EDUCARE INSIEME Famiglie e comunità cristiana

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ADRIANO CAPRIOLI Vescovo di Reggio Emilia - Guastalla EDUCARE INSIEME Famiglie e comunità cristiana LETTERA PASTORALE PER IL BIENNIO 2006 2008 Reggio Emilia Settembre 2006

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ADRIANO CAPRIOLI

Vescovo di Reggio Emilia - Guastalla

EDUCARE INSIEME

Famiglie e comunità cristiana

LETTERA PASTORALE PER IL BIENNIO 2006 – 2008

Reggio Emilia

Settembre 2006

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Indice

INTRODUZIONE

―E fu sera e fu mattina, settimo giorno…‖ » ...

Verso una Chiesa dalla carità » ...

Cominciamo con l‘educare » ...

CAPITOLO I

IL PROGETTO EDUCATIVO, guardando a Dio educatore

Educare nella verità » ...

Educare alla libertà » ...

Educazione comunitaria e personale » ....

CAPITOLO II

FAMIGLIE E COMUNITÀ CRISTIANA, verso un’alleanza educativa

L‘unità del processo educativo » ...

Il compito educativo dei genitori » ...

a) Oltre la “debolezza educativa” » ...

b) Le ragioni per un buon coinvolgimento » ...

c) La forza dell’esempio » ...

Il compito delle comunità cristiane » ...

a) Una distanza da colmare » ...

b) La via dell’accompagnamento dei genitori » ...

CAPITOLO III

I PERCORSI: forme e figure di accompagnamento

L‘accoglienza della domanda » ...

a) Il colloquio con il parroco » ...

b) La solidarietà educativa tra famiglie » ...

c) L’accompagnamento dei genitori al Battesimo » ...

d) Incontro con la comunità » ...

La famiglia a ―Messa della comunità‖ » ...

a) “Ritorno” alla domenica » ...

b) Le “domeniche insieme” » ...

c) Verso itinerari differenziati » ...

d) Identità personale e vocazione » ...

Istituzioni educative: prospettive di integrazione » ...

a) Scuola dell’infanzia » ...

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b) Oratorio » ...

c) Scuola » ...

d) Associazionismo cattolico » ...

e) L’Università » ...

CAPITOLO IV

OBIETTIVI DA CONDIVIDERE: le scelte operative

Attenzioni da avere » ...

a) Famiglie » ...

* Tenere conto delle famiglie reali

* Procedere con una certa gradualità

* Mettere in conto anche delle perdite

b) Le comunità » ...

* Riappropriarsi del compito di ―grembo materno‖ della fede

* Rendere protagonista la comunità degli adulti

* Non tardare a intervenire sulla prassi tradizionale

c) Le figure di accompagnamento » ...

* Non il solo il parroco e il catechista, ma un gruppo o équipe

* Con compiti non sostitutivi, ma complementari a famiglia e comunità

* Andando sul territorio con scuole o laboratori di formazione

Passi da fare » ...

a) Verso i “catechisti battesimali” » ...

* Iniziare, non solo preparare al Battesimo

* Favorire esperienze di contatto con le famiglie

* Attivare in ogni Vicariato scuole di formazione e laboratorio di confronto

* Interrogarsi sulle figure di accompagnamento delle famiglie

b) Verso le “domeniche insieme” » ...

* Nell‘Eucaristia domenicale le famiglie imparano ad aprirsi alla comunità

* Preghiera, ascolto del Vangelo, testimonianza nelle case, in famiglia

* Privilegiare alcune domeniche lungo l‘anno con famiglie, ragazzi e comunità

* In ogni Vicariato un laboratorio pastorale sulle ―domeniche insieme‖

* Approfondimento sulla Messa di Prima Comunione il Giovedì Santo.

Convegno sul significato e la collocazione della Confermazione

c) Verso l’integrazione con le altre realtà educative » ...

* Strettamente connesso è il ―servizio diocesano di Pastorale Giovanile‖

* Il sostegno rappresentato dalle associazioni e dai movimenti

* L‘importanza del momento scolastico

CONCLUSIONE » ...

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Bibliografia » ...

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EDUCARE INSIEME

Famiglie e comunità cristiana

Lettera Pastorale per il biennio 2006 - 2008

INTRODUZIONE

“E fu sera e fu mattina, settimo giorno…”

1. Ho incontrato la Chiesa che è in Reggio Emilia – Guastalla alla vigilia del grande Giubileo

dell‘Incarnazione del 2000. Rivedo la grazia di quell‘evento come l‘invito a rinnovare il nostro

essere Chiesa a partire da Cristo, come lo è stato l‘annuncio del Concilio alla vigilia della mia

Ordinazione sacerdotale.

Rileggo così le sei lettere pastorali dal 1998 al 2006 attorno ad un‘immagine di Chiesa. È stato

più agevole rinnovare il nostro essere Chiesa a partire dalla “Chiesa sotto la Parola”. Grazie a

figure di biblisti, preti, vescovi, laici, comunità particolarmente educate a fare riferimento nella vita

e nell‘azione pastorale alla Parola di Dio, non si può dire che nella nostra Chiesa valga quella nota

osservazione secondo cui ―i cattolici hanno un grande rispetto per la Bibbia, e per questo ne stanno

alla larga!‖. Anche se non da tutte le comunità parrocchiali è praticata la scelta del libro biblico

dell‘anno.

Più impegnativa è la riscoperta del nostro essere “Chiesa dall’Eucaristia”. Nonostante la

riforma liturgica, che certo ha contribuito a migliorare modalità e stili celebrativi, spesso uno dei

problemi più difficili oggi è proprio la trasmissione del vero senso della liturgia cristiana. Pare,

talvolta, che l‘Eucaristia domenicale, al cui centro sta il Cristo morto e risorto ―per noi e per tutti‖,

non venga colta nella sua propensione più missionaria, che porta chi vi partecipa a uscire dalle mura

della Chiesa con un animo apostolico.

La sfida di una Chiesa oggi è proprio questa: passare da una richiesta di sacramenti alla Chiesa

per consuetudine a una pratica dei sacramenti come iniziazione alla vita di una comunità adulta

nella fede, senza per questo diventare comunità elitaria, perfetta, cancellando così la sua stessa

immagine popolare, alla quale è possibile accedere a partire da ogni età e da ogni condizione di vita:

sociale, culturale, spirituale. Sì, “cristiani non si nasce, ma si diventa”: in famiglia, nella comunità,

nel mondo.

Verso una Chiesa dalla carità

2. Le modalità del nostro essere Chiesa comunità di fede sotto la Parola, comunità d’altare

dall‘Eucaristia in missione, richiamate dalle prime sei lettere pastorali, restano come altrettante mete

del nostro cammino. È arrivato ora il momento di mettere a tema il nostro essere comunità di

prossimità e di ospitalità che nasce dalla carità di Dio rivelata a noi in Gesù Cristo.

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Già da parecchi anni la nostra Chiesa è attenta ai poveri, agli emarginati, ai deboli. La

dimensione caritativa si esprime in gesti concreti e strutture di accoglienza che sono il segno

dell‘amore del Signore verso gli ultimi. E ce n‘è ancora di strada da fare. Ora si tratta di rendere la

nostra Chiesa più capace di essere vicina ugualmente ai giovani e agli anziani, di essere in grado di

educare e formare i suoi figli, desiderosa di valorizzare i diversi carismi nell‘unità della comunione,

lieta e coraggiosa verso la società.

Si apre qui una nuova fase della pastorale nel tempo che ci è dato, e ulteriori mete del nostro

cammino di Chiesa. Il tempo segna la vita di una comunità più di quanto si creda, come segna la

vita di una famiglia e della stessa persona. Tali mete, se condivise, incrementano quel lavorare

pastoralmente per ―progetti‖, al di fuori dei quali si finirebbe continuamente ―sprogrammati‖ dalla

ultima emergenza.

Si tratta di rispondere ora alla domanda: quali sono gli atteggiamenti, gli strumenti, e gli ambiti

nei quali prende forma l‘immagine di Chiesa descritta nella prima serie di programmi pastorali?

Questa seconda fase non ci condurrà, dunque, su sentieri diversi. Si tratta di ripercorrere le stesse

strade con un‘attenzione che ci faccia comprendere dove mettiamo i piedi, come ci muoviamo, con

quali persone fare i primi passi, e con quali mezzi più ci avviciniamo alla meta.

Questa seconda ulteriore fase comprenderà diversi programmi pastorali, che si succederanno

nei prossimi anni attorno a questi tre imperativi: educare, comunicare, vigilare. Saranno tre

imperativi che intendono sollecitare le concrete comunità cristiane:

a) a porre maggiore attenzione alla formazione della persona ed educazione alla fede come

componente prioritaria della stessa pastorale ordinaria (“educare”);

b) a testimoniare il Vangelo nell‘attuale contesto culturalmente secolarizzato e religiosamente

pluralista, attraverso le varie forme di dialogo ecumenico e interreligioso, e di presenza cristiana

nella società, nella cultura, nell‘arte, nei mass media (“comunicare”);

c) da ultimo, ad affrontare i cambiamenti attualmente in corso dei costumi di vita, delle istituzioni

sociali e della politica, più consapevoli dei rischi di perdere il meglio, ma altresì di mettere a

frutto l‘eredità di quella cultura, al cui centro sta la dignità della persona umana, l‘identità della

famiglia e del bene comune (“vigilare”).

Cominciamo con l’educare

3. Venendo in particolare al programma pastorale sull‘educare, si può dire che esso sia al tempo

stesso nuovo e vecchio. È nuovo, perché nessuna delle precedenti lettere è stata espressamente

dedicata all‘educazione. Non è nuovo, perché la preoccupazione educativa ha sempre accompagnato

i sei programmi fin qui svolti, in particolare quello dell‘ultima lettera Cristiani non si nasce, ma si

diventa.

Rivedo il mio cammino educativo. Alcuni educatori meravigliosi: mia madre, alcuni preti,

qualche professore. Altri meno bravi, meno apprezzati da noi ragazzi, ma tutti ci hanno dato

qualcosa. Penso anche al mio cammino di vescovo: cerco anch‘io di essere un ―vescovo educato dal

suo popolo‖. Quanti stimoli formativi ricevo da tanta gente, che non mi lascia dormire sui solchi già

tracciati, ma continuamente scuote la mia inclinazione a temporeggiare, calcolare, attendere.

Ed ecco emergere il tema preciso di questa Lettera: EDUCARE INSIEME, FAMIGLIE E

COMUNITÀ: formazione della persona e trasmissione della fede. L‘attenzione di questa lettera è ai

soggetti dell‘educare: i genitori, i catechisti, i sacerdoti e le parrocchie, gli insegnanti e la scuola,

che faticano a svolgere un compito diventato oggi sempre più arduo nella società complessa,

frammentata e autoreferenziale.

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Certo, anche il ragazzo, adolescente e giovane, mano a mano che cresce, è soggetto del

processo educativo, e la figura dell‘educatore è un supporto. Rimane comunque giusta la

preoccupazione di questa Lettera pastorale di porre attenzione alla figura degli educatori. Ho talora

l‘impressione che, tra non pochi educatori, spiri un vento di incertezza, di rassegnazione, di

rinuncia. Sembrano dire come Mosè: “Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è

un peso troppo grave per me” (Numeri 11,14).

Da qui nasce la prospettiva di approccio alla questione educativa di questa Lettera: come

superare la solitudine dell‘educatore, favorendo un‘alleanza educativa tra i soggetti e le varie realtà

educative? Educare si deve, ma si può? Più che dell‘educazione, parleremo dell‘educare, degli

interrogativi che essa suscita. Non dunque un trattato sull‘educazione, né una raccolta di buoni

consigli, ma un messaggio di fiducia agli educatori e con gli educatori. ―EDUCATORICERCASI‖

era l‘inchiesta-ricerca avviata qualche anno fa dall‘Ufficio pastorale giovanile, che faccio mia come

intento e come metodo per riprendere in mano la questione della stessa iniziazione alla fede e alla

vita cristiana.

Lo stesso IV Convegno delle Chiese in Italia, che sarà celebrato nel prossimo ottobre a Verona,

sul tema Testimoni di Cristo Risorto, speranza del mondo, prende a cuore in uno dei suoi ambiti

proposti, proprio l‘esercizio del trasmettere la fede, chiamando in gioco l‘educazione delle nuove

generazioni con la domanda esplicita: che cosa significa per la testimonianza della speranza

cristiana condividere il compito educativo nelle sue varie forme e figure educative?

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CAPITOLO I

IL PROGETTO EDUCATIVO

Guardando a Dio educatore

4. Il problema educativo non è anzitutto un problema riguardante i bambini, i ragazzi e i

giovani da educare. È un problema di adulti. In questa prospettiva la figura dell‘educatore è il punto

di partenza di ogni progetto educativo.

Nella Bibbia, a partire dal Primo Testamento, i termini che si riferiscono alla realtà che noi

intendiamo come ―educare‖ non riguardano anzitutto l‘opera umana dell‘educare, ma l‘opera

educativa di Dio.

È anzitutto Dio che educa il suo popolo. Dio è in mezzo a noi. Dio continua a educare. Noi

educatori siamo suoi alleati: l‘opera educativa non è anzitutto nostra, è sua. Noi impariamo da Lui,

Lo seguiamo, Gli diamo fiducia ed Egli ci guida e conduce.

Facendo memoria del cammino dell‘Esodo, il cantico di Mosè descrive così l‘azione educativa

di Dio per il suo popolo:

“Egli lo trovò in una terra deserta

in una landa di ululati solitari.

Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò,

lo custodì come pupilla del suo occhio.

Come aquila che veglia la sua nidiata

che vola sopra i suoi nati

egli spiegò le sue ali e lo prese

lo sollevò sulle sue ali.

Il Signore lo guidò da solo,

non c’era con lui alcun dio straniero”

(Deuteronomio 32,10-12).

Questo passo esprime una persuasione costante della Scrittura: è Dio il grande educatore del

suo popolo. È questa persuasione che ci spinge a scegliere come libro biblico dell‘anno l‘Esodo.

Lasciando ad un apposito sussidio il compito di offrire un adeguato invito alla lettura del libro

dell‘Esodo, come traccia del cammino di fede delle nostre comunità alla scuola della Parola

nell‘anno pastorale 2006-2007, qui ci domandiamo quali sono le coordinate fondamentali del

cammino educativo che Dio fa percorrere al suo popolo e a ciascuno dei suoi figli.

Educare nella verità

5. Dio non educa ―a casaccio‖, con interventi saltuari e sconnessi. L‘azione educativa è sempre

―mirata‖, anche se non è facile cogliere ogni volta il senso di un singolo intervento. Così è per

l‘educazione secondo il progetto di Dio, dove la progettualità non significa far entrare tutto in uno

schema rigido, ma avere il senso del fine e delle mete intermedie, e operare con gradualità e

equilibrio, per tenere o riportare in tensione verso il fine i diversi momenti. Il fine ultimo

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dell‘educazione non può perciò essere descritto come una figura geometrica statica, perché si

riferisce a una realtà vivente: è la maturità del singolo e dell‘intero popolo di Dio.

Diverse pagine della Scrittura evocano qualcosa del progetto che Dio persegue nella storia del

suo popolo. Già la creazione dell‘uomo a sua immagine e somiglianza, culminante nella comunione

dell‘uomo con la donna, richiama il progetto originario di Dio sulla storia (Genesi 1-2). Nell‘Esodo,

il progetto di Dio si fa ―promessa‖ di comunità, di culto e di festa, di fecondità e di terra dove

abitare, con le sue leggi e istituzioni (Esodo 15, 25-26). Dio educa progettando il futuro del suo

popolo.

Dalla riflessione sulle pagine “progettuali” della Scrittura ricaviamo che vi è un rapporto

profondo tra l’educare e il trasmettere la “verità” che è Dio per l’uomo. Tocchiamo qui un nervo

scoperto dell‘attuale questione educativa, quando si pretende di slegare la questione educativa dalle

grandi domande di senso di cui vive l‘uomo, quali: il senso del nascere e del morire, della gioia e

della sofferenza, del male e del perdono, alla fine di Dio e dell‘uomo.

Ciò fa sì che il problema umano sia già all‘inizio gravemente pregiudicato, quando si decide

che la verità umana in quanto tale sia sottoposta al giudizio prevalente, se non esclusivo, dell‘ultima

novità offerta dal sapere scientifico-tecnologico, oppure dai fatti di costume del ―così fan tutti‖. La

pretesa della cultura pubblica del nostro tempo di istruire la questione educativa senza mettere in

questione le domande di senso di cui vive l‘uomo, è evidentemente falsa.

Educare, perciò, è più che socializzare: non comporta solo l‘acquisizione di abilità tecniche o

professionali. Educare significa offrire i tratti di un concreto progetto di vita, ispirato a determinati

valori – compresi quelli religiosi – e capace di far crescere la coscienza di un ragazzo o di un

giovane, e quindi investire sulla sua libertà. La trasmissione dei valori non conduce ad acquisire

abilità o competenze in un determinato campo dell‘esistenza, ma è un‘esperienza che trasforma

l‘esistenza tutta, irreversibilmente.

“Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra

mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”, così ci

esorta l‘apostolo Paolo (Romani 12,2). Della verità noi non siamo padroni, ma possiamo solo essere

discepoli: come tali siamo chiamati a percorrere vie che vanno controcorrente e nello stesso tempo

chiedono disponibilità speciali: l‘ascolto della Parola e l‘ascolto di sé, la preghiera e il silenzio, la

fiducia nell‘aiuto di Dio e il coraggio della scelta.

Educare alla libertà

6. Il progetto di Dio ha a che fare con la libertà. Dio ―fa uscire‖ il suo popolo dalla terra di

schiavitù per farlo entrare in quella della libertà. La Bibbia riprende continuamente questo tema

dell‘Esodo. La scoperta della libertà è determinante per lo sviluppo della persona e di una comunità.

Il cammino educativo che Dio fa percorrere all‘uomo tende a fargli gustare la libertà autentica: la

libertà di servire il Signore, non l‘ennesimo ―faraone‖ di questo mondo.

Con riferimento alla libertà, il testo biblico suggerisce con chiarezza una progressione

nell‘attuazione del progetto di Dio, che si presenta così come un cammino per tappe. Troviamo una

breve sintesi del senso di tale cammino nelle parole del Signore che introducono alla celebrazione

dell‘alleanza presso il monte Sinai: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho

sollevato voi su ali d’aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e

custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli” (Esodo 19,4-5).

Fino al monte Sinai, e dunque fino alla mia presenza — rivela il Signore — siete venuti senza

necessità di scegliere, quasi portati in braccio come bambini. Ora, invece, dovete scegliere e dovete

camminare con le vostre gambe. E così l‘esodo del popolo dalla schiavitù alla terra della libertà ha

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luogo nel ―deserto‖: il luogo delle ―prove‖ di libertà. Le prove, che il popolo di Israele deve

superare, segnano le tappe del tirocinio o apprendistato per la libertà (cf. Deuteronomio 8).

In occasione delle prime prove, quella della sete alle acque di Mara (cf. Esodo 15,23-26), Dio

non esprime nessun giudizio nei confronti del popolo: esso appare ancora come un bambino che

deve essere educato, e i suoi capricci non possono ancora essergli imputati. Le ultime prove, invece,

comportano un giudizio di Dio sul popolo, fino a rimproverarlo di essersi allontanato da Lui e

cadere nella incredulità: “Si chiamò quel luogo Massa e Meriba, a causa della protesta degli

Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”

(Esodo 17,7). Nel giudizio di Dio sono coinvolti gli stessi capi, Mosè e Aronne, le guide del popolo

(cf. Numeri 20, 12-13).

La progressione indicata dal racconto biblico è del tutto simile a quella che si produce nella vita

stessa del bambino che cresce. Egli, da principio, non conosce il progetto di amore che il Signore ha

su di lui, né il comandamento che ne consegue; neppure è sufficiente che tale progetto gli sia

comunicato da altri, perché tale progetto lo impegni nella vita. All‘inizio il progetto gli è proposto

per educarlo, appunto, e non per giudicarlo. Questo tempo, però, non dura illimitatamente; viene il

momento nel quale il progetto diventa effettivamente il criterio di giudizio nei suoi confronti.

Si manifesta qui la relatività degli stessi educatori nei confronti dell‘opera educativa di Dio.

L‘educatore non lega a sé, ma a un Altro. Egli riflette come un pianeta la luce del sole, non si

colloca al posto del sole. Non lavora a strappare il consenso dell‘altro, ma collabora alla sua

costruzione, perché si apra al mistero di Dio, alla sua Parola, alla sua chiamata. Come Giovanni

Battista all‘apparire di Gesù, l‘educatore può addirittura arrivare a considerare la sua opera come

quella del servo inutile di fronte alla libertà di Dio e ai segni evidenti della sua iniziativa: “Egli deve

crescere, e io invece diminuire” (Giovanni 3,30).

Educazione comunitaria e personale

7. Nella Scrittura i due aspetti — comunitario e personale — sono strettamente legati al punto

che non è facile determinare se un testo si riferisce solo a una singola persona o all‘intero popolo di

Dio. Questo ci spiega che il processo educativo di cui parla la Scrittura è quello che non ha per

termine unicamente l‘individuo, ma un intero popolo. Le singole persone sono educate, amate e

rispettate, sia nella loro individualità, che nell‘ambito del loro gruppo, quando una comunità matura

nel suo insieme.

Ne è ragione la natura relazionale e comunitaria della persona umana: nessuno diviene uomo

nel senso pieno del termine, nessuno giunge all‘esercizio autentico della sua libertà, senza una

comunità, a cominciare da quella della famiglia. Una persona che si sviluppa senza comunità è di

fatto impensabile. Ma anche la comunità ha una sua personalità, che non è semplicemente la somma

degli individui; ha un destino e una dignità storica propri. A questo binomio persona-comunità, letto

nell‘orizzonte della fede, noi possiamo dare un nome, semplice, ricchissimo: Chiesa.

All‘inizio di ogni processo educativo stanno queste domande: dove si trovano questa persona,

questo gruppo, questa comunità? Hanno già compiuto un cammino serio di fede o sono ancora

all‘ABC? Si trovano in un momento di depressione, di scoraggiamento o di attesa fiduciosa?

Occorre rendersi conto di dove il soggetto si trova in realtà. Definire con diligenza il punto di

partenza è sempre il primo passo per un cammino educativo. Noi spesso, invece, non ce ne

rendiamo conto e rovesciamo addosso alle persone, ai gruppi e alle comunità progetti non

assimilabili in quel momento, che diventano fonte di confusione piuttosto che di crescita.

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CAPITOLO II

FAMIGLIE e COMUNITÀ CRISTIANA

Verso un’alleanza educativa

L’unità del processo educativo

8. L‘affresco biblico richiamato permette ora di raccogliere alcuni criteri, ai quali la Chiesa

deve ispirarsi per capire, vivere e ben praticare il suo compito educativo.

È facile prevedere una domanda, quando si parla di educazione. A che cosa ci si riferisce:

all‘educazione come questione umana, così come si pone nella società civile, oppure all‘educazione

nella prospettiva cristiana della fede? La domanda è attraversata dal pregiudizio, oggi troppo

diffuso, che l‘educare non richieda necessariamente il credere. La fede, secondo questa concezione,

sarebbe una scelta certo legittima, ma in nessun modo necessaria a tutti. Per essere aperta a tutti,

l‘educazione avrebbe invece bisogno di prescindere dalla fede. C‘è anche l‘errore opposto di chi

pretende di educare alla fede prescindendo dai valori umani.

C’è dunque la tendenza oggi a separare l’educazione e la fede. La persuasione di ogni

credente, invece, è che la fede corrisponda alla verità sull‘uomo, che sia accessibile e perciò da

offrire a tutti. In tale prospettiva, non ha senso porre l‘alternativa: quando parli di educazione, parli

come uomo o come cristiano? Parlo come cristiano, certo, che ha conosciuto nella verità del

Vangelo la rivelazione di Dio, diventato vicino all‘uomo in Gesù Cristo; ma parlo anche a nome

dell‘uomo, perché il Vangelo è anche la verità operante nella vita di ogni uomo. Come già

dichiarava il Concilio Vaticano II, “in realtà, solamente nel Mistero del Verbo Incarnato trova vera

luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes 22).

La rilevanza della fede in ordine all‘educazione, perciò, non può essere in alcun modo ridotta

all‘opportunità di educare ―anche‖ alla fede, quasi che tale educazione semplicemente si

aggiungesse a quella genericamente umana. In tal senso, l‘opera educativa espressamente mirata a

suscitare la fede non può essere separata da quella volta a propiziare in genere la formazione della

persona umana e, in particolare, l‘accesso di un minore all‘età adulta, e dunque alla libertà.

A pensarci bene, qui, la questione educativa si fa estremamente concreta e sembra ricominciare

ogni volta da capo. Suscita domande di fondo, come questa: la Chiesa — la nostra Chiesa locale —

è un evento educativo? Le nostre comunità parrocchiali sono in grado di essere cercate, amate,

servite proprio come un luogo educativo, esprimendo un progetto educativo e realizzandolo in un

concreto e organico cammino? E come coinvolgere al loro interno la famiglia, che è originariamente

la prima responsabile dell‘educazione dei figli?

Il compito educativo dei genitori

9. È ricorrente, in tema di educazione, il riferimento alla famiglia, anzi è d‘obbligo. Non è la

stessa famiglia la prima responsabile dell‘educazione e il suo soggetto primario? Ma perché non ci

si accontenti di affermazioni di principio, tanto facili quanto improduttive, è necessario aggiornare

le ragioni di tale coinvolgimento. Anche nella presentazione fatta nei Vicariati della proposta di

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coinvolgimento della famiglia, che prevede un anno specifico di evangelizzazione della famiglia nel

cammino di Iniziazione cristiana dei figli, c‘è stato accordo sulla volontà di perseguire tale

obiettivo, non altrettanto, però, sulle modalità concrete.

a) Oltre la “debolezza educativa”

Sono note le difficoltà delle famiglie a coinvolgersi sul piano educativo. Sovente le famiglie

sono immerse in forti tensioni, a causa dei ritmi del lavoro che si fa più incerto, per la fatica di un

compito educativo che si fa più arduo, e per la distanza che si è andata maturando tra la visione

cristiana del Matrimonio, della famiglia e modelli culturali di famiglia di fatto praticati a seguito di

separazioni, divorzi, convivenze.

Le difficoltà nascono anche da parte della pastorale, che fatica a rivolgersi agli adulti in

genere, e a rendere i laici corresponsabili nell’educazione alla fede. Una recente inchiesta

sottolinea che la richiesta dei sacramenti da parte dei genitori per i loro figli viene sempre più

motivata con l‘idea della necessità e importanza della religione per la crescita umana. La

formazione religiosa dei figli è desiderata perché dà ai genitori un senso di sicurezza. Nasce da qui,

nella maggior parte dei casi, l‘atteggiamento di ―delega‖ delle famiglie alla Chiesa, perché questa

sarebbe l‘istituzione più capace di successo in campo educativo.

È ricorrente l‘affermazione di una paradossale ricchezza e povertà della famiglia

contemporanea: ―ricchezza‖, per quanto riguarda l‘alto investimento affettivo che la caratterizza; e

nello stesso tempo ―povertà‖, anzi debolezza, per quanto riguarda la capacità dell‘adulto (in

particolare del padre) di offrirsi come modello di valori e punto di riferimento autorevole. Il

modello attuale di famiglia ricalca, come si vede, il modello generale della civiltà del benessere:

offre all‘altro opportunità e servizi, ma ha difficoltà a impegnarsi su valori e scelte che attengono ai

massimi significati della vita, come sposarsi, generare dei figli.

Un esempio di questa riduzione del rapporto genitori - figli al modello affettivo è l‘espressione:

―Mia madre, mio padre, sono i miei migliori amici‖. Questa dichiarazione di amore dei figli per i

genitori, pur ricca affettivamente di significati, appare riduttiva del compito dei genitori, quando si

tratta di trasmettere valori a cui i figli, come gli stessi genitori, sono chiamati ad attenersi, quali la

fiducia nella vita, le responsabilità personali nei suoi confronti, l‘apertura al mondo.

Compito perciò dei genitori, di coloro che si sono assunti la responsabilità di essere ―genitori‖,

prima che amici e confidenti, è quello di rendere ragione al figlio della promessa che i genitori

hanno fatto mettendolo al mondo: la promessa per cui ―c‘è una speranza per la tua vita; c‘è anche un

ordine di valori che tu puoi apprendere: rispettare e assimilare quest‘ordine ti consentirà di non

avere paura, di non temere mai che il mondo precipiti nel caos‖.

Educare diventa, così, trasmettere il ―segreto‖ che presiede allo stesso atto della generazione.

Ma questo ha da essere un segreto che anzitutto costituisce la vita del padre e della madre, e come

tale si pone sotto gli occhi del figlio come il ―segreto‖ da scoprire. In questo senso, la figura del

padre e della madre è assai più quella dei ―testimoni‖ che non dei maestri, degli insegnanti e degli

stessi catechisti. Essi sono educatori, perché genitori.

b) Le ragioni per un buon coinvolgimento

Per un coinvolgimento diretto e specifico occorre riflettere sul rapporto tra educazione familiare

ed educazione alla fede, e prima ancora sul fondamento antropologico della famiglia. È la strada che

il Papa Benedetto XVI, con il suo magistero, ha anche recentemente percorso in più di

un‘occasione, intervenendo ai convegni diocesani di Roma sulla famiglia (6 giugno 2005) e sui

giovani (5 giugno 2006), e a Valencia per l‘incontro mondiale delle famiglie sul tema “La

trasmissione della fede nella famiglia” (8-9 luglio 2006). Ed è la via di riflessione che anch‘io

intendo perseguire.

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Matrimonio e famiglia non sono, in realtà, una costruzione sociologica casuale, frutto di

particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione dell’essere famiglia affonda

le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto

a partire da qui. Non può essere separata, cioè, dalla domanda antica e sempre nuova dell‘uomo su

se stesso: chi sono io? che cosa è l‘uomo? per chi esisto io? E questa domanda, a sua volta, non può

essere separata dall‘interrogativo su Dio: esiste Dio? E chi è Dio? Qual è il senso dell‘esistenza di

Dio per me, per l‘uomo?

La risposta della fede cristiana a questi quesiti è unitaria e consequenziale: l‘uomo è creato a

immagine di Dio, e Dio stesso è amore. Perciò la vocazione all‘amore è ciò che fa dell‘uomo

l‘immagine autentica di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama.

La verità del matrimonio e della famiglia, che affonda le sue radici nella verità dell‘uomo, trova qui

il suo fondamento più vero. Non a caso, al centro della storia di salvezza sta la parola: ―Dio ama il

suo popolo‖, al punto che la storia dell‘amore e dell‘unione di un uomo e di una donna nell‘alleanza

del matrimonio ha potuto essere assunta da Dio quale simbolo della storia di amore fedele di Dio

per il suo popolo.

Nella generazione dei figli, come nel patto coniugale, perciò, la famiglia riflette il modello

divino, l‘amore di Dio per l‘uomo. La famiglia diventa così l‘ambito privilegiato, dove ogni persona

impara a dare e ricevere amore. Essa si esprime anzitutto con l’avere cura. L‘avere cura, inteso

come l‘avere a cuore gli uni degli altri, che non riduce gli altri soggetti a oggetti, diventa la modalità

fondamentale delle relazioni familiari, e la ragione per cui la famiglia persiste, in una società sempre

più caratterizzata dal prevalere di rapporti funzionali. Inoltre, quando la famiglia non si chiude in se

stessa, i figli imparano che ogni persona è degna di essere amata, e che c‘è una fraternità

fondamentale, che va oltre le mura di casa.

c) La forza dell’esempio

L‘educazione umana e cristiana incomincia presto, dai genitori in casa. L‘uomo non perviene

alla maturità o, più esplicitamente, alla libertà, in forza di un processo naturale di crescita, di forza

propria, ma tramite relazioni: primaria è quella con gli stessi genitori.

Spesso si invitano i genitori ad assolvere al loro compito educativo con il semplice ―buon

esempio‖. Il ―buon esempio‖ che i genitori sono invitati a dare ai figli, dunque, prima che un fare

qualcosa per loro, riguarda il loro stesso ―essere‖ genitori: la comunione coniugale, il perdono

reciproco, lo stile di vita nell‘uso dei beni, il clima che riescono a creare con le altre famiglie,

l‘apertura al mondo e alla vocazione dei figli, la preghiera e l‘ascolto della Parola di Dio.

Già da piccoli, i figli imparano che la preghiera è una cosa non infantile, vedendo i genitori

pregare. Gli adolescenti, e forse anche i bambini, si fanno un‘idea dell‘adulto non tanto quando un

adulto è lì davanti a loro e con loro sta parlando, ma quando questo adulto parla e agisce con un

altro adulto. E questo vale anzitutto con i propri genitori. Non è secondario, inoltre, il ruolo degli

anziani nella famiglia: essi possono offrire un supporto decisivo per il dialogo tra le generazioni e

rappresentano, in ogni caso, la memoria viva delle radici su cui si innesta la storia di ogni famiglia.

Così pure i figli scoprono che il Vangelo è ―buona notizia‖ anche per loro, vedendo i genitori

frequentare o ospitare un gruppo di ascolto del Vangelo in casa.

L‘esempio chiede, nell‘attuale contesto pluralista, una testimonianza esplicita della propria

fede, anche con la parola, mentre spesso i genitori hanno paura a parlare di fede ai figli. Una volta

erano i figli ad avere paura del giudizio dei genitori; oggi, alle volte, è il contrario.

Il riferimento all‘ambiente familiare fa emergere un altro aspetto specifico dell‘educazione

cristiana. Essa non è a senso unico, dai genitori ai figli, ma interessa tutti i membri della famiglia

che ne sono protagonisti attivi. Spesso, sono proprio i figli a portare nella propria casa un soffio di

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vita spirituale e a stimolare i genitori a ritrovare la via della preghiera e della partecipazione alla

comunità.

Mano a mano che i figli crescono, la proposta educativa della Chiesa ha anche una sua

autonomia rispetto alla responsabilità della famiglia. Non tutte le scelte dei figli devono essere

dipendenti dalla famiglia. La proposta cristiana può anche essere artefice di crisi all‘interno della

famiglia. Famiglia e Chiesa restano sempre a servizio della persona e della sua identità vocazionale.

Il compito delle comunità cristiane

10. Il fatto che la famiglia sia all‘origine della vita non significa, tuttavia, che sia all‘origine di

tutto. Essa è promotrice di socialità, ma ne è anche il risultato. Nessun uomo e nessuna donna, da

soli e unicamente con le proprie forze, possono dare ai figli in maniera esclusiva l‘amore e il senso

della vita. Per potere dire a qualcuno: ―la tua vita è buona, per quanto io non conosca il tuo futuro‖,

occorrono un‘autorità e una credibilità superiori a quelle che l‘individuo può darsi da solo. Il

cristiano sa che questa autorità è conferita a quella famiglia più vasta che Dio, attraverso il Figlio

suo Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo, ha creato nella storia degli uomini, cioè alla Chiesa.

La famiglia e la Chiesa, in concreto le parrocchie e le altre forme di comunità ecclesiale, sono

chiamate alla più stretta collaborazione per quel compito fondamentale e unitario che è costituito,

inseparabilmente, dalla formazione della persona e dalla trasmissione della fede. Per questo occorre

un‘effettiva alleanza educativa, che non è scontata, tra famiglie e comunità cristiana. La Chiesa

stessa intende educare anzitutto assieme alla famiglia: e questo, in modo insostituibile, anche

quanto all’educazione religiosa.

a) Una distanza da colmare

La situazione di fatto, però, è ancora segnata dalla reciproca presa di distanza tra famiglie e

Chiesa. La distanza è andata accentuandosi presso le nuove generazioni, a partire in particolare dalla

cultura antifamilista, dominante attorno agli anni Settanta, all‘indomani della contestazione: essa ha

indotto uno spontaneo e indiscusso atteggiamento di sospetto e di diffidenza verso l‘insegnamento

della Chiesa su temi come la sessualità, la generazione e di conseguenza sulla stessa educazione.

D‘altra parte, una certa pastorale carica di attese anche alte nei confronti dei genitori era spesso

portata a mettere sul conto di essi i fallimenti educativi e magari a insinuare la loro incapacità a

educare. Appare sintomatica di questa visione la pretesa di chi vorrebbe tutti alla ‗scuola per

genitori‘!

Ma anche quando non si giunge a questi eccessi di zelo, rimane pur sempre alta la pressione sui

genitori perché si impegnino nell‘educazione dei figli, in particolare sostenendo fattivamente

l‘opera educativa e catechistica della comunità cristiana. In questo modo le attese nei confronti dei

genitori diventano condizioni pre-requisite per l‘ammissione dei figli ai sacramenti. A questo punto,

capita che le richieste dei genitori e le attese dei responsabili della pastorale entrino in rotta di

collisione. E non è da escludere, anche se solo sommessa, la reazione dei genitori alle pressioni dei

responsabili della pastorale.

Di fronte alla reazione dei genitori, la controproposta — ad alcuni — verrebbe immediata:

―Bene, se non si coinvolgono i genitori, cerchiamo di coinvolgere altri: i nonni, i vicini di casa, altre

famiglie in grado di adottare spiritualmente i figli altrui, e magari coinvolgere direttamente i

destinatari dell‘Iniziazione cristiana: bambini, ragazzi, adolescenti e giovani‖. Ma, se i figli vengono

affidati ad altri che non sono i genitori, il risultato è che la figura del figlio rimane sullo sfondo della

pastorale di iniziazione, e che i destinatari sono colti al di fuori dell‘ambito familiare, percepiti non

tanto come ‗figli‘, ma come nipoti, amici, ―adottati‖.

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b) La via dell’accompagnamento dei genitori

La via da percorrere verso un‘alleanza educativa tra famiglie e comunità cristiana è un‘altra:

quella dell‘accompagnamento. Per ridurre le distanze e contenere il conflitto è determinante,

pertanto, assumere il vissuto quotidiano delle realtà familiari. Il plurale ―realtà familiari‖ qui è

d‘obbligo. Se si vogliono evitare generalizzazioni indebite, importa anzitutto rendersi conto delle

diverse forme dell‘esperienza familiare e, in questa luce, rilevare le dinamiche che effettivamente

muovono il relazionarsi reciproco di genitori e figli.

Si apre allora un ventaglio di situazioni fra loro diversificate e difficilmente riconducibili a un

unico denominatore. È impossibile trattare pastoralmente il soggetto ‗famiglia‘ come se fosse una

realtà univoca. In buona sostanza, occorre avere una visione ―plurale‖ della situazione della famiglia

rispetto al compito educativo, quando si pensa a una programmazione pastorale.

In conclusione, va rimarcata anzitutto l’inevitabilità del coinvolgimento familiare per ogni

processo formativo. Al tempo stesso, occorre ribadire che la famiglia da sola non basta, perché è

parte di un sistema sociale e della comunità ecclesiale. Non solo: va preso atto che la famiglia è un

―genere plurale‖, per cui l‘azione pastorale non potrà essere semplicemente l‘attivazione di una

funzione assopita, ma dovrà prevedere una diversificazione di proposte. Così, famiglie e comunità

cristiana iniziano a camminare insieme per diventare, senza confondersi, i due grembi privilegiati

della iniziazione alla fede.

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CAPITOLO III

I PERCORSI

Forme e figure di accompagnamento

11. “Famiglia, diventa ciò che sei!”: l‘affermazione di Giovanni Paolo II nella Familiaris

consortio (n. 17) pone in risalto uno dei criteri prioritari della pastorale della stessa Iniziazione

cristiana. Qui si fonda la conversione di mentalità e di prassi pastorale che deve maturare nei

pastori, nei catechisti e nella comunità cristiana: da una cultura assistenzialista, che vede la famiglia,

malata o sana che sia, come oggetto di cura, a un‘impostazione che, pur non diminuendo l‘impegno

a sostegno della famiglia, la consideri anche soggetto responsabile della propria crescita umana e

cristiana, e anche nei confronti di altre famiglie.

Occorre però subito precisare, dopo quanto abbiamo richiamato, che parlare di famiglia,

soggetto di crescita e di formazione, non significa caricare la famiglia di pesi e doveri, stabiliti ―a

tavolino‖ ed esigiti in modo assoluto, ma impossibili alla maggior parte delle famiglie. Significa

accostare ogni famiglia con rispetto e ascolto, partendo dalla concreta situazione, per accompagnarla

a riconoscersi parte attiva della crescita e formazione umana e cristiana dei figli lungo l‘intero arco

del compito educativo. È necessario pensare il coinvolgimento delle famiglie come un ponte a più

arcate, tutte strettamente legate tra loro.

L’accoglienza della domanda

12. Sono molte le coppie che bussano ancora oggi alla porta delle nostre comunità per chiedere

i sacramenti dell‘Iniziazione cristiana, in particolare il Battesimo e la prima Comunione per i figli:

tappe alle quali pochi sembrano volere rinunciare. Se, però, unica è la domanda che esse rivolgono

alla comunità, diverse sono le storie e le attese di cui sono portatrici. Per alcune, è un momento

importante, che può segnare un ritorno alla comunità cristiana dopo un periodo di lontananza e di

distacco. Per altre, appare più un gesto scontato, dentro a una consuetudine sociale che non si

intende discutere e, il più delle volte, nemmeno approfondire. Per tutte, in ogni caso, resta un

momento nel quale incontrano il volto concreto della Chiesa e dal quale dipenderà gran parte del

loro cammino futuro di genitori come primi educatori dei propri figli.

Al di là delle diverse motivazioni soggiacenti, la domanda di sacramenti dei genitori per i figli

spesso si presenta rigida e povera: rigida, perché immediatamente avanzata nei confronti della

celebrazione del rito; e una domanda povera, perché non c‘è nessuna disponibilità a interrogarsi sul

senso dei sacramenti per la vita degli stessi genitori e per il futuro compito educativo. L‘importante

è assicurare ai figli ciò che permetta loro di essere come gli altri.

Viviamo in una società di servizi, offerti in luoghi anonimi e spersonalizzati. Anche sul piano

religioso è diventata purtroppo corrente l‘idea dei sacramenti come ―servizi‖ richiesti alla Chiesa, da

ottenere al minor prezzo possibile: tant‘è vero che le nostre proposte di incontri pre-sacramentali

appaiono alle famiglie come un prezzo da pagare per ricevere il sacramento. Alla base di questa

domanda di sacramenti sta sovente una inconsapevole, ma reale povertà, anzitutto di ―relazione‖ tra

famiglie e comunità ecclesiale. Si chiedono alla Chiesa i sacramenti, ma non si cerca la relazione

con la vita della comunità, a cui i sacramenti iniziano.

Page 17: EDUCARE INSIEME Famiglie e comunità cristiana

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A chi domanda i sacramenti, deve invece essere proposta la relazione con la Chiesa, non solo

come sede della celebrazione, ma come luogo di crescita; deve potere trovare nella comunità

cristiana l‘ambiente di vita, dove genitori e figli sono chiamati a diventare discepoli del Signore e

del suo Vangelo. È questione di ―ambiente vitale‖.

La Chiesa a cui domandare i sacramenti, in concreto la parrocchia, deve promuovere prima di

ogni altro programma pastorale un ambiente dove chi entra possa respirare un clima accogliente

verso le persone. Ciò che conta è incontrare ogni famiglia, rendendosi disponibili ad andare nelle

case, a modificare gli orari degli incontri. È importante, in questo senso, non sottovalutare le

difficoltà di tempo che le famiglie vivono oggi. Spesso i ritmi e le scadenze della vita della

parrocchia sono sfasati rispetto a quelli delle famiglie. Occorre dunque personalizzare la proposta.

Chi può svolgere oggi, nelle comunità, questo ministero di accoglienza e di ascolto delle

famiglie? Da dove partire? Su che cosa puntare?

a) Il colloquio con il parroco

La domanda di sacramenti è indirizzata alla Chiesa; di fatto è rivolta al parroco, quale primo

responsabile della vita della comunità. Si potrebbe dire, con una metafora, che il volto missionario

della parrocchia ha bisogno che il parroco sia ―l‘uomo dalla porta aperta‖. Egli, per primo, è

chiamato a favorire gli ingressi, ad ―abitare la soglia‖, perché il transito verso la fede e la comunità

sia facilitato. In ciò, egli potrà esercitare in pieno la propria paternità spirituale, che sola può essere

l‘antidoto che corregge dal di dentro l‘immagine funzionale e burocratica della parrocchia.

A questo proposito, ritorno su di una riflessione già altre volte proposta. Sovente si sente porre

la questione delle ―condizioni‖ di accesso ai sacramenti, come una domanda che divide i pastori tra

lassisti e rigoristi. Come è facile intuire, quando gli schieramenti si polarizzano, il problema è già

compromesso, ma soprattutto ne va di mezzo la vita delle persone. Qui le metafore della

―maternità‖ della Chiesa e della paternità del parroco sono di sicuro aiuto.

Non si tratta di porre le condizioni di accesso ai sacramenti e alla vita cristiana come forche

caudine per mettere all‘angolo le persone e le famiglie. Né si tratta di svendere i gesti cristiani a

buon prezzo, per non perdere il numero dei partecipanti alla vita della Chiesa. La grazia cristiana a

―caro prezzo‖ non è fatta per escludere, ma per far percepire alla libertà degli uomini e delle donne

che il dono di Dio è un‘avventura che cambia la vita.

Se il padre e la madre sono chiamati a testimoniare ai figli il carattere buono e promettente della

vita loro data, il parroco eserciterà la sua ―autorità‖, nel senso di autorità che fa crescere, che apre il

cammino, che facilita gli ingressi della fede, dischiude il senso della vocazione cristiana e la

bellezza dell‘appartenenza alla vita della comunità cristiana. Qui si può ancora scommettere che si

concentri la scelta strategica dell‘essere parroco nel contesto del volto missionario della parrocchia.

Di conseguenza, un primo incontro del parroco con i genitori che chiedono i sacramenti per i

figli diventa più che necessario, come primo passo della Chiesa nell‘andare incontro alle famiglie,

nel discernimento delle varie situazioni e nella verifica della fondata speranza di impegno dei

genitori nel compito educativo: i genitori vanno aiutati a prendere coscienza delle loro

responsabilità e a riflettere sulla correlazione tra la domanda di sacramenti, le convinzioni religiose

e le scelte di vita. Le modalità possono essere diverse: insieme per gruppi di genitori o, nel caso,

anche singolarmente per coppia.

È evidente che questo primo passo nell‘esercizio concreto del ministero di accoglienza chiederà

sempre più tempo al parroco — o al sacerdote o al diacono incaricato a ciò nelle parrocchie e unità

pastorali più grandi — e disponibilità al dialogo, considerate le diversità di situazioni coniugali e

familiari che si possono presentare. Viene alla mente l‘ininterrotta tradizione di figure di parroci che

hanno saputo essere padri per molte generazioni di uomini e di donne, riuscendo a dare alla

parrocchia il volto stesso di ―comunità di famiglie‖, vicina alle case.

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b) La solidarietà educativa tra famiglie

Il colloquio con il parroco, tuttavia, non basta, se si considera il contesto in cui la famiglia oggi

vive. È frequente, oggi, da parte di chi osserva il mutamento culturale della famiglia, rilevare la sua

progressiva privatizzazione. La casa è diventata l‘appartamento. La zona di vita privata, nella

vicenda di una famiglia, si è fatta più estesa, ma al tempo stesso la privacy ha accresciuto

l‘isolamento, l‘autoreferenzialità e la frammentazione familiare. I nuclei sono divenuti sempre più

piccoli e la solitudine è aumentata.

Il rafforzamento della famiglia non può, perciò, essere disgiunto dalla costruzione di reti più

vaste di solidarietà e condivisione. Si tratta di una prospettiva non rinviabile, anche se difficile, a

causa del rapido mutamento dello scenario sociale e familiare. Ciò che impoverisce la famiglia, non

solo nella sua capacità relazionale, ma anche sul versante della competenza educativa, è

l‘isolamento. Ricreare perciò un contesto comunitario attorno alla famiglia è questione pastorale

centrale.

Perché, allora, non pensare a una effettiva solidarietà educativa tra genitori? Come diventano

amici tra loro i figli, non potrebbero diventarlo anche i genitori, che condividono la stessa passione

educativa? Si rivela qui l‘importanza di una pastorale familiare che fa incontrare le famiglie:

giovani coppie, gruppi sposi, ―famiglie in rete‖…

Assai utili sono le esperienze di gruppi familiari impostati secondo un modello ―famiglia-aiuta-

famiglia‖, oppure esperienze di affiancamento e di sostegno temporaneo di coppie più solide, che

abbiano già affrontato momenti di normale criticità nella vita di famiglia. Riprendendo quanto già

annunciato nella Humanæ vitæ di Paolo VI, ―nella nuova e notevolissima forma dell‘apostolato del

simile da parte del simile, sono gli sposi stessi che si fanno apostoli e guide di altri sposi” (n. 26).

c) L’accompagnamento dei genitori al Battesimo

Si apre qui il quadro di possibili e, in non pochi casi, positivi incontri tra famiglie anche per

quanto riguarda il cammino di Iniziazione cristiana dei figli. La proposta dovrebbe già partire dalla

domanda di Battesimo. Spesso chi si accosta alla comunità per chiedere i sacramenti sembra cercare

qualcosa d‘―altro‖, di estraneo, rispetto a quanto costituisce l‘ordinarietà della vita. Fede e vita

faticano a incontrarsi e a fecondarsi.

Si tratta di aiutare le famiglie a vivere la dimensione evangelica che è insita nel loro amore e

abita le loro relazioni quotidiane. L‘esperienza della maternità e paternità è una delle più profonde

che una donna e un uomo possono vivere. Il figlio che stringono tra le braccia è nello stesso tempo

frutto del loro amore e dono che li riempie di meraviglia e di interrogativi. Mentre donano la vita,

fanno l‘esperienza di un mistero che li supera e li avvolge.

È il Vangelo della famiglia, quello che i genitori proclamano al mondo con il loro amore e che

il Signore ha iscritto nelle fibre più profonde dell‘uomo e della donna. Sarà dunque il Vangelo il

testo di riferimento, come pure alcune figure bibliche più opportune — Nicodemo, la Samaritana, i

discepoli di Emmaus… — per l‘incontro con le famiglie che domandano il Battesimo.

Quanti incontri? Non trattandosi di un corso catechistico né biblico, uno o più incontri avranno

di mira l‘essenziale: testimoniare la vicinanza della comunità cristiana e creare la possibilità

concreta per un inserimento della famiglia nella vita della comunità. Opportunamente, qualcuno di

questi incontri può essere riservato alla singola coppia, se possibile, presso la sua abitazione. Altri

incontri avranno carattere comunitario, coinvolgendo insieme genitori, padrini e madrine, in

preparazione ai riti.

A questo scopo, servono catechisti accompagnatori specificatamente preparati, in modo da

essere di aiuto ai genitori, in particolare ai non praticanti; meglio se essi stessi genitori che già

hanno fatto esperienza, per i loro figli, del cammino di iniziazione. A questo proposito si veda il

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mio testo Catechisti battesimali, frutto di una prima esperienza come parroco a Legnano. L‘intento

è di accompagnare la domanda battesimale, al di là del necessario primo colloquio con il parroco, e

di testimoniare alle famiglie che la parrocchia è loro vicina ed è disponibile a un accompagnamento

cristiano.

d) Incontro con la comunità

Anche la comunità cristiana deve sentirsi partecipe del cammino di Iniziazione cristiana dei

propri fanciulli e ragazzi. Le varie tappe che lo scandiscono non sono da considerarsi momenti che

interessano solo i ragazzi, i loro catechisti e le loro famiglie, ma l‘intera comunità dovrà essere

coinvolta. È da incoraggiare qualche forma di incontro dei genitori con la comunità parrocchiale

durante la Messa domenicale, in cui i genitori presentano alla comunità i loro bambini che

riceveranno il Battesimo.

È questo un terreno sul quale la pastorale ordinaria fatica a inoltrarsi, confinando tutto sommato

il cammino battesimale dei bambini come un evento a parte del calendario della comunità,

alimentando così l‘impressione che tutto il percorso di Iniziazione cristiana sia una questione

privata. Anche il cosiddetto Battesimo ―comunitario‖ (spesso la domenica pomeriggio) si riduce a

un fatto che tutt‘al più riguarda le famiglie interessate e lo stretto ambiente familiare e amicale. A

fatica viene messo in programma, almeno in alcune feste battesimali dell‘anno liturgico, il

Battesimo durante la Messa domenicale.

È importante, infine, perché con la celebrazione e la festa battesimale non tutto finisca e cada

nel vuoto, adoperarsi per tenere vivo il rapporto con la comunità cristiana mediante opportune

iniziative post-battesimali. Scarsa, se non nulla, appare, di fatto, dopo il Battesimo, l‘attenzione

accordata a iniziative o forme di incontri pastorali: ad es. feste di anniversario dei Battesimi;

incontri regolari quali quelli suggeriti dal Catechismo dei bambini — il catechismo più disatteso; la

messa a disposizione di spazi adeguati alla partecipazione della famiglia con bambini piccoli alla

Eucaristia domenicale; l‘invio di sussidi per la preghiera in famiglia lungo l‘anno.

La famiglia a “Messa della comunità”

13. Chiedere il Battesimo è condurre i figli all‘Eucaristia; significa chiedere che essi siano

accolti un giorno alla mensa dei figli di Dio, perché tutta la loro vita venga trasformata. Si tratta di

un impegno che non può non coinvolgere la famiglia nel suo insieme. È questo l‘impegno che i

genitori, portando il bambino appena battezzato all‘altare, come prevedono i riti conclusivi del

Battesimo, testimoniano davanti alla comunità.

a) “Ritorno” alla domenica

Che ne è oggi della domenica, e del calendario festivo in genere, tempi tradizionalmente dediti

alla vita di famiglia nella comunità? È ancora attuale il comandamento, già richiamato dall‘antica

pratica ebraica: “ricordati di osservare il giorno di sabato… di riposare tu, tuo figlio, tua figlia, il

tuo schiavo e la tua schiava, il tuo bue e il tuo asino… e il tuo ospite” (cf. Deuteronomio 5,12-14)?

È evidente il significato familiare e sociale del riposo festivo. Esso non è solo funzionale al lavoro

con il riposo, ma alla crescita della persona, della sana vita familiare e della stessa vita comunitaria.

Riscoprire la domenica e la festa come il succedersi di tempi per stringere il rapporto tra la vita

della comunità e le famiglie è la via da promuovere e da sperimentare per l‘efficacia della stessa

evangelizzazione delle famiglie. ―Non è stato il popolo che ha salvato il sabato lungo i secoli, ma è

il sabato che ha custodito il popolo‖, osservava acutamente Abraham J. Heschel nel suo libro sul

sabato ebraico. E ―non possiamo vivere senza celebrare il convito domenicale”, dicevano i primi

Page 20: EDUCARE INSIEME Famiglie e comunità cristiana

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cristiani. Riscoprire il Giorno del Signore è una questione essenziale per una rinnovata prassi di

Iniziazione cristiana.

Come operare perché la domenica sia il giorno delle famiglie che diventano ―famiglia di Dio‖,

tutta impegnata a riappropriarsi della domenica e della festa come momento centrale della vita della

comunità e della stessa famiglia? La nostra epoca vive un rapporto difficile con il tempo. L‘orologio

che portiamo al polso spesso ci fa sentire in ritardo e inadempienti, perché abbiamo più cose da fare

che tempo per farle. E così il ritmo della vita dell‘uomo occidentale ha preso una velocità che

supera le nostre capacità di adattamento. L‘ideale sembra quello della società perennemente attiva,

che tende a moltiplicare gli impegni, difficilmente raccordabili con i tempi tradizionali, come quelli

della famiglia, che resta l‘anello più debole della società.

A rendere ragione delle difficoltà della famiglia ad avere tempo per sé, non solo riservare delle

briciole, è il fenomeno inquietante del proliferare di calendari non facilmente in sintonia tra loro. Vi

è un calendario scolastico, che segna i tempi di scuola e i tempi di vacanza dei figli, e che non

sempre riesce a coordinarsi con i tempi di lavoro e libertà dei genitori. Vi è poi un calendario civile,

sul quale vengono scandite le attività professionali, precisate a loro volta da un calendario aziendale.

Vi è poi il calendario liturgico, scandito dalla domenica quale giorno del Signore, con le proprie

feste, anche quelle locali, frutto di un patrimonio spirituale che ha arricchito la vita cristiana delle

comunità. Come dare adeguato spazio al calendario familiare?

b) Le “domeniche insieme”

La riscoperta dell‘importanza del Giorno del Signore, anche mediante l‘attivazione di

esperienze forti, esige anzitutto il coinvolgimento attivo di tutta la comunità insieme alle famiglie.

Puntare su questo obiettivo non è puntare troppo alto, ma è offrire loro il contesto più vero del

cammino di iniziazione: quello dell‘incontro con la comunità vera, quella che prega la domenica,

esperimenta la gioia di ritrovarsi insieme a Cena con il Signore e tra i cristiani, vive i ritmi dell‘anno

liturgico, si anima e accende per le sue devozioni e per le sue feste particolari; non solo: quella che

cerca di essere attenta ai poveri che abitano tra la sua gente, che ha parole di consolazione e di

speranza per i suoi malati nel corpo e nello spirito.

Un‘opera di vera Iniziazione cristiana non è separabile dall‘esperienza liturgica e da quella

caritativa nella comunità. La prima evangelizzazione in famiglia è legata ai momenti di preghiera e

di azione caritativa. Attorno a questo obiettivo che — ripetiamo — è la questione pastorale centrale

della vita stessa della comunità, si potranno agevolmente e con frutto progettare i percorsi capaci di

intrecciare il rapporto delle famiglie con la vita della comunità: incontri con i genitori di

presentazione e condivisione della proposta educativa; la Messa in parrocchia con i propri figli, con

gli opportuni adattamenti al cammino di iniziazione (i gesti e le consegne). L‘incontro domenicale

diventa completo, vissuto con il pranzo comunitario tra le famiglie, con l‘avvio di proposte di

preghiera da continuare poi in casa, e mediante la condivisione, da parte delle famiglie, di qualche

iniziativa di servizio caritativo, da vivere insieme ai figli.

Si stagliano così, nel calendario liturgico annuale di una parrocchia, opportunamente rivisto ed

eventualmente smagrito a questo scopo di altri programmi, delle domeniche cosiddette ―insieme‖,

direttamente finalizzate all‘accompagnamento delle famiglie in fase di Iniziazione cristiana dei figli.

Nelle comunità con più grandi numeri di ragazzi, le famiglie possono essere raggruppate e coinvolte

in una domenica del mese per itinerari differenziati, a seconda della domanda di sacramento:

Battesimo, Prima Confessione o Eucaristia, Confermazione.

Il coraggio di tentare vie nuove e di proporre alle famiglie itinerari di questo genere va tuttavia

sostenuto da un‘approfondita preparazione dei pastori, dei catechisti accompagnatori, degli

animatori di liturgie, con la partecipazione dei ragazzi e delle stesse famiglie, ed esige un

discernimento costante per adeguarsi ai ritmi della famiglia. Credo che comunque si dovrebbe osare

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di più e avere più fiducia nella stessa famiglia, stimolandola a percorrere, non da sola certamente,

ma in gruppi di famiglie, tale esperienza arricchente per se stessa e per i figli.

c) Verso itinerari differenziati

Non possiamo chiedere a tutte le famiglie le stesse cose, né offrire itinerari uniformi. Di fatto,

non esiste un‘unica tipologia di famiglia, ma molteplici realtà familiari, che esigono di essere

accostate ed evangelizzate, secondo una pedagogia dell‘ascolto, dell‘accompagnamento, della

proposta graduale nei contenuti e nei tempi. Occorre, per esempio, tenere presenti alcune tipologie

particolari di famiglie, che mi limito a richiamare per non perdere il valore che esse hanno per

l‘intera comunità: le famiglie con figli portatori di handicap, le famiglie di immigrati, le famiglie

che hanno figli non battezzati, le famiglie in difficoltà sul piano morale e spirituale per separazione

o divorzio: anche queste da accompagnare, non però separatamente dalle altre.

Non posso qui dimenticare la tipologia di coloro che hanno rotto il primo matrimonio e hanno

costituito civilmente una seconda famiglia o di coloro che praticano la convivenza e, nonostante

questo, esprimono sinceramente il desiderio di educare alla fede i propri figli con la richiesta dei

sacramenti. Certamente sono situazioni di irregolarità che rendono difficile la comprensione della

loro domanda. Però la Chiesa, che ha la missione di cercare i peccatori e annunciare loro il Vangelo,

non può limitarsi a esprimere valutazioni, ma dovrà essere accogliente, considerare questa loro

richiesta quale punto di partenza per instaurare delle relazioni, iniziare un cammino, compiere dei

passi, in modo tale che l‘educazione alla fede dei figli si rifletta positivamente anche sui genitori. Il

Signore, poi, ha le sue strade per portare tutti alla conversione.

Si impone qui un ripensamento di una tradizione che le parrocchie hanno consolidato strada

facendo, quella che organizza il proprio servizio catechistico per fasce d‘età: bambini, fanciulli e

ragazzi, adolescenti, giovani e adulti. In questo caso, il ‗soggetto famiglia‘, che comprende tutte

queste età e le educa non separatamente l‘una dall‘altra, resta in ombra o quasi, ai margini della

pastorale di comunità. Rimettere al centro la famiglia in quanto tale significa cambiare cultura e

mentalità, anzitutto nei pastori e nei catechisti, ma anche nelle famiglie stesse, abituate da tempo a

delegare alla parrocchia l‘educazione religiosa e morale dei figli.

L‘Iniziazione cristiana con la famiglia, allora, non apparirà come un fatto marginale, ma la via e

lo sbocco naturale di una pastorale dell‘evangelizzazione che valorizza la famiglia come soggetto

primario della stessa formazione umana e cristiana delle nuove generazioni. Puntare sulle famiglie,

già a partire dalla domanda ancora generalizzata di Battesimi ai bambini, non è conservare a tutti i

costi un cristianesimo popolare una volta praticabile in un contesto di società cristiana, ma è

salvaguardare la radice umana e familiare della formazione della persona e della stessa educazione

alla fede.

Certo, le comunità cristiane potranno anche crescere evangelizzando e iniziando alla fede i

giovani e gli adulti che chiedono il Battesimo, ma senza la famiglia anche la comunità ecclesiale e

parrocchiale in specie farà fatica a educare alla fede le nuove generazioni.

d) Identità personale e vocazione

La famiglia non potrà mai considerare attuato il suo scopo se non dando e ridando nuove figure

di cristiani, adulti e responsabili, alla comunità ecclesiale e civile. Anche la parrocchia, dopo avere

speso energie e risorse per l‘educazione dei suoi ragazzi, adolescenti e giovani, si aspetta di vedere

ritornare il frutto del suo lavoro, pur sapendo che il seme gettato generosamente crescerà quando e

come Dio vorrà.

Non basterà formare però catechisti, animatori liturgici, operatori pastorali, di cui la parrocchia

ha bisogno, ma anche padri, madri, professionisti, politici, buoni cittadini. Assai diffusa, purtroppo,

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è invece l‘idea che il ―cristiano adulto‖ si misuri soprattutto attraverso l‘attitudine ad assumere

compiti e ministeri ―interni‖ alla comunità cristiana.

Ovviamente non è pensabile che l‘attuale cammino di Iniziazione cristiana coincida con la

piena maturità del cristiano adulto. Nel contesto occidentale, non è infrequente imbattersi nel

fenomeno della dilazione indeterminata nel tempo della decisione vocazionale di vita; si parla di

adolescenza o gioventù ―prolungata‖. Gli attuali adolescenti e giovani cresimati, che ancora

frequentano i nostri ambienti, non sono certo cristiani adulti, quasi ―in miniatura‖. La libertà

dell‘uomo ha bisogno di tempo per dispiegare le proprie potenzialità.

Restano perciò aperti tutti gli orizzonti della vocazione cristiana, a cominciare da quello della

vocazione al matrimonio cristiano e alla famiglia. Il progetto educativo di una comunità prevede

un‘esplicita cura per la vocazione al matrimonio cristiano e alla famiglia. Oltre alla guida personale,

si predispongano cammini di educazione all‘amore per adolescenti e giovani.

Momento caratterizzante di questo processo sarà l‘educazione alla castità giovanile, in vista di

un amore autentico. All‘educazione all‘amore come preparazione remota è necessario provvedere

con un progetto educativo, che coinvolga, accanto al prete, ai catechisti accompagnatori, anche i

genitori e l‘apporto e l‘esperienza di testimonianza di coppie sposate. È stato fatto osservare come la

stessa pastorale giovanile non tenga sufficientemente conto dell‘apporto dei genitori.

Una particolare attenzione, nelle famiglie, è da dedicare alla cura delle vocazioni di speciale

consacrazione — presbiterale, diaconale, religiosa, consacrata nel mondo, missionaria —, che alle

volte, proprio nel contesto familiare, trova ostacoli, se non opposizione, precludendo alla radice i

germi di vocazione che lo Spirito del Signore Risorto non smette di suscitare nella sua Chiesa.

Istituzioni educative: prospettive di integrazione

14. Già dagli anni Settanta, lo psicologo E. Erikson, in uno dei suoi ultimi scritti, denunciava

con chiarezza il difetto dell‘immagine dell‘uomo adulto nella cultura contemporanea. Cito un testo,

nel quale la diagnosi è proposta in forma concisa: “Quando ero più giovane si parlava molto del

secolo del bambino. È forse finito? Speriamo che abbia fatto tranquillamente il suo tempo. Da

allora abbiamo avuto qualcosa di simile ad un secolo del giovane. Ma, ditemi, quando comincerà il

secolo dell’adulto? Qui, mi sembra, alcune domande rimangono senza risposta. E tuttavia la nostra

conoscenza dei bambini oltre che dei giovani rimarrà alquanto frammentaria (per essi come per

noi) se non sappiamo cosa vogliamo che essi diventino, o persino che cosa vogliamo essere noi

stessi. Senza questa conoscenza ci sentiamo vagamente colpevoli, sia che siamo permissivi o invece

punitivi” (cf. E. ERIKSON, Aspetti di una nuova identità, Roma 1975).

La provocazione di Erikson è l‘invito a ripensare l‘uomo e la sua educazione a partire

dall‘adulto, anzitutto dal rapporto genitori e figli. Sappiamo tutti bene che le qualità identificanti la

persona — il suo carattere, le forme della sua visione del mondo, la sua stessa coscienza morale e

religiosa — molto dipendono dalle relazioni primarie, quali quelle tra genitori e figli. Ignorare o

rimuovere il fatto che il bambino, il ragazzo e l‘adolescente, il giovane stesso sono figli, è già in

partenza muoversi col piede sbagliato. Ripensare invece l‘uomo a procedere dalla relazione genitori

e figli è la sfida a cui la stessa Chiesa non può sottrarsi.

Si riafferma qui il primato del soggetto e della persona: il vero motore della educazione è il

soggetto-persona. Le diverse istituzioni educative sono soltanto enti o soggetti collaboratori. Anche

la figura dell‘educatore è un supporto. È alla persona, perciò, che dobbiamo rivolgere la nostra

attenzione, ma anche verificare costantemente e con coraggio se le istituzioni e le strutture sono un

ostacolo o uno stimolo alla crescita di ognuno.

a) Scuola dell’infanzia

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Espressione concreta dell‘impegno educativo della famiglia e della comunità cristiana è la

scuola dell‘infanzia. ―Scuola dell‘infanzia‖ è il termine preferito dall‘odierna pedagogia, a

differenza della più abituale denominazione di ―scuola materna‖, per dire l‘obiettivo proprio di

questa istituzione, che non sostituisce la famiglia, in particolare la madre, la quale non avrebbe

tempo e mezzi per dedicarsi ai piccoli.

La tradizione pedagogica recente dà dunque a questa istituzione il significato di ―scuola

dell‘infanzia‖, abilitata, più che a sostituire la famiglia, a promuovere la socializzazione del

bambino: e, dunque, prevede un certo distacco dalla famiglia, l‘espansione della sfera emozionale

del bambino verso legami extrafamiliari, le prime amicizie, una prima educazione alla socialità e al

mondo esterno.

È evidente che, così intesa, la scuola dell‘infanzia assuma parametri differenti rispetto al

modello familiare: per la quantità dei bambini da affidare all‘adulto, per la professionalità e la

preparazione specifica del personale, per l‘organizzazione stessa dell‘ambiente e delle attività

educative.

Compito perciò dei genitori non è quello di asservire la scuola all‘obiettivo solamente di alcuni

vantaggi (prolungamento dell‘orario, il privilegio accordato alla comodità dell‘ubicazione della

scuola rispetto al luogo di lavoro…), bensì di ―accompagnare‖ il cammino educativo del proprio

bambino, condividendo mete, programmi, e — nel caso della scuola parrocchiale — il carattere

pastorale.

Compongono il carattere pastorale della scuola: l‘essere segno della presenza della comunità

cristiana presso le famiglie; l‘opportunità che essa offre ai genitori, prolungando gli impegni di

educazione cristiana assunti con il Battesimo del loro bambino, di avvalersi di continuative e

concrete iniziative di sostegno; la proposta di una educazione globale del bambino nei suoi aspetti

di individualità, razionalità, affettività, socialità e religiosità, ―ecumenicamente‖ aperta anche alle

legittime domande di famiglie di fede e di religioni diverse.

b) Oratorio

Analogamente alla scuola per l‘infanzia, anche per l‘Oratorio la famiglia resta l‘ambito

educativo primario: i genitori sono i primi educatori anche in ordine alla formazione cristiana dei

figli che crescono. Tuttavia, alle famiglie in quanto tali non compete un ruolo diretto di animazione

oratoriana, pur restando fondamentale la loro collaborazione.

L‘Oratorio realizza il progetto educativo attraverso la ―comunità degli educatori‖ (prete,

catechisti, animatori dei vari gruppi di interesse e di servizio), accompagnando i minori verso la loro

maturità cristiana. Tale comunità educante nasce nella comunità della parrocchia, la quale

promuove il numero, la qualità, la formazione degli educatori e la loro sintonia con la vita, le

iniziative della comunità parrocchiale e diocesana.

Alle famiglie, nei confronti delle quali l‘Oratorio si propone come strumento educativo della

parrocchia, con attenzione alla totalità della popolazione giovanile che vive nel territorio, è chiesta

la collaborazione, che si concretizza: nell‘aiuto reciproco per capire i ragazzi, gli adolescenti e i

giovani attraverso un rapporto sincero con gli educatori; nella collaborazione per la formulazione

del progetto educativo e per la verifica degli itinerari percorsi; nel sostegno ad altre famiglie di

ragazzi, adolescenti e giovani che vivono in difficoltà; nella partecipazione ad alcune attività

dell‘Oratorio, che prevedono la presenza e il coinvolgimento delle famiglie; nel coinvolgimento

dell‘animazione di alcuni momenti forti (le ―domeniche insieme‖, i GREST o CRES, i campeggi...).

L‘Oratorio resta dunque, innanzitutto, l‘ambiente educativo dei ragazzi, adolescenti e giovani,

sollecitandone il protagonismo, come esperienza di servizio agli altri e come occasione di crescita

personale degli adolescenti stessi. I genitori possono, come detto, prestarsi in compiti di animazione

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dell‘Oratorio, quale segno della comunità che è vicina al cammino formativo di tutti i ragazzi, non

solo dei propri figli.

c) Scuola

Non è chi non veda come ai fini della educazione delle nuove generazioni il mondo della scuola

si ponga come il crocevia di un impegnativo cammino. Nelle società di massa l‘appropriazione del

patrimonio culturale non avviene spontaneamente, ma è affidata appositamente alle istituzioni a ciò

deputate: il sistema scolastico e formativo, in particolare.

L‘appropriazione, però, non può dar luogo a una profonda assimilazione, se non coinvolge

l‘identità personale. Un sapere che concorra alla crescita personale non può prescindere dalle

domande che sono collegate al senso ultimo della vita e rimandano al vissuto della generazione

giovanile. Sotto questo profilo, anche la scuola diventa l‘ambito in cui l‘autenticità della

testimonianza personale conta assai più dell‘abilità dell‘intervento tecnico.

È sempre più diffuso nell‘insegnamento scolastico il ricorso ai computer cosiddetti auto-

esplicativi. Sembra utile affidare ad essi tutto il compito dell‘insegnamento, perché sono in grado di

guidare attraverso un percorso. I computer sono programmati, e non sono soggetti come gli

insegnanti alla sofferenza personale, che li mette in causa quando non si sentono accettati come

educatori. I computer fanno addirittura capire gli sbagli lungo l‘apprendimento. Affidiamo dunque a

queste nuove macchine l‘impegno di fornire anche le nozioni necessarie per la guida della vita,

come in un viaggio con il pilota automatico? Da qui la domanda: l‘investimento che la scuola sta

facendo sulla tecnologia come si concilia con la promozione umana e cristiana del ragazzo?

Dobbiamo entrare nel campo della tecnica per conoscerla e valorizzarla, però, con il coraggio di

stare un passo più avanti, di non lasciarci sopraffare o spaventare da essa. In che modo? Anzitutto

con l’interiorizzazione dei contenuti di ciò che insegniamo. È proprio questo che ci permette di stare

davanti alla macchina, perché la macchina parla secondo le istruzioni date, mentre chi insegna deve

insegnare secondo ciò che ha dentro.

Quando lo studente si accorge che il suo professore riflette, medita, si mette in questione di

fronte a domande nuove, egli impara molto, perché viene invitato alla capacità di saper ricavare da

se stesso qualcosa che, al momento, non è ancora chiaro, e che si può chiarire attraverso il processo

del parlare, del discutere, del riflettere. Nessuna tecnica può rimpiazzare quest‘affascinante

possibilità dell‘intelligenza critica. Possiamo stare un passo più in là della tecnica e delle macchine

ritrovando il gusto dei valori, del rapporto tra l‘insegnamento e le sue conseguenze etiche.

Bisogna però uscire, in generale, da una falsa neutralità, quasi che l‘insegnare non comporti

opzioni di valori. Bisogna accettare la sfida che l‘insegnare, pur essendo rigorosamente un istruire,

ha una valenza educativa, che non può essere messa tra parentesi. Anche la pedagogia

contemporanea sta riscoprendo il significato educativo dell‘insegnamento e della scuola, che si era

cercato di emarginare, a incominciare dalla scuola dell‘infanzia.

La scuola diventa così un ambito in cui l‘autenticità della testimonianza personale conta assai

più dell‘abilità dell‘intervento tecnico e dove il raggiungimento dei fini educativi dipende non

soltanto dalle discipline, dai programmi o dalle tecniche didattiche — che rischiano di portare la

scuola nella direzione opposta alla declamata centralità dell‘alunno — quanto principalmente dalle

persone che in essa operano e, quindi, da incontri e presenze, dalla loro formazione e dalla loro

saggezza.

La stessa enfasi su certi modelli di scuola, che taluni vorrebbero assimilare all‘impresa, deve

essere prudentemente ridimensionata, comprendendo che non si dà scuola dei progetti senza una

scuola dei soggetti. Per questo la sapienza pedagogica cristiana ha sempre considerato il processo

educativo non in astratto, ma nella prospettiva del “magister”, cioè nell‘ottica di una realizzazione

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interpersonale serena e sicura, affidata all‘amore e alla sapienza di colui che ha il mandato di

educare e, perciò, di essere un‘amorevole guida dell‘altro.

d) L’associazionismo cattolico

La presenza della Chiesa nel mondo della scuola ha trovato espressione in passato — e in parte

ancora oggi — nelle diverse forme di associazionismo cattolico, soprattutto quelle legate in vario

modo all‘Azione Cattolica. Maggiore autonomia e continuità nel tempo, rispetto alle associazioni

studentesche, avevano le associazioni di carattere professionale tra gli insegnanti e i maestri

(UCIIM, AIMC). Così, pure, è sotto gli occhi di tutti il sorgere di scuole per l‘infanzia, promosse e

gestite dalle varie comunità parrocchiali o da comunità religiose, associate nella federazione delle

scuole materne (FISM).

La concitata stagione degli anni ‘68 e seguenti del secolo scorso, ha prodotto mutamenti

profondi in questa area. All‘Azione Cattolica si sono aggiunti — in qualche caso, addirittura,

sostituiti — i nuovi movimenti ecclesiali. I rapporti non sempre facili tra le diverse forme di

aggregazione cattolica, in specie nel caso degli studenti delle scuole secondarie, hanno trovato

manifestazione più appariscente in occasione della creazione dei nuovi organismi di partecipazione

scolastica. Tali organismi hanno peraltro determinato anche nuove opportunità di aggregazione tra i

cattolici operanti nella scuola (ad es. la FIDAE); in particolare, soltanto a seguito di essi, ha trovato

consistente sviluppo un‘aggregazione dei genitori (ad es. l‘AGE).

Il compito di realizzare una coordinazione tra queste diverse forme della presenza cattolica

nella scuola è stato assunto da un nuovo organismo pastorale: l‘Ufficio diocesano deputato appunto

alla elaborazione di una pastorale scolastica. Sembra, però, ancora sussistere una certa distanza di

questo organismo rispetto alla vita effettiva della Chiesa locale (parrocchie, zone, vicariati).

Qualche sollecitazione in proposito è stata lanciata dal Convegno Ecclesiale della Montagna

(2002-2003), dove è emerso il desiderio di una nuova immagine di Scuola, unitamente ad una nuova

immagine di Chiesa, sul territorio. Tra gli altri, sono stati evidenziati i seguenti obiettivi: maggiore

sinergia tra gli insegnanti cattolici per una presenza più visibile, in modo da dare un segno concreto

agli stessi alunni di legame con le comunità cristiane, attraverso iniziative culturali, caritative;

recupero dell‘associazionismo, oltre che tra i docenti, anche tra gli studenti, con iniziative in

particolare sul versante degli studenti universitari, per accompagnarli, al di là dell‘attuale

dispersione, a scelte professionali più legate al territorio. L‘intento è di rendere la montagna quale

prima beneficiaria di importanti figure professionali, ricordando come in passato il Seminario di

Marola sia stato anche fucina di uomini e professionisti cristiani.

e) L’Università

Un luogo irrinunciabile, in una Reggio ormai avviata a configurarsi come città universitaria, è

quello della pastorale universitaria. La nostra Chiesa è interpellata perché diventi capace di

accompagnare i giovani universitari, ancora in larga parte di provenienza dal territorio provinciale e

città limitrofe, nella loro vita e ricerca.

Ritengo che questo debba realizzarsi in due modi: 1) promuovere incontri e accogliere richieste

di confronto delle antropologie sottese ai diversi saperi legati alle scienze della formazione primaria,

alla professione infermieristica e alla comunicazione, che caratterizzano le attuali Facoltà nella sede

reggiana; 2) inoltre, anche se la città non ha tradizioni consolidate in proposito, offrire strutture e

figure di accoglienza, di ospitalità, ad es. per i giovani provenienti dalla montagna, o comunque per

giovani interessati ad esperienze comunitarie di vita universitaria e di ―pastorale dell‘intelligenza‖,

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secondo un‘espressione efficace di Benedetto XVI al Convegno diocesano di Roma sui giovani,

“La gioia della fede e l’educazione delle nuove generazioni” (5 giugno 2006).

Qualcosa però sta cambiando nella nostra città. Siamo convinti che accumulare facoltà senza un

dibattito sulla città, sui suoi orientamenti, sulla sua ―vocazione‖, ponga qualche problema. La nostra

tradizione locale è stata quella di creare figure intermedie nella sanità, nei servizi, nella formazione.

L‘apertura della città, poi, alle nuove popolazioni richiederebbe di creare un luogo di conoscenza e

di approfondimento di queste culture, ma manca un dibattito.

La cultura a Reggio, come ho già rilevato altre volte, è fatta di eventi, ma non si sta riflettendo

sul sistema formativo. Anche la Chiesa ha un suo contributo da dare. L‘orientamento in senso

caritativo della nostra Chiesa, peraltro straordinariamente meritevole, ha polarizzato unilateralmente

l‘attenzione. Si va dai poveri e questo è bene, ma dovremmo avere interessi un po‘ più orientati

verso l‘incontro di civiltà, visto che l‘alternativa che ci viene costantemente proposta è invece lo

scontro.

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CAPITOLO IV

OBIETTIVI DA CONDIVIDERE

Le scelte operative

15. Il percorso sopra delineato ha una condizione di base preliminare: che i genitori accettino

progressivamente di essere coinvolti nei vari passaggi. È su questo punto che si incontrano le

principali difficoltà per chi tenta nuovi percorsi di Iniziazione cristiana, che abbiano al centro

l‘adulto e la sua crescita di fede.

Sarà opportuno, prima di buttare a mare ogni proposta, entrare sul terreno di un coraggioso

laboratorio pastorale, che metta a confronto preti, diaconi, catechisti ed educatori, genitori

favorevoli e meno favorevoli, alcuni magari indisposti in partenza.

Dal confronto, là dove è già stato avviato, condotto con il massimo di sincerità reciproca, sono

emerse alcune importanti attenzioni da avere, sia per quanto riguarda i soggetti coinvolti, sia per

quanto riguarda i passi da fare.

Attenzioni da avere

16. Non è facile, oggi, attuare iniziative di coinvolgimento dei genitori nella pastorale della

Chiesa. Il tentativo di coinvolgimento, tuttavia, va fatto, nella fiduciosa attesa di creare nel tempo

una tradizione di incontri e figure di accompagnamento direttamente rivolte ai genitori, in grado di

proporre anche ai genitori meno sensibili un costume al quale più difficilmente sottrarsi, dandogli il

rilievo che merita. Del resto, i costumi di un‘epoca si decidono a livello d‘azione, ed è su questo

registro che il costume, anche sul piano pastorale, assume i suoi contorni propri.

a) Famiglie

* Come prima attenzione, occorre tenere conto delle famiglie reali, di storie e processi precisi,

con i loro problemi e limiti. Nulla di strano. Non esiste alcun diritto a genitori perfetti, a

un‘infanzia senza problemi, a contesti ottimali. Alcune esperienze rischiano di ―sopravvalutare‖

la famiglia, chiedendole un livello di coinvolgimento fuori portata rispetto a due aspetti: non

tengono conto del tempo reale che i genitori hanno, e della loro reale situazione di fede. I

genitori, anche a fronte di un maggiore interesse per la questione educativa dei figli, hanno

pochissimo tempo per dedicarvisi. Inoltre, proposte troppo alte nei loro confronti rischiano di

essere percepite come ―pretese‖ ecclesiastiche, proprie di una società di cristianità.

Paradossalmente, non sono considerate ―pretese‖ quelle, ad esempio, avanzate da alcune società

sportive — come alzarsi presto la domenica mattina per portare i ragazzi alla partita —,

accettate dai genitori ―senza battere ciglio‖.

* È necessario procedere con una certa gradualità di coinvolgimento, che tenga presente la

storia di ciascuno, delle mentalità e delle tradizioni della città e del territorio. La visita nei

Vicariati è stata significativa, a questo proposito. In alta montagna, i ritmi di lavoro di una

famiglia, quando resta, sono profondamente diversi da quelli di altre zone. Il cambiamento, pur

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necessario, richiede pazienza nella risposta. È necessario allora dare tempo per preparare il

terreno; presentare un progetto chiaro e motivato: non bastano le affermazioni di principio, ma

occorre far capire cosa si intende fare con i genitori, prima che con i figli, nel concreto,

apportando le motivazioni. Le reazioni provocate in alcuni genitori, che lasciano la comunità e

portano altrove i figli, non sempre sono dovute alla proposta in sé, ma al modo con la quale

viene fatta.

* In questo percorso saranno da mettere in conto anche delle perdite. Proprio la paura delle

perdite paralizza molti e induce a un pericoloso ritardo nel cambiamento. Ma le perdite che noi

paventiamo, tramite un coinvolgimento libero e responsabile dei genitori, non sono già tutte in

atto nell‘attuale pastorale di conservazione? Per rispetto della libertà e di un coinvolgimento

graduale nella decisione dei genitori, sono da mettere in conto tempi più distesi per una risposta

adeguata, facendo attenzione ai singoli casi e investendo sul contagio che in positivo possono

esercitare le famiglie che aderiscono. Lo stile relazionale risulta spesso decisivo. Solo se nel

cammino ci sono stati ampi e ripetuti segni di disinteresse e assenza alle proposte, più volte

richiamati alla famiglia, anche con opportuni incontri diretti, si potrà rimandare la celebrazione

del sacramento, richiedendo un tempo ulteriore e prova di maggior buona volontà.

b) Le comunità

* Si tratta di restituire alla Chiesa, nella sua concreta configurazione parrocchiale territoriale

aperta a tutti, la capacità originaria di generare alla fede, di sensibilizzare le comunità cristiane

perché progressivamente si riapproprino del loro compito di essere “grembo materno”

nella fede. Anche a questo proposito, il cambiamento chiede tempo per preparare il terreno:

predisporre cammini nella stessa parrocchia in accordo con le parrocchie vicine, per non

dividersi agli occhi dei parrocchiani, tentati di andare altrove; tenere conto dei preti reali, della

loro formazione e delle loro resistenze; valutare le risorse e preparare le nuove figure di

accompagnamento.

* Le esperienze già in atto cercano di rompere il muro della delega al parroco e ai catechisti e di

rendere protagonista la comunità degli adulti: dal Consiglio pastorale, reso primo ispiratore

delle iniziative, al gruppo dei catechisti ed educatori a livelli differenti, a tutta la comunità, resa

partecipe nei momenti chiave, quali la celebrazione eucaristica domenicale. Si tende a rifare il

―tessuto generativo‖, con il vantaggio che, assumendo il compito di generare alla fede le nuove

generazioni, la comunità stessa ne viene rigenerata.

* L‘obiettivo è quello di non tardare a intervenire sulla prassi tradizionale. Va aperto un

laboratorio nel quale si ripensi, si progetti, si attui e verifichi costantemente la proposta di

rinnovamento dell‘attuale prassi, non con la pretesa di arrivare in fretta a un nuovo modello, ma

con l‘umiltà di prepararne il terreno. Il rischio forte sarebbe quello di pensare che le attuali

difficoltà siano frutto di una crisi passeggera, e che tutto ritornerà come prima: il modello

tradizionale non sarebbe finito, ma basterebbe correggerlo con un supplemento di impegno. È

questa una posizione generosa, che rischia però di far perdurare illusioni prima e frustrazioni

poi.

c) Le figure di accompagnamento

* Il coinvolgimento della comunità e della famiglia non va a segno, se non c‘è una vera e propria

équipe di accompagnamento dell‘Iniziazione cristiana per ciascuna delle tappe del cammino

secondo la scansione prevista negli Orientamenti per una prassi rinnovata dell’Iniziazione

cristiana (consegnati alla comunità diocesana nell‘ottobre 2005): Cristiani in famiglia, Cristiani

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nella comunità, Cristiani nel mondo. Se fino adesso bastavano il parroco e la figura del

catechista dei ragazzi, eventualmente aiutato, nei gruppi più grandi, da qualche giovane, ora

viene costituita una équipe: accanto alle figure tradizionali del catechista dei ragazzi non devono

mancare diaconi o altri adulti per l‘incontro con i genitori, animatori della liturgia domenicale,

maestri della preghiera cristiana, testimoni della carità e del servizio. Compito dell‘équipe, non

sostitutiva della comunità e delle famiglie, è quello di farsi carico delle varie attività,

coordinandole e coinvolgendo famiglie e comunità. Comunità, genitori e gruppo di

accompagnamento diventano così la struttura di base per ridare alla Chiesa e alle famiglie la loro

capacità generativa alla fede.

* Il rischio è di passare da una delega dell‘Iniziazione cristiana ai catechisti, a una delega ai

genitori. È quindi importante una proposta complementare: una parte del percorso continua a

essere assolto dai catechisti; un‘altra, più di esperienza e di testimonianza, dai genitori e dalla

comunità. Occorre anche che i genitori siano coinvolti come adulti, nelle loro situazioni,

difficoltà e attese, con un linguaggio adatto e curando la relazione.

* Bisognerà mettere nel conto che progettare al centro Diocesi non basta, se non si attua quanto

progettato andando sul territorio. Si tratta di mettere in cantiere, analogamente agli anni

Settanta con il processo di rinnovamento della catechesi, soggetti, modalità e tempi in grado di

operare sul territorio diocesano con strutture di accompagnamento capillari, scuole di

formazione adeguate alla diversità dei Vicariati e delle situazioni di parrocchia, piccole o grandi,

con scarse o migliori potenzialità e risorse.

Passi da fare

17. La visita ai Vicariati, svolta nei mesi scorsi sulla base degli Orientamenti per una prassi

rinnovata della Iniziazione cristiana, ha dato modo di sperimentare dal vivo la ricchezza di vita

cristiana, il generoso impegno di tante persone nel proposito di consolidare e trasmettere il Vangelo

di Gesù Cristo e la fede in lui. A tutti, presbiteri e catechisti, in particolare alla Commissione

diocesana per l‘Iniziazione cristiana, vanno il mio più vivo grazie e la riconoscenza del Signore.

Gli incontri, partecipati e alle volte vivaci nel dibattito, hanno messo in luce non solo situazioni

diverse nei Vicariati, difficoltà di approccio alle famiglie e scarsità di interesse e di risorse nelle

comunità parrocchiali, ma anche consapevole conferma degli orientamenti intrapresi e viva attesa

dei passi ancora da fare. Gli Orientamenti vanno dunque portati avanti con coraggio e concretizzati

nelle tappe che sono già state individuate.

Pare ci sia, in questo momento, un convergere di indicatori, provenienti contemporaneamente

dall‘esperienza pastorale, dalla riflessione e dagli orientamenti ecclesiali, che ci danno una

sufficiente serenità nel dire che la direzione l‘abbiamo intuita, anche se non l‘abbiamo realmente

intrapresa. Sì, a decidere della capacità di stare nella storia è la disponibilità a progettare e a darsi

modelli di azione. Questa condizione riguarda direttamente la pastorale e, di conseguenza, anche la

pastorale di Iniziazione cristiana.

La decisione pastorale, che in altri contesti può rimanere secondaria e passare pressoché

inosservata, acquista qui tutto il suo spessore. E questo anche a proposito di Iniziazione cristiana.

Possiamo richiamare qui la lezione, probabilmente non ancora sufficientemente percepita, sottesa

alla battuta di K. Rahner: “Dio e il diavolo sembrano interessarsi ai particolari, la predicazione

ecclesiastica invece sembra muoversi nell’universale”. Come a dire che dal cielo dei principi

occorre scendere al terreno delle decisioni!

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a) Verso i “catechisti battesimali”

* È l‘itinerario che dall‘inizio più coinvolge la famiglia. Nella prassi tradizionale sono i genitori

che domandano il Battesimo. La domanda ancora in larga maggioranza dei genitori è rigida e

celebrativa: riguarda l‘amministrazione del Battesimo; al più si accetta qualche incontro previo.

Sta però entrando nella mentalità e nella prassi delle comunità e dei diversi operatori pastorali la

convinzione che iniziare non significa solo preparare al sacramento del Battesimo, ma

attivare un itinerario graduale, scandito dall‘ascolto della Parola, dalla celebrazione e dalla

partecipazione alla vita della comunità dopo il Battesimo.

* Accogliendo gli Orientamenti, sono diverse le comunità parrocchiali che hanno avviato proposte

di accompagnamento dei genitori in preparazione al Battesimo per i loro figli. In particolare, si

dia spazio e attenzione al periodo che segue la celebrazione del Battesimo. Se la parrocchia, che

ha accompagnato le famiglie nel cammino di fede verso il Battesimo, le abbandona a se stesse,

rimane un vuoto pastorale nel periodo più importante per l‘educazione cristiana dei bambini.

Chiedo pertanto di favorire esperienze che mantengano i contatti con queste famiglie. Non

sarà forse possibile fare grandi cose, ma la vicinanza umana, l‘interesse verso di loro,

l‘opportunità di visite mirate nelle case, insieme a occasioni annuali di incontro, tengono vivo

un rapporto sempre più concreto e amicale: ad es. feste di anniversario del Battesimo, incontri

su tematiche educative ispirate al Catechismo dei bambini…

* Per fare ciò, occorrono coppie di sposi chiamati a essere catechisti e accompagnatori, e un

impianto pastorale attento alle giovani coppie. Anche la scuola parrocchiale dell‘infanzia

diventa un luogo appropriato per avvicinare i genitori e accompagnarli nel loro compito

educativo cristiano. Usufruendo delle proposte già in atto in Diocesi, adeguatamente potenziate

ed estese sul territorio, come quelle dei ―catechisti battesimali‖ e della ―Catechesi del Buon

Pastore‖ per i bambini dai 3 ai 6 anni, propongo con la collaborazione dell‘Ufficio di pastorale

familiare di attivare in ogni Vicariato la scuola per la formazione e il confronto di

esperienze sulla figura dei “catechisti battesimali” o di altre figure atte ad accompagnare i

genitori lungo il cammino di Iniziazione cristiana dei figli.

* Occorrerà chiedersi, alla luce del progetto diocesano e con l‘aiuto della Commissione

diocesana dell‘Iniziazione cristiana: ci sono queste figure, che sanno accostare, incontrare,

aiutare, stimolare e accompagnare le famiglie che bussano alla porta della parrocchia? Quali

caratteristiche dovrebbero avere? È vero che in alcune parrocchie o zone pastorali esistono i

―catechisti battesimali‖ (ancora pochi, però), ma sono solo queste le possibili figure a cui

pensare e a cui fare riferimento? Che cosa devono fare? Quali saranno i loro compiti? Come

formarli? Chi li forma?

b) Verso le “domeniche insieme”

* Condurre i figli all‘Eucaristia significa chiedere che essi vengano accolti alla mensa dei figli di

Dio perché tutta la loro vita venga trasformata. Un impegno, questo, che non può non

coinvolgere la famiglia nel suo insieme. Nell‘Eucaristia, le famiglie imparano anche ad aprirsi

a tutta la comunità, a superare le tentazioni di privatezza e di solitudine educativa sempre

ricorrenti, a tessere legami di amicizia e di fraternità nella grande famiglia dei figli di Dio, e a

farsi carico delle fatiche di altre famiglie. Se la Chiesa ha bisogno della famiglia per scoprirsi

famiglia dei figli di Dio, la famiglia ha bisogno della Chiesa per scoprire la sua vocazione di

―Chiesa domestica‖.

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* Di qui la necessità che il cammino di Iniziazione cristiana non si svolga solo in parrocchia,

ma preveda esperienze e momenti nelle case: proposte di preghiera in famiglia lungo l‘anno,

offerte di semplici commenti ispirati al Vangelo della domenica, racconti di testimonianze

familiari a sostegno della azione educativa. La famiglia va aiutata a riscoprire la bellezza e la

positività della propria opera educativa sul piano della trasmissione della fede. Esperienze di

conversazione familiare tra genitori e figli, se non di catechesi, sono pertanto da incoraggiare e

sostenere, già a partire dall‘età dell‘infanzia e in particolare della fanciullezza.

* Se l‘incontro delle famiglie con la comunità ha un tempo privilegiato nel Giorno del Signore,

nei prossimi anni occorrerà lavorare per dare alla domenica il suo carattere di iniziazione delle

famiglie alla vita della comunità. Sappiamo quanto questo obiettivo rappresenti una novità

assoluta. Non mancano, tuttavia, esperienze significative al riguardo. Bisognerà procedere con

gradualità. Nelle diocesi dove si è iniziato a ridare alla domenica il suo significato di Giorno del

Signore, giorno della comunità e giorno di iniziazione alla fede, c‘è un largo accordo nel

privilegiare alcune domeniche lungo l’anno, le cosiddette “domeniche insieme”, chiedendo

ai ragazzi, alle loro famiglie e alla comunità di fare di questo appuntamento domenicale un

tempo di ricupero della propria identità di fede e di comunità. È auspicabile che

l‘organizzazione concreta delle ―domeniche insieme‖ sia assunta e portata avanti dalle famiglie

stesse. L‘intento è quello di aiutare le famiglie a sentirsi parte della Chiesa.

* Chiedo pertanto a ogni Vicariato di farsi “laboratorio pastorale”, alla luce del progetto

diocesano e con l‘aiuto della Commissione diocesana per l‘Iniziazione cristiana, al fine di

elaborare modalità specifiche e tempi adeguati di avvio della proposta di ―domeniche insieme‖

attorno a queste domande: come configurare l‘impostazione della ―domenica insieme‖? Come

qualificare anzitutto la Messa nello stile celebrativo, nei riti di accoglienza e di ascolto della

Parola, nel canto e nei gesti particolari, nelle consegne dei simboli previsti lungo il cammino di

Iniziazione cristiana? Servono momenti distinti tra genitori e ragazzi, oltre a quelli comuni di

preghiera, di festa e divertimento, di pranzo e di condivisione? E con quali figure e

collaborazioni attuare queste domeniche: i catechisti dei ragazzi? Gli animatori della liturgia?

Alcune famiglie o coppie di genitori del gruppo dei ragazzi in fase di iniziazione?

* Vista la rilevanza e il carattere esemplare che viene ad acquisire l‘Eucaristia nel Giorno del

Signore nel cammino di Iniziazione cristiana, chiedo alla Commissione diocesana per

l‘Iniziazione, d‘intesa con gli incaricati della Formazione permanente del clero, di promuovere

una riunione del clero circa l‘origine, il significato e la verifica della celebrazione della Messa

di Prima Comunione il Giovedì Santo nella Messa in “Cœna Domini”, in uso in diverse

parrocchie della Diocesi. Analogamente chiedo, come già previsto negli Orientamenti per una

prassi rinnovata dell’Iniziazione cristiana, un Convegno di studio sul significato e la

collocazione della Confermazione nel cammino di Iniziazione cristiana e le sue ricadute

pedagogiche.

c) Verso l’integrazione con le altre realtà educative

È vero che bisognerà puntare su famiglie e comunità cristiana per una vera iniziazione alla vita

cristiana delle nuove generazioni. La famiglia non può più fare “da sola”: nell‘educazione dei

figli occorre che i genitori facciano alleanza, oltre che con la parrocchia e l‘oratorio, con la pastorale

giovanile e associativa, la scuola e l‘università, e tutte le altre realtà educative in cui i ragazzi,

crescendo, vivono.

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* Strettamente collegato con la comunità cristiana è il servizio diocesano offerto dalla Pastorale

Giovanile, con compiti di formazione degli educatori — preti, diaconi, religiose e laici —

attorno ai contenuti e linguaggi propri di un progetto educativo alla fede e alla vita dei giovani,

convergendo al tempo stesso sulla centralità della figura di Gesù, raccomandata in questi anni

dal Papa Giovanni Paolo II, e andando sul territorio con proposte di formazione esperienziale al

servizio e alla missionarietà, alla pace e all‘accoglienza (ad esempio presso Case della Carità,

Mensa Caritas, Dimora di Abramo, Unitalsi, Granello di Senapa…), come orizzonte della

educazione cristiana del giovane.

* Un importante momento di sostegno delle famiglie e comunità è quello rappresentato dalle

associazioni e dai movimenti. L‘Azione Cattolica, in primo luogo, è da valorizzare nelle sue

articolazioni (AC ragazzi, giovani, movimento studenti, adulti e terza età), quale luogo di

formazione permanente dei laici alla corresponsabilità ecclesiale e alla testimonianza cristiana

nella società. Accanto a essa possiamo contare su altre importanti associazioni (AGESCI,

ANSPI, CSI, CTG, UNITALSI…) e gruppi ecclesiali ricchi di contenuti educativi e attenti a un

percorso graduale e a proposte concrete di iniziazione alla fede e alla vita delle nuove

generazioni.

* Il momento scolastico del percorso educativo è altrettanto importante, se non altro per il

tempo che ragazzi, adolescenti e giovani passano a scuola e per il contesto religioso e culturale

pluralista, che mette alla prova la educazione familiare ed ecclesiale. In questi ultimi anni, la

pastorale scolastica è diventata sempre più necessaria e urgente. Nel suo sforzo di

configurazione umana dell‘ambiente di vita della scuola, essa mette a disposizione per la stessa

educazione: il contributo dell‘antropologia e pedagogia cristiana attente ai valori; figure di

docenti ed educatori ispirati cristianamente, a incominciare dagli insegnati di Religione

cattolica, oggi più disponibili e legati alla vita della comunità ecclesiale; la presenza nel mondo

della scuola nelle sue varie organizzazioni (FISM, FIDAE, AIMC e UCIIM, AGE…) di un

variegato associazionismo cattolico.

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CONCLUSIONE

18. In conclusione, credo di poter dire che l‘Iniziazione cristiana in famiglia e nella comunità

abbia una peculiarità, che è quella dell‘esperienza vitale del Mistero, in tutta la pregnanza che tale

termine evoca nella Bibbia, come ci ricorda il libro dell‘Esodo: “Quando tuo figlio ti domanderà:

Che significa ciò? Tu gli risponderai: con braccio potente il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto,

dalla condizione servile…” (Esodo 13,14).

Si tratta di un‘iniziazione che parte da un fatto di vita, quale l‘evento della Pasqua,

sperimentato insieme alla famiglia, dove si compiono gesti e si dicono parole che vanno spiegate ai

figli, essendo un patrimonio da trasmettere di generazione in generazione: un‘evangelizzazione

―narrativa‖, legata alla memoria vitale, ricordata e celebrata nel culto; un insieme di fatti vissuti

dalla propria famiglia e dal proprio popolo, che viene riconsegnato alle nuove generazioni.

La prima evangelizzazione in famiglia è sempre stata impostata, anche nel Nuovo Testamento,

sulla ―memoria‖ che si trasmette di generazione in generazione. Lo stesso apostolo S. Paolo non

mancherà di raccomandare, al discepolo e pastore Timoteo, “il ricordo della tua fede schietta che fu

prima di tua nonna Loide, poi di tua madre Eunice, e ora, ne sono certo, anche di te. Tu rimani

saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin

dall’infanzia conosci le Sacre Scritture” (2 Timoteo 3,14).

Piace ricordare come in tanti cammini di fede, nelle vite dei Santi e Sante, pur nella loro

singolarità e misteriosità, è presente un‘esperienza di rapporto con un familiare che ha illuminato,

favorito e sostenuto l‘incontro con Dio. Assai spesso una donna: penso a S. Monica e al figlio S.

Agostino, a S. Marcellina e al fratello S. Ambrogio, a mamma Margherita e al figlio Don Bosco, e a

tante donne nella storia della Chiesa, fino a Raissa, moglie del filosofo cristiano Jacques Maritain.

Ma non si devono ignorare anche innumerevoli anonime figure di familiari: una madre, un padre, un

fratello, una sorella, una moglie, che hanno accompagnato con le parole, le preghiere, le lacrime,

l‘esempio, persino il martirio, itinerari di conversione e di santità nel quotidiano.

I nostri itinerari e progetti educativi rischiano di diventare piatti e banali, se non vengono

continuamente ―tirati su‖ con il lievito del Vangelo e con figure di appropriazione del Vangelo nella

vita. Rischiano di rimanere scipiti, se il sale della parola creatrice e rivoluzionaria del Vangelo non

li mette continuamente in questione. Solo se ci si lascia continuamente provocare dal messaggio

evangelico e si contempla a lungo il Signore della storia, a partire dalle pagine della Scrittura, è

possibile dare sale e lievito ai nostri itinerari educativi e luce sul nostro cammino di educatori.

+ Adriano VESCOVO

Reggio Emilia, 8 settembre 2006,

nella festa della Natività della Beata Vergine Maria e d’inizio del nuovo anno pastorale

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Bibliografia

Vengono qui segnalati di seguito alcuni suggerimenti bibliografici utili per l’approfondimento dei vari temi

richiamati dalla Lettera Pastorale, secondo l’ordine cronologico di pubblicazione.

- C. M. MARTINI, Dio educa il suo popolo, Programma pastorale diocesano 1987-89, Centro

Ambrosiano, Milano 1987.

- A. CAPRIOLI – L. VACCARO (a cura di), Educazione. Questione cristiana e questione civile,

in «Quaderni della Gazzada», Morcelliana, Brescia 1991.

- A. MANENTI, Vocazione, psicologia e grazia. Prospettive di integrazione, EDB, Bologna

1992.

- R. CORTI, Famiglia per educare, Nota pastorale per l‘anno 1994-95, Novara 1994.

- A. CAPRIOLI – L. VACCARO (a cura di), Chiesa e famiglia in Europa, in «Quaderni della

Gazzada», Morcelliana, Brescia 1995.

- A. CAPRIOLI, I catechisti battesimali. Strumento di formazione per coloro che preparano i

genitori al Battesimo dei figli, Àncora, Milano 1999.

- V. IORI (a cura di), Famiglie, domiciliarità, relazioni, in «Strumenti», Comune di Reggio

Emilia – Osservatorio permanente sulle famiglie, Giugno 2001.

- G. ANGELINI, Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002.

- FACOLTÀ TEOLOGICA DELL‘ITALIA SETTENTRIONALE (a cura di), Genitori e figli nella

famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002.

- A. COMASTRI, Educhiamo i figli, Lettera alle famiglie di Loreto per la Quaresima dell‘anno

2004.