi due ha commesso più del male allora? Io che sto comprando delle azioni per poi rivenderle, o tu che hai permesso che i miei genitori morissero in quella dannata terra che non conosce pace?!”. Martin aveva gli occhi iniettati di veleno e le mani strette a pugno chiuso. Sua sorella pensò che stesse per mollare un pugno al nonno, e gli si piazzò ancora più vicino per proteggere il vecchio.

Quegli lo guardò per un attimo in silenzio, debole per la sua vecchiaia, ma perfettamente lucido di spirito, e parlò di nuovo con autorità:

“Tu mi accusi di una colpa che non ho. I vostri genitori sono mancati in un terribile incidente, che nessuno poteva prevedere. Neppure ai servizi segreti israeliani era giunta notizia di quel pericolo. Vedi: continui a darmi la colpa di un fatto che ci ha segnato tutti in famiglia, è inutile negarlo… eppure io ne soffro quanto te. E’ mio figlio che è morto, il mio unico figlio. E anche tua sorella è rimasta senza i suoi genitori, e non l’ho mai sentita lamentarsi come te… Per quanto riguarda le azioni che ti accingi a comprare ad una cifra ridicola per poi rivenderle sicuramente non allo stesso prezzo, tuo padre non ne sarebbe per niente fiero… lui si batteva per riportare la giustizia e l’ordine nella sua amata terra, a Gerusalemme. Possedeva un animo retto e nobile, che non si macchiava certo di azioni immorali come quella che tu stai facendo adesso, in questo momento”.

“Non tiriamo in ballo i sentimenti, per favore!” tuonò Martin con una furia tale da sembrare impazzito. “Tu non puoi farci niente se ora, di fatto, il patrimonio lo controllo io; e ogni volta continui a volerti intromettere! Quand’è che la smetterai, una buona volta?! Ma guarda un po’, forse hai bisogno che ti vengano rinfrescati i fatti: allora, la storia comincia così: il Fischer patriarca emigra in Italia e sposa una ricca ereditiera,

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anch’essa ebrea. Visto che il patrimonio di famiglia continua ad amministrarlo lei, lui si ributta negli stessi ideali patriottici a causa dei quali i palestinesi volevano ammazzarlo e che lo hanno costretto all’esilio… poi gli nasce un figlio: mai e poi mai qualcuno avrebbe potuto prevedere che il sangue dell’unico figlio maschio sarebbe stato versato al posto di quello del vecchio padre, una volta che il figlio e la nuora si fossero inventati di seguire il vecchio che faceva ritorno a Gerusalemme, andando incontro ad una fine dolorosamente imprevista… i due genitori avevano a loro volta due bimbi piccoli, poverini, rimasti prematuramente orfani. Il vecchio, dilaniato dai sensi di colpa, non ha il coraggio di crescere i due piccini, e li demanda alla gestione inossidabile della moglie, che fino a quel momento ha dimostrato una spiccata capacità di gestire ed accrescere i beni della famiglia. Ma io e mia sorella non siamo precisamente dei “beni”, non trovi? Lei fa quel che può, certo, ma è da sola… E infine veniamo alla gestione del glorioso patrimonio, che ha permesso al vecchio di oziare dietro ai suoi interessi politici. Quando venne il tempo stabilito, la nonna passò tutte le carte nelle mani del suo unico nipote maschio maggiorenne, che sarei io.

Ecco, vedi: i soldi vanno verso di me, non tornano da te…!”.

“Tua nonna non si sarebbe mai inventata una clausola simile, se solo avesse saputo come l’avresti usata!” inveì il vecchio.

“Invece peccato che la nonna si fidi di me e che io sia il vostro solo primogenito rimasto, vero nonno?! E mi pare di aver capito che gli ebrei hanno un debole per i figli primogeniti…” sibilò velenoso come un cobra. “Anche se in questo caso dovrei dire nipote primogenito”.

Il vecchio si infuriò ancora di più, e tremando di rabbia rispose: “Tu non sai cosa stai dicendo…”, ma la frase gli morì sulle labbra. Troppo era il dolore che stava provando.

“Adesso basta, nonno. Mi hai stufato. Mi stai facendo sprecare tempo prezioso…” disse Martin sbuffando.

Il vecchio gli scoccò un’occhiata profonda, poi disse a voce bassa, ma in modo che il giovane nipote potesse ancora sentirlo: “Fai attenzione! Io dal canto mio prego il Santo e

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l’Onnipotente che non abbia mai a maledirti. Ma stai in guardia: anche se io non leverò un dito contro di te, guarda che non accada che sia invece l’Onnipotente ad abbandonarti. Quella è la peggior disgrazia che possa capitarti!”.

“Stai tranquillo, a questo ci penso io” rispose secco e annoiato. Il vecchio per un attimo gli gettò uno sguardo di commiserazione, ma poi trasalì, si scrollò nelle spalle e guardò il giovane nipote come sempre. Poi disse a Lia: “Accompagnami in camera mia, voglio seguire con i miei occhi i fatti di Milano. Qui non c’è posto per me”. E aiutato dalla nipote, uscì con passo incerto dalla stanza senza mai voltarsi indietro. Nemmeno Martin lo degnò di una sguardo.

Martin tornò a sedersi dietro la sua scrivania e riaccese svogliatamente lo schermo gigante: “Senza dubbio abbiamo sottovalutato il malcontento della gente, ed ora che il governo non può fare niente, l’angoscia attanaglia ancora di più gli italiani; non ci resta che confidare nelle consultazioni del Presidente…” lo speaker stava intervistando il solito politico di turno. Martin distolse disgustato lo sguardo dallo schermo e si voltò verso la zia che era rimasta ancora lì, paralizzata sul fondo della parete, a fissarlo:

“Puoi andare anche tu, zia” le intimò. “Qui è tutto finito. Non c’è altro da fare”. Quella si scostò dalla parete e cominciò ad incamminarsi verso la porta in tutta fretta, quando giunta sulla soglia il nipote la richiamò a voce alta: “Un attimo, zia”. Quella si bloccò. Lui le parlò di nuovo, sempre guardandola di traverso, col solito sorriso beffardo sulle labbra: “Sai niente se il tuo meraviglioso primario mi ha fissato un nuovo appuntamento?”.

“Il dottor Cespi, vuoi dire?” “E chi altri, sennò? Per Albrigi io non ho assolutamente

nulla, ma tu dai ascolto soltanto a quell’altro…”. “No, Martin. Il dottor Cespi non ha più chiamato da un

mese”. E detto questo, uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Martin continuò a fissare la porta chiusa con l’aria soddisfatta.

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XXVIII Il giorno stesso della presa della Borsa Valori si scatenò il

panico in Italia. Tutti ebbero la netta sensazione che nulla sarebbe più stato come prima. Si cominciò a definire quanto era accaduto con perifrasi tipo l’ “assalto alla Bastiglia italiana”, immagine che gli italiani capivano benissimo dato che tutti nelle scuole avevano studiato la Rivoluzione francese; e che cioè la gloriosa prigione d’oltralpe costruita per rinchiudere i più malfamati galeotti e criminali francesi, nell’Italia del XXII° secolo aveva assunto le fattezze marmoree della Borsa Valori. Solo che i nuovi disgraziati e disperati erano gli italiani stessi, quelli appartenenti alle fasce più deboli e precarie della società, che si sentivano letteralmente prigionieri del sistema bancario e delle regole dell’economia, entrambi imposti da Bruxelles. Anziani pensionati, famiglie povere costituite sia da italiani che da immigrati, giovani che andavano avanti con lavori saltuari e che non vedevano vie d’uscita alla loro misera condizione, padri di famiglia disoccupati che non riuscivano più ad inserirsi nel circuito lavorativo, giovani madri e padri divorziati che stentavano ad arrivare a fine mese, stranieri clandestini (e non) che vivevano alla giornata, con magri lavoretti o con piccoli espedienti più o meno illegali.

Le scene della folla urlante, imbestialita che con spranghe, bastoni e coltelli premeva per entrare dentro l’edificio e che poi fracassava, spaccava ogni cosa che le capitava a tiro avevano fatto il giro del mondo. Radio e reti televisive si erano immediatamente sintonizzate per trasmettere notizie su ciò che si stava compiendo sotto gli occhi inermi di milioni di italiani che, incollati al teleschermo dal luogo dove si trovavano, chi in casa, chi nei posti di lavoro, chi negli ospedali e nelle case di degenza, chi nei grandi centri commerciali, chi nelle scuole, stavano contemplando con profondo sgomento quelle scene che mai avrebbero immaginato di vedere. In effetti tutti i commentatori di radio e televisioni non riuscivano a spiegarsi come una cosa simile si fosse potuta scatenare. Se qualcuno l’avesse predetta anche solo il giorno prima, nessuno vi avrebbe creduto. In un paese

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così civile come l’Italia, si diceva in continuazione, che vantava una lunga storia di democrazia alle spalle, che sì, adesso versava in una grave congiuntura politico-economica a causa della disoccupazione al 25 percento e delle nuove regole dell’economia e dello stato sociale imposte da Bruxelles… sì, il malcontento delle fasce povere della popolazione era comprensibile; ma da qui ad arrivare ad una simile rivolta di massa, che – le notizie si accavallavano una dietro l’altra – era stata sicuramente orchestrata dietro le quinte da qualcuno a cui tutto ciò giovava molto, ebbene la cosa destava viva preoccupazione. Per tutti: per le forze dell’ordine coinvolte nel sedare gli insorti, per il governo e i partiti del Parlamento tutti unanimi nel dissociarsi da quei pazzi scatenati; per la gente normale colta alla sprovvista, minacciata nel suo più sacrosanto diritto alla sicurezza.

Si sa che l’odio genera altro odio. Di fatti la reazione dell’ ingente fetta di società sana non si fece attendere. Nonostante i vari, molteplici richiami delle più alte autorità civili e militari a non intervenire, per non interferire con il lavoro già di per sé difficilissimo delle forze dell’ordine e dell’esercito, gli italiani che non si sentivano dalla parte “defraudata” della società, passarono subito al contrattacco; come reazione immediata alla brutale ferocia dei dimostranti si scatenò la reazione delle persone lì intorno che uscirono dalle proprie case, dai posti di lavoro, dai negozi e da ogni dove per aiutare donne innocenti cadute a terra, bambini atterriti in preda al panico, anziani in difficoltà; e soprattutto per andare a impartire una lezione a quella specie di bestie (tali erano considerati i vandali) che avevano incominciato tutto ciò.

Dopo le immagini dei poveracci in abiti semplici, dismessi che assaltavano la Borsa con spranghe e con pezzi di vetro raccolti da terra, le televisioni proposero le immagini di gente in giacca e cravatta, donne con i tacchi e distinti sessantenni in loden che linciavano gli insorti, tanto che i dimostranti ad un certo punto cominciarono a difendersi proprio rimanendo all’interno dell’edificio; da lì riuscivano a proteggersi meglio. Le forze dell’ordine sostenute dall’esercito avevano il loro bel da fare a distogliere dalla furibonda battaglia i dimostranti accecati dall’odio e i passanti infuriati dalla sete di giustizia e

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di vendetta. Sta di fatto che fu il pomeriggio più lungo che la storia d’Italia avesse mai annoverato dalla fine delle seconda guerra mondiale.

Chi tra i cronisti aveva un po’ più di memoria (certo nessuno poteva ricordarlo in prima persona, a meno di non avere centotrentanni) cominciò a paragonare quanto stava succedendo agli scontri tra le frange della Resistenza e quelle del Fascismo durante la guerra, appunto. Ma erano paragoni che non era buona cosa portare avanti. Per cui dalle direzioni di radio e televisioni arrivarono ai giornalisti calde esortazioni a non fare certe associazioni di idee nei loro commenti, nemmeno per sbaglio.

Certo, qualche voce indipendente per fortuna era rimasta in Italia. Qualche voce coraggiosamente fuori dal coro. Una di queste commentava con trepidazione:

“Amici lettori, fratelli italiani, con sgomento sento il dovere morale di annunciarvi che se non poniamo rimedio – ora e ognuno nelle proprie possibilità – al clima violento di odio che si respira nella nostra società, il futuro prossimo potrebbe riservarci la guerra civile.

E’ successo in Spagna e nella ex-Iugloslavia il secolo scorso, è successo nella mia patria nel lontano 1775, ed è durata otto anni. Può succedere anche qui. E’ inutile che ci nascondiamo dietro la famosa foglia di fico, chiudendo gli occhi davanti a quanto sta succedendo. L’abbiamo quasi scampata più di cento anni fa, alla fine della seconda guerra mondiale. Perché ricascarci proprio adesso? Possibile che la storia non abbia niente da insegnarci? Possibile che gli scontri per il dannato pezzo di pane si protrarranno fino a quando sulla faccia della terra resterà l’ultimo uomo vivente? E’ possibile che tutti noi, anche il più tranquillo e rispettabile lavoratore con il suo completino lindo e la cravatta intonata sia capace di trasformarsi in un perfetto Caino per difendere la pagnotta che giustamente spetterebbe a lui? Perché non si può dividerla a metà?

Quanto succede è tremendo. La guerra civile è una punizione da cui tutti dovremmo pregare che Dio ci scampi. Ormai solo un dio ci può salvare. Ognuno preghi che colui che dall’alto guarda la scena passeggera di questo mondo

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abbia pietà e faccia scampare questa bella patria da una simile evenienza.

Perché quel che ho visto oggi è anche peggio di quanto desiderassi vedere: è facile dire che da una parte ci sono i diseredati, i senza lavoro, i nullafacenti, gli stranieri e altra marmaglia simile, e che dall’altra si schierano in bella mostra gli onesti cittadini volonterosi di lavorare anche 12 ore al giorno, con due lavori sulle spalle e tre mutui in banca. La realtà non è così. Le radio e le televisioni vogliono farci credere allo scontro tra ricchi e poveri, ma io c’ero. Ero in quella piazza, sebbene un po’ protetto al lato di un edificio. E ho visto. Ho potuto osservare con i miei occhi che giovani scanzonati, universitari a vita mantenuti da genitori benestanti, donne irritate dal precariato endemico, o immigrati costretti a lavorare in nero c’erano da tutte e due le parti. Uomini in giacca e cravatta c’erano da tutte e due le parti. Donne con la loro borsa firmata (regolarmente scippata, o strattonata, o persa nella mischia), il loro bell’abito, trucco e pettinatura c’erano da ambedue le parti. Sessantenni calvi, onesti cittadini con quel tanto di pancetta che sa di sana italianità c’erano da tutte e due le parti. Insomma, i mezzi di comunicazione di massa ci vogliono chiudere gli occhi davanti alla realtà. E che cioè il paese è perfettamente spaccato a metà; dove lo spartiacque però non è tra ricchezza e povertà, ma tra chi pensa “rosso” e chi pensa “blu”; sono le idee che definiscono la linea di confine; da che mondo e mondo è sempre stato così: quando le idee passano davanti alle persone, quando hanno la precedenza sul prossimo, di qualunque “fazione” sia, è allora che un paese scivola verso la guerra civile.

C’è troppa rabbia tra le parti avverse, troppi rancori, troppi giudizi avvelenati; c’è un clima di odio troppo maldestramente celato. Chissà perché, l’Italia non è capace di scrollarsi di dosso una volta per tutte l’antichissimo retaggio del conflitto tra guelfi e ghibellini: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Basta rinchiudere i cattivi in prigione perché le cose si mettano a posto da sole. Quale insensata stoltezza!

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Il virus dell’odio è tra noi. E’ già stato immesso nell’aria. Basta sentire come chi è di destra sputerebbe letteralmente in faccia a chi è di sinistra. Dove è qui l’italiano medio, quello in giacca e cravatta? Da che parte si colloca la madre di famiglia? Dove i nostri anziani? La realtà è che sono da tutte e due le parti. Solo che ognuna delle parti ritiene fermamente che la causa di tutti i mali sia da imputare alla parte avversa. E’ questo che fa scatenare una guerra civile. E’ questo che è successo stamani a mezzogiorno.

E ancora: chi assolviamo? Gli sfaticati che hanno dato fuoco alle auto parcheggiate ai lati della piazza perché erano stufi di lavorare in nero, o gli onesti cittadini che quelle macchine le hanno sì comprate con il loro sudato lavoro, ma hanno picchiato a sangue i rivoltosi? Di questi chi è quello che vota destra e quello che vota sinistra? O che vota i nuovi partiti emergenti, la Lega Araba e Fondazione Risorse Nuove?

Di fronte al male siamo tutti uguali. Non abbiamo motivi validi che ci permettano di scusarci, di dire alla nostra coscienza: “tanto io non c’entro”. L’antidoto alla guerra civile è il rispetto per l’altro. Il credere che c’è qualcosa di buono anche in chi non la pensa come me”.

Firmato Benjamin Tolosa dall’Eco Americano

Edoardo aveva appena terminato di leggere sul computer la

pagina on-line di Benjamin, e si stava passando le mani sui capelli sinceramente preoccupato. Si trovava in uno stato di prostrazione generale a causa dell’idea che progressivamente si era fatta strada nel suo cervello: aveva appena assistito allo scatenarsi di forze palesemente oscure e minacciose per l’incolumità stessa del paese. Anche se quest’idea non aveva assunto le fattezze ed i contorni ben precisi della guerra civile dipinta da Benjamin, che pure aveva conferito all’articolo dell’americano una così vibrante intensità, pure si dibattevano nel suo cuore sentimenti contrastanti, ugualmente violenti. Rabbia per quanti si erano serviti della forza per proclamare i loro giusti diritti, pietà per i feriti, i morti ed i familiari delle vittime, incredulità che uno scontro simile potesse essere

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accaduto in un paese civile come l’Italia. Ricordava che i telegiornali mesi prima avevano trasmesso altre scene di violenza simili, da altri stati dell’Unione Europea. Ma di solito si trattava di scontri tra i disadattati, gli emarginati, gli ultimi della società e la polizia. Invece qui la novità, se così si poteva definire, consisteva nel fatto che altra gente era intervenuta a linciare i primi che avevano iniziato. Davvero questa era una situazione nuova, dagli esiti imprevedibili.

In cuor suo Edoardo non era così fermamente convinto come l’americano che il paese stesse scivolando verso la terribile direzione tracciata da Benjamin; ma qualche dubbio da fugare rimaneva sempre. E l’analisi di Benjamin era precisa, puntuale, meticolosa, realistica. Sicuramente più delle televisioni che sembravano tutte essersi messe d’accordo su cosa dire, dato che ogni canale era la fotocopia dell’altro.

Alla sera i morti accidentali erano arrivati a cinque, i feriti ancora un numero incalcolato, si stimava una cifra intorno ad una cinquantina di persone. Numeri ancora in via di definizione.

Il capo dello Stato aveva proclamato il lutto nazionale per il sabato successivo; per quel giorno le autorità contavano di conoscere con esattezza il numero dei morti e dei feriti così, avute le tristi stime dei danni, si sarebbe proceduto ad una solenne commemorazione prima all’Altare della Patria a Roma, poi in piazza del Campidoglio alla presenza delle massime autorità della Repubblica. I funerali invece erano previsti per il sabato pomeriggio nel Duomo di Milano e nella Moschea di viale Omar, in entrambi i luoghi alla stessa ora. Naturalmente tutto sarebbe stato trasmesso in diretta televisiva per l’intera durata della lunga serie di eventi.

Approntare un bilancio preciso era pressoché impossibile: la Borsa Valori ridotta ad un cumulo di macerie, il gigantesco gota degli affari della finanza sventrato per sempre; la pavimentazione dell’edificio e delle strade tutt’intorno devastata dalle schegge dei vetri rotti come mine vaganti finite da tutte le parti, comprese le vie laterali; mattoni sparsi un po’ ovunque, insieme a calcinacci e pezzi di mura crollate; i computer rotti, lasciati in giro per le strade, raccolti precipitosamente dalla gente nel tentativo di aggiustarli e

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tenerli per sé. Le vie intorno alla piazza sembravano vie di guerra con i soliti sciacalli in azione: lo scoppio di bombe-carta aveva incendiato macchine, edicole, rotto vetrine di negozi. Erano stati razziati i negozi stessi, prese d’assalto le banche e i supermercati. Alla sera si poteva assistere ancora al viavai continuo di uomini e donne che passavano di lì per controllare se ci fosse ancora qualcosa da sottrarre.

Il Capo del Consiglio annunciò di voler prendere in considerazione l’idea del coprifuoco, almeno per un po’ di tempo. In modo che non succedessero altri episodi simili di guerriglia urbana. Fu subito rinforzato l’esercito e dato un maggior potere alla polizia e ai carabinieri. Venne creato appositamente un disegno di legge per ammodernare ed ingrandire tre carceri italiane, in previsione degli innumerevoli arresti che sarebbero seguiti.

“Benjamin non ha tutti i torti” commentò Edoardo mentre lui e la moglie, che nel frattempo gli si era avvicinata, leggevano insieme le pagine on-line degli altri quotidiani. “E’ vero che il paese è spaccato e, quel che è peggio, che i politici non sembrano tenerne conto; va bene, la cosa è scappata di mano… ma in fin dei conti è tutta colpa di Bruxelles, diranno per esimersi da ogni responsabilità”.

Laura sorrise. “Sfuggita di mano…” ripeté ironicamente. E guardò di sottecchi il marito, che continuò: “Sta di fatto che per gli stessi reati di pestaggio, linciaggio, furto, etc. ognuna delle due parti vorrà esentare sé stessa dal reato commesso, chiedendo che sia punita solo la parte avversaria. Vedrai che baraonda verrà fuori al momento dei processi! Ognuno dei due schieramenti tirerà in ballo la Convenzione dei diritti dell’uomo, la Carta della Costituzione Europea, il Super-Codice di diritto civile stilato a Bruxelles e così via. Ci sono talmente tante scappatoie che i giudici avranno il loro bel da fare ad emettere il verdetto di colpevolezza per entrambe le parti. E senza contare tutte le pressioni intimidatorie che riceveranno, perché si dimostrino clementi in massimo grado”.

Laura chinò il capo pensierosa. “Sì, credo tu abbia ragione” affermò. “E allora, cosa possiamo fare noi, semplici cittadini che non facciamo direttamente politica, se non eleggendo i

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nostri rappresentanti e partecipando alla vita del paese?” si chiese demoralizzata. Ma non ebbe risposta.

Per tutto il tempo che seguì rimasero in silenzio, cupi, intenti a leggere le varie notizie e commenti che via via giungevano dalla rete televisiva satellitare. Ognuno sprofondato nei suoi tristi, brutti presentimenti. Avrebbero fatto carte false pur di pensare qualcosa di positivo. Così passò la serata.

A chilometri di distanza, dentro altri muri, anche Roberto stava seguendo intensamente in televisione il resoconto dettagliato dei fatti del giorno. Era il momento conclusivo della giornata, l’ora serale capace di riscaldare con la sola intimità degli affetti il cuore affaticato dal lavoro; ma non era il caso di Roberto. La tavola era apparecchiata per due, il televisore sintonizzato su uno dei tanti telegiornali tutti perfettamente equivalenti tra di loro. Lui e Giulia consumavano la cena in silenzio, il ticchettio dell’orologio a muro e il mesto rumorio delle posate era inframmezzato solo da qualche scarno commento ogni tanto. Entrambi avevano facce buie e un’espressione truce dipinta sul volto.

Altro palazzo. Questa volta più suntuoso, praticamente magnifico. Altro televisore acceso, in camera da letto. Il cordless di vetro di Murano sul comodino squillò.

“Pronto?” rispose Martin. “Hai visto?” una voce. “Intendi dire se ho visto quanto è accaduto oggi a Milano?” “E che altro, sennò?” Sospiro. “Certo che ho visto”. “Tu credi quello che credo io?” “Più o meno…sì, credo di sì”. “Secondo te fra quanto tempo?” “Dipende da più fattori, e da come essi si innesteranno

insieme. Diciamo che potrebbe succedere tra poco più di un anno…”.

“In prossimità delle elezioni nazionali?” “Secondo me appena poco dopo. Ammesso che vengano

allo scoperto. Tu sai cosa intendo, a cosa voglio alludere…”.

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“Sì, ho capito benissimo. Allora intesi, può andare bene così. Ah, un’ultima cosa: l’americano. Non può andare sbandierando sulla rete certe cose…”.

“Sì, ho letto l’articolo. Provvederò anche a lui, in effetti anch’io ho pensato la stessa cosa”.

“Per il momento arrivederci, signor Fischer”. “Arrivederci”. Martin riagganciò con una espressione strana dipinta sul

viso. A metà strada tra il disgusto, il tormento e la commiserazione di sé. Scrutò la sua immagine riflessa nello specchio barocco che troneggiava proprio di fronte a lui, lascito di suo padre. Perché quella era la camera di suo padre da ragazzo, prima che si sposasse e passasse nell’altra ala del Palazzo. “Tu cosa avresti fatto, papà …” si ritrovò a pensare, suo malgrado, mentre fissava i contorni nitidi della sua figura riprodotta fedelmente allo specchio. Contemplò sulla parete opposta le fattezze riflesse di un uomo di bell’aspetto, ma il cui sguardo cupo e profondo tradiva rammarico, incertezza. Forse paura. “Nessuno può mai liberarsi del tutto dei propri fantasmi… li può accuratamente nascondere nell’anfratto più remoto della propria coscienza, ma essi non taceranno mai” gli rispose la figura allo specchio.

Altre mura, questa volta le volte gotiche, svettanti di una chiesetta all’interno del Palazzo Apostolico.

Il Cardinale era inginocchiato davanti ad una icona della Madonna con bambino, una raffigurazione prodotta dai monaci del Monte Athos che aveva comprato personalmente quando si era recato a visitare la Grecia e le Meteore moltissimi anni prima; appena l’aveva vista gli era piaciuta subito, era stato amore a prima vista. Ora contemplava l’icona immerso nella preghiera. I suoi occhi azzurri brillavano, tutto il suo essere manifestava l’intima certezza che in quelle mura adorne di storia e di ardenti intercessioni levate al cielo erano veramente due le persone presenti, che si parlavano tra loro.

Il Cardinale rimase così assorto fino a notte fonda.

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MERCOLEDI’ 19 Marzo

XXIX L’appuntamento in Vaticano nel giorno della festa di S.

Giuseppe era stato fissato alle 15.30, presso la segreteria del Palazzo Apostolico. Nel telegramma veniva annunciato che le guardie vaticane avrebbero scortato la comitiva fino all’ufficio del Cardinale Mac Collough, al primo piano del grande edificio.

Il primo ad arrivare in piazza San Pietro fu Benjamin, che questa volta aveva preso l’aereo per fare in fretta. Una volta arrivato sul luogo del ritrovo, si era guardato intorno e alquanto amareggiato aveva constatato che degli altri non c’era traccia, così aveva adocchiato il basamento di una colonna per appollaiarvisi sopra.

Il secondo ad arrivare, alle 14.40, fu Edoardo accompagnato dalla moglie. Mentre Benjamin indossava un capo assolutamente informale, anzi, piuttosto comodo anche se inadatto ad una visita in Vaticano (giubbotto senza maniche imbottito, camicia rosa e jeans neri), Edoardo indossava un elegante completo grigio perla, con sopra un impermeabile che sembrava nuovo di zecca. Laura, invece, aveva una pelliccia che la fasciava morbidamente.

Si salutarono cortesemente, cominciando subito a discutere della situazione politica. Edoardo si congratulò con l’americano per il coraggio dimostrato aprendo un giornale on-line assolutamente fuori dagli schemi rispetto a qualsiasi altro quotidiano nazionale, e lo assicurò che tutto questo non poteva che giovare al bene della nazione. “Speriamo che l’Italia si svegli, allora!” gli restituì il commento Benjamin, con l’aria speranzosa di uno che sta cercando di fare del suo meglio.

Laura non disse nulla, solo ogni tanto guardava l’orologio. Alle tre meno un quarto sbucò da una via laterale Roberto,

che questa volta per l’occasione aveva lasciato a casa la sua pesante giacca a vento blu, per presentarsi invece con una giacca di lana (un po’ antiquata per la verità) indossata su una

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maglia dal collo alto. Per il resto calzava dei pratici pantaloni di velluto scuri. Stranamente Giulia non era con lui.

Si avvicinò al terzetto che nel frattempo si era riunito nei pressi del portone d’ingresso del Palazzo Apostolico, e fece loro i consueti saluti di rito. Spiegò senza scendere tanto nei dettagli che quel giorno la sua ragazza era di turno all’ospedale, e che quindi non poteva essere presente alla riunione. Mentre Edoardo e Laura mostrarono vivo rincrescimento, Benjamin con la consueta espressione giuliva sul volto gli fece notare che dalla sua faccia non si capiva se questo gli dispiacesse, o se invece ne fosse felice. Roberto gli avrebbe dato volentieri un cazzotto in bocca, ma si trattenne. Si limitò a dire: “Giulia ci sarà la prossima volta”.

Poi Edoardo domandò all’americano se la sua ex-collega – ormai si poteva definire così – si sarebbe fatta vedere. Era una domanda più di rito che di sostanza, dato che il professore ne prevedeva già la risposta. Infatti Benjamin prese a spiegare, come Edoardo si era immaginato, che Grazia era un’ottima giornalista, assolutamente scrupolosa, onesta, dedita al suo lavoro anche se sfortunata per la sorte che in questo momento le era toccata, che non provava alcun interesse per il progetto della Lettera ai Laodicesi. Edoardo accennava di comprendere scuotendo il capo su e giù mentre l’altro parlava, rivelando di espletare quella che per lui era una pura formalità, peraltro piuttosto tediosa.

Edoardo però gli lanciò una domanda imprevista: “Le dispiace che non ci sia la signorina Tommasoni?”. Benjamin lo stette a guardare per un momento incerto su cosa rispondere: era ovvio che un po’ di rammarico lo provava, ma che intendesse solo quello il professore? Alla fine Benjamin aprì le braccia in segno di resa e aggiunse: “Non ho potuto farci niente. E’ andata così”. Ma per lui quella risposta possedeva anche altri significati.

Alle tre meno cinque comparve Martin dall’interno del Palazzo Apostolico, lasciando tutti di stucco per come si era materializzato in mezzo a loro. Edoardo, che era troppo stupito – nonché infastidito – per domandare come mai lui si trovasse già all’interno del Palazzo, preferì mantenere un dignitoso silenzio. Roberto gli lanciò uno sguardo di puro

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disprezzo, mentre fu solo Benjamin che osò domandargli: “Cosa ci fai già dentro il Palazzo? Sei venuto a scortarci fin dentro lo studio del Cardinale?”.

Martin gli sorrise compiaciuto, e rispose loro che non c’era nessuna intenzione di scavalcarli, facendosi trovare già all’interno del luogo prefissato per l’appuntamento. Spiegò che era semplicemente andato a fare visita ad una vecchia conoscenza della curia. Ma che tale visita l’aveva ben presto terminata per rispettare l’accordo preso col gruppo.

Edoardo non disse una parola, Laura si limitò a sorridergli e a dirgli: “Riesci sempre a farci prendere un bello spavento, Martin! Tu sì che sai davvero stupirci tutti quanti”. Roberto mostrò di non credergli in alcun modo, conservando il medesimo sguardo di puro odio nei suoi riguardi.

Martin non diede troppo peso alle reazioni dei suoi futuri compagni di équipe e voltando loro le spalle suggerì ad alta voce: “Seguitemi, vi porto dai due sottosegretari del Cardinale. Saranno loro a condurci da lui”. Ma prima di proseguire domandò: “Siamo tutti qui?”, guardando con la punta degli occhi dalla parte di Roberto. Lui se ne accorse benissimo, perché gli lanciò in risposta un durissimo: “Mi sembra evidente”.

Martin scrollò le spalle e disse: “Bene, allora andiamo”. E la comitiva varcò il portone d’ingresso, col beneplacito delle guardie vaticane.

Mentre tutti seguivano Martin, notarono con un certo astio che il giovane sapeva destreggiarsi perfettamente all’interno dei corridoi tortuosi del Palazzo Apostolico. Infatti Edoardo convenne ad alta voce “Ma quante volte sei già stato qui, Martin?”. Lui si limitò ad annuire col capo: “Qualcuna” rispose evasivo. Dava l’impressione di voler stare sulla sue, per questo aveva assunto un atteggiamento riservato e parco di parole.

Li condusse in cima per una possente scalinata di pietra, costeggiata ai lati da uno corrimano di marmo sorretto da una serie di colonnine flessuose. Lungo la scalinata in più punti stazionavano guardie svizzere perfettamente sull’attenti. Giunti in alto scorsero un ufficio con la porta aperta, e immediatamente ne uscirono Kreutz e Wassen. Sembrava che

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stessero aspettando il gruppo. Essi si diressero a salutare i signori Righetti e Benjamin Tolosa, che già avevano avuto modo di conoscere, mentre fecero un semplicissimo cenno di intesa a Martin Fischer, come lo conoscessero già fin troppo bene. Poi si presentarono anche all’unico del gruppo che rimaneva da conoscere, e che a onore del vero se ne stava un po’ in disparte. Entrambi strinsero la mano a Roberto Sperati, con tutta la cortesia e l’affabilità loro possibili.

“Bene, è ora. Sono le 15.30: è meglio che vi conduciamo dal Cardinale, ormai vi starà aspettando” esordì Kreutz, sbrigati quei pochi, semplici convenevoli.

Lo studio del Cardinale era situato in fondo al corridoio, riconoscibile anche dalla targa appesa a fianco della grande porta di quercia scura che recitava: “Responsabile Ufficio Affari Esteri – Card. Joseph Mac Collough”. Solo in quel momento Edoardo si ricordò che la targa sull’ufficio di Kreutz e Wassen riportava invece la scritta: “Segreteria Generale Affari Esteri – incaricati Sigmund Kreutz e Frederich Wassen”.

I due sottosegretari bussarono alla porta, poi senza attendere risposta l’aprirono e fecero accomodare il gruppo nello studio. Pareva che fossero già d’accordo con il Cardinale riguardo alla procedura da adottare in quella circostanza. Infatti fecero disporre tutti su delle sedie preparate appositamente per loro e raggruppate attorno alla scrivania dell’alto prelato, mentre i due sottosegretari si posizionarono impalati come statue dietro i nuovi venuti.

Agli ospiti non rimase da fare altro che fissare lo sguardo sul viso scarno e appuntito che li stava osservando dal momento in cui avevano varcato la soglia della porta, mentre costui se ne stava seduto comodamente al di là della pesante scrivania.

Il Cardinale si alzò in piedi e fece il giro del tavolone ingombrante per andare a salutarli tutti cordialmente, presentandosi e stringendo loro la mano. Tutti ne furono gradevolmente stupiti, e ciò contribuì a metterli a loro agio. Poi il Cardinale tornò a mettersi dietro la scrivania, e attaccò subito il discorso, senza tanti fronzoli:

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“E’ inutile che vi dica quanto sono felice di vedervi tutti riuniti attorno al mio tavolo. In cuor mio ne sono davvero lieto e vi ringrazio della premura che avete dimostrato per la Chiesa, offrendovi di partecipare a quest’incontro, pur essendone stati informati con pochissimo anticipo. Vengo subito al dunque perché non mi piacciono i discorsi troppo lunghi e voglio rubarvi il minor tempo possibile: ebbene, come già sapete siete stati scelti per una specie di missione, per tradurre come meglio potrete – e ci tengo a precisare che ho la massima fiducia nelle vostre capacità, in quelle di tutti quanti” e guardò dalla parte di Roberto come già sapesse che tra tutti loro Roberto era il più titubante, “dicevo, per portare a buon fine la traduzione di una delle più clamorose scoperte religiose di questo secolo.

Avete intuito che sto riferendomi alla Lettera di San Paolo Apostolo ai Laodicesi. Indubbiamente è una grandissima scoperta non solo religiosa, ma anche archeologica, letteraria, storica ecc. ecc. E’ anche fin troppo ovvio affermare che, se la cosa andrà felicemente in porto, voi potreste essere senza dubbio citati nei libri di storia tra gli scopritori ed interpreti di un grandissimo manoscritto della storia dell’umanità. E’ inutile che nascondiamo dietro un perbenismo ipocrita il risvolto sociale di questo progetto: se accetterete, vi troverete con una grossa responsabilità sulle spalle; lo fareste non solo per fare un piacere a me, ma soprattutto perché è un lavoro di altissimo significato e dalle conseguenze remunerative, sotto molteplici aspetti intendo, non soltanto per quanto concerne il lato economico”.

Fece una pausa per far spaziare lo sguardo sui convenuti: erano tutti intenti ad ascoltare con attenzione. Quindi si schiarì la gola, e proseguì di nuovo: “Quello che ora ho da dirvi, accrescerà solo di poco quello che già sapete. Ma è talmente importante che mi meraviglierei se non faceste un salto sulle sedie per lo stupore. Starà a voi, alla fine di quanto vi annuncerò, decidere definitivamente se lavorare per il mio ufficio o lasciar perdere. Siete ancora in tempo per prendere la decisione definitiva, anche se sarei veramente rammaricato se decideste di lasciare tutto.

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Allora, innanzitutto ci tengo a sottolineare che non siete stati scelti da me in persona, ma io a mia volta ho fatto parte di un’equipe un po’ strana, certamente non convenzionale, dalla quale sono usciti i vostri nomi. Io poi ho semplicemente messo il mio placet sulla lista che l’ équipe ha stilato. Ebbene, non vi immaginate chi vi ha scelti?”

La domanda li colse impreparati. Tutti rimasero in silenzio, non sapendo cosa rispondere. Edoardo scrutava attentamente il viso spigoloso del Cardinale, concentrandosi su ogni muscolo della sua faccia ossuta ed incanutita. Laura pareva tranquilla a prima vista, ma ad un più attento esame teneva le gambe accavallate e ciondolava ritmicamente una gamba, segno della tensione nervosa. Benjamin incredibilmente prendeva appunti, probabilmente per deformazione professionale. Roberto, che purtroppo sedeva accanto a Martin e ciò lo rendeva inquieto, faceva di tutto per evitare di guardare anche solo di traverso il suo compagno, mentre anche Martin pareva vagamente allarmato, come non riuscisse ad avere tutta la situazione sotto controllo.

Il Cardinale proseguì, dopo aver preso in mano la lista: “Vedo che non ci siete tutti…”. Si alzò dal suo posto e si diresse verso la finestra, dal quale si intravedeva una grande croce che campeggiava fuori nei giardini vaticani. Per un attimo rimase in silenzio, assorto, guardandola. Sul suo viso comparve un’ombra di tristezza. Poi si rianimò e scandì a voce alta e sicura: “So che siete tutti battezzati, anche il professor Fischer che è ebreo”. Poi si voltò dalla parte di Martin quasi per ricevere conferma di quanto aveva appena detto, e Martin gli fece un cenno di assenso. Tutti gli altri presero a guardare stupiti nella direzione di Martin, perché avevano dato chiaramente per assodato che non ci fosse ombra di dubbio che tutti i membri del gruppo fossero cristiani. Invece ora saltava fuori che uno era sia ebreo (per nascita), sia battezzato (per fede). Incurante di tutte quelle teste girate, il Cardinale proseguì:

“La Chiesa vanta più di duemila anni di storia: se ci pensate bene nessuna istituzione è mai durata così a lungo; e sta durando tuttora, bisogna aggiungere, ad onor del vero. Forse solo qualche antico impero del passato si è spinto oltre i

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duemila anni di storia: penso a quello egizio, o a quello cinese… e via dicendo, voi mi capite.

In tutti questi duemila anni di storia in cui la Chiesa ha vissuto e ha operato per diffondere il messaggio di Gesù Cristo, il suo fondatore vivo ancora oggi, più di una volta è accaduto che la verità su un fatto importante, spesso una verità di fede (cioè un dogma), nascesse inizialmente nel popolo dei fedeli, vale a dire alla base della piramide – per così dire – per poi salire via via nei presbiteri, nei vescovi e infine venire codificato nei concili e nei documenti pontifici. Ad esempio quando si trattò di definire se Gesù Cristo fosse o un uomo, o un dio, o tutte e due, perché in seno alla Chiesa era sorta la disputa sulla effettiva natura di Cristo, fu soprattutto il popolo dei battezzati a difendere la verità storica che Gesù Cristo era vero uomo e vero Dio, un popolo fatto per la stragrande maggioranza di gente semplice, umile ed ignorante. Al contrario occorre ricordare che gran parte della Chiesa tutta (quella ufficiale dei sacerdoti e dei vescovi ) cadde sotto l’influenza dell’eresia di Ario, finendo per professare tesi eretiche. Ebbene, fu proprio da quella gente semplice e finanche troppo ignorante (ma non in materia di fede) che ad un certo punto si eressero come colonne a baluardo della vera fede grandi vescovi che riuscirono a debellare l’eresia ariana attraverso le dispute teologiche culminate nel Concilio di Nicea, del 325 d.C.

Ma sto facendo troppa teologia, non è vero? Beh, lasciamo perdere… Ora, la faccenda è la seguente: bisogna stabilire il valore effettivo della Lettera che è stata ritrovata. Intanto un primo passo è accertarsi se sia vera o falsa, e in questo senso l’apposita commissione che ha già lavorato prima di voi si sarebbe espressa per l’autenticità. E anch’io, sinceramente, la ritengo autentica.

In secondo luogo si tratta di redarre la traduzione integrale del testo: e qui entrate in campo voi con le vostre competenze specifiche, ma non solo con quelle. Mi spiego meglio: poiché abbiamo probabilmente a che fare con un testo pio, per accertarsi dell’autenticità di un simile testo occorrono delle qualità naturali – la predisposizione allo studio dell’archeologia, della teologia, della papirologia, all’uso

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ottimale dei mezzi informatici e via dicendo – ma anche delle qualità soprannaturali che sono soltanto dono della grazia divina, la quale è stata infusa nell’animo del cristiano il giorno del suo battesimo. Come voi già sapete il battesimo è il sacramento più importante che si possa ricevere, più ancora dell’eucaristia o della riconciliazione, perché infonde per la prima volta e in modo irremovibile nell’animo di chi lo riceve quel germe di vita eterna che, sviluppato piano piano, è in grado di trasformare radicalmente una persona: di farla diventare testimone di Cristo, capace cioè di vivere non secondo le regole del mondo, ma secondo quelle dell’unico vero maestro di vita che è Gesù Cristo.

La precedente commissione di esperti era arrivata ad un punto morto: come già vi è stato spiegato dai miei abili espositori” e qui il Cardinale scoccò uno sguardo significativo a Wassen e a Kreutz “tale commissione si è arenata su una parte pur minima di testo – per l’esattezza alcune note a margine del papiro, posizionate proprio sul bordo – risultate incomprensibili. Ciò ha sviluppato un’accesa discussione sul significato del testo e sulla sua autenticità: se veramente è una lettera di Paolo, perché un pezzo di essa risulta indecifrabile? Non se ne capisce il motivo: perché non c’è solo il testo della lettera…? Ma d’altronde se fosse soltanto una copia egregiamente fatta, non si spiegano le qualità del papiro che si è dimostrato risalire a prima del Mille e perfettamente collocabile in Asia Minore, più o meno dove era situata la comunità cristiana di Laodicea. Insomma: qual è l’anamnesi di questo pezzo di papiro? Cosa gli è successo?

E qua veniamo alla mia idea. Visto che l’equipe di esperti teologi e scienziati non si metteva d’accordo, ho pensato di congelarla – per il momento – provando a percorrere un'altra strada. Ho presentato la mia idea a chi di dovere, e ho ricevuto il consenso a sperimentarla. Anzi, ho ricevuto anche gli elogi e gli auguri” ridacchiò contento. “Certo non vi nego che un po’ di remore le ho avute anch’io, ma alla fine ho pensato che, nonostante tutto, era meglio provare. Dunque, ciò che mi ha fornito l’idea è stato il ragionamento seguente: se su verità di fede così importanti come quelle sancite dai dogmi, il fior fiore dei sacerdoti e vescovi non era riuscito a mettersi

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d’accordo (in passato mi riferisco), e soltanto la trasmissione di queste verità in seno alla gente semplice e povera ne ha salvaguardato intatta l’esistenza, perché non applicare lo stesso metodo mille anni dopo, per un fatto che altrettanto genera opposte interpretazioni ? E’ vero che questa Lettera ai Laodicesi non è paragonabile – per importanza – alla discussione che si è sviluppata in seno alla Chiesa riguardo la vera natura di Gesù Cristo, come vi dicevo prima, o ad altre discussioni simili per importanza ed effetto storico, ma il metodo è pur sempre lo stesso. Prendere ciò che fa problema e farlo vivere in una comunità cristiana: dai frutti si riconoscerà l’albero, ha detto una volta il nostro maestro. Se la Lettera è autentica, genererà in mezzo alla comunità cristiana frutti spirituali buoni (mitezza, mansuetudine, timore di Dio, spirito di lode e di servizio, carità…). Se non lo è, cresceranno solo frutti cattivi (maldicenza, aggressioni, violenze e ogni genere di sopruso).

Non voglio che vi sentiate delle “cavie” per il mio esperimento. Voi siete dei cristiani autentici. Non tanto perché fate delle cose grandi, o perché fate bene il vostro lavoro, o siete bravi e cose del genere… Ma in quanto avete ricevuto lo spirito di Gesù Cristo che dentro di voi grida che siete Figli di Dio. Ecco, dunque mi serve una piccola fetta di uomini di buona volontà che riproduca in miniatura e sotto ogni aspetto la natura umana redenta da Cristo, così come appare visibile agli occhi del mondo.

Non devo riprodurre nel vostro gruppo una miniatura della Chiesa pensata in quanto istituzione, vale a dire la chiesa dei sacramenti… cioè, mi serve anche questo tipo di realtà. Ma unita all’esperienza dell’uomo comune, quello che si sente fragile, debole, costantemente tentato dai fatti della sua vita e della storia in cui è immerso. Insomma, intendo dire l’esperienza dell’uomo che ha paura della morte e che sperimenta che solo Dio lo salva dai suoi problemi.

Voi rappresentate una briciola del mare dell’umanità: tutti voi avete fatto esperienza che in certe cose da soli non ce la fate. Che certi pesi da portare sono più grandi di voi”.

E qui il Cardinale si bloccò, guardandoli. “Ad esempio, …” disse rivolto a Roberto Sperati: “lei capisce cosa intendo

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dire?”. Poiché Roberto annuì con la testa, il Cardinale non perse tempo e lo esortò con fare paterno: “Le viene in mente qualcosa, anche un fatto piccolo, che qui tra noi si può dire…” e lo fissò con amorevolezza affinchè parlasse.

Roberto divenne paonazzo fino alla punta dei capelli, cercando qualcosa di appropriato con cui rispondere all’appello del Cardinale. Si stupì di quello che disse quando aprì bocca: “Mi mette paura pensare al mio futuro incerto, ho paura di quello che è successo ieri a Milano e temo di perdere il mio posto di lavoro”. Lo disse con calma, contento in cuor suo di vedere in quel momento la sua vita con quella disarmante chiarezza.

Poi il Cardinale fissò Martin, che parlò tranquillamente: “Mi sono battezzato di nascosto. Nessuno dei miei familiari lo sa. E ho fatto giurare ai miei padrini che neppure a loro sfugga qualcosa davanti ai miei parenti… non so se è una cosa che si può fare questa, o se invalidi il sacramento; in effetti questo pensiero è un’ossessione per me: vorrei dirlo ai miei, ma non ci riesco”. La sua considerazione li stupì tutti. Era come se fino a quel momento non si fossero per nulla conosciuti, e solo allora emergesse un aspetto vero di ognuno di loro.

Quando il Cardinale guardò Benjamin, l’americano rivelò a sua volta: “Io penso di aver fatto male a qualcuno… me ne dispiace. A volte so essere perfidamente crudele”. Roberto pensò in cuor suo che quella definizione calzasse a pennello per Fischer, ma evidentemente l’americano doveva pur conoscersi meglio di quanto lo conoscesse lui, invece. Benjamin in quel momento stava pensando a Grazia, e per la prima volta cominciò a desiderare seriamente che anche lei fosse lì con loro.

Quelle reciproche rivelazioni, generate sicuramente dal clima fraterno che il Cardinale era riuscito ad instaurare fra di loro, costituirono per tutti una gradita sorpresa.

Infine il Cardinale guardò Edoardo e Laura, e Edoardo parlò a nome di entrambi, con serena pacatezza: “Noi non possiamo avere figli… è la nostra croce. Ogni giorno preghiamo che Dio faccia un miracolo, ma è da dodici anni che siamo sposati e non succede niente”.

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Edoardo sospirò e chinò il capo, i suoi modi tradivano un misto di rassegnazione e amarezza.

A tutti parve la rivelazione più sofferta; in un muto abbraccio consolatorio presero a fissare la coppia di coniugi in un modo diverso da prima, provando nel cuore una delicata commozione per loro, ma senza che affiorasse dai loro atteggiamenti il solito trito di melassa compassionevole e di stucchevole compatimento. Laura si sentì di aggiungere: “Non è colpa di nessuno dei due. Semplicemente l’embrione non si annida nell’utero, almeno questo è quello che ci hanno detto i medici”.

Quando tutti ebbero finito di parlare, anche il Cardinale volle intervenire: “Anch’io ho le mie difficoltà, sapete ? Ad esempio provo una intensissima nostalgia della mia terra almeno dieci volte al giorno!”. Anche se lo disse scherzando, i suoi occhi lasciavano trasparire che era vero, e che effettivamente ogni giorno in lui ci fosse un combattimento per non domandare al Santo Padre di essere ritrasferito in Irlanda. Poi continuò: “Ecco, avete visto? Siamo un piccolo campionario dell’umanità: ognuno con delle paure più grandi di lui. Per vivere nella pace, cercando di non dare spazio a questi timori, l’uomo di tutte le generazioni, passate, presenti e future, ha cercato e cercherà Dio.

Ebbene io ho trovato Cristo, o meglio: è lui che mi è venuto incontro, come probabilmente l’hanno trovato anche alcuni di voi. E con Cristo avete conosciuto la Chiesa… Non serve che mi diciate che non esiste solo Gesù Cristo. Lo so benissimo anch’io. E so anche benissimo che ci sono persone che non credono affatto nel cristianesimo. Beh, vi basti sapere che sono libere di credere in quello che vogliono. Per me però è importante che noi conosciamo chi ci libera dalle nostre paure, e che lo conosciamo bene. Il resto verrà da sé.

Bene, torniamo alla lettera. Se la lettera è vera, sarete voi stessi a capirlo perché al momento difficile lei vi aiuterà, rivelando in mezzo a voi i segni della presenza dello Spirito Santo. Sarete voi a stabilirlo, e non la precedente commissione di esperti teologi e scienziati, perché voi avete in più, dalla vostra parte, l’arma delle qualità soprannaturali che possono emergere in pienezza se non prevalgono le altre qualità umane

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che pur possedete. Cioè: vedete anche voi che non ho compilato una lista fatta dal più bravo programmatore, dal più bravo biblista, dal più bravo archeologo e così via. Il loro orgoglio, ad un certo punto, potrebbe accecarli. Ho preso voi che siete bravi nel vostro campo, anche se non i migliori, sperando che le qualità soprannaturali della grazia vi verranno in aiuto al momento del bisogno. E per essere sicuro di questo, ho dato una spintarella alla Provvidenza, Dio non me ne voglia: ho preso delle persone già esperte nel riconoscere i segni abbondanti della grazia che lo Spirito Santo elargisce a piene mani. Voi non riuscite a immaginarvi, vero…?”.

Tutti lo guardarono attoniti. Il Cardinale riprese: “Ora io leggerò l’elenco e voi capirete

subito tutto quanto”. Si staccò dalla finestra alla quale era rimasto vicino fino a

quel momento, e allungò una mano scheletrica quanto un osso verso la scrivania per afferrare il pezzo di carta che poggiava sullo scrittoio. Con l’altra mano parimenti ossuta infilò gli occhiali da vista, che gli pendevano dal collo insieme al cordone scarlatto che reggeva la croce, e fermatosi esattamente di fronte a loro iniziò a proclamare con solennità, come si accingesse a tenere un’omelia:

“In giorno 2 Febbraio del corrente anno si rende noto che i rappresentanti dei maggiori movimenti regolarmente riconosciuti all’interno della Chiesa si sono riuniti di comune accordo in riferimento all’ordine del giorno fatto pervenire alle segreterie di ciascun movimento dal Card. Mac Collough; dopo aver vagliato a ragione e con dovizia di particolari l’argomento presentato dal suddetto responsabile del progetto, ossia il Card. Mac Collough, e dopo aver discusso a lungo circa tutte le piste percorribili onde risolvere l’annosa questione di una traduzione sincera e fedele al testo, i responsabili hanno stabilito all’unanimità di contattare personalmente le seguenti persone, al fine di sottoporre loro l’incarico della traduzione completa, accurata e definitiva della Lettera di San Paolo apostolo ai Laodicesi. Ogni responsabile di movimento avvertirà di sua iniziativa l’incaricato prescelto dal collegio giudicante per proporgli – attraverso un telegramma in forma concisa e senza troppi

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dettagli – il progetto di cui rientrerebbe a fare parte. Ecco la lista di nomi scelti direttamente dalla rosa di candidature a disposizione:

Per Comunione e Liberazione: professor Edoardo Righetti. Per il Cammino Neocatecumenale: signor Benjamin

Tolosa. Per il Rinnovamento dello spirito: signor Roberto Sperati. Per l’Opus Dei: professor Martin Fischer. Per i Focolarini: professori Gaetano e Serena Lumini. Coordinatore: professor Righetti. Presidente del gruppo: Card. Joseph Mac Collough”. Il Cardinale fece una breve pausa e staccò gli occhi dalla

pagina stampata per sincerarsi che i presenti fossero ancora tutti attenti. Quando puntò loro gli occhi addosso, s’accorse immediatamente che avevano già cominciato ad agitarsi sulle loro poltrone, irrequieti come api imprigionate in un barattolo di vetro, perché evidentemente ognuno di loro voleva dire la sua in proposito. Li zittì invece con uno sguardo severo, che sembrava voler loro dire: un attimo ancora, per cortesia, non ho terminato.

A tutti indistintamente si smorzò la parola che si era formata sulla punta delle labbra, e non rimase loro altro da fare che costringersi ad un’innaturale e forzata calma. Ripresero ad appoggiarsi allo schienale delle sedie, chi sbuffando, chi esprimendo sconcerto sul volto, chi esprimendo scopertamente nei modi una mal celata ribellione.

Si erano finalmente riuniti tutti insieme credendo di dover mettere la loro competenza a servizio di una complessa opera di traduzione di un documento, e invece ora scoprivano che quella era una verità solo parziale, e che non erano stati scelti per le loro qualità professionali, ma per il fatto che ciascuno di loro apparteneva ad un movimento religioso. Che significava?! Sulla loro faccia era stampata un’unica, incredibile considerazione: ma quello, che diavolo di criterio era?!

Il Cardinale riabbassò gli occhi e seguitò a leggere, questa volta tradendo una leggera eccitazione nel tono di voce:

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“Seguono le firme dei rappresentanti dei movimenti: adesso non sto qui a leggerle tutte perché sono tante… se conserverete intatta ancora una briciola di pazienza sarete voi a guardarle, fra breve infatti intendo darvi una copia del foglio che sto leggendo, così che possiate esaminarlo di persona.

Bene, alcune considerazioni: come vedete il settimo membro sarei io; mentre, se non erro, i coniugi Lumini non si sono presentati all’appello, né a casa di Righetti domenica sera, né qui ora. Ma ho qui un fax da parte loro che spiega l’inghippo. Ve lo leggo immediatamente”.

E sollevò il primo foglio rivelandone un altro dietro. Prese a leggere ad alta voce:

“ Istanbul, 19 Marzo c.a. Siamo spiacenti dovervi comunicare che il telegramma

riguardante la proposta di partecipare alla traduzione della suddetta Lettera non è mai arrivato. Probabilmente è andato perduto. Dopo che ieri Lei, Cardinale, ci ha contattato personalmente e ci ha spiegato l’intera questione, io e mia moglie abbiamo sentito i responsabili nazionali del movimento di cui facciamo parte, e questi ci hanno riferito che effettivamente il telegramma ci era stato regolarmente inviato. Motivo per cui crediamo che sia andato verosimilmente perduto.

Siamo lieti di accettare con viva gratitudine la proposta di questa opera di traduzione. Nel frattempo vi porgiamo i nostri più sentiti saluti, con la speranza che accettiate tutti di prendere parte a questa prestigiosa traduzione. Pensiamo che più che un dovere di studiosi verso un documento storico, sia prima di tutto un servizio d’amore verso la Chiesa. Speriamo che anche voi lo crediate.

Gaetano e Serena Lumini, professori di papirologia al Museo Archeologico di Istanbul”.

A questo punto il Cardinale depose tutti e due i fogli sulla

scrivania, e guardò incuriosito le reazioni degli astanti, già

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paventando quanto avrebbero potuto dire. Benjamin colse la palla al balzo e domandò immediatamente:

“Ma chi sono quei due che ci aspetterebbero a braccia aperte in Turchia?! Va bene che loro avranno sicuramente visto la Lettera di persona visto che sono due esperti nel campo… ma non mi piace che considerino con eccessiva facilità l’idea che noi ci avventureremo fino là solo per una lettera scritta da San Paolo…! Non sono certo un santo io, che prendo e parto come un missionario verso un altro paese, così, su due piedi…! Se le cose stanno veramente così, io non so più se andare. Cosa c’entra se faccio un cammino di fede? E’ un’esperienza che vivo per conto mio… perché bisogna tirarla fuori qui, davanti a tutti?”.

Benjamin era furioso. Per la prima volta in vita sua vedeva affidarglisi un incarico in cui l’essere gionalista non valeva poi molto.

Edoardo avrebbe voluto rispondergli che era proprio lui quello che aveva sempre detto di essere pronto a partire in qualsiasi momento, ma si tenne per sé quel pensiero poco garbato e gli rispose: “Non è solo questione di svolgere un lavoro a noi professionalmente adeguato, vedi, ma si tratta anche del fatto di costituire quella specie di piccola comunità cristiana di cui prima ha parlato il Cardinale, per vedere se l’esegesi della Lettera così come risulterà all’interno del nostro gruppo, porterà frutti di amore e di pace – e dunque si potrà considerare autentica – oppure non ne caveremo un bel niente – e allora potremo anche lasciarla lì ai turchi. Nessun altro gruppo di ricerca potrebbe avere simili caratteristiche; o meglio, potresti obbiettare che si potrebbero mettere insieme altre persone degli stessi movimenti, ma secondo me non sarebbe lo stesso”.

“Ben detto, professor Righetti” disse Mac Collough. “Certo se voi rifiutaste, subentrerebbero i nomi di altre persone all’interno dei movimenti di cui fate parte, presenti in origine nella rosa delle candidature… ma voi sareste il top: tutti insieme, s’intende” spiegò il Cardinale.

“Io comunque continuo a non capire questa storia dei frutti spirituali che dovrebbero nascere all’interno di questa equipe” bofonchiò Benjamin.

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“Anche per me è difficile da capire…” annunciò timidamente Roberto.

Edoardo venne nuovamente in aiuto del Cardinale, poco intimorito dalla scontrosità dei due uomini: “E’ più semplice da mettere in pratica che da capire, in realtà. Provate a riflettere: la precedente commissione di esperti non è riuscita a dare un parere all’unanimità. Si sono spaccati in dispute teologiche: è autentico, non lo è…, è dei primi secoli d. C., è solo una copia fatta ad arte… capite?! Ma se la Lettera venisse applicata concretamente dal punto di vista spirituale, invece che studiare se sia autentica o no, solo allora troveremmo la risposta che cerchiamo, perché andremmo a studiarla dalla giusta prospettiva. Non dico che non sia importante il lavoro che è stato svolto finora, ma è fuor di ogni dubbio che non è più sufficiente. Serve un apporto in più, direttamente dal soffio dello Spirito…”.

“E poi è da un decennio che in tutti i seminari si studia la “Pastorale dei Movimenti”, ovvero lo studio della storia dei movimenti: come sono nati, come si sono sviluppati, il loro apporto alla trasmissione orale della fede… Ormai se uno fa parte di un movimento – e al giorno d’oggi ne fanno parte moltissime persone – non lo si può più ritenere un fatto puramente privato. Ognuno, in ultima analisi, fa parte della Chiesa. E ora è la Chiesa che sta chiedendo il nostro aiuto.” Martin intervenne per la prima volta nel dibattito.

Benjamin lo ascoltò senza battere ciglio, ma sulla faccia gli si leggeva esattamente quello che pensava. E cioè che quell’idea gli sembrava assurda.

Allora Roberto domandò: “E la mia fidanzata? Può prendervi parte? Io ho dato per scontato che anche lei potesse lavorare al progetto…” tentò di spiegare per nascondere il fatto che in realtà Giulia non era stata minimamente accennata nel telegramma che Roberto aveva ricevuto, mentre lui l’aveva presentata a casa di Righetti come se facesse parte a tutti gli effetti dell’equipe.

Benjamin fissò attentamente il Cardinale, perché da quello che avrebbe risposto, avrebbe avuto riscontro anche per il caso di Grazia.

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“Stiamo vedendo se è il caso” rispose cortesemente il Cardinale. “In fondo lei non era stata inserita nel progetto originale”, tutti scoccarono a Roberto sguardi tremendamente indagatori. Il Cardinale se ne avvide, ma proseguì apparentemente assorto nella spiegazione che stava fornendo: “penso presumibilmente di sì, comunque, sia perché verrebbe utile un componente infermieristico nel gruppo – noi non ci avevamo pensato – sia perché il suo apporto si potrebbe rivelare indispensabile. Anche se non è un elemento rilevante dal punto di vista strettamente esegetico, e né farebbe parte dell’ufficio stampa, il suo ruolo potrebbe chiarirsi durante la permanenza in Turchia. Di più anch’io non so dirvi”.

Roberto fece un cenno d’assenso. Mac Collough continuò sempre concentrato su quel

problema: “Quindi l’unico vero problema è sincerarsi che il profilo della sua fidanzata risulti professionalmente auspicabile, vista la pubblicità stessa alla quale l’equipe andrà incontro. Credo che già vi rendiate conto che potreste ritrovarvi, a vostra insaputa, sotto gli occhi dei riflettori, anche se noi naturalmente cercheremo di tenere la faccenda top secret. Ma se le cose volgessero a buon esito, allora è facile che i media si lancino a briglia sciolte sulle notizie che vi riguardano, e capite bene che meno appigli trovano per montare scandali su di voi, meglio è”.

Poiché Martin stava già per intervenire, il Cardinale lo prese d’anticipo: “Lo so già, signor Fischer: nel suo caso cercheremo di non far trapelare anche il suo nome. Sappiate” disse rivolto a tutti “che questa è l’unica condizione che ha posto il signor Fischer per lavorare con noi: che cioè lui non risulti dei nostri, di modo che le Stelle Spezzate lo lascino in pace. Questo perché il signor Fischer corre seri pericoli di venire coinvolto ancora una volta, contro la sua stessa volontà, negli ambienti delle Stelle Spezzate, ed è fin troppo comprensibile come la cosa migliore per lui sia tenersi lontano da qualsiasi mezzo di informazione: non rilasciare interviste, non partecipare a convegni… almeno per il momento”.

“Esatto. Per ora sono proprio tagliato fuori dalla società civile: sono reo di aver fatto parte di questo gruppo innominabile. La gente mi crede un mostro, anche se ne sono

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uscito” commentò acido. “Per me prima ci muoviamo, prima esco da un paese che pensa male di me”.

“La volpe perde il pelo ma non il vizio” pensò a malincuore Roberto, mentre ascoltava il dibattito in corso. Non gliene importava proprio un bel niente che Fischer fosse uscito dalle Stelle Spezzate, che si fosse pentito con tanto di dolorosi mea culpa professati quella domenica sera da Righetti, perché ai suoi occhi continuava a rimanere un essere spregevole. E poi nessuno gli levava di mente che Fischer pareva comportarsi come chi ha l’aria di voler tagliare la corda quanto prima: che avesse combinato dell’altro, si domandò Roberto?

Quanto a lui non sapeva ancora che pesci pigliare: se fosse il caso di partire per la spedizione archeologica, o lasciar perdere definitivamente.

“E poi c’è anche un altro motivo per cui è indispensabile la segretezza della partecipazione del signor Fischer: costui ha una personale teoria su quelle note a margine…” disse infine Mac Collough.

A quelle parole calò un silenzio innaturale sulla piccola assemblea lì riunita. Tutti ricordavano benissimo la spiegazione dettagliata e al tempo stesso tremenda che Fischer aveva fornito loro a proposito di quelle note, ed essa sembrava valere tanto più ora – alla luce dei fatti della Borsa risalenti al giorno prima – come un punto di non ritorno. Era difficile credere, infatti, che le Stelle Spezzate non avessero in qualche modo manovrato in modo occulto per fomentare quel tentativo di rivolta civile che aveva paralizzato l’Italia soltanto il giorno prima; era anche impossibile, a questo punto, non credere che le Stelle Spezzate perseguissero l’obiettivo dichiarato di portare la divisione nel paese, soffiando sui moti di protesta popolari per le palesi ingiustizie presenti nel paese e per il malcontento dilagante tra la gente comune. Tutto ciò che era accaduto combaciava perfettamente con quanto predetto da Martin Fischer: come non pensare che lui ne sapesse veramente più di loro per quanto riguardava le Stelle Spezzate? E come non prendere almeno per una volta in considerazione l’ipotesi fantastica – è vero – ma assolutamente verosimile, che le Stelle Spezzate volessero

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anche loro la Lettera ai Laodicesi? E se la volevano, perché non sarebbe potuta esistere veramente la città europea sede della Dimora Originaria? Anche solo a immaginare tutte queste cose, ognuno dei presenti era preso da un vortice tumultuoso di pensieri e sensazioni, tra le più strane mai provate prima.

Tutti di sottecchi lanciarono sguardi curiosi verso Fischer, che se ne stava seduto con le gambe accavallate, il capo leggermente reclinato poggiante su una mano e un’espressione stanca sul volto.

Il Cardinale proseguì: “Io non ritengo che le note che vi accingete a tradurre abbiano un qualche significato oltre quello di rappresentare un’eventuale barzelletta bizantina dell’ottavo, nono secolo d.C.… presumibilmente! Ma questa è solo la mia impressione, peraltro suffragata da una visione del testo purtroppo non lunga a sufficienza per farmi un’idea precisa. Ammetto infatti che non ho potuto tenere la prima bozza di traduzione abbastanza a lungo per le mani, al punto da trarre una conoscenza realistica e ben fondata. Per questo vi do la mia assoluta garanzia che avrete la più ampia e totale possibilità di avanzare tutte le ipotesi interpretative che vi affioreranno nella mente, tutte quelle che vi parranno le più opportune al fine di risolvere il mistero della traduzione”.

Quando il Cardinale ebbe finito di parlare, Martin aveva abbozzato sulla faccia un mezzo sorriso, come fosse contento al pensiero che la sua pista di interpretazione del papiro cominciasse finalmente a concretizzarsi.

Benjamin meditava tra sé, spostando in continuazione lo sguardo da un oggetto all’altro dello studio. Nello stesso tempo faceva roteare la penna sul suo taccuino di pelle, disegnando un’infinità di ghirigori. Qua e là sembravano sbucare fuori da tutti quegli scarabocchi i contorni delle lettere che formavano il nome di Grazia. Guardava dappertutto fuorché in direzione del Cardinale. S’accorse ad un certo punto che una porticina in un angolo era socchiusa, e questo gli parve strano. Ma poi girò la testa e non vi diede più bado.

Roberto, invece, fissava dritto in faccia il Cardinale ed era sempre più deciso a fare un tentativo, se non altro per proteggere Giulia che l’aveva presa come una vacanza e

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voleva a tutti i costi recarsi in Turchia. Però l’amara constatazione di prendervi parte in quel modo, più per dovere che per un’effettiva libera scelta, lo gettava in una costernazione profonda ed il suo atteggiamento lo dimostrava: stava sprofondando nella poltrona come una calza floscia.

Edoardo conservava la sua postura con dignità, rivelando un forte senso di responsabilità. Si sentiva chiamato a prendere parte al progetto anche a nome degli altri componenti del gruppo. Il tronco eretto, il viso in tensione intento a soppesare ogni singola parola che usciva dalla bocca del Cardinale, gli occhi ridotti a due fessure per la concentrazione. Stava anche pensando a come portare Laura con sé, per questo domandò:

“Mia moglie verrebbe con me ?”. “Sì. Può essere una soluzione. Non c’è alcun problema. In

fondo si tratterebbe di rimanere in Turchia per un mese al massimo, il tempo di esaminare attentamente il manoscritto e di dare la vostra opinione. Mi rendo conto che di più non è possibile, ognuno di voi ha i propri impegni ed io stesso non ho avuto il placet per un’operazione a tempo indeterminato: diciamo che potremmo definirla una “operazione lampo” ad Istanbul. Una specie di blitz. Là il professor Lumini e sua moglie stanno già lavorando sopra il manoscritto: voi dovreste affiancarli, nella fiducia che la sinergia che gli offrireste faccia il resto, vi aiuti cioè a capire se si tratta di un reperto autentico o di qualcos’altro. Consideratelo il vostro periodo di ferie, per di più pagate”. Roberto ebbe un sobbalzo quando sentì che il Cardinale aveva appena fatto l’identico ragionamento di Giulia.

Le domande si esaurirono in fretta, così dopo alcune ulteriori spiegazioni del Cardinale egli si accertò che tutti i componenti dell’equipe intendessero prendere parte all’iniziativa. Scherzandoci su la chiamava: la “vacanza di lavoro”. Tutti mostrarono interesse e diedero la propria adesione, ferie permettendolo. Soltanto Benjamin continuava a mostrare diffidenza, e aveva assunto un cipiglio scontroso.

“Verrebbero con noi anche i suoi scagnozzi?” domandò Benjamin accigliato.

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Wassen e Kreutz si guardarono l’un l’altro stupiti e pensierosi. Evidentemente non avevano mai soppesato una simile eventualità.

Il Cardinale mostrò di pensarci su per un momento, alla fine parlò soppesando parola per parola:

“Se ce ne sarà bisogno vi raggiungeranno”. E con quella risposta enigmatica mostrò di considerare terminato il colloquio.

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Il gruppo non aveva voglia di congedarsi come se, dopo una simile valanga di informazioni così strabilianti, nessuno avesse voglia di tornare a casa troppo in fretta.

Wassen e Kreutz colsero immediatamente l’atmosfera d’ansia che regnava tra i presenti, perciò si dimostrarono molto disponibili rimanendo a loro disposizione, oltre il tempo previsto, per rispondere a tutte le domande suscitate dall’incontro. Dal momento che ognuno sembrava interessato alla data prevista per la partenza, i due sottosegretari rivelarono in maniera ufficiosa che, con ogni probabilità, si sarebbe trattato di partire tra la fine di Maggio e gli inizi di Luglio. Quello era l’unico periodo possibile per il viaggio, dato che dovevano essere ottemperate due condizioni fondamentali: che tale periodo coincidesse all’incirca con i mesi in cui gli italiani erano soliti prendersi le ferie (più che altro per chi ne aveva la possibilità), e che in Turchia la temperatura fosse ancora sopportabile. Wassen e Kreutz spiegarono con precisione che già dalla seconda quindicina di Luglio, infatti, il caldo della penisola anatolica non avrebbe permesso nessun viaggio turistico. Né tanto meno un viaggio che per metà era di lavoro.

Benjamin non riusciva a scrollarsi di dosso il ricordo della porticina socchiusa che aveva intravisto nello studio del Cardinale. Quel particolare non gli piaceva per niente così, mentre i suoi colleghi stavano discutendo animatamente, lui era tutto intento a studiare un piano per sincerarsi che dall’ufficio dal quale erano appena usciti non ne venisse fuori, appunto, qualche altra sorpresa di cui erano stati tenuti all’oscuro.

Quando il gruppo decise che ormai era tempo di sciogliersi, Benjamin seguì tranquillamente i suoi compagni che si dirigevano alla scalinata per scendere. Wassen e Kreutz scortavano il gruppetto aprendo la strada. Ad un certo punto, con la scusa di aver dimenticato la sua preziosa penna Winchester, una stilografica americana doc, domandò ai due sottosegretari il permesso di poter tornare indietro. I due sottosegretari si stupirono di una simile richiesta, ma poiché

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non vi trovarono nulla di strano lo assecondarono gentilmente invitandolo a domandare aiuto, per qualsiasi necessità gli si fosse presentata, alle guardie svizzere disposte lungo il corridoio. E soprattutto lo ammonirono che tenesse bene in mostra la targhetta appuntata sulla giacca su cui campeggiava il logo del progetto di cui era a capo il Card. Mac Collough.

Radioso in volto per il buon esito della sua idea, Benjamin volò in un baleno in cima alle scale, infilò il corridoio e poi cominciò a rallentare il passo, esaminando attentamente ogni singolo palmo delle pareti alla ricerca di un posto dove nascondersi. Il suo scopo era di sincerarsi se dallo studio del Cardinale sarebbe uscito solo quest’ultimo (ammesso che uscisse proprio da lì), oppure uscissero più persone insieme.

Pensò che poteva appiattirsi dietro qualche statua fingendo di prendere appunti sul suo taccuino, nella speranza che di lì a poco passasse il Cardinale accompagnato da qualcuno e che riuscisse a cogliere di sfuggita qualche parola di quello che si dicevano, ma poi si disse anche che il Cardinale l’avrebbe visto sicuramente, e che magari gli sarebbe andato incontro per chiedere spiegazioni. E così pure se avesse finto di essersi attardato rispetto agli altri per rispondere ad una telefonata urgente sul suo cellulare.

Poiché una guardia svizzera lo scrutava insistentemente, lui mostrò di chinarsi leggermente per terra, spiegando con un mezzo sorriso: “Ho perso la mia penna stilografica, mi deve essere scivolata per terra… penso che si trovi qui in giro, sa, è una penna stilografica americana autentica, una Winchester… costa un sacco di soldi!” accennò confidenzialmente, con una punta d’orgoglio.

Proprio mentre era chinato per terra nell’inscenare la disperata ricerca della sua penna stilografica, notò con la coda dell’occhio una porta socchiusa ad appena un metro da lui, quasi di fronte allo studio del Cardinale. Gli bastò qualche frazione di secondo per scivolare lungo il muro, sempre chinato con la schiena, e infilarsi dentro la stanza. La guardia svizzera in quel momento stava puntando gli occhi da un’altra parte e non si accorse di nulla.

Appena entrato Benjamin emise un respirò di sollievo al vedere che l’ufficio era vuoto. Meno male, pensò: poteva

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trattarsi dello studio privato di un qualche diplomatico che stava svolgendo pacificamente il suo lavoro, nel qual caso aveva già in mente le scuse pronte per levarsi di torno alla velocità della luce. Invece quella stanza era piccola, non aveva l’aria di un ufficio; sembrava piuttosto un salotto per intrattenersi in una conversazione privata. Due porte-finestre si ergevano sulla parete opposta, coperte da un fitto tendaggio color verde smeraldo che gettava la stanza nella penombra; anche per quel motivo sicuramente non c’era nessuno, pensò subito Benjamin: qualsiasi persona normale avrebbe lavorato lì dentro scostando le tende e facendo entrare la calda luce pomeridiana. C’era nell’aria un’impressione di intimità: al posto di una robusta scrivania di legno, come ci si poteva aspettare, c’erano quattro divani stile inizio secolo disposti a quadrato nel mezzo della stanza. Sulle restanti pareti erano appesi ritratti e due massicce librerie in mogano erano ricolme di pesanti volumi.

Benjamin si appiattì dietro la porta ed aspettò che l’uscio dello studio del Cardinale si aprisse, ponendo la massima attenzione a gettare il viso fuori dalla visuale della porta per quei pochi centimetri che bastavano a sbirciare di fronte a lui.

Tanto meticoloso ardire fu ben presto ripagato: una decina di minuti più tardi udì nel corridoio delle voci. Due persone stavano discutendo amichevolmente proprio a mezzo metro da lui. Una era la voce del Cardinale, l’altra gli parve vagamente familiare, ma non riusciva a capire a chi appartenesse. Quel che era certo era che apparteneva ad una donna.

Benjamin si sforzò di gettare fuori la testa quel tanto che bastava a far svolgere un giro di perlustrazione ai suoi occhi lungo il corridoio, con l’idea di fare subito dopo marcia indietro per tornare a nascondersi. Quello che vide gli accese il batticuore.

Accanto al Cardinale, perfettamente a suo agio parlava Grazia. Benjamin non riusciva a distinguere quello che i due si dicevano, perché parlavano a bassa voce, come due vecchi amici. Era incredibile la confidenza che c’era tra di loro. Per di più se non l’avesse vista con i suoi occhi, non l’avrebbe riconosciuta: aveva i capelli lisci che le ricadevano meravigliosamente sulle spalle, e tutto l’abbigliamento era

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come più casual. Benjamin pensò che era una Grazia che non aveva mai visto. Lui conosceva la giornalista perfettamente pettinata e truccata, inamidata nei tailleur e nei completi costosi. Davanti a lui, per quella manciata di secondi che era riuscito ad intravedere, stava una donna normalissima, in maglia e pantaloni, dimessa e bella al tempo stesso.

Purtroppo Benjamin non ebbe neppure il tempo di riprendersi da quello che aveva appena visto, che le due figure si allontanarono da lui. Gli sembrò di capire che il Cardinale stesse accompagnando Grazia all’ingresso, per congedarla personalmente o quasi. Benjamin si appoggiò scoraggiato alla porta, sbuffando desolatamente. Gli si affacciò nella mente il pensiero che forse era meglio che non avesse mai visto quello che aveva appena scorto. Si passò una mano nei capelli sudati, mentre un senso d’inquietudine crescente cominciò a paralizzargli le gambe.

Dopo alcuni interminabili minuti in cui la sua mente passò in rassegna tutte le ipotesi che riuscì a immaginare per darsi una spiegazione di quello che aveva appena visto, decise per il momento di soprassedere. Si staccò dalla porta ed uscì allo scoperto nel corridoio. In mano la sua penna stilografica che doveva servirgli da lasciapassare e che ovviamente non aveva mai perso: era sempre rimasta al sicuro nella tasca della sua giacca.

Il passaggio lungo il corridoio sembrava sgombro, in giro non s’intravedeva nessuno e le guardie svizzere parevano immobili quanto statue di marmo. Tenendo bene in evidenza nella mano la stilografica, che nella sua messinscena doveva essere stata appena ritrovata, Benjamin cominciò ad incamminarsi lentamente verso l’uscita. Stava finalmente raggiungendo le scale, quando spuntò all’improvviso dall’angolo della balaustra il Cardinale.

In quello stesso momento gli venne il fondato sospetto che l’alto prelato avesse scortato Grazia solo fino alla scalinata, per poi lasciarla procedere da sola, mentre lui imboccava la direzione perpendicolare a quella del corridoio e della scalinata.

“Vedo che non capita solo a me di tornare indietro, a volte” lo stuzzicò amabilmente il Cardinale.

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“Mi era scivolata di tasca la mia stilografica” provò a spiegare Benjamin evidentemente confuso dallo strano acume del Cardinale. “Ci sono molto affezionato. Così sono tornato indietro per recuperarla” abbozzò ancora più titubante. Aveva paura che l’alto prelato non avesse affatto mangiato la foglia.

I due si guardarono negli occhi per trenta secondi. Anche se i tratti del viso del Cardinale erano spianati, nonostante le rughe gli ricoprissero il volto come su un campo ben arato spunta l’erbaccia, i suoi occhi tradivano un pensiero, gli parevano due squarci profondi, illuminati da un paio di vivide fiammelle celesti. Benjamin capì al volo che quell’uomo stava meditando qualcosa, così tentò di stornare il discorso, azzardando: “E quanto a lei, mi è lecito domandare per qual motivo è dovuto tornare sui suoi passi ?”

Il Cardinale sembrò per un attimo valutare se rispondere. Poi disse: “Le posso confidare che si è trattato di un’intuizione, direi.” La risposta era venuta, ma Benjamin dovette pagare cara quella rivelazione. Era pronto a saggiare le capacità dell’americano di intendere veramente quello che lui avrebbe soltanto rivelato tra le righe. I tratti del viso prima distesi si fecero di colpo taglienti. La faccia spigolosa sembrò all’improvviso scavata nella nuda roccia.

“Cosa vuole dire, Eccellenza?”. Benjamin provò ad assumere un tono di voce ossequioso,

per vedere se le cose andavano meglio. “Ah, ah, ragazzo, mi prende in giro?” rispose senza mezzi

termini l’altro. Benjamin era esterrefatto. “Mi scusi, non capisco”. Non pensava nemmeno

lontanamente che il Cardinale stesse saggiando la sua intelligenza.

“Allora adesso le chiarisco io le idee: si dà il caso che abbia appena accompagnato un mio caro ospite qui alla scalinata. Dopo esserci salutati, lui è sceso, mentre io ho ripreso a camminare lungo il corridoio, proprio nella direzione perpendicolare alla scalinata. A metà corridoio, una vocina nella mia testa mi ha detto: “Girati!”. Sa, io mi fido sempre del mio istinto: è infallibile; mi fa fare delle scoperte che mai avrei immaginato. Non capita anche a lei di avere, come dire,

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delle sensazioni…? Così mi sono girato e l’ho vista. Naturalmente l’ho voluta raggiungere subito”. Benjamin era sempre più sbigottito. Pensò che il Cardinale lo stesse prendendo in giro.

“Sono senza parole, mi creda, eccellenza. Lei è davvero formidabile!” fu l’unica cosa che riuscì a balbettare.

“Allora, come mai è tornato sui suoi passi?” “Come le ho già detto, avevo perso la mia penna

stilografica e volevo ritrovarla”. “Ah sì?”. Il Cardinale lo squadrò come il maestro che sta per mettere

in punizione l’allievo indisciplinato. “E’ così. E’ la verità” riaffermò Benjamin con più forza,

facendo appello a tutta la sincerità possibile che in quel momento gli riusciva di trovare.

“Ragazzo: lei è in errore. Ma non importa. Mi dica: come fa una penna stilografica a cadere da un taschino, quando il sottoscritto ha osservato distintamente che lei la riponeva con la massima cura all’interno della sua giacca, alla fine del nostro colloquio nel mio studio? Sono vecchio, ma non rimbambito. E da lontano ci vedo benissimo”. Benjamin si sentì colto con le mani nel sacco. Sprofondò dalla vergogna. Il Cardinale riprese: “Mi dica anche: ha visto l’ospite con il quale mi sono intrattenuto?”. E gli lanciò un’occhiata che lo fece raggelare. Benjamin riuscì a malapena a scuotere il capo in maniera affermativa.

Sulle labbra del Cardinale si schiuse un debole ed enigmatico sorriso. “Bene, non tutto il male viene per nuocere, ragazzo”. E cominciò a scendere le scale. Poiché l’americano era rimasto impietrito in cima, il presule gli intimò rudemente: “Non resti lì imbambolato, per favore. Mi segua!”.

Benjamin prese a scendere le scale, stando dietro al Cardinale come una pecorella smarrita sta dietro il cane da guardia.

“La prego di non rivelare a nessuno che ha visto la signorina Tommasoni parlare con me” gli intimò.

Benjamin, che non si era distinto per eccessive doti di intelligenza, ma era coraggioso, si fece animo e riprese: “Per caso, ha accettato di collaborare con lei, Eccellenza?”

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“Ah, ah. Le piacerebbe saperlo, eh! Posso dirle che per ora ci sono dei contatti, ma non come se li può immaginare lei”.

Poi si fermò e si girò verso l’americano che pareva stupito. Erano arrivati in fondo alla scalinata.

“Le domando scusa se l’ho trattata un po’ rudemente, sì, insomma, non sono un uomo che va per il sottile, purtroppo non è un pregio per uno come me che lavora nella diplomazia vaticana. L’ho torchiata bel bene e penso anche che lei se ne sia accorto”. Benjamin annuì. L’altro riprese: “Lei è un uomo onesto e sincero, nonostante la piccola bugia che mi ha voluto rifilare. Ma per questo non la biasimo e non penso male di lei. Anzi, mi auguro che alla fine decida di prendere parte alla spedizione in Turchia; si è dimostrato il più ritroso a prendere in considerazione questa idea: ci pensi su e prenda la decisione giusta. Lei ha dalla sua parte un sacco di coraggio: lo sfrutti bene”. Benjamin avrebbe voluto domandargli qual era la decisione giusta da prendere, e soprattutto se Grazia sarebbe venuta con loro. Ma capì che il tempo a sua disposizione era terminato. Si strinsero la mano.

Poi il Cardinale proseguì verso un altro corridoio, mentre a Benjamin non rimase altro da fare che infilare la via d’uscita.

Fuori, degli altri non c’era più nessuno. Erano già tutti andati via. Per un momento Benjamin si rattristò: chissà se si erano detti qualcos’altro, o se si erano accordati per ritrovarsi insieme a casa di Edoardo, o al ristornate, o in qualche altro luogo per conoscersi meglio prima di partire. In quel caso, sperò che lo avvisassero. In fondo Edoardo aveva gli indirizzi di tutto il gruppo. Lo avrebbero avvisato sicuramente di una simile eventualità. Tuttavia si disse che doveva chiamare Righetti per rassicurarlo che avrebbe partecipato alla spedizione, caso mai i suoi colleghi nutrissero qualche ragionevole dubbio in proposito.

Guardò in alto: il cielo era sempre pulito e cristallino, identico a quando era arrivato quel primo pomeriggio. Chissà come, scrutando quel cielo perfettamente terso, era pervaso dalla netta sensazione che il tempo si fosse fermato. Gettò uno sguardo all’orologio: erano appena le cinque. L’aereo per Milano si sarebbe levato in volo di lì a due ore. Gli rimaneva ancora del tempo libero. Gli venne voglia di comprarsi un

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gelato prima di fare rientro a casa e riprendere a scrivere sul suo giornale on-line. Il primo gelato della nuova stagione: “Sì, concediamocelo!” approvò. In fondo la giornata non era ancora terminata. E forse nemmeno la sua avventura con Grazia poteva dire con certezza che fosse definitivamente conclusa.

Con quel pensiero che gli frullava in testa s’incamminò felice per le strade di Roma.

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EPILOGO

VENERDI’ 20 Marzo

“Sono tempi cupi quelli verso cui l’Italia si sta incamminando a passi da gigante. Ieri notte il Presidente della Repubblica ha dato ufficialmente al segretario di Fondazione Risorse Nuove onorevole Eugenio Augusto Lanza l’incarico di formare il nuovo governo. Solo in caso non vi riuscisse si andrebbe ad elezioni anticipate. Ma l’onorevole Lanza ha assicurato che ha già nel cassetto una bozza di alleanza con alcuni partiti del centro-destra e con il partito più grande del centro-sinistra per dare vita ad un grande governo di coalizione. Tale nuovo, forte esecutivo dovrebbe finalmente condurre il paese fuori dall’inchiesta sulle Stelle Spezzate, oltreché ricondurlo sui binari già segnati dall’Unione Europea.

L’unica incognita, per il momento, è rappresentata dal Partito della Lega Araba che non ha ancora confermato se entrerà o meno nella grande coalizione. E’ una concomitanza davvero singolare che proprio ora, in questo difficile frangente, il partito della Lega Araba abbia deciso di scendere in campo prendendo apertamente posizione, dopo due decenni almeno di onesto, quieto ed incessante lavorio dietro le quinte di Palazzo Montecitorio. Nato in sordina, nel panorama politico di questi ultimi anni in effetti non ha mai figurato attivamente; non se ne è mai parlato molto perché è rimasto buono buono all’opposizione, lontano dai giochi di palazzo; ma ora sembra proprio deciso ad alzare la testa e a rivendicare alcune prerogative a tutto vantaggio dei suoi iscritti, forte del fatto che si presenta come un partito “pulito”.

Con una metafora non proprio felice, il nuovo Presidente del Consiglio ha voluto definire la sua prossima, probabile coalizione come la “Coalizione dalle grandi mani”. L’intento sarebbe quello di sottolineare la vasta apertura della coalizione, che radunando partiti dalla destra alla sinistra prometterebbe veramente di porsi al servizio del paese. Ma i

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malevoli l’hanno già ribattezzata “dagli artigli lunghi”. Staremo a vedere.

Il Partito della Lega Araba, notoriamente la voce dei musulmani “moderati” in Italia, ha espresso l’intenzione di riunire nell’immediato i suoi più alti esponenti (imam e quant’altri), e allo stesso tempo i suoi più fedeli collaboratori per definire la linea da seguire. Si è dichiarato disposto ad entrare nell’esecutivo qualora il Presidente del Consiglio assicurasse una maggior presenza di italiani musulmani nel governo; basterebbe solo una poltrona ministeriale – ha detto – a titolo simbolico (cioè un ministero marginale), per mostrare agli italiani come anche i musulmani siano parte integrante del paese e non cittadini di serie B. Ha chiesto anche di aumentare il numero delle moschee, insieme a più vantaggi fiscali in favore dei nuclei familiari numerosi. Qualora invece nella coalizione si manifestassero delle incomprensioni o dei diktat, la Lega Araba non potrebbe concedere la sua percentuale di voti.

Voci che ho raccolto personalmente a Palazzo Madama, comunque, mi hanno assicurato che la Lega Araba è tenuta in grande conto, perché alle prossime elezioni si attesterà sicuramente su un buon otto o nove percento; più o meno come Fondazione Risorse Nuove. Mettendo insieme i due risultati (ammesso che i due partiti possano pensare ad un’alleanza elettorale, fondata su un comune programma; cosa che non è del tutto fuori luogo presumere) si arriverebbe a quasi quel venti percento che darebbe sicuramente filo da torcere ai partiti storici del centro-destra e del centro-sinistra. Ma la fine della legislatura, nel caso essa durasse naturalmente fino al suo compimento, è prevista per il 15 Maggio del 2058. Quindi abbiamo ancora quattordici mesi davanti a noi. Un tempo sufficiente perché il nuovo esecutivo possa lavorare tranquillamente, con la fiducia del popolo italiano.

Resta da vedere, dunque, cosa farà l’onorevole Lanza. A lui il nostro più cordiale augurio di servire con degno spirito di abnegazione il paese e di lavorare per il vero bene del popolo italiano”.

Benjamin Tolosa, dall’Eco Americano.

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APPENDICE7

Fondazione Risorse Nuove Carta Fondamentale dei Principi e Linee Guida

Ispiratrici

Premessa introduttiva “Tempo fa un giornalista di una importante testata mi

chiese quale fosse il motivo per cui avevo dato vita ad una nuova aggregazione politica. “Con tutte quelle che ci sono già…”obiettò ostentando una certa indifferenza che accentuava il ghigno malevolo della sua espressione “Che bisogno c’è di averne un’altra? In questo modo lei frammenta ulteriormente la scena politica già sufficientemente divisa e impaludata nelle beghe di governo”.

Lasciai che lui esternasse tutte le sue critiche e poi gli risposi che, lungi dal voler portare divisione e discordia sulla scena politica rubando il voto ad altri partiti, io non avevo fatto altro che rispondere ad un’autentica “chiamata” interiore.

Per capire il senso profondo del mio operato occorre risalire indietro di cinque anni, ad una folgorazione improvvisa che una notte attraversò la mia mente e il mio cuore, squarciandoli come un lampo luminosissimo. Quello che provai subito dopo fu per me altrettanto certo e sicuro come sono certo della mia stessa vita. Sentii che dovevo orientare tutto il mio agire alla luce di quell’intuizione e applicarmi ad essa come si trattasse di una regola di vita, chiara e luminosa.

Riflettei a lungo su quella notte e sull’illuminazione che avevo avuto.

Prima di allora, avevo accettato di collaborare con la mia casa editrice ad un ambizioso progetto. Riguardava la stesura 7 Questa parte si trovava originariamente nel romanzo (a pagina 170). In vista della pubblicazione l’ho tagliata perché, a mio parere, appesantisce l’opera; essendo però una parte essenziale (in vista dell’intera trilogia) ho creduto opportuno inserirla in appendice.

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di un testo che ripercorresse le principali tappe del cammino della storia dell’Unione Europea, dai suoi inizi ad oggi. Era una profonda convinzione mia e del mio editore, infatti, che dopo le tre8 guerre mondiali e i cambiamenti epocali che ne seguirono, l’Europa non fosse più rappresentata coerentemente dai suoi schieramenti politici. Il mio libro doveva diventare un caso editoriale - nell’intenzione del mio editore e dei suoi consiglieri - così da creare un acceso e infuocato dibattito sulle radici dell’Europa e sul suo prossimo destino. Naturalmente era previsto il lancio pubblicitario in grande stile e ogni altra diavoleria possibile per incrementarne la diffusione.

A me sarebbe bastato che il mio saggio contribuisse a creare una nuova coscienza europea, affinché qualcuno dei partiti già esistenti si accollasse il rinnovamento urgente della situazione politica, culturale e sociale in cui già da tempo versava la nostra amata Europa.

Dopo quella mirabile notte, pertanto, stetti a pensare e ripensare; capii che non c’era alternativa possibile: non dovevo fare un resoconto della storia passata, che servisse a qualcun altro. Dovevo contribuire a scrivere ex-novo quella presente. Decisi che avrei messo a frutto la mia opera e il mio lavoro non per uno dei partiti già esistenti, ma per uno nuovo che avrei fondato io stesso.

E feci con me stesso una scommessa: dal mio piccolo studiolo di scrittore famoso e conosciuto in tutta Europa, avrei usato il tempo a disposizione da questo momento fino alle prossime elezioni, per dar voce, corpo ed anima, ad un’organizzazione, politica e culturale insieme, che avrei chiamato Fondazione Risorse Nuove. Grazie agli amici di lunga data che accettarono subito e senza riserve il mio progetto, per fortuna sparsi nei principali stati europei, avrei fatto in modo che presto il partito fosse presente in tutte le singole nazioni d’Europa, oltre che nel Parlamento stesso a Bruxelles, a beneficio e a servizio dei popoli dell’Unione Europea.

8 1914-1918/ 1939-1945/ guerra fredda: 1946-1989.

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Quel tempo che mi ero preso fu più che sufficiente. Gli eventi successivi mi dettero ragione. Vinsi la scommessa. Alle prime elezioni europee la Fondazione, che si presentava per Strasburgo, prese il dieci percento dei voti. Di lì a poco, allo scadere delle singole elezioni nazionali, anche ciascuna delle altre Fondazioni si sarebbe attestata intorno a quel risultato.

Alla luce dei fatti che avvennero e che ho testé raccontato, posso dire, a ragione, che la storia mi aveva chiamato, e io le avevo risposto. In questo modo ero diventato una parte viva di essa”.

(dai discorsi del Fondatore: “L’alba di una

nuova era”, Ch.mo prof. Lucio Sapienza)

Statuto

Comma 1 (premessa generale): La Fondazione Risorse Nuove ha la sua sede-madre a Bruxelles. Come partito politico regolarmente eletto dai popoli dell’Unione Europea è presente anche nel Parlamento Europeo a Strasburgo. In più, opera all’unisono con ciascuna delle singole Fondazioni Nazionali. In questo modo, operando cioè su questi due livelli, si prefigge di fornire ad ogni uomo i mezzi e gli strumenti idonei che gli consentono di entrare a far parte in senso pieno del secolo in corso.

Il secolo unanimemente definito Il secolo breve9 è ormai alle nostre spalle, dopo aver attraversato prove così tremende quali, è lecito sperare, non se ne vedranno mai più. Ora si è entrati a far parte del secolo dell’umanità rappacificata e compito principale di chi ha veramente a cuore le sorti dell’Unione Europea è di permettere che ogni uomo entri a pieno titolo e diritto nel terzo millennio, con tutte le potenzilità di lavoro, di benessere, di vita sociale, di educazione, di tutela personale che lo sviluppo odierno permette.

9 1914-1989

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Comma 2: Due sono gli scopi primari della Fondazione Risorse Nuove. La prima parte dello statuto tratta del primo scopo; la parte immediatamente successiva sviluppa il secondo. Il primo scopo è propedeutico al secondo. Ossia, per realizzare il secondo scopo, è necessario porre in atto il primo.

Parte prima

Comma 3: Il primo scopo, quello più urgente, riguarda la

promozione dell’integrità politica dell’Unione Europea, salvaguardandone ad un tempo i profondi valori ispiratori e i bisogni nuovi più impellenti. A tal fine F.R.N. si prefigge il dovere di collaborare attivamente con le altre formazioni politiche, favorendo ed alimentando il dialogo reciproco.

Favorire il dialogo fra i vari partiti è la caratteristica che rende assolutamente unica nel suo genere e nel suo raggio d’azione la Fondazione: nessun altro partito esistente si prefigge questo scopo. Essa pertanto si presta ad eliminare ogni ostacolo possibile dal percorso di avvicinamento comune che vede protagonisti tutti gli schieramenti politici. Infatti qualora si verifichi un dissenso, un’incomprensione o una divergenza anche molto grave tra i partiti, F.R.N. ha il preciso compito di arginare, nella misura possibile, la divisione testé apportata dagli accadimenti storici.

“A lungo termine l’intesa paga di più della contesa. La prima costruisce il futuro; la seconda lo demolisce”

(Considerazioni pratiche in vista del prossimo secolo, prof. L. Sapienza)

Comma 4: Dal momento che la giusta sede per trattare i

nuovi bisogni emergenti (c.ma 3) è prima di tutto ogni singolo Parlamento nazionale, F.R.N. si è subito preoccupata di essere presente sul territorio europeo tramite una ramificazione stato per stato, così che ogni problema possa essere vagliato, discusso ed affrontato là dove esso sorge.

Solo qualora si rivelasse impraticabile risolvere il problema a livello nazionale, allora è auspicabile e al tempo stesso

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conveniente passare il problema ad un livello di competenza superiore: vale a dire al Parlamento Europeo.

“Un buon metodo di lavoro è quello di cercare la soluzione di un problema là dove questo è nato. Non serve a molto, infatti, portare il problema fuori da dove è sorto, decontestualizzarlo, quando la soluzione il più delle volte è letteralmente sotto gli occhi”

( Il metodo politico, prof. L. Sapienza) Comma 5: Come si sviluppa l’azione di F.R.N. ? Dove sia

possibile, e dove ciò avvenga in base a condizioni ragionevoli, essa agisce in concordia con gli alleati di governo (o con quelli dell’opposizione se è all’opposizione), cercando di favorire l’unità e la collaborazione dei partiti fra di loro. Il suo obbiettivo è quello di creare le premesse affinché ci sia il maggior numero possibile di questioni su cui i partiti si ritrovano d’accordo, usando gli opportuni mezzi a disposizione nell’agone politico: trattative svolte con discrezione e diplomazia, consultazioni, proposte di legge che trovino il consenso anche dell’opinione pubblica.

F.R.N. non farà mai uso di mezzi illeciti nel condurre le sue trattative politiche: vale a dire non ricorrerà mai ad accordi segreti, a violazioni della costituzione o del diritto pubblico o penale, o ad un comportamento trasformistico.

Naturalmente F.R.N. opera all’interno dei partiti che concorrono a formare la maggioranza di governo (o all’interno di quelli dell’opposizione) in base ai risultati elettorali così come sono stati espressi dalla volontà della popolazione europea (o dei singoli stati nazionali).

“I momenti migliori che la storia dell’umanità ha conosciuto si sono verificati allorquando poche idee forti sono state sostenute e attuate dal maggior numero di persone al potere”

(Ripercorrere la storia europea alla luce della Fondazione, prof. L. Sapienza)

Comma 6: In virtù del fatto che F.R.N. promuove il

dialogo tra i partiti, onde scoprire e mettere in evidenza i punti comuni su posizioni divergenti, la Fondazione si pone dunque

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a servizio dell’homo europeus10, senza distinguere a quale schieramento politico appartenga.

Pertanto la Fondazione non si colloca mai, una volta per tutte, né a destra, né al centro, né a sinistra. Ma di volta in volta, in base agli accordi elettorali assunti, si prefiggerà di promuovere l’unità e il dialogo tra i partiti in cui si è inserita.

Tale prassi è un’autentica rivoluzione copernicana nel sistema di governo delle nazioni e dei popoli. Ma risulta indispensabile se ci si vuole porre al servizio vero dell’uomo e non dei singoli interessi di partito. Cioè non è l’elettore che si colloca da una parte o dall’altra degli schieramenti politici aderendo col suo voto ad una preciso partito e al suo programma politico, ma è il partito (F.R.N. in tal caso) che si colloca di volta in volta al centro, a destra o a sinistra – operando alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti i cittadini – per servire la pace, lo sviluppo, la promozione della vita dell’uomo.

Pertanto in qualsiasi momento della vita del cittadino europeo, in relazione agli avvenimenti storici contingenti, se F.R.N. garantisce meglio di altri schieramenti politici soluzioni efficienti, stabili e durature nel tempo, l’homo europeus per sua precisa e libera scelta elettorale può, con il suo voto, esprimere il proprio consenso a favore della Fondazione, anziché del consueto schieramento politico. E questo può accadere tutte le volte che la sensibilità dell’elettore converga con quella della Fondazione.

“Oggi accade che un uomo voti un partito in base all’accordo (nel migliore dei casi) tra le sue idee politiche e la concezione di pensiero del partito prescelto. In questo modo ogni partito riflette il pensiero politico di chi l’ha votato, ma non solo; perché la visione globale della realtà che il partito propone per risolvere i problemi può non soddisfare appieno un elettore scrupoloso e attento. Non così accade per la Fondazione”

(La Fondazione come metapartito, prof. L. Sapienza)

10 Dall’homo romanus all’homo europeus: più di 2000 anni di storia (prof. L. Sapienza), pag. 128

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Comma 7: La Fondazione prende posizione volta per volta (con riferimento in modo speciale ai momenti di campagna elettorale) sulle questioni più spinose e sui principali temi in discussione o che, secondo lei, andrebbero discussi. Una volta poi assunto un preciso orientamento di fondo, essa non può ricambiarlo se non per gravissimi motivi. Lungi però dal voler apparire schiava dell’opinione pubblica (o della stampa…) nello scegliere le priorità da trattare, esiste un elenco del grado di urgenza di un problema, e della relativa presa di posizione della Fondazione e, conseguentemente, del suo operato.

SCALA DI PRIORITA’: -Affari di politica estera -Affari di politica interna legati al corretto funzionamento

delle istituzioni -Affari di politica interna legati al mantenimento

dell’ordine pubblico -Affari di politica interna legati al riconoscimento dei diritti

dell’individuo -Affari di politica interna legati alla promozione di

politiche sociali -Affari di politica interna legati alla tutela dell’ambiente -Affari di politica interna legati allo sport e tempo libero -Affari di politica interna legati allo spettacolo11 “Riassumendo: cos’è dunque la

Fondazione? Essa è un’aggregazione politica (ma non solo), di fatto al

governo o all’opposizione nell’Unione Europea12, e allo stesso modo in ogni singolo stato. Si trova al governo o all’opposizione non per una sua precisa collocazione ideologica, come per tutti gli altri partiti, ma per l’ “opzione orientativa fondamentale” che avviene ogni volta prima delle elezioni. Accade dunque che la Fondazione prenda posizione sulle questioni più importanti e urgenti attraverso il Consiglio

11 L’intero elenco è disponibile e consultabile presso ogni sede di Fondazione Risorse Nuove. 17 Le singole Fondazioni nazionali, sebbene devono seguire di diritto le direttive generali scelte dalla linea europea (comma ), per casi eccezionali è previsto che possano trovarsi nella necessità di una posizione diversa da quella della Fondazione europea.

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di Fondazione, e al tempo stesso, operi una sorta di mediazione tra tutti i partiti “in lizza”, onde dar vita a posizioni di largo accordo e consenso, per la migliore intesa reciproca. Dopo aver ottenuto i maggiori frutti possibili da questo operato, e anche in base ad esso, il Consiglio valuta se schierarsi con gli uni o con gli altri, e in questo modo presentarsi agli elettori. Sarà il singolo cittadino, poi, a dar voce, peso e visibilità, col suo voto, alla Fondazione. Ogni voto per la Fondazione è un voto a favore della pace”.

(Tutta la Fondazione in 100 pagine, prof. L. Sapienza) Comma 8: Il Consiglio di Fondazione decide la necessità o

meno dei problemi che si presentano per essere risolti, nonché l’ordine con cui intervenire e trattarli secondo la scala di priorità di cui sopra.

Il Consiglio è formato dal Presidente, dal Segretario e dal Tesoriere della Fondazione, coadiuvati da 10 Consiglieri. Questi ultimi sono eletti dai membri-coordinatori della Fondazione, presenti in percentuale variabile stato per stato, ed eletti in base al numero totale degli iscritti ad ogni singola Fondazione. I membri-coordinatori sono eletti da tutti gli iscritti. A loro volta i Consiglieri officiano all’assegnazione – per scrutinio segreto – delle tre più alte cariche dell’organizzazione; in ordine di valore crescente: Tesoriere, Segretario e Presidente.

La durata di ogni incarico è di tre anni. Solo nel caso delle tre più alte cariche è previsto che queste possano venire riconfermate per più volte consecutive per la durata massima di nove anni (tre incarichi).13

Comma 9: Tutte le scelte politiche di F.R.N. devono

rispettare gli oneri e le precise responsabilità e impegni che la Fondazione ha assunto con i suoi elettori. L’operato della Fondazione prevede la massima trasparenza possibile delle sue scelte e delle sue azioni,

“pena il calo di consenso degli elettori” 13 Per consultare in dettaglio i poteri del Tesoriere, del Segretario e del Presidente, è opportuno disporre del manuale “Potere e poteri: il confronto che unisce”, prof. L. Sapienza.

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(Briciole amare: aneddoti sull’infausto operato di alcuni Presidenti deludenti, prof. L. Sapienza)

Parte seconda

Comma 10: Il secondo scopo, quello più a lungo termine (ma altrettanto importante e che aspetta d’essere compiuto), riguarda la promozione del bene comune dei popoli europei. Una volta che abbia cominciato a prendere forma, moto e attività, infatti, la componente basilare politica di F.R.N., proprio questa deve favorire la formazione di una larga intesa tra le parti di un popolo, così da gettare le basi per la realizzazione, entro uno stato, di una vera pace e di un incremento del benessere. Il clima di dialogo tra i vari partiti, pertanto, e più in generale, una situazione di tolleranza civile, di mutuo e rispettoso scambio di vedute tra le molteplici componenti di un popolo deve giovare, in ultima analisi, ad una vita migliore per ogni cittadino europeo.

La volontà di F.R.N. è quella, dunque, di favorire e poi mantenere una condizione stabile di benessere e armonia nella vita dell’homo europeus, così da apportare una maggior serenità e felicità nella vita quotidiana di tutte le popolazioni membra dell’Unione. Al fine ultimo di garantire pace, ricchezza e sicurezza all’Unione stessa.

“Ora l’umanità è libera di guardare avanti, al futuro, e di progettarlo senza più limite alcuno. Tutto le è permesso, tutto le è possibile per incrementare il bene comune, a vantaggio di una vita migliore per tutti gli uomini.

Chi si intestardisce nel voler apparire a tutti i costi fuori dal mondo, inseguendo idee o sentimenti di lotta, aggressività, vendetta, odio, intolleranza o altro del genere, verrà sicuramente messo da parte dal corso stesso della storia”.

(“Per una nuova antropologia”, prof. Lucio Sapienza) Comma 11: Ogni uomo ha diritto al riconoscimento della

dignità che gli spetta come rappresentante unico e irripetibile

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del genere umano. Questo è lo scopo ultimo che si prefigge l’operato della Fondazione: mettere ciascun essere umano vivente sulla Terra (o che vivrà ) nella condizione a lui più adatta di essere consapevole al massimo grado di tutte le sue potenzialità inespresse, di tutte le sue doti e capacità, di tutti i progetti che può realizzare, perché attui pienamente il disegno di felicità scritto per lui e che gli spetta di diritto dal momento in cui è venuto alla luce.

“Il secolo XXI° sarà ricordato per un nuovo approccio all’antropologia, cioè alla disciplina che si occupa di descrivere l’uomo. Esso è stato definito “persona”( soprattutto nei secoli a cavallo tra il primo e il secondo millennio14): vale a dire un essere che sa porsi naturalmente in tensione dialogica con altri esseri simili a lui. Si voleva sottolineare, con questa caratteristica, il tratto di apertura alla comunicazione, che è tipico dell’essere umano.

Dalla metà del secondo millennio fin quasi all’inizio del terzo si è preferito parlare di uomo come “individuo”: come essere unico, irripetibile e inviolabile. Libero di esprimere al meglio se stesso e di agire secondo i propri fini di felicità.

Ma soprattutto ora, all’inizio del terzo millennio, è giunto il momento di guardare all’uomo in una maniera più semplice e più profonda al tempo stesso. L’uomo è prima di tutto e soprattutto il vivente: colui che ha in sé la vita. Una vita intelligente, certo, che per questo si differenzia da qualsiasi altro genere di esseri viventi.

Si può dire di più: l’uomo è un ponte gettato tra più stadi della sua vita. La giovinezza si trasforma in età adulta, e questa ancora diventa vecchiaia. Così l’uomo è sempre proteso da un lato verso il suo passato (ciò che è stato e già non è più) e dall’altro verso il suo futuro (ciò che non è ancora ma che già lo attende). D’altronde il suo stesso

14 Tralascio di commentare la concezione di uomo nel primo millennio per problemi di brevità. Comunque i primi secoli vedono lo sviluppo delle correnti filosofiche ellenistiche, legate ad una visione materiale dell’uomo (scetticismo, epicureismo…), o solo genericamente portatore di un soffio divino di spirito (stoicismo, neoplatonismo). E’ il medioevo cristiano che rispolvera la grande figura di Aristotele e mostra l’uomo come unità di corpo e spirito, di materia e forma.

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aspetto fisico, con la perfetta simmetria tra le parti del corpo, attesta anche solo visivamente questa caratteristica. È come se con una mano e un piede fosse ancora nel tempo che è appena trascorso, e con l’altra mano e l’alto piede già si protendesse verso l’avvenire.

E poi l’uomo, l’ essere vivente fatto di terra e di cielo, è anche icona di un’altra immagine: quella dell’arco. Come la terra tocca il cielo all’orizzonte, o come quando quasi lo tocca con l’arcobaleno, così l’uomo è un arco: con un’estremità sta sulla terra e con l’altra quasi tocca il cielo. Terra e cielo sono il suo passato e il suo futuro. In una parola sola: la sua vita”.

(“Per una nuova antropologia”, prof. Lucio Sapienza) Comma 12: La Fondazione promuove il dialogo con tutte

le altre correnti di pensiero o con tutte le religioni che si trovano in un paese, per cercare un punto in comune, se possibile (qualora esista). Dove ciò dovesse risultare impossibile, perché la parte in causa con cui la Fondazione sta trattando rifiuta una eventuale soluzione comune o un eventuale accordo, si consiglia ai membri della Fondazione di abbandonare il conseguimento di una seppur minima intesa e lasciare la parte in causa al suo destino.

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Ogni riferimento a fatti, cose

o persone è puramente casuale.

Tutti i nomi sono frutto di fantasia.

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Ringraziamenti

Questo primo volume ha significato per me anni di tenace e paziente lavoro. L’ho concepito poco alla volta, è maturato dentro di me man mano che scrivevo. L’idea centrale del romanzo mi è venuta frequentando l’Università: è stato allora (dieci anni fa ormai) che ho iniziato a scrivere i primi capitoli; poi la vita con le sue alterne vicende mi ha condotto ad interrompere l’opera, mio malgrado. Con la nascita del secondogenito, Benedetto, sono riuscita a riprenderne la stesura. Da lì in avanti non ho più smesso di scrivere. A tutt’oggi cerco di scrivere tutti i giorni. Ringrazio il Signore che mi ha dato il dono di scrivere. Un sentito grazie a mio marito Francesco per l’estenuante precisione con cui ha corretto le mie prime bozze e per lo stimolo continuo a migliorare nella scrittura. Un altro grazie alla mia cara amica Chiara senza la quale non avrei avuto le conoscenze adeguate per parlare della Lettera ai Laodicesi di San Paolo apostolo, effettivamente esistita e andata perduta. Un cordiale grazie a tutti gli amici che, nel corso di questi anni, mi hanno aiutato ad editare il romanzo, specialmente allo scrittore Guido Pagliarino. Uno speciale grazie agli scrittori che sono entrati a far parte del gruppo “scrittori cristiani” su Lulu.com. ed intendono portare avanti lo spirito cristiano nella letteratura. Ed infine un grazie sincero a tutti coloro che leggeranno questo libro e che, nella speranza che esso incontri il loro favore, lo faranno circolare.

Elisabetta Modena

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L’Angolo di Elisabetta su Lulu’s Store: (http://stores.lulu.com/store.php?fAcctID=1209624)

Racconti d’amore (contiene il racconto di christian fiction: Miracolo di

Natale)

Carlino, l’albero di Natale e la palla magica (fiaba per bambini e adulti)

Prossimamente il secondo libro della trilogia:

Il crollo dell’Unione e

il romanzo di fantascienza umanistica

Il marchio di Caino

Per qualsiasi informazione potete contattare l’autrice sul suo blog principale:

http://www.elisabettam.splinder.com