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EDI – ESPERIENZE DI INCLUSIONE
POVERTÀ ANTICHE, NUOVE E INEDITE: VERSO UN MODELLO DI INSERIMENTO SOCIO-LAVORATIVO
di Buccarelli Filippo e Grassi Federico
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INDICE
1 INTRODUZIONE
PAG. 3
2 PREMESSA
PAG. 5
3 VULNERABILITÀ E RIAFFILIAZIONI
PAG. 10
4 ARKÉ E IL PROGETTO EDI – ESPERIENZE DI INCLUSIONE
PAG. 15
5 VINCOLI ED OPPORTUNITÀ: IL PUNTO DI VISTA DEGLI ATTORI
COINVOLTI
PAG. 19
6 CONCLUSIONI
PAG. 24
APPENDICE: SINTESI FOCUS GROUPS
PAG. 25
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INTRODUZIONE
1. Introduzione
EDI è un progetto di Arké che ha risposto all’avviso a valere sul P.O.R. Toscana Competitività
regionale e occupazione 2007-2013 Asse III Inclusione Sociale Bando Interventi Progettuali
2010, che è stato finanziato per €75.000,00 con risorse del Fondo Sociale Europeo da Esprit soc.
cons. a.r.l.
Il progetto si è svolto nel periodo maggio 2011 - luglio 2012, ha visto la realizzazione di
iniziative sui territori delle province di Pistoia e di Prato e si è fondato sulla stretta integrazione
di attività che hanno lo scopo di favorire l’inclusione sociale e lavorativa di cittadini
svantaggiati. I suoi principali obiettivi erano:
1) la costituzione di una cooperativa sociale di tipo B composta da soci di Arké e cittadine con
caratteristiche determinanti condizioni plurime di svantaggio
2) la realizzazione di tre percorsi individualizzati di accompagnamento all’inserimento
lavorativo
3) lo svolgimento di una serie di interventi tesi al rafforzamento dei soggetti del terzo settore
attivi in ambito di area metropolitana e, in particolare, di quelli che collaborano al
raggiungimento degli obiettivi del progetto.
La buona riuscita di EDI è stata resa possibile anche dal sostegno assicurato dalle
organizzazioni che hanno formalizzato il loro interesse verso il progetto dichiarando di
condividerne obiettivi, finalità e strategie e di impegnarsi per apportare concreti contributi alla
sua realizzazione attraverso modalità e strumenti diversi. In particolare:
- Saperi Aperti società cooperativa: agenzia formativa che si è occupata dell’aggiornamento del
personale del settore adulti di Arké e di realizzare interventi formativi rivolti alle beneficiarie
del progetto
- il Comune di Pistoia: ha garantito ai cittadini coinvolti, segnalati e in carico al proprio Servizio
di Assistenza Sociale, forme di sostegno anche di tipo economico finalizzate alla frequenza dei
percorsi formativi previsti dal progetto, inoltre ha garantito la disponibilità della Fabbrica delle
Emozioni per lo svolgimento dell’evento finale tenutosi il 16 giugno 2012 dal titolo “Abbiamo
fatto un’impresa“
- l’Ente Camposampiero: ha messo a disposizione locali e spazi per la realizzazione di attività
- la Caritas Diocesana di Prato: ha pubblicizzato e promosso le azioni progettuali
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- Confcooperative Pistoia: ha offerto consulenza per la costituzione della nuova cooperativa
sociale di tipo B
- CNA – Associazione Provinciale di Pistoia: ha collaborare alla costituzione della nuova
cooperativa sociale di tipo B, valorizzando il proprio sistema di relazioni e alla ricerca di esperti
designer
- lo Studio di Architettura Arch. Carlo Baselli e Arch. Massimiliano Vannucci: ha collaborato
allo sviluppo di idee e contenuti per l’evento finale
- Gemma Società Cooperativa Sociale e Integra Società Cooperativa Sociale: hanno garantito
l’organizzazione di scambi di esperienze tra i propri soci lavoratori e i destinatari di EDI.
Inoltre sono stati coinvolti a vario titolo anche: Habitare Art Design srl, Riciclaggio e
Solidarietà Firenze scrl, sezione soci Coop di Pistoia, Auser Volontariato Bottegone, Azienda
Agricola Il Capitello e Azienda Pasta e Pane.
Un particolare ringraziamento al Comune di Prato, che ha messo a disposizione locali per lo
svolgimento di incontri e focus groups, a tutti gli operatori pubblici e privati che hanno
partecipato agli eventi formativi e di scambio di esperienze che hanno contribuito a rafforzare la
portata positiva del progetto.
Un ringraziamento speciale a Giovanni Paci e Barbara Guarducci, che hanno infuso entusiasmo
e competenza allo staff degli operatori, contribuendo in maniera indispensabile al
raggiungimento degli obiettivi progettuali.
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2. Premessa
Nel corso degli ultimi anni in concomitanza con l’insorgenza di una crisi economica e
finanziaria senza precedenti, andata aggravandosi in tutti i Paesi occidentali avanzati soprattutto
dal 2008 ad oggi il problema della vulnerabilità sociale e quello delle politiche di
reinserimento socio-lavorativo hanno assunto caratteristiche del tutto inedite. Innanzitutto le
nuove povertà come da tempo riportato dalla migliore letteratura in materia, teorica ed
empirica presentano tratti estremamente complessi, che vanno da situazioni di insufficienza di
reddito anche in presenza di una lavoro a condizioni di rarefazione delle reti private di aiuto e di
appartenenza dalle quali dipende la disponibilità non soltanto di risorse materiali ma anche
fiduciarie, identitarie, di riconoscimento e di consapevolezza delle proprie capacità. In secondo
luogo, queste forme più complicate di disaffiliazione vanno assommandosi a quelle
tradizionalmente più conosciute, studiate e trattate (disoccupazione endemica, presenza di un
disagio o di un handicap fisico o psicologico in grado di compromettere in più o meno larga
misura la vita autonoma del soggetto, infine situazioni di marginalità conclamate sinora
affrontate in chiave sostanzialmente assistenziale ecc.), dando luogo a circostanze spesso ibride
e molteplici di debolezza sociale che rendono alquanto difficile per le politiche di servizio la
messa a punto di efficaci strumenti di fronteggiamento e di intervento. In tutti gli Stati membri
dell’Unione Europea ed innanzitutto a livello delle istituzioni comunitarie – si discute oggi
sulla tenuta del modello sociale continentale (fatto di inserimento occupazionale
tendenzialmente stabile e di accesso ad una serie di servizi pubblici capaci di sostenere le
persone nei momenti di debolezza d’altronde considerati sinora l’eccezione piuttosto che la
regola) e ci si interroga se la contingenza che si sta attraversando rappresenti un periodo di crisi
per quanto radicale non di meno risolvibile con i classici strumenti sociali ed economici o se
piuttosto non si stia vivendo un vero e proprio passaggio d’epoca, che costringe ricercatori,
esperti osservatori e responsabili politici ed amministrativi ad una profonda ridefinizione dei
problemi e delle soluzioni.
È in questa prospettiva che si iscrive il dibattito sui nuovi confini della così detta cittadinanza
postindustriale, nonché sulle migliori modalità tecniche, amministrative ed operative per
garantire l’inclusione e l’integrazione sociale del maggior numero possibile di individui e delle
loro famiglie. Il confronto non è affatto scontato, e poche sono ormai le certezze in materia. Per
alcuni studiosi , le turbolenze internazionali segnalano un reale cambio di paradigma sociale. Il
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futuro – una volta che gli equilibri produttivi e monetari si saranno ristabiliti sarà sempre più
connotato da una jobless growth, ovvero da un sistema di fabbricazione e di erogazione di beni
e servizi sul mercato remunerato nel quale la ritrovata ed accresciuta produttività del lavoro,
grazie all’ulteriore informatizzazione delle imprese, consentirà aumenti più che esponenziali di
ricchezza con la necessità di meno impiego. L’occupazione retribuita non potrà dunque più
funzionare come un tempo alla stregua del principale canale di inserimento sociale e di
redistribuzione delle risorse. Occorrerà quindi pensare alla valorizzazione di altri tipi di attività,
fra i quali il volontariato ed il lavoro di cura altruistica, ed alla crescente libertà, per le persone,
di scegliere se dedicarsi a questo genere di impegno comunque garanzia di redditi minimi di
sostegno e quello invece sul mercato primario.
L’attuale situazione presenta tuttavia nodi e prospettive ben diverse da quelle delineate in
parte fondatamente dalla posizione appena vista. In tutti i Paesi Europei ciò che all’ordine del
giorno è come ridisegnare i meccanismi dei mercati del lavoro ciascuno d’altra parte con le
proprie specificità in maniera da garantire al contempo modalità di impiego sufficientemente
flessibili da agevolare i bisogni di adattamento alla domanda da parte delle imprese e al
contempo reti di supporto, di assistenza, di riqualificazione e di rinnovata occupabilità ai
lavoratori stessi, peraltro con l’obiettivo di accrescere la qualità dei tempi non soltanto
professionali ma anche di vita. In quest’ottica, il lavoro remunerato viene riproposto – e
soprattutto all’inizio del XXI secolo come un indispensabile valore sociale e individuale,
perché da esso continuerà dipendere la posizione dei singoli e dei loro gruppi di appartenenza
all’interno della società e la stessa autoconsapevolezza soggettiva, costruita insieme agli altri e
nel quadro di attività collettive che danno il senso delle proprie capacità e della propria
attitudine a relazionarsi agli altri. Capisaldi di una tale impostazione sono gli investimenti che
tutti i Paesi occidentali stanno facendo in modelli sociali di welfare to work, ovvero di un
ridisegno dei sistemi di assistenza e di promozione della persona sulla base di una sua
rimotivazione al lavoro ed all’impiego.
Ora, è nel quadro di quest’ultimo approccio indubbiamente il più realistico e quello
maggiormente sentito dai diretti interessati che si sono recentemente affermate modalità
innovative di reinserimento socio-lavorativo di soggetti così detti economicamente e
professionalmente deboli, ovvero in senso stretto persone con disagio psicofisico, individui con
esperienze di reclusione alle spalle concluse o in corso, operatori adulti espulsi dal mercato
degli impieghi e con basse specializzazioni, giovani con bassi livelli di scolarizzazione e con
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bagagli professionali insufficienti e/o deteriorati, ma in un’accezione sempre più lata anche
soggetti che lavoratori dipendenti specializzati o lavoratori autonomi ed indipendenti hanno
visto la loro carriera biografica costellata da una qualche “frattura” professionale o esistenziale,
e sono caduti in un processo di crescente vulnerabilità e marginalizzazione nonostante la
l’apparente solidità della loro situazione. Si tratta di strategie di politica attiva del lavoro che
consistono in parte in misure di fluidificazione dei mercati occupazionali (servizi per l’impiego
in grado di funzionare come efficaci ed efficienti counselors per il reperimento di opportunità
d’impiego e di inserimento on the job), in parte interventi volti a separare il piano
dell’assistenza sociale da quello dell’attivazione professionale e conseguentemente quello dei
sussidi di sostegno da quello delle indennità ad incentivo della ricollocazione lavorativa in
parte ancora misure miranti comunque a legare il supporto assistenziale “di ultima istanza” alla
stimolazione di un atteggiamento costruttivo del soggetto nei confronti dell’attività retribuita,
quand’anche svolta in situazioni relativamente protette e cofinanziate come nel caso di certe
occupazioni socialmente utili o in quello del coinvolgimento in organizzazioni noprofit o di tipo
imprenditoriale socialmente responsabile. In tutti i casi, la modalità è oggi ovunque
tendenzialmente la stessa. Si tratti di soggetti in condizioni di forte inabilità o perché
caratterizzati da un qualche handicap o perché a lungo intrappolati nella gabbia della povertà e
della disoccupazione, si tratti di individui che invece hanno perso l’impiego e ne sono alla
ricerca nonostante il loro bagaglio professionale si sia gradualmente impoverito e la loro fiducia
nelle proprie capacitazioni (Amartya Sen) è stata profondamente scossa, sono tendenzialmente i
servizi sociali secondo procedure diverse da una realtà nazionale ad un’altra ad esempio in
Europa – che segnalano a quelli per l’impiego (pubblici, come nel caso dei Paesi nord europei)
e/ o privati (come invece in Italia e in buona misura anche in Germania) le situazioni da
prendere in carico. La disponibilità istituzionale a fornire aiuto è vincolata da un lato
all’impegno dimostrabile dal beneficiario a seguire il programma di reinserimento messo a
punto dall’ente amministrativo, dall’altro dal grado di personalizzazione dell’intervento, nella
consapevolezza che ciascuna forma di disagio ha una propria specificità e che per fronteggiarla
efficacemente occorrono misure ad hoc condivise da colui che è chiamato a sottoporvisi. Il
metodo non potrebbe poi funzionare come dimostrano le ricerche in materia se non avesse
un respiro territoriale, locale (data la specificità do ogni sistema produttivo verso il quale ci si
volge), e se non vedesse coinvolti, in fase di progettazione e di programmazione, l’insieme delle
risorse organizzate che operano nell’area: dalle imprese alle organizzazioni di categoria, dalle
associazioni della società civile sino alla rete dei servizi statuali e del privato sociale.
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L’esperienza di lavoro della Cooperativa Arké di Pistoia è un chiaro esempio di questa
impostazione che costituisce ormai il punto di riferimento delle politiche attive per il lavoro di
tipo nazionale ed europeo. L’attività che si pone come un servizio ormai integrato e collaudato
da tempo sul territorio del pratese e che rappresenta una dei più importanti strumenti di
inclusione su quello pistoiese mira infatti non solo, come recita la stessa dizione con cui è
contrassegnata, ad accrescere l’occupabilità di soggetti svantaggiati ma anche a renderli
gradualmente autonomi dalla cultura e dall’habitus della dipendenza che è da sempre un rischio
quanto mai elevato per persone in situazione di vulnerabilità e di debolezza sociale. Non
soltanto ma il riferimento alla “cittadinanza” in un certo senso richiama gli estremi del dibattito
brevemente ricordato sopra e pur collocandosi nel solco della tradizione di studio e di
intervento politico che vede nel lavoro uno strumento fondamentale di integrazione sociale
amplia il significato di quel termine e si pone il problema di quante e quali siano, nella loro
diversità qualitativa, gli aspetti che, rafforzati, possono segnare una reale emancipazione delle
persone prese in carico e quindi agevolare, in maniera diretta o indiretta, la loro riattivazione nei
canali della vita sociale organizzata. Ciò da cui dipende l’empowerment del singolo non è quindi
solo l’accrescimento certificabile delle sue competenze e della sua occupabilità, e nemmeno
soltanto (per quanto cruciale e indicatore di efficacia) l’aumento dei tasi di occupazione
dell’utenza seguita. Ciò che conta è anche il grado di autonomia esistenziale che specialmente
nel caso di individui particolarmente prostrati dall’esperienza e dal disagio psico-fisico è
conseguibile grazie allo svolgimento dell’intervento in se stesso, grazie insomma alla cura delle
relazioni nelle quali lo svantaggiato (in senso lato) si trova immerso e dalle quali dipendono i
processi di costruzione della sua identità. Solitamente quest’ultima dimensione del problema è
ovunque sottostimata dall’istanza politica e da quella ammnistrativa di tipo istituzionale. Un po’
perché le risorse monetarie con cui vengono finanziati tali misure di politica attiva del lavoro e
di inclusione sociale devono esser distribuite in base ad un criterio di “orientamento ai risultati”
e di tangibilità o misurabilità di questi stessi effetti di breve/medio/lungo corso, un po’ perché
al di là delle questione identitarie ciò che alla fine sembra contare (anche agli occhi dei
beneficiari stessi) e la possibilità concreta di trovare un impiego e di mantenerlo. Non di meno
si tratta di una dimensione cruciale, anzi pregiudiziale. Perché date le caratteristiche delle
nuove povertà e delle nuove vulnerabilità sociali oggi sempre più la capacità dei singoli di
ricollocarsi e di reinvestirsi sul proscenio della vita collettiva (quella lavorativa innanzitutto) è
sempre più l’effetto di una (ri-) conquistata autoconsapevolezza di sé, in grado di tradursi in
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self-confidence, in creatività e in disponibilità e rimettersi in gioco a partire dalla propria idea e
dalla propria autodeterminazione pratica. Se l’innovazione è ora nella così detta economia
dell’adeguatezza un vantaggio competitivo, essa si forma sempre in humus relazionali, in
substrati sociali, apparentemente distanti dall’azione economica e professionale ma nei quali
invece tale agire è costantemente immerso, incorporato ed embedded (Granovetter, Giddens,
Rullani).
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3. Vulnerabilità e riaffiliazioni
Le nuove povertà come recita il titolo di questo report hanno assunto nel corso degli ultimi
anni caratteri assolutamente inediti, che lasciano immaginare l’ennesima metamorfosi del
problema. Com’è noto, la letteratura specializzata in materia ha da tempo sottolineato le
trasformazioni del concetto stesso di indigenza o di bisogno sociale. Un tempo questi quel
termine povertà rimandava ad una visione statica, posizionale, dei un soggetto. Nell’antichità
il povero, il marginale, erano considerati nel quadro di un immaginario collettivo ancora
improntato ad una semantica di tipo religioso – come dei “disgraziati”, ma con questa
espressione non si intendeva lo stato di chi incorso in traumi esistenziali causati da eventi
della vita ma anche da rapporti di forza o da processi di esclusione sociale si ritrovava in una
situazione di scoraggiamento personale e in uno stato di disorganizzazione sociale (Park,
Merton, Foucault), quanto colui il quale macchiatosi di una qualche colpa agli occhi della
divinità era scivolato al di fuori delle sue grazie, ed avrebbe potuto dunque contare soltanto
sull’aiuto compassionevole degli altri. In quest’ottica il marginale pareva avere caratteristiche
oggettive, indipendenti dall’azione del gruppo e dagli squilibri di forza che ne sottendevano il
funzionamento ordinato. Un disgraziato era tale in quel luogo così come in quello da esso molto
distante, in quel momento così come nei passati o in quelli a venire, e l’unica strategia di
contenimento tendeva ad essere o il supporto caritatevole o la sua neutralizzazione rispetto al
corpo “sano” della società.
E’ solo con l’insorgere della modernità compiutamente a cavallo fra il XVIII ed il XIX secolo
che lo status di “povero”, di colui cioè che viene percepito come suscettibile di supporto, si
modifica profondamente. In quel frangente storico contrassegnato da un lato dalla rivoluzione
industriale inglese, dall’altro da quella politica e sociale, da un terzo punto di vista
dall’affermazione di un pensiero teorico e pratico laico e disincantato come quello illuminista
le cause dell’indigenza e della debolezza sociale iniziano ad essere considerate come del tutto
umane e mondane. La vulnerabilità ha cause storiche, sociali ed economiche al contempo. E le
azioni per contenerla e per ridurla nella crescente consapevolezza che essa abbia precisi costi
di tipo collettivo che vanno appositamente contenute e risolte possono così finalmente
rispondere ad una razionalità strategica di pertinenza esclusiva delle strategie e delle scelte del
gruppo della comunità di appartenenza. Nell’Inghilterra e nella Francia ottocentesche si
comincia a far distinzione fra poveri in senso stretto per i quali non sembra possibile alcuna
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misura che non siano quelle prima accennate (carità e neutralizzazione) e persone indigenti,
che, non completamente compromesse, possono essere suscettibili di programmi di intervento e
di risocializzazione ad una logica di funzionamento sociale che, da Smith in poi, è quella del
lavoro e della produttività.
In questo periodo avvia ad affermarsi una concezione relazionale, compiutamente sociale, del
fenomeno. Per Marx l’indigenza è il prodotto dei rapporti di sfruttamento che si giocano
innanzitutto nella sfera economica e produttiva, ed è l’effetto collaterale di un potere dominante
che radicato nelle relazioni di lavoro e nella proprietà dei mezzi di fabbricazione si riverbera
a livello politico e legislativo (a livello insomma sovrastrutturale) in regole di autorità e di
disposizione che identificano la conformità nell’adesione pratica e mentale ai valori del
capitalismo, la devianza con la contestazione di quell’ordine che l’economia politica classica
“propagandava” come naturale e universalistica. Le carceri e gli istituti nei quali i poveri
venivano reclusi insieme ad ogni altro tipo di persona anomala (dal criminale al portatore di
handicap, al folle ed al malato fisico e mentale) si trasformano gradualmente, in questo
frangente storico, nelle prime working houses, ovvero case correzionali nelle quali gli individui
sarebbero stati ri-socializzati ai valori produttivo e rimessi in condizione di agire in maniera
funzionale ai limiti di stabilità dei sistemi sociali.
Con le prime ricerche sulla miseria quelle ad esempio, nel corso dell’Ottocento, di Eugene
Buret in Francia e di altri statistici morali in Inghilterra il modello di analisi va complicandosi.
La marginalità sociale appare ora avere determinanti non soltanto economiche e salariali ma
anche sociali e spirituali. Così come i tassi di criminalità, anche quelli di povertà sembrano
correlarsi, a livello statistico, con ambienti sociali particolari, contraddistinti da inurbamenti
forzati nelle nuove città operaie, inserimenti esclusivi in un ciclo di produzione sempre più
industrializzato e ferreamente disciplinato, sottoposizione a rapporti di autorità squilibrati,
asimmetrici e di sfruttamento. Non solo, la debolezza sociale appare per la prima volta
presentare anche un aspetto spirituale, che ha a che fare con il processo di disaffiliazione
causato dal permanere nel tempo in questo stato di subordinazione e dalla maturazione da parte
di chi ne rimane intrappolato di una mentalità sottomessa e priva di aspettative positive, di
speranze e di intraprendenza. Con questo benché questo genere di analisi, sviluppate a partire
dalle prime ricerche sul campo, complessifichino il quadro interpretativo l’emarginazione
sociale continua ad essere vista come una circostanza oggettiva, fondamentalmente
indipendente dalle strategie di scelta dei diretti interessati e, simmetricamente, dalle strategie
politiche delle istituzioni. I meccanismi di distribuzione delle risorse e di configurazione del
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sistema delle disuguaglianze sociale sono ancora immaginati come indipendenti dalle
intenzionalità degli attori, individuali ed organizzati. E’ il sistema capitalistico, e la sua logica
tendenzialmente autoreferenziale di sviluppo, che provoca un tale complesso di iniquità, e
l’unica soluzione è quella di una riforma profonda di tale razionalità sistemica, per Marx di tipo
rivoluzionario, per gli statistici morali di tipo tecnocratico e demandato ai poteri “palingenetici”
della tecnica e della tecnologia.
E’ solo nei primi decenni del XX secolo per concludere questo breve excursus storico e
concettuale che prende finalmente piede una visione compiutamente processuale della
marginalità sociale. Nella Chicago degli anni Venti del Novecento una città che nel giro di
appena mezzo secolo decuplica i suoi abitanti grazie ai nuovi insediamenti industriali e diventa
una vera e propria metropoli, meta di flussi sempre più numerosi e intensi di immigrati alla
ricerca di nuove opportunità di lavoro un gruppo di sociologi dalla formazione eclettica ed
interdisciplinare (scienze sociali ma anche psicologia sociale e filosofia pragmatista) comincia a
studiare i concreti meccanismi sociali che sottendono la formazione sul piano aggregato del
fenomeno dell’indigenza e dell’esclusione sociali. Questi non possono se ci si pone il
problema di comprenderli e di fronteggiarli essere pensati in astratto, quasi fossero il risultato
di una logica di sistema asettica ed impersonale. Occorre al contrario primo, considerare le cose
umane come il frutto di scelte motivate ed intenzionali da parte degli attori, individuali e
collettivi, in esse coinvolti, e bisogna in secondo luogo approfondire la maturazione di tali
strategie di condotta a partire non tanto dalla situazione in cui si agisce come una condizione a
sé stante quanto come il frutto di una rappresentazione sociale (Durkheim, Moscovici) che i
singoli ed i gruppi maturano in maniera interattiva a contestualizzata a partire dalla loro
percezione delle cose, dalla cultura istituzionalizzata nella quale sono immersi e da cui traggono
categorie cognitive e di giudizio con cui operano quella ricostruzione, nonché infine
dall’ecologia situata delle relazioni dentro le quali avviene quel lavoro costante e quotidiano di
ricostruzione. Sono queste immagini interazionalmente costruite e socio-culturalmente
condizionate che fissano i confini agli occhi delle persone dei loro progetti e di ciò che essi
reputano fattibile, realistico o al contrario vincolante ed ineluttabile. Ed è dunque da queste
raffigurazioni che scaturiscono come risultato di credenze più o meno fondate ma non per
questo meno cogenti modelli di comportamento e congerie di scelte che danno poi sul piano
aggregato la forma ed il contenuto dei fenomeni collettivi che si intende affrontare e se
problematici modificare. La marginalità sociale, la povertà, l’indigenza, così come le modalità
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di azione politica ed amministrativa diranno studiosi come Park, sulla scia della riflessione di
un sociologo europeo come Simmel sono tutte costruzioni sociali, e come tali comprensibili,
criticabili e modificabili. L’outsider è negli occhi di guarda ma anche non lo si deve
dimenticare in quelli di colui che dagli altri viene guardato. Così come il marginale povero o
disoccupato, malato o straniero è rappresentato da quei soggetti che la collettività di
appartenenza inizia a reputare come tali e a pensare come suscettibili di un certo tipo di
intervento (sia quello della ghettizzazione o quello dell’aiuto, ed in quest’ultimo caso di quel
genere di supporto piuttosto che di un altro), altrettanto la sua legittimazione, la sua esistenza,
dipende dal modo con cui gli interessati a questa dinamica di stigmatizzazione e di
classificazione reagiscono all’etichetta che viene loro così affibbiata: o rifiutandola o
resistendovi o adattandovisi, ad ogni modo comunque mostrando di esserne condizionati e di
aver così interiorizzato una raffigurazione collettiva che contribuisce a determinarne
comportamenti e strategie di scelta.
Ora, in quest’ottica di analisi che trae ulteriori precisazioni da tradizioni teoriche e di ricerca
come quella dell’Interazionismo Simbolico di George Herbert Mead, quella drammaturgica di
Erving Goffman, quella infine costruttivista di Alfred Schütz o di Harold Garfinkel la
vulnerabilità sociale mostra la sua natura di fatto compiutamente relazione e processuale. In
primo luogo essa pur essendo il portato di condizioni economiche come la perdita del lavoro,
la mancanza o la riduzione di reddito, il conseguente indebolimento del potere di acquisto degli
attori mostra un carattere innanzitutto identitario, e dunque inevitabilmente immateriale. La
consapevolezza che le persone hanno di se stesse discende da un complicato gioco di auto- ed
etero- riconoscimento che si svolge all’interno delle cerchie di appartenenza, e quando questi
“avvicinamenti” e “scostamenti” ovvero questi confronti che si svolgono per similitudini e per
differenziazione di se stessi in rapporto a chi ci si confronta sono complicati dalla
frammentazione delle reti di riferimento, ecco che le capacità che gli individui hanno di
fronteggiare le circostanze che la vita mette loro di fronte possono essere con facilità indebolite
e compromesse, e tutto ciò in maniera anche del tutto imprevedibile. Per Paugam le “nuove”
povertà sono quelle caratterizzate proprio da questa complessa dimensione dell’auto-
consapevolezza, perché se un tempo l’esistenza di scenari culturali di tipo collettivo ed
ideologico, come le “grandi narrazioni” operaia e capitalista, consentiva alle persone come tali
di iscrivere la propria esperienza in un progetto più ampio, e quindi di dar un senso condiviso
anche ai loro momenti di maggior difficoltà (potendo peraltro contare su reti organizzate di
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aiuto che quelle convinzioni ideologiche sostenevano e corroboravano) oggi la crisi delle
tradizionali ideologie lavoristiche (che è andata di pari passo coi processi di decentramento e di
delocalizzazione delle unità produttive) lascia gli attori in una sensazione di solitudine di fronte
agli imprevisti della vita, siano essi di tipo professionale (la perdita dell’occupazione o il
fallimento della propria impresa) o esistenziale (l’insorgenza di un lutto o di una patologia che
altera profondamente gli equilibri biografici). La vulnerabilità è il risultato di un processo
graduale di crescente disaffiliazione e depauperamento delle risorse che si hanno a
disposizione. Un processo questo a tal punto micro-incrementale (fatto cioè di step di
fragilizzazione, ciascuno dei quali, preso in se stesso, non sembra costituire un evento
particolarmente traumatico ma che, nel momento in cui si vada ad assommare ad altri dello
stesso tipo, genera potenzialmente alterazioni in grado di far “deragliare” la capacità di coping
(cioè di fronteggiamento dei problemi) del singolo, il quale spesso scoraggiato anche da un
senso sottile di vergogna, più o meno consapevole spesso tende a nascondersi non soltanto
agli occhi dei diretti interessati (che il più delle volte non sanno alla fine rendersi
completamente conto nemmeno loro di quanto è loro accaduto) ma anche a quelli della struttura
dei servizi che sono poi chiamati a misurarsi con questo genere sempre più diffuso di problemi
(Buccarelli, in Dossier Caritas Pistoia 2011).
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4. Arké e il progetto EDI – Esperienze Di Inclusione
È in questo quadro problematico che si iscrive l’impegno della cooperativa Arké, che opera
ormai sui territori di Pistoia e Prato. Il programma di interventi portato avanti è molto
complesso e composto da interventi personalizzati che si pone fondamentalmente due obiettivi
rappresentanti oggi la sfida – per molti aspetti ancora non vinta – della costruzione di un nuovo
modello di politiche sociali nazionali ed europee.
Innanzitutto – sulla base delle caratteristiche quanto mai complicate che presentano oggi i
fenomeni della vulnerabilizzazione, della marginalità sociale, del disagio e della povertà
(caratteristiche brevemente descritte nei paragrafi precedenti), una prima finalità del progetto
EDI è stata quella di contrastare – mediante un’attività di responsabilizzazione dell’utente e di
predisposizione di piani di reinserimento articolati e valutabili per obiettivi – la così detta
cultura della dipendenza dai servizi sociali, ovvero la possibile tendenza – da parte di coloro che
si ritrovano più o meno improvvisamente in situazioni di bisogno e di fragilizzazione delle loro
carriere biografiche di rapportarsi all’aiuto pubblico e collettivo in maniera passiva, remissiva,
di mero adattamento al sussidio ed al supporto. Naturalmente, questo tipo di esito non è affatto
escluso per più di un motivo, sia di natura oggettiva che soggettiva. La persistenza in quelle che
possono davvero diventare gabbie di intrappolamento nei circuiti di povertà dipende da pure
logiche e dinamiche di sistema che non sono immediatamente suscettibili di un controllo e di
una capacità di reazione e di iniziativa da parte dei soggetti coinvolti. Il depauperamento
causato ad esempio dalla perdita del proprio lavoro o dalla fragilizzazione conseguente
all’incorrere di qualche frattura esistenziale (come l’insorgenza di una malattia, di una disabilità
o come l’evento di un lutto familiare ecc.) si traduce con estrema facilità in una rarefazione
delle proprie reti di sostegno, primarie e secondarie (congiunti, amici, conoscenti), e – con
questo – in un indebolimento del capitale sociale (Trigilia) disponibile al singolo per la
realizzazione dei proprio obiettivi e per la difesa della posizione sociale precedentemente
conseguita. L’identità individuale è il complesso prodotto interazionale delle cerchie di rapporti
nei quali una persona è quotidianamente immersa, ed il suo collante o meglio la risorsa più
importante cui quel capitale sociale dà luogo è in definitiva la fiducia in se stessi e negli altri
che tali circuiti di appartenenza nutrono nel complesso gioco di riconoscimento altrui e di
distinzione propria che sottende alla formazione del personale di sé. Il fenomeno dell’(auto-)
fiducia spiega poi in secondo luogo l’insorgere di più o meno gravi stati depressivi dei soggetti
in condizioni di bisogno, dunque una diminuzione delle loro capacità reattive che si traduce
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altrettanto spesso in circostanze dolorose di perdita del senso della realtà, di potere di
organizzazione autonoma della propria vita, finanche – nei casi più delicati di una
destrutturazione delle condizioni spaziali e temporali della propria esistenza, dal che incapacità
di rispettare impegni, di articolare la propria giornata secondo piano cronologici e di impegni
routinari in grado di dar consistenza alle proprie giornate e spessore alla propria esperienza
quotidiana). Tutto ciò si trasforma abbastanza plausibilmente, quindi, in un impoverimento della
gamma di opportunità disponibili all’individuo socialmente fragile ed alle loro famiglie, ed
anche in una rarefazione della sua e della loro capacità di là dove l’opportunità si presentasse
– di riconoscerla e di utilizzarla (A. Sen).
Ci sono tuttavia anche ragioni più soggettive, facendo dunque forza sulle quali diventa in
qualche modo possibile retroagire anche sulle determinanti del tipo precedente, più indipendenti
dall’iniziativa personale. Gli stati di sofferenza portano spesso alla maturazione proprio
malgrado di un atteggiamento tendenzialmente vittimistico e pretestuoso da parte di coloro
che sono in difficoltà, così come – molto semplicemente – uno dei sintomi di patologie
psicologiche depressive è lo sviluppo di emozioni di risentimento e di voglia di riscatto
approssimativi, veementi e subitanei. In questo senso, la sola possibilità per affrancarsi dal
bisogno consiste non solo nell’incidenza di politiche attive di reintegrazione sociale in grado di
intaccare quelle condizioni di contesto cui abbiamo fatto prima riferimento (investimenti in
interventi occupazionali e di sviluppo economico, potenziamento della rete dei servizi di diverso
tipo per un’efficace insieme di misure assistenziali e di primo intervento, finalizzate ad arginare
nell’immediato il senso di marginalizzazione) ma pure ed è questo un punto cruciale in una
strategia di sostegno e di accompagnamento che sappia, su basi compiutamente relazionali,
riattivare le chance di vita degli utenti e le loro “capacitazioni” (Sen) di prefissare,
gerarchizzare, rendere credibili innanzitutto ai loro occhi, gli scopi e gli obiettivi che
cadenzeranno il loro rientro nei circuiti stessi della cittadinanza sociale. La prima finalità del
progetto che stiamo quindi discutendo è stata dunque ed è l’affrancamento da una tale
situazione come abbiamo detto, oggettiva e soggettiva di debolezza dell’utente, con una
conseguente efficientizzazione dello stesso investimento di risorse pubbliche (in questa fase
sempre più scarse) impiegate così non tanto sotto forma di aiuti a pioggia ma di utilizzazioni
valutabili, gestibili e orientate alla specificità dei singoli casi.
Col progetto EDI si è tentato di incidere in profondità sui processi di reinserimento e di vera e
propria reintegrazione sociale dei singoli beneficiari. Ora, il concetto di integrazione sociale è
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estremamente complesso. Innanzitutto esistono diversi tipi di integrazione nella società, quella
civile (contrassegnata dalla possibilità di accesso a beni primari, materiali: la casa e la sicurezza
fisica ed esistenziale, e simbolici: il diritto a prerogative come il rispetto per le proprie credenze
e per i propri stili di vita purché certo compatibili con quelli di qualunque altro), quella politica
(il diritto ad esprimersi liberamente e ad organizzarsi per far conoscere e valere le proprie
opinioni, e da qui i requisiti di elettorato attivo e passivo), quella sociale in senso proprio
(contrassegnata soprattutto dalla rivendicazione al lavoro, all’assistenza sociale in caso di
difficoltà, ai servizi che sottendono il benessere e la qualità della vita delle persone), infine
finanche un’integrazione culturale (il riconoscimento del bisogno di essere rispettato per ciò che
si pensa di essere autenticamente, come soggetti e come gruppi di appartenenza). Non solo, ma
integrazione può voler dire assimilazione sociale (e quindi accettazione a condizione che si
addivenga ai modi di fare della maggioranza) oppure comunicazione, dialogo, confronto,
responsabilizzazione dei singoli, e pertanto riconoscimento più sulla base delle differenze che
delle somiglianze (Marshal, Ambrosini). Si tratta di questioni che non sono affatto di poco
contro, perché una soluzione differisce da un’altra in base al coinvolgimento ed al protagonismo
concesso a chi è condizione di una qualche fragilità (immigrato o antico o nuovo povero che
sia). Da questo punto di vista, discendono due importanti modalità di intervento che
contrassegnano il Progetto di Arké. La prima è l’identificazione del lavoro come uno canali
cruciali di reinserimento nella vita sociale. Tutte le attività in cui si articola l’intervento della
cooperativa mirano attraverso l’azione degli agenti di inclusione sociale e la loro opera di
accompagnamento di posizionamento alla e nell’occupazione alla coltivazione ed al recupero
di professionalità il più possibile appetibili al mercato degli impieghi attuali, nonché alla
diffusione di una rinnovata cultura del lavoro in grado di rendere l’utente adatto ai nuovi
processi di produzione ed alle modificate esigenze organizzative delle aziende che agiscono
oggi sullo scenario economico postfordista (cita). La seconda consiste nel fatto che l’opera di
reinserimento non può tuttavia limitarsi al reperimento di un impiego. Questo è certo
fondamentale, visto quanto abbiamo detto sopra e dato che si tratta di un progetto finanziato da
Enti pubblici il cui scopo precipuo è quello di accrescere l’occupazione e, con essa, il potere di
acquisto e la qualità della vita dei soggetti stessi e della loro famiglia, nonché di rendere efficace
ed efficiente l’investimento delle risorse disponibili al fine di rimanere nei vincoli di
compatibilità di bilancio oggi tanto importanti rispetto alle esigenze della tenuta del sistema
pubblico e privato. Non di meno – specie quando si lavora con individui vulnerabili ed
indeboliti dal coinvolgimento nei processi di disaffiliazione i progressi sulla via del recupero
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sono spesso contraddistinti anche soltanto da una rinnovata capacità di questi ultimi di acquisire
fiducia in se stessi, di rimuoversi con una certa autonomia nel canali della vita pubblica (saper
ad esempio compilare un curriculum in modo da rendersi indipendenti nella ricerca di un
impiego, sapere utilizzare con intelligenza e con responsabilità la rete dei servizi del territorio,
recuperare insomma un potere di disposizione sulla propria vita ecc.) Si tratta in questo caso di
competenze primarie e basilari di difficile contabilizzazione, ed il più delle volte sottovalutate
dall’attore pubblico. Non che non ci si renda conto da parte di quest’ultimo dell’importanza
di tali dimensioni più esistenziali. Il punto è che la contabilità sociale che predomina nella
valutazione delle politiche economiche e del lavoro è ancora soprattutto di tipo quantitativo,
visibile, statisticamente accertabile, economicamente certificabile. L’impegno di Arké,
confermato anche col progetto EDI, è stato quello di contribuire anche ad una concezione
rinnovata di efficienza sociale, tentando di mostrare quanto una riconquistata autonomia di vita
(nelle mille sfaccettature nelle quali essa si caratterizza) debba senza dubbio essere considerata
ai fini del giudizio sulla funzionalità di breve ma anche di medio e lungo periodo degli
interventi implementati, e quanto questo aspetto abbisogni pure di un sistema di valutazione in
grado di includere ai fini della valutazione indicatori matematici standard ma anche
qualitativi non standard, così da rispondere all’esigenza di una considerazione dei “costi” e dei
“guadagni” a livello più ampio di sistema e organizzazione sociale più complessiva.
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5. Vincoli ed opportunità: il punto di vista degli attori coinvolti
Al fine di analizzare scientificamente il percorso sin qui effettuato dalla Cooperativa Arké anche
con il progetto EDI, abbiamo dunque deciso di procedere con un programma di indagine sul
campo volto a raccogliere una serie di informazioni sui punti vista degli attori che in tale lavoro
sono stati nel corso degli anni coinvolti. L’obiettivo è stato quello di suscitare una sorta di
dialogo a più voci su una serie di questioni centrali che costellano l’esperienza in oggetto al fine
di ricavare le così dette rappresentazioni sociali a partire dalle quali l’attività stessa acquista
significato agli occhi di chi in un ruolo o nell’altro ne è stato o ne è protagonista. Il concetto
di rappresentazione sociale è stato elaborato dalla Scuola di psicologia sociale francese che fa
capo a Serge Moscovici (cit.), uno studioso che sin dagli inizi dei suoi studi ha cercato di
articolare e di combinare categorie psicologiche e sociologiche per comprendere gli insiemi di
significati relazionalmente costruiti che strutturano un determinato campo di pratiche. L’assunto
è che – nel corso della azioni della vita quotidiana i soggetti reagiscono alle situazioni con le
quali si trovano a confrontarsi non tanto in maniera passiva (più o meno condizionati dai quadri
simbolici e culturali codificati ed istituzionalizzati), né in modo unilateralmente libero e
indipendente (attraverso cioè una produzione di senso del tutto autonoma che consentirebbe loro
di comportarsi in maniera puramente creativa e priva di vincoli) ma in maniera interattiva e solo
relativamente autonoma (ma autonoma). In primo luogo, è fondamentale la concretezza delle
questioni con cui le persone si confrontano, e l’opinione che di tali problematiche esse si fanno
a partire dall’impatto emotivo che quelle stesse suscitano su di loro. Fuor di metafora e entrando
nel merito del problema che stiamo discutendo, chi ha una situazione di disagio sociale, ad
esempio per la perdita del lavoro, vive la propria condizione a suo modo, indipendentemente
dalle rassicurazioni o dalle drammatizzazioni che possono veicolare i mass media o l’istanza
politica. Ciò nonostante ed è l’altro lato della medaglia un tale arrangiamento emotivo e
cognitivo (come cioè l’attore vede cose e, da tale concezioni, sin convince di avere una serie di
opportunità o di vincoli) dipende anche in buona parte da quegli stessi quadri simbolici
cristallizzati (valori, credenze, dicerie ecc.), i quali entrano nei circuiti delle interazioni e nello
strutturare la comunicazione e la formazione dei punti di vista sono allo stesso tempo ri-
prodotti, ovvero in parte confermati a reiterare il condizionamento, in parte rinnovati. In questa
prospettiva di analisi i singoli sono dunque visti come soggetti attivi e reattivi, e – se si vuol
capire un fenomeno, come ad esempio lo scivolamento in una situazione di vulnerabilità sociale
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o quali siano le soluzioni più efficaci per farvi fronte è assolutamente necessario tentare da un
lato di acquisire la loro ottica di giudizio, dall’altro di capire le dimensioni del contesto sociale e
culturale nel quale essi si trovano ad operare per vedere quanto esse incidano sulla persistenza o
sul mutamento dei significati, e dunque sulle strategie di azione che gli individui mettono in
atto.
Per dare consistenza a questo approccio analitico, abbiamo pertanto deciso di realizzare fra
Maggio e Giugno scorsi, 2012 quattro focus group, uno con gli agenti di inclusione sociale
della Cooperativa Arké impegnati nelle attività di tutoraggio e di accompagnamento al lavoro
degli utenti dei progetti, un secondo con assistenti sociali ed operatori di servizi che fanno da
interfaccia con il Progetto stesso, un terzo con un gruppo di utenti, un quarto infine con alcuni
responsabili di aziende che da più o meno tempo collaborano con la Cooperativa stessa in veste
di imprenditori disponibili ad ospitare stage formativi e tirocini, nonché ad assumere quando
ce ne siano alla fine le condizioni i soggetti che sono stati messi alla prova. Ciascun focus
group pur se con somministrazione di stimoli volta per volta adattati ai diversi tipi di
interlocutori è dunque servito a confrontarsi su alcune questioni cruciali dai quali si è
ipotizzato dipendessero la riuscita o le eventuali difficoltà del programma di attività di
inserimento socio-lavorativo. In particolare, si è cercato di sondare la funzionalità della rete
sottostante al progetto, il tipo di rapporti fra i vari attori coinvolti (agenti di inclusione, servizi
sociali e per l’impiego, imprese ospitanti, utenti), le modalità procedurali adottate, il genere di
fabbisogni professionali ricercati, gli esiti dell’inserimento in azienda, il tutto sullo sfondo del
particolare momento di grave crisi economica e sociale che sta attraversando non solo il mondo
occidentale avanzato ma, al suo interno, anche il nostro Paese ed in particolare la Toscana e i
territori pistoiese e pratese.
Ora, una prima rappresentazione sociale trasversale che ha trovato un riscontro coerente dai
molteplici punti di vista che abbiamo cercato di sondare ha riguardato il salto di qualità che il
lungo periodo di recessione economica di questi ultimi anni (in particolare a partire dal 2008 ma
per quanto riguarda Prato già dagli inizi del decennio Duemila) ha segnato nella stessa filosofia
di intervento che da tempo ha formato il prodotto della Cooperativa Arké (ed in generale il
complesso delle azioni di inserimento socio-lavorativo adottate sino ad oggi). Ciò che bene o
male tutti gli intervistati hanno evidenziato in particolare gli agenti di inclusione e gli
operatori dei servizi è stato il graduale ampliamento della platea degli utenti potenziali, il
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sovraccarico di lavoro che questo ha comportato ma soprattutto le crescenti difficoltà a garantire
condizioni di equità nell’accesso alle attività del progetto.
“… Io sono della cooperativa di tipo B ci dice Angela con sede a Firenze ma che lavora, oltre che su
Prato, anche a Livorno. Riflettevo su quanto mi è successo proprio ieri. Mi si è presentata una persona
che portava il curriculum perché rimasta senza lavoro per la chiusure dell’azienda in cui operava e io
gli ho raccontato che cos’è una cooperativa di tipo B e che siamo nel settore dell’inserimento lavorativo
di persone svantaggiate. Lui mi guarda e mi dice.. “.. ma allora questa è una guerra fra disgraziati, ma
come si fa..?..” Questo per dire che un tempo le domande erano di veri svantaggiati, di chi era in
carcere o con disagio mentale. Ma ora no, ora viene chiunque, persone che non hanno uno svantaggio
riconosciuto ma che sono chiaramente in difficoltà. Ed aggiunge Carla, un’amministrativa del Comune
di Prato, .. è la platea di persona che è cresciuta enormemente. Il progetto era inizialmente per ex
detenuti e quindi finalizzato all’inserimento socio-lavorativo di specifiche categorie di persone,
comunque chiaramente portatori di un effettivo svantaggio. Nel corso degli ultimi due anni soprattutto ci
siamo accorti che si tratta di uno strumento che è diventato importante anche per l’inserimento di altre
tipologie di soggetti, che non consideravamo svantaggiati e comunque a rischio di emarginazione, e cioè
disoccupati, cassaintegrati, o che non è in più in grado di inserirsi nel mondo del lavoro. L’utenza è
cambiata e ci troviamo di fronte a situazioni diverse da quelle iniziali. Qui a Prato la rete funziona
molto bene, tre anni fa abbiamo siglato questo protocollo fra tutti i soggetti operanti sul territorio. Il
meccanismo è mettere insieme tutti gli attori in modo tali da non fare sovrapposizioni di interventi,
quando uno viene segnalato sapere che non è stato preso in carico da un altro ente. Ora il protocollo è
stato rinnovato recentemente ed è entrata la Società della Salute…”1.
Quello segnalato dalle due operatrici è effettivamente un problema molto serio, evidenziato fra
l’altro anche dai più recenti risultati delle ultime rilevazioni Caritas sui propri Centri di Ascolto.
Nel corso degli ultimi quattro anni (2008-2011), a Pistoia il numero di coloro che si sono rivolti
a tali punti di sostegno è pressoché triplicato (passando dalle circa 1.900 unità alle quasi 6.000
della fine dello scorso anno) e quello delle persone che fisicamente hanno chiesto un supporto
(più contatti possono far riferimento infatti allo stesso individuo) è quasi raddoppiato (da 560 a
1.254). Il dato più preoccupante è che – mentre sino a non molto tempo fa fra quanti si
rivolgevano alla Caritas gli stranieri erano maggioritari – sempre nello stesso periodo
quadriennale l’entità degli italiani è enormemente crescita, slittando da ‘incidenza percentuale
del 27% ad una del ben 45,6% sul totale sul complesso delle richieste di aiuto, e la cosa – ecco
1 È utile segnalare come la Cooperativa Arké pur operando sui territori di Prato, di Pistoia e della Valdinievole sia
coinvolta in modo diverso in ciascuna delle singole realtà, e questo per i diversi modelli di politica sociale e di gestione
degli interventi adottati dalle specifiche Autonomie Locali. In particolare, a Prato dove dispone anche di un Ufficio
presso l’Assessorato della città laniera essa ha in gestione praticamente l’insieme delle iniziative sul campo, mentre a
Pistoia è uno dei soggetti per quanto importante e nonostante pregressi tentativi di coordinamento che tuttavia non
hanno sostanzialmente modificato le cose che offre servizi di tutoraggio e di accompagnamento al lavoro. E’ questa la
ragione per la quale – oltre a motivazioni di tipo logistico e altre legate alla disponibilità dei singoli di partecipare agli
incontri i focus group sono stati alla fine territorialmente caratterizzati: con utenti pistoiesi quello dedicato ai
beneficiari, con agenti di inclusione pistoiesi e pratesi quello invece tenuto con i tutor della cooperativa stessa, con
imprenditori del distretto tessile la sessione dedicata al confronto con le aziende, con assistenti sociali pratesi nel caso
infine del focus con gli operatori dei servizi sociali e per l’impiego.
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un altro aspetto cruciale ha non solo riguardato soprattutto gli uomini ma (dal 38% di inizio
periodo al 46,7% della fine) ma in special modo coloro che vivono in nuclei familiari (qui la
quota percentuale passa dal 70,5% al 77,4%). Le maglie della povertà conclamata o a rischio
tendono quindi a farsi sempre più larghe, ed intaccare proprio quel tessuto sociale, quello
autoctono, la cui tenuta poteva esser considerata a ben vedere (data l’impostazione familistica e
tendenzialmente informale del nostro modello di welfare: Colin Crouch) il principale
ammortizzatore non soltanto del disagio italiano ma anche di quello dei migranti (Ambrosini).
Coloro che si rivolgono ai servizi sono dunque sempre più persone che innanzitutto hanno perso
la propria occupazione (dipendente o, come nel caso di Prato, anche autonoma ed
imprenditoriale: nota Camera di Commercio pratese) e che in secondo luogo minano, con la loro
fragilità, la tenuta delle loro stesse cerchie familiari e parentali. Non solo, ma come evidenziato
da alcuni dei nostri stessi intervistati, tali fratture economiche alle quali poi si assommano,
come abbiamo visto, situazioni di vulnerabilità affettiva, relazionale ed anche culturale (un
patrimonio professionale, quando lasciato a se stesso e non riutilizzzato per un po’ di tempo,
causa disoccupazione o sottoccupazione, finisce facilmente con il deteriorarsi e non aver più un
potere di mercato aggiornato e riconosciuto) tendono adesso a verificarsi in un’età anagrafica
sempre più avanzata ma non troppo matura per consentire di intravedere (si considerino anche le
nuove misure di riforme del sistema pensionistico adottate dal Governo italiano sotto
indicazione delle Autorità europee, che hanno procrastinato la possibilità di accedere al
trattamento previdenziale sia per gli uomini che per le donne) i confini naturali di “ritiro dal
mercato delle occupazioni.
Questa complessa situazione è dunque all’origine di una crescita esponenziale di domande di
inserimento in attività di riqualificazione e di ri-accompagnamento all’impiego quali quelle
garantite dai circuiti “preferenziali” appositamente pensati sino a qualche anno fa solo per i
soggetti davvero più deboli e svantaggiati. Ma è anche la causa da un lato di una dura messa alla
prova dei servizi sociali e per il lavoro che operano in collaborazione con gli attori del privato
sociale, dall’altro di una nuova sollecitazione che rimettendo in discussione routine di
intervento consolidate impone una ri-taratura dei meccanismi amministrativi e gestionali ed
una un’inedita necessità di rafforzare la capacità di fare rete e di evitare inutile e diseconomiche
sovrapposizioni.
“… Negli anni 90 nota lucidamente uno dei referenti del Gruppo di Lavoro dell’ASLdi Prato quando
abbiamo iniziato gli interventi di inserimento socio-lavorativo, c’erano pochi attori, gli enti pubblici, ma
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ora sono tanti, cioè il pubblico, le cooperative e le associazioni, e ciò comporta esigenza di maggiore
raccordo, collegamenti più stretti e messa a sistema. E’ uno degli aspetti più evidenti di cambiamento.
Un’esigenza di raccordo e di programmazione condivisa. In questo momento vedo che tutti cerchiamo di
trovare un sistema il migliore per raccordarci. La volontà comune c’è per una maggiore omogeneità.
Noi abbiamo a Prato un protocollo di intesa che va avanti da nove anni e che è stata recentemente
rinnovata fra Enti, Comune, Provincia, Fil – Centro per l’Impiego, Asl, insomma un accordo inter-
istituzionale. E già questo è uno strumento interessante. C’è però ancora più bisogno di condivisione col
mondo delle cooperative e di chi lavora con noi nei percorsi di inserimento. Una grossa difficoltà è che
negli anni sono diminuite le risorse, e per due motivi. Uno è la crisi e l’altro è perché tante sono gli enti,
cooperative e associazioni che vanno alla ricerca di risorse, per cui c’è bisogno di un coordinamento
più unico, più compatto, più forte e di condivisione…”.
Come specificato in nota, la situazione di Prato appare per molti aspetti più collaudata. Il coordinamento
cui fa cenno la nostra ultima intervistata ha riguardato non solo la messa a punto di un meccanismo in
grado di garantire in tempo tendenzialmente reale (grazie all’accesso alla rete informativa municipale
INFOR da parte di tutti i soggetti, coinvolti nella carriera di assistenza e di aiuto di un beneficiario
segnalato al servizio comunale) notizie circa la situazione dell’utente e circa il tipo di misure di cui egli
al momento gode (evitando così doppioni di azioni e di aiuti) ma ha comportato anche la buona pratica di
riunioni periodiche degli assistenti sociali nelle quali ciascuno porta all’attenzione dei colleghi la
condizione dei suoi beneficiari e decide con loro, sulla base di parametri formali e sostanziali il più
possibili coerenti, l’opportunità di procedere ufficialmente alla segnalazione e alla presa in carico da
parte del progetto gestito dalla cooperativa Arké. Rimangono tuttavia anche in questa esperienza
necessità di ulteriore messa a regime del sistema di confronto, ad esempio per quel che concerne le
attività dei diversi attori della rete e le modalità della loro partecipazione. È – questo cui stiamo
accennando – uno dei problemi maggiormente sentiti dagli enti del privato sociale (cooperative di tipo B
o associazioni) nel quadro delle attuali proposte politiche di riforma dei regimi di welfare, all’indomani
della crisi del modello tradizionale stato-centrico, del decentramento delle responsabilità di decisione, di
governo e di gestione in materia, nonché del più generale processo di privatizzazione di una vasta
gamma di servizi all’utente:
“.. Ciò che riscontriamo ogni giorno dice ancora Angela, la rappresentante della cooperativa di tipo B
operante su Prato, Firenze e Livorno è un costante e progressivo mutamento dei servizi che riusciamo
a svolgere. L’affidamento diretto da parte del Comune o della Asl è andato a sparire, c’è sempre una
concorrenza su gare al ribasso a prescindere dalla qualità del progetto di inserimento, il lavoro che hai
da fare deve costare poco e rendere tantissimo, a detrimento della professionalità di chi entra. C’è
pochissimo tempo di formazione e non c’è spazio per fare troppa accoglienza nei confronti di chi entra a
lavorare con noi…”
Si tratta – come dicevamo di una questione estremamente delicata, che chiama in causa i più ampi
progetti di riforma dei sistemi
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6. Conclusioni
Da quanto esposto si capisce come EDI non sia stato “uno dei tanti progetti” ma molto più. Nel corso
del progetto sono state svolte numerose attività sia di carattere formativo più “tradizionale”, con lezioni
teoriche in aula, sia un’apertura a verso metodologie rinnovate di coinvolgimento degli operatori e degli
interlocutori locali. Il Bando di Esprit soc. cons. a r.l. a cui abbiamo risposto con la progettazione di EDI
ci ha portato a intraprendere una strada molto impegnativa e per noi anche sorprendente: la costituzione
di una nuova cooperativa sociale di tipo B denominata Manusa.
La scelta di costituire una cooperativa sociale di tipo B è stata determinata dalla volontà di rinnovare per
primo noi stessi e di attuare una sperimentazione etica che si inserisce nel solco di una storia che ci vede
sempre più specializzati sul versante dell’inclusione ma che ha richiesto apertura mentale e apporto di
esperti e consulenti di altri settori.
Principalmente MANUSA si occupa di riuso di abbigliamento e accessori con l'obiettivo di dare ad essi
una nuova vita perché riusare, ripensare, dare seconda vita a un oggetto significa dargli un nuovo
significato, garantirgli un po’ di vita in più. Questa avventura vede compagni di viaggio sia alcuni soci e
operatori di Arké sia le beneficiarie dirette dell’azione 1 di EDI, cittadine in carico ai servizi sociali dei
Comuni di Pistoia e di Prato.
Il progetto EDI ha visto lo svolgimento di molte attività, attraverso le quali siamo riusciti a inserire a
lavoro con contratto di tipo subordinato a tempo indeterminato 3 cittadini definiti svantaggiati, inoltre
abbiamo avuto l’opportunità di raggiungere altri obiettivi importanti come:
- rafforzare le competenze dei nostri operatori con corsi di aggiornamento e lavori di gruppo
- realizzare strumenti scientifici capaci di valutare l’impatto dei percorsi di inclusione sulle carriere
sociali dei beneficiari dei nostri interventi
- organizzare un software gestionale che ci permette di raccogliere dati in maniera omogenea su tutti i
territori su cui lavoriamo e di analizzarli anche per elaborare proposte di intervento più efficaci.
In conclusione possiamo affermare che EDI ha rappresentato un punto di svolta importante non solo per
la nostra cooperativa e per i beneficiari diretti delle attività, ma per il sistema locale die servizi per
l’inclusione sociale e lavorativa di cittadini che vivono condizioni di svantaggio.
…
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APPENDICE – SINTESI FOCUS GROUPS
[1] Operatori servizi
Stiamo vivendo un periodo molto particolare dal punto di vista economico e da quello sociale.
Rispetto all’attività svolta negli anni che cosa sta cambiando davvero…?
Francesco, responsabile del servizio di collocamento mirato per la legge 68. Tutte tematiche molto
opportune su cui ci confrontiamo ogni giorno. Ci sono dei cambiamenti, sicuramente, sia sul fronte
aziendale che delle persone che afferiscono a noi, Io parlo come legge 68, un osservatorio sulle
aziende in obbligo di assunzione, dai 15 dipendenti in su che sono già organizzazioni complesse
specie rispetto alla tipologia di utenza nostra. La difficoltà è che c’è un’aspettativa sempre maggiore
e una richiesta anche in termini di iscrizione sempre maggiore, e invece un calo sempre maggiore di
quel tipo di aziende, ora c’è un rapporto 1:10, e questo crea difficoltà di selezione non indifferente.
Le aziende sono in calo per molte ragioni, una la crisi – e dunque cassa integrazione, mobilità se
non chiusura – e quindi cala il numero di aziende in obbligo di assunzione. E le persone invece
aumentano perché sino a qualche anno fa avere un handicap era tale, ora persone che ritengono una
risorsa l’invalidità la considerano un corridoio privilegiato per ottenere un posto di lavoro, per cui
prima non vi ricorrevano ora sì. La difficoltà nostra è fondamentalmente questa, dare una risposta
ad una certa tipologia di utenza. Ultima considerazione: la 68 non può essere la risposta a tutte le
persone con invalidità. A volte si fanno progetti più funzionali se non all’interno di azienda in
obbligo, organizzazione complessa. Là dove c’è bisogno di accoglienza e familiarità, le aziende
della 68 non sono adatte e hanno già aspettative molto alte.
Maria, Gruppo lavoro della A. USL. Negli anni 90 abbiamo iniziato tali inserimenti per la prima
volta. Allora c’erano pochi attori, gli enti pubblici, ma ora sono tanti, il pubblico, le cooperative e
associazioni, e ciò comporta esigenza di maggiore raccordo, collegamenti più stretti e messa a
sistema. E’ uno degli aspetti più evidenti di cambiamento, l’esigenza di raccordo e di
programmazione condivisa. In questo momento vedo che tutti cerchiamo di trovare un sistema il
migliore per raccordarci. La volontà comune c’è per una maggiore omogeneità. Noi abbiamo a
Prato un protocollo di intesa, che va avanti da nove anni e rinnovata, fra enti comune, provincia, Fil,
Asl, è inter-istituzionale. E già questo è uno strumento interessante. C’è ancora più bisogno di
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condivisione col mondo delle cooperative e di chi lavoro con noi nei percorsi di inserimento. Una
grossa difficoltà è che negli anni sono diminuite le risorse lavorative, per due motivi, la crisi e poi
perché tante sono gli enti, cooperative e associazioni che vanno alla ricerca di risorse, per cui c’è
bisogno di un coordinamento più unico, più compatto, più forte e di condivisione.
Francesco: sì, è problema anche di profili, c’erano un tempo dei profili che trovavamo e che erano
più adatti alla nostra utenza – penso alle confezioni per persone con ritardo cognitivo, soggetti
psichiatrici a mettere cartellini e piegare le maglie. Oggi sono sparite, sia perché il settore è più alto
e poi perché le aziende sono più esigente. Quindi per la nostra utenza, che ha un bassissimo tasso di
scolarizzazione, La forbice fra domanda e offerta si allarga. O ancora le mansioni per centralino non
sono più manuali ma c’è anche il computer ed occorre saperlo utilizzare.
Io sono della cooperativa Samarcanda di Firenze e lavoriamo anche su Livorno. Sul primo punto, da
una parte uno spunto di riflessione mi è venuto proprio ieri quando una persona si è presentata per
la perdita del lavoro a causa della chiusura dell’azienda in cui era impiegata. Io gli ho raccontato
che cos’è una cooperativa di tipo B, che quindi siamo per l’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate, lui mi ha guardato e mi ha detto ma questa è una guerra fra disgraziati ma come si fa.
Un tempo le domande erano di veri svantaggiati, di chi era in carcere o con disagio mentale. Ma ora
no, ora viene chiunque, persone che non hanno uno svantaggio riconosciuto ma che sono
chiaramente in difficoltà. Dall’altra parte, siamo una cooperativa di tipo B e siamo anche
un’azienda sul mercato. Bene .. si è riscontrato un costante e progressivo mutamento dei servizi che
riusciamo a svolgere, l’affidamento diretto da parte del comune o Asl è andato a sparire, c’è sempre
una concorrenza su gare al ribasso a prescindere dalla qualità del progetto di inserimento, il lavoro
che hai da fare deve costare poco e rendere tantissimo, a detrimento della professionalità di chi
entra. C’è pochissimo tempo di formazione e non spazio per fare troppa accoglienza. Noi non
riusciamo ad inserire nessuno senza patente, ad esempio, perché tutti i servizi che facciamo la
richiedono. Per il fare rete e avere un punto di riferimento, un coordinamento, sentirsi parte di un
qualcosa di strutturato, qui a Prato noi lo viviamo molto di più, siamo collegati a tutta una rete di
servizi, in altri territori funzionava molto diversamente. A parte alcune realtà, come in certi quartieri
di Firenze per cui c’è la cooperativa che gestisce la situazione, ormai abbiamo una rete fatta
direttamente coi servizi, mi chiama direttamente l’assistenza sociale ad esempio di Borgo Pinti e poi
si scopre che la persona è in carico già altrove. E’ un grosso lavoro. Mentre qui la rete è già
collaudata, c’è un grosso lavoro fatto a monte.
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Saveria, Comune di Prato: seguo il progetto ormai da anni. Mi riallaccio a quanto ha detto
Consuelo. Innanzitutto la platea delle persone.. il progetto era inizialmente per ex detenuti e quindi
finalizzato al loro inserimento socio-lavorativa di una certa categoria di persone, e così per alcuni
anni, detenuti o tossicodipendenti, comunque chiaramente portatori di un effettivo svantaggio. Nel
corso degli ultimi due anni soprattutto ci siamo accorti che si tratta di uno strumento che è diventato
importante anche per l’inserimento di altre tipologie di persone, che non consideravamo
svantaggiati e comunque a rischio di emarginazione, e cioè disoccupati, cassaintegrati, o che non è
in più in grado di inserirsi nel mondo del lavoro. Sono un’amministrativa ma conosco bene il
progetto, si tratta di svantaggi ora economici, legati ad altri come il basso livello di istruzione o
familiari. L’utenza è cambiata e ci troviamo di fronte a situazioni diverse da quelle iniziali. Qui la
rete funziona molto bene, tre anni fa abbiamo siglato questo protocollo fra tutti i soggetti operanti
sul territorio. Il meccanismo è mettere insieme tutti i soggetti in modo tali da non fare
sovrapposizioni di interventi, quando uno viene segnalato sapere che non è stato preso in carico da
un altro ente. Ora il protocollo è stato rinnovato recentemente ed è entrata la Società della Salute…
Ma si tratta anche di un sistema integrato informativo.
… i nostri agenti di inclusione hanno accesso a Infor, il programma del Comune, e nel momento in
cui c’è la segnalazione, chi si collega vede se ha un interventi economici, se ha la casa popolare, e
in più.. con le provincia.. abbiamo da ora l’accesso al tracciato Idol e l’anagrafe del lavoro. Il
rapporto con l’assistente sociale del territorio è costante, e l’input viene sempre dai servizi, ed è un
sistema che dovrebbe consentirci la massima informazione.
Io mi riallaccio.. sono Eleonora, assistente sociale del comune che lavora su uno dei distretti di
Prato, il centro Est, con un grande bacino di utenza. Penso alle segnalazioni dei soggetti che
abbiamo fatto nel corso del tempo agli agenti di inclusione sociale. Inizialmente noi seguivamo
persone con svantaggio sociale circoscritto, con problematiche psichiatriche e con grosse fragilità.
Con il cambiamento che c’è stato sul mercato del lavoro e la perdita di certezze, lavoro e quindi
casa.. ecc.. siamo interlocutori privilegiati di prima accoglienza, abbiamo.. e questo era l’unico
strumento che avevamo per accrescere la nostra offerta dei servizi sociali, abbiamo cominciato ad
“abusare” anche un pochino di questo percorso, ed è stato argomento di riflessione, con la
segnalazione di situazioni che non rientravano nelle categorie tradizionali, ma persone per le quali
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c’era stato un grosso aggravamento della situazione. Devo dire, proprio perché questa rete funziona,
siamo riusciti a dare risposte anche a soggetti che in passato non avremmo mai segnalato in qualche
modo. E questo ci ha messo in discussione, nel senso che poi è difficile scegliere nell’eccezioni fra
situazioni che sono poi molto simili. Le risorse non sono poi per tutte. Quindi il nostro distretto ha
adottato un sistema di condivisione prima della reale segnalazione. Noi siamo undici assistenti
sociali e il rischio era quello di personalizzare un po’ questa sistema, e allora un riunione mensile in
cui ogni collega porta le proprie situazione per garantire una certa omogeneità con criteri uguali per
tutti, per correttezza nei confronti delle persone, e devo dire che a tanti sono state date risposte che
inizialmente sono partite come borse lavoro ma che poi si sono trasformate in opportunità lavorativa
stabile.
Io sono Martelli e lavoro per il Ministero della Giustizia su misure alternative al carcere. Uno dei
più grandi cambiamenti che ho avvertito è l’irrigidimento della normativa [n.d.r. sui tirocini], con
elementi indipendenti dal servizio che hanno ridotto il campo di azione degli operatori di inclusione
sociale. Certi tipi di mansioni sono state escluse dalla possibilità di tirocinio o percorso formativo e
questo ha significato, perché spesso la nostra utenza non ha un disagio conclamatissimo, sono
caratteristiche non predominanti e … però ecco, il percorso.. di recupero dell’attitudine al lavoro
con mansioni più basse e semplici poteva essere opportuno e propedeutico ad un percorso
successivo. Ma con questa riduzione del campo tanti utenti ne rimangono fuori. La patente, ad
esempio, diventa un requisito importante di accesso al lavoro, speso poi c’è una alfabetizzazione
molto ridotta.. e mansioni – dallo smistamento delle merci alle pulizie potevano essere
propedeutiche ad un altro tipo di percorso.
La riforma istituzionale, la questione del superamento delle Province, con revisione delle
competenze. È un problema che avvertite o no?
No, da noi no… Noi.. come Ufficio periferico del Ministero della Giustizia vediamo confermata
una gestione più organizzata sulla Provincia di Firenze.
Francesco: si spera in una territorialità che mantenga – anche se svolte dalla Regione – il rispetto
della specificità delle esperienze territoriali. Spero che la Regione tenga conto di queste realtà e
professionalità territoriali. Ma sono un ottimista.
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Int.: professionalità e qualifiche delle persone. Ripensare le competenze professionali.
Francesca, cooperativa Via del Campo, ecco che siamo sulla formazione. Nasciamo nel periodo di
crisi. La difficoltà – su persone disabili psichici e carcere - rispetto alla qualifica professionale,
quella teorica lascia il tempo che trova. Importante è la formazione interna all’azienda. Perché – per
la nostra utenza – è importante la qualifica ma anche la relazione. Noi abbiamo qualifiche elevate
ma è difficilmente inquadrabile. Nella crisi il centralinista deve essere multitasking. Diventa
difficile per noi e per la nostra utenza, a volte molto abitudinaria. Rispetto alla formazione degli
operatori interni, vorremmo lavorare sul tutoraggio più accurato e formato ma mancano sempre più
le risorse. Non c’è una formazione a mente specifica. Per la rete, si lavoro abbastanza in
collaborazione. Sarebbe utile trovare un momento di condivisione con le realtà del territorio anche
per trovare risorse. Una sorta di interrelazione.
E si può fare solo integrando ulteriormente la rete. Ad esempio c’è un finanziamento
regionale sull’agricoltura sociale. Abbiamo persone inserite nelle cooperative agricole, beh.
Si potrebbe trasformare questo progetto da assistenziale a propedeutico al lavoro, e così
mettere insieme risorse che ci sono.
Int: si differenziano i bisogni, quindi i progetti personalizzati
Martino, Dipartimento salute mentale. Si parlava di formazione. Si è ampliata la gamma degli attori,
pensando ai nostri rimangono sempre gli ultimi degli ultimi, allora. Ci si ritrova con i medici e
psichiatri che cercano in noi una risorsa alla cura e alla terapia, ed il lavoro è fondamentale e ci
troviamo in una grande difficoltà Io ringrazio le cooperative ma noi che negli enti non abbiamo più
risorse sembra che questa collaborazione con le cooperative sociali sono indispensabili ma alla
nostra utenza servono alla fine poco perché è un’utenza particolare, difficilmente inseribile in
cooperative di tipo B. E non rispondiamo. Il rischio è che nel quotidiano ognuno lavori molto nel
suo e con proprie difficoltà. E’ una difficoltà. Formazione, la nostra puntava molto sull’inserimento
socio-terapeutico con i ragazzi facevano training sul campo e ciò ci consentiva di valutare meglio e
agire meglio. Ora la situazione è che nuovi inserimenti abbiamo difficoltà a farli e sono poco
proficui per il futuro. Non possiamo inserire nuovi giovani. Vedi il progetto accennato
sull’agricoltura sociale, e così altri progetti ex fondi europei. Dunque occorrerebbe un ancor
maggior coordinamento, una programmazione tutti insieme per accedere a risorse scarse ma che ci
sono.
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Presentarli insieme. Per i nostri ragazzi non funziona la parte teorica ma quella
esperienziale, ed è importante la continuità del percorso per evitare involuzioni. Una
formazione permanente.
Sara, agenzia formativa, ho lavorato sul progetto Polis, per la formazione il problema è in fase di
progettazione dove occorrerebbe concertazione. Penso ai progetti Esprit, dove c’è a monte un
accordo fra vari attori (AS) si individua subito un progetto personalizzato di inserimento, poi uno
formativo e poi uno di inserimento e funziona. Sul polis è mancata questa parte qui. L’ultimo
progetto che ho fatto.. hanno individuato persone con caratteristiche, sui quali facciamo tre percorsi
formativi e stanno funzionando, esse saranno poi inserite a lavorare e è un percorso virtuoso.
Lavoro dal 2008, dalla crisi, ma ho visto umanità e partecipazione anche da parte degli AS perché si
progetta bene in quel modo lì.
Int.: concertazione ma la cabina di regia qual è?
Nel protocollo è previsto un gruppo regia che coordina e nominato. Non esiste ancora e che
prevede dialogo fra tecnici e politici. Per la prima volta è previsto due ruoli di regia, uno
tecnico e uno amministrativo politico. Nasce l’esigenza di portare ai politici determinate
esigenze sul territorio. E’ una novità del rinnovo.
Facciamo servizi pubblici, appalti per municipalizzate, comuni e aziende pubbliche. Una
cosa si è modificato. Rete va ampliato. Se una cooperativa di tipo B ha lavoro da svolgere ed
è remunerata per farlo non ha bisogno di grosse altre agevolazioni, siamo già strutturati ma
la difficoltà è quando il lavoro sono dati senza riguardo alle nostre specificità. Far
collaborare a Firenze assessorato all’ambiente con quello socio-sanitario ha permesso di
creare progetti ad hoc, lì con un affidamento diretto ma si può pensare – c’è la normativa –
gare fra cooperative, e riesci allora ad aver tempo per percorsi sensate.
Martino: troppo semplice questo discorso.
Francesco: l’applicazione reale della 381 e l’affidamento diretto. Un rischio che ho colto e che
con gli appalti al ribasso si sono perse opportunità di lavoro a livello di organizzazioni
multinazionali. Ho visto realtà sparire ma utili per noi. L’abbiamo detto ai politici,
l’applicazione della 381 e le possibilità di affidamento diretto.
Sara: sì ma ci sono .. la 381 si può fare sotto una soglia, la tendenza è di accorpare servizi ma
rispettando la normativa europea si può fare la clausola sociale sull’appalto anche da 5 milioni
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di euro, prevedi un punteggio specifico senza massimo ribasso e che prevede un punteggio a
parte per chi fa percorsi di un certo tipo. Succede però che si dice: ma chi me lo fa fare…?
Senza contare che c’è un costo sociale. Al momento risparmi ma durante l’anni risparmi
nell’ufficio accanto. Cabina di regia.,..??? Non si riesce mai a rettificare. E’ il mettere insieme
la volontà politica e tecnica. Ma ha ragione Consuelo.
Francesco: un’esigenza forte. al Centro per l’Impiego mi chiesero quale fosse il sogno: creare
lavoro. L’esigenza è quindi che la routine è qualcosa di accertato, ci sono una rete e strumenti di
valutazione e dialogo continuo fra operatori. L’esigenza mia formativa è di essere promotore
agente di nuovi posti di lavoro, creare cooperative che rispondano alle nostre persone. Lo so,
non lo posso offrire a tutte nonostante l’entusiasmo iniziale. Essere non più solo il tecnico
operatori formativo ma anche agente e promotore di lavoro.
Ma è opportuno creare ancora cooperative o bisogna valorizzare quel che c’è? Sempre
qualcosa di nuovo? Non è anche ostacolo.
Int: le politiche di formazione sono ancora difensive per ma il grande problema è come rilanciare un
territorio. La creazione di nuovo dev’essere programmata. Il sogno…!! Inserimenti dipendenti ma..
quelli autonomi…? E’ un problema di cultura del lavoro, perché non pensare a formazione
all’imprenditorialità.
Qui si fa. E con … Fondo Santo Stefano – Idalia, Caritas – abbiamo pensato ad un budget, con cui
paghiamo i tirocini formativi e cerchiamo le ditte. Uno strumento adatto – questo – per chi è in
difficoltà, oltre l’assistenzialismo e dando alla persona nuova dignità, un aiuto indiretto anche nella
famiglia, dati i contraccolpi privati. Il fondo S. Stefano nasce su sollecitazione del Vescovo ed è per
chi vuol aprire piccole attività imprenditoriali. Invitano ad attività che vanno scomparendo (ad
es.calzolaio). E poi il progetto Policoro. Nato da poco e mira a promuovere cooperazione giovanile.
Ma questi progetti non sono conosciuti. Ci sono poi commercialisti che seguono a titolo gratuito.
Stami preparando una brochure. Parte dal sud – Policoro – e lì ha funzionato bene. Percorso di
formazione al lavoro e poi creazione di lavoro cooperativo, soprattutto per i giovani. In fase di start
up elevato ma anche di mortalità.
Anche perché… nuovo o continuità. La nostra esperienza è che la difficoltà che abbiamo incontrato
è riuscire ad avere un’organizzazione che permetta a tesaurizzare le risorse e che ti permetta di stare
sul mercato e soprattutto i costi generali incidono, la burocrazia. Ci vuole accompagnamento e
consulenza gratuite e questi sono costi risparmiati che avrebbero un’incidenza enorme. E poi, circa
il target su cui lavoriamo, si rischia che alcuni rimangono gli ultimi degli ultimi. Bisognerebbe
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specificare strumento target, e capire cosa per chi. Ci siamo trovati con inserimenti che
funzionavano benissimo quando rimangono tali e poi scompensi anche gravi nel momento in cui si
proponeva una contrattualità fissa, il che per noi è assurdo ma dal punto di vista dell’utente…
Questo diversifica la tipologia del disagio. La disabilità ha bisogno di tempi lunghi, lenti,
ripetitivi ma poi va avanti.., differente è l’utenza psichiatrica.
Credo per ansia…!!!Ti dicono i nostri ragazzi che vogliono lavorare ma spesso, con un
contratto più o meno lungo, tutto ciò crea responsabilità e senso di fallimento.
Quindi occorre trovare strumenti diversi per alcune persone.
Sert: anche noi abbiamo assistito a queste situazioni, e marce indietro. 15/20 anni fa con le borse
lavoro c’era un rapporto diverso con le cooperative che ci contattavano direttamente per i loro
bisogni. Era l’inizio ed idilliaco e ci aspettavamo una risposta dalle cooperative e maggiore
disponibilità. Ma alla fine anche loro sono sul mercato del lavoro e vogliono persone efficienti.
Quindi importante è per noi la creazione dell’Ufficio centrale. Io devo dire che ci lascia spesso con
l’ansia. Anche loro hanno contratti a tempo e poi.. non si sa se muoiono e che fine fanno.
Comune: dobbiamo passare al bando di gara. L’affidamento diretto può andare se c’è solo un attore.
Martino: incentivare le cooperative. E’ un po’ folle. Prima si diceva delle difficoltà della 381 ma poi
creiamo cooperative che aggravano la situazione. Si arriva alla politica ma lì si dice poi.. facciamo
piccola imprenditoria ma… ci sono controindicazioni, la frammentazione e poi ecco che arriva la
multinazionale.
Questa delle cooperative.. il Policoro.. ma il progetto Santo Stefano dà possibilità, si tratta di
finanziamenti che sono utilissimi, e sulla base di un giudizio di fattibilità, una specie di micro-
credito ma con studi di fattibilità (arrotino, sarta), il massimo è 35.oo euro ma anche la Regione qui
finanzia. Ci sono diverse cose.
Sert: a noi manca la continuità. Interventi recenti, anche il polis, sono… interventi utili ma alla fine
- linea 4 – soldi a pioggia e si risolve in ammortizzatori sociali ma la cosa finisce lì, a nome di una
formazione che poi non ha sbocchi occupazionali. Per le borse lavoro. Poi noi abbiamo avuto un
progetto specifico regionale e abbiamo avuto difficoltà a farli partire per la selezione all’interno del
Sert ad individuare i progetti meritevoli e equi e realistici. Ci abbiamo messo tanto a farli partire
tutti. Altra cosa è l’inserimento socio-terapeutici che ora non sono retribuiti in una fase inziale.
Allora significa dire che per almeno 6 mesi non vedi un euro e allora rinunciano, e allora li
riserviamo a utenti molto svantaggiati.
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Si potrebbe aprire le porte usando i finanziamenti, aprire le porte anche a nuovi, trovare un
sistema di raccordo e circolarità delle infomazioni serve proprio ad utilizzar ebbene i fondi e
le risorse che sono sul territorio.
Sert: cominciamo con gli inserimenti socio-terapeutici per poi fare passi in avanti ma poi riceviamo
un no dai soggetti interessati perché non sono abbastanza accattivanti.
Int. Fabbisogni formativi
Francesco: la formazione per i nostri servizi si basa sulla valutazione di saper stare nel contesto
lavorativo ma poi si fanno valutazioni su altri criteri. C’è però tutta una complicazione sulle
qualifiche professionali regionali che non è indifferente, perché fatto di aree di attività e
certificazioni non ancora applicate. La morte della Fil come agenzia formativa ha fatto risentire
delle difficoltà. Lì tutti gli interessati dialogavano ma adesso non c’è più. E’ demandata comunque
alla Provincia.
Int. La valutazione dei percorsi che ciascuno di voi segue. La valutazione viene fatta o no…?
Francesco - Negli interventi di inserimenti socio-terapeutici viene fatta a livello interdisciplinare,
c’è strumento di valutazione condiviso costruito all’interno del gruppo lavoro ma che condiviso non
è. Valeva per inserimenti, borse lavoro, formazione e tirocini ma non viene applicato in tuti i
contesti. Il punto di partenza c’è ma è messo a regime solo in alcuni contesti, solo per le persone
con un livello occupazionale ma per quelli a livello osservativo-assistenziale no.
Francesca: Noi abbiamo – in cooperativa - uno strumento l’abbiamo, lo condividiamo a volte sì a
volte no ma non siamo riusciti a condividerlo in tutte le realtà.
Federico: è un argomento che sento tanto. Ho avuto un incontro in Società della Salute in
Valdinievole e il Presidente mi ha chiesto di dargli i numeri degli assunti. Io posso dirgli quanti
sono gli assunti ma il problema è che condividere indicatori o punti fermi… come si fa a dire che se
una persona ha accresciuto la sua autonomia al punto di non rapportarsi coi servizi sociali è un bene
o un male? Perché è sparito? E nel versante dell’autonomia? Sì, uno strumento ci vuole. Sogno di
condividere e costruirne uno snello quanto basta ma che ci sia. È quello che potrebbe farci fare un
salto di qualità che potrebbe anche servire verso i nostri clienti/committenti.
Int: faciliterebbe la rete, potrebbe diventare un collante.
Federico: Sì e poi quando noi andiamo da un comune a cercare di convincere dell’utilità del nostro
metodo… Ad esempio, in Regione c’è accreditamento sociale e noi siamo tali nell’inclusione
sociale. Mi chiedono quanti colloqui ho fatto io, come coordinatore, con gli utenti ma sono
domande che non hanno senso.
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[2] Agenti di inclusione
Argomenti di discussione:
1) Rapporto con la rete dei servizi e le istanze istituzionali con cui vi interfacciate, la rete dei
servizi sociali pubblici, centri impiego, presidi sociosanitari, Uepe ecc.
2) Il rapporto con l’utente, sia dal punto di vista professionale sia da quello soggettivo.
3) Il rapporto con le aziende.
4) La questione della professionalizzazione e dell’occupabilità dell’utente, posto che il lavoro è
fondamentale per l’inserimento e l’integrazione sociale. Ma dato il diverso tipo di utenti
seguiti ci sono diversi tipi di aspettative, o forse il valore aggiunto dell’intervento non è
immediatamente tanto il posto di lavoro ma ciò che riceve nel rapporto con voi?
5) La vostra professionalizzazione: che tipo di competenze sono per voi necessarie per svolgere
un lavoro come il vostro e cosa è fatto per coltivarle?
6) Il rapporto con il vostro ente di riferimento, la cooperativa Arké.
Int. Bene, cominciamo, che tipo di rapporto avete con la rete dei servizi presenti sul territorio, c’è
collaborazione o ci sono delle difficoltà e di che tipo.
Michela, opero su Pistoia e psicologa clinica e lavoro su un progetto con disabili. Beh, dipende
dalle persone e – per quanto riguarda il territorio pistoiese i vari servizi sono molto slegati fra loro
e questo è un male per il nostro lavoro. Non sempre comunicano con la Provincia o viceversa,
insomma, c’è poca rete, per quello che è la nostra utenza. Magari questo collegamento si prova a
fare un po’, ma con diversi servizi non possiamo nemmeno relazionarci perché la nostra figura non
lo prevede.
Int. Perché questa difficoltà?
Non conosco bene la storia ma è una cosa che affonda le radice storicamente nel tipo di cultura
politico-organizzativa. Una delle prime lezioni che si è fatto [n.d.r. nel corso di aggiornamento
Strumenti per l’inclusione socio-lavorativa all’interno del progetto EDI] è stata sulla Società della
Salute, che avrebbe dovuto integrare i servizi ma in realtà non è così. Dovrebbe essere quello che
manca, speriamo di arrivarci ma credo che se ci fosse una piramide con al vertice comunica con i
vertici delle altre la cosa si risolverebbe in parte.
Maurizio, psicologo clinico, mi occupo di riabilitazione psicosociale. La mia esperienza è legata
alle esperienze passate con centri socio-occupazionali per inserimenti lavorativi o socio terapeutici;
le difficoltà che si riscontrano dipendono molto dalle persone e dai servizi. Le caratteristiche della
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persona sono fondamentali. A volta si nota che si assolve al compito istituzionale e burocratico di
compilazione di presa in carico ma senza un partecipazione effettiva, ad esempio anche nei rapporti
con le famiglie. Manca una visione di insieme, una sorta di tavola rotonda che ogni tanto ci si
ferma, si mette nel centro la persona e ci si confronta. Non c’è un coinvolgimento attivo. Per non
parlare delle influenze più o meno politico, anche rispetto alla Società della salute, con posizioni
divergenti da parte delle istituzioni e quindi con lotte interne. C’è poi sempre chi tira indietro e
tende a svalutare ciò che sta facendo e chi rimane fermo è la persona, l’utente.
Int. Tu hai parlato di impegni istituzionali e burocratici ma .. non è forse anche questo uno dei
problemi che demotivano gli assistenti sociali, peraltro secondo alcuni studi in sofferenza nel
confronto con la maggior possibilità operativa sul territorio di quelli degli enti del privato sociale?
Maurizio… sì.. ci vorrebbe una sorta di responsabilizzazione ed un riconoscimento ulteriore rispetto
al privato sociale per questa parte di lavoro, con un alleggerimento generale.
Scilla, assistente sociale e mi occupo di inclusione socio-lavorativa su Prato, anche per utenza del
Sert e rispetto al rapporto con la rete dei servizi porto questa difficoltà con l’ASL. L’utenza Sert è
particolare ed il servizio ha difficoltà legate alla sua autonomia ma anche al tipo di utenza e alla
delega nei nostri confronti è anche un modo per sopperire, anche per sentirsi più utili verso questa
tipologia di utenza difficile da collocare. La difficoltà nelle relazioni, oltre che con le Assistenti
sociali che dipende da chi c’è, a volte si può essere uno stimolo, e però questo permette di lavorare
diversamente. Sulle nostre situazioni possiamo stimolare a farle uscire dal servizio e a venire sul
territorio con noi. Dipende anche dalla volontà dell’assistente sociale. A volte c’è a volte meno. Con
il Centro dell’impiego a volte le cose si complicano; prima cercavano più di delegare, adesso, per
vari fattori (la situazione politica ed economica che li riguarda direttamente) si sono un po’
irrigiditi. Abbiamo un linguaggio completamente diverso e spiegare loro quel che facciamo è
difficile. Per loro vale quanti hanno il contratto a tempo indeterminato. Per noi è diverso. Siamo
riusciti a farli uscire questa settimana, e sono per noi soddisfazioni e questo è difficile da
quantificare e spiegare e a chi non lo vive come un risultato, l’istanza politica ma anche quella
amministrativa ed organizzativa. Con la figura amministrativa diventa ancora più difficile.
Federico: della serie, se questa signora si presenta meglio, una signora che ha dei problemi di
aspetto e noi facciamo un percorso anche formativo e di gruppo e con delicatezza e notiamo dei
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progressi, noi siamo contentissimi, anche l’assistente sociale ma l’amministrativo ti dice comunque
“questa duecento euro al mese me li viene a chiedere” e questo è l’importante. Molto dipende poi
anche dalla differenza di ruolo che abbiamo come Arké sui vari territori. Su Prato abbiamo un ruolo
di regia degli interventi, un ruolo riconosciuto e legittimato da tutti gli enti coinvolti e tutti questi
percorsi passano tutti da noi – c’è un ATS che gestisce il progetto e Arké è capofila. Negli anni
questa modalità di intervento unico è entrato nei servizi e funziona. A Pistoia siamo storici, siamo
nati qui ma siamo uno dei tanti progetti, anche se noto una grande considerazione nei nostri
confronti ma ci sono più progetti e quando segnalano le assistenti sociali hanno più difficoltà ecc.
E’ stato fatta un tentativo di gestione comune di questi progetti ma le cose non sono molto
cambiate. Un altro aspetto importante – penso anche qui più a Prato – è la strumentalità del rapporto
che hanno con noi, anche una cosa forse normale però noi alla fine si serve all’assistente sociale per
trattare questo caso bollente, o al centro dell’impiego perché l’azienda gliela troviamo noi,
attraverso i nostri progetti possiamo dare incentivi alle persone, girano soldi. E’ un rapporto un po’
delicato anche se un po’ strumentale. Su ciò che diceva Scilla: ci viene riconosciuta competenza su
tante cose, cambiano le leggi e noi subito lo sappiamo, è un po’ il ruolo del primo della classe. No
che chiamano Federico ma me per Arké che si è guadagnata rispettabilità ma cosa succede.. da una
parte c’è chi ci chiede di derogare ma la legge parla chiaro ma c’è anche chi ci riconosce la
competenza specifica e tecnica. E l’ultima cosa.. i nostri progetti richiedono lavoro anche agli
assistenti sociali, viene sempre fuori questo. Gli assistenti sociali hanno tanti casi e danno priorità a
quello che la legge indica come priorità, minori, anziani, handicap, ecc.
Massimo: mi sono occupato per tanto tempo di inserimenti socio-lavorativi. Un altro elemento,
spesso siamo costretti a stare nel mezzo e fare mediazione, da una parte ascoltare le lamentele
dell’utente verso i servizi mal funzionanti, dall’altra cercare di intervenire e arrivare ad una migliore
gestione dei servizi stessi, avendo rapporti con persone di cui verifichiamo carenze e difficoltà
legate anche al tempo che hanno a disposizione, e che a volte sono davvero difficili da accettare da
parte degli utenti. Ti viene da dire ma perché succede questo e quello che risponde al telefono
spesso mi riattacca il telefono in faccia. Sai benissimo che devi cercare collaborazione ma trovare
queste situazioni ti mette in condizioni difficili anche dal punto di vista personale. A volte trovi
persone che mal riescono a soddisfare i bisogni degli utenti. E questo incide sull’efficacia dei nostri
interventi. A volte è un’occasione di dialogo e di proposta di modi diversi ma spesso ci si scontra
muti che è difficile superare. Sono comunque in generale d’accordo che a Pistoia c’è una cultura
abbastanza individualistica nella gestione delle cose, di parrocchia quasi.
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Int. Ma.. qual è la rappresentazione che i servizi hanno degli utenti? Li vedono come una risorsa o
qualcuno da sostenere e supportare in termini compassionevoli, come persone, come problemi..?
Giulia: un po’ tutto quello che hai detto - assistente sociale, Prato. Dipende dal fattore personale, sia
per utente che per l’operatore. Più uno è un utente storico più è facile avere una visione più negativa
da parte dei servizi, una cosa vista come “ereditaria” talvolta. Persone invece conosciute dai servizi
da meno tempo, gli si attribuiscono maggiori capacità. Per gli operatori lo stesso, dipende da quanta
esperienza di lavoro uno ha e da quante risorse ha ancora da mettere a disposizione dell’utente.
Ogni persona ha momenti in cui pensa di avere meno energie e momenti in cui di più.
Maurizio: D’accordo, sul fatto degli utenti storici. Ma la cosa che difficilmente sento dire dai servizi
è che questa persona sia lì perché abbiamo sbagliato. Sembra quasi che una persona rimanga lì per
colpa sua, questo sta qui perché è un rompiscatole. C’è una grossa difficoltà a prendere atto del fatto
che hai sbagliato qualcosa, che non hai tu gli strumenti. C’è anche una cultura della dipendenza ma
anche la difficoltà di un esame critico. Domandiamoci perché questo è cinque - sei anni qui e
domandiamoci in cosa si è sbagliato. Difficilmente l’ho visto fare in maniera serena.
Federico: Mi veniva una riflessione. Quanto li conoscono? Io mi ricordo .. non bene ma mi sembra
a Vernio.. tu fai un nome.. Federico.. ah sì, aspetta lui è il figliolo di quella che aveva quella ditta e
suo cugino.. e così via… Una cosa impressionante, io stesso non so tutte queste cose dei
componenti della mia famiglia. Succede sì nei comuni piccoli ma.. quanto li conoscono?
L’assistente sociale ha difficoltà a verificare la veridicità delle affermazioni che le persone fanno,
ed il rapporto che abbiamo con queste persone è diverso, a volte più informale, meno istituzionale,
più diretto. A volte le persone con noi si aprono e quindi dopo un po’ ci sono informazioni che le
assistenti sociali nemmeno sospettavano, da lavori al nero che fanno comunque reddito a situazioni
familiari. Da parte nostra, i rapporti che abbiamo.. non è che ci affezioniamo alle persone in senso
materno all’italiana, ma ci si interessa. A volte sento da loro cose che nessuno chiede loro di fare
[n.d.r. agli operatori] tipo telefonate per accertarsi di come stanno gli utenti che hanno avuto
problemi di salute, ecc.. E’ una componente importante. Ci si prova sempre con le persone,
comunque ci si prova anche davanti a contraddizioni ecc. Abbiamo conflitti interni, interiori, fra
un’etica professionale ed una personale. Quando avevamo una persona salito su un pilone e sotto tre
psichiatri e 12 vigili del fuoco, il dirigente che non era in servizio, l’assistente sociale che disse che
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per lei “si poteva buttare”, beh.. andai io e .. se mi chiede solo soldi.. io non te li do.. ma
umanamente .. e i vigli dicono che non si ammazza ma rischia di scivolare, cosa fai..? Io sono salito
su quel pilone… Umanamente che fai..?
Scilla: Per me spesso viene vissuto, specie con atteggiamenti rivendicativi, come problema e la
soluzione diventa.. fate avere la borsa lavoro. In genere le segnalazioni vengono dall’assistente
sociale, tutto il resto che ci viene segnalato, che sta diventando un buon numero, viene segnalato
perché la persone è fortemente rivendicativa o.. va in comune, si taglia le vene o si incatena,.. e su
questi si fa un percorso che ha portato a dire che questo non ha voglia di fare niente e nonostante
questo ci viene chiesto di intervenire perché la stessa amministrazione ci vede come uno strumento
per dare una risposta al cittadino, ma non capendo che una persona di questo tipo dove la
collochiamo? Ti viene chiesto.. quasi ordinato di intervenire comunque e perdi di credibilità nei
confronti dell’utente a anche dell’assistenza sociale, e questo rischia di compromettere tutto quello
che hai fatto…
Maurizio: è quel problema di scollamento di cui parlavamo… L’immagine che mi viene è
attacco/difesa. La parte dell’istituzione si pone in stato di difensiva e il resto è qualcosa percepito
come attacco e questa è a sua volta portato a pensare che l’unica soluzione è l’attacco. Manca un
collante nel mezzo. Uno si difende quando sente che non ha né strumenti né tempo per entrare in
un’ottica di accoglienza, perché significa non avere le potenzialità di accogliere la richiesta… Io la
vivo come una situazione sempre difensiva, dallo sbruffo al dire che queste sono persone così.. e la
richiesta è che qualcosa comunque a questi bisogna far loro fare.
Int. Una curiosità, recentemente ho fatto una valutazione del Progetto Start, rivolto a persone con
disabilità, e una delle domande del focus come gli utenti vedono il loro tutor. Come vi vedono,
secondo voi?
Massimo: scindendo le mie aspettative, risponderei come amico, la loro aspettativa che spesso viene
fuori è quella di una persona che ti è vicina e ti può dare una mano, un amico infatti…
Scilla: per quanto mi riguarda l’opposto, sarà che noi abbiamo un rapporto diverso.. mi vedono
soprattutto come quella pagata per farlo…, il progetto su cui sono impegnata è diverso. Dipende
anche dalla persona, da quanto la conosci e dalla relazione che ci hai instaurato. C’è che percepisce
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di più cosa gli stai dicendo e altri che hanno una reazione diversa. Ma sicuramente non come
un’amica…! È più spostato verso il servizio.
Giulia: Io mi ero segnata controllore, poliziotta ma anche balia. Questo ruolo me lo sento anche
attribuito dai servizi, non solo dall’utente. Sembra quasi che io debba ricordare alla persona.. l’hai
presa alle 10 la medicina…? Poi d’accordo con Scilla, dipende dalla persona e da che rapporto si
instaura..!! Un utente mi ha chiesto se potevo fargli io da assistente sociale perché con quell’altra
non riusciva a parlare..!! E poi dipende dalla capacità empatica che abbiamo e che hanno.
Federico: una cosa velocissima.. sul discorso dell’utente, è già due anni qui su Pistoia che alcune
assistenti sociali ci chiedono ripetutamente la “messa alla prova”, concetto sul quale loro stesse non
si trovano d’accordo; per una vuol dire mandarti una persona con competenza bassissime e noi
dobbiamo dare impegni anche minimi che devono rispettare.. per altri.. insomma, noi non siamo
così, siamo un’altra cosa, va bene la messa alla prova ma sono concetti diversi.
Int. Un punto spinoso è il rapporto con le aziende, e parlo delle esperienze di tirocinio e di stage, e
spinoso per la situazione economica attuale e poi perché sono organizzazioni con proprie regole,
posta poi la distinzione fra piccole e grandi aziende. Qui che tipo di difficoltà trovate, o c’è
disponibilità..? Che giudizio date al riguardo..?
Michela: parlo per Pistoia perché a Prato so che è diverso, qui… è legato a degli inserimenti e basta
e a volte se non vanno bene, non sempre c’è la possibilità di instaurare un rapporto di fiducia che si
può all’inizio anche sviluppare ma poi spesso diminuirà perché di fatto devi passare la palla al
centro impiego della Provincia. Posso anche trovare l’azienda migliore ma l’inserimento in tirocinio
lo fa il centro impiego o Saperi Aperti [n.d.r. agenzia formativa] ma non io. E l’altra cosa è che
metto la mia faccia e professionalità per agganciare l’azienda che poi però si scontra con le
procedure burocratiche ed anche un modo di fare diverso come quello del centro impiego, e questo
lascia l’azienda a volte disorientata. Alcuni mi hanno detto. Oh.. mai più, io qui non ci vengo più.
Dipende anche dalla persona, dall’addetto, però…
Maurizio: una cosa forte che imposti è che noi si vada lì.. La prima cosa che fa il centro impiego è..
ti do l’appuntamento e sei tu che vieni qui, da noi. E’ un impatto forte, perché .. fai perdere ore di
lavoro, Un’azienda rimane spaesata, rimane in difficoltà, vede che non c’è legame.. Noi andiamo
con uno stile attento, arrivi al centro dell’impiego e ti danno l’appuntamento fisso. Un’azienda non
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si presta ad una cosa del genere, le fai perdere una mezza giornata di lavoro… e poi nemmeno ce
n’è tanto di lavoro adesso.
Michela: e poi il fatto che noi si punterebbe a valorizzare uno sforzo etico da parte dell’azienda…
che invece, nel momento in cui si trova davanti al centro per stilare.. diventa.. “oh troppi accordi no,
perché se ne hai bisogno tu l’assumi sennò!” A volte proponiamo davvero dei “disgraziati” e per
ospitarli bisogna accettare anche dei compromessi.
Massimo: sì, è vero.. ma il centro dell’impiego ha anche delle norme più stringenti, dall’alto, che
noi non abbiamo. La norma gli dice.. la ditta usufruisce di questa cosa, dev’essere contenta… che
gli è messa una persona a disposizione, ma invece il nostro obiettivo è quasi l’opposto. Noi si dice
che per noi è importante la disponibilità dell’azienda ma l’idea del centro dell’impiego è che per te
è una risorsa, l’obiettivo è l’inserimento..
Michela: ma nei rapporti che si tiene con le nostre aziende, quelle che si conosce e si contattano e si
portano lì, beh.. crea un bel po’ di problemi… forse è un limite di Pistoia non avere un carnet di
aziende disponibili, la mia difficoltà è che vado a fare ricerca di aziende anche in posti in cui
sicuramente trovo bisogni di persone che fanno al caso mio – un supermercato ecco – faccio
conoscenza, instauro un rapporto, non ho la persona adatta pronta in quel momento ed il contatto si
perde, o viceversa arriva la persona con quella richiesta particolare, vado a cercare quell’azienda e
poi non è detto che la trovi…
Scilla: su Prato, fortunatamente o sfortunatamente, dipende dai punti di vista, attiviamo tirocini o
inserimenti non necessariamente passando per il centro per l’Impiego e questo ci agevola nel
costruire con le aziende un rapporto diverso. Come diceva Michela, noi mostriamo maggiore
disponibilità anche solo per incontrarsi e per vedersi e questo facilita e.. non nego che anche rispetto
ai tirocini ci siamo sentiti riconosciuti anche per la costanza del tutoraggio durante il percorso. I
motivi non lo so… sono molti, anche nella formazione, noi siamo operatori sociali e loro no, e una
maggiore abitudine a lavorare con persone con disagio perché l’addetto allo sportello dell’impiego
ha più a che fare con ragazzi più o meno diplomati.., e quindi un’utenza meno svantaggiata.
Giulia: secondo me a noi ci manca, come si diceva nell’ultimo incontro, la gratificazione nei
confronti dell’azienda, o comunque quel passaggio di riconoscerle un ruolo all’interno del processo
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che mettiamo in atto per una persona, quindi si pensava anche un piccolo riconoscimento a fine
anno, una pergamena, un evento finale con le aziende.. poteva essere un modo per riconoscerle,
perché a parte la telefonata di ringraziamento poi il rapporto rischia di perdersi se non hanno più
bisogno e si diventa quelli che sembrano aver scaricato la situazione sulle spalle altrui.
Int. Ma ora, con la nuova riforma del mercato del lavoro, non sono previste retribuzioni minime per
i tirocinanti, non rischia di complicare un po’…?
Scilla, Michela: sì, si sta già complicando! Sono già cambiate le modalità, perché adesso c’è
l’obbligo per l’azienda di anticipare soldi e un importo considerevole, 500 euro al mese e con la
crisi che c’è è difficile trovare un’azienda in grado di anticipare ed i tempi di rimborso sono di un
lento mostruoso….
Federico: nel rapporto con l’azienda vale anche il contenuto di moralità che mettiamo, e anche
l’azienda se vede una telefonata in più o un interessamento.. insomma, loro hanno i nostri cellulari,
ci chiamano, e si va. E’ un rapporto di “collaborazione collaborativa”, lo stesso forse fa il centro
dell’impiego ma molte aziende ci dimostrano di fidarsi di noi. Ci sono state aziende che ci hanno
detto che fanno tirocini con noi, non in concorrenza col centro per l’impiego, .. “avevo bisogno di
una risposta, vi abbiamo cercato, vi siete informati e ce l’avete data”.
Massimo: personalmente credo che sia anche una soddisfazione personale avere .. il fatto di poter
contattare persone che magari scoprono in un contesto diverso dal tuo – socioassistenziale – e
vedere di scoprire sensibilità e attenzione verso problematiche. Questo mi ha sempre gratificato
molto, è anche interessante socialmente, incidere in un settore come quello produttivo che pare
rispondere invece a logiche economiche. Non è vero, ci sono quelle logiche ma anche altre logiche,
senso di responsabilità verso la società e delle persone che stanno male. E’ importante avere questo
tipo di contatto.
Maurizio: è anche l’occhio dato all’azienda. Come la vedo, parte integrante del mio lavoro, come
risorse, non che mi leva il caso ma perché mi aiuta a sistemare questo percorso. E allora se l’ottica è
di risorsa allora il rapporto è di rispetto. Cambia proprio il modello di relazione ed i parametri.
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Federico: il nostro rischio è quello di aver tante persone da sistemare e quindi abbiamo bisogno di
tante aziende. Può valere la logica del vecchio collocamento ma piano piano dobbiamo fare
valutazioni sulla compatibilità dell’esigenza dell’azienda e quella dell’utente, sennò si corre il
rischio di fare l’errore di certi servizi.
Int. Andiamo verso la fine: professionalizzazione per quanto riguarda voi. Che tipo di bisogni
sentite di avere, se ne avete, formazione.. aggiornamento, contatti.. quale tipo di conoscenza pensate
sia utile acquisire?
Giulia: anche il corso di aggiornamento che stiamo facendo è nato dalla nostra esigenza di
aggiornamento, alcune lezioni, specie quelle legate al diritto del lavoro, sulla disabilità o sui
permessi di soggiorno.. sono competenze che dobbiamo avere,. Ma anche per esempio.. un’altra
competenza è quella sul marketing aziendale. L’approccio alle aziende e cosa si va loro a proporre
potrebbe implicare strumenti di comunicazioni diversi e più efficaci. Credo che per fare questo ci
voglia una maggiore conoscenza di sé ed un percorso su questo potrebbe essere importante:
conoscere bene i propri limiti, risorse, capacità, è fondamentale per il rapporto con l’utenza.
Michela: essendo psicologa, ho iniziato affiancando un’assistente sociale ma sento che mi manca ..
tutta la parte delle norme, leggi procedure…, anche al nostro interno. Mi impegno tanto per
rispettare le scadenze. Ma mi rendo conto.. ora si è fatto di fresco il corso ma sento che ho bisogno
di chiedere conferma, leggere continuamente… insomma… acquisire l’ottica dell’assistente sociale,
che sento che sia più abituata ad avere gerarchicamente punti di riferimento. Il fatto di poter
lavorare insieme ci permette di integrarci, anche un’ottica di assistenza che ci vuole ed è necessaria.
Viceversa le mie conoscenze possono essere utili all’assistente sociale. E poi sono d’accordo sul
marketing.
Martina: lavoro da cinque mesi su Prato con loro, questa cosa dell’aggiornamento formativo lo
sento tanto. E poi collegavo al rapporto con l’utenza, e sento questo bisogno di essere aggiornata.
Maurizio: cambierebbe anche lo stile di rapporto con la singola azienda. Un rapporto che credo non
diventi troppo amichevole se rimane su un livello informale. Dipende da che messaggio uno manda.
Michela: quando vado dal responsabile risorse umane di un’azienda.. lo sento.. mi percepiscono
come la poverina che aiuta i disgraziati, mentre ad esempio con la Fondazione Adecco lo si vede,
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l’atteggiamento è diverso. Qualche strumento in più ci può aiutare sia per come ci vedono sia per
come ci si vede noi. In questo senso parlo di marketing, anche se si lavora per una cooperativa
sociale. Se si deve diventare un’impresa sociale, non è più come sino ad ora che siamo stati
completamente a carico dell’ente locale. Dobbiamo misurarci col mercato, cominciando a capirlo ed
a distinguersi.
Scilla: è importante da mantenere anche dopo la trasformazione del mercato del lavoro. Le aziende
ti tengono sempre come punto di riferimento per un qualsiasi bisogno e questo è importante.
Federico: sì.. ma attenti a non riporre troppe aspettative sui questa storia. Bisogna parlare di quel su
cui siamo convinti, e il marketing dipende dal prodotto che vendi ma anche dal fatto di crederci. Ma
non pensiamo che col marketing arrivano duecento aziende. Non dobbiamo dimenticarci la
responsabilizzazione, la responsabilità sociale, quindi rimarcare la mission etica e morale. Per la
formazione, sarebbe interessante conoscere i sistemi degli altri, metterci nei panni degli altri,
insomma.. quello che diceva la Michela nel suo rapporto con la professionalità dell’assistenza
sociale, ed anche a me farebbe bene capire meglio, anche perché così certe critiche sarebbero forse
meno fondate o anche più mirate.
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[3] Beneficiari
Int.: difficoltà che avete trovate nel mondo del lavoro
Fabrizio: ho fatto diversi lavori, diploma artistico, a 18 anni spaccati se mi posso vantare, diversi
lavoro ma oggi ti prendono così, non ti fanno fare esperienza e poi ti mandano via. Il Centro per
l’Impiego oggi non funziona e come se non ci fosse. Se prima mi connettevo a Internet trovavo
offerte, ora non c’è più niente, il CI di Pistoia è quasi fermo. Non sono inabile al lavoro ma il
problema è trovare qualcuno che ti dica ti prendo e poi ti formo. Oggi ci sono furbetti che ti
prendono per gli incentivi salvo mandarti a casa quando scade il tirocinio. Io oggi faccio tutto
tramite internet e non voglio contatti per i colloqui conoscitivi degli interinali. Faccio adesso un
tirocinio in una cooperativa.
G., ho notato anch’io il certificato di disoccupazione non serve a molto, va bene ma… al CI c’è il
colloquio iniziale, si stabilisce un obiettivo e quel che gli piacerebbe fare, viene valutato e poi da lì
si parte ed io ho dovuto cambiare progetto per poter fare le attività di Arké. La valutazione è stata
fatta qui e poi ho dovuto cambiare le mie disponibilità e questo è funzionato perché… Nel tirocinio
sono presenti, sì ma quando devono fare la parte burocratica il CI funziona me non trovano lavoro.
Io sono stata segnalata dall’AS, ho insistito per entrare nel progetto per esser certa che non mi
facciano altri scherzi del tipo.. non è una pensione ed i soldi non ci sono tutti i mesi. Ti fanno pesare
come un regalo.. no, io non voglio regalo, e si parla di 300 euro, io tengo una figlia malata. Io
dovevo fare tutto con quei 300 euro, ora 150 euro. Ora figurati se me li darebbero.
Ti dicono che non fai niente nonostante la disponibilità ad andare al comune e seguire, il
comune non c’ha soldi, non ce l’ha. Io ho quattro figli con problemi agli occhi e ti fanno
sentire una merda. Io stavo benino prima, non avevo bisogno, non vado a chiedere se ci sono
soldi, mi diverto? Mi sono sentita umiliata.
La base è questa, è l’assistente sociale,
è uno dei modo per garantire che non rimani sorpreso quando ti dicono.. ma lei cosa vuole.. ops.. Io
l’ho fatto per questo, qui ad Arké. Io sono rimasta fuori dal Mercato del Lavoro, ho lavorato per
dieci anni per mio marito che si è dimenticato di regolarizzarmi e di pagarmi. Per fortuna sono
andata avanti con le traduzioni. Sono bulgara. Mi sono trovata lì, come tante altre donne, che
approfittano della loro cittadinanza per poter mettere con le spalle al muro, perché il mio ex ha
cambiato atteggiamento quando ero incinta e non potevo muovermi. Poi mi sono liberata, mia figlia
è guarita e ad un certo punto questa persona è stata allontanata. Sono stata lasciata a rischiar la vita
con una persona fuori di testa e non ho potuto liberarmi per il loro mancato intervento e mia figlia
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poteva anche non mangiare. Uno dei tanti casi e sono tanti e sempre sommersi. E ti dicono che altri
ce l’hanno fatta anche coi topi in casa. Ma non scherziamo. I topi, le umiliazioni, è questa la strada.
Tunisina: la mia esperienza è simile, il comune e la provincia non hanno soldi, sono mamma, sono
tunisina. E sono qui e ho fatto volontariato al circolo. Sul CI, con la carta Ila ho fatto un corso di
addetto alla contabilità e nei circoli arci amministrazione ed il CI mi doveva mandare a fare un altro
tirocinio ma me lo sono dovuto trovare io grazie al mio avvocato. E anche lì… I tirocini sono ora
pagati con 500 euro.
G.: ieri e l’altro ieri sono tornata alle 1 di notte per il tirocinio. Ora però mio figlio è più grande ma
qualche anno fa questa cosa non potevo farla.
Int.: perché questi servizi non funzionano..?
Fabrizio: ma parliamo degli AS o della cooperativa? C’è poco a giro e quindi loro fanno poco ma
come vengono spesi i soldi comunali è uno spreco. Dove sto io hanno piantato dodici autovelox, poi
ti dicono che il comune ha le casse vuote. Ti raccontano che non c’è lavoro e poi vedi queste cose e
poi vedi tutti con gli Iphone. La crisi c’è ma sembra dove gli pare a loro. Per esempio, quando uno
comincia questo progetto spera in una crescita minima. Io ora sono in Gulliver so che ci fosse una
fetta di pane in più me la darebbero, loro lo sanno che ho bisogno. I CI non ce la fanno perché sono
pieni e le aziende non ci sono. Dimmi subito che non ce la fai. I servizi sociali fanno poco.
Questa crisi c’è da molti anni. Dovevo ritirare esami del sangue e non sapevo come trovare
gli uffici. Questa gente non è stimolata a lavorare perché hanno tutte le garanzie, ci sono
mamme di serie a e di b. Nel distretto c’erano i due assistenti sociali perché il resto erano
incinte. E tutto l’ufficio fermo. Potevano anche chiudere,. Ora si sono trasferiti. E poi c’è
l’atteggiamento di bisogna che venga lei… ma d’estate non ci sono nemmeno i pullman.
Le AS sociali dovrebbero seguirci. Il CI la burocrazia la fanno bene ma c’è un certo.. che ti
tratta con sufficienza, come dire “ma tanto non ce n’è lavoro”. Oggi un pochino è migliorato
ma loro sono garantiti e qualunque cosa facciano va sempre bene.
Milena: sono albanese, non vedono i problemi della persone. Aspettavo questo mese il contributo
dall’AS per i bambini e poi sono andata a sentire e mah… “me n’ero scordata”.
Tunisina: Come fai a dimenticare un essere umano e poi ci sono nel mezzo figli. È un problema di
sopravvivenza.
Milena: io ho visto che è arrivato il contributo a lei che aveva il marito al lavoro.
Gelina, albanese. Io se c’era un lavoro lo facevo. Tre anni fa era diverso per me, dopo la
separazione era in tragedia. Sono andata da loro, ho cercato lavoro ma crisi. All’inizio mi hanno i
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chiesto cosa ti piace fare e mi sembrava di rinascere – AS e CI – ma poi..!! Mi hanno segnalata qui
ma poi.. 150 euro che ripendo mi fanno comodo, ci pago le rette delle mense della scuola. Sicché si
parla tanto di questo ma mi interessa solo trovare lavoro perché ti senti anche bene quando lo
trovi…!..... PIANGE…
Io ho fatto anche la dog sitter….
La cosa brutta… guarda – le dice – non preoccuparti, siamo tutti sulla stessa barca.
Un’assistente sociale mi ha detto che quando appena voi avete un figlio venire qui a
chiedere sodi, ed io le ho risposto che se mi trovi un lavoro io qui non ci vengo..
Albanese (dopo il pianto) io vivo grazie a mia sorella che mi aiuta.. io voglio lavoro, non vengo
perché mi piace. Però anche il CI, le interinali.. sono andata ma ti guardano anche male.
G.: una volta ho detto a quello che risponde al telefono che se non ci fossero persone come me lui
sarebbe disoccupato.
Albanese: porti i il curriculum ma ti guardano anche male. Io sono andata al CI per un’offerta, tante
volte ho compilato queste richieste ma niente.. è la crisi- dicono. A me aiuta mia sorella ma…!!
Io sono sola, sposata con un italiano e vedo anche pochi tunisini ma non abbiamo nessuno
qui a Pistoia, quindi… tu devi dire che c’è chi sta peggio….
Albanese: io sono contenta della cooperativa e della tutor, come si muovono, mi trovo bene.
G.: però secondo me mancano le strutture per i figli. L’assistente sociale mi ha trovato un centro di
educazione, sono seguiti da uno psicologo, sono seguiti, ed è una grossa incombenza che ti tolgono,
e poi li fanno anche mangiare. Questo a favore delle AS. E’ stata un’idea geniale perché perlomeno
sino alle 19 di sera… posso lavorare e poi loro lavorano anche sull’autostima.
Int: Arké?
Bellissima, bellissima…!!
Tunisina: posso dirti una cosa..? la Repubblica italiana è fondata sul lavoro ma non è la repubblica
che ti garantisce un lavoro, intendiamoci. Loro ti hanno messo almeno in, ti hanno dato una strada,
ti hanno detto come presentarti.. loro quello che possono fare l’hanno fatto.. ci hanno insegnato il
curriculum, come parlare con un datore, ti cercano tirocinio o stage e ti tengono impegnato il
cervello.. a me.. Di negativo non vedo.. se c’è siamo noi.. come si comporta nella società. Ma loro
hanno fatto del loro meglio
Albanese: sì ma.. serve alla fine il lavoro… il lavoro.. !!
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G.: io sono stata inserita in tirocinio. Ciò che hanno fatto è stata utile. Forse si moltiplicano troppo
le esperienze formative ma questo corso ci ha aiutato per schiarirci le idee noi ma come utilità sì.. ci
sono degli errori piccoli che possono costarti un posto di lavoro. Ad esempio non andare mai a
supplicare per lavoro.. Io sono qua ma mi dovete pagare, sennò sto a casa, fo prima…!! E’ un
atteggiamento professionale quello che ti insegnano è importante.
Fabrizio: poi bisogna vedere quanto dura il contratto, molti si limitano ad assolvere gli obblighi.
Come hanno detto tutti, comunque, confermo, quel che viene fato alla fine è poco ma non è colpa
perché si vede l’impegno. Io sono anche a Gulliver, sia da Massimo che da Giuseppe sono sicuro
che se troviamo un buchino per me mi chiamano. Però, al di là dell’affetto, alla fine i risultato sono
bassi, non c’è occupazione.
Albanese: infatti, fai di tutto, incontri, offerte ma alla fine non si riesce a trovare niente.
Fabrizio: ma ora ci sono ad esempio agevolazioni sui tirocinio ed io sarei inseribile ma “non c’è
Cristi” non ci sono nemmeno quelli, è difficilissimo muoversi.
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[4] Soggetti ospitanti
Int. La prima questione su cui vorrei sapere la vostra opinione è quanto la crisi economica e sociale
attuale ha ricadute sul problema occupazionale e sulle politiche di inserimento socio-lavorativo, sui
vostri fabbisogni professionali e sulle risposte che ci sono sul territorio in cui operate.
Giovanni: ho un’azienda alimentare con già 40 persone e – nel momento dell’assunzione – la cosa è
particolare. E’ difficile trovare un addetto con esperienza ma non ce n’è, non servono cuochi o altro.
Si va tutti con macchinari. In cucina non c’è un cuoco. Quindi la difficoltà di personale con
esperienza, almeno qui in Toscana. Quindi i miei dipendenti hanno fatto formazione all’interno,
quasi tutti giovani che sono entrati dopo la scuola ma ora sono adulti. Tutti gli entrati ci sono
ancora, e con soddisfazione. Ho notato che questo tipo di ambiente aiuta molto i ragazzi che ho
fatto venire con gli interventi di Arké. Trovano un ambiente accogliente e con personale preparato.
Son ragazzi che si prestano anche a dare una mano e le esperienze ultime me l’hanno confermato.
Ho due persone, in magazzino e confezionamento, che sono totalmente seguite dal mio personale.
L’aspetto negativo è che si sta attraversando un periodo non felicissimo e il mio rammarico è che i
ragazzi vengono ma ora non posso dar loro una prospettiva ma sono subito chiaro, specie con i
ragazzi giovani. Farli illudere è la peggio cosa. Purtroppo in questo periodo sono costretto ad essere
un po’ drastico. In passato è stato diverso. Ho un ragazzo che viene da questo percorso, è un
ragazzo davvero bravo che si è integrato bene con tutti. Oggi è importante lavorare ma anche
lavorare in gruppo è fondamentale, è fondamentale la comunicazione con gli altri. Anche lui è
molto propositivo, E quindi su questo aspetto è stato molto positivo. Ma non nego la difficoltà del
momento. Oltre a questi ragazzi io mediamente ricevo dalle due/tre e mail tutti giorni, tre/quattro
suonate di campanello con curriculum e telefonate a casa. Sei costretto a dire, mi spiace per ora.. e
davvero mi spiace vedere tanti ragazzi giovani andar via con orecchi bassi. Non crei un supporto
per rilanciar nulla. Tu vedi che non ci sono prospettive. Credo molto nel rapporto umano con le
persone e è la cosa che mi disturba di più nei loro confronti. Il problema.. noi siamo una ditta partiti
27 anni fa con due dipendenti e s’è fatto tanti passettini. Siamo cresciuti in base alla domanda del
mercato, un cliente dopo l’altro. Ora è un periodo di stasi. Il mercato non mi dà l’opportunità di
crescere e quindi non ho la necessità – è brutto dirlo – di dar lavoro. Non è una scelta aziendale,
niente affatto. Si poteva fare anche questa scelta ma oggi bisogna darsi da fare per non tornare
indietro. E’ sempre più un dispendio di energie per restare al livello attuale. E’ anche uno dei motivi
dove nascono le difficoltà di garantire un servizio come quello per l’inserimento socio-lavorativo.
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Che per l’azienda non è oneroso, si tratta solo di un po’ di tempo. Se siamo però assorbiti dalla
necessità di trovare mercati nuovi o resistere, allora diventa tutto più complicato.
Gioia: è esattamente così, la mia azienda è un’impresa di pulizie, ha quasi vent’anni, siamo partiti
con un’amica, cassetta e scopa, e sono cresciuta anno dopo anno, ancora l’anno scorso è stato
positivo. Nel mio settore la concorrenza è tantissima, si improvvisano in tanti, vanno a prezzi
stracciati ma ci vuole professionalità e garantire livelli di un tempo è faticoso. Io ho due assunzioni
fatte con questi progetti. E’ il mio carattere quello di dar opportunità alle persone. Se si vede che
una persona merita la do più volentieri a chi ne ha più bisogno. Io ho due assunzioni, una fatta ed
una in corso. Mi sono trovata bene, lo ripeto. Una a tempo indeterminato e devo valutare a fine
mese l’altra, una per pulizie e una a livello impiegatizio. Mi sono trovata bene ma ci vuol il tempo
per seguirlo, ci vuole in azienda chi segue. E nel mio caso sono quasi tutte donne, a parte i soci, e
sono disponibili. Le mie dipendenti minimo ogni due o tre mesi si riuniscono e vanno a cena
insieme, c’è cameratismo, si aiutano ed è bello perché è un ambiente accogliente. Si fa il percorso
che si deve fare e poi si valuta. Ma oggi è difficile. A livello impiegatizio ne ho bisogno io. Mi sono
insomma trovata bene.
Chiara: Noi invece abbiamo una ditta di 18 dipendenti e due titolari – una pasticceria - ma oltre
questo livello non vogliamo andare perché siamo una ditta artigiana e se si passa ad industria si
andrebbe a perdere delle agevolazioni. Noi abbiamo un ragazzo assunto ad Ottobre scorso e c’era il
fabbisogno perché in inverno il nostro lavoro è maggiore, adesso nell’estate meno. Forse, nel nostro
lavoro, c’è tanta concorrenza e molti si improvvisano, con prezzi molto più bassi e poi portando la
merce. Facciamo anche catering ma quelle cose lì hanno bisogno di altre persone, e quindi si
prendono ragazzi interinali, a chiamata. Le solite persone del laboratorio non le posso usare. C’è
una ragazza che sta facendo lo stage glielo è detto, purtroppo non posso promettere il lavoro, è lì
che mi piange. E l’altro ragazzo che .. è cambiato, il suo modo di fare è fare veloce, mi sciupa tanta
roba, e praticamente… non è molto igienico e in queste cose qui è importante. Gli si dice, lo fa due
o tre giorni ma poi ci ricasca, è il suo modo di fare, e poi a volte non viene e si inventa scuse perché
lo scopro. In questo tipo di … ci sto riflettendo. Poi ci sta calando il lavoro, col rischio di perdere
qualche ditta da fornirne e .. ancora non ho deciso ma un po’ si è avvisato questo ragazzo. Lui non
vorrebbe.. dammi anche meno, ma se s’era posto in altro modo sin dall’inizio.
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Giovanni. Ci sono ragazzi che, nonostante tu glielo dica, non sanno cogliere l’opportunità che tu gli
dai.. ma non io, gli altri dipendenti, guarda.. non far così, perché se funziona c’è un’opportunità…, e
questo vale per tutti non solo per le proposte di Arké. Di solito quelli di Arké sono ragazzi con
problemi economici o familiari, carenti di una situazione tranquilla, un po’ sbandati.
Gioia: poi nell’esperienza mia non sono ragazzi, a parte questa ragazza presa come segretaria, ha un
titolo di studio in Marocco ma si impegna e si dà da fare e va bene, ma poi ho avuto tutte persone
dai 30 ai 50 anni
Giovanni: io ho avuto quasi tutti giovani, l’unico più maturo ha fatto lo stage qualche anno fa ed era
in coppia con quello giovane che poi è rimasto. Lui aveva trent’anni, aveva tutti i presupporti per
l’opportunità, ed anch’io preferisco di dare una mano a chi so ha una bambina piccola e la moglie a
casa e non a un ragazzino giovane. Ma questo ha fatto di tutti per farci dire no, anche nelle realtà
spicciole, .. mettiti il giubbotto per andare in frigo e lui.. no,, ma io te lo dico per il tuo bene.. ma io
non me ne giovo del giubbotto. Ma come.. si lavano tutte le settimane. Ecco per far capire delle
volte dove ci si scontra e sono persone che hanno difficoltà effettive.. Ora una giovane e mi dice.. sì
ma ho due bambini…
Pietro: Nel nostro caso abbiamo un circolo ricreativo dove la pizzeria è registrata regolarmente.
Abbiamo un paio di persone fisse, diversi volontari indispensabili e questi inserimenti che facciamo
abbiamo di solito trovato tutte persone che hanno capito il lavoro, l’hanno imparato e molti hanno
poi trovato lavoro. Qualcuno ha anche aperto una pizzeria per conto suo dopo aver imparato da noi
il mestiere. Si trovano bene. I volontari del circolo sono persone che hanno fatto attività sociale, chi
arriva - giovane o meno – è considerato come un figlio. Chi ha voglia lo si vede, a noi non son
capitate molte persone che non ne avessero. Anche perché se li metti in condizione di inserirsi.. ma
la nostro è una realtà particolare. Ora noi abbiamo- rispetto agli altri circoli del pratese – noi siamo
aperti d’estate tutti i giorni e gli inserimenti si fanno anche abbastanza bene, giovani o anziane. La
maggior parte delle persone che sono venute da noi sono stranieri, anche questo non è stato un
ostacolo, tutti quelli che sono venuti riuscivano ad esprimersi in italiano. Il problema.. da noi si
impara alla svelta a fare le pizze, dopo un mese se non hai capito vuol dire che non sei adatto, è poi
gente che fa la preparazione e su ogni banco ci sono le istruzioni.. e quindi.. poi.. siccome non
possiamo assumerli, non abbiamo le condizioni e loro sanno che da noi ci stanno poco.. qualche
volta abbiamo tentato di riprenderli per tre mesi di contratto ma è chiaro che se trovano una pizzeria
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che li assume, beh.. allora vanno via. Tre che sono venuti da noi hanno aperto la pizzeria, si son
fidanzati, lei dice apriamo insieme un’attività. La nostra esperienza è positiva, per tutti, perché chi
viene se non è un lavativo, si trova bene. Ci sono ragazzi che tornano a trovarci e stanno lì perché si
son trovati in un ambiente del tutto familiare. Chi viene da noi sa che viene per imparare un
mestiere per avere poi una loro occupazione ed un loro mestiere. E questo gli dà la possibilità di
trovare, e anche loro hanno un giro di amicizie e conoscenze, e quindi chi fa tutto un intero periodo
ma noi non possiamo assumerli a tempo indeterminato ma non vogliamo tenerli al nero per scelta
che abbiamo fatto..
Int. I rapporti coi servizi pubblici.., qual è.., ad esempio.. il vostro personale come l’avete
reperito…? I servizi sono notoriamente efficienti.
Gioia: io del centro per l’impiego mi sono servita molto, ho dei clienti a Massa e Livorno e anche lì
tramite il centro per l’impiego, poi c’è il passaparola, la conoscenza, la mia dipendente che mi dice
di un’amica. E poi comunque.. i tre requisiti sono il rispetto dell’azienda che gli dà lavoro, il cliente
e le colleghe.
Chiara: anche noi qualche dipendente l’abbiamo preso con la Fil e altri sono di vecchia data che
sono anche andati via e poi sono tornati.
Francesco: per me un canale normale è il passaparola, poi siccome noi per scelta ci piace da sempre
far le cose in regole, da quando è stato regolarizzato usiamo spesso l’interinale, anche perché
abbiamo una stagionalità avanzata e mi permette di fare una selezione del personale. La mia
difficoltà è che – avendo 40 dipendenti - se assumo uno poi mi tocca tenermelo, non si può fare
diversamente (anche nel nostro caso - dicono gli altri).. e l’interinale mi ha permesso di avere una
circolazione maggiore. Poi essendo tutti giovani la vita è strana all’interno si son conosciuti fra di
loro, ci sono matrimoni con figlioli. L’asilo aziendale non l’ho fatto ma da nonno lo faccio… Io del
servizio pubblico non ne ho ormai usufruito. Solo che tramite la Fil- - avendo superato le 35
persone – allora ho assunto il secondo in fascia protetta, ed è il servizio pubblico che fornisce il
nome, lo hanno selezionato,. C’ho fatto il colloquio e è andata bene, ed in settimana nuova deve
essere regolarizzato.
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Gioia: io ha fatto anche dei tirocini tramite la Fil, poi.. ricerca di persone in mobilità, mirate cioè al
risparmio fiscale.., e quindi chiedo proprio determinate categorie.
Int. Con la cooperativa Arké avete rapporti diretti o meno?
Francesco: il nostro tramite è la Scilla e Arké è lo strumento operativo. Il rapporto con i tutor è lo
steso con Arké, il rapporto è buono, mi telefonano ogni tanto…
Gioia: nel caso nostro – con quel ragazzo problematico – il colloquio l’ho dovuto fare…
Int. Un’altra cosa: in questo momento si sta discutendo di questa riforma del mercato del lavoro.
L’articolo 18..
Francesco: non c’incastra nulla, sono discorsi parati dietro a quell’articolo ma non hanno reale
sviluppo nella vita di un’azienda perché qual è l’azienda che va a licenziare un dipendente bravo.
Questo i sindacati non riescono a capire. Se il dipendente non va, sta levando il lavoro ad uno che
sarebbe valido, per cosa? Per un diritto acquisito..? per cosa. Funziona molto bene nel pubblico,
perché lì ci si mette a sedere e nessuno ti tocca. La cosa principale è creare il lavoro, non
l’assunzione facile, non è facilitando le assunzione che si crea il lavoro, è inutile che tu mi dia
opportunità e detrazioni ma se non c’ho lavoro..? Si pensa che il lavoro sia sul modello degli uffici
pubblici. Se non hai da produrre. Nel privato è diverso, non perché il privato è cattivo ed è visto
come l’orco. Noi si deve rispondere. Se l’azienda va bene si sta bene tutti, se va male va male anche
per gli imprenditori. L’articolo 18 è stato solo una bandiera, se lo vai a leggere ti chiedi. Ma i’ che
vogliono…, ci sono tutte le istanze di garanzia…
Int. Ponevo la questione perché a Prato la crisi ha colpito prima no?
Francesco: sì.. ha colpito prima perché ha coinvolto il tessile che è il settore su cui girava tutta
l’economia, ora ci si sta riprendendo perché si sono create aziende alternative… Prato è cambiata
culturalmente e poi per la grossa immigrazione. La vecchia idea del distretto non solo non è più
attuale ma neanche logica.. quando si parla di globalizzazione è che certe nicchie non esistono più..
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Int. In generale, di cosa sentireste comunque poi il bisogno…? Dove si dovrebbe investire, ad
esempio.. il tessile è andato in crisi.. , è in corso una ristrutturazione.. quali settori sono più
promettenti.
Francesco: allora, diversamente da quello che si dice e si fa e piangersi addosso.. beh.. ci sono
settori che sono trainanti e che uno non conoscendoli dice.. boh.. due o tre esempi. C’è una ditta
nata dal niente che produce freni a disco per le biciclette.. uno dice … ma è leader mondiale del
mercato. Ha 100 e rotti dipendenti e così via,. Un’altra realtà .. un settore che io non sapevo, legato
al restauro, un’azienda in Prato con una sessantina di persone qualificate ed ha vinto l’appalto per il
restauro dell’Ermitage. Prato non è morta ma il male di Prato è che si è parlato solo di tessile, tutte
le risorse sono state buttate lì. Ci siamo fossilizzati su certe cose che hanno impoverito tutto. Poi il
colpo finale è stato l’ingresso dei cinesi in maniera non regolamentata. A Prato si è sempre vissuto
l’immigrazione e abbiamo sempre accolto tutti, dagli anni sessanta in poi… Era una risorsa, c’era
un tessuto diverso ma le regole erano chiare, vieni e lavori. Non sono razzista, regole uguali per
tutti. E’ stato chiuso un occhio e orecchi e tutto lì e questi cinesi potevano essere uno stimolo ma.. e
quel che facevano loro si poteva far loro, diciamo la verità. Si è dormito. C’è stato un passaggio di
generazione che ha raggiunto un certo benessere e poi si è addormentata per un decennio ed ha
permesso che i questa gente venisse. E poi loro hanno fatto quel che s’è fatto noi nel dopoguerra. E
ci si strappa i capelli adesso, ma il che…? Si finiva la scuola, e io andavo dallo zio a dargli mano..!
Ora se un ragazzino lo trovano a lavorare arrivano i carabinieri e lo portano via. Loro hanno trovato
un distretto che gli ha fatto fare quel che gli pareva… e poi hanno fatto quel che si faceva noi…
Settori nuovi ci sono ci sono,. Ci sono delle belle realtà. Anche la mia è nata dal nulla, da una
bottega e poi si è ingrandita.
Int. Si faceva riferimento alle competenze professionali di cui avete bisogno.., c’è facilità o no nel
trovarle…?
Nel mio settore – pulizie – serve occhio, buona volontà e un metodo di lavoro con le attrezzature.
Ogni azienda nel mio settore ha il suo metodo di lavoro e perciò magari preferisco quasi persone
senza esperienze pregresse perché me la formo come voglio io…, si tratta anche di abitudini, ecc…
Pasticceria: nel nostro lavoro non finisci mai di imparare. La scuola non ti permette niente..
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Gioia: nel mio settore il mio biglietto da visita sono i miei dipendenti, faccio la maglietta col mio
nome, voi andate a giro col mio nome, se fate bene o male è sempre la mia faccia che ci metto, la
mia azienda ha una buona nomea e i dipendenti che la sciupano non mi sta bene, io do loro da
mangiare e loro a me ma.. importantissimo è sapersi relazionare..
Francesco: lavorare in gruppo è importantissimo…
Gioia: bisogna aver rispetto del cliente..
Francesco: si fa anche noi tanta formazione, io il mio lavoro è grande e.. il magazziniere se ha fatto
il magazziniere è un requisito valido ma se si parte dal dato produttivo, trovare quello che ha
lavorato proprio su quella macchina è difficile. L’importante è quanto la persona si mette in gioco,
lavorare in gruppo, devi creare il gruppo, è quello il segreto, perché anche se c’è la mela marcia si
isola e si risolve.
Goia: il lavoro deve esser fatto volentieri, ed i miei dipendenti devono essere in condizioni di
passare quelle ore nel modo migliore possibile, e questo dipende anche da me, spesso faccio anche
il confessore… A me telefonano anche la sera: c’ho il bambino con la febbre, che posso fare… Una
grande famiglia, alcuni sono figlie e noi i genitori.
Francesco: lo stesso per me, ogni tanto.. toc toc, posso parlare.. Per assurdo poi ci stai male, ti
coinvolgi…
Int. Dunque in base alla vostra esperienza, Arké è una buona esperienza ma ci sono punti critici su
cui intervenire?
Francesco: io l’unica cosa che mi sentirei di fare è che.. quando finiscono, fare un attimino di
confronto, cioè mettersi a sedere e sentire i ragazzi quel che di buono hanno trovato in azienda, cosa
è piaciuto e quel che no, se gli è servito o se no…
Gioia: un po’ lo fanno già.,… questo ragazzo ha parlato con Scilla ecc…
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Francesco: ma dico che sì. Per vie traverse si sa, è vero ma.. finisci. L’ultimo giorno ci sei mette a
sedere e si dice.. allora, perché potrebbe aiutarci a capire cosa fare quando viene un altro.. vorrei
farmelo dire dal ragazzo…, non in via indiretta…. Ci vuole maturità per arrivare a parlar chiaro…
Gioia: io ho avuto una volta un problema con una ragazza ed ho chiesto alla Scilla di parlarci lei ma
quando la ragazza l’ha saputo si è arrabbiata perché preferiva che fossi io a dirglielo. E’ che mi
sembrava brutto affrontare un argomento del genere con una persona vista solo un paio di volte.
Int. C’è però un momento critico, ed è quello delle aspettative…, ed è un problema non solo di
occupazione ma anche di tipo esistenziale e di quotidianità..
Francesco: sì.. serve anche a meglio affrontare il problema inziale di cui parlavo…