Economia e gestione delle imprese Parte I...Peter F. Drucker 5" " R.W. Scott - Le tre prospettive...

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1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI Corso di Laurea in Economia e gestione aziendale A.A. 2014-2015 Economia e gestione delle imprese Parte I Dispensa ad uso degli studenti Cagliari, Marzo 2015

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI Corso di Laurea in Economia e gestione aziendale

A.A. 2014-2015

Economia e gestione delle imprese Parte I

Dispensa ad uso degli studenti

Cagliari, Marzo 2015

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INDICE

L’economia e gestione delle imprese: un inquadramento generale PARTE I - Discutendo di organizzazione e impresa I.1. Il “mondo” delle organizzazioni

1.1. Perché esistono le organizzazioni? pag. 4 1.2. Passato, presente e futuro delle organizzazioni “ 4 1.3. Elementi identificativi “ 13

1.3.1. Stakeholder “ 15 1.3.2. Fini “ 16 1.3.3. Risorse “ 17 1.3.4. Rete normativa e comportamentale “ 18

1.4. Verso una definizione di organizzazione “ 19 1.5. Tipologie di organizzazioni “ 19

I.2. L’insostituibile ruolo dell’impresa 2.1. Impresa: entità molto diffusa, ma anche realmente conosciuta? “ 21 2.2. Una sfida sempre attuale: formulare un’unitaria teoria dell’impresa “ 21 2.3. Confine dell’impresa “ 23 2.4. Verso una possibile definizione di impresa

2.4.1. Impresa o imprese? “ 25 2.4.2. Elementi caratterizzanti “ 25 2.4.3. Obiettivo o obiettivi? “ 25 2.4.4. Definizione “ 27

Appendice alla Parte I: Quale approccio metodologico per le scienze sociali? “ 30

Bibliografia “ 55

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L’economia e gestione delle imprese: un inquadramento generale

La realtà nella quale ogni soggetto umano vive e svolge qualunque genere di attività è basata sull’esistenza di organizzazioni. Più specificamente, lo sviluppo economico del luogo di appartenenza può essere realizzato solo attraverso una congrua presenza di una specifica categoria di organizzazione: l’impresa. È questa la categoria di organizzazione che costituisce il riferimento specifico del corso di Economia e gestione delle imprese. I vari argomenti trattati costruiscono una sequenza che, passo dopo passo, permettono di “scoprire” l’affascinante realtà delle imprese sia con l’approfondimento del loro modo d’essere interno (i soggetti umani e le relazioni), sia con la comprensione del loro esterno (l’ambiente e le nuove e mutevoli configurazioni). Aspetto centrale del percorso di studio è la comprensione dei comportamenti dei soggetti umani nelle organizzazioni e l’individuazione dei vari aspetti che inducono ad evidenziarne la “centralità”. È in relazione a quanto appena notato che l’Economia e gestione delle imprese è un ambito di studio composito – o, meglio, multidisciplinare – che si lega con campi del sapere quali psicologia, sociologia, filosofia, antropologia e altre ancora. Nell’ambito di questa impostazione dell’Economia e gestione delle imprese, l’impresa non viene considerata con riferimento al suo aspetto tecnico-produttivo ma quale “collettività di soggetti umani che operano insieme per il raggiungimento di specifici fini”: l'implicazione è il posizionamento di tali studi nelle scienze sociali. Da questa consapevolezza emerge la necessità di trovare valide risposte per una migliore comprensione dell’entità impresa sulla base di un adeguato approccio metodologico, così come risulta indispensabile domandarsi quali similitudini e difformità esibisce rispetto alle altre organizzazioni. Né è irrilevante domandarsi quali sono le condizioni e i mutamenti che hanno investito il contesto – o, meglio. i contesti – nei quali ogni impresa svolge la sua attività. Avendo compiuta (o tendenzialmente tale) conoscenza degli aspetti generali, può risultare più agevole “scoprire” il modo d’essere e di divenire dell’impresa: dagli elementi che ne inducono la costituzione alle attività che ne consentono la sopravvivenza e lo sviluppo.

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PARTE I - Discutendo di organizzazione e impresa

The dogmas of the quiet past are inadequate to the stormy pre-sent. The occasion is piled high with difficulty and we must rise with the occasion. As our case is new, so we must think anew and act anew. Abraham Lincoln

I.1. Il “mondo” delle organizzazioni 1.1. Perché esistono le organizzazioni?

Interrogarsi sulle motivazioni dell’esistenza delle organizzazioni, in un mondo “invaso” da organizzazioni può apparire quasi privo di significato. Proprio perché ogni attività umana – individuale o collettiva – si realizza per mezzo di organizzazioni, risulta fondamentale avere una puntuale conoscenza di esse o, meglio, delle problematiche che le caratterizzano in modo da coglierne appieno le potenzialità e, perché no, anche i punti di debolezza.

L’organizzazione – come fenomeno sociale – è nata per superare i limiti delle capacità fi-siche e mentali dei soggetti umani. Più esattamente, le organizzazioni sono entità per mezzo delle quali collettività di soggetti umani operano insieme, combinando i loro sforzi per ottene-re risultati che ciascuno singolarmente non sarebbe in grado di perseguire1. Inoltre, l’organizzazione è in grado di garantire continuità temporale al perseguimento di obiettivi che possono caratterizzare l’intero arco della vita di un soggetto umano, cioè non limitato alla propria vita professionale.

Per quanto, come notato, si sia circondati da organizzazioni, non è agevole riuscire a for-

mulare una teoria o un sistema di analisi capace di considerare la notevole molteplicità delle loro caratteristiche.

1.2. Passato, presente e futuro delle organizzazioni Il passato

Le organizzazioni hanno costituito oggetto di interesse di importanti studi scientifici che hanno dato vita, nel secolo scorso, a rilevanti scuole di pensiero dalle quali non si può pre-scindere anche nella formulazione di studi e teorizzazioni nel periodo presente, così come co-stituiscono importanti premesse per gli sviluppi futuri.

Un importante lavoro di sistematizzazione dei vari contributi scientifici è riscontrabile nell’impegno di W.R. Scott che ha ricondotto l’enorme quantità di studi nell’ambito di tre prospettive – sistema razionale, sistema naturale e sistema aperto (Riquadro I.1) – con la spe-cificazione che “le tre prospettive sono in parte in conflitto, in parte sovrapposte e in parte complementari l’una all’altra”.2

Egli sottolinea che “Anche se queste prospettive sono emerse in tempi diversi, le ultime non sono riuscite a soppiantare quelle precedenti: le tre prospettive continuano a coesistere e ad avere ciascuna i propri sostenitori. Anche se cercheremo di descrivere in qualche modo la storia di ciascuna prospettiva, le prospettive non hanno fondamentalmente un interesse stori-co. Esse sono invece modelli analitici che intendono guidare – e interpretare – la ricerca empi-

I giovani oggi dovranno imparare a muoversi tra le organizza-zioni come i loro antenati impararono a coltivare i campi e ad allevare bestiame. Peter F. Drucker

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R.W. Scott - Le tre prospettive

rica. Esse sono cambiate nel tempo man mano che una scuola si sostituiva alla precedente all’interno di ciascuna tradizione, ma sorprendentemente i profili generali delle tre prospettive sono rimasti abbastanza nitidi”.

1. La prospettiva di sistema razionale (che comprende l’approccio classico, quello tradizionale, quello dell’organizzazione scientifica del lavoro e quello di Weber).

2. La prospettiva di sistema naturale (che comprende l’approccio delle relazioni umane e quello istituzionale).

3. La prospettiva di sistema aperto (che comprende l’approccio dei sistemi generali, quello della progettazione dei sistemi e quello ambientale).

Organizzazioni come sistemi razionali Le organizzazioni sono tipologie caratteristiche della struttura sociale nella quale operano

come strumenti con speciali finalità orientate al perseguimento di “specifici obiettivi”. Consi-derate da questo punto di vista, le organizzazioni sono indiscutibilmente l’invenzione sociale di maggiore successo di tutti i tempi. Ponendo l’accento sulle loro finalità limitate e specifi-che, coloro che progettano e creano le organizzazioni possono adottare un orientamento ra-zionale, mezzi-fini, chiari criteri per lo svolgimento delle attività. Un altro aspetto delle orga-nizzazioni è la loro inclinazione per la “formalizzazione”. Quest’ultima implica la creazione di regole generali e routine per guidare le decisioni e le azioni.

La storia del mondo moderno è quella nella quale i gruppi sociali o collettività 1) perse-guono obiettivi espliciti e specifici; e 2) sviluppano strutture formalizzate e procedure a tal fi-ne. Esse costituiscono la modalità attraverso la quale il lavoro viene diretto.

Chiunque intenda sviluppare specifiche attività, non può esimersi dal definire specifici obiettivi e dallo sviluppare una struttura. È questo uno dei motivi per cui i movimenti sociali vengono definiti in opposizione alle organizzazioni – come fenomeno spontaneo, non orga-nizzato e non strutturato. A meno che esse non diventino organizzate, sviluppando leadership specializzate e acquisendo mezzi per sostenersi, è probabile che incontrino elevate difficoltà a rimanere in vita.

Parsons3 ha dichiarato “lo sviluppo delle organizzazioni è il meccanismo principale attra-verso il quale, in una società altamente differenziata, è possibile «to get things done» (fare le cose bene) per ottenere obiettivi irraggiungibili dagli individui”. Questa dichiarazione è anco-ra valida. Tra gli studiosi che possono essere ricondotti a questa prospettiva, si ricordano Fre-derick W. Taylor, Henry Fayol ed Herbert Simon di cui una breve biografia è riportata nei ri-quadri I.2, I.3. e I.4.

Organizzazioni come sistemi naturali

Le organizzazioni vengono costituite per perseguire obiettivi specifici anche se questi possono mutare in funzione di eventi successivi. Si tratta di uno sviluppo che si lega alla so-pravvivenza dell’organizzazione in un divenire tra la soddisfazione di interessi esistenti e la creazione di nuovi interessi.

Negli studi che possono essere considerati nella prospettiva del sistema naturale viene ri-servata maggiore attenzione al ruolo degli individui e al loro contributo per il perseguimento degli obiettivi. I soggetti umani non operano esclusivamente sulla base di regole predisposte ma assumono rilievo notevole le relazioni informali. In altri termini, l’organizzazione viene considerata quale collettività di soggetti umani che condividono l’obiettivo della sopravviven-

Riquadro I.1

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                                                                 Frederick Wilson Taylor (1856-1917)

 

                                                                         Henri Fayol (1841-1925)

 

 

za dell’organizzazione. Le organizzazioni costituiscono le entità attraverso le quali ogni individuo può perseguire

i propri obiettivi. Tra l’individuo e i suoi interessi si introduce l’organizzazione con le sue strutture e procedure che trasformano le modalità con le quali gli obiettivi vengono perseguiti e, spesso, la natura di questi obiettivi.

Nell’ambito di questa prospettiva può essere ricondotto il movimento delle Human Rela-tions il cui fondatore è Helton Mayo (Riquadro I.5).

Frederick Taylor era un ingegnere inglese. La sua opera fondamentale è Principles of Scientific Manage-ment del 1911 quale risultato di sintesi di molti altri scritti.

È il fondatore del movimento conosciuto come Scientific Management. Egli ha precisato che “The principal object of management, should be to secure the maximum prosperity for the employer, coupled with the maxi-mum prosperity of each employee”.

La reciproca interdipendenza tra direzione e dipendenti e la necessità di operare insieme verso il comune obiettivo di crescita per tutti era per Taylor un aspetto assolutamente evidente tanto che spesso si domandava come mai ci fosse tanto antagonismo e inefficienza. Egli propone quattro fondamentali principi di management: 1. lo sviluppo di una reale scienza del lavoro; 2. la selezione scientifica e lo sviluppo progressivo dei lavoratori; 3. l’apporto congiunto della scienza del lavoro e della selezione e addestramento scientifico dei lavoratori; 4. la costante e intima cooperazione tra management e lavoratori.

Per scienza Taylor intende una osservazione e misurazione sistematica che egli spesso definisce the science of shovelling (la scienza dello spalamento) che è certamente un lavoro molto semplice ma lo studio dei fattori che rendono efficiente l’attività dello spalare è più complessa.

Gli studi di Taylor sono stati seguiti da altri, tra i quali, Gantt, Frank e Lillian Gilbreth, Bedeaux, Rowan, Halsey. Peraltro le idee di Taylor hanno alimentato molte controversie inerenti la presunta inumanità dei suoi si-stemi che venivano accusati di ridurre i lavoratori al livello di macchine efficienti. In realtà i suoi principi sono stati spesso travisati e ciò ha impedito il realizzarsi di quella che indicava come “rivoluzione mentale” nei rap-porti tra management e lavoratori.

Henri Fayol era un ingegnere minerario francese. Pur avendo pubblicato vari articoli, la sua opera fondamentale Administration Industrielle et Générale – Prévoyance, Organisation, Commandement, Coordination, Contrôle fu pubblicata nel 1916, quando aveva più di 70 anni. È da notare che pur avendo scritto un solo libro, questo è stato ristampato innumerevoli volte e tradotto in varie lingue: la prima edizione in inglese è del 1949.

Il suo contributo agli studi sulle organizzazioni può essere ricondotto ai sei gruppi di attività che si sviluppano nelle imprese:

- attività tecniche (produzione) - attività commerciali (acquisto, vendita, scambio) - attività finanziarie (ricerca per un uso ottimale del capitale) - attività di sicurezza (protezione dei beni e delle persone) - attività di contabilità (inventario, bilancio, costi, statistiche) - attività di direzione (pianificazione, organizzazione, comando, coordinamento, controllo) Siano le imprese semplici o complesse, grandi o piccole, questi sei gruppi di attività o funzioni essenziali sono

sempre presenti. In realtà, viene annoverato tra gli studiosi di organizzazione per l’innovativa proposta relativa alle funzioni di direzione: è stato il primo studioso che ha formulato un’analisi teorica delle attività direzionali. Da allo-ra, sono molto pochi gli studiosi che non sono stati influenzati da questo contributo. Tra l’altro, i suoi cinque ele-menti hanno fornito ai manager un valido sistema di riferimento.

Organizzazioni come sistemi aperti La Teoria Generale dei Sistemi, formulata alla fine degli anni ’50 si è sviluppata veloce-

mente influendo e trasformando molti ambiti scientifici (Riquadro I.7). Comunque, nessun dominio è stato più profondamente modificato da questa rivoluzione intellettuale quanto il

Riquadro I.2

Riquadro I.3

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                                                                 Herbert A. Simon (1916-2001)  

 

                                                               Elton Mayo (1880-1949)  

 

campo degli studi sulle organizzazioni. La maggiore influenza ha riguardato il riconoscimento dell’importanza dell’ambiente, sia come sorgente di input che come destinatario di output.

I teorici della “contingenza” asseriscono che le organizzazioni che adattano le loro strut-ture alle esigenze dell’ambiente possono raggiungere con maggiore probabilità il successo4. Successivamente gli studiosi hanno specificato che gli ambienti sono anche un luogo di potere politico e competizione economica. La “Resource dependence and population ecologists” en-fatizza l’importanza della competizione in presenza di risorse scarse – una competizione che ha conseguenze e rimedi sia economici che politici. Gli studiosi del filone “institutional” rico-noscono che le organizzazioni sono influenzate da modelli cognitivo-culturali e normativi nell’attività di progettazione delle strutture così come nell’attività di direzione delle imprese. In tal modo la concezione dell’ambiente delle organizzazioni si è significativamente ampliata.

Herbert A. Simon fu docente di Computer Science e Psicologia alla Carnegie-Mellon University, Pittsburgh dove, con i suoi colleghi era impegnato in ricerche fondamentali sul processo decisionale con l’utilizzazione del computer per simulare il pensiero umano. Il contributo intellettuale di Simon fu pubblicamente riconosciuto quando nel 1978 gli fu attribuito il premio Nobel per l’Economia.

Per Simon, management è equivalente a decision making e il suo maggiore interesse si è concentrato sull’analisi di come le decisioni vengono adottate e su come possono essere più efficaci.

Il suo contributo più significativo può essere individuato nella risposta al quesito: su quali basi gli ammini-stratori assumono le decisioni? Egli confutò l’esistenza dell’homo economicus, totalmente razionale e affermò che i soggetti umani operano con razionalità limitata. L’implicazione è che “most human decision-making whether individual or organizational, is concerned with the discovery and selection of satisfactory alternatives; only in exceptional cases is it concerned with the discovery and selection of optimal alternatives”.

Inoltre, egli propose l’importante distinzione tra decisioni programmate e non programmate: le decisioni sono programmate nei limiti in cui sono ripetitive e routinarie o possono essere adottate sulla base di una definita procedura. Le decisioni sono non programmate se sono nuove e non strutturate: per esempio, l’introduzione di un nuovo prodotto, l’inserimento in un nuovo mercato, e simili.

Elton Mayo (australiano) ha insegnato per lungo tempo alla Harvard University La sua notorietà è dovuta agli studi realizzati presso lo stabilimento Hawthorne di Chicago della General Electric, ma soprattutto per essere fonda-tore del Human Relations Movement e della Industrial Sociology.

Le sue ricerche hanno evidenziato l’importanza del gruppo nel comportamento dei soggetti al lavoro e, come conseguenza, ha individuato ciò che i manager dovrebbero fare. Negli anni tra il 1927 e il 1932, operò nello stabi-limento di Hawtorne chiamato per trovare una risposta ad uno strano fenomeno: due gruppi di lavoratori erano stati selezionati e, nel posto di lavoro di un gruppo venne aumentata l’illuminazione, nell’altro no. La produttività au-mentò in entrambi!

Mayo effettuò numerose sperimentazioni nei 5 anni di lavoro con miglioramenti del luogo di lavoro e/o mi-gliori condizioni per le pause, e altri simili elementi con specifico riferimento a un gruppo di 6 donne. La produttivi-tà non subiva significative modificazioni anche con il peggioramento delle condizioni ambientali e del trattamento delle pause. La spiegazione era da ricercare nel fatto che le donne avevano sperimentato la soddisfazione del lavoro potendo godere di maggiore libertà ma, soprattutto, erano diventate un gruppo sociale con propri standard e aspetta-tive.

Mayo concluse che la soddisfazione del lavoro dipende in larga parte dalle relazioni sociali informali del grup-po di lavoro e, inoltre, che alcuni problemi sorgono perché i lavoratori sono guidati dalla “logica dei sentimenti” mentre il management dalla “logica dei costi e dell’efficienza”. Il conflitto è inevitabile a meno che questa differen-za non sia compresa e si adottino le necessarie decisioni. Il lavoro di Mayo enfatizzò anche la necessità di un ade-guato sistema di comunicazione interno. Gli studiosi, attualmente, riconoscono che le organizzazioni sono influenzate da connes-

sioni verticali così come da legami orizzontali e da influenze locali e non locali. Fonti di in-novazione e idee riguardanti nuovi modi per organizzare possono arrivare attraverso Internet dall’altra parte del globo, così come la competizione economica è più probabile che abbia una

Riquadro I.4

Riquadro I.5

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Ludwig von Bertalanffy (1901 – 1972)  

 

 

 

fonte globale piuttosto che nazionale. La rivoluzione dei sistemi aperti, avviata – come notato - alla metà degli anni ’50, conti-

nua anche attualmente. Vi è ancora molto da scoprire rispetto alla gamma e alla varietà di modi in cui le organizzazioni sono aperte al loro ambiente – fino a che punto sono influenza-te, permeate dal contesto nel quale operano. Numerosi studiosi (S. Beer, K. Boulding, H. Ma-turana e F. Varela, E. Morin e altri) hanno apportato il loro contributo allo sviluppo degli stu-di sui sistemi. Nel Riquadro I.6 si riportano alcuni cenni su Ludwig von Bertalanffy in quanto lo studioso che, per primo, ha formulato una compiuta Teoria generale dei sistemi.

Ludwig von Bertalanffy (austriaco) nel 1918 ha studiato storia, arte e filosofia presso l’Università di Inn-

sbruck, prima, e nell’Università di Vienna, poi. Successivamente, dovendo scegliere tra la filosofia della scienza e la biologia, scelse quest’ultima perché – a suo avviso – si può studiare la filosofia in un momento successivo, ma non la biologia. Discusse la tesi di PhD nel 1926.

Von Bertalanffy insegnò all’Università di Vienna, di Londra, di Montréal, di Ottawa, alla Southern Califor-nia, alla Menninger Foundation, all’Univesrità di Alberta e Buffalo.

Bertalanffy occupa una posizione di rilievo tra gli studiosi che hanno contribuito allo sviluppo scientifico: i suoi studi in ambito biologico hanno determinato influenza e avanzamento in numerose altre scienze (filosofia, psichiatria, sociologia, psicologia, economia, ecc.).

La Teoria Generale dei Sistemi da lui formulata, costituisce una proposta “rivoluzionaria” per superare i li-miti del positivismo e del metodo riduzionista: egli assume come principio cardine della Teoria l’equifinalità e postula l’esigenza di un approccio interdisciplinare, così come la necessità di avvalersi della categoria concettua-le di “sistema aperto”. Egli ha osservato che “the conventional formulation of physics are, in principle, inappli-cable to the living organism being open system having steady state. We may well suspect that many characteris-tics of living systems which are paradoxical in view of the laws of physics are a consequence of this fact” Nel riquadro I.7 sono riportate alcune considerazioni tendenti ad individuare possibili ri-

sposte in merito alla necessità di individuare un idoneo approccio metodologico per le scienze sociali, mentre nel Riquadro I.8 si presentano alcuni elementi inerenti la teoria cibernetica. Nell’Appendice a questa parte, entrambe le problematiche vengono presentate con ulteriori argomentazioni.

Il presente e il futuro

In uno scritto recente Scott5 conferma quanto emerso dagli studi precedenti rispetto alla natura dell’impresa, cioè le prospettive del sistema razionale, naturale e aperto sopra indicate. Peraltro egli sottolinea che, pur potendosi individuare elementi di continuità negli studi sulle organizzazioni, nel corso degli anni sono state introdotte importanti modificazioni nella con-cezione di cosa sono le organizzazioni e come operano.

Tra le varie possibili, Scott evidenzia che si possono considerare cinque tipologie di cam-biamento: 1) nella natura dei confini organizzativi; 2) nelle strategie; 3) nelle forme organiz-zative; 4) nei componenti delle organizzazioni; e, soprattutto, 5) nel modo in cui si concepi-scono le organizzazioni.

Cambiamento nella natura dei confini

La distinzione tra l’interno e l’esterno è stata avviata con gli studi di Weber (1968). Suc-cessivamente, l’attenzione è stata rivolta agli “attori” (ruoli, criterio di appartenenza, identità), alle “relazioni” (frequenza delle interazioni, sistema di comunicazione, reti), alle “attività” (compiti, routine) e ai “criteri normativi e legali” (proprietà, contratti, diritti di controllo legit-timo). Attualmente, l’individuazione del confine risulta meno agevole, tanto che ha assunto rilievo l’espressione “organizzazione senza confini”. Infatti, si è sviluppato un processo di co-sì stretta interdipendenza reciproca tra l’organizzazione e il suo esterno (cioè con l’ambiente

Riquadro I.6

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Quale approccio metodologico per le scienze sociali?

1. Osservazioni preliminari

Si è accennato che le organizzazioni operano in una realtà in cambiamento, complessa e gravata da incer-tezza (l’insieme di problematiche concernenti il contesto ambientale vengono presentate nella Parte II). Fra le nu-merose implicazioni che derivano da quanto appena notato, risulta di grande rilievo la necessità che si realizzi – quale aspetto propedeutico – una puntuale scelta della metodologia di indagine di cui avvalersi per la comprensione dei fenomeni in atto, delle problematicità che scaturiscono nei confronti delle organizzazioni e, quindi, della loro analisi al fine di individuare adeguati interventi.

Se la scelta della metodologia adatta costituisce un problema comune a tutte le scienze, essa assume una pregnanza particolare con riferimento alle scienze sociali e, in quest’ambito alle scienze economiche. Non pare inu-tile ricordare che l’espressione “scienze sociali” si riferisce ad un insieme di discipline, eterogenee tra loro, che so-no accomunate dalla realizzazione di studi riferiti all’essere umano nel suo complesso e alle sue interazioni sociali. È agevole comprendere che un errore nella scelta della metodologia di indagine può condurre all’evidenziazione di aspetti inutili quando non dannosi.

Numerose sono le metodologie utilizzate nelle scienze in generale, prima, e nelle scienze sociali, poi. In questo ambito si reputa utile soffermare l’attenzione su due prospettive filosofiche quali il positivismo (e nel suo ambito il riduzionismo) e il costruttivismo. Si tratta di due filoni di studio particolarmente importanti che hanno dato vita a molteplici metodi di indagine la cui analisi puntuale esula dagli obiettivi di questa nota. È sufficiente comprendere gli elementi cardine delle due prospettive per valutare quale risulta più idonea per consentire l’analisi e la comprensione di una realtà tanto complessa.

2. Dalla prospettiva positivista alla prospettiva costruttivista 2.1. Prospettiva positivista

La prospettiva positivista è strettamente correlata alla trasposizione in ambito sociale dei concetti, delle tec-niche di osservazione e di misurazione di strumenti di analisi delle scienze naturali come la fisica, la chimica e la biologia. Dal punto di vista ontologico, la realtà sociale è rappresentata da un dato reale, esterno e indipendente dal ricercatore, al quale è affidato il compito di scoprirla. I positivisti ritengono che la realtà sia scomponibile in fatti e parti elementari e assumono che i comportamenti umani siano governati da leggi deterministiche e generali. Sul piano etimologico, il positivismo si basa su un accentuato dualismo tra ricercatore e oggetto di analisi, i quali non si influenzano a vicenda. Il ricercatore non deve in alcun modo inficiare la propria obiettività con pregiudizi, emozio-ni o punti di vista personali e deve operare affinché l’attività di ricerca non condizioni i fatti osservati attraverso eventuali pratiche manipolative. La metodologia di ricerca utilizzata prevede esperimenti, osservazione e distacco tra osservatore e osservato, con un processo di tipo induttivo e il ricorso a tecniche quantitative. Gli sviluppi suc-cessivi, ossia il neopositivismo e il postpositivismo, tentano di rispondere alle critiche avanzate al positivismo. Sul piano ontologico riconosce l’esistenza di una realtà esterna all’uomo ma non conoscibile in maniera completa. Dal punto di vista epistemologico, viene riconosciuto il rapporto di interferenza tra studioso e oggetto di studio, mentre l’aspetto metodologico non muta in maniera sostanziale, anche se viene avvertita un’apertura nei confronti dei me-todi qualitativi. I principali esponenti del positivismo sono Durkeim e Comte.

Nell’ambito di questa prospettiva, una sua radicalizzazione è ravvisabile nel riduzionismo, cioè nella ridu-zione della ricerca sociale ad una mera raccolta di dati, misurati e classificati, ma non coordinati tra loro, privi di significative connessioni e incapaci di consentire una conoscenza adeguata dell’oggetto cui si riferiscono.

Nel riduzionismo il ricorso al linguaggio matematico tende a essere esaltato sia perché ad esso si attribuisce idoneità a “misurare”, compiutamente, la componente elementare, sia perché favorisce l’attuazione dell’ultima fase di applicazione del metodo, cioè la fase “additiva”: i risultati dello studio di ogni parte elementare vengono somma-ti tra loro per ottenere il risultato riferibile all’intero fenomeno indagato.

E’ pure da sottolineare il fatto che nella scomposizione dell’entità nelle relative componenti si possono veri-ficare gravi distorsioni, tra le quali le seguenti assumono maggiore rilevanza negativa e preminenza: a. la parte “isolata” che viene indagata, può assumere un diverso significato se si considera nell’ambito comples-

sivo del fenomeno di cui fa parte, in quanto per effetto della scomposizione la singola parte potrebbe “perdere” qualche caratteristica significativa;

b. il processo di additività successiva all’analisi delle diverse parti potrebbe non consentire la ricostruzione dell’entità, come avviene nei casi in cui le parti sono interrelate, e, quindi, non possono essere ricomposte per semplice somma (a differenza di quanto si verifica nell’additività) in quanto occorre la loro combinazione;

c. nel caso indicato alla fine del punto precedente si verifica che il complessivo fenomeno ricostituito per additivi-tà è diverso rispetto al fenomeno inizialmente indagato in quanto in tale evenienza le relazioni esistenti tra le parti e trascurate attribuiscono un maggiore valore al “tutto”.

2.2. Prospettiva costruttivista La prospettiva costruttivista si fonda sul presupposto che la realtà non può essere considerata un’entità “og-

gettiva” indipendente dal soggetto che la esamina. Per i costruttivisti, il ricercatore non solo è un rilevatore delle rappresentazioni mentali che gli individui hanno di se stessi, ma è anche un costruttore della realtà perché la com-prensione contribuisce a creare la realtà.

Riquadro I.7

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Fra gli studiosi che hanno contribuito alla formulazione del costruttivismo, un ruolo fondamentale va rico-nosciuto a Jean Piaget. Egli ha studiato approfonditamente il comportamento dei bambini e, specificamente, la “co-struzione della realtà” nei bambini che lo ha condotto a parlare di “mente costruttrice”. La sua asserzione, semplice ma al tempo stesso rivoluzionaria, è che la conoscenza è un processo, non uno stato: si tratta di un evento di rela-zione tra osservante e osservato.

Piaget ha osservato che ogni soggetto umano seleziona e interpreta attivamente le informazioni che sono presenti nel contesto di riferimento. In tal modo, ogni soggetto umano non può più essere considerato come una mera entità ricevente “passiva”, la sua partecipazione – conscia o inconscia – all’interpretazione dei processi con i quali entra in relazione, determinano un suo contributo alla “costruzione” del processo. Tanto maggiore è lo svilup-po del suo sistema cognitivo, tanto più significativo è il ruolo svolto nella costruzione del processo di cambiamento.

Un altro importante contributo ascrivibile a Piaget riguarda l’evidenziazione del fatto che l’esperienza subi-sce sempre un passaggio attraverso il filtro dei sistemi di comprensione posseduti in quel momento: ciò implica che la mente – svolgendo un ruolo di filtro e, quindi, di selezione e interpretazione –non può essere assimilata ad una macchina fotografica che ritrae fedelmente la realtà.

È negli anni ’40 che il biologo Ludwig von Bertalanffy propone la Teoria generale dei sistemi con il propo-sito di sviluppare principi applicabili a qualsiasi tipo di sistema. Egli considera il positivismo come una metodolo-gia dannosa per la comprensione della realtà essenzialmente costituita da sistemi, cioè da entità dinamiche basate sulle relazioni.

Molti altri studiosi hanno contribuito a superare la visione classica del metodo scientifico, cioè a considera-re, più opportunamente, la realtà non come indipendente da colui che la osserva ma come una partecipazione attiva alla sua costruzione. Tra i tanti si possono citare Norbert Wiener e la teoria cibernetica; Heinz von Foester quale fondatore della cibernetica di secondo grado; Humberto Maturana e Francisco Varela con i loro studi di approfon-dimento dei meccanismi che regolano i sistemi viventi; e, ancora, il filosofo Ernst von Glaserfeld, il sociologo Ed-gar Morin, l’antropologo Gregory Bateson, lo psicoterapeuta Paul Watzlawick, i filosofi Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti. 2.3. Teoria Generale dei Sistemi

L’approccio per sistemi al management è basato sulla Teoria Generale dei Sistemi. Ludwig von Berta-lanffy, uno scienziato che ha lavorato prevalentemente in fisica e in biologia, è riconosciuto come il fondatore della Teoria generale dei sistemi. Il principale assunto della teoria è che per comprendere compiutamente il funziona-mento di un’entità, essa deve essere considerata come un sistema. Un sistema è un insieme di parti interdipendenti operanti per il raggiungimento di uno o più obiettivi.

La Teoria generale dei sistemi evidenzia che l’insieme di più elementi (sistema) ha “valore” superiore a quello risultante dalla somma dei singoli “valori”: tale maggior valore si denomina “sinergia”. Infatti, lo studio di-stinto delle parti di un sistema non consente di ottenere informazioni sufficienti per ottenere una corretta conoscen-za del tutto: occorre studiare l’integrazione delle sue parti e le interrelazioni con il contesto nel quale è inserita. Al-cuni esempi possono favorire la comprensione di quanto notato.

Se si considera il corpo umano e l’insieme di organi che lo compongono, non si perviene ad una sua ap-prezzabile conoscenza se si analizzano, anche in modo approfondito, i singoli organi senza valutare idoneamente le numerose interrelazioni che tra gli stessi esistono e che fanno assumere all’entità “corpo umano” una configurazio-ne “superiore” e diversa rispetto alla semplice somma delle parti.

Analogamente può dirsi che un albero non è la somma delle sue radici, del suo tronco, dei suoi rami, delle sue foglie, ecc., bensì è la combinazione di tutte le sue componenti. Analoghe considerazioni possono essere effet-tuate per un quadro, per un’orchestra, per un’impresa.

Infine, pare importante sottolineare che l’elemento cardine di tale approccio è il principio di equifinalità: lo stato finale di un sistema può essere il risultato di una o più delle molteplici combinazioni che possono scaturire da condizioni iniziali diverse.

Le parti che costituiscono un sistema vengono indicate con la denominazione di sottosistemi. Le relazioni di interdipendenza che si instaurano tra essi sono rese possibili dall’esistenza di reti di comunicazione che le collegano in modo sistematico e continuo.

Categorie di sistemi Secondo Bertalanffy, le due tipologie basilari di sistemi sono i sistemi chiusi e i sistemi aperti. I sistemi chiusi non sono influenzati e non interagiscono con i loro ambienti. Essi sono per lo più meccanici ed hanno movimenti prede-terminati o attività che possono essere eseguite senza tenere conto dell’ambiente. Un orologio è un esempio di si-stema chiuso. Indipendentemente dall’ambiente, le ruote di un orologio, i meccanismi, e così via possono funziona-re in un modo predeterminato. Il sistema aperto, è continuamente in interazione con il suo ambiente. A integrazione di quanto indicato da Berta-lanffy, pare opportuno richiamare gli studi di Maturana e Varela i quali hanno evidenziato l’esistenza di una chiu-sura operazionale che evita ai sistemi aperti di perdere la loro organizzazione. In tal modo si può rilevare che una pianta è un esempio di sistema aperto, la costante interazione con il suo ambien-te non è indifferente rispetto allo stato dell’esistenza della pianta, ma essa “filtra”, tra gli elementi dell’ambiente, ciò che è utile per la sua sopravvivenza, non “diluendosi” nell’ambiente ma mantenendo inalterata la sua apparte-nenza alla categoria (organizzazione) delle piante.

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A proposito di cibernetica Scienza del controllo e delle comunicazioni

Nel 1947 per impulso di Norbert Wiener e dei suoi collaboratori, le teorie tendenti ad analizzare essenzial-mente il controllo e le comunicazioni furono riordinate in uno stesso campo di studi, al quale si attribuì il nome di cibernetica, derivato dal greco Kibernetes ossia pilota, nocchiero, timoniere. La scelta di questa parola è un riconoscimento del fatto che il primo scritto significativo sui meccanismi “a retro-azione”, è stato un articolo sui regolatori (in inglese: governor) pubblicato da Clerk Maxwell e governor è derivato dalla corruzione latina di gubernator (pilota, nocchiero, timoniere).

Wiener ed il gruppo di scienziati che con lui si erano riuniti per attribuire un nome appropriato al nuovo ra-mo di studi credettero di creare un neologismo, ma in effetti, come ha notato successivamente lo studioso france-se Pierre de Latil, il vocabolo “cibernetica” era già stato usato da Platone, Socrate, Ampère ed era stato inserito anche nelle enciclopedie. Tuttavia fu dal momento della scelta del Wiener che il termine “cibernetica” ebbe una grandissima diffusione e fu accettato da tutti gli studiosi per indicare il moderno campo di indagine riguardante la scienza del controllo e della comunicazione nell'animale e nella macchina. Tale definizione forse poteva esse-re adeguata nel momento della prima impostazione della disciplina, ma risulta parziale e non soddisfacente in relazione allo sviluppo di tali studi. Ciò che si vuol notare è che la definizione del Wiener nella parte estensiona-le o denotativa, che designa gli aspetti del campo d'indagine, appare parziale, cioè indica solo due dei molti cam-pi di riferimento (l'animale e la macchina).

Mantenendo inalterata la parte connotativa della definizione di Wiener e ampliando la parte denotativa per renderla più omogenea rispetto all'evoluzione degli studi intercorsi negli ultimi cinquant'anni, si può considerare la Cibernetica come la scienza del controllo e delle comunicazioni nei sistemi.

Gli studiosi di Cibernetica hanno elaborato alcune teorie di base che si sono dimostrate fondamentali per lo sviluppo di varie altre discipline: ci si riferisce ai concetti di feedback o retroazione, coazione, omeostasi, equili-brio dinamico, scatola chiusa, ecc., i quali, unitamente ad altri strettamente connessi, facenti parte più specifica-mente della Teoria dell'informazione (input, output, messaggio, entropia, ecc.), forniscono una base teorica pro-ficua qualunque sia lo specifico campo di analisi. In particolare, la teoria di comune interesse degli studiosi di Cibernetica è quella della “regolazione”, che studia le proprietà in base alle quali i sistemi risultano dotati di ca-pacità di permanere in equilibrio per il tramite dell'esistenza in essi di forze che siano capaci di contrastare le cause di deviazione.

Quando un sistema si considera cibernetico?

Un sistema si considera cibernetico se ha la possibilità di “regolare” automaticamente il proprio modo d'esse-re e di divenire in base ad un modello prestabilito: se intervengono fattori devianti, fattori che tendono a far as-sumere al sistema caratteristiche o comportamenti differenti da quelli programmati, intervengono altresì automa-ticamente forze di contrasto che impediscono a tali fattori di esercitare nel sistema l'azione deviante. In tal modo il sistema può mantenersi in condizione di stabilità assimilabile allo stato di equilibrio assoluto nei sistemi chiusi e allo stato stazionario (equilibrio relativo) nei sistemi aperti: lo stato di equilibrio assoluto è la condizione in base alla quale il sistema, dopo che la sua entropia ha raggiunto il livello massimo, non subisce modifiche, men-tre lo stato di equilibrio relativo è la condizione in base alla quale il sistema perviene a successive e differenti situazioni di stabilità per effetto del continuo scambio di energia, o informazioni, o condizionamenti con il con-testo del quale fa’ parte.

Il vocabolo entropia indica un “valore”, o “misura della probabilità” del “disordine” che, sulla base del se-condo principio della termodinamica, applicabile notoriamente solo ai sistemi chiusi nel senso di Ludwig von Bertalanffy, tende al valore massimo che, all'atto del raggiungimento, determina nel sistema lo stato di equilibrio definitivo. La forza che contrasta i fattori devianti e consente la condizione di omeostasi si denomina feedback, o retroazione, o controreazione si può schematicamente rappresentare come risulta dalla seguente figura.

Schema elementare di feedback

Riquadro I.8

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nelle sue espressioni economiche, sociali, politiche, culturali, ecc.) che risulta sempre meno agevole individuare ciò che è realmente “interno” o “esterno” all’organizzazione posto che, tra l’altro, tali elementi assumono configurazioni in continua modificazione, anche per effetto dell’interdipendenza sopra richiamata. Cambiamento nelle strategie

Con riferimento a questo aspetto si può fare riferimento ad uno dei più significativi cam-biamenti verificatisi in molte organizzazioni: il passaggio dalla strategia di internalizzazione a quella di esternalizzazione che si manifesta con il ricorso al downsizing, al ricorso a dipen-denti temporanei e part-time, e simili. Una compiuta considerazione della strategia viene pre-sentata in un capitolo successivo.

Cambiamento nelle forme organizzative

In ogni periodo storico è possibile individuare una forma organizzativa prevalente sulle altre. Così, nel primo stadio dello sviluppo industriale la forma più diffusa è stata quella dell’impresa proprietaria con precipua, se non esclusiva, attenzione alla produzione.

Nel corso del tempo, con l’emergere di nuove esigenze, quali quelle dettate dal crescente rilievo dell’attività di distribuzione, è risultato necessario introdurre manager con specifiche professionalità. La forma dell’impresa diventa funzionale, poi divisionale e multi divisionale. Quest’ultima “forma” è stata utilizzata dalle imprese che hanno assunto una grande dimensio-ne (le multinazionali, per esempio).

Non dimenticando che molte grandi organizzazioni (o imprese) hanno successivamente adottato la strategia dell’esternalizzazione che ha, ovviamente, influito sulla forma organizza-tiva, è necessario richiamare l’attenzione sul crescente rilievo dei network che, pur realizzan-dosi sulla base di differenti modelli (alleanze, specifici progetti, ecc.) evidenziano l’emergere di una nuova forma organizzativa, flessibile, che si incentra sulla necessità di “mettere insie-me” differenti competenze e professionalità.

Cambiamento nei componenti delle organizzazioni

Nonostante il notevole cambiamento che ha investito le organizzazioni negli ultimi de-cenni, il “lavoro” non ha perso la caratteristica di componente fondamentale. E ciò, nonostan-te le diverse modalità di svolgimento del lavoro che si sono succedute e che hanno determina-to un maggior rilievo del lavoro in team, un’esigenza di modificazione dello stesso in funzio-ne di specifici progetti, ecc. In altri termini, pur in presenza di maggiore flessibilità e, talvolta,

La “sorgente” è la circostanza che origina la “deviazione” rispetto al programma esistente; la “percezione” della tendenziale deviazione è esercitata per il tramite di specifici “sensori”, che assumono caratteristiche con-nesse con la specifica natura del sistema; il “controllo” consiste nell'accertamento continuo della compatibilità delle condizioni che si verificano con le condizioni previste dal programma e infine la “risposta” è la fonte da cui ha origine il feedback o retroazione in senso stretto, cioè la forza che agisce all'atto dell'accertamento della ten-denziale “deviazione” e impedisce che questa si verifichi. In concreto i feedback assumono varia natura: possono essere costituiti da “potenza fisica”, da contatti elettrici, da stimoli di diverso tipo, da ordini personali di tipo ge-rarchico, da autorizzazioni, ecc. Il sistema omeostatico è evidentemente capace di autocontrollarsi, cioè è dotato dell'attributo della regolazione.

I feedback più complessi si trovano indubbiamente nel corpo umano. Si pensi al significato che assume la sudorazione, ovvero alla funzione degli anticorpi, ovvero alla ricerca automatica di un punto d'appoggio al veri-ficarsi di uno squilibrio del corpo, ecc. Più in generale si può rilevare che ogni azione dell'uomo, da qualunque organo derivi, è continuamente “regolata” al fine di conseguire nel miglior modo l'obiettivo stabilito, secondo un modello che risulta dalla sua consapevolezza.

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indeterminatezza, il ruolo centrale delle professionalità e abilità non è stato indebolito. Ciò che è cambiato è il livello di responsabilità, la maggiore frequenza di lavoro in team, così co-me è cresciuta la presenza di knowledge workers che ha influito all’emergere del cosiddetto appiattimento dei livelli gerarchici.

Cambiamento nella concezione delle organizzazioni

Tenendo ben presenti i cambiamenti fin qui considerati e i più recenti contributi degli studiosi delle organizzazioni, si rileva una crescente concezione relazionale delle stesse. A tal proposito, è stato osservato che “Relational approaches celebrate process over structure, be-coming over being. What is being processed varies greatly. In some versions it is symbols and words, in others relationships or contracts, in still others, assets. But in relational approaches, if structures exist it is because they are continually being created and recreated, and if the world has meaning, it is because actors are constructing and reconstructing intentions and ac-counts, and thereby, their own and others’ identities”6. Per una sintesi delle tappe evolutive delle teorie sulle organizzazioni si veda il successivo Riquadro I.9.

1.3. Elementi identificativi

Nello studio delle organizzazioni è rilevante prendere atto della varietà del fenomeno og-getto di attenzione: nella realtà un’organizzazione è simile solo ad alcune altre organizzazioni.

Fonte: Mary Jo Hatch, Teoria dell’organizzazione. Tre prospettive: moderna, simbolica, postmoderna, Il

Mulino, Bologna, 1999.

Tappe evolutive della teoria organizzativa Studi  di  cultura     Teoria  letteraria     Teoria  post-­‐strutturalista     Architettura  postmoderna     Linguistica     Semiotica     Folclore     Antropologia  culturale     Antropologia  sociale     Sociologia  industriale     Biologia  –  Ecologia     Scienza  politica  

  Sociologia     Ingegneria     Economia                  Primi  del  ‘900                                                Anni  ’50                                                                    Anni  ’80                                                        Anni  ‘90  

 

 Adam  Smith  (1776)   Herbert  Simon  (1945,  1958)   Alfred  Schutz  (1932)   Michel  Focault  (1972,  1973)  Karl  Marx  (1876)   Talcott  Parson  (1951)   Phillip  Selznick  (1948)   Charles  Jencks  (1977)  Emile  Durkheim  (1893)   Alfred  Gouldner  (1954)   Peter  Berger  (1966)   Jacques  Derrida  (1978,  1980)  F.  W.  Taylor  (1911)   James  March  (1958)   Thomas  Luckmann  (1966)   Mikhail  Bakhtin  (1981)  Henri  Fayol  (1919)   Melville  Dalton  (1959)   Clifford  Geertz  (1973)   Jean-­‐François  Lyotard  (1984)  Max  Weber  (1924)   Ludwig  von  Bertalanffy  (1968   Erving  Goffman  (1971)   Richard  Rorty  (1989)  Chester  Barnard  (1938)       William  Foote  Whyte  (1943)   Jean  Baudrillard  (1988)       Paul  Ricoeur  (1981)       Vladimir  Propp  (1828       Roland  Barthes  (1972)       Ferdinand  de  Saussure  (1959)       Kenneth  Burke  (1954)  

Prospettiva  classica  

Prospettiva  modernista  

 

Prospettiva  postmoderna  

 

Prospettiva  simbo-­‐lico-­‐interpretativa    

Riquadro I.9

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Tra coloro che soffermano la loro attenzione su una specifica tipologia di organizzazione vi è una tendenza molto diffusa a dare per scontato che gli assetti e i processi che la caratte-rizzano siano applicabili a molte o alla maggior parte delle organizzazioni; in breve, vi è la tendenza ad estendere i risultati più di quanto sia appropriato da un ambito all’altro”7.

Al contrario, le organizzazioni sono tutte diverse tra loro: non solo presentano rilevanti difformità entità operanti in comparti di attività decisamente diversi, ma si riscontrano diffe-renze – talvolta significative – anche tra organizzazioni operanti nello stesso settore o compar-to di attività.

Gli elementi di difformità emergono non solo dalla particolarità degli elementi fondanti della specifica organizzazione (attività, ruolo dei soggetti umani, risorse, ambiente di riferi-mento, ecc.) ma soprattutto dal fatto che gli elementi presenti in un’organizzazione si combi-nano tra loro per il conseguimento dei fini per i quali è stata costituita. Più specificamente, seppure in due organizzazioni fossero presenti le stesse categorie di elementi, esse differireb-bero significativamente poiché la loro combinazione non assumerebbe la stessa valenza de-terminando, appunto, la specificità di ogni entità. Inoltre, ogni organizzazione è diversamente sensibile al mutamento esterno e si caratterizza per le peculiari relazioni che si instaurano tra gli elementi interni e l’ambiente. A denotare il continuo divenire di ogni organizzazione Kau-fman ha osservato:

Il mondo delle organizzazioni è in perenne subbuglio. Se lo si osserva per un periodo di tempo abbastanza lungo, la configurazione delle organizzazioni cambia come i disegni di un caleido-scopio. Le organizzazioni si espandono, si contraggono, si disgregano, si fondono. Alcune superfici divengono spesse ed opache riducendo gli scambi tra i contenuti interni e l’ambiente esterno, mentre altre si vanificano e permettono un maggior flusso in una o in entrambe le direzioni. Le forme sono alterate. Alcuni processi ristagnano, altri si intensificano. I livelli di attività salgono e cadono. Le orga-nizzazioni si disintegrano e svaniscono mentre altre, a frotte, si formano ed i tassi di nascita e di morte variano continuamente. Nulla resta costante.

Herbert Kaufman (1975)

A motivo della vivacità propria del “mondo delle organizzazioni”, chiunque oggi intera-gisca con un’organizzazione, indipendentemente dalla tipologia di attività svolta, non ha dif-ficoltà a percepire che si trova in relazione con un’entità che presenta caratteristiche – nel suo insieme – certamente non presenti alcuni decenni fa, o solo pochi anni fa.

Tale constatazione fa emergere alcuni importanti interrogativi: È possibile individuare at-tributi caratterizzanti presenti in tutte le organizzazioni? Se si, quali? E, ancora, gli attributi caratterizzanti mantengono la loro validità inalterata nel tempo?

L’individuazione di possibili risposte ai precedenti quesiti è riscontrabile nelle osserva-zioni presentate in precedenza in merito ai motivi che determinano l’esistenza delle organiz-zazioni. Infatti, si ricorda che esse nascono perché i soggetti umani, operando insieme perse-guono fini che singolarmente non sarebbero in grado di raggiungere. Ciò implica che gli attri-buti che sono presenti ed essenziali per ogni organizzazione sono costituiti dalla presenza di una “collettività di soggetti umani” e dall’esistenza di finalità da perseguire. L’esistenza dei precedenti attributi genera la necessità che siano presenti in ogni organizzazione anche speci-fiche risorse tangibili e intangibili per lo svolgimento delle attività, nonché una struttura ade-guata. In termini sintetici si può rilevare che ogni organizzazione è caratterizzata dalla presen-za di elementi distintivi quali: a) stakeholder; b) fini; c) risorse; d) rete normativa e compor-tamentale. Di seguito viene proposta una breve analisi di ciascuno di questi elementi.

1.3.1. Stakeholder

L’individuazione del contributo che i vari soggetti umani sviluppano nei confronti di

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un’organizzazione risulta particolarmente complicata. È anche questo un fatto ascrivibile alle caratteristiche di complessità, incertezza, interdipendenza che sono proprie di questo periodo storico. Infatti, mentre in passato l’attività di molte organizzazioni si sviluppava in uno speci-fico contesto e l’apporto dei soggetti operanti al suo interno e al suo esterno era chiaramente individuabile e distinguibile, attualmente l’interconnessione tra interno ed esterno ha ridotto la possibilità di effettuare distinzioni certe.

Peraltro, seppure fosse individuabile – con le dovute cautele – una differente intensità di coinvolgimento e riconoscimento come “membro dell’organizzazione” da parte di coloro che operano al suo interno, è anche vero che, talvolta, il coinvolgimento, l’apporto e l’identi-ficazione con l’organizzazione di soggetti cosiddetti esterni può risultare non solo importante ma “decisiva” per la sopravvivenza e per lo sviluppo della stessa.

Per tali motivi si considera valida la proposta di Freeman relativamente al modello di sta-keholder, al quale si apporta una modificazione (riscontrabile nella Figura di seguito inserita), cioè l’inserimento all’interno dell’organizzazione dei “dipendenti”, intendendo con tale voca-bolo ogni soggetto qualunque sia il ruolo nel quale svolge la sua attività.

Per Freeman gli stakeholder sono costituiti da “any group or individual that can affect or is affected by the achievement of the organization’s objectives”8.

Il modello degli stakeholder

A denotare la difficoltà di individuazione puntuale degli stakeholder interni ed esterni, si

può citare, a titolo di esempio, il lavoro di Mitchell che ha isolato 27 differenti definizioni di stakeholder tendenti ad individuare i gruppi più rilevanti e quelli meno rilevanti. La difficoltà alla quale si sta facendo riferimento, viene determinata anche dal fatto che i soggetti umani partecipano a più di un’organizzazione, seppure con maggiore o minore coinvolgimento. Scott ha esemplificato la precedente osservazione indicando che “un singolo può essere con-temporaneamente impiegato in un’impresa, iscritto a un sindacato, fedele di una chiesa, affi-

Organizzazione    

Finanziatori

Consumatori

Collettività Altri gruppi

di stakeholder

Fornitori

Dipendenti

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liato a una loggia massonica, militante di un partito politico, cittadino di uno Stato, paziente di uno studio medico, azionista di una o più società, cliente di una enorme gamma di organizza-zioni di vendita al minuto e di servizi”.

In merito a coloro che sono stati indicati come “dipendenti”, pare opportuno evidenziare che, rispetto agli altri stakeholder, essi svolgono un ruolo esclusivo nel contribuire alla deter-minazione dell’identità dell’organizzazione, aspetto senza il quale la stessa non potrebbe esse-re identificata. Inoltre, tale categoria di stakeholder è, di norma, legata all’organizzazione dall’insieme di ricompense che ottengono dalla stessa, considerando il vocabolo “ricompen-se” non riferito esclusivamente alla retribuzione, ma ad ogni altro elemento capace di accre-scere nel singolo soggetto il senso di appartenenza all’organizzazione e che determina appa-gamento delle specifiche aspettative.

Un brevissimo cenno al problema della presunta contrapposizione tra shareholder e stakeholder che Freeman in un recente contributo così esprime: “Dividing the world into «shareholder concerns» and «stakeholder concerns» is roughly the logical equivalent of con-trasting «apples» with «fruit». Shareholders are stakeholders, and it does get us anywhere to try to contrast the two, unless we have an ideological agenda that is served by doing so”.

1.3.2. Fini

Porsi nella prospettiva di affrontare il problema dell’individuazione dei fini dell’organizzazione equivale ad addentrarsi in uno degli argomenti forse più controversi nell’ambito degli studi di economia e di management.

Gli interrogativi sui quali da decenni si confrontano gli studiosi sono riconducibili (con una forse eccessiva sintesi) ai seguenti: Chi stabilisce i fini nelle organizzazioni? Quale fun-zione assolvono i fini?

Un aspetto propedeutico da considerare per affrontare compiutamente il primo quesito ri-guarda il pericolo, che da taluni studi è emerso, di attribuire all’organizzazione la capacità di stabilire i fini. Come Scott ha notato, “in questo modo si reifica l’organizzazione attribuendo-le proprietà antropomorfiche che essa non possiede”. Similmente Cyert e March hanno sotto-lineato che le organizzazioni non hanno fini. Solo i soggetti umani hanno fini e questi sono spesso complessi, ambigui, contraddittori e mutevoli nel tempo. Gli stessi studiosi hanno so-stenuto che i fini di un’organizzazione vengono stabiliti sulla base di una trattativa che coin-volge i membri delle coalizioni dominanti.

Per coalizione si intende un gruppo di soggetti che condividono gli stessi interessi: nell’ambito delle organizzazioni sono presenti varie coalizioni. Ciascuna di queste ultime ope-rerà per affermare i propri fini anche se, di norma, nessuna di esse riuscirà a prevaricare le al-tre. Ciò implica che i fini di un’organizzazione scaturiscono dagli accordi raggiunti tra diverse coalizioni che presentano interessi simili. Scott presenta il seguente esempio: “un gruppo diri-gente, per garantirsi l’obiettivo di una continua crescita, sarà disposto a distribuire determinati dividendi ai suoi azionisti e a pagare determinati salari agli impiegati”.

Nel Riquadro I.10 vengono riportate le motivazioni che, secondo Scott, rendono il con-cetto di coalizione dominante accettabile.

Infine, va segnalata una significativa modificazione che ha interessato e interessa sempre più le organizzazioni: il peso crescente dell’influenza dell’ambiente e dell’incertezza che lo caratterizza che ha determinato un incremento della necessità di competenze specialistiche. Tale circostanza tende a far crescere il numero di soggetti che può influire sull’individuazione dei fini in quanto espressione di una “coalizione” con conoscenze talvolta “esclusive”.

In merito alla funzione dei fini, i contributi sono numerosi e articolati. Si indicano quelli ritenuti più significativi:

a) funzione cognitiva: consentono di individuare linee di azione alternative e scegliere

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fra esse9; b) funzione di identificazione e motivazione dei soggetti umani10; c) funzione ideologica per mezzo della quale acquisire risorse dall’ambiente11.

Motivi di accettazione del concetto di coalizione dominante

Evita il problema della reificazione: individui e gruppi hanno propri interessi e viene specificato il processo per mezzo del quale queste preferenze giungono a imporsi.

Anche se ammette che i singoli possano specificare gli obiettivi dell’organizzazione, non presume che essi siano tutti alla pari né che i singoli partecipanti abbiano obiettivi comuni. Anche se gli individui possono imporre fini all’organizzazione nella maggior parte dei casi, nessun singolo individuo è abbastanza influente da poter determinare tutti i fini dell’organizzazione. Ne deriva che i fini dell’organizzazione sono distinti da quelli di ciascuno dei partecipanti. Ammette la presenza di differenze di interessi tra i partecipanti: alcune di queste differenze (anche se non tut-te) possono essere risolte con un accordo e quindi in ogni momento i fini possono essere contraddittori.

Riconosce che le dimensioni e la composizione della coalizione dominante possano variare da un’organizzazione all’altra e all’interno della stessa organizzazione in tempi successivi.

Fonte: W. R. Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985. Pare opportuno osservare che le funzioni di cui ai punti b) e c) evidenziano proprietà

emotive dei fini, sia per gli stakeholder interni che esterni: ovviamente tali enunciazioni dei fini risultano insoddisfacenti per coloro che ne considerano in primis la funzione cognitiva.

1.3.3. Risorse

Le risorse costituiscono l’insieme di fattori di cui le organizzazioni hanno necessità per poter realizzare la propria missione. In una prima approssimazione, si può effettuare una di-stinzione tra risorse materiali e immateriali, intendendo con le prime l’insieme dei beni e ser-vizi e, con le seconde, il sistema delle capacità esprimibili dai soggetti umani.

Una considerazione distinta merita la risorsa “tecnologia” in quanto presenta sia aspetti riconducibili all’ambito materiale (gli elementi hard riscontrabili nei macchinari per il proces-so di produzione) che a quello immateriale (l’elemento soft che consente ai citati macchinari di svolgere attività non possibili in assenza di tecnologie avanzate).

Rispetto alle risorse immateriali ci si riferisce al sapere dei soggetti umani nelle sue espressioni di sapere cognitivo, sapere professionale e sapere relazionale, ma anche alla crea-tività, al ruolo delle emozioni e della motivazione. Su ciascuno di tali aspetti, a motivo del ruolo che svolgono nelle organizzazioni e, in specie nelle imprese, ci si soffermerà in una par-te successiva del testo.

Qui pare opportuno richiamare l’attenzione sulla frase di Meyer e Rowan sopra inserita

che sottolinea l’esigenza di sviluppare una particolare attenzione rispetto all’acquisizione del-

Riquadro I.10

Meyer  e  Rowan  discutendo  a  propo-­‐sito   delle   risorse   riepilogano   in  que-­‐sto  modo:   “dopotutto,   i  mattoni  per  fare   le  organizzazioni   sono   sparsi   in  giro  nella   società;   ci   vuole  un  po’   di  energia   imprenditoriale   per  metterli  insieme  e  farne  una  struttura”  

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le risorse. Infatti, solo con un atteggiamento teso a cogliere tutte le opportunità che si presen-tano, spesso in modo disordinato nell’ambiente, si può “costruire” un ‘organizzazione capace di sopravvivere e svilupparsi con l’aggiunta di sempre più adeguati “mattoni” per essere co-stantemente in sintonia con l’evoluzione dinamica che caratterizza e caratterizzerà ancora per molto tempo gli ambienti di ogni entità.

1.3.4. Rete normativa e comportamentale

L’analisi degli aspetti “strutturali” di una collettività, quindi di un’organizzazione, può essere effettuata individuando una componente normativa e una componente comportamenta-le. La componente normativa è costituita dall’insieme di valori, norme e ruoli (Riquadro I.11). Scott sottolinea che “i valori, le norme e i ruoli non sono distribuiti a caso, ma sono organiz-zati in modo tale da costituire un insieme, relativamente compatto e coerente di credenze e di prescrizioni che governa il comportamento dei partecipanti. È per questa ragione che parliamo di struttura normativa”.

La componente comportamentale si riferisce ai comportamenti effettivi dei soggetti uma-ni nelle organizzazioni e, più esattamente, alle attività, alle interazioni e ai sentimenti12.

Concetto di valori, norme e ruoli Valori - Criteri utilizzati per scegliere i fini del comportamento

Norme - Rappresentano le regole generali che governano il comportamento e che specificano, in parti-colare, i mezzi appropriati per perseguire i fini

Ruoli - Rappresentano le aspettative o i criteri di valutazione utilizzati per giudicare il comportamento di coloro che occupano una determinata posizione sociale

Fonte: Elaborazione di elementi tratti da Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985.

Efficacemente Scott scrive: “la struttura normativa e la struttura comportamentale di un gruppo sociale non sono né indipendenti né identiche, ma sono in misura maggiore o minore interrelate. La struttura normativa impone un insieme importante di limiti alla struttura com-portamentale, formando e incanalando il comportamento e contribuendo a spiegare gran parte delle regolarità e dei modelli che ritroviamo. D’altro lato, gran parte del comportamento si di-scosta dalla struttura normativa ed è, a sua volta, una fonte importante di miglioramenti e di mutamenti per tale struttura. Il comportamento forma le norme, così come le norme formano il comportamento”. E, ancora, “Tutti i gruppi sociali – o collettività, per usare un termine più generale – si caratterizzano per una struttura normativa applicabile ai partecipanti e per una struttura comportamentale che li lega in una comune rete o modello di attività, interazione, sentimenti. Queste due strutture interrelate tra loro compongono la struttura sociale di una col-lettività”. […].

“Sottolineare l’importanza della struttura sociale delle organizzazioni non ci porta a con-dividere il punto di vista di chi sostiene che i rapporti tra i partecipanti siano sempre «rose e fiori»; la struttura sociale non postula l’armonia sociale: il conflitto è sempre possibile e nor-malmente presente tra i partecipanti ad ogni struttura sociale. Sottolineare la struttura sociale ci permette di vedere quanta parte del conflitto presente nell’organizzazione è «modellata» cioè dipende dalla struttura dei rapporti tra gli individui e i gruppi e non è dovuta alla aggres-sività innata dei singoli partecipanti. Non solo le tensioni e lo stress, ma anche la devianza e il mutamento possono spesso essere attribuite a fattori strutturali.

La struttura sociale di un’organizzazione varia a seconda che sia più o meno formalizzata. Una struttura sociale formale è quella in cui le posizioni sociali e i rapporti tra di esse sono state esplicitamente specificate e sono definite indipendentemente dalle caratteristiche perso-

Riquadro I.11

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19    

nali di coloro che occupano quelle posizioni. Al contrario, in una struttura sociale informale è impossibile distinguere tra le caratteristiche delle posizioni e quelle di coloro che le occupano. In una struttura informale, quando i singoli vengono a far parte del sistema o lo abbandonano, i loro ruoli e i rapporti che intrattengono si sviluppano e mutano in funzione delle caratteristi-che personali e delle interazioni che si vengono a creare”.

1.4. Verso una definizione di organizzazione

Sulla base di quanto contenuto nei punti precedenti, emergono chiaramente alcuni attribu-ti delle organizzazioni che possono essere sintetizzati nel modo seguente: a. “natura di sistema che implica l’esistenza di unità parziali e di interazioni tra di esse; b. chiusura operazionale o integrazione interna (Riquadro I.12) e dinamicità; c. collettività di partecipanti, che al limite può essere costituita da due sole persone, le quali

non necessariamente si basano sugli stessi interessi e convergono sulle stesse finalità, ma operano solo dopo aver realizzato un processo di negoziazione (esplicito o implicito), o dopo che uno o più partecipanti è riuscito a compiere un’imposizione nei confronti degli altri;

d. fini e regole di funzionamento, che siano espliciti o impliciti, definiti o indefiniti”13 Pertanto, pur nella consapevolezza che una definizione non può che fare riferimento agli

aspetti più rilevanti trascurandone altri che pure sono presenti, si adotta la seguente ipotesi de-finitoria: l’organizzazione “è una collettività di soggetti umani che operano insieme per il raggiungimento di specifici obiettivi”.

Operational closure (…) the nervous system can be characterized as having operational closure. In other words, the nerv-ous system’s organization is a network of active components in which every change of relations of ac-tivity leads to further changes of relations of activity. Some of these relationships remain invariant through continuous perturbation both due to the nervous system’s own dynamics and due to the inter-actions of the organism it integrates. In other words, the nervous system functions as a closed network of changes in relations of activity between its components.

H. Maturana e F. Varela, The tree of knowledge, Shambhala, Boston & London, 1998.

1.5. Tipologie di organizzazioni

Nonostante nel punto precedente l’attenzione si stata indirizzata alla presentazione e all’analisi di un sistema di elementi caratterizzanti le organizzazioni, è agevole constatare – anche da parte di soggetti non “esperti” – l’esistenza di una notevole varietà di organizzazioni. Molti studi sono stati realizzati nel tentativo di formulare una congrua classificazione delle organizzazioni, ma la loro varietà è talmente elevata che il compito è ascrivibile all’ambito delle utopie.

Ciò che, al contrario, è realistico, proprio avvalendosi sia degli elementi comuni sopra presentati così come di altri studi che hanno effettuato ulteriori approfondimenti, è la possibi-lità di constatare l’esistenza di “insiemi” di organizzazioni (Riquadro I.13) caratterizzate da elementi comuni: - le associazioni; - le imprese; - le organizzazioni pubbliche di servizio; - la pubblica amministrazione.

- Si ritiene utile richiamare l’attenzione sul fatto che “lo schema di classificazione deb-ba «guardare lontano»: una tipologia non è un punto di arrivo, ma un punto di parten-

Riquadro I.12

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za, e il criterio per valutare ogni tipologia è dato dalla chiarezza e dall’interesse delle previsioni che essa produce”.

Le tipologie di organizzazioni Associazioni - Sindacati, partiti politici, club, ordini professionali, ordini religiosi, ecc.

Imprese - Imprese di produzione, commerciali, di consulenza, di servizi, ecc., banche

Organizzazioni pubbliche di servizio – Enti assistenziali, ospedali, scuole

Pubblica amministrazione - Enti statali, esercito, dipartimenti di polizia, enti di ricerca, prigioni

Fonte: Elaborazione di elementi tratti da Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985. Né meno importante è il fatto che, nella realtà, sono ampiamente diffuse tipologie di or-

ganizzazioni miste che difficilmente si prestano ad un’agevole e certa classificazione. Tra l’altro, specifici studi hanno teso ad evidenziare l’influenza sulle forme organizzative di fatto-ri quali il periodo storico, le caratteristiche ambientali dominanti, le innovazioni tecniche. Una esemplificazione è riportata nel Riquadro I.14.

Scott osserva che “la tipologia si basa su un approccio evolutivo che enfatizza le origini delle diverse forme organizzative e presume che vi sia un generale spostamento verso forme «di ordine superiore». Infine ed è la cosa più importante ai nostri fini, l’approccio riconosce il carattere di sistema aperto delle organizzazioni costruendo tipi che tengono conto delle inter-relazioni delle organizzazioni con i loro ambienti. La diversità ambientale è vista come la fon-te della varianza organizzativa e la tipologia è costruita in modo da rendere chiaro questo nes-so”.

Riquadro I.14 Organizzazioni e influenza ambientale

Periodo Era Caratteristica

ambientale dominante

Innovazioni tecniche

Forme organizzative

1940-1970 R&D Organizzazioni orientate al prodotto

Mutamento tecnico Innovazioni e diver-sificazione del pro-dotto

Forme organiche Griglia, forme a ma-trice

Organiche Matriciali

1900-1940 Catena di montag-gio

Interdipendenza dei posti di lavoro

Coordinamento se-quenziale

Sequenziali

1700-1900 Macchine a vapore Grandi fabbriche molte operazioni

Coordinamento dei posti di lavoro

Fabbriche

1500-1700 Rivoluzione tessile Combinazione di molte unità familiari in industrie basate sul lavoro a domici-lio

Coordinamento di molte unità che non sono sotto lo stesso tetto

Tessili

2100-1500A.C. Dinastie pre-Babilonesi

Debolezza dinastica Mediazione della interdipendenza: le-gittimazione utilita-ristica

Commerciali

2900-2100A.C. Prime dinastie della Mesopotamia

Minacce di guerre Mediazione dell’interdipendenza: legittimazione coer-citiva

Palazzi

Fonte: Elaborazione di elementi tratti da Scott, Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1985.

Riquadro I.13

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I.2 – Insostituibile ruolo dell’impresa

Così come noi consideriamo la scuola il luogo in cui si in-segnano cose che vanno oltre il leggere e il fare di conto, così consideriamo la fabbrica come sede di un addestra-mento che va oltre le nozioni fondamentali di tecnologia e delle abilità necessarie alla produzione industriale. Conce-piamo la fabbrica come un’organizzazione simile a una scuola per quanto riguarda l’apprendimento dei valori, de-gli atteggiamenti e degli stili di comportamento più adatti alla vita nella società moderna. Inkeles (1969)

2.1. Impresa: entità molto diffusa, ma anche realmente conosciuta? Domandarsi oggi cosa è un’impresa può sorprendere gli osservatori meno attenti i quali

possono supporre che “ormai tutto è stato detto”. In realtà, analizzare e porsi nella prospettiva di comprendere oggi l’impresa richiede

l’utilizzazione di “lenti” completamente diverse, non tanto rispetto a 100 anni fa – il che appa-re fin troppo ovvio – quanto rispetto ad un arco temporale di pochi anni.

Ciò che induce a supporre che il “mondo delle imprese” sia oramai completamente cono-sciuto è in parte determinato dal fatto che è cresciuta notevolmente la “familiarità” con tale tipologia di organizzazione, tanto che ognuno pensa di averne ampia e compiuta conoscenza.

La realtà è molto diversa: è vero che numerosissimi sono gli studi, le ricerche empiriche che affrontano i più vari e meno evidenti aspetti delle imprese, ma è anche vero che i contesti nei quali operano tali entità sono decisamente più complessi rispetto al passato, i consumatori sono più attenti e preparati, così come i fornitori sono sempre più sovente ubicati in ambiti anche molto lontani rispetto a quello dell’impresa, e vari altri simili aspetti che influiscono sull’impresa e sul suo modo di essere che è tutt’altro che scontato e semplice da conoscere e analizzare.

Sono necessarie nuove modalità interpretative per mezzo delle quali acquisire elementi cognitivi e operativi per una migliore comprensione e capacità di intervento in esse.

Ciò non toglie che i contributi di alcuni studiosi che costituiscono “pietre miliari” nel percorso di avanzamento degli studi economici, prima, e più specifici di management, poi, siano ancora oggi fondamentali per la comprensione della nascita e dello sviluppo dell’impresa.

2.2. Una sfida sempre attuale: formulare un’unitaria teoria dell’impresa

Nel ribadire che non possono essere disattesi i contributi che nel corso dei decenni si so-no susseguiti nell’importante ricerca della comprensione della natura dell’impresa e di una possibile definizione, non si può non osservare che ora, nel terzo millennio, le condizioni so-no così mutate da rendere meno significative alcune delle ricordate teorie. È sufficiente ri-chiamare il rilievo che assumono la complessità, l’incertezza, la dinamicità, per posizionarsi immediatamente in un contesto di analisi che niente ha di analogo a tempi anche relativamen-te recenti.

Interrogarsi sulla natura dell’impresa oggi, richiede la percezione degli aspetti contingen-ti, con la quasi certezza che non saranno gli aspetti di domani. Pertanto, l’interpretazione non può che essere effettuata avvalendosi di una metodologia che per la sua notevole flessibilità possa essere valida anche in presenza di repentini e imprevedibili (quasi traumatici!) cambia-menti: l’approccio per sistemi, precedentemente indicato, pare idoneo a tal fine.

Le imprese, seppure non con la configurazione che presentano ai giorni nostri – non è esagerato affermare – sono sempre esistite. Se con l’immaginazione si cerca di proiettarsi nel

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mondo preistorico, non è difficile pensare di imbattersi in soggetti che, specialisticamente, svolgevano alcune attività – per esempio, la “fabbricazione” di coltelli o lance – da “vendere” o, meglio, “barattare” con altri prodotti.

Più evidente è la presenza delle imprese nella fiorente civiltà romana e poi ancora nei se-coli successivi, seppure con alterne vicende.

L’introduzione di macchinari nelle fabbriche tessili ha dato avvio alla cosiddetta rivolu-zione industriale e ha segnato l’avvento della “impresa moderna”. Non vi è dubbio che da quegli anni ad oggi molti cambiamenti si sono verificati all’interno delle imprese, così come negli ambienti nei quali operano. Tali cambiamenti hanno interessato anche lo sviluppo delle teorie che hanno ad oggetto tali entità.

Pur avendo l’impresa – come entità operativa – una “storia” le cui radici affondano in un lontano passato – solo nel 1937, con il contributo dell’economista Ronald Coase si è indivi-duata una possibile risposta alle motivazioni della sua esistenza.

La risposta di Coase – rivoluzionaria per il periodo storico nel quale è stata proposta – è la seguente: “l’impresa esiste perché esistono costi per l’uso del mercato”. Questa intuizione ha costituito e costituisce una pietra miliare per lo studio delle organizzazioni da parte degli economisti, e non solo.

A motivo della dinamicità, incertezza, turbolenza che ha investito e sempre più investe ogni ambito sociale, culturale, tecnologico e della crescente esigenza di interdisciplinarità scientifica per affrontare la complessità, da alcuni anni si è sviluppata una crescente – e, tal-volta, affannosa – attività di ricerca scientifica con l’intento di pervenire alla formulazione di Teorie capaci di ricondurre ad unità i vari fenomeni. Non meraviglia il diffuso fallimento di tali tentativi che costituiscono una contraddizione in termini. Come si può ricondurre ad unità – seppure teorica – una realtà multivariata come quella attuale? È ciò è vero sia che si parli di imprese o di non profit organization, o di qualsiasi altra tipologia di organizzazione.

Mentre lo sviluppo degli studi da parte degli economisti si è sviluppato dopo breve tempo

dall’intuizione di Coase, gli studiosi di management e, segnatamente di strategia, hanno svi-luppato tale interesse in tempi più recenti. Ci si può riferire, per esempio, alle Knowledge theories14 e alla Dynamic Transaction Costs15.

In realtà ciascuna delle teorie, sia inerenti l’ambito economico che di management, af-fronta e sviluppa uno specifico aspetto, incrementando il frazionamento degli studi. È anche per questo motivo che è sempre più forte la consapevolezza dell’esigenza di pervenire ad una loro integrazione. Il problema che si pone è: come? Talvolta le contrapposizioni tra studiosi – in questo caso economisti e studiosi di strategia – sono più da addebitare ad una incompren-sione della terminologia di ciascuna dell’altra parte piuttosto che ad un fondamentale disac-cordo sulla natura del fenomeno oggetto di attenzione.

A tal punto ci si può domandare: quali sono gli elementi cardine di una Teoria dell’impresa? Senza dubbio la spiegazione della sua esistenza e il posizionamento dei suoi confini. Ogni volta che un manager si impegna in una decisione di make-or-buy, sta utilizzan-do (esplicitamente o implicitamente) la teoria dell’impresa16.

Esempi di teorie economiche derivate dal contributo di Coase Teoria dell’agenzia Alchian e Demsetz 1972 Costi di transazione Williamson 1975, 1985 Property Rights and Measurement Costs Barzel, 1989; Cheung 1983 Incomplete Contracts Theory Hart 1995

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Gli studiosi di strategia obiettano agli economisti la propensione ad una visione dell’impresa la cui esistenza è strumentale alla protezione del vantaggio esclusivo degli azio-nisti. Al contrario, gli studiosi di strategia preferiscono focalizzare l’attenzione su apprendi-mento, comunicazione, cooperazione, coordinamento, cioè su processi dinamici che operano adeguatamente all’interno dell’impresa.

Rispetto ad una teoria strategica dell’impresa Foss17 ha osservato che essa può essere ri-condotta a due proposizioni: 1) le imprese esistono perché creano beni specializzati che i mercati non possono duplicare;

beni quali conoscenze condivise, cultura, reputazione, identità, capacità di apprendimento e tacita conoscenza;

2) la nozione di flessibilità. I manager all’interno dell’impresa possono impiegare le risorse velocemente e decidere senza contrattazioni nel mercato al fine di ottenere il risultato volu-to.

Un tentativo di integrazione fra gli approcci degli economisti (maggiore attenzione al mercato) e degli studiosi di strategia (maggiore attenzione all’impresa) viene sintetizzato nel Riquadro I.15.

Riquadro I.15 Integrazione fra gli approcci economici e strategici

Firm Benefits 1. Facilitates knowledge sharing 2. Facilitates social controls 3. Provides flexibility in resource

allocation 4. Gives legal protections incl. lim-

ited liability, property rights 5. Build intangible assets

+

Costs of Using a Market 1. Ex ante transaction costs 2. Ex post transaction costs 3. Dynamic transaction costs

= FIRM

Costs of Using a Firm 1. Co-ordination costs of scale,

scope, and geography 2. Agency costs 3. Cognitive limitations on infor-

mation processing

+

Market Benefits 1. Price acts as a signal of imbal-

ance in demand/supply 2. Price allows superior economic

calculation 3. Freedom to transact with any

agent in the economy 4. Transactions protected under con-

tract law

= MARKET

2.3. Confine dell’impresa

Una compiuta comprensione dell’impresa non può prescindere dall’interrogarsi sull’esistenza e sul ruolo che ha il confine. Si tratta, in altri termini, di evidenziare se e in che modo l’impresa mantiene la propria specificità pur interagendo costantemente con il suo am-biente. O, detto altrimenti, è un’entità correlata o avulsa dal contesto (o contesti) nel quale è inserita? Anche con riferimento a questo aspetto, non pare inutile considerare, da un lato, l’evoluzione degli studi e, dall’altro lato, i caratteri di dinamicità e complessità di questa Era.

Rispetto alle concezioni teoriche tradizionali, è stato rilevato che per esse “l’impresa è una realtà dotata di un confine che la separa nettamente dall’ambiente esterno. Tale prospetti-va è all’origine di due principali interpretazioni in ordine alla direzione del rapporto dell’impresa con l’ambiente: la prima interpretazione attribuisce all’ambiente la capacità di determinare la struttura dell’impresa; mentre per la seconda interpretazione, il soggetto attivo della relazione è l’impresa che struttura il proprio ambiente”18.

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In realtà nessuna delle due interpretazioni può essere considerata adeguata ad una com-prensione del ruolo del confine in contesti sempre più complessi. Pare opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che “Nella categoria generale dei sistemi sociali, alla quale sono ricon-ducibili anche le imprese, la distinzione tra interno ed esterno non dipende da un dato oggetti-vo, ma da un processo di percezione, conoscenza e sperimentazione attraverso il quale le per-sone impegnate nella gestione dei vari processi aziendali creano l’ambiente esterno e le relati-ve distinzioni, mutevoli, per ciascuna impresa e per la stessa impresa, nel corso del tempo”19.

Da quanto appena notato emerge con chiarezza che l’individuazione del confine di un’impresa è strettamente connesso con il criterio adottato. Se a ciò si aggiunge che l’impresa in quanto organizzazione è costituita da una collettività di soggetti umani, cioè ha nei soggetti, sia l’elemento fondamentale di esistenza e di sopravvivenza, sia l’elemento che determina le sue relazioni con l’esterno, risulta evidente che l’individuazione di un confine stabile e chia-ramente percepibile tra l’impresa e l’esterno è pressoché impossibile in quanto le relazioni che i soggetti instaurano nella molteplicità di attività che pongono in essere tendono a creare una quantità non misurabile di “confini”. Ciò potrebbe indurre a supporre che si sviluppi una con-fusione (caos) difficilmente gestibile. In realtà, per una migliore comprensione di queste inte-razioni complesse, viene in aiuto la biologia e, più esattamente, lo studio del ruolo che svolge la membrana rispetto alla cellula. Come hanno sottolineato Maturana e Varela, (Riquadro I.16) la membrana costituisce un elemento di separazione, ma anche di congiunzione e di fil-tro tra l’esterno e l’interno della cellula: tale ruolo del confine impedisce il dissolvimento del-la cellula e favorisce l’acquisizione solo degli elementi utili alla sua sopravvivenza.

Il confine secondo Maturana e Varela Now, what is distinctive about this cellular dynamics compared with any other collection of molecular transformations in natural processes? Interestingly, this cell metabolism pro-duces components which make up the network of transformations that produced them. Some of these components form a boundary, a limit to this network of transformations, in morphologic terms, the structure that makes the cleavage in space possible is called a membrane. Now, this membranous boundary is not a product of cell metabolism in the way that fabric is the product of a fabric-making machine. The reason is that his mem-brane not only limits the extension of the transformation network that produced its own components but it participates in this network. If it did not have this spatial arrangement, cell metabolism would disintegrate in a molecular mess that would spread out all over and would not constitute a discrete unity such as a cell. What we have, then, is a unique situa-tion as regards relations of chemical transformations: on the one hand, we see a network of dynamic transformations that produces its own components and that is essential for a boundary; on the other hand, we see a boundary that is essential for the operation of the network of transformations which produced it as a unity:

Note that these are not sequential processes, but two different aspects of a unitary phe-nomenon. It is not that first there is a boundary, then a dynamics, then a boundary, and so forth. We are describing a type of phenomenon in which the possibility of distinguishing one thing from a whole (something you can see under the microscope, for instance) de-pends on the integrity of the processes that make it possible. Interrupt (at some point) the cellular metabolic network and you will find that after a while you don’t have any more unity to talk about! H. R. Maturana, F. J. Varela, The Tree of Knowledge, Shambhala, Boston, 1998, p. 44-46.

Dynamics  (metabolism)  

Boundary  (membrane)  

Riquadro I.16

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Si può osservare, con le dovute cautele, che la collettività di soggetti umani operanti nell’impresa con i loro ruoli e comportamenti pongono in essere le varie funzioni: di demar-cazione (con la struttura interna dell’impresa e, quindi, con l’individuazione di specifici ruo-li); di congiunzione con le attività di relazione che i soggetti interni all’impresa instaurano con soggetti ed entità esterni: di filtro in quanto sono i soggetti – nella loro attività di interrelazio-ne con l’esterno – che “portano” nell’impresa tutto ciò che ad essa è utile per la sua sopravvi-venza e sviluppo e impediscono che “entrino” elementi negativi o “di disturbo”.

Appare evidente quanto sia fondamentale avere compiuta percezione del ruolo del con-fine sia fondamentale poiché ogni impresa sviluppa un’articolata o complessa rete di relazioni con l’esterno che si concretizza in attività “anche di collaborazione e non semplicemente con-trattuali, sempre più necessarie per l’accesso alle materie prime, alle conoscenze e alle altre risorse possedute dai soggetti ed entità esterne, o che possono essere prodotte dall’impresa «insieme» alle entità presenti nel proprio contesto di riferimento”20.

Da quanto sin qui osservato emerge che ogni impresa ha un proprio confine e che esso è soggetto a continue variabilità in relazione alle configurazioni che, di volta in volta, risultano più appropriate per il raggiungimento del sistema degli obiettivi individuali e colletivi.

2.4. Verso una possibile definizione di impresa 2.4.1. Impresa o imprese?

Rivolgere l’attenzione al “mondo delle imprese”, come notato, significa addentrarsi in una realtà le cui molteplici configurazioni sono, nel contempo, affascinanti e inquietanti. affa-scinanti in quanto la diversità costituisce, di norma, il presupposto per nuove, impensate e im-pensabili scoperte; inquietanti perché risulta immediatamente percepibile la difficoltà di indi-viduare attributi che consentano di ricondurre tali sfaccettature ad una ipotesi di omogeneità.

Inoltre, se si ricorda che l’impresa ha nei soggetti umani il proprio fattore di centralità e che ogni soggetto umano esprime una specifica unicità, risulta evidente l’assoluta specificità di ogni impresa, non solo rispetto al settore di appartenenza e all’ambiente in cui opera, ma anche rispetto a imprese dello stesso settore operanti nel medesimo ambiente. Quanto appena notato influisce anche sulla configurazione della stessa impresa in tempi differenti.

Pertanto, domandarsi se l’attenzione debba essere riservata alla singola impresa o alle imprese rischia di essere quasi non rilevante. In realtà è necessario porre in essere un impegno teso all’evidenziazione dei caratteri di uniformità che accomunano le imprese, sulla base della consapevolezza che l’individuazione dei caratteri di specificità non può che essere effettuato a livello di ogni singola impresa: ciò implica l’impossibilità di qualsiasi individuazione genera-le non contestualizzata.

2.4.2. Elementi caratterizzanti

Come in precedenza osservato, è possibile porsi nella prospettiva di individuare alcuni attributi riscontrabili nella generalità delle imprese, anche se va subito sottolineato che anche tali elementi generali assumono, combinandosi specificamente in ogni singola impresa, inten-sità e configurazioni differenti.

Il primo elemento che pare opportuno richiamare è costituito dal fatto che le imprese appartengono alla fattispecie delle organizzazioni, come evidenziato in precedenza.

Ciò significa che costituiscono elementi caratterizzanti di tutte le imprese gli stakehol-der, i fini, le risorse e la rete normativo-comportamentale anche se nella categoria delle im-prese tali elementi assumono una particolare connotazione.

L’implicazione fondamentale dell’essere una tipologia di organizzazione riguarda il fat-to che l’elemento fondamentale dell’esistenza dell’impresa è costituito dalla presenza dei sog-getti umani. È ad essi che va riconosciuto il ruolo centrale; è da essi che deriva essenzialmente il successo o l’insuccesso dell’impresa. Si ricorda che sono i soggetti umani che individuano i

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fini, che costituiscono – con le loro abilità, conoscenze, professionalità – una risorsa immate-riale inimitabile e che con i loro comportamenti determinano l’identità dell’impresa, la colle-gano all’esterno e la potenziano all’interno.

L’altro elemento peculiare di ogni impresa è costituito dalla mission che riguarda la produzione di beni e/o servizi per il mercato. È la produzione per il mercato che caratterizza l’impresa rispetto a qualsiasi altra tipologia di organizzazione. Sono solo le imprese che inte-ragiscono con le “regole del mercato” e sopravvivono solo le imprese che riescono a posizio-narsi adeguatamente in esso. Interagire con il mercato significa comprendere le esigenze della domanda, valutare le modalità più consone per soddisfarla e comprendere gli orientamenti delle imprese concorrenti presenti nel proprio e in altri ambienti.

Mission di alcune imprese

Dal 1877 Barilla è l’azienda italiana e familiare che interpreta l’alimentazione come un momento conviviale di gioia, ricco di gusto, affetto e condivisione. Barilla propone un’offerta di qualità fatta di prodotti gustosi e sicuri. Barilla crede nel modello alimentare italiano che combina ingredienti di qualità superiore e ricette semplici, offrendo esperienze uniche ai cinque sensi. Il senso di appartenenza, il coraggio e la curiosità intellettuale ispirano il nostro modo di essere e identificano le persone con le quali lavoriamo. Barilla lega da sempre il suo sviluppo al benessere delle persone e delle comunità in cui opera.

The mission of The Walt Disney Company is to be one of the world’s leading producers and providers of entertainment and information. Using our portfolio of brands to differenti-ate our content, services and consumer products, we seek to develop the most creative, in-novative and profitable entertainment experiences and related products in the world

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Le “regole del mercato” sono spietate: l’impresa che non riesce a trovare un giusto equi-librio tra domanda e offerta raramente ha una “prova d’appello” e, in tempi più o meno rapidi, viene espulsa dal mercato. È questo l’elemento che maggiormente consente di identificare le imprese rispetto a qualsiasi altra organizzazione che costituisce il più significativo fattore di uniformità.

In letteratura sono stati indicati anche altri elementi quali, ad esempio, il vincolo di eco-nomicità. È pur vero che un’impresa che non riesce ad ottenere un risultato positivo (ricavi superiori ai costi) ha difficoltà a rimanere nel mercato, ma tale vincolo – con crescente rilievo – riguarda anche altre organizzazioni che, magari, qualche tempo addietro ne risultavano me-no significativamente implicate: ci si riferisce, per esempio, agli enti pubblici. Peraltro, si può notare che il rispetto dell’economicità è implicito anche nell’elemento sopra considerato: un’impresa rimane “nel mercato” se ciò è per lei “conveniente”, cioè ottiene risultati econo-mici positivi.

2.4.3. Obiettivo o obiettivi?

Da oltre un secolo si è sviluppato un dibattito sull’obiettivo dell’impresa che ha sottoli-neato, con alternanza ciclica, talvolta la massimizzazione del risultato per gli shareholders – proprietari dei capitali – tal’altra la centralità dei portatori di interessi (stakeholders).

Il dibattito, ai giorni nostri, è ben lontano dall’essersi esaurito, anzi è riemerso con forza in seguito ai più o meno recenti fallimenti di imprese considerate “di successo” in ogni parte del pianeta.

In realtà, tale dibattito – degno di rispetto – appare, per certi aspetti, sterile. Ciò che tal-volta viene dimenticato, o sottovalutato, è connesso con le mutate condizioni dei sistemi eco-nomici e della complessiva realtà mondiale che richiede, senza dubbio, un nuovo posiziona-mento da parte delle imprese e, ovviamente, una rivisitazione di molte delle concezioni for-mulate nei secoli precedenti e attualmente parzialmente o totalmente inadeguate.

E’ anche da rilevare che l’individuazione dell’obiettivo non è disgiunta dal concetto di impresa che si adotta. Pertanto, se il concetto di impresa adottato è basato sulla centralità dei soggetti umani, cioè nel dare rilievo all’elemento sociale, non vi è dubbio che si configura un’impresa decisamente diversa da quella che poneva al centro la produzione, cioè l’elemento materiale. Risulta evidente che nell’un caso e nell’altro non può esservi compiuta coincidenza di obiettivi o, meglio, nel caso dell’orientamento esclusivo alla produzione e agli aspetti mate-riali, veniva considerato il profitto e la sua massimizzazione come obiettivo primario ed esclusivo dell’impresa. Attualmente, con un forte orientamento sociale, si individua una plu-ralità di obiettivi tra i quali, ovviamente, è presente anche il perseguimento del profitto ma quale fattore strumentale al più generale obiettivo della sopravvivenza che comprende anche attenzione al perseguimento degli obiettivi dei soggetti che operano nell’impresa.

I singoli soggetti hanno loro specifici obiettivi che possono più o meno coincidere con quelli dell’organizzazione, ma sono portati ad agire per conseguire gli obiettivi dell’organizzazione come “mezzo” per raggiungere almeno una parte dei propri obiettivi. Non va dimenticato che ogni soggetto umano è membro di più organizzazioni, una o più delle qua-li “scelta” in quanto idonea a soddisfare i propri obiettivi. Ciò implica che ogni organizzazio-ne può soddisfare una parte di obiettivi individuali o anche nessuna parte.

Pfeffer e Salancik21 considerano le organizzazioni “come ambienti in cui gruppi o singoli individui con differenti interessi e preferenze si trovano riuniti e si impegnano in attività di scambio”. Si conclude questo punto con la seguente frase di Levitt22 (Riquadro I.17) che risul-ta tanto pregnante da non richiedere commenti.

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                                           A proposito del fine della massimizzazione del profitto …….  

“Fino a poco tempo fa, molte aziende avevano un’idea alquanto diversa del proprio scopo. Af-

fermavano semplicemente che era fare soldi. Ma ciò si è dimostrato privo di significato quanto as-serire che lo scopo della vita è mangiare. Mangiare è un requisito, non uno scopo della vita. Senza mangiare, la vita finisce. Il profitto è un requisito dell’azienda. Senza profitto l’azienda cessa di esi-stere”. (T. Levitt)

2.4.4. Definizione

Le considerazioni svolte nei punti precedenti, consentono di pervenire ad una definizione di impresa pur nella consapevolezza che definire l’impresa è un compito decisamente non agevole. Si tratta di un’entità così prossima a ciascun soggetto umano che ognuno suppone di conoscerne appieno le caratteristiche ma, di norma, ne apprezza uno o pochi elementi di spe-cificità, talvolta perché più prossimi alle sue sensibilità o esigenze da soddisfare, tal’altra per-ché in accordo con punti di vista “alla moda” o di successo. Ciò è realistico sia per soggetti “non esperti” che per gli studiosi.

In realtà ogni soggetto può avere la “sua” percezione di impresa e, ciò che è più strabi-liante, è che ciascuno ha una grande probabilità di essere nel giusto! Come è possibile? L’impresa è talmente poliedrica che si presta a molteplici corrette interpretazioni. Ciò che è necessario dal punto di vista della rigorosità dell’analisi è trovare una definizione capace di comprendere le più significative caratterizzazioni che può assumere.

Rispetto alla formulazione della definizione pare opportuno richiamare prioritariamente l’attenzione sul fatto che i concetti sintetici che esse richiedono e consentono, devono essere considerati quali modelli interpretativi e non già quali spiegazioni esaustive del fenomeno.

In tal senso non pare inutile ribadire che la definizione, fornendo il modello attribuibile alla natura dell’impresa, costituisce necessariamente una schematizzazione della realtà la qua-le, comunque e sempre, è ben più complessa, varia e variabile, rispetto a quanto la definizio-ne, qualsiasi definizione, riesca a porre in evidenza.

Da questa, peraltro, ci si può attendere molto e, in particolare, l’evidenziazione dell’elemento o degli elementi ritenuti prioritari o degni di essere posti in evidenza. A ben ve-dere, pertanto, con la proposta della definizione si pone in essere un’attività di attribuzione di priorità che, evidentemente, si connette ai convincimenti di chi presenta la proposta. Solo in questo senso la definizione risulta essenziale: essa, infatti, discrimina tra elementi ritenuti im-portanti ed elementi ritenuti meno importanti e persino trascurabili; essa determina una sche-matica gerarchizzazione tra gli elementi con tutti i limiti che questo modo di procedere com-porta, ma altresì con i vantaggi di evidenziare le priorità.

Al di là di questo contributo, alla definizione non si può “chiedere di più”, proprio perché essa esprime un modello. Anzi è da dire che quanto più si vuole che la definizione sia riferibi-le ad un gran numero di fenomeni, i quali in tema d’impresa, ma non solo in questa, presenta-no spiccati caratteri di complessità, varietà e variabilità, tanto più essa deve essere schematica e forse pure tendenzialmente generica.

In questo campo si pone l’arduo problema della scelta del fenomeno cui riferire la defini-zione. In proposito si possono distinguere varie soluzioni: a) riferirsi al fenomeno ritenuto più frequente rispetto all’universo considerato; b) riferirsi al fenomeno ritenuto paradigmatico, cioè più espressivo (ovviamente in relazione

al sistema di valori anche scientifico-culturali di riferimento); c) riferirsi al fenomeno che esprime in massimo grado gli attributi ritenuti più importanti o

Riquadro I.17

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significativi rispetto ai differenti casi riscontrabili nella realtà; d) riferirsi a tutti i fenomeni componenti l’universo considerato, con l’ovvia conseguenza

dell’assoluta genericità della definizione; e) riferirsi, infine, alle varie classi di fenomeni per mezzo della costruzione di matrici di diffe-

renziazione. Fra tutte queste possibilità la definizione che di seguito si propone, privilegerà quella che

pone in evidenza gli elementi ritenuti più significativi: la scelta è dettata dalla supposizione che in tal modo si possa fornire in massimo grado un contributo interpretativo che, al contra-rio, non potrebbe avere nessun valore se si assumesse una definizione onnicomprensiva e, in quanto tale – è opportuno ribadirlo – oggettivamente generica.

Una proposta interpretativa, che pare pertinente, è quella che fa riferimento prioritario ai soggetti umani operanti nel contesto denominato impresa: in tal caso ci si troverebbe in pre-senza di un’organizzazione, cioè di una collettività di soggetti umani accomunati nell’impegno della produzione di beni e/o servizi per il mercato, con l’ulteriore specificazione che tali soggetti opererebbero in modo sistemico, cioè costituirebbero comunque un sistema.

Pertanto, l’impresa può essere definita come segue:

 

•  L'impresa è un'organizzazione (sistema asperto e dinamico con chiusura operazionale) che produce beni e/o servizi per il mercato

Definizione di impresa

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

Corso di Laurea in Economia e gestione aziendale

A.A. 2014-2015

Appendice

alla Parte I

Cagliari, Marzo 2015

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Quale approccio metodologico per le scienze sociali? 1. Osservazioni preliminari “ 31 2. Dalla prospettiva positivista alla prospettiva costruttivista “ 32

2.1. Prospettiva positivista “ 32 2.2. Prospettiva costruttivista “ 33

3. Teoria generale dei sistemi “ 34 3.1. Introduzione alla Teoria generale dei sistemi “ 34 3.2. Importanti contributi metodologici della Teoria generale dei sistemi “ 35 3.3. Unità globale, unità parziale e insiemi di parti “ 37 3.4. Sistema quale pluralità di unità parziali interdipendenti “ 39 3.5. Sottosistemi e sovra sistemi “ 42 3.6. Tassonomia e classificazione dei sistemi “ 43 3.7. Distinzione tra il sistema e il proprio ambiente: il confine “ 45 3.8. Ordine gerarchico, distorsioni e sub ottimizzazione “ 46 3.9. Complessità “ 47

4. Informazione e comunicazione “ 48 4.1. Segnali e ruolo nei sistemi “ 49 4.2. Comunicazione “ 50

5. Cibernetica “ 52

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Quale approccio metodologico per le scienze sociali? 1. Osservazioni preliminari

Nell’attuale periodo storico si è in presenza di condizioni di cambiamento turbolento e accelerato che influiscono significativamente sui soggetti umani e sulle organizzazioni. Fra le numerose implicazioni che derivano dalla citata condizione risulta di grande rilievo la neces-sità che si realizzi – quale aspetto propedeutico – una puntuale scelta della metodologia di in-dagine di cui avvalersi per la comprensione dei fenomeni in atto, delle problematicità che sca-turiscono nei confronti delle organizzazioni e, quindi, della loro analisi al fine di individuare adeguati interventi.

Se la scelta della metodologia adatta costituisce un problema comune a tutte le scienze, essa assume una pregnanza particolare con riferimento alle scienze sociali e, in quest’ambito alle scienze economiche. Non pare inutile ricordare che l’espressione “scienze sociali” si rife-risce ad un insieme di discipline, eterogenee tra loro, che sono accomunate dalla realizzazione di studi riferiti all’essere umano nel suo complesso e alle sue interazioni sociali. È agevole comprendere che un errore nella scelta della metodologia di indagine può condurre all’evidenziazione di aspetti inutili quando non dannosi.

Numerose sono le metodologie utilizzate nelle scienze in generale, prima, e nelle scienze sociali, poi. In questo ambito si reputa utile soffermare l’attenzione su due prospettive filoso-fiche quali il positivismo (e nel suo ambito il riduzionismo) e il costruttivismo. Si tratta di due filoni di studio particolarmente importanti che hanno dato vita a molteplici metodi di indagine la cui analisi puntuale sula dagli obiettivi di questo scritto. È sufficiente comprendere gli ele-menti cardine delle due prospettive per valutare quale risulta più idonea per consentire l’analisi e la comprensione di una realtà tanto complessa.

2. Dalla prospettiva positivista alla prospettiva costruttivista 2.1. Prospettiva positivista

La prospettiva positivista è strettamente correlata alla trasposizione in ambito sociale dei concetti, delle tecniche di osservazione e di misurazione di strumenti di analisi delle scienze naturali come la fisica, la chimica e la biologia. Dal punto di vista ontologico, la realtà sociale è rappresentata da un dato reale, esterno e indipendente dal ricercatore, al quale è affidato il compito di scoprirla. I positivisti ritengono che la realtà sia scomponibile in fatti e parti ele-mentari e assumono che i comportamenti umani siano governati da leggi deterministiche e generali. Sul piano etimologico, il positivismo si basa su un accentuato dualismo tra ricercato-re e oggetto di analisi, i quali non si influenzano a vicenda. Il ricercatore non deve in alcun modo inficiare la propria obiettività con pregiudizi, emozioni o punti di vista personali e deve operare affinché l’attività di ricerca non condizioni i fatti osservati attraverso eventuali prati-che manipolative. La metodologia di ricerca utilizzata prevede esperimenti, osservazione e di-stacco tra osservatore e osservato, con un processo di tipo induttivo e il ricorso a tecniche quantitative. Gli sviluppi successivi, ossia il neopositivismo e il postpositivismo, tentano di rispondere alle critiche avanzate al positivismo. Sul piano ontologico riconosce l’esistenza di una realtà esterna all’uomo ma non conoscibile in maniera completa. Dal punto di vista epi-stemologico, viene riconosciuto il rapporto di interferenza tra studioso e oggetto di studio, mentre l’aspetto metodologico non muta in maniera sostanziale, anche se viene avvertita un’apertura nei confronti dei metodi qualitativi. I principali esponenti del positivismo sono Durkeim e Comte.

Nell’ambito di questa prospettiva, una sua radicalizzazione è ravvisabile nel riduzioni-smo, cioè nella riduzione della ricerca sociale ad una mera raccolta di dati, misurati e classifi-cati, ma non coordinati tra loro, privi di significative connessioni e incapaci di consentire una conoscenza adeguata dell’oggetto cui si riferiscono.

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Nel riduzionismo il ricorso al linguaggio matematico tende a essere esaltato sia perché ad esso si attribuisce idoneità a “misurare”, compiutamente, la componente elementare, sia per-ché favorisce l’attuazione dell’ultima fase di applicazione del metodo, cioè la fase “additiva”: i risultati dello studio di ogni parte elementare vengono sommati tra loro per ottenere il risul-tato riferibile all’intero fenomeno indagato.

E’ pure da sottolineare il fatto che nella scomposizione dell’entità nelle relative compo-nenti si possono verificare gravi distorsioni, tra le quali le seguenti assumono maggiore rile-vanza negativa e preminenza: a. la parte “isolata” che viene indagata, può assumere un diverso significato se si considera

nell’ambito complessivo del fenomeno di cui fa parte, in quanto per effetto della scompo-sizione la singola parte potrebbe “perdere” qualche caratteristica significativa;

b. il processo di additività successiva all’analisi delle diverse parti potrebbe non consentire la ricostruzione dell’entità, come avviene nei casi in cui le parti sono interrelate, e, quindi, non possono essere ricomposte per semplice somma (a differenza di quanto si verifica nell’additività) in quanto occorre la loro combinazione;

c. nel caso indicato alla fine del punto precedente si verifica che il complessivo fenomeno ri-costituito per additività è diverso rispetto al fenomeno inizialmente indagato in quanto in tale evenienza le relazioni esistenti tra le parti e trascurate attribuiscono un maggiore valo-re al “tutto”.

2.2. Prospettiva costruttivista

La prospettiva costruttivista si fonda sul presupposto che la realtà non può essere consi-derata un’entità “oggettiva” indipendente dal soggetto che la esamina. Per i costruttivisti, il ricercatore non solo è un rilevatore delle rappresentazioni mentali che gli individui hanno di se stessi, ma è anche un costruttore della realtà perché la comprensione contribuisce a creare la realtà.

Fra gli studiosi che hanno contribuito alla formulazione del costruttivismo, un ruolo fon-damentale va riconosciuto a Jean Piaget. Egli ha studiato approfonditamente il comportamen-to dei bambini e, specificamente, la “costruzione della realtà” nei bambini che lo ha condotto a parlare di “mente costruttrice”. La sua asserzione, semplice ma al tempo stesso rivoluziona-ria, è che la conoscenza è un processo, non uno stato. Più specificamente, si tratta di un even-to di relazione tra osservante e osservato.

Piaget ha osservato che ogni soggetto umano seleziona e interpreta attivamente le infor-mazioni che sono presenti nel contesto di riferimento. In tal modo, ogni soggetto umano non può più essere considerato come una mera entità ricevente “passiva”, la sua partecipazione – conscia o inconscia – all’interpretazione dei processi con i quali entra in relazione, determina-no un suo contributo alla “costruzione” del processo. Tanto maggiore è lo sviluppo del suo si-stema cognitivo, tanto più significativo è il ruolo svolto nella costruzione del processo di cambiamento.

Un altro importante contributo ascrivibile a Piaget riguarda l’evidenziazione del fatto che l’esperienza subisce sempre un passaggio attraverso il filtro dei sistemi di comprensione pos-seduti in quel momento: ciò implica che la mente – svolgendo un ruolo di filtro e, quindi, di selezione e interpretazione –non può essere assimilata ad una macchina fotografica che ritrae fedelmente la realtà.

È negli anni ’40 che il biologo Ludwig von Bertalanffy propone la Teoria generale dei si-stemi con il proposito di sviluppare principi applicabili a qualsiasi tipo di sistema. Egli consi-dera il positivismo come una metodologia dannosa per la comprensione della realtà essen-zialmente costituita da sistemi ì, cioè da entità dinamiche basate sulle relazioni.

Molti altri studiosi hanno contribuito a superare la visone classica del metodo scientifico,

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cioè a considerare, più opportunamente, la realtà non come indipendente da colui che la os-serva ma come una partecipazione attiva alla sua costruzione. Tra i tanti si possono citare Norbert Wiener e la teoria cibernetica; Heinz von Foester quale fondatore della cibernetica di secondo grado; Humberto Maturana e Francisco Varela con i loro studi di approfondimento dei meccanismi che regolano i sistemi viventi; e, ancora, il filosofo Ernst von Glaserfeld, il sociologo Edgar Morin, l’antropologo Gregory Bateson, lo psicoterapeuta Paul Watzlawick, i filosofi Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti.

3. Teoria generale dei sistemi

Non è raro che, soprattutto da parte dei teorici, si senta affermare che “l’impresa è un si-stema”. Questa definizione se assunta consapevolmente e in senso scientifico ha notevole im-portanza denotativa. Tuttavia di norma si ha l’impressione che il vocabolo “sistema” si utilizzi come sinonimo di “entità”. In questo caso, evidentemente, la definizione su riportata risulta non solo è priva di significato appropriato ma, addirittura, banale e fuorviante, posto che lo stesso termine “entità” si può utilizzare pure con riferimento a un microbo, a un grattacielo, a uno Stato, a un libro, e così via.

Ancora più erroneo e fuorviante è il caso di uso del termine “sistema” quale sinonimo di “insieme”, che nell’accezione matematica si riferisce a una pluralità di elementi considerati per un carattere comune. Come si precisa in seguito, nel sistema esiste una pluralità di ele-menti, ma esse non necessariamente hanno un carattere in comune, bensì sono in relazione tra loro: a rilevare decisamente nel caso del sistema sono le relazioni.

In tal modo, gli oggetti di studio che risultano costituiti da una molteplicità di elementi, i quali si trovino in condizione di significativa relazione possono essere espressi generalmente per il tramite del termine “sistema” che assume, pertanto, valore paradigmatico. È pure vero che la natura dell’oggetto considerabile quale sistema richiede l’utilizzazione di canoni di analisi e interpretazione ben precisi, i quali vengono individuati e indicati con precisione dalla “Teoria dei sistemi”.

Le precedenti considerazioni implicano, direttamente, che chiunque voglia conoscere e interpretare compiutamente un’impresa deve avvalersi della “Teoria dei sistemi” cioè quel complesso di conoscenze e di metodi di analisi e interpretazioni che, nel secolo scorso, ha avuto molteplici fautori e, in particolare ha trovato in Ludwig Von Bertalanffy lo studioso che forse maggiormente ha contribuito all’affermazione di tale Teoria.

L’espressione utilizzata per indicarla evidenzia direttamente che si tratta di una Teoria applicabile in vari campi scientifici. Tra questi “campi” si annovera di certo anche la Teoria dell’impresa, la quale rientra nell’ambito delle Scienze sociali.

I risultati positivi dell’utilizzazione della Teoria dei sistemi sono stati di certo notevoli, tanto che si riconosce generalmente che essa ha avuto una funzione importante per la proficua evoluzione del pensiero scientifico e delle connesse implicazioni pratiche.

3.1. Introduzione alla Teoria generale dei sistemi

Nella configurazione assunta sulla base del fondamentale contributo di L. Von Berta-lanffy, la Teoria dei sistemi era considerata secondo i seguenti tre aspetti: 1) come scienza dei sistemi quale ricerca e teorizzazione scientifica rivolta ai sistemi,

all’interno delle varie scienze (ad esempio, la fisica, la biologia, la psicologia, le scienze sociali) e della Teoria generale dei sistemi intesa come una dottrina dei principi applicabili a tutti i sistemi;

2) come tecnologia dei sistemi, relativa ai problemi che sorgono nella tecnologia e nella so-cietà moderna diviso in “hardware” dei calcolatori, dell’automazione, dei dispositivi auto-regolantisi, ecc., e “software” dei nuovi sviluppi e delle nuove discipline in campo teorico;

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3) come filosofia dei sistemi, un intesa quale nuovo orientamento di pensiero e dell’elaborazione di un’immagine del mondo derivata dall’introduzione del “sistema” in-teso come paradigma scientifico, opposto al paradigma caratteristico della scienza classica quello analitico, meccanicista dotato di una causalità unidirezionale. Questa filosofia ri-chiede, approfondimenti epistemologici e induce ad affrontare le tematiche concernenti i rapporti tra l’uomo e il mondo. Quanto notato consente di affermare che la Teoria dei sistemi non può essere introdotta

integralmente all’interno di una sola disciplina, così come risulta incongruo pretendere di tra-slare tutte le molteplici indicazioni della citata Teoria in ognuna delle Scienze sociali e, quin-di, nell’Economia e gestione delle imprese.

Pare pure opportuno sottolineare quanto segue: a) l’elemento fondamentale della proposta scientifica di L. Von Bertalanffy è costituito ap-

punto dal “sistema”, quale entità sulla quale ci si sofferma nelle pagine seguenti; b) il relativo “programma scientifico” ha l’elemento fondamentale nell’esigenza di indivi-

duare “leggi” di uniformità che superino le distinzioni basate sulla specificità e indichino un “campo generale” di riferimento, concernente ogni categoria di sistemi. E’ soprattutto, l’elemento di cui al punto a) che ha favorito sviluppi scientifici in vari

campi di ricerca e la sua fertilità scientifica si manifesta in modo progressivo. Il “programma scientifico” di cui trattasi si è imperniato in particolare sull’esigenza di adattare la metodolo-gia scientifica alla crescente frantumazione e articolazione del sapere, anche in relazione all’affermazione della complessità della realtà, cresciuta progressivamente.

In merito all’eccessiva articolazione del sapere è rilevante notare che nella Scienza mo-derna negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, si è verificata una proliferazione di discipline i cui connotati erano così tanto specialistici da risultare ben presto sterili o, comun-que, non suscettibili di conservare a lungo distinzione scientifica rispetto alle discipline colla-terali.

Non è casuale che, data tale situazione, talune delle discipline, che allora si pretendeva fossero autonome, non hanno resistito alla prova del tempo e sono diventate parti di discipline più generali. Tra le discipline che, al contrario, hanno “resistito” si segnalano, in particolare, la Teoria dei sistemi, la Ricerca operativa, la Teoria dell’informazione, la Cibernetica. E’ pure utile tenere conto del fatto che nel contesto scientifico ricco di nuove proposte teoriche, che allora esisteva, taluni campi di studio si sovrapponevano o, comunque, avevano punti di con-vergenza. In tal modo, si potevano ingenerare convincimenti erronei di integrazione reciproca di talune discipline e concetti. Un caso tipico, a questo proposito, può essere individuato nell’accostamento che ancora perdura tra Teoria dei sistemi e Cibernetica, ancorché si tratti di discipline diverse.

Effetto altrettanto negativo dell’indicata articolazione disciplinare è stata la tendenza alla “chiusura” degli scienziati nei rispettivi campi di analisi che venivano protetti da reciproche ingerenze per il tramite di linguaggi e metodi esclusivi o incompatibili.

In tale situazione risultava oggettivamente utile abbandonare l’indicata tendenza ed anzi operare in senso opposto: la Teoria generale dei sistemi ha avuto la finalità di porsi quale rea-zione tanto allo sgretolamento del sapere quanto al riduzionismo acritico.

3.2. Importanti contributi metodologici della Teoria generale dei sistemi

In relazione alle modificazioni apportate dalla proposta teorica di L. Von Bertalanffy in campo metodologico occorre premettere che l’unico metodo tradizionalmente e unanimemen-te adottato nella Scienza moderna fino ad allora era il riduzionismo che, si ricorda, consiste nella scomposizione dell’entità nelle sue parti più elementari, nell’analisi di ciascuna di que-ste e nella successiva ricomposizione ad unità delle parti in relazione ai risultati dell’analisi.

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Una prima fondamentale e decisa critica, proposta all’utilizzazione generalizzata del ri-duzionismo, si riferisce alla possibilità di distinguere con precisione le singole parti elementa-ri di ogni entità indagata: mentre ciò può essere opportunamente realizzato per talune entità, non lo può essere per altre.

Sui rischi dell’utilizzazione del riduzionismo si nota che l’applicazione della procedura analitica è possibile a patto che le interazioni tra le “parti” non esistano, o siano talmente de-boli da poter essere trascurate per certi scopi della ricerca. Solo in questo caso le parti posso-no essere analizzate separatamente per poi essere rimesse insieme. E’ necessario pure che le relazioni descriventi il comportamento delle parti siano lineari; in tal modo è possibile che l’equazione che descrive il comportamento del complesso abbia la stessa forma delle equa-zioni che descrivono il comportamento delle parti permettendo che i processi parziali vengano sovrapposti per ottenere il processo complessivo, ecc

Una seconda fondamentale contestazione al “metodo riduzionista”, quale unica modalità da utilizzare nella ricerca scientifica, si riferisce all’incongrua supposizione che l’entità consi-derata non subisca effetti rilevanti dal contesto esterno.

Questa supposizione si può esprimere sinteticamente notando che l’entità analizzata deve risultare isolata dal suo esterno, ovvero deve disporre di confini tali da costituire sbarramenti inaccessibili che preservino l’entità da interferenze esterne.

E’ intuitivo (ed è di comune verifica) il fatto che l’indicata supposizione può valere per certe entità ma non per altre e, più in generale, la sua validità è connessa con le finalità della ricerca scientifica, nel senso che le interferenze esterne, esistenti nei casi di entità non isolata, possono opportunamente considerarsi irrilevanti per taluni scopi scientifici ma non per altri. In particolare nel campo delle Scienze sociali, è norma che le interferenze esterne siano rile-vanti e, quindi, non consentano di attribuire congruità ai metodi scientifici che trascurino la loro esistenza.

La proposta di L. Von Bertalanffy ha consentito di porre l’accento sulla categoria dei “si-stemi aperti”. In questo aspetto risiede una delle sue implicazioni più importanti in quanto, è facile notare come la scienza classica, nelle sue varie discipline (Chimica, Biologia, Psicolo-gia, ecc.), tentava di isolare gli elementi dell’universo tentando di rimetterli insieme concet-tualmente e sperimentalmente, per ottenere il complesso. La Teoria dei sistemi ha consentito di rilevare che per comprendere un sistema non è sufficiente conoscerne gli elementi.

Un altro presupposto e fondamento originario della Teoria generale dei sistemi concerne il fatto che, prima della sua affermazione, la Scienza postulava, in modo pressoché unanime, la tesi in base alla quale lo “stato finale” di ogni fenomeno è univocamente determinato dal suo “stato iniziale” e dalle regole che indirizzano il passaggio dall’uno all’altro. Pertanto, ”lo stato finale” risulta predeterminabile solo se si conosce lo “stato iniziale” e se vengono “con-servate” le regole del suo sviluppo. D’altro canto, dallo “stato iniziale” indicato, se non ven-gono modificate le “regole” del suo sviluppo, può derivare esclusivamente un determinato “stato finale”.

Nei sistemi aperti - per definizione - il contesto esterno può originare fattori di modifica-zione e instabilità e, persino, di reversibilità del processo indotto dall’entropia, nel senso che questa può assumere valore negativo per effetto delle relazioni che il sistema intrattiene con il proprio contesto esterno.

Evidentemente, quindi, nei sistemi aperti non operano “regole” di sviluppo univoco del fenomeno indagato dallo stato iniziale allo stato finale: quest’ultimo si può ottenere sulla base di stati iniziali differenti. È anche vero che uno stato finale può essere differente da quello che ci si sarebbe potuti attendere in relazione allo stato iniziale e alle regole di sviluppo inizial-mente definite.

In altri termini, può affermarsi che, se il sistema è aperto, il suo “stato finale” non dipen-

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de necessariamente (né unicamente e univocamente) dal suo stato iniziale, così come è vero che da un determinato stato iniziale possono scaturire differenti stati finali, in relazione a dif-ferenti circostanze che possono influire nel passaggio dallo stato iniziale allo stato finale.

Nei casi in cui non sia necessariamente applicabile la legge di “passaggio” e “sviluppo” dallo stato iniziale allo stato finale, propria del determinismo, si applica il principio cosiddetto di “equifinalità”.

La definizione dell’equifinalità proposta da Ludwig Von Bertalanffy è la seguente: “Un sistema di elementi Qi (x, y, z) ha equifinalità rispetto a un qualche sottosistema di elementi Qj, se le condizioni iniziali Qio (x, y, z) possono essere modificate senza modificare il valore di Qj (x, y, z, infinito)”.

Conclusivamente si può ribadire, da un lato, l’enorme importanza che la Teoria generale dei sistemi ha avuto, e, dall’altro lato, la sua significativa evoluzione, la cui espressione più rilevante (almeno rispetto al campo di studi delle Scienze sociali) è costituita dalla perdita del carattere tendenzialmente “olistico” che aveva all’inizio, mentre risulta confermata la sua marcata vocazione non riduzionista.

3.3. Unità globali, unità parziali e insieme di parti

Non pare inutile precisare – a questo punto – quale sia l’oggetto fondamentale della Teo-ria dei sistemi, cioè il “sistema”, a partire dall’iter concettuale della sua individuazione.

E’ certo che il concetto di sistema ha assunto grande attualità in seguito alla notorietà as-sunta dalla Teoria generale dei sistemi di Ludwig Von Bertalanffy. Tuttavia, è da notare che l’utilizzazione a fini teorici o pratici del termine “sistema” non è di certo recente: lo stesso Aristotele aveva coniato la massima il tutto è maggiore della somma delle parti, alludendo a quello che nella teorizzazione del grande biologo sopra citato, sarebbe stato il connotato fon-damentale del sistema.

Come notato in precedenza, il termine “sistema” non ha avuto storicamente sempre la stessa accezione ed ancora oggi è norma che di esso si faccia un uso diversificato e talvolta “disinvolto”: proprio questo è il motivo che rende indispensabile conoscere le corrette basi teoriche del concetto di sistema.

Nella Scienza classica, a partire da Galileo, Newton, Cartesio il sistema per definizione aveva un connotato “chiuso”, cioè indicava un’entità che non aveva relazioni con il suo ester-no. Sulla base della “Teoria generale”, formulata negli anni cinquanta del secolo scorso, il ca-so più generale di sistema risulta comprendere anche le entità “aperte”, le quali ricevono dall’esterno vincoli, condizionamenti ed opportunità.

In relazione alla semplicità solo apparente del concetto di sistema, Ludwig Von Berta-lanffy ha notato che non è facile definire un sistema e identificare ciò che può essere descritto come tale. Le entità che vengono percepite con l’osservazione, sebbene siano indipendenti dall’osservatore (un animale, così come una galassia o un quadro) sono sistemi, ma a questi si devono accostare anche i “sistemi concettuali”, quali la matematica o la musica che sono, in realtà, costrutti simbolici.

Tale distinzione è tutt’altro che netta come si evince pensando, ad esempio, all’ecosistema il quale è “reale”, non è certo un oggetto della percezione o dell'esperienza di-retta, bensì è un costrutto concettuale. Gli stessi oggetti del nostro mondo quotidiano, non so-lo esistono come dati sensoriali o percezioni semplici, ma vengono in realtà costruiti attraver-so un numero enorme di fattori “mentali” che vanno dalla dinamica della gestalt e dai processi di apprendimento a fattori linguistici e culturali: sono questi fattori, infatti, che determinano largamente quanto effettivamente percepiamo. Conseguentemente la distinzione tra oggetti e sistemi “reali”, in quanto dati mediante l'osservazione, e i sistemi “concettuali”, non è così scontata né può essere legata al “senso comune”.

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Il concetto di sistema risulta più intellegibile se si analizza la genesi della individuazione dei fenomeni.

E’ da notare innanzitutto che ogni “entità” è inserita in uno sfondo indistinto nel quale è per così dire compresa con altre “entità”. Dal proprio sfondo indistinto essa deve essere sepa-rata per il tramite di un opportuno atto di distinzione senza il quale non se ne può avere la percezione. Lo “sfondo indistinto” è pertanto il contesto generale nel quale si trova l’entità considerata: esso contiene anche altre entità delle quali si intuisce la presenza ma non si deno-ta l’esistenza perché ritenuta irrilevante rispetto all’entità che si intende considerare. L’atto di distinzione consiste nell’attività di accertamento dell’esistenza dell’entità che si intende con-siderare, cioè estrarre dal suo sfondo indistinto.

Questo “atto” richiede l'adozione di un criterio di distinzione, il quale consente di effet-tuare la separazione dell'entità dal suo sfondo indistinto, ma pure costituisce la base per evi-denziarne le proprietà che lo definiscono specificamente.

Nel caso che dell'entità così individuata si voglia effettuare l'analisi, deve adottarsi un cri-terio che valga a consentirne innanzitutto la composizione eventuale. È questo il secondo pas-saggio che consente l'avvicinamento al concetto di sistema.

L’applicazione del criterio di analisi ha l’effetto iniziale di consentire l’accertamento del-la natura uniforme o diversificata dell’entità indagata. Questa infatti, rispetto al criterio di analisi, si può presentare come un’unità globale, cioè come un’entità indistinta al suo interno, ovvero come una pluralità, o un insieme di parti, cioè un’entità composta.

Esemplificando se si indaga su una entità per accertare la sua configurazione formale, un foglio di carta bianco risulta essere un’unità globale, mentre un foglio di carta a quadretti ri-sulta essere un’entità composta, cioè una pluralità o insieme di parti. Altro esempio di unità globale è una biglia esaminata in relazione all’attitudine a rotolare. Si noti peraltro che se quest’ultima, così come il foglio di carta bianca si analizzano in relazione alla loro natura fisi-co-chimica, entrambe sono pluralità di parti perché scomponibili in molecole, atomi, ecc.

La natura delle “parti” componenti il sistema può essere o non essere differenziata: può essere semplice, o complessa, stabile o variabile, materiale o immateriale, sensibile ad essi, ecc. Comunque la natura dell'unità parziale deve essere individuata sulla base del criterio di analisi prescelto. In relazione allo stesso criterio si accerta se l’unità parziale è in relazione con le altre parti costituenti l'insieme. In caso affermativo si tratta di accertare il tipo di rela-zioni esistenti.

Di norma le unità parziali e i loro insiemi vengono individuati sulla base di due tipi di at-tributi come ha posto in evidenza Ludwig Von Bertalanffy: quello qualitativo e quello dimen-sionale. Egli ha pure notato che si trascura di considerare un altro elemento fortemente distin-tivo delle pluralità, o insiemi di parti, cioè la modalità di collegamento tra le unità parziali.

I primi due tipi di caratteri distintivi sono rispettivamente connessi con la dimensione dell’insieme e quindi con il numero che ne esprime il complesso di unità parziali, o con la qualità degli elementi, cioè con la loro specie. Questi due tipi di caratteristiche dipendono es-senzialmente dal modo d’essere dei singoli elementi che costituiscono l’insieme e non differi-scono se l’analisi si effettua internamente o esternamente all’insieme di parti. Si tratta di ca-ratteristiche che vengono anche cosiddette sommabili. Il terzo tipo di carattere distintivo dell’entità costituita da più di parti, si riferisce invece alla composizione dell’insieme stesso, ossia alle relazioni che esistono tra le unità parziali che costituiscono il complesso, nel senso che in questo caso sono rilevanti non solo il numero e la specie ma anche il modulo di aggre-gazione delle parti. Per quest’ultimo motivo il carattere distintivo del terzo tipo ha natura co-stitutiva in quanto dipende dalle relazioni che si instaurano tra le unità parziali che costitui-scono l’insieme.

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Ludwig Von Bertalanffy ha presentato i tre tipi di caratteri distintivi tra le pluralità di par-ti per il tramite della seguente figura nella quale, nella riga 1) la distinzione tra gli insiemi di parti a e b viene fatta in base al numero, nella riga 2) in base alla specie e nella 3) in base alla relazione che collega gli elementi.

Figura 1 - I tre tipi di differenze tra gli elementi

3.4. Sistema quale pluralità di unità parziali interdipendenti Ogni sistema si caratterizza di certo in modo molteplice. Tuttavia possono indicarsi pre-

cise e numerose circostanze che si riscontrano in ogni entità che possa definirsi un sistema. Tra tali circostanze le seguenti hanno, forse, il maggior rilievo al fine della comprensione del concetto di sistema: a) sulle varie unità parziali componenti il sistema possono accertarsi, nel contempo, caratteri

di uniformità e caratteri di specificità. Ciascuna unità parziale, proprio perché è parte del sistema ha taluni caratteri riscontrabili anche nelle altre unità parziali, ma in ogni unità parziale possono pure individuarsi caratteri distintivi, specifici, tali cioè da consentire di attribuire ad esso l’esclusività rispetto al rapporto tra caratteri di uniformità e di specifici-tà;

b) ogni unità parziale è necessariamente in relazione con ognuna delle altre. Si tratta cioè di una situazione di interdipendenza (sistemi statici) o di interazione (sistemi dinamici);

c) le relazioni richiamate nella lettera precedente evocano ovviamente l’esistenza di comuni-cazioni reciproche senza le quali le relazioni non potrebbero verificarsi. Ovviamente i flussi comunicativi sono differenti in relazione alla natura del sistema e delle sue parti, ma essi sono immancabili;

d) le relazioni tra le parti determinano il fenomeno della “sinergia”, ovvero il “sistema” ha un valore superiore alla somma dei valori delle singole parti;

e) la sinergia non è attribuibile specificamente ad alcuna delle parti che compongono il si-stema, bensì a tutte insieme, cioè al sistema. Se ci si riferisce a quest’ultimo peculiare aspetto si rileva che le relazioni possibili sono

molteplici e la loro esistenza implica la possibilità di distinzione tra le unità parziali pur a pa-rità di numero e specie degli elementi che le compongono.

Peraltro tali collegamenti, a loro volta, possono essere diversificati sia in numero che in specie, nel senso che le unità parziali, rientranti in un dato insieme, possono avere tra loro una o più relazioni e può trattarsi di relazioni anche molto differenti.

Non pare necessario soffermarsi a presentare un’analisi sulle varie possibilità di relazioni tra unità parziali, tanto ciò è intuibile oltre che evidente. Sul piano del tipo di relazioni invece occorre qualche cenno specifico anche perché è dal tipo particolare di relazioni esistenti tra le parti che scaturisce il concetto di sistema.

1) a

2) a

3) a

b

b

b

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Orbene, le relazioni tra le unità parziali possono distinguersi in varie classi, tra le quali hanno particolare interesse per la presente analisi: a) le relazioni lineari e le relazioni circolari: nel primo caso si tratta di influenze che un'unità

parziale esercita su un'altra, mentre nel secondo caso anche la seconda unità, che ha rice-vuto l'influenza dalla prima, a sua volta esercita un'influenza su questa;

b) le relazioni unilaterali, bilaterali, plurilaterali e multilaterali: quest'ultimo tipo di relazioni collega ciascuna unità parziale a ciascun'altra unità parziale della stessa entità (ciascuna unità parziale ha una relazione circolare con ciascun'altra); la relazione è plurilaterale nel caso che implichi collegamenti tra un’unità parziale e varie (più di una) altre unità parzia-li; la relazione è bilaterale nel caso che riguardi una coppia di unità parziali, ciascuna delle quali invia e riceve l'impulso. Infine la relazione è unilaterale nel caso che riguardi una coppia di unità parziali, una delle quali invia lo stimolo e l'altra lo riceve. Eccezion fatta per quest'ultimo caso, ogni collegamento comunque si può estrinsecare in una relazione circolare (relazione bilaterale) o lineare (relazione unilaterale);

c) le relazioni di indipendenza, dipendenza e interdipendenza. La relazione è di indipendenza nel caso in cui il rapporto, che collega un'unità parziale a una o più altre unità parziali del-lo stesso insieme, non si estrinsechi né sul piano della dipendenza, né su quello dell'inter-dipendenza. La relazione è di dipendenza nel caso che essa comporti un rapporto per il quale l'unità parziale considerata ottenga i presupposti del suo funzionamento da altra o altre unità parziali. La relazione è di interdipendenza quando ciascuna unità parziale di-pende da ciascun'altra unità parziale dello stesso insieme di parti. Un esempio di relazioni di interdipendenza si può evincere considerando un'automobile in funzionamento: è evi-dente che ciascuna unità parziale (il motore, l'albero di trasmissione, le ruote, la carrozze-ria, ecc.) è collegata a ciascun’altra in una relazione di reciproca funzionalità. Ci si trova di fronte a un caso di relazione di indipendenza nell'ipotesi di un albero sradicato e pertan-to morto: le diverse unità parziali che costituiscono l'entità “albero morto” sono in rela-zione tra loro, almeno perché appartengono alla stessa pluralità di parti, ma esse non sono né in relazione di interdipendenza tra di loro, né in relazione di dipendenza. Un esempio di relazione di dipendenza si può trarre dal rapporto che lega il bambino alla propria ma-dre nei primi mesi di vita: nell'ambito dell'insieme madre-figlio, il bambino dipende dall'altra unità parziale;

d) le relazioni di complementarietà e le relazioni di contrasto: ci si trova nell'ambito della prima fattispecie, se ciascuna delle unità parziali concorre a completare la funzionalità di ogni altra, nel senso che il modo d'essere di ciascuna dipende dal modo d'essere di cia-scun’altra per il tramite di un rapporto reciprocamente costitutivo, come si è rilevato in precedenza. In questo caso, ciascuna unità parziale trova compimento (vantaggio) dall'esi-stenza di ciascun'altra, a differenza di quanto avviene nel caso di relazioni di contrasto che intercorrono tra unità parziali tra loro incompatibili rispetto alla funzione considerata;

e) le relazioni statiche e le relazioni dinamiche, a seconda che il rapporto si estrinsechi nella permanenza dello stato iniziale o nel mutamento. Le relazioni tra le parti di un quadro so-no statiche, mentre quelle che si creano tra le parti di un essere vivente sono dinamiche, come quelle che esistono tra diversi individui che costituiscono un insieme di unità parzia-li di tipo sociale (famiglia, per esempio);

f) le relazioni di interdipendenza e le relazioni di interazione, le prime delle quali sono state già illustrate nella precedente lettera c) mentre le relazioni di interazione si distinguono dalle prime in quanto si riferiscono specificamente alle relazioni di interdipendenza che si verificano tra le unità parziali di sistemi dinamici. Se le unità parziali di un’entità sono tra loro collegate da relazioni di interdipendenza,

l'entità stessa si identifica più propriamente con il termine “sistema”. Ancora più esattamente

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il sistema è l’insieme di unità parziali aggregate da relazioni di interdipendenza di tipo multi-laterale per il quale cioè ciascuna delle unità parziali risulta “dipendente” da ciascuna delle al-tre in una condizione generale di interdipendenza reciproca.

Il concetto di sistema è ovviamente basilare per la Teoria dei sistemi. Quest'area di studi scaturisce dall'esigenza di analizzare la natura, le caratteristiche e le norme di funzionamento di quelle entità (i sistemi) che non potrebbero comprendersi e descriversi in modo puntuale considerando distintamente le parti che le compongono. In queste entità – come si è già indi-cato - l'interdipendenza tra le unità parziali determina un maggior “valore” dell'insieme ri-spetto a quello risultante dalla somma dei “valori” delle singole unità parziali, che non fossero collegate da relazioni di interdipendenza. Lo stesso concetto può essere anche espresso notan-do che un'unità parziale è diversa a seconda che sia inserita in una pluralità (o insieme) di par-ti che è un sistema, ovvero in altra entità composta, nella quale le relazioni non abbiano il ca-rattere dell'interdipendenza.

L'unità parziale di un sistema è dotata di attributi che le consentono l'interdipendenza con le altre unità parziali e ciò la qualifica anche per effetto dei flussi di comunicazione che riceve ed emette e, tenuto conto della predetta circostanza, contiene una porzione di quel maggior valore che distingue il sistema da un’entità che non è sistema e quindi l'unità parziale di un si-stema dall'unità parziale di un insieme che non è un sistema.

Qualche esempio può chiarire la precedente affermazione: se si considera il corpo umano e l'insieme di organi che lo compongono, si perviene ad una conoscenza diversa nell'ipotesi che si analizzino, anche in modo approfondito, i singoli organi distintamente l'uno dall'altro e quindi senza valutare idoneamente le numerose interrelazioni che tra gli stessi esistono, ovve-ro nell'ipotesi che ciò avvenga e quindi si percepisca altresì ciò che fa assumere all'entità (corpo umano) una configurazione “superiore” e diversa rispetto alla semplice somma delle singole parti.

Analogamente può dirsi che un albero non è la somma della radice, del tronco, dei rami, delle foglie, ecc., bensì è la combinazione di tutte le sue componenti.

Risulta evidente a tal punto che il maggior “valore” che caratterizza il sistema si eviden-zia esplicitamente nel caso in cui un insieme di elementi, costituiti in sistema, si confronti con lo stesso insieme di elementi, i quali non sono tra loro interdipendenti.

A tal proposito è da confermare che tale maggior valore non costituisce un'entità a se stante o comunque riferibile specificamente a una delle unità parziali formanti il sistema. Es-so, al contrario, è “incorporato” in ogni parte del sistema: ne costituisce una qualità distinta e diluita al punto tale da non poter essere isolata - senza un certo grado di improprietà - dalle singole unità parziali, e in definitiva è identificabile in una diversa “qualità” che ciascuna del-le unità parziali del sistema ha, rispetto alla corrispondente unità parziale dell'analoga (per composizione) pluralità di parti non interdipendenti.

Quanto osservato implica che: a) ogni sistema è costituito da più elementi, cioè da alcune unità parziali (almeno due); b) per formare il sistema gli elementi devono essere interdipendenti, cioè così strettamente

interconnessi da “dipendere” uno dall'altro, o meglio ognuno da ciascuno degli altri sulla base di relazioni multilaterali (a questo proposito un'immagine particolarmente evidente si ottiene pensando alla dipendenza multilaterale di ognuna delle parti del corpo umano);

c) gli elementi risultano coordinati in relazione alla comune tendenza allo svolgimento di funzioni generali. E' da precisare che l'interdipendenza dei vari elementi non è qui considerata come l'unico

attributo del sistema, poiché appare essenziale anche la comune tendenza allo svolgimento di funzioni generali, pur nella specificità di funzioni di ciascun sottosistema.

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L'interdipendenza tra gli elementi del sistema si realizza essenzialmente per il tramite di relazioni o rapporti tra le parti, cioè per il tramite dell'esistenza di reti di comunicazione che collegano in modo sistematico e continuo le varie parti. Se si considera che, per definizione, la comunicazione implica l'esistenza di flussi di segnali che siano significativi per la parte che li invia e per quella che li riceve, si comprende che un altro degli elementi costitutivi del si-stema è proprio la “comunicazione delle informazioni”.

Molti sistemi, a loro volta, risultano collegati con il loro esterno per il tramite di adeguati flussi di comunicazione che da esso ricevono ovvero che ad esso inviano. Nei sistemi la fun-zione di comunicazione di norma è assolta distintamente per l'invio e per il ricevimento dei messaggi da alcune delle specifiche unità parziali.

Se si prende in considerazione la realtà, la casistica delle entità cui può riferirsi il concet-to di sistema diventa enorme: dall’essere umano alla città, dal televisore all’automobile, dall’orologio alla penna, dai vegetali agli animali, ecc.

3.5. Sottosistemi e sovrasistemi

Le unità parziali di un’entità che abbia le qualifiche proprie del sistema si denominano sottosistemi. L'individuazione dei sottosistemi può essere realizzata sulla base di diversi crite-ri che devono corrispondere al criterio fondamentale utilizzato per qualificare il sistema.

E' pure vero che in generale ciascun sistema assume diversi aspetti, o configurazioni, su-scettibili di analisi e che quindi uno stesso sistema in effetti ha molteplici nature. Anche gli elementi o sottosistemi di uno stesso sistema risultano essere diversi qualitativamente o quan-titativamente, a seconda dell'aspetto analizzato. Le parti di tutti i sistemi possono essere diver-sificate, possono essere di struttura semplice ovvero complessa, possono essere stabili o va-riabili ed essere impenetrabili alle forze del sistema, oppure molto sensibili all’azione del si-stema cui appartengono.

Se si passa dai sistemi meno complessi, quali quelli meccanici, a quelli più complessi, i sistemi organici o quelli sociali, le parti diventano più complesse e variabili, così come varia la natura delle “relazioni” tra le parti.

Ciascuno dei sottosistemi può avere specifiche esigenze e finalità; così come deve essere chiaro che l'esistenza di queste specifiche finalità non è necessariamente contraddittoria ri-spetto alla possibilità di partecipazione al conseguimento di quelle che accomunano tutti i sot-tosistemi e che pertanto sono le finalità dell'intero sistema.

E' norma, che esistano contemporaneamente uno o più obiettivi del sistema, che sono obiettivi comuni dei vari sottosistemi, e uno o più obiettivi specifici per ciascuno dei sottosi-stemi. Questo concetto risulta evidente pensando ad uno qualunque degli esempi finora pre-sentati: tutte le parti di un albero, proprio perché connesse, concorrono a realizzare il ciclo di vita dello stesso, ma ciascuna delle unità ha specifiche regole di esistenza e particolari funzio-ni non contraddittorie rispetto alla regola generale di ciclo di vita dell'albero.

L'identificazione delle parti (sottosistemi) del sistema deve essere effettuata sulla base della conformità della natura dei primi alla natura di quest'ultimo, nel senso che le componen-ti individuate non possono che essere rigidamente conformi a tale natura: nell'essere vivente in senso biologico le cellule, quali componenti del corpo umano, hanno la stessa natura biolo-gica dell'uomo. Così pure avviene a proposito delle parti che costituiscono un'orchestra, vale a dire i musicisti, ovvero di quelle che compongono una squadra sportiva, cioè i singoli atleti.

Occorre inoltre ricordare che i sottosistemi sono caratterizzati sia da alcune proprietà che sono reciprocamente assimilabili, sia da altre specifiche e tali da caratterizzare ogni sottosi-stema rispetto a ciascun altro, senza che ciò implichi l'inesistenza dei nessi di interdipendenza per il tramite dei quali esso partecipa in modo significativo alla stessa costituzione del sistema e alla sua caratterizzazione.

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In tal modo il sistema, a sua volta, essendo parte interdipendente di un contesto più gene-rale ha, rispetto a ogni altra parte dello stesso contesto, sia caratteri di analogia, sia caratteri di specificità.

In concreto, l'analogia, come la specificità, di un sottosistema, rispetto ad altri, può essere più o meno forte (o debole) a seconda della prevalenza o meno dei caratteri di analogia rispet-to a quelli di specificità.

Quanto sopra notato a proposito dei sottosistemi vale, in gran parte, allorché ci si riferisce anziché agli elementi sottostanti al sistema, all’elemento sovrastante rispetto ad esso, cioè all’eventuale “sistema superiore” del quale il sistema considerato costituisce una delle com-ponenti.

Tale “sistema superiore” può indicarsi con il termine sovrasistema. Esso, a sua volta, può essere un sottosistema di un proprio “sistema superiore” e ciò fa intendere come le considera-zioni prima svolte possono almeno in parte notevole riferirsi, appunto, anche al sovrasistema.

3.6. Tassonomia e classificazione dei sistemi

Il concetto di sistema può essere opportunamente utilizzato non solo in senso astratto, ma anche con riferimento a molteplici entità della realtà. In effetti la marcata generalità del con-cetto di sistema risulta verificato anche in relazione al fatto che esso è utilizzato in molteplici discipline e attività pratiche.

Dalla riscontrata molteplicità di utilizzazioni deriva il rischio di una certa “dispersione” dei riferimenti concreti, che nei primi anni di diffusione della Teoria generale dei sistemi si è cercato di ridurre per il tramite dell’individuazione di categorie di entità alle quali si potrebbe esaustivamente riferire il concetto di sistema. Si è cercato, in altri termini, di predisporre tas-sonomie di sistemi.

Le finalità di tale tipo di impegno erano in effetti molteplici, posto che si voleva pure di-mostrare la notevole capacità del concetto a riferirsi a entità appunto differenti. E nel contem-po si ricercavano gli “isomorfismi”, cioè le similarità strutturali tra sistemi.

Grande notorietà scientifica ha assunto la tassonomia proposta da Kenneth Boulding che si indica esemplificativamente qui di seguito: 1) sistemi statici o livello delle strutture (rappresentazioni grafiche, mappe, quadri, organi-

grammi, ecc.); 2) sistemi a dinamica semplice, costituiti essenzialmente da meccanismi a movimenti prede-

terminati (meccanismi a orologeria, macchine a vapore, dinamo, ecc.); 3) sistemi cibernetici semplici, che sono dotati di capacità di autoregolazione (termostato,

regolatore di Watt, meccanismi con fotocellula per l'individuazione di corpi estranei, ecc.);

4) sistemi che si automantengono e che l'autore qualifica come aperti. Essi sono costituiti dalle forme più semplici di vita, tanto che qualche altro autore considera questa categoria nel livello della cellula;

5) sistemi vegetali, nei quali le varie unità parziali assumono funzioni specialistiche e sono legate da strette relazioni di interdipendenza, come avviene per ogni tipo di pianta;

6) sistemi animali, nei quali tra le varie unità parziali specializzate ci sono anche quelle che assumono la funzione di ricezione delle informazioni, di elaborazione, organizzazione e conservazione delle stesse, con conseguente utilizzazione per i comportamenti (animali di ogni specie);

7) livello proprio dell'essere umano, che si caratterizza per uno sviluppo complesso delle va-rie unità parziali e in particolare dell'acquisizione della capacità di riflessione e di creazio-ne;

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8) sistemi organizzativi sociali, nei quali gli individui intervengono per la realizzazione di ruoli e funzioni sulla base di un processo complesso che appunto caratterizza questo tipo di sistemi (istituzioni politiche, pubblica amministrazione, imprese, ecc.). Nelle analisi teoriche e nelle applicazioni pratiche le esigenze di astrattezza e generalità

proprie del concetto di sistema si combinano di norma con necessità di analisi, di concretezza e di specificità che inducono a considerare singoli aspetti rilevanti dei vari tipi di sistemi e quindi a proporre idonee classificazioni. In tal modo, i vari sistemi vengono distinti tra loro sulla base di una o più caratteristiche significative.

In questo impegno di classificazione, nei primi anni di sviluppo della teoria, si sono parti-colarmente distinti Stafford Beer e Ludwig Von Bertalanffy.

Il Beer ha proposto i seguenti due importanti criteri di classificazione dei sistemi: la com-plessità e la prevedibilità.

Per quanto attiene al criterio della complessità egli ha individuato tre diverse categorie di sistemi: a) sistemi semplici, ma dinamici; b) sistemi divenuti complicati (si tratta di sistemi le cui parti presentano un certo numero di

interrelazioni, le quali peraltro risultano essere sufficientemente analizzabili e non impedi-scono l'analisi dell'insieme);

c) sistemi eccessivamente complessi (sistemi che presentano difficoltà di indagine). Con riferimento all'altro criterio di classificazione, l'elemento discriminante è rappresen-

tato dal grado di prevedibilità del sistema: a) nei sistemi deterministici l'operare delle singole parti è perfettamente prevedibile; b) nei sistemi probabilistici, pur potendosi fare previsioni sufficientemente prossime al mani-

festarsi dell'attività del sistema, non sono possibili previsioni dettagliate e precise. Una classificazione che ha consentito interessanti elaborazioni scientifiche è quella pro-

posta da Ludwig Von Bertalanffy e già considerata in precedenza: si tratta della distinzione tra sistemi “chiusi” e sistemi “aperti” il sistema è “chiuso” nel caso in cui si consideri isolato dall'ambiente circostante e quindi se si reputa che il suo modo d'essere e di divenire dipenda da “forze” interne al sistema stesso; il sistema si considera “aperto” se esistono interazioni con altri sistemi, o più in generale rispetto al contesto nel quale è inserito: l'interdipendenza determina influssi del sistema sul suo esterno e influssi opposti. La dottrina ha presentato, come esempi di sistemi chiusi, il regolatore di Watt e molti altri sistemi di tipo meccanico e come esempi di sistemi aperti il sistema uomo, l'impresa, lo Stato, ecc.

Il concetto di sistema chiuso nella realtà pratica è una mera astrazione in quanto nessuna entità è di fatto completamente indipendente dal contesto del quale fa parte, nel senso che questo si estrinseca sulle condizioni del sistema almeno in modo indiretto. Ciò si verifica in non pochi casi anche indipendentemente dalle leggi naturali che concernono la materia. Per esempio teoricamente può considerarsi sistema chiuso un ambiente abitativo con porte e fine-stre che siano appunto chiuse: ma di certo l'ambiente circostante influisce sulle condizioni di tale locale, tanto è vero che esso avrebbe una temperatura interna differente, a parità di ogni altra condizione, se fosse ubicato all'equatore ovvero al polo.

In precedenza nel presentare il concetto di sistema chiuso e di sistema aperto, sono usate espressioni del tipo “si considera”, “si reputa” per richiamare l'attenzione sul fatto che, a fini pratici, un sistema è chiuso se l'ambiente circostante non influisce su di esso in modo “rile-vante” rispetto ai motivi per i quali il fenomeno viene “osservato”.

Comunque occorre ricordare anche a questo proposito che è decisiva l'indicazione del cri-terio scelto per la percezione del sistema, nel senso che la qualifica di “aperto” o “chiuso” de-ve essere effettuata con riferimento all'esigenza per cui si fa la distinzione.

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La distinzione tra sistema chiuso e aperto risulta attualmente superata da altra proposta ri-tenuta più puntuale. La nuova distinzione che si propone individua, rispetto alle relazioni con il proprio “esterno” tre tipi di sistemi: a) sistema isolato che, a somiglianza del sistema chiuso della classificazione iniziale, si ca-

ratterizza per non avere nessuna relazione col proprio esterno; b) sistema aperto dotato di integrazione interna, il quale si caratterizza per essere in grado di

regolare le relazioni con il proprio esterno, nel senso che sa e riesce a selezionare i vincoli, i condizionamenti e le opportunità presenti nel suo esterno, in modo da utilizzare ciò che determina vantaggi e impedire l’ingresso al proprio interno di ciò che potrebbe determina-re svantaggi. Affinché ciò avvenga il sistema deve essere dotato di un confine selettivo costituito in vario modo in relazione alla propria natura;

c) sistema aperto non dotato di integrazione interna. Come si nota nella nuova classificazione di sistemi rispetto alle relazioni con il proprio

esterno, la categoria di cui alla lettera a) (sistema isolato) è sostanzialmente rimasta immutata, mentre la categoria del precedente “sistema aperto” risulta ripartita nelle due fattispecie defi-nite in relazione all’esistenza della “integrazione interna”.

3.7. Distinzione tra il sistema e il proprio ambiente: il confine

Esaminare le possibili relazioni intercorrenti tra il sistema e il contesto più generale del quale esso fa parte, costituisce un'esigenza inderogabile nell'approccio per sistemi sia perché come notato essa è più propriamente una “Teoria dei sistemi aperti”, sia perché essa ha nello studio delle “relazioni” un aspetto decisamente caratterizzante. Tale esame richiede prelimi-narmente l'assunzione di due concetti apparentemente semplici: il concetto di interno e il concetto di esterno.

La semplicità dei termini “interno” e “esterno” si verifica con facilità nel caso di entità che possono considerarsi unità globali, come la biglia o il foglio di carta. In questi esempi non si ipotizza l'esistenza di relazioni tra l'unità globale e il suo “esterno” e di conseguenza non sorgono particolari problemi: l'interno della biglia è ciò che sta dentro la sua superficie, mentre l'esterno sta al di là della superficie e questa costituisce la frontiera tra l'unità globale e il suo esterno. In effetti, in questi casi l'individuazione dell'interno, dell'esterno e della su-perficie è insito nello stesso “atto di distinzione” di cui si è fatto cenno in precedenza.

Anche per le categorie di insiemi di parti non costituite in sistema non si verificano rela-zioni d'interdipendenza né all'interno, né tra l'entità e il contesto più generale del quale essa fa’ parte e ciò facilita la distinzione dell'interno dall'esterno: anche in questi casi, pur in pre-senza di qualche complicazione di analisi, la “frontiera” tra l'interno e l'esterno così come quella che distingue l'insieme dal suo esterno, coincide, se si tratta di elemento materiale, con la sua superficie.

Dal punto di vista concettuale anche in presenza di insiemi di parti non materiali e non legate da relazioni di interdipendenza, la definizione della frontiera o confine tra l'entità e il contesto più generale del quale fa’ parte è relativamente facile, in quanto essa consiste nella linea di demarcazione tra l'entità considerata e il suo esterno, e deriva direttamente dallo stes-so criterio adottato per l'individuazione dell'entità che si intende percepire. Va precisato che lo sviluppo conseguito dalle scienze chimico-fisiche, i livelli di tecnologia di cui si dispone e le capacità tecniche di osservazione acquisite, consentono di rilevare che qualche relazione esiste comunque anche tra le unità globali e il contesto di cui fanno parte, così come, a mag-gior ragione, avviene tra gli insiemi di parti non caratterizzati da interdipendenza e il loro “esterno”: se le entità sono di tipo materiale si verificano almeno relazioni connesse con le leggi di gravità, ma altre relazioni, seppure appena percepibili, possono esistere nell'ambito dei principi di termodinamica, o di altri principi fisici o chimici. In ogni caso si tratta di rela-

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zioni che non contrastano con la semplicità ed evidenza dei concetti di interno ed esterno e dei connessi concetti di frontiera o confine; e si tratta di relazioni rilevanti solo nei limiti in cui si voglia studiare quell'aspetto per il quale la variabile chimico-fisica abbia significatività.

Se nel caso di entità semplici o relativamente semplici i concetti di interno e esterno e di frontiera o confine non determinano difficoltà scientifiche e operative che siano insormonta-bili, utilizzare gli stessi concetti con riferimento ai sistemi è decisamente meno agevole. Non per questo è opportuno rinunciare a tali nozioni, anche perché il loro uso è ancora più profi-cuo se riferito alle entità più complesse e in particolare ai sistemi. Né può essere trascurato il fatto che, come ben rileva il Delattre: “Questa distinzione tra l'interno e l'esterno è assoluta-mente fondamentale, poiché condiziona la nozione di oggetto e poiché è facile constatare che senza questa nozione diventa impossibile ogni descrizione del mondo e dei fenomeni che si svolgono, quindi ogni scienza e ogni conoscenza”.

Il confine può svolgere tre distinte funzioni, due delle quali sono assolutamente intuibili. Ci si riferisce alla funzione di demarcazione o distinzione dell'esterno dall'interno e alla fun-zione di comunicazione che il confine stesso consente dell'esterno con l'interno, e viceversa. La terza funzione è un poco più complessa: consiste nel filtrare tutto ciò che proviene dall'e-sterno in modo da consentire il passaggio delle influenze positive e l'impedimento del pas-saggio delle influenze negative. Questa terza funzione di filtro è propria esclusivamente dei sistemi che hanno l’integrazione interna ma non dei sistemi aperti e di quelli isolati.

Più esattamente, nel sistema isolato il confine ha esclusivamente la funzione di demarca-zione; nel sistema aperto unitamente a questa ha anche la funzione di comunicazione; nel si-stema chiuso (questo sistema talvolta si qualifica anche con l'espressione “aperto con inte-grazione interna”) il confine svolge tutte e tre le funzioni, cioè quella di demarcazione, quella di comunicazione e quella di filtro.

Indipendentemente dalla natura semplice o complessa dell'entità considerata e dalla fun-zione che il confine esercita, in relazione alla natura del sistema, il contesto nel quale essa è “inserita” o comunque nel quale “si trova”, si denomina ambiente. Il termine, più esattamen-te, è diventato un elemento fondamentale in tutte le scienze e teorie che hanno per oggetto i sistemi e in particolare i sistemi aperti, caratterizzati, appunto, dalle relazioni che sussistono tra essi e il contesto cui appartengono; ma l'importanza dell'ambiente è decisamente rilevante anche nel caso di reti di sistemi aventi “integrazione interna”. La distinzione tra il sistema e il suo ambiente è tanto importante quanto soggetta ad una certa arbitrarietà, perché l'indicazio-ne del confine del sistema non ammette una sola possibilità. In proposito il Delattre afferma che nella scelta del modo per indicare il confine di un sistema “la migliore guida diventa in questo caso la convenienza cioè, in definitiva, la massima semplificazione della descrizione dei fenomeni”.

In questo senso si può affermare che non solo l'ambiente è “ciò che si trova fuori del si-stema” o, come pure si afferma, “il limite del sistema” ma che esso è anche la fonte di molte circostanze che caratterizzano il modo d'essere e di divenire del sistema.

L'ambiente inoltre concorre in termini significativi ad attribuire specificità al sistema considerato, svolgendo anche una rilevante funzione intrinseca o all'interno. Più esattamente è certo che tra sistema e ambiente si realizza un reciproco scambio di attributi di vario tipo (positivi e negativi) che di norma sono non paritetici. 3.8. Ordine gerarchico, distorsioni e subottimizzazione

L’osservazione della composizione delle entità reali, così come delle attività, fa’ emerge-re la tendenza ad una loro configurazione strutturale che si sviluppa dalle componenti più elementari fino a quelle più complesse (in senso sistemico) per aggregazioni successive. Lo stesso universo appare composto in tal modo: dalla particella più elementare riscontrabile

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nell'analisi di un materiale inerte si risale appunto a identificare l'universo di dimensione inimmaginabile. La stessa situazione si verifica per le entità viventi: il soggetto umano si può scomporre verso il basso fino alle parti osservabili con i microscopi elettronici e verso l'alto fino a ricomprendere l'umanità intera. Ludwig von Bertalanffy nota che una composizione di tale tipo si trova sia nelle strutture, che egli considera quali ordini di parti, sia nei processi, quali ordini di funzioni. Più in generale, è norma che ogni sistema rientri in un ordine gerar-chico, nel senso che sia sotto-ordinato rispetto a sistemi dei quali esso costituisce un sottosi-stema e sia sovra-ordinato rispetto ai propri sottosistemi. E' da precisare che al di là dell'ap-parente semplicità di questa affermazione, talvolta è dato riscontrare che la gerarchia ipotiz-zata è quanto meno impropria in quanto non si basa su uno specifico, uguale e valido criterio di identificazione dei vari sistemi che si fanno rientrare nei sistemi considerati. Più precisa-mente un'unità parziale riscontrabile in un sistema costituisce un suo sottosistema (e in quan-to tale rientra nello stesso ordine gerarchico) solo se è individuato sulla base dello stesso cri-terio di identificazione del sistema.

A tal punto, non può mancare un cenno alle distorsioni registrabili nell'ordine gerarchico che dovrebbe rilevarsi tra sistema e sottosistemi: è ovvio che gli obiettivi e gli interessi gene-rali o di sistema prevalgono su quelli specifici dei singoli sottosistemi. Nel caso che ciò non avvenga si verifica appunto la distorsione nella gerarchia degli obiettivi e degli interessi.

Si verifica subottimizzazione allorché si consegua l'obiettivo del sottosistema indipen-dentemente dall'obiettivo del sistema, ovvero - il che è peggio - si persegua l'obiettivo del sottosistema impedendo in tal modo il conseguimento dell'obiettivo del sistema. In altri ter-mini, se è preminente il risultato riferibile all'intero sistema e non quello delle singole parti che lo costituiscono, deve considerarsi negativamente il caso in cui tutti i sottosistemi fun-zionino in modo ritenuto soddisfacente, mentre il sistema globale non funzioni adeguatamen-te. In tale circostanza, infatti, l'ottimizzazione di ciascun sottosistema non corrisponde all'ot-timizzazione del sistema, la quale ultima è per definizione più rilevante: questa circostanza evidenzia un distacco dall'ottimo complessivo, cioè l'esistenza di subottimizzazione. La si-tuazione indicata (ottimizzazione di ciascun sottosistema e non ottimizzazione del sistema), rappresenta il caso estremo e praticamente meno rilevante di contrasto tra obiettivi generali e obiettivi particolari. E' invece facile riscontrare che all'ottimizzazione di un sottosistema, in-dipendentemente dalla condizione degli altri sottosistemi, non corrisponde l'ottimizzazione del sistema.

3.9. Complessità

Una delle categorie concettuali più importanti nell'approccio per sistemi è di certo quella di complessità, vocabolo, questo che ha un connotato specifico nella teoria scientifica, di cer-to diverso da quello proprio del linguaggio comune nel quale viene utilizzato quale sinonimo di “difficoltà”. In altri termini, la “complessità sistemica” non è semplice difficoltà: il termi-ne “complesso” di cui al linguaggio comune, più avvicinabile al termine complessità è caso mai il sostantivo “complesso” e non certo l'aggettivo.

Più esattamente, nel linguaggio scientifico la complessità è una circostanza caratterizzata dall'esistenza di molteplici elementi concorrenti tra loro e reciprocamente influenzantisi. La condizione di complessità può concernere sistemi di vario tipo: sistemi scomponibili in pochi o in molti sottosistemi, con o senza differenti livelli di aggregazione, sistemi statici o sistemi dinamici, ecc. E' intuibile che la complessità sistemica assuma una differente configurazione per ognuno dei tipi di sistemi ipotizzabili, ovvero esaminati in concreto.

E' evidente che non è qui realizzabile un'analitica presentazione della casistica possibile. Pare peraltro opportuno proporre la distinzione tra la configurazione che la complessità as-sume nei sistemi statici e quella che assume nei sistemi dinamici: nel primo caso si tratta

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dell'esistenza di semplici influenze reciproche tra le parti, circostanza questa peraltro imma-nente alla stessa natura del sistema.

Nel caso della dinamicità, invece, gli impulsi originatisi in uno dei sottosistemi, influen-zando ciascuno degli altri, determina una situazione per la quale la modificazione indotta, viene da ciascuno dei sottosistemi, da un lato, percepita e metabolizzata in modo specifico e individuale e, dall'altro lato, determina nello stesso sottosistema, ulteriori effetti che si tra-smettono agli altri elementi (anche a quello dal quale era partito lo stimolo iniziale). In tal modo si attivano processi di influenze reciproche e di cambiamenti continui, i quali rendono intelligibile o, comunque, non lineare il processo di trasmissione degli effetti e, quindi, a maggior ragione il processo di passaggio dallo stato iniziale allo stato finale. Si verifica, in definitiva, una sorta di processo catalitico teoricamente continuo, talché osservando il siste-ma istantaneamente, si intuisce il suo stato di cambiamento ma non già né lo stato finale, né lo stato iniziale.

Le situazioni di complessità sistemica nella realtà sono molto più diffuse rispetto a quan-to normalmente si creda, ma pure rispetto a quanto facciano intendere gli approcci scientifici e metodologici semplicistici i quali suppongono situazioni semplici anche nel caso in cui sia-no complesse (in senso sistemico), con la giustificazione che è decisiva l'individuazione della cosiddetta “causa efficiente” e non di tutte le cause.

Le distorsioni interpretative che specie nelle scienze sociali sono alla base di tale ridu-zionismo interpretativo, in non pochi casi sono state veramente gravi. La verità è che se la si-tuazione è caratterizzata da complessità, non può di certo cambiare natura (diventare lineare, semplice) perché lo studioso non vuole o non riesce a rispettare la complessità stessa.

Le situazioni di complessità si esprimono a livello del sistema considerato ma di norma hanno origine nel suo esterno. Il contesto esterno, in effetti, normalmente è caratterizzato da varietà e variabilità degli elementi che lo costituiscono e che concorrono a determinare il modo d'essere e di divenire del sistema.

Il fenomeno della complessità - nel senso sopra esposto - ha attirato l'attenzione degli studiosi ancora prima che L. von Bertalanffy proponesse la Teoria generale dei sistemi. In proposito, notevole è lo sforzo compiuto all'inizio del secolo ventesimo da Poincarè il quale lucidamente aveva considerato in termini di complessità ogni fenomeno al quale la scienza attribuiva rilievo (in quanto evidente) benché non si riuscisse a spiegarne la causa.

Attualmente, con von Bertalanffy, si può affermare che “la causa” è indeterminata pro-prio per effetto dell'impossibilità di percepire la singola origine di ciascuna delle influenze reciproche verificatesi in ogni sottosistema. A ben vedere, si tratta della verifica concettuale dell'inderogabile necessità di applicare il principio di equifinalità in alternativa al determini-smo.

4. Informazione e comunicazione

Il termine “informazione” nel linguaggio comune, ha assunto una connotazione che ten-de a esprimere l'acquisizione o il trasferimento delle conoscenze mentre nel linguaggio tecni-co ha una connotazione differente che si rifà all’origine semantica del termine.

Scomponendo il vocabolo nelle tre parti di cui è costituito si possono osservare un pre-fisso “in”, una radice “forma” e un suffisso “zione”. L' in forma zione è, dunque l'attività di attribuire una “forma”, cioè una connotazione, alla realtà. Questa realtà è costituita da ele-menti materiali, quali gli oggetti di ogni tipo (tavolo, penna, biglia, automobile, ecc.) o im-materiali, quali i concetti astratti (bontà, stupidità, perseveranza, ecc.), semplici, come un og-getto, o complessi, come una teoria esplicativa di qualche fenomeno.

L'attività espressa con il vocabolo informazione implica l'esistenza di un processo di identificazione della realtà. L'attribuzione della forma, infatti, avviene per il tramite di una

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percezione che deve essere supportata da un confronto tra l'elemento che si deve identificare e l'insieme delle conoscenze di cui già si dispone. Si tratta di un processo di qualificazione, che per quanto sia complesso l'uomo riesce a compiere in tempo reale, cioè nello stesso istan-te in cui percepisce l'elemento al quale vuole attribuire “l'informazione”. Ciò avviene grazie alla capacità di conservazione e selezione delle conoscenze proprie del sistema cerebrale umano; ma la facilità o la difficoltà della percezione degli elementi, ovvero dell'attribuzione ad essi della specifica “connotazione”, per il tramite dell'informazione, dipende appunto dalla mole di conoscenze già disponibili. Tali conoscenze, nel complesso possono essere conside-rate come l'insieme di regole che gli individui si danno per poter interagire adeguatamente con la realtà che li circonda.

Alcune conoscenze basilari vengono trasferite all'uomo sin dal concepimento con il DNA, il quale contiene gli elementi di identità peculiari della specie, alcune “istruzioni” basi-lari che caratterizzano il comportamento dell'individuo concepito, fino al momento in cui può essere soggetto alle cure da parte di entità a lui esterne. La quantità maggiore di conoscenze, però, si acquisisce per il tramite di processi di apprendimento che avvengono sulla base degli stimoli che l'individuo ottiene dall'ambiente.

Nell'acquisizione delle conoscenze non può mancare la partecipazione dell'individuo quale risulta essere nel momento in cui ottiene le nuove conoscenze, cioè quale individuo che già dispone delle conoscenze originarie e di quelle acquisite successivamente fino a tale mo-mento.

In tal modo si può notare come il nesso tra informazione e conoscenza è molto stretto ed è di tipo circolare: la possibilità di attribuire forma al reale dipende dalla quantità e dalla qua-lità delle conoscenze di cui si dispone, ma queste dipendono, a loro volta, dalle attività di at-tribuzione di «forma» realizzate nel passato.

4.1. Segnali e ruolo nei sistemi

Le unità elementari che consentono di trasferire o trasmettere le informazioni tra diverse entità si denominano segnali. Per il tramite di una sequenza di questi segnali (continui o di-screti) si compongono i messaggi. Uno dei principali artefici della moderna Teoria delle in-formazioni, Wiener, definisce il messaggio quale sequenza discreta o continua di eventi mi-surabili, distribuiti nel tempo.

Perché possano esistere i segnali è necessaria la presenza di un trasmittente T, di un mezzo per la trasmissione MT e di un ricevente R; il passaggio dei segnali da T a R avviene in un tempo t, che è la somma dei tempi unitari tu.

Un sistema di trasmissione può reputarsi efficace se la quantità di segnali da inviare è in-feriore o uguale alla capacità del T, che, a sua volta, è inferiore o uguale alla capacità del R. In simboli si deve verificare la seguente condizione, nella quale la quantità di segnali si indi-ca con Mq, riferibile tanto a ciascun tu quanto alla sommatoria dei tu:

Mq ≤ T ≤ R Sebbene gli elementi considerati possano assumere configurazioni molto diverse in rela-

zione al tipo di struttura di trasmissione in esame, l'adeguato funzionamento di tutti non può che essere conforme allo schema sopra indicato.

Nella figura 2 si presenta uno schema elementare di trasmissione nella quale T è il tra-smittente, R è il ricevente e la freccia simboleggia il passaggio dell'informazione, compreso il mezzo utilizzato.

Figura 2 - Trasmissione lineare

R  T

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Lo schema indicato consente di evidenziare che il segnale si presta a una rappresentazio-ne di tipo tanto elementare quanto universale. Peraltro, in non pochi casi può esistere l'esi-genza che il trasmittente non si limiti ad inviare il segnale, bensì, a sua volta, riceva un se-gnale di ritorno che gli consenta di accertare se il ricevente ha percepito il segnale inviatogli nei termini qualitativi e quantitativi voluti. In tal modo si ha una trasmissione circolare che viene rappresentata nella figura 3.

T R

Figura 3 - Trasmissione circolare

I due soggetti che nella trasmissione assumono la funzione rispettivamente di T e di R costituiscono nell'insieme una “diade”. E' evidente che una trasmissione di segnali può con-cernere una o più diadi collegate in forme varie.

Sulla base delle precedenti indicazioni i segnali si possono qualificare: a) segnali in uscita, o output; b) segnali in entrata, o input; c) segnali di ritorno, o feedback, i quali sono input associati a precedenti output, sulla base

di una trasmissione circolare. In relazione con le entità di trasmissione utilizzate i segnali assumono la forma più varia,

in quanto essi non sono altro che “simboli”, significativi per chi li invia e per chi li deve rice-vere. Non è importante la loro forma estrinseca, ma la significatività che essi hanno per i soggetti che intendono comunicare. Ne consegue che i segnali possono assumere la configu-razione di un simbolo visivo (lettera, numero, o altro elemento), di un rumore rilevabile con gli organi dell'udito, di un movimento, comunque percepibile, di un impulso meccanico, elet-trico, o di altro tipo, ecc.

L’insieme preordinato di segnali costituisce, a sua volta, un messaggio, che è l’unità elementare del processo più ampio e complesso che si denomina comunicazione.

4.2. Comunicazione

I due importanti teorici dell'informazione C.E. Shannon e W. Weaver descrivono la co-municazione in modo tale da includervi “tutti i procedimenti attraverso i quali un pensiero può influenzarne un altro. Questi, naturalmente, comprendono non solo il linguaggio scritto e parlato, ma anche la musica, le arti figurative, il teatro, la danza e, di fatto, qualunque com-portamento umano”. L'indicata attività implica evidentemente l'esistenza di una pluralità di soggetti (almeno due), oltreché degli altri elementi indicati nello schema di trasmissione dei segnali.

Occorre riflettere sulle due seguenti circostanze: a) il linguaggio usato dal T può non essere compreso direttamente dal R; b) per l'invio di messaggi può essere necessario utilizzare «l'intermediazione» di apparec-

chiature che impongono la trasformazione del linguaggio usato dal T in linguaggio intel-ligibile per le apparecchiature e la trasformazione del linguaggio utilizzato nelle apparec-chiature nel linguaggio intelligibile per il R. In tal modo si ha l'esigenza della codifica del linguaggio del T nel linguaggio del R (nel

caso di cui alla lettera a) e la codifica del linguaggio del T in linguaggio per le apparecchiatu-re e di questo nel linguaggio intelligibile per il R (nel caso di cui alla lettera b). Più esatta-

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mente è da notare che l'approccio semplificato, che riduce i contenuti della comunicazione agli elementi essenziali della trasmissione dei segnali, è insufficiente. Si ha l'esigenza di rea-lizzare un approccio più completo alla comunicazione, approccio che indichi pure le varie condizioni in cui avviene la trasmissione oltre agli effetti della stessa. In questo contesto, i problemi di tipo tecnico si combinano con quelli di tipo semantico e sintattico e con quelli di tipo psicologico e sociologico. Si tratta di fare in modo che i segnali trasmessi vengano rece-piti con il significato attribuito loro dal trasmittente e sulla base di regole convenute col rice-vente e di dare efficacia al segnale e alla comunicazione, nel senso che essa sia in grado di influenzare la condotta del ricevente nel modo voluto dal trasmittente e viceversa.

Da quanto notato si comprende come nel campo della comunicazione oltre che a pro-blemi tecnici, si pongono anche problemi semantici, cioè relativi alla ricerca dell'identità tra simbolo trasmesso e significato attribuito allo stesso e problemi di efficacia connessi con l'ot-tenimento di comportamenti voluti.

La comunicazione risulta influenzata anche dalle caratteristiche psico-sociologiche del T e del R e dalle caratteristiche culturali del contesto in cui avviene la comunicazione. Occorre notare, infatti, che per il T esiste il problema di far pervenire al R i messaggi che abbiano il significato voluto, ma questa esigenza non si soddisfa esclusivamente per il tramite dell'effi-cacia della strumentazione usata per la trasmissione e dell'adeguatezza del codice linguistico bensì anche per il tramite di interazioni culturali appropriate.

Un approccio complesso alla comunicazione richiede di definire con precisione le carat-teristiche dei vari elementi che ne influenzano il risultato. Questi elementi possono elencarsi nel modo seguente: a) trasmittente; b) mezzo tecnico; c) contenuto (semantica) e regole (sintassi); d) ricevente; e) effetti.

La situazione complessiva in cui avviene la comunicazione può pertanto essere rappre-sentata nello schema di cui alla figura 4.

T RCODIFICA DECODIFICAS E G N A L I

Variabili psicosociologiche - politiche - economiche - culturali

Messaggi Messaggi

Sorgenti di disturbi

Figura 4 - Schema complesso di comunicazione

E’ da notare che la comunicazione è un’attività immanente alla stessa esistenza dell'uo-mo, o più in generale, a quella dei sistemi viventi, nel senso che ogni interazione tra soggetti è nel contempo atto di comunicazione, tanto che è stato postulato il seguente “assioma della

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pragmatica della comunicazione: non si può non comunicare”. Anche l'inattività di un sog-getto, poiché è significativa come ogni sua specifica attività, nei limiti in cui viene percepita da altro soggetto, implica una comunicazione ed ha in quest'ultimo precisi effetti (modificare o non modificare lo stato di inazione del primo soggetto). Se ciò è vero per una situazione di inattività, deve essere necessariamente vero per ogni situazione che fa’ registrare attività del soggetto.

Se si accetta il precedente evidente postulato, non si può che convenire sull'importanza di gestire le proprie comunicazioni, cioè sulla necessità di realizzare comportamenti funzio-nali alle comunicazioni che si reputa opportuno rivolgere ad un determinato R o, meglio, all'ambito nel quale si estrinseca la propria attività. La comunicazione è certamente importan-te per i sistemi in generale in quanto è per il suo tramite che si realizza l'interdipendenza tra le unità parziali e quindi si crea la sinergia. Ma essa è particolarmente rilevante per i sistemi umani nei quali è comunque presente, indipendentemente dalla volontà dei soggetti, e deter-mina effetti voluti o non voluti di notevole rilievo. In questi sistemi in definitiva esiste il “problema della comunicazione” la cui congrua soluzione è fondamentale.

5. Cibernetica

La comunicazione assume rilevanza fondamentale anche per un’altra scienza moderna ovvero per la Cibernetica, indicata anche come Scienza del controllo e delle comunicazioni.

Già negli anni ‘40 le teorie tendenti ad analizzare il controllo e le comunicazioni risulta-vano decisamente approfondite e articolate e impegnavano alcune centinaia di studiosi, ma venivano considerate quali parti di scienze tradizionali e, in particolare, della matematica e della fisica.

A partire dal 1947, per impulso di Norbert Wiener e dei suoi collaboratori, tali teorie fu-rono riordinate in uno stesso campo di studi, al quale si attribuì il nome di “cibernetica”, de-rivato dal greco Kibernetes ossia pilota, nocchiero, timoniere. Tale termine venne scelto in quanto il primo scritto significativo sui meccanismi “a retro-azione”, nei quali si ponevano problemi assimilabili a quelli che interessavano in particolare gli studiosi indicati, è stato un articolo sui regolatori (in inglese: governor) pubblicato da Clerk Maxwell e governor è deri-vato dalla corruzione latina di gubernator (pilota, nocchiero, timoniere).

Il Wiener e il gruppo di scienziati che con lui si erano riuniti per attribuire un nome ap-propriato al nuovo ramo di studi credettero di creare un neologismo, ma in effetti il vocabolo “cibernetica” era già stato usato da Platone, Socrate, Ampère ed era stato inserito anche nelle enciclopedie. Tuttavia fu dal momento della scelta del Wiener che il termine “cibernetica” ebbe una grandissima diffusione e fu accettato da tutti gli studiosi.

Si deve notare come tale definizione poteva essere adeguata nel momento della prima impostazione della disciplina, ma risulta parziale e non soddisfacente ora che gli studi di cui trattasi hanno assunto uno sviluppo tale da potersi riferire ad entità diverse dall'animale e dal-la macchina.

La grande potenzialità delle analisi del Wiener è stata evidenziata dai numerosi studi che hanno fatto seguito alle sue prime pubblicazioni, in quanto l'interesse per le nuove teorie si è diffuso in tutto il mondo ed ha coinvolto migliaia di studiosi, i quali hanno dedicato la loro attività a quegli studi, considerandoli come il presupposto, o meglio la base teorica, di analisi specifiche nei più vari campi del sapere (Fisica, Psicologia, Sociologia, Economia, Pedago-gia, Biologia, ecc.).

Gli studiosi di Cibernetica hanno altresì elaborato alcune teorie di base che si sono dimo-strate fondamentali per lo sviluppo di varie altre discipline, quali, ad esempio, i concetti di feedback o retroazione, coazione, omeostasi, equilibrio dinamico, scatola chiusa, ecc., i quali, unitamente ad altri strettamente connessi, facenti parte più specificamente della Teoria

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dell'informazione (input, output, messaggio, ecc.), forniscono una base teorica proficua qua-lunque sia lo specifico campo di analisi.

In particolare, la teoria di comune interesse degli studiosi di Cibernetica è quella della “regolazione”, che studia le proprietà in base alle quali i sistemi risultano dotati di capacità di permanere in equilibrio per il tramite dell'esistenza in essi di forze che siano capaci di contra-stare le cause di deviazione.

La prospettiva metodologica della Cibernetica è basata su schemi meccanicistici o, più analiticamente, si può notare che la Cibernetica si basa su costruzioni teoriche informate all'esistenza di precise relazioni tra causa ed effetto: le catene causali che ne derivano vengo-no costruite nell'ipotesi che lo stato finale di ogni fenomeno, oggetto di osservazione, possa essere definito in modo univoco alle sole condizioni che si conosca lo stato iniziale e il suo programma di informazione. In altri termini, l'approccio metodologico al quale si ispira la Cibernetica, sulla base della tendenza scientifica tradizionale, è di tipo meccanicistico, poiché suppone che lo stato finale di un fenomeno possa essere raggiunto in un solo modo e che esso derivi da un preciso e univoco stato iniziale.

La teoria cibernetica si è arricchita nel tempo con l'accumularsi dei contributi scientifici e delle applicazioni pratiche. Trattasi dei concetti di informazione e comunicazione, già con-siderati in precedenza, e di quelli di regolazione, omeostasi, entropia.

Un sistema si definisce cibernetico se ha la possibilità di “regolare” automaticamente il proprio modo d'essere e di divenire in base ad un modello prestabilito. In tal caso se inter-vengono fattori devianti, fattori che tendono a far assumere al sistema caratteristiche o com-portamenti differenti da quelli programmati, intervengono altresì automaticamente forze di contrasto che impediscono a tali fattori di esercitare nel sistema l'azione deviante. Il sistema può, dunque, mantenersi in condizione di stabilità assimilabile allo stato di equilibrio assolu-to nei sistemi isolati e allo stato stazionario (equilibrio relativo) nei sistemi aperti: lo stato di equilibrio assoluto è la condizione in base alla quale il sistema, dopo che la sua entropia ha raggiunto il livello massimo, non subisce modifiche, mentre lo stato di equilibrio relativo è la condizione in base alla quale il sistema perviene a successive e differenti situazioni di stabili-tà per effetto del continuo scambio di energia, o informazioni, o condizionamenti con il con-testo del quale fa’ parte.

Il vocabolo entropia indica un “valore”, o “quantità”, o “misura della probabilità” del “disordine” che, sulla base del secondo principio della termodinamica, applicabile notoria-mente solo ai sistemi isolati o chiusi, tende al valore massimo che, all'atto del raggiungimen-to, determina nel sistema lo stato di equilibrio definitivo.

La forza che contrasta i fattori devianti e consente la condizione di omeostasi si denomi-na feedback, o retroazione, o controreazione e si può schematicamente rappresentare come risulta dalla figura 5.

sorgente percezione autocontrollo risposta

RETROAZIONE

Figura 5 - Schema elementare di feedback

La “sorgente” è la circostanza che origina la “deviazione” rispetto al programma esisten-

te; la “percezione” della tendenziale deviazione è esercitata per il tramite di specifici sensori, che assumono caratteristiche connesse con la specifica natura del sistema; il “controllo” con-

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siste nell'accertamento continuo della compatibilità delle condizioni che si verificano con le condizioni previste dal programma e infine la “risposta” è la fonte da cui ha origine il feed-back o retroazione in senso stretto, cioè la forza che agisce all'atto dell'accertamento della tendenziale deviazione e impedisce che questa si verifichi. In concreto i feedback assumono varia natura: possono essere costituiti da “potenza fisica”, da contatti elettrici, da stimoli di diverso tipo, da ordini personali di tipo gerarchico, da autorizzazioni, ecc. Il sistema omeo-statico è capace di autocontrollarsi, cioè è dotato dell'attributo della regolazione.

Per illustrare i concetti fin qui presentati solitamente si utilizza il regolatore di Watt, che è considerato il primo meccanismo con feedback costruito dall'uomo. Il regolatore di Watt ha lo scopo di regolare la velocità delle macchine a vapore. E' costituito da due pale fissate in-torno ad un albero ruotante: quando la velocità tende ad aumentare oltre un limite prestabili-to, le pale si sollevano a causa della forza centrifuga e, per il tramite di una serie di leve, fan-no chiudere una valvola, determinando in tal modo una riduzione di velocità. A questo punto le pale tendono ad abbassarsi fino a consentire alla valvola di riaprirsi e quindi al vapore di uscire in quantità crescente, facendo aumentare la velocità del motore. Quest'ultima circo-stanza determina il sollevamento delle pale e la continuità del processo.

Altro esempio di macchina cibernetica elementare è il termostato che consente di mante-nere la temperatura dell'ambiente, nel quale esso è inserito, entro i limiti di variabilità presta-biliti. Il termostato “percepisce” la temperatura dell'ambiente ed è collegato all'impianto di riscaldamento in modo che, quando la temperatura giunge al limite superiore prestabilito, origina automaticamente la disattivazione della fonte di calore per riattivarla in caso di dimi-nuzione della temperatura del locale.

Si deve notare come i feedback più complessi si trovino indubbiamente nel corpo uma-no: la sudorazione, la ricerca automatica di un punto d'appoggio, gli anticorpi, ecc. Più in ge-nerale si può rilevare che ogni azione dell'uomo, da qualunque organo derivi, è continuamen-te “regolata” al fine di conseguire nel miglior modo l'obiettivo stabilito, secondo un modello che risulta dalla sua consapevolezza.

Questa constatazione non vuole significare che l'uomo sia un'entità complessivamente cibernetica per vari motivi tra i quali quello forse meno importante, ma comunque decisivo, è che gli attributi cibernetici di cui l'uomo dispone non sono tali da esentarlo da deviazioni, er-rori, imperfezioni e simili nell'attuazione rispetto al “programma”.

La regolazione non è un attributo esclusivo dei sistemi isolati, bensì la si può riscontrare anche in sistemi aperti, dei quali il sistema uomo è una categoria, ma è anche vero che men-tre nei sistemi isolati la regolazione opera sulla base di uno schema meccanico elementare, nel sistema biologico si verificano pure regolazioni (più complesse e meno spiegabili) per ef-fetto di interazione dinamica dei processi ed è pure vero che, nei sistemi aperti e in specie in quelli biologici la regolazione, anche nei casi in cui essa esista, non assume portata comples-siva, o comunque tale da caratterizzare l'intero sistema in senso cibernetico.

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