Effetti e Prospettive di una crisi...

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Etica della scienza e d e l l a s o c i e t à Incipit - Bimestrale - Registrazione del Tribunale di Bologna n.7729 del 19 febbraio 2007 -Tariffa R.O.C.- Poste Italiane - Spedizioni in A.P .- D.L. 353/2003 (Conv.in legge 27.02.2004 n.46) Art. 1 comma 1 - CNS/CBPA- Sud CZ/63/2007 valida dal 26/06/2007 Il mondo è cambiato? Effetti e Prospettive di una crisi anomala EDIZIONI NUOVO UMANESIMO Anno III° N. 3 Nov./Dic. 2009

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Il consumo consapevole di Energia Elettrica in ItaliaIl consumo consapevole di Energia Elettrica in Italia

E t i c a d e l l a s c i e n z a e d e l l a s o c i e t à

Anno II°N.4Sett/Ott.2008

Incipit - Bimestrale - Registrazione delTr i b u n a l e di Bologna n.7729 del 19 febbraio2007 -Tariffa R.O.C.- Poste Italiane -Spedizioni in A.P .- D.L. 353/2003 (Conv.i nlegge 27.02.2004 n.46) Art. 1 comma 1 -C N S / C B PA - Sud CZ/63/2007 valida dal2 6 / 0 6 / 2 0 0 7

EDIZIONI NUOVO UMANESIMO

Pres. Incipit 14-10-2008 14:50 Pagina 2

Il mondo è cambiato? Effetti e Prospettive di una crisi anomala

EdizioninuovoumanEsimo

Anno III°N. 3Nov./Dic.2009

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L' I.CO.E. (Italian Consumer Expectations Istituto Economico di Ricerca Fiducia dei Consumatori) è un istituto di ricerca che si occupa di:

studio, analisi e ricerca in campo economico-statisticosociale, finalizzati al monitoraggio e all'informazione dellafiducia degli utenti consumatori

promozione di riunioni, convegni, seminari, indagini dimercato, workshop

elaborazione di indici sintetici atti a misurare la fiducia dei consumatori

approfondimento di tematiche economico-giuridiche per la tutela dei diritti dei consumatori

valorizzazione del ruolo dei componenti non esecutivi indipendenti degli organi societari di amministrazione e controllo

pubblicazione di riviste periodiche, libri, quaderni diapprofondimento, newsletter

Italian Consumer E x p e c t a t i o n sIstituto Economico di Ricerca Fiducia dei Consumatori

Comitato scientifico

ANDREA ASTOLFIProfessore di Diritto Commerciale,Facoltà di Scienze Politiche, Universitàdi Pavia

ANTONIO BALDASSARREPresidente Emerito CorteCostituzionale, Professore alla LUISS

GIORGIO BERNINIgià Pro f e s s o re Ordinario di DirittoC o m m e rc i a l e Facoltà di Economia eCommercio, Università di Bologna

PAOLO BERTOLIPresidente ANDAF (AssociazioneNazionale Direttori Amministrativi eFinanziari) e Professore a contratto diBilancio, Facoltà di Economia eCommercio, Università di Pisa

EMANUELE CUSAProfessore di Diritto Commerciale,Facoltà di Giurisprudenza, Universitàdi Trento

IGNAZIO DRUDIDirettore Dipartimento di ScienzeStatistiche, Università di Bologna

FABRIZIO PEZZANIDipartimento di Accounting UniversitàBocconi - Membro board strategicoSDA Bocconi

GIORGIO TASSINARIProfessore di Statistica Aziendale,Facoltà di Economia e Commercio,Università di Bologna

STEFANO TOMELLERIProfessore Aggregato di Sociologia delmutamento sociale, CE.R.CO (Centrodi ricerca sull'antropologia e l'episte-mologia della complessità), Universitàdegli Studi di Bergamo

LIVIO TRONCONIProfessore di Diritto Sanitario eFarmaceutico, Facoltà di ScienzePolitiche, Università di Pavia

STEFANO ZAMBONProfessore di Economia Aziendale,Facoltà di Economia, Università diFerrara

Comitato tecnico

GIANLUIGI LONGHID o t t o re Commercialista, Revisore ContabilePresidente dell’I.CO.E.

PIER FRANCESCO SPORTOLETTI,Dottore Commercialista, RevisoreContabile

PIER FRANCESCO SPORTOLETTI,Dottore Commercialista, Revisore Contabile

FABRIZIO LEONI,Dottore Commercialista, RevisoreContabile

GABRIELE BASCHETTI,Dottore Commercialista, RevisoreContabile

FABRIZIO MARCHIONNI,Avvocato, Giurista di Impresa

FRANCESCA BUSCAROLI,Dottore Commercialista, RevisoreContabile

MARIO MARTELLIP ro f e s s o re a contratto di Diritto Tr i b u t a r i o ,Facoltà di Giurisprudenza, Università diTrento; Avvocato tributarista in Bologna

Editore: Associazione Culturale Non profit“Nuovo Umanesimo”Direttore Editoriale: Gianluigi LonghiDirettore Responsabile: Lucia CapannoliSegretaria di redazione:Stefania Musiani Grafica: Studio Nicola Russo - Pd

Periodico Economico Giuridico

U N I V E R S I TÀ’ DEGLI STUDI DI BOLOGNAD i p a rtimento di Scienze Statistiche "Paolo Fort u n a t i ”

www.icoe.it - [email protected]

It Jour Cons 14-10-2008 16:14 Pagina 1

L' I.CO.E. (Italian Consumer Expectations Istituto Economico di Ricerca Fiducia dei Consumatori) è un istituto di ricerca che si occupa di:

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Comitato scientifico

ANDREA ASTOLFIProfessore di Diritto Commerciale,Facoltà di Scienze Politiche, Universitàdi Pavia

ANTONIO BALDASSARREPresidente Emerito CorteCostituzionale, Professore alla LUISS

GIORGIO BERNINIgià Pro f e s s o re Ordinario di DirittoC o m m e rc i a l e Facoltà di Economia eCommercio, Università di Bologna

PAOLO BERTOLIPresidente ANDAF (AssociazioneNazionale Direttori Amministrativi eFinanziari) e Professore a contratto diBilancio, Facoltà di Economia eCommercio, Università di Pisa

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GIANLUIGI LONGHID o t t o re Commercialista, Revisore ContabilePresidente dell’I.CO.E.

PIER FRANCESCO SPORTOLETTI,Dottore Commercialista, RevisoreContabile

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Comitato scientifico

Prof. ANDREA ASTOLFIProfessore di Diritto Commerciale, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Pavia

Prof. ANTONIO BALDASSARREPresidente Emerito Corte Costituzionale, Professore alla LUISS

Prof. GIORGIO BERNINIgià Professore Ordinario di Diritto CommercialeFacoltà di Economia e Commercio, Università di Bologna

Prof. PAOLO BERTOLIPresidente ANDAF (Associazione Nazionale Direttori Amministrativi e Finanziari) e Professore a contratto di Bilancio, Facoltà di Economia e Commercio, Università di Pisa

Prof. FURIO CAMILLOProfessore di Statistica Aziendale, Facoltà di Economia e Commercio, Università di Bologna

Prof. EMANUELE CUSAProfessore di Diritto Commerciale,Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento

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Prof. Dott. GILBERTO GELOSADottore Commercialista e Professore a.c. Diritto Tributario, Università di Novara

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Prof. STEFANO TOMELLERIProfessore Aggregato di Sociologia del mutamento sociale, CE.R.CO (Centrodi ricerca sull’antropologia e l’epistemologia della complessità), Università degli Studi di Bergamo

Prof. LIVIO TRONCONIProfessore di Diritto Sanitario e Farmaceutico, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Pavia

Prof. STEFANO ZAMBONProfessore di Economia Aziendale,Facoltà di Economia, Università di Ferrara

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Dott. GIANLUIGI LONGHIDottore Commercialista, Revisore Contabile Presidente dell’I.CO.E.

Dott. PIER FRANCESCO SPORTOLETTI Dottore Commercialista, Revisore Contabile

Dott. FABRIZIO LEONIDottore Commercialista, Revisore Contabile

Dott. GABRIELE BASCHETTIDottore Commercialista, Revisore Contabile

Avv. FABRIZIO MARCHIONNIAvvocato, Giurista di Impresa

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Comitato di Redazione: Fabrizio Leoni, Livio Tronconi, Fabio Longhi, Carlo Montenovesi

Segretaria di Redazione: Stefania Musiani

Italian Journal Consumers Direttore Responsabile: Lucia Capannoli

Progetto grafico: Claudio Pesci

Stampa: Rubbettino, Industrie Grafiche Editoriali

Editore: Associazione Culturale Nuovo UmanesimoAssociazione Non ProfitSede Legale: Bologna, Via della Zecca, 2Tel. 051 271380

Redazione: Roma - via della Tribunadi Tor de’ Specchi, 18/aTel. 06 69202362 - Fax 060 [email protected]

Il mondo è cambiato?Effetti e Prospettive di una crisi anomala pag. 1

La geopolitica mondiale dopo la crisi economico-finanziaria 2

2009: l’emergere di un mondo multipolare? 7

Impatto della crisi sulle abitudini del risparmioe consumo delle famiglie italiane. 12

Ravenna 2030: il futuro è adesso 15

INDICE

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Febbraio 2008Periodico Economico Giuridico

Questo numero di Incipit è de-dicato prevalentemente agli

interventi al convegno di Raven-na del 27 novembre sul tema “Il mondo e’ cambiato ? Effetti e Pro-spettive di una crisi anomala” nel quadro di un progetto informati-vo culturale volto alla compren-sione degli scenari geopolitici ed economici mondiali nei prossimi venti anni: fino al 2030, anno in cui le stime economiche prevedo-no il sorpasso del PIL cinese su quello USA. La rigorosa analisi geopolitica di Carlo Jean e la dissertazione economica di Federico Bonaglia e Andrea Goldstein, economisti dell ‘OCSE richiedono, tuttavia, una premessa, utile credo, alla definizione delle coordinate stori-co-antropologiche di queste e di future analisi.Secondo Karl Polanyi *, il collas-so della civiltà del XIX secolo, che poggiava su quattro istituzioni: il sistema dell’equilibrio del potere che per un secolo impedì le guerre tra le grandi potenze (1815-1914); la base aurea internazionale che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale; il mercato autoregolantesi fonte di benessere economico; ed infine lo stato liberale, fu provocato, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, dal venir meno di que-ste quattro condizioni.Alla fine del XX secolo a queste istituzioni sono subentrati due nuovi fattori: la globalizzazione e la crisi ambientale.

E quindi?Fin dal tempo dei primi filosofi sociali ( Saint-Simon, Fourier..), questi nell’analisi di una “grande trasformazione” (secondo la de-finizione di K.Polanyi), quale il passaggio dal XIX al XX secolo e l’attuale, interpretavano il nuo-vo mondo industriale alla luce di parametri sociali e culturali prima ancora che economici.La conoscenza della natura ha compiuto negli ultimi duecento anni progressi più che profondi rispetto alle epoche precedenti. Meno noti sono i progressi della conoscenza storica, non modifi-cano infatti le forme di vita ma le forme di pensiero. Essi cercano di contribuire al progresso conosci-tivo, il quale non ha alcun effetto economico immediato, né alcuna utilità sociale riconoscibile. Trova generalmente l’indifferenza dei molti, o persino l’opinione critica di quegli interessi egoistici che si concretizzano nelle strutture di potere.Oggi a seguito della crisi economi-ca il panorama culturale economi-co – sociale si sta riproponendo il medesimo interrogativo; ma come nascono, crescono e tramontano le culture e gli elementi sociali, etnici, religiosi, tecnologici e sto-rici che le sostengono?L’analisi culturale storica strategi-ca attuale deve essere esente da premesse dogmatiche legate a principi precostituiti. L’indagine deve focalizzarsi non sugli Stati in quanto tali bensì su complessi

storici più ampi che lo storico in-glese J. Toynbee chiamò società. Ogni società e la sua cultura è col-locata in un ambiente fisicamente e storicamente determinato, con il suo sviluppo interno. Essa viene continuamente posta di fronte a problemi cui deve saper rispon-dere. La risposta determina il de-stino di quella società e di quella cultura che può consolidarsi, emergere o soccombere in un tramonto più o meno repentino. Le domande oggi alle quali cer-chiamo una risposta si riferiscono alla crisi economica ancora in corso ed alla possibile modifica dei modelli di sviluppo economici e degli equilibri di geopolitica. con effetti permanenti sui sistemi produttivi e sui consumi.La consapevolezza dei limiti allo sviluppo evidenziati già nel 1972 dal Club di Roma e dall’econo-mista Georgescu Roegen è ora-mai entrata nella cultura politica mondiale. La stessa ultima Enci-clica Papale “Caritas in Veritate” evidenzia che acquistare è un atto morale oltre che economico, ed in momenti come quelli che si stan-no sperimentando si dovrà con-sumare con maggiore sobrietà. È stato ricordato recentemente che già nel 1989 il futuro Premio Nobel Krugman aveva pubblicato un saggio nel quale evidenzia-va che le future generazioni non avrebbero più potuto pensare ad un tenore di vita sempre migliore. Ora, ritornando ai parametri so-ciali e culturali e tenendo pre-

sente un aspetto fondamentale del rapporto tra occidente e oriente, ci si può senz’altro riferire alla coscienza. La coscienza dell’uo-mo occidentale è individuata dalla consapevolezza: della morte;della libertà;della società.A questa consapevolezza vi è sot-tesa la religione, la filosofia ( la concezione del mondo), lo stile di vita. Da tutto ciò diverge il pensie-ro cinese: la nozione di verità, alla base della filosofia occidentale, non rientra nel pensiero cinese; non esiste opposizione errore-verità. La Cina non ha concepito la morale sulla possibilità della scelta, della tentazione, della tra-sgressione. E solamente la Cina non ha sviluppato una teodicea per giustificare lo stato del mon-do. Né ha pensato l’”essere”; ma il “processo”: tutto è in trasforma-zione. Questi flash sul pensiero cinese, nell’immensa complessità della sua filosofia, credo possano indurre qualche perplessità sugli equivoci e frizioni in grado di na-scere dalla commistione del voca-bolario teorico dell’Europa e delle sue caratterizzazioni (“soggetto” “oggetto” “logica” ecc) e della at-tuale mal digestione dell’apparato intellettuale cinese.Queste sbrigative considerazioni, in margine agli interventi dei re-latori, sono solo un indizio e un inizio dei problemi che, probabil-mente, ci accingeremo (o saremo costretti?) ad affrontare.

Gianluigi Longhi

Il mondo è cambiato? Effetti e Prospettive di una crisi anomala

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Febbraio 2008Periodico Economico Giuridico

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tale anno giravano nel mon-do centinaia di trilioni di derivati. Complessivamente, erano dell’ordine di quasi 10 volte il PIL mondiale (che è di 48 trilioni di dollari) e potenzialmente erano vere e proprie armi finanziarie di distruzione di massa. Il mito dell’unipolarismo è scomparso con l’insabbia-mento degli USA in Iraq ed Afghanistan. Non è però terminata la superiorità e l’influenza americana nel mondo. Ma la situazione è in rapido mutamento. Gli squilibri demografici si ac-centuano. La popolazione degli Stati industrializzati (ed anche quella cinese) in-vecchia. Aumentano le spe-se sociali. L’urbanizzazione esplode ovunque, specie nel Terzo Mondo, dove sorgono megalopoli ingovernabili. I fabbisogni di energia e di acqua stanno aumentando vertiginosamente. La su-periorità militare USA - ed anche la presenza delle armi nucleari - impediscono lo scoppio di grandi conflitti. Le guerre non si combattono più fra gli Stati forti, ma fra quelli deboli e, soprattutto, al loro interno. Il 2005 è sta-to il primo anno nella storia moderna in cui non fosse in corso una guerra fra Stati. Il numero dei conflitti “mag-giori” (almeno 1.000 morti all’anno si è mantenuto co-

Vent’anni fa finiva la guerra fredda. Dopo due anni, nel dicembre 1991, l’URSS col-lassava con l’indipendenza delle sue quindici repub-bliche. Il mondo cambiava. Da bipolare, prevedibile e semplice, diventava com-plesso. L’unica superpotenza rimasta, gli USA, non erano in condizioni di garantire il nuovo ordine mondiale. L’unipolarismo è stato un mito. Le alleanze, come la NATO, e le Istituzioni Fi-nanziarie Internazionali (IFI) costituite a Bretton Woods, non erano più sufficienti a garantire l’ordine politico ed economico-finanziario del mondo. Non corrispon-devano infatti né alla realtà dell’economia mondiale, né ai nuovi rapporti di forza, per la crescita della potenza economica, politica e strate-gica delle potenze emergen-ti – specie di Cina, India e Brasile - nonché dal ritorno geopolitico della Russia. Le IFI erano state create per gestire la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale e la finanza globale. Il loro scopo primario era di preve-nire lo scoppio di una crisi simile a quella degli anni Trenta. Ma, nel 1945, i flus-si finanziari ammontavano a circa 3,5 trilioni di dollari all’anno. All’inizio del 2008, sono divenuti di 2 trilioni di dollari al giorno. Inoltre, in

stante: tra 25 e 30). In essa è scomparsa la distinzione fra combattenti e non combat-tenti, una delle più grandi conquiste della civiltà. Le perdite civili ammon-tano al 90-95% del totale. La guerra ha perso la sua strumentalità per la politica perché costa sempre più e rende sempre meno. Inoltre, non è più risolutiva come erano nel passato le guerre fra gli Stati. Alla vittoria mi-litare segue “la guerra dopo la guerra”. Essa mette in discussione la possibilità di trasformare la prima in suc-cesso politico, che è poi il solo che conti. La competizione non è più militare. È soprattutto eco-nomica. Il progresso delle ICT (e in prospettiva quello della genetica, delle biotec-nologie e delle nanotecnolo-gie) ha trasformato il mondo. La globalizzazione, con il crollo dei costi dei trasporti e delle telecomunicazioni ed i progressi nelle produzioni agricole (OGM), ha sottrat-to alla fame ed alla povertà centinaia di milioni di per-sone. Il modello di capitali-smo liberale anglo-sassone, basato sulla liberalizzazione, la deregulation e sui prin-cipi del Washington Con-sensus (che assumeva come inevitabile la convergenza fra la crescita del benesse-re e quella della democra-zia, teorizzata da Fukuyama con la “fine della storia” e recepita come obiettivo dai “neoconservatori” USA) ha dominato il mondo, anche

se è meno credibile, dopo lo scoppio della crisi mondiale del 2008 e l’impossibilità di trasformare in democrazie gli Stati pre-moderni, dalla Bosnia all’Afghanistan. La crescita dell’economia si è accelerata negli anni No-vanta, nonostante le crisi fi-nanziarie in Asia, Russia ed America Latina e lo scoppio della “bolla” della new eco-nomy. La democrazia liberale ed il mercato libero sembrano non avere rivali, nonostante i successi del capitalismo autoritario cinese e russo, che forse presentano crepe maggiori di quanto si pensi. I “buchi neri” della globa-lizzazione sono stati fron-teggiati, soprattutto, dagli interventi militari statuni-tensi – con l’appoggio sem-pre meno convinto e sempre più marginale dei loro tradi-zionali alleati europei. Gli stessi USA saranno sempre più riluttanti a svolgere il ruolo di “sceriffi mondiali”. Con l’11 settembre, gli USA si sentirono attaccati e rea-girono con la “guerra al ter-rore”. In essa, sono emerse evi-denti le limitazioni della potenza militare nel mondo post-moderno e nei conflit-ti attuali, asimmetrici o di quarta generazione. Non è più possibile fare il deser-to e chiamarlo pace, come fece Roma con Cartagine, o la Russia con la Cecenia. Si ha la potenza per distrugge-re, ma non la forza per co-struire.

La geopolitica mondiale dopo la crisi economico-finanziariaCarlo Jean, Presidente Centro Studi di Geopolitica Economica

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“Le guerre dopo la guerra” sono complesse, imprevedi-bili, di durata incompatibile con l’impazienza delle opi-nioni pubbliche dei paesi democratici e con l’indebo-limento subito da tutte le de-mocrazie rappresentative. Il sogno di trasformare con la forza ed in tempi brevi socie-tà pre-moderne in post-mo-derne è ancora molto popo-lare. Lo dimostra il succes-so di termini irragionevoli, come quello del “soldato di pace”, come se qualche volta nella storia, come già notava Aristotele, qualcuno avesse fatto la guerra per la guerra e non per la pace che voleva imporre al suo avversario. Tale sogno, ha dimostrato ovunque il suo irrealismo. I Balcani o il Medio Oriente non possono essere portati sull’East Coast né trasfor-mati in una nuova Scandina-via, come pensano di fare i politici benintenzionati ed i giuristi internazionalisti. È un’ulteriore dimostrazione di come nella storia l’ottimi-smo provochi più danni del pessimismo. L’Occidente non può usare la potenza superiore di cui dispone per imporre i suoi principi e valori. Le guerre di religione non si fanno più. Non lo fa anche perché le colonie non si cercano più, perché i territori sono un peso, non si riescono a con-trollare, non danno i bene-fici economici di un tempo. Quando un paese si offre per essere colonizzato e mante-nuto dall’Occidente, lo si ri-

fiuta, facendo mille difficol-tà. La forza militare aveva un’utilità nell’era agricola (terra, acqua, ecc.) ed indu-striale (materie prime, aper-tura mercati, ecc.). Ha perso valore economico in quella post-industriale (competiti-vità). Il prezzo del petrolio è inferiore quando lo si com-pra. Se si vuole conquistarlo, costa di più. Il controllo dei territori e la dissociazione della popolazione dagli in-sorti, guerriglieri, terroristi,

“combattenti per la libertà” e così via – tanto sono più o meno la stessa cosa –sono difficili, hanno un’incerta probabilità di successo, in ogni caso costano troppo. Le forze armate “ipertecno-logiche”, specie degli USA, non possono controllare il

territorio. Sono capaci di distruggere e di occupare i territori, non di costruire nuovi regimi. Il 47% delle spese militari mondiali degli USA ed il 25% di quello dei loro alleati europei non rie-scono ad assimilare ed omo-logare nella globalizzazione i paesi che non ne vogliono sapere per ragioni culturali (Islam), etnico-tribali (Bal-cani-Islam-Asia Orientale), oppure ideologiche (paesi della “rivoluzione boliva-

riana” – nuova forma della “teologia della liberazione” - Cina, ecc.). L’“elegante” ordine bipolare non è stato sostituito da uno unipolare, né da uno multi-polare (balance of power, tipo “concerto delle poten-ze europee”), ma da uno

“a-polare”, anche per la di-somogeneità culturale e so-cio-politica, esistente fra gli Stati-continente (USA, Cina, India, Russia, Brasile), che determinano l’ordine geopo-litico mondiale. L’Europa è assente dal grup-po dei principali attori ge-opolitici, perché divisa e smilitarizzata anche cultu-ralmente. Lisbona migliore-rà solo marginalmente l’ef-ficienza dell’UE. Pur essen-do complessivamente una grande potenza economica, seconda solo agli USA (22% del PIL e 29% del com-mercio mondiale), l’Europa non riesce ad integrarsi. Si è integrata alla fine degli anni Quaranta non perché gli Stati europei si fossero riconciliati fra di loro, ma perché gli USA glielo aveva-no imposto. L’Europa ha più bisogno degli USA di quanto quest’ultimi abbiano bisogno di essa. Poiché non vi sono altri Stati Uniti sul merca-to, deve adattarsi a vivere con quelli che vi trova e ad aspettare le decisioni prese dalla Casa Bianca. Che il suo inquilino sia Bush od Obama, le cose non muta-no. Il Vecchio Continente è quindi in perdita di peso nel “gioco delle potenze mon-diali”, diretto dagli USA, in cooperazione/competizione con gli altri Stati-continente. Il G-7 è finito. Il G-8 (G-7 + Russia) non decolla, data la tendenza di Mosca, oltre che di Washington (ma ormai an-che, seppure più cautamen-te di Berlino), ad esercitare

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appieno la propria sovranità (la sentenza della Corte Co-stituzionale tedesca su Li-sbona ne è una chiara indi-cazione). L’Europa Atlantica è ormai diversa da quella di mezzo (Germania, Italia, ma anche Turchia) in equilibrio fra Washington e Mosca. L’Europa Centro-Orientale (Svezia inclusa) aspira in-vece a divenire una dépen-dance degli USA, anche per poter continuare a fare dispetti alla Russia, sotto la protezione americana. L’unica decisione che è ri-uscito a prendere il G-20 di Pittsburgh è stata quella di diminuire l’ingiustificata preponderanza europea nelle IFI. All’accresciuta esigen-za di governance mondiali, corrisponde l’obsolescenza delle attuali istituzioni in-ternazionali dell’ONU alle istituzioni di Bretton Woods. In tale situazione, anche per l’ingovernabilità del G-20 – troppo ampio e disomogeneo – si sta affermando il G-2 o Chimerica (China and America), con i suoi S&ED (Strategic and Economic Dialogues). Vi sono dub-bi sulla sua solidità, anche se molti ritengono che esi-sta una complementarietà economica strutturale fra la Cina, che risparmia (e com-pra BOT americani), permet-tendo agli USA di consuma-re più di quanto producano. Pechino deve però affrontare enormi problemi interni (se-condo l’XI Piano Quinquen-nale del dicembre 2006, 300 milioni di abitanti si dovreb-

bero spostare, nei prossimi 15-20 anni, dalle campagne alle città e dall’agricoltura all’industria ed ai servizi). Infine, con l’integrazione nell’economia mondiale, da continente la Cina si è tra-sformata in isola. Ma le sue indispensabili vie di comu-nicazione marittima (obbli-gate ad ovest dagli Stretti della Malacca e ad est dalle basi americane delle “tre ca-tene di isole” del Pacifico), saranno dominate, ancora per decenni, dalle Marine degli USA e dei loro Alleati. Il legame fra Washington e Pechino è solido anche per il comune interesse alla ri-presa della globalizzazione ed al contenimento del prez-zo delle commodities.Una guerra commerciale sarebbe disastrosa per entrambi. Fra USA e Cina esiste, in campo economico e finan-ziario, una situazione simi-le a quella che, in campo strategico, esisteva fra USA e URSS, durante la guerra fredda: una specie di MAD (Mutual Assured Destruc-tion) finanziaria, analoga a quella nucleare che contri-buì ad impedire alla guerra fredda di diventare “calda”. Anche il multilateralismo (regole e istituzioni inter-nazionali, ecc.), pur essen-do sempre più necessario, è in crisi. Il sistema creato alla fine del secondo con-flitto mondiale non regge più. Come ricordato, non corrisponde più alla realtà dei rapporti di potenza po-litica, economica e militare.

Modificarlo è però difficile. Nella storia, i nuovi ordini internazionali sono sempre derivati dagli esiti di conflit-ti armati. All’inizio del XXI secolo, il mondo si reggeva sull’equilibrio degli squili-bri: gli USA, superpotenza a debito, consumano più di quello che producono e non risparmiano, ma “pompano” denaro dal resto del mondo e, quando non ci riescono, stampano dollari. La Cina produce, risparmia, paga in parte il debito americano, ma non consuma. L’Europa, un secolo fa cen-tro del mondo, non cresce ed invecchia. Non riesce ad esprimere quel ruolo di equilibrio che dovrebbe

esercitare. La competizio-ne per le materie prime si sta accrescendo. La Cina sta colonizzando l’Africa e l’America Latina con i suoi “fondi sovrani”. Competo-no con essa, soprattutto, gli USA, peraltro distratti – ma non troppo - dagli impegni militari in Medio Oriente. L’erosione della centralità dell’Occidente – nei suoi tre poli, USA, Europa e Giappo-ne – è stata accelerata dal-la crisi economica iniziata nel 2007, che ha avuto poi i maggiori impatti nel 2008-09. Molte economie ne stanno uscendo con la ripresa del-la crescita, che non è però accompagnata da quella

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dell’occupazione e che è frenata dal peso del servi-zio dei debiti pubblici. Non solo l’economia, ma anche la geopolitica mondiale si stanno modificando. Già la globalizzazione aveva vinci-tori e vinti. Paradossalmen-te, la crescita delle potenze asiatiche emergenti ha se-gnato la vittoria dei valori occidentali: libero mercato, fiducia nella scienza e nel-la tecnologia, meritocrazia e pragmatismo. Le tenden-ze ad uno slittamento della centralità mondiale dell’At-lantico al Pacifico sono state accelerate dalla crisi. I mu-tamenti sono stati influen-zati dal modo – rapidità e determinazione - con cui i vari Stati, in assenza di una governance mondiale, han-no affrontato la crisi. Esistono, comunque, dub-bi sull’effettiva entità degli effetti negativi che la crisi ha avuto nei paesi, in cui politica ed economia sono avvolti da una forte opacità. Ad esempio, sembra che la Russia sia stata colpita in modo ancora più duro che dalla crisi finanziaria del 1997-98, con una forte dimi-nuzione del PIL e del livello di benessere della popola-zione. Essi stanno incidendo sugli stessi rapporti di pote-re a Mosca fra i due gruppi dei siloviki (Sechin, FSB, Rosneft, ecc.) e dei civiliki (Surkov, Kudrin, Gref, GRU, procura nazionale, Gazprom ed anche Medvedev), fra i quali Putin incontra sempre maggiori difficoltà a mante-

nere un equilibrio. Le riser-ve valutarie sono drammati-camente diminuite; il prezzo delle materie prime non è più quello del 2007; gli IDE (Investimenti diretti all’este-ro) sono praticamente scom-parsi; dietro i sorrisi fatti nello SCO (Shanghai Co-operation Organization), sta aumentando la competi-zione fra Mosca e Pechino per le risorse dell’Asia Cen-trale e della Siberia Orien-tale. La Russia, nei prossimi due anni, deve rimborsare prestiti internazionali per 500 miliardi di dollari. Il re-gime si è difeso dagli effetti negativi della diminuzione del benessere ricorrendo al nazionalismo ed attribuen-do la responsabilità della crisi all’Occidente. È un giochetto che non può du-rare a lungo. Ad un certo punto, Mosca dovrà creare le condizioni per riattivare il flusso degli investimenti e della tecnologia occidentali. Anche la Russia è stata dan-neggiata dal declassamento del G-8. E’ poi terrorizzata dalla crescente convergenza fra gli Stati Uniti e la Cina, che sta trasformandosi in un’alleanza informale. I suoi limiti stanno soprattutto nel-la difficoltà psicologica sia degli USA che della Cina di riconoscersi come partners eguali.Il cuore geopolitico mon-diale – militare, culturale ed economico – rimarrà, quindi, negli USA ancora per decenni. Sotto il pro-filo militare, gli USA sono

facilitati rispetto agli Stati-continente, loro competitori (Cina, Russia, India ed an-che Brasile), dal fatto che non devono dedicare risorse alla difesa del loro territorio contro un’aggressione ter-restre. Possono quindi con-centrarle sul dominio degli oceani, dello spazio e del cyberspazio e sulle capaci-tà di proiezione di potenza nelle periferie dell’Eurasia. Sotto il profilo culturale, le grandi università americane rimangono i luoghi in cui si formano le classi dirigenti di tutto il mondo. Infine, l’economia USA è stata meno colpita dalla cri-si di quella degli altri Stati. La loro ripresa si preannun-cia più dinamica. Il dollaro manterrà la sua preminenza come moneta di riserva a di scambio, anche perché la BCE non ha come contro-parte un ministro del teso-ro di Eurolandia. Gli USA continueranno ad attirare denaro da tutto il mondo, es-sendo considerati il “paese rifugio”. Dovranno affrontare taluni grossi problemi: il debito federale e, soprattutto, l’in-vecchiamento della popo-lazione, con conseguente aumento delle spese sociali. Il loro bilancio militare non sarà ridotto (con Obama è aumentato del 4% e sono già stati preannunciati fi-nanziamenti aggiuntivi). Co-munque, non è di entità tale (3,7%, senza i fondi aggiun-tivi per Iraq ed Afghanistan) da non poter contribuire si-

gnificativamente alla ridu-zione del deficit o al finan-ziamento dell’aumento delle spese sociali, che con gli attuali standard potrebbero assorbire nel 2050 l’intero bilancio federale. La pros-sima rivoluzione tecnologica – che potrà avere un impatto economico simile a quello delle ICT – favorirà gli USA rispetto agli altri paesi, an-che per la loro flessibilità (mentre gli europei poveri danno colpa allo Stato, gli americani poveri danno la colpa a loro stessi e si danno da fare per diventare ricchi). Non sono prevedibili in USA rivolte sociali, come quelle possibili in Cina, in Russia ed anche in Europa. Stati Uniti e Cina rilance-ranno la globalizzazione nonostante l’emergere di ta-lune tendenze all’iper-rego-lamentazione, al protezioni-smo e agli interventi diretti dello Stato nella gestione dell’economia. L’Europa ve-drà diminuire ancora il suo peso e rischia di uscire dalla storia. Lo stesso accadrà per la Russia che conosce un disa-stroso declino demografico. L’ipotesi avanzata da taluni di un’Eurorussia o di una “nuova Rapallo” fra Berlino e Mosca, appare alquanto improbabile, dato l’interes-se della Germania a restare integrata in Europa e lega-ta agli USA. Tale interesse è accresciuto dal fatto che, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona e con la possibile maggiore efficien-

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be necessaria la presenza di un’Europa unita, che alme-no per ora non esiste. Solo essa, potrebbe sostenere gli USA ed il dollaro, evitan-do che Washington risolva i suoi problemi interni con provvedimenti eccessiva-mente penalizzanti per gli altri. Comprando dollari, per evitare un eccessivo raffor-zamento dell’euro, l’Europa potrebbe dotarsi di fondi sovrani capaci di ristabilire una sua influenza soprattut-to in Russia, in Africa ed in America Latina. L’assenza di Europa spinge, poi, gli USA verso il Pacifi-co e verso modelli di ordine mondiale inesplorati ed in-stabili, caratterizzati dalla mancanza di una polarità transatlantica. Il multilate-ralismo, da molti auspicato, è impraticabile a livello glo-bale per la disomogeneità strutturale di molti dei prin-cipali attori geopolitici e per l’indisponibilità di molti – a partire dalla Cina e dalla Russia, ma anche degli stessi Stati Uniti – a cedere spontaneamente parti con-sistenti della loro sovranità ad istituzioni internazionali ed alle loro regole di gover-nance mondiale. La potenza di un blocco transatlantico bilancerebbe l’attrazione degli USA verso il sistema Asia-Pacifico. E’ anche per questo che, pri-ma di gettare il G-7 e G-8 (ed anche la NATO) alle or-tiche, bisognerebbe pensar-ci almeno due volte.

guardi dell’Iran, sia in Asia sud-orientale, nei confronti della Cina. Il secondo mo-dello è quello “bismarckia-no”, di appoggiare gli Stati più forti, perché trasformino la loro superiorità in ege-monia e mantengano una solida stabilità regionale. Lo fanno in America Latina con il Brasile ed in Africa, con il Sudafrica. Questo scenario di ripresa della globalizzazione e di ristabilimento di un certo ordine geopolitico ed eco-nomico mondiale, pur aven-do un’elevata probabilità di realizzazione, non è comun-que certo. Il peso del debito, l’invec-chiamento della popolazio-ne e la ripresa del controllo della politica sull’economia potrebbero portare, negli USA, ad un’ondata prote-zionista che frammentereb-be il mercato globalizzato, accentuando le differenze fra vincitori e vinti e pro-vocando esplosioni nazio-naliste ed il ritorno della possibilità di nuove grandi guerre. Esse potrebbero essere ac-centuate dalla decisione di Washington di assorbire il debito – che per due terzi è estero – con il ricorso all’in-flazione o ad una svaluta-zione “selvaggia” del dol-laro. Esse provocherebbero tensioni, a livello mondiale, ed una crisi che avrebbe ripercussioni geopolitiche molto profonde. Anche per evitare tale scenario, poten-zialmente disastroso, sareb-

dal PIL pro capite che da quello totale. E nel 2030 il PIL pro capite cinese – che è ora un quattordicesimo di quello americano – non sarà superiore ad un quarto-un quinto di esso. Data la crisi demografica che colpirà la Cina fra due o tre decenni, i cinesi rischiano di divenire “grigi”, prima di diventare ricchi. Se ci si riferisce al Competitiveness Report, gli USA – con Singapore e la Nuova Zelanda – sono fra i primi tre, mentre la Cina è al 30° posto e l’India al 50°.Gli USA non vorranno né potranno però garantire da soli l’ordine mondiale. Mol-to verosimilmente, quest’ul-timo avrà le strutture del modello hub and spoke, previsto da Kissinger e Br-zezinski e dallo stesso pre-sidente cinese Hu Jintao, con gli USA – unica super-potenza, ancora per decen-ni – posti al centro dell’or-dine mondiale e collegati con un insieme di blocchi regionali, mantenuti stabili dalle grandi potenze: Cina, India, Sud Africa, Germa-nia, ecc.. Gli USA saranno però garanti degli equilibri regionali. Lo potranno fare in due modi, che potranno coesistere in regioni diver-se. Il primo ricalca il mo-dello della pax britannica, del XIX secolo, e consiste nell’appoggiare gli Stati più deboli, per evitare l’egemo-nia di quelli più forti. E’ quanto già oggi gli USA fanno sia nel Golfo, nei ri-

za dell’UE, l’“asse franco-tedesco” (ormai trasforma-tosi in “tedesco-francese”) aumenta l’interesse a man-tenere l’attuale livello di in-tegrazione europea, fortuno-samente sopravvissuto alla crisi economica e alle diffe-renti politiche adottate dai vari Stati per fronteggiarla. L’indebolimento del presti-gio del capitalismo anglo-sassone eroderà solo margi-nalmente l’influenza del mo-dello americano nel mondo, anche perché è stato adot-tato economicamente dalla Cina. I rapporti fra gli USA e l’Europa saranno influen-zati dalla delusione che sta cominciando ad emergere in Europa nei riguardi delle indecisioni di Obama, su cui erano state riposte aspettati-ve eccessive. La centralità degli USA, co-munque, permarrà per de-cenni, ma si eserciterà più con la leadership – quindi, con il soft power – che con l’intervento diretto (“impero non impero” americano) e con l’hard power militare ed economico, strumento essenziale dell’Amministra-zione Bush. Tale centralità non muterà per il “sorpas-so” del PIL cinese, rispetto a quello americano, che do-vrebbe avvenire fra il 2030 ed il 2040. La trasformazio-ne della ricchezza econo-mica in potere geopolitico non è lineare. La capacità di mobilitazione delle ri-sorse varia enormemente da Stato a Stato. Dipende più

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2009: l’emergere di un mondo multipolare?Federico Bonaglia e Andrea Goldstein1 Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (OCSE) Parigi

Il 2009 potrebbe essere ri-cordato come un anno di svolta nella governance dell’economia mondiale. L’autunno 2009 non ha visto infatti solo la celebrazione del ventesimo anniversa-rio della caduta del Muro di Berlino, ma anche il de-cimo anniversario di un al-

tro evento, che ebbe luogo sempre a Berlino: la prima riunione del G202. Se la cre-azione di questo gruppo pas-sò all’epoca sostanzialmente inosservata dai non addetti ai lavori, nell’immaginario collettivo la convocazione fra Novembre 2008 e Set-tembre 2009 di tre Vertici

dei Capi di Stato e di Go-verno ha elevato il G20 al rango di governo mondiale dell’economia, un privilegio che tradizionalmente ap-parteneva al G8. La deci-sione di aprire “il club del caminetto” a nuovi convitati rappresenta una decisione epocale, con ripercussioni potenzialmente di grande portata per le relazioni in-ternazionali e la governance mondiale. È ancora presto per dire se questo eteroge-neo formato, che ha saputo fornire risposte concrete alla crisi finanziaria, riuscirà a

esercitare una leadership efficace in tempi normali, e se saprà trovare soluzioni alle molte altre sfide globali, dal cambiamento climatico, alla riduzione degli squilibri economici, alla tutela della pace e della sicurezza. Il motivo per cui i formati di governance mondiale sono cambiati è presto detto – lo spettro di una depressione economica prolungata e del crollo della finanza interna-zionale. Le misure straordi-narie di politica economica adottate con il Summit di Londra del 2 Aprile hanno

2009: l’emergere di un mondo multipolare? Federico Bonaglia e Andrea Goldstein1

Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (OCSE) – Parigi

Il 2009 potrebbe essere ricordato come un anno di svolta nella governance dell’economia mondiale. L’autunno 2009 non ha visto infatti solo la celebrazione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, ma anche il decimo anniversario di un altro evento, che ebbe luogo sempre a Berlino: la prima riunione del G20

2. Se la creazione di questo gruppo passò all’epoca sostanzialmente inosservata dai non addetti ai lavori,

nell’immaginario collettivo la convocazione fra Novembre 2008 e Settembre 2009 di tre Vertici dei Capi di Stato e di Governo ha elevato il G20 al rango di governo mondiale dell’economia, un privilegio che tradizionalmente apparteneva al G8. La decisione di aprire “il club del caminetto” a nuovi convitati rappresenta una decisione epocale, con ripercussioni potenzialmente di grande portata per le relazioni internazionali e la governance mondiale. È ancora presto per dire se questo eterogeneo formato, che ha saputo fornire risposte concrete alla crisi finanziaria, riuscirà a esercitare una leadership efficace in tempi normali, e se saprà trovare soluzioni alle molte altre sfide globali, dal cambiamento climatico, alla riduzione degli squilibri economici, alla tutela della pace e della sicurezza.

Il motivo per cui i formati di governance mondiale sono cambiati è presto detto – lo spettro di una depressione economica prolungata e del crollo della finanza internazionale. Le misure straordinarie di politica economica adottate con il Summit di Londra del 2 Aprile hanno permesso di stabilizzare i mercati finanziari e di fermare il crollo della produzione. Sono state triplicate le risorse a disposizione del Fondo Monetario Internazionale, per garantire che questo possa soddisfare le esigenze dei Paesi a medio reddito, emergenti e a basso reddito colpiti dalla crisi, ed è stata promossa una riforma della regolamentazione finanziaria internazionale per ridurre i rischi di future crisi quale quella iniziata dai mutui subprime. Questo secondo Summit G20, dopo quello convocato a Washington il 15 novembre 2008, ha sancito il riconoscimento formale del ruolo imprescindibile delle grandi economie emergenti per affrontare le grandi sfide economiche internazionali. Nel terzo Summit, tenutosi a Pittsburgh il 26-27 Settembre, i Leader hanno in un certo senso completato l’opera, designando il G20 come “premier forum for our international economic cooperation”. Non meno importante la decisione di creare il Financial Stability Board (FSB), presieduto dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, per coordinare e monitore i progressi nel rafforzare la regolamentazione finanziaria e di includere le principali economie emergenti.

Il riconoscimento formale della centralità delle economie emergenti – e in particolare dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) – riflette un processo di sviluppo economica e crescente convergenza. Il dato più eclatante è che in un futuro non troppo distante – il 2030 secondo le stime dello storico economico Angus Maddison – la Cina dovrebbe prendere il posto degli USA quale prima economia mondiale. Le economie emergenti, soprattutto i due paesi più popolosi, rappresentano oggi l’esempio più chiaro di come globalizzazione possa rimare con sviluppo economico. Come indicato nella Tavola qui di seguito, essi rappresentano oggi una parte considerevole del reddito mondiale, anche se forse meno grande di quanto certe stime lasciassero inizialmente pensare, degli investimenti diretti all’estero, del commercio internazionale e anche nella creazione di brevetti. In maniera corrispondente, il peso delle economie industrializzate (G7) si è ridotto, talvolta sensibilmente. Le imprese dei paesi emergenti hanno ormai posizioni di primo piano sui principali mercati e competono ad armi pari con le imprese multinazionali di Europa, Stati Uniti e Giappone, anche in settori ad elevato contenuto tecnologico, e non solo in quelli dove possono sfruttare i più bassi costi della loro forza lavoro

3. Cina e India sono anche i paesi che hanno saputo ridurre in maniera più

significativa la povertà, benché questo processo non sia stato accompagnato da una riduzione delle disuguaglianze.

Tavola 1. Peso delle maggiori economie nella globalizzazione (1996 e 2006)

PIL (miliardi di dollari US)

Commercio (esportazioni +

importazioni, miliardi di dollari US)

Popolazione (milioni)

Stock di investimenti diretti all'estero

(milioni di dollari US)

Aiuti allo sviluppo netti (milioni di dollari US)

Domande di brevetti (di residenti e non-residenti)

1996 2006 1996 2006 1996 2006 1996 2006 1996 2006 1996 2003

Canada 604 1 251 445 876 686 30 33 132 329 449 035 1 356 3 684 27 570 37 227

Francia 1 574 2 231 706 1 248 506 58 61 231 111 1 080 204 5 754 10 601 16 400 16 850

Germania 2 438 2 907 1 192 2 408 468 82 82 290 837 1 005 078 4 535 10 435 51 833 58 481

Italia 1 260 1 845 564 1 043 835 57 59 117 341 375 756 811 3 641 8 675 9 273

Giappone 4 620 4 340 888 1 496 040 126 128 258 612 449 567 8 207 11 187 376 674 413 093

Regno Unito 1 191 2 345 705 1 467 162 58 60 330 433 1 486 950 1 790 12 459 28 005 31 624

Stati Uniti 7 762 13 202 1 833 3 654 345 269 299 795 195 2 384 004 6 917 23 532 211 946 342 441

Russia 392 987 188 542 765 148 142 4 390 156 824 25 994 34 870

Brasile 840 1 068 125 278 160 164 189 44 005 87 049 .. 8 057 13 910

Cina 856 2 668 326 1 952 145 1 218 1 312 19 882 73 330 .. .. 22 742 105 317

India 385 906 86 432 634 949 1 110 735 12 964 .. .. 8 292 12 613

Messico 333 839 207 557 830 93 104 4 219 35 144 .. .. 6 754 12 206

Sud Africa 144 255 69 161 362 40 47 24 342 43 499 .. .. .. 4 894

Totale (13) 22 400 34 844 7 334 16 119 938 3 290 3 626 2 253 430 7 639 404 29 371 75 539 792 942 1 092 799

Mondo 30 201 48 245 13 343 28 944 000 5 742 6 518 3 307 240 12 474 261 56 124 109 593 1 073 883 1 471 219

Percentuali

G7 64 58 47 42 12 11 65 58 52 69 67 62

G8 66 60 49 44 14 13 65 59 52 69 70 64

BCIMS* 8 12 6 12 43 42 3 2 - - 4 10

G8 + BCIMS 74 72 55 56 57 56 68 61 52 69 74 74

(*) Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa. Fonte: F. Bonaglia e A. Goldstein Globalizzazione e Sviluppo (2008, 2 ed.), Il Mulino.

L’avvento sulla scena internazionale di questi nuovi motori dello sviluppo mondiale, che hanno registrato nell’ultimo decennio tassi di crescita del PIL nettamente superiori a quelli delle economie più avanzate, è un fenomeno eterogeneo, che testimonia l’esistenza di modelli di sviluppo economico alternativi

1 Le opinioni espresse sono personali e non coinvolgono le organizzazioni di appartenenza. 2 La prima riunione del G20, co-presieduta dai ministri delle Finanze tedesco e canadese, ebbe luogo a Berlino il 15 Dicembre 1999. Il G20 (www.g20.org) fu istituito per rispondere alla grave crisi finanziaria che colpì l’economia mondiale alla fine degli anni Novanta. Riunisce i ministri delle finanze e i governatori delle Banche Centrali delle 19 principali economie mondiali (Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Repubblica di Corea, Russia, Sud Africa, Turchia e USA, oltre alla Presidenza del consiglio dell’Unione Europea e al Governatore della BCE). La prima riunione a livello di Capi di Stato e di Governo in questo formato si è tenuta a Washington il 5-6 Novembre 2008. 3 Per un’analisi delle multinazionali dei paesi emergenti si veda ad esempio A. Goldstein, Multinational Companies from Emerging Economies, Palgrave, 2008.

Tavola 1. Peso delle maggiori economie nella globalizzazione (1996 e 2006)

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permesso di stabilizzare i mercati finanziari e di fer-mare il crollo della produ-zione. Sono state triplicate le risorse a disposizione del Fondo Monetario Interna-zionale, per garantire che questo possa soddisfare le esigenze dei Paesi a medio reddito, emergenti e a basso reddito colpiti dalla crisi, ed è stata promossa una rifor-ma della regolamentazione finanziaria internazionale per ridurre i rischi di futu-re crisi quale quella iniziata dai mutui subprime. Questo secondo Summit G20, dopo quello convocato a Washing-ton il 15 novembre 2008, ha sancito il riconoscimento formale del ruolo imprescin-dibile delle grandi economie emergenti per affrontare le grandi sfide economiche in-ternazionali. Nel terzo Summit, tenutosi a Pittsburgh il 26-27 Set-tembre, i Leader hanno in un certo senso completato l’opera, designando il G20 come “premier forum for our international economic cooperation”. Non meno importante la decisione di creare il Financial Stabili-ty Board (FSB), presieduto dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, per coordinare e monitore i pro-gressi nel rafforzare la re-golamentazione finanziaria e di includere le principali economie emergenti. Il riconoscimento formale della centralità delle econo-

mie emergenti – e in partico-lare dei BRIC (Brasile, Rus-sia, India e Cina) – riflette un processo di sviluppo eco-nomica e crescente conver-genza. Il dato più eclatante è che in un futuro non troppo distante – il 2030 secondo le stime dello storico econo-mico Angus Maddison – la Cina dovrebbe prendere il posto degli USA quale prima economia mondiale. Le eco-nomie emergenti, soprattut-to i due paesi più popolosi, rappresentano oggi l’esem-pio più chiaro di come globa-lizzazione possa rimare con sviluppo economico. Come indicato nella Tavola qui di seguito, essi rappresentano oggi una parte considerevo-le del reddito mondiale, an-che se forse meno grande di quanto certe stime lascias-sero inizialmente pensare,

degli investimenti diretti all’estero, del commercio internazionale e anche nella creazione di brevetti. In ma-niera corrispondente, il peso delle economie industrializ-zate (G7) si è ridotto, talvol-ta sensibilmente. Le impre-se dei paesi emergenti han-no ormai posizioni di primo piano sui principali mercati e competono ad armi pari con le imprese multinazio-nali di Europa, Stati Uniti e Giappone, anche in settori ad elevato contenuto tecno-logico, e non solo in quelli dove possono sfruttare i più bassi costi della loro forza lavoro3. Cina e India sono anche i paesi che hanno saputo ri-durre in maniera più signi-ficativa la povertà, benché questo processo non sia sta-to accompagnato da una ri-

duzione delle disuguaglian-ze. L’avvento sulla scena in-ternazionale di questi nuovi motori dello sviluppo mon-diale, che hanno registrato nell’ultimo decennio tassi di crescita del PIL nettamente superiori a quelli delle eco-nomie più avanzate, è un fenomeno eterogeneo, che testimonia l’esistenza di mo-delli di sviluppo economico alternativi a quelli Occiden-tali – codificati ad esempio dal c.d. Washington Consen-sus4 – e che rende ancora più complessa la categorizzazio-ne dei paesi in base al loro grado di sviluppo socio-eco-nomico o politico. Numerosi sono i tentativi di definire questo gruppo di paesi, da “Global South”, un concetto ampio che nella sua indeter-minatezza si pone come pos-sibile evoluzione della sud-divisione Primo, Secondo e Terzo Mondo proposta dal demografo francese Alfred Sauvy negli Anni Cinquan-ta, a quello più specifico, ma ugualmente indeterminato di “economie emergenti”. Ci sono poi termini più spe-cifici e con valenza politica – i BRIC (termine coniato nel 2001 da Jim O’Neill, chief economist di Goldman Sachs, a indicare Brasile, Russia India e Cina), i G5 (i BRIC senza la Russia ma con Messico e Sudafrica) o ancora l’IBSA (per India, Brasile e Sudafrica, che ef-fettivamente da alcuni anni hanno rafforzato la propria

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cooperazione economica e politica).Un altro aspetto interessan-te di questo nuova fase della globalizzazione è l’espan-sione delle relazioni “sud-sud”, testimoniata dagli ingenti flussi di commercio e di capitale fra paesi del Sud. Secondo i dati dell’Or-ganizzazione Mondiale del Commercio (OMC), nel pe-riodo 2000-2007 il commer-cio Sud-Sud è passato da 11,5% del totale al 16,4%, attestandosi a 2,3 trilioni di dollari. Questa componente del commercio mondiale è an-che stata la più dinamica. L’OCSE stima che sul pe-riodo 1985-2002 il com-mercio Sud-Sud di merci sia cresciuto in media del 12,5% l’anno, mentre il commercio Nord-Nord e Nord-Sud sono cresciuti rispettivamente del 7% e del 9,7%. Parallelamente all’aumento dell’intercam-bio commerciale sono cre-sciuti i flussi di capitale. La Banca Mondiale stima che gli investimenti diretti esteri (IDE) Sud-Sud rap-presentino oltre un terzo del totale mondiale. Questo trend crescente è conferma-to dai dati Thomson Reuters sulle introduzioni in Borsa (IPO): nel 2009 ben nove delle 10 principali IPO ve-dono imprese cinesi, brasi-liane e indiane nel ruolo di emittente. L’esperienza di questi paesi,

delle loro imprese, è, come detto, eterogenea e rappre-senta una sfida ai modelli esplicativi prevalenti. Per esempio, l’internazionaliz-zazione delle multinazionali delle economie emergenti, che John Matthews ha bril-lantemente definito Dragon multinationals, è difficil-mente riconciliabile con i modelli seguiti dalle im-prese occidentali. Le mul-tinazionali dei paesi “pe-riferici”, approfittando del proprio status di latecomer, si sono internazionalizzate molto più rapidamente delle multinazionali tradizionali. Queste imprese non aspet-tano di essere sufficiente-mente grandi per interna-zionalizzarsi, ma diventano grandi mentre si internazio-nalizzano, si internaziona-lizzano per crescere. Al ca-pitale privato si aggiungono crescenti flussi di aiuti pub-blici, spesso sotto forma di prestiti con bassi tassi d’in-teresse legati all’acquisto di beni o servizi del paese creditore o contro l’accesso alle risorse naturali5. Alla crescente influenza eco-nomica di questi paesi nei PVS, soprattutto in Africa, ampiamente documentata6 e confermata dal grande eco del secondo Forum Sino-Africano a Sharm el Sheik, corrispondono forme di col-laborazione e cooperazione con modalità e priorità in parte diverse rispetto ai pa-esi OCSE.

Ovviamente le economie emergenti già giocano an-che un ruolo importantissi-mo nelle negoziazioni inter-nazionali, soprattutto com-merciali, ma anche ambien-tali. È oggi impensabile di poter concludere il Round di Doha all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) oppure i negoziati sulle emissioni di monos-sido di carbonio senza il consenso e la leadership di questi grandi paesi. La riu-nione a porte chiuse che il presidente Lula ha tenuto a Roma nel Novembre 2009 con i Capi di Stato africani in occasione del Vertice FAO sull’alimentazione mondiale è un’altra e meno nota ma-nifestazione dell’influenza e del soft power che le potenze emergenti detengono sullo scacchiere internazionale.

Nel contempo, la legittimità e l’efficacia delle Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI) – la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Inter-nazionale – hanno sofferto negli ultimi anni a causa di una struttura di governance che da poca voce e peso a Cina, India e altre econo-mie emergenti. Non soltan-to questi sono ormai grandi protagonisti dell’economia mondiale, con riserve va-lutarie immense, ma in più sono portatori di posizioni di politica economica che si discostano dal cosiddet-to Washington Consensus a lungo propagato dalle IFI. Non a caso allora uno dei principali interventi del G20 è stato proprio la loro riforma. Per valutare le prospettive del G20, conviene esami-

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nare gli obiettivi della co-siddetta informal global go-vernance e del G7/G8 come formato in cui questa moda-lità di esercizio del governo dell’economia mondiale si è declinata a partire dal 15 Novembre 1975, quando nel castello di Rambouillet vici-no a Parigi si incontrano per un vertice economico i capi del governo dei sei Paesi più industrializzati7. Il ver-tice annuale tra le potenze economiche mondiali – Stati Uniti, Germania, Gran Bre-tagna, Francia, Giappone e Italia, cui l’anno successivo si unisce il Canada, e al qua-le partecipano anche il pre-sidente della Commissione europea e il Presidente di turno del Consiglio europeo – è servito per discutere le interdipendenze tra i siste-mi economici dei diversi Paesi e avanzare sulla stra-da del coordinamento e del-la cooperazione nel governo dell’economia. Se l’agenda dei vertici era inizialmente focalizzata sui temi valutari e commerciali, nel corso del tempo i Leader del G8 han-no sempre di più discusso di beni pubblici globali, quali lo sviluppo dei paesi poveri e la tutela dell’ambiente, in vista di un’assunzione di re-sponsabilità collettiva verso il loro finanziamento, con un costante aumento degli impegni sottoscritti8. Fra le iniziative più note in materia di sviluppo dei paesi poveri si possono ricordare quella

per la lotta alle pandemie, con la creazione nel 2001 al Vertice di Genova del Fondo Globale per la lotta ad AIDS, Malaria e Tubercolosi e poi l’impegno del 2007 in Ger-mania ad Heiligendamm di destinare 60 miliardi di dol-lari in cinque anni per raf-forzare i sistemi sanitari, o ancora quella per la promo-zione dell’accesso all’istru-zione primaria, con il lancio della Fast Track Initiative nell’ambito del programma Education for All. All’apparenza sempre più potente, il G7 (divenuto G8 con l’allargamento alla Rus-sia nel 1997) è però divenu-to anche l’oggetto di critiche sempre più forti e variate, di cui si sono fatti latori sia gli studiosi e gli analisti, sia le organizzazioni non-gover-native e, in forme talvolta drammatiche, i movimenti no global. Una prima critica è che, al di là della pompa e di lunghe liste di impe-gni a fare di più e di tutto, i Summit servano soprattutto come photo-ops a beneficio dell’opinione pubblica. Una seconda critica, che in real-tà non è coerente con la pre-cedente, è che il G8 sia un governo del mondo che non ha però alcuna legittimità democratica. In particolare, l’esclusione delle economie emergenti e dei paesi meno sviluppati ne intacca forte-mente la legittimità, allor-ché le decisioni prese in oc-casione dei vertici finiscono

poi con l’applicarsi anche ad altri paesi. C’è poi chi sostiene che l’allargamento alla Russia abbia intacca-to l’omogeneità del gruppo, che si vorrebbe composto da paesi rispettosi sia della de-mocrazia sia dell’economia di mercato. Crediamo che la questione fondamentale sia legger-mente più complessa. Il G8 non è un forum in cui le de-cisioni formali sono prese, ma piuttosto un’occasione per i Leaders per discute-re in maniera aperta e non negoziale di questioni im-portanti9. Certo siamo ormai lontani dall’atmosfera dei primi vertici, in cui effetti-vamente si discuteva intor-no al caminetto, ma l’atmo-sfera è più rilassata che nei grandi vertici delle Nazioni Unite. Ciò ha consentito alle principali nazioni di focaliz-zarsi su determinate temi, raggiungere il necessario consenso sui principi e of-frire al sistema delle istitu-zioni internazionali la stra-tegic guidance di cui hanno bisogno per agire e imple-mentare le decisioni politi-che. Se la partecipazione ai vertici non corrisponde però alla trasformazione dell’eco-nomia globale, manca la le-gittimità per generare questi mandati e di conseguenza è il sistema a soffrirne, inca-pace di affrontare efficace-mente le sfide globali, dalla fame al cambiamento cli-matico, dalle pandemie allo

sviluppo sostenibile.A conferma di tale mutato panorama mondiale, fin del 2007 i paesi del G8 hanno invitato le cinque principali economie emergenti – il G5, composto da Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica – per un processo di dialogo sui principali temi della glo-balizzazione e dello svilup-po. L’Heiligendamm Dialo-gue Process (HDP) coinvol-ge questi cinque paesi in un processo non negoziale, focalizzato su quattro prin-cipali aree tematiche (inve-stimenti, efficienza energe-tica, innovazione/proprietà intellettuale e sviluppo/Africa), per accrescere la conoscenza reciproca e il grado di consenso su questi importanti dossier globali. Il Vertice de L’Aquila ha visto la conclusione della prima fase di questo processo di dialogo, con la presentazio-ne di un rapporto nel quale si raccolgono i risultati del lavoro condotto nei quattro gruppi di lavoro. Per la pri-ma volta, inoltre, i Capi di Stato e di Governo dei G8 e dei G5 hanno adottato una Dichiarazione congiunta nella quale si impegnano a lavorare insieme per fare avanzare l’agenda globale, a cominciare dalla promo-zione di una crescita eco-nomica mondiale più bilan-ciata, sostenibile ed equa, di un sistema che rigetti il protezionismo e tuteli la li-bertà di investimento e di

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commercio internazionale, e dall’adozione di principi condivisi per favorire lo svi-luppo dei paesi più poveri, fra cui il necessario raffor-zamento delle organiazzioni multilaterali e regionali. La Dichiarazione congiun-ta G8/G5 de L’Aquila e la successiva Dichiarazione del G20 di Pittsburgh, con la designazione del G20 come forum primario per la cooperazione economica internazionale, testimonia-no l’evoluzione della go-vernance informale verso forme più inclusive. Questi formati, benchè piú inclu-sivi, sono ancora ristretti e mancano quindi della legittimità associata alla rappresentatività. Secondo il premio Nobel dell’eco-nomia Stiglitz, i gruppi ri-stretti dovrebbero lasciare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il ruolo di rescrivere le regole della governance mondiale, per un’economia piú sostenibi-le e giusta. La legittimità di questo formato, (un “G192”)

deriva dalla sua rappresen-tatività universale. Difficilmente si potrà trova-re un formato di governan-ce sufficientemente ampio per essere rappresentativo e sufficientemente ristretto per garantire l’efficacia de-cisionale. Quest’ultima, poi, dipende non solo dai nume-ri ristretti, ma anche dal co-mun sentire o like minded-ness dei partecipanti. Il dibattito su quale sia il mi-gliore formato di governance informale è a nostro avviso sterile e rischia di offuscare la vera novità del 2009: l’as-sunzione di responsabilità da parte delle grandi eco-nomie emergenti accanto a quelle del vecchio mondo per affrontare le sfide globa-li. La sostenibilità dei vari “G” si deciderà in base alla loro capacità di accresce-re il comun denominatore e promuovere una migliore cooperazione fra le princi-pali economie mondiali, per fare avanzare l’agenda glo-bale insieme, anche attra-verso un’azione piú efficace

delle Oragnizzazioni Inter-nazionali piú rappresentati-ve delle quali sono questi paesi sono membri.

1 Le opinioni espresse sono persona-li e non coinvolgono le organizzazio-ni di appartenenza.2 La prima riunione del G20, co-presieduta dai ministri delle Finan-ze tedesco e canadese, ebbe luogo a Berlino il 15 Dicembre 1999. Il G20 (www.g20.org) fu istituito per rispondere alla grave crisi finanzia-ria che colpì l’economia mondiale alla fine degli anni Novanta. Riuni-sce i ministri delle finanze e i gover-natori delle Banche Centrali delle 19 principali economie mondiali (Arabia Saudita, Argentina, Austra-lia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Indo-nesia, Italia, Messico, Regno Unito, Repubblica di Corea, Russia, Sud Africa, Turchia e USA, oltre alla Presidenza del consiglio dell’Unio-ne Europea e al Governatore della BCE). La prima riunione a livello di Capi di Stato e di Governo in questo formato si è tenuta a Washington il 5-6 Novembre 2008. 3 Per un’analisi delle multinaziona-li dei paesi emergenti si veda ad esempio A. Goldstein, Multinatio-nal Companies from Emerging Eco-nomies, Palgrave, 2008.4 Questo termine fu coniato dall’eco-nomista John Williamson nel 1994 per riassumere il corpus di «buone» politiche per lo sviluppo alla base

delle raccomandazioni delle Isti-tuzioni Finanziarie Internazionali (basate a Washington). Esso poneva l’enfasi soprattutto su rigore macro-economico, apertura commerciale e privatizzazioni. Successivamente è evoluto verso un menu più articolato, che comprende anche regolamenta-zione finanziaria, ammodernamento della pubblica amministrazione e lotta alla corruzione, riforma del mercato del lavoro e introduzione di adeguate reti di protezione sociale.5 Sul ruolo dei donatori emergenti, si veda ad esempio N. Woods, “Whose aid? Whose influence? China, emer-ging donors and the silent revolution in development assistance,” Inter-national Affairs, Vol. 84(6), Novem-bre 2008.6 Si veda a questo proposito il mini-symposium sugli Asian Drivers e l’Africa a cura di A. Goldstein, N. Pinaud e H. Reisen, in The World Economy, Novembre 2009. 7 Si veda a questo proposito Ram-bouillet, 15 novembre 1975. La glo-balizzazione dell’economia di James Harold (Il Mulino 1999).8 Secondo l’Università di Toronto,gli impegni contenuti nella Dichiara-zione dei Leader sono passati da 14 del primo Summit a oltre 300 negli anni più recenti (www.g8.utoronto.ca/datasets/allcommitments/index.html).9 Si veda ad es. F. Bonaglia e A. Fu-sacchia, “Da Toyako a La Maddale-na. Il G8 giapponese e la prossima Presidenza italiana”, Equilibri, No. 3, Dicembre 2008, pp. 451-460, Il Mulino.

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I consumi delle fami-glie.I consumi nel 2008 si sono ridotti in termini reali dello 0,9%, in termini procapite è da evidenziare che gli stessi sono scesi al livello iniziale del decennio scorso.La spesa delle famiglie si è concentrata nei servizi an-corché in flessione rispetto al 2007 (- 0,5%).Dal 1970 ad oggi la com-ponente di spesa per servi-zi è aumentata dal 32% al 50,4%. Sono diminuiti con-sumi nelle comunicazioni (-0,4%), nei servizi sanitari (- 0,8%), negli alberghi e ristoranti (-0,5%); sono in-vece cresciuti i consumi nei servizi culturali ricreativi del 3%.Gli acquisti dei beni du-revoli, sono diminuiti del

7,3%, fra cui i mezzi di trasporto (- 15,1%) ad ec-cezione della spesa per prodotti ad alto contenuto tecnologico in particolare per i telefoni cellulari (+ 6,8%). Il consumo di beni non durevoli è diminuito dal 50% nel 1970, al 29,6% nel 2008, con una flessione del 1,3% rispetto al 2007, in particolare il settore ali-mentari e bevande ha avuto una contrazione del 2,3%. il settore vestiario e calza-ture ha avuto una contrazio-ne del 1,9%.La dinamica dei consumi delle famiglie ha risentito, nel complesso, del perdura-re della debolezza del red-dito disponibile diminuito in termini reali di mezzo punto percentuale. È ora-mai conclamato il perdurare

costante nell’ultimo quindi-cennio della debolezza del reddito che influenza la percezione di fiducia delle famiglie.Nonostante la contrazione vi è stato un aumento del-le imposte sul reddito e sul patrimonio salite del 1,9%.La netta flessione dei prezzi delle attività finanziarie ed il rallentamento di quelle immobiliari hanno vanifica-to il sostegno che nell’ulti-mo decennio era giunto ai consumi dai cospicui gua-dagni in conto capitale.

I prezzi.L’inflazione media nel 2008 è stata del 3,3% contro l’1,8% del 2007 con minimi del 2% in dicembre 2008 e massimi del 4,1% nel luglio 2008.

Il risparmio finanziario delle famiglie consuma-trici.La propensione al rispar-

mio è diminuita al 9,2%. Il risparmio sul reddito di-sponibile si è elevato dal 7,7% del 2007 all’8,1%. Nel 2008 le famiglie han-no preferito investimenti in reddito fisso, in particolare in obbligazioni e strumenti finanziari emessi dalle ban-che. Le attività finanziarie lorde sul PIL sono pari a circa 3 volte.Sono proseguite le vendi-te di fondi comuni, la per-centuale delle famiglie che detengono fondi si è ridotta dal 12% del 2000 al 5% del 2008.

La concentrazione.Alla fine del 2007 la ric-chezza netta per famiglia ammontava complessiva-mente a circa 360 mila euro (143 mila euro pro capite).Il 50% delle famiglie più povere detiene il 9,7% della ricchezza disponibile totale.Le famiglie con ricchezza negativa sono il 2,7% del totale.Il 10% delle famiglie ricche controlla il 44,7% della ric-chezza totale in linea con gli altri paesi industrializzati.La ricchezza media delle famiglie ammonta a circa 8 volte il reddito lordo dispo-nibile, era l’8,3 nel 2007.

I debiti finanziari.Nel 2008 i debiti finanziari a medio lungo termine delle famiglie hanno decelerato rispetto all’anno preceden-te. Per le sole famiglie con-sumatrici la percentuale sul

1999 2003 2007 2008

DEB/REDDITO DISPONIBILE

30% 36% 50 % 90% area euro

50 % 93% area euro

ONERE SERVIZIO DEL DEBITO (int cap)

5,6 % 6,25% 9,0% 10%

SOLO FAMIGLIE INDEBITATE

13% 14,5% 17% 20,5%

MENO ABBIENTI >30% (2,1%)

>30% (3,5%)

PRESTITI AL CONSUMO (sul totale)

9 % 10,5 % 14% 10%

TASSO PRESTITI al CONSUMO Area euro

n.a. n.a. 9,5 % 10% 8,1%

Il credito alle famiglie consumatrici si è contratto. I prestiti per l’acquisto di abitazioni sono cresciuti

del 5,3% rispetto ad un incremento del 15,4% nel 2006 e del 12% nel 2007. Il credito al consumo

anch’esso presenta una contrazione: da una crescita del 18,8% del 2006 si è passati al 9,8% nel 2008.

Complessivamente il credito alle famiglie consumatrici rispetto ad un’espansione a due cifre del 2006

(14,3%) si è contratto al 6,3% nel 2008 con un’ulteriore tendenza alla diminuzione nel corso del 2009.

Nel mese di marzo era il 6,0%. Le famiglie si sono orientate verso contratti a tasso fisso. Nel 2008 la

quota dei mutui a tasso fisso è stata pari al 67% rispetto al 15% del 2005. Complessivamente la

percentuale di mutui a tasso fisso sullo stock esistente ha raggiunto il 36%, oltre il doppio rispetto al

minimo del 2005.

Il 2,1% delle famiglie ha debiti la cui rata per ripagare il debito era superiore al 30% del reddito

disponibile. La stima di Banca d’Italia per il 2008 è del 3,5% delle famiglie. L’aumento del servizio

del debito ha reso difficili le condizioni finanziarie delle famiglie. La quota dei prestiti incagliati su cui

si riscontrano temporanei problemi di rimborso è salita dal 1,5% al 2,2%. La percentuale di crediti

scaduti e non onorati da almeno novanta giorni ha registrato un incremento di un punto percentuale a

4,3%. La vulnerabilità delle famiglie italiane potrà essere accentuata dal peggioramento del mercato del

lavoro, ancorché mitigato parzialmente dalla diminuzione dei tassi di interesse.

Conclusioni.

Il comportamento avuto nell’ultimo decennio nella ricerca del benessere immediato legato al

consumo, e non il futuro ancorato al risparmio ha evidenziato, con l’esplosione della crisi, la

vulnerabilità delle famiglie italiane, ancorché le condizioni del resto del mondo siano peggiori.

Ricordiamo comunque a favore della struttura sociale economica italiana, che prima dell’attuale

crisi, negli Stati Uniti il venticinque per cento delle famiglie americane deteneva quasi il 90 per

cento della ricchezza complessiva, contro il 71 per cento delle famiglie italiane. Nelle famiglie

meno abbienti il dato è drammatico: il venti per cento delle famiglie americane non detiene

ricchezza (circa l’uno per cento in Italia). * ( Fonte: Banca d’Italia, Servizio Studi n. 501)

Impatto della crisi sulle abi-tudini del risparmio e consu-mo delle famiglie italiane.

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reddito disponibile è del 42%; per tutte le famiglie è del 60%.Il credito alle famiglie con-sumatrici si è contratto. I prestiti per l’acquisto di abitazioni sono cresciuti del 5,3% rispetto ad un incre-mento del 15,4% nel 2006 e del 12% nel 2007. Il cre-dito al consumo anch’esso presenta una contrazione: da una crescita del 18,8% del 2006 si è passati al 9,8% nel 2008. Comples-sivamente il credito alle famiglie consumatrici ri-spetto ad un’espansione a due cifre del 2006 (14,3%) si è contratto al 6,3% nel 2008 con un’ulteriore ten-denza alla diminuzione nel corso del 2009. Nel mese di marzo era il 6,0%. Le famiglie si sono orientate verso contratti a tasso fisso. Nel 2008 la quota dei mu-tui a tasso fisso è stata pari al 67% rispetto al 15% del 2005. Complessivamente la percentuale di mutui a tas-so fisso sullo stock esistente ha raggiunto il 36%, oltre il

doppio rispetto al minimo del 2005.Il 2,1% delle famiglie ha debiti la cui rata per ripaga-re il debito era superiore al 30% del reddito disponibi-le. La stima di Banca d’Ita-lia per il 2008 è del 3,5% delle famiglie. L’aumento del servizio del debito ha reso difficili le condizioni finanziarie delle famiglie. La quota dei prestiti inca-gliati su cui si riscontrano temporanei problemi di rimborso è salita dal 1,5% al 2,2%. La percentuale di crediti scaduti e non onora-ti da almeno novanta giorni ha registrato un incremen-to di un punto percentuale a 4,3%. La vulnerabilità delle famiglie italiane potrà essere accentuata dal peg-gioramento del mercato del lavoro, ancorché mitigato parzialmente dalla diminu-zione dei tassi di interesse.

Conclusioni.Il comportamento avuto nell’ultimo decennio nella ricerca del benessere im-

mediato legato al consumo, e non il futuro ancorato al risparmio ha evidenziato, con l’esplosione della cri-si, la vulnerabilità delle famiglie italiane, ancorché le condizioni del resto del mondo siano peggiori.Ricordiamo comunque a favore della struttura so-ciale economica italiana, che prima dell’attuale crisi, negli Stati Uniti il venticin-que per cento delle famiglie americane deteneva quasi il 90 per cento della ric-chezza complessiva, contro il 71 per cento delle fami-glie italiane. Nelle fami-glie meno abbienti il dato è drammatico: il venti per cento delle famiglie ameri-cane non detiene ricchezza (circa l’uno per cento in Ita-lia). * (Fonte: Banca d’Ita-lia, Servizio Studi n. 501). Se l’etica protestante era alla base del capitalismo contemporaneo, quando questo si fonda soprattutto su incentivi materialistici ed edonistici, il persegui-mento della ricchezza, sen-

za il sostegno della morale protestante, perde ogni con-notazione religiosa ed etica. Questa osservazione di Max Weber spiega la degenera-zione della forma dell’at-tuale capitalismo -consu-mistico. Negli ultimi dieci anni, si è osservato, da una parte, la continua crescita delle famiglie consumatrici che ricorrono al credito me-diante accensione di presti-ti al consumo, ovvero l’ac-censione di mutui di lungo periodo. Dall’altra parte, conseguentemente, si può notare la continua erosione della capacità di risparmio delle stesse famiglie consu-matrici. Capacità che si ri-flette sulla quota del reddito disponibile da destinare al risparmio.Il risparmio medesimo è elemento non più stabile; lo stock di risparmio è in continuo ridimensionamen-to sia rispetto al PIL, sia in termini assoluti anche se nel 2008 a seguito della cri-si si è stabilizzato. I consu-mi, alimentati dalla finanza, erano il motore della produ-zione. Crollata la finanza, sono implosi i consumi ed il sistema produttivo, pro-vocando un aumento della disoccupazione. L’elemento demografico incide sul com-portamento dell’individuo senza figli, che ovviamente, non avendo responsabilità di genitore non si sacrifica per la propria discendenza ma ricerca quindi solo il benessere e la rendita.

La propensione al risparmio è diminuita al 9,2%. Il risparmio sul reddito disponibile si è elevato dal

7,7% del 2007 all’8,1%. Nel 2008 le famiglie hanno preferito investimenti in reddito fisso, in

particolare in obbligazioni e strumenti finanziari emessi dalle banche.

Le attività finanziarie lorde sul PIL sono pari a circa 3 volte.

Famiglie consumatrici

Media 81-1990

Media 91-2000

2006 2007 2008

PROPENSIONE RISPARMIO Netto

inflazione attesa

N.A. N.A. 9,8 9,0 9,2

RISP/

REDDITO DISP 21 13,7 7,9 7,7 8,1

Reddito disponibile/

Attività finan N.A. N.A. 4,6 3,4 3,0

Ricchezza Fin netta/

Reddito disponibile N.A. N.A. 2,87 2,77 2,46

RISPARMIO NETTO N.A. N.A. 60 MIA 42,6 43,7

RISPARMIO %PIL

N.A. N.A. 4,0 2,8 2,8

Sono proseguite le vendite di fondi comuni, la percentuale delle famiglie che detengono fondi si è

ridotta dal 12% del 2000 al 5% del 2008.

La concentrazione.

Alla fine del 2007 la ricchezza netta per famiglia ammontava complessivamente a circa 360 mila euro (143 mila euro pro capite). Il 50% delle famiglie più povere detiene il 9,7% della ricchezza disponibile totale.

Le famiglie con ricchezza negativa sono il 2,7% del totale.

Il 10% delle famiglie ricche controlla il 44,7% della ricchezza totale in linea con gli altri paesi

industrializzati.

La ricchezza media delle famiglie ammonta a circa 8 volte il reddito lordo disponibile, era l’8,3 nel

2007.

I debiti finanziari.

Nel 2008 i debiti finanziari a medio lungo termine delle famiglie hanno decelerato rispetto all’anno

precedente.

Per le sole famiglie consumatrici la percentuale sul reddito disponibile è del 42%; per tutte le famiglie

è del 60%.

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Febbraio 2008Periodico Economico Giuridico

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L’imperante etica-edonisti-ca esaltata dai mass-media stimola bisogni effimeri, l’imbarbarimento della cul-tura vanifica l’educazione ed il processo elaborativo, i video-giochi ed i prodotti high-tech attivano e stimo-lano solo circuiti neurali limbici emotivi determi-nando nelle giovani gene-razioni l’incapacità di sof-frire e quindi di risparmia-re. L’incertezza delle regole genera un senso di disagio ed una conseguente spin-ta verso i consumi propri di uno stile vita ancorato solo al presente. Ne segue una diminuzione della pro-pensione al risparmio ed il ricorso o al debito o alla diminuzione, dello stock di

risparmio accumulato, dalla generazione presente in età giovanile o di quello avuto in eredità dalla generazione precedente.Il ricorso al debito avviene sempre mediante il rimbor-so a rate, nella fiducia in un aumento futuro del reddito disponibile, o postergando il sacrificio del risparmio.Questo comportamento è stato ampiamente studiato dall’economia comporta-mentale: si trasferisce al fu-turo un fatto certo negativo quale pagare un debito cor-relato con un evento incer-to positivo quale l’aumento del reddito o certo negativo come il sacrificio delle pri-vazioni del risparmio. L’ef-fetto è, comunque, quello di

rinviare l’evento negativo. Sono le classi meno abbienti le più sensibili al consumo: ne è la riprova il loro inde-bitamento. Il problema per queste classi risiede, infatti, nella possibilità di ottenere il soddisfacimento di desi-deri quali telefono cellula-re, auto, vestiti alla moda, vacanze nei paesi tropicali, una casa propria, desideri percepiti oramai come bi-sogni. Il modello di cresci-ta del consumo, correlato alla ricerca del benessere, conduce le fasce più deboli del paese in una condizio-ne di povertà, dovuta anche all’indebitamento in prece-denza contratto che, produ-cendo interessi, brucia gran parte del reddito disponibi-le per rimborsare il capitale preso a prestito, relegando quindi tali categorie in una condizione di indigenza e di tensione sociale.La crisi in atto come ri-cordato, ha evidenziato la vulnerabilità delle famiglie meno abbienti e abbien-ti. L’incertezza sul futuro, e in particolar modo sulle prospettive di lavoro, ha inciso e continuerà a deter-minare una contrazione dei consumi. I dipendenti nel Pubblico Impiego e le loro famiglie consumatrici pre-sentano valori stabili. Gli incentivi nel settore auto e le politiche sociali effet-tuate dal Governo in merito agli ammortizzatori sociali hanno sia arrestato il crollo

della produzione industria-le legata al comparto, sia hanno agito quale stimolo di fiducia nelle classi lavo-ratrici del settore privato.L’avversione al rischio ai prodotti finanziari si è acu-ita, gli investimenti di ri-sparmio si sono orientati stabilmente verso il reddito fisso, in particolare in obbli-gazioni bancarie e depositi. Questo ha permesso alle banche di aumentare la rac-colta e sostenere gli impie-ghi e quindi nel complesso di stabilizzare il sistema finanziario ed il credito. I primi segnali di normaliz-zazione e di prospettiva di ripresa sono esaltati dai media al fine di ripristinare la fiducia dei consumatori. Se i sogni sono necessa-ri all’equilibrio dell’uomo i Governi dei vari Paesi li hanno alimentati: “…Que-sto è il nostro tempo, il tem-po per rimettere al lavoro il nostro popolo e spalancare le porte delle opportunità per i nostri figli; per riporta-re prosperità e promuovere la pace” ha ricordato il Pre-sidente degli Stati Uniti. E questo alimentare il sogno e la nostra fantasia è alla base dell’equilibrio di ogni ge-nerazione; ma gli squilibri demografici, ambientali ed economici proseguiranno.

Ufficio Studi I.CO.E. (dati elaborati,

Fonte Banca d’Italia )

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Attraverso il Progetto “Ravenna2030-Il Futuro è adesso” intendiamo porta-re il nostro contributo ad una visione in prospettiva dello sviluppo economico e sociale di Ravenna e del-la sua provincia: l’impulso che ne sta alla base sia la consapevolezza che è com-pito della classe dirigente quello di non rimanere in-chiodata alla gestione del quotidiano ma sforzarsi di guardare avanti,progettare il futuro. Sulla base di questa con-sapevolezza Confindustria Ravenna ha lanciato nel settembre dello scorso anno questo progetto che con l’arrivo della crisi ha finito con l’assumere un rilievo del tutto particolare: perché ci è parso subito evidente che questa crisi era diversa da quelle che l’hanno pre-ceduta e che era destinata ad incidere molto signifi-cativamente sul mondo per come lo abbiamo conosciu-to negli ultimi decenniNel corso di questo 2009 il Progetto Ravenna2030 si è sviluppato attraverso un percorso di iniziative pub-bliche che ha preso avvio con il grande evento dello scorso aprile nel corso del quale abbiamo avuto ospi-te, tra gli altri, Jacques At-tali e che si sviluppato in altri 2 momenti fondamen-

tali: il convegno di mag-gio sul valore del turismo e della cultura come leve di sviluppo economico del nostro territorio, e la nostra Assemblea Annuale di giu-gno, incentrata su Ravenna Città dell’Energia. E questo perché sin da subito abbia-mo voluto dare concretez-za al progetto cercando di comprendere quali possano essere, insieme all’industria manifatturiera, i fattori di sviluppo destinati a creare ricchezza nel nostro territo-rio nei prossimi lustri.Ad oltre un anno dall’inizio della crisi internaziona-le, abbiamo ritenuto utile dedicare un altro evento a questo tema cercando di comprendere, con l’ausilio di autorevoli esperti, se e come il mondo sia cambiato e soprattutto quali siano le prospettive che ci attendo-no. Anche questa volta na-turalmente non ci aspetta-vamo dai nostri ospiti delle verità assolute, che ritengo nessuno abbia davvero, ma degli spunti di riflessione da portare nella realtà del-le nostre imprese chiamate ogni giorno a competere in un mercato sempre più complesso e selettivo. Ci siamo affidati a 2 grandi esperti: Federico Bonaglia, economista senior dell’OC-SE, per avere un contribu-to di tipo economico; ed il

gen. Carlo Jean profondo conoscitore di quella cosa molto complessa che pren-de il nome di geo-politica, per provare a vedere la re-altà anche da quella parti-colare prospettiva. Un grazie particolare per la collaborazione alla or-ganizzazione dell’evento a Gianluigi Longhi, sinda-co revisore di Confindu-stria Ravenna e Presidente dell’ICOEVorrei però anche ricorda-re che nel corso di questo 2009 il nostro impegno non si è certamente esau-rito nel Progetto Ravenna 2030: Confindustria Ra-venna è stata concreta-mente al fianco dei suoi associati con nuovi servizi per aiutarli a fronteggiare una congiuntura di diffi-coltà probabilmente senza precedenti. Abbiamo cioè affrontato questo momento storico con una visione che potremmo definire strabica: da una parte lo sguardo sul futuro per cercare appunto di comprendere i cambia-menti in atto e trasformarli in una grande opportuni-tà; dall’altra un lavoro du-rissimo in prima linea al fianco delle nostre imprese sul fronte sindacale, del credito, dell’innovazione, dell’internazionalizzazione, ecc per aiutarle concreta-mente ad affrontare le sfi-de quotidiane. Per essere concreto, voglio ricordare il positivo avvio del nuovo

servizio credito e finanzia-menti, ma anche la mis-sione governativa in Libia cui abbiamo partecipato come unica territoriale del sistema Confindustria in-vitata; la grande pressione per avere a Ravenna il Tec-nopolo Energia ma anche il lavoro quotidiano di as-sistenza sindacale verso i nostri colleghi in difficoltà; mi fa piacere ricordare an-che il nuovissimo servizio Ri-lancio voluto fortemen-te proprio per le piccole e medie imprese più in diffi-coltà.Nelle ultime settimane ab-biamo assistito ad un cu-rioso alternarsi di notizie e dati a proposito della pre-sunta fine della crisi che sta rischiando di distrarci da quella che è una ogget-tiva verità e che oggi vorrei qua richiamare: il Centro Studi Confindustria stima nel 20% il calo medio della produzione industriale nel 2009 che si sta chiuden-do: la più ottimistica delle previsioni stima nel 5% il rimbalzo atteso nel 2010. Il che significa che occorre-ranno 3, 4 forse 5 anni per tornare ai livelli pre-crisi del 2008. Ma in realtà le trasforma-zioni cui stiamo assistendo sono con tutta probabilità strutturali: in particolare, è ormai evidente ai più che non è affatto detto che i con-sumi del mercato america-no siano destinati a tornare

Ravenna 2030: il futuro è adesso

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a livelli capaci di trainare l’intera economia mondiale come accadeva prima. Nel frattempo si consolideranno nuovi mercati, come quelli di Paesi quali Cina, India, Brasile ma anche quelli della riva sud del Medi-terraneo rispetto ai quali le nostre imprese dovran-no quindi aver la capacità di dare risposte capaci di farsi spazio in una compe-tizione sempre più globale. Dovremo cioè abituarci a operare in un quadro di cambiamento continuo nel quale la capacità di inno-vare farà inevitabilmente la differenzaNel frattempo, le imprese italiane, tra cui evidente-mente anche quelle raven-nati, sono impegnate in dolorosi processi di rior-ganizzazione e ristruttura-zione che siano capaci di adeguare il livello dei costi di gestione a fatturati che sono calati mediamente di almeno un 20%: Non mi appassiona la gara tra quale sia il Paese eu-ropeo che stia uscendo per primo e meglio dalla crisi: anche in questo caso par-lano le cifre elaborate dal nostro Centro Studi. Gli interventi per il settore fi-nanziario in Germania sono ammontati a 554 miliardi di Euro; in Italia a 20 mi-liardi; gli interventi di so-stegno per l’economia reale in Germania sono ammon-tati a 109 miliardi di Euro,

in Italia a 5 miliardi di Euro. E questo prima che la Germania varasse la co-raggiosa legge con la quale riduce significativamente la pressione fiscale men-tre in Italia abbiamo visto che fine ha fatto il tentativo

di almeno ridurre il peso dell’Irap…….La Presidente Marcegaglia ha chiesto un taglio imme-diato della spesa pubblica di 15 mld di €; ha chiesto anche di procedere quanto prima alle riforme struttu-

rali, a cominciare proprio da quella della PA, che impedivano al nostro Paese di correre al pari degli altri del mondo occidentale già prima dell’esplodere della crisi: un aspetto che pur-troppo in troppi sembrano aver dimenticatoAbbiamo detto più volte che nessuno sarebbe uscito da questa crisi uguale a come c’era entrato: per le nostre imprese è già così, per i nostri imprenditori è una dolorosa ed attuale verità perché solo il cambiamen-to continuo potrà garantire loro una chance di futuro. Avremmo voluto vedere da parte della Pubblica Am-ministrazione uno sforzo paragonabile a quello che-stanno mettendo in campo gli imprenditori per razio-nalizzare l’organizzazione, per tagliare i costi, per au-mentare la produttività; la-sciatemi dire che viceversa ben poco abbiamo visto cambiare nei suoi compor-tamenti in questi mesi; la-sciatemi dire che in questo momento storico la buro-crazia ci appare come un fardello insopportabile che impedisce alle imprese che sono in grado di investire di farlo con la velocità ed ef-ficacia necessarie per com-petere sul mercato globale.

Giovanni TampieriPresidente Confindustria

Ravenna