DUE SECOLI DI STORIA CIVILE - LETTERARIA religiosa 1300 … · pansofia Comeniana. Il Vasari parlò...
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UNIVERSITA’ DELLE TRE ETA’
VASTO
DUE SECOLI DI STORIA
CIVILE - LETTERARIA – religiosa
1300 – 1400
LORENZO VALLA
CONVERSAZIONI DEL PROF. NICOLANGELO D’ADAMO
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PREMESSA
Il corso di storia di questo Anno Accademico è particolarmente affascinante: dei due secoli presi in esame, il Trecento ed il Quattrocento, cercheremo di conoscere non solo la storia civile, del resto già presentata sinteticamente negli anni precedenti, ma anche l’organizzazione sociale, la letteratura e il travaglio religioso di quei due secoli che consacrarono l’Umanesimo. Nel Trecento si consumò lo scisma d’Occidente ed il trasferimento della sede papale ad Avignone, il trauma di tre Papi contemporaneamente, il ritorno del papato a Roma. Pertanto è bene e necessario chiarire, con maggiori approfondimenti, quegli eventi. Il metodo che seguirò non sarà accademico, se mai lo è stato in precedenza, bensì più vicino agli accadimenti reali, ai protagonisti, al “popolo minuto”, cercando di rimanere fedele agli insegnamenti del grande storico francese Marc Bloch che amava ripetere che “la storia è la scienza degli uomini in società nel tempo”. Infatti dietro ogni grande evento c’è una storia al singolare che l’ha generato e ne ha permesso lo sviluppo. Perciò quello storico insistette molto sull’insegnamento della storia nelle scuole perché, per lui, è quello il cantiere decisivo in cui si forma non solo la coscienza collettiva, ma anche il terreno da cui potranno nascere ulteriori storiografie in una ricerca senza fine per una conoscenza sempre più approfondita e completa. Un esempio di non poco conto l’abbiamo avuto in Italia con la Storia del Fascismo di Renzo de Felice che ha fatto giustizia delle storie precedenti dimostrando che la continua ricerca ci aiuta a correggere gli stereotipi, le interpretazioni di comodo, i racconti viziati da un eccesso di apologetica o da sfacciata difesa di parte. In tanti si chiedono se esista o meno l’obiettività nella ricerca storica. La risposta è no nella singola ricerca, si nell’insieme degli studi storici evento per evento. L’obiettività la si trova quindi nella ricerca continua e nel confronto tra più scuole di pensiero ed orientamenti ideologici. Un esempio di scuola della scarsa obiettività della storiografia ufficiale presa in un limitato contesto temporale è la lettura apologetica del Risorgimento che tanti libri di storia ci hanno presentato in passato, ignorando o sottostimando alcune ombre e pagine di sangue che, a volte, gratuitamente furono volute dai vincitori. Oggi una ricerca priva di intenti apologetici comincia a raccontarci un’altra verità accendendo fari luminosi su fatti oscuri o ignorati. Insomma non c’è leso Risorgimento se si dice che il generale Cialdini fu un sanguinario o se si fa conoscere il seguente delirante incitamento alla violenza del gen. Ferdinando Pinelli alle porte della fortezza borbonica di Civitella del Tronto: ““Contro nemici tali, (i Borboni) la pietà è delitto; vili e genuflessi quando vi vedono in numero; proditoriamente vi assalgono alle spalle quando vi credono deboli, e massacrano i feriti (…….) sono i prezzolati scherani del Vicario, non di Cristo, ma di Satana. Noi li annienteremo, e schiacceremo il sacerdotale vampiro che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue dell'Italia nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le vergini infettate dall'immonda sua bava e da quelle ceneri sorgerà più rigogliosa e forte la libertà anche per
la nobile provincia ascolana“. Questo delirante comunicato fu censurato anche dal
governo Cavour, che sostituì Il generale Pinelli con il generale Mezzacapa.
Altri fatti gravissimi che hanno punteggiato l’intero percoso unitario avrebbero imposto
maggior rigore nei resoconti militari e civili e soprattutto un giudizio meno enfatico ed
agiografico dell’intero percorso risorgimentale. Si spera che con il passare degli anni
nuovi studi ed opportune valutazioni dei documenti, consentano una lettura più obiettiva di
quelle vicende.
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Insomma la lettura storica di un evento ha bisogno di secoli di decantazione per
raggiungere un buon livello di obiettività.
Orbene, sono passati sei secoli dall’epoca dei fatti che raccontiamo e quindi l’indagine
storica che qui viene presentata è il risultato di tante letture diverse per orientamenti critici
ed ideologici e perciò essa appare abbastanza obiettiva e condivisibile.
Conto ovviamente sulla vostra collaborazione e comprensione: dovrà essere un percorso
da fare insieme, evento dopo evento, personaggio dopo personaggio per ricostruire la
trama complessa di questi due secoli, nella convinzione che la storia non è una
pinacoteca, ma un mosaico e perciò ogni più piccola tessera è funzionale alla
comprensione del tutto
Mi auguro di riuscire ad interessarvi a questi argomenri, magari anche con qualche
aneddoto che aiuti a memorizzare fatti, luoghi, circostanze e tempi.
La consueta tesina la consegnerò in tre momenti: Natale, Pasqua, termine del corso
(maggio 2018).
L’ ITALIA DELLE SIGNORIE
Nicolangelo D‘Adamo
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CAP. I° INIZIO DEL BASSO MEDIOEVO
Siamo alla fine del Medio Evo in senso stretto, tra la fine del Duecento e l’Inizio del Trecento, ovvero l’inizio del cosiddetto Basso Medioevo. Comincia il periodo dell’Umanesimo che ci condurrà nella celeberrima stagione del Rinascimento. Gli storici si sono accapigliati per fissare date e circostanze di questi due secoli fondamentali per la storia europea e eccezionali per l’Italia, ma solo dal punto di vista artistico e culturale in genere, e di questo parleremo ampiamente. Una data la possiamo comunque indicare: 1492, che per tante ragioni chiude un’epoca e ne apre un’altra: la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo; con essa termina il Basso Medio Evo ed entriamo nel monumentale Cinquecento, il secolo della Riforma e del Concilio di Trento, di Leonardo e della pansofia Comeniana. Il Vasari parlò di “Rinascenza”: ai suoi occhi vi era stata una resurrezione della cultura classica, dopo quasi mille anni di oscurantismo: era come se i latini si prendessero una rivincita sulle orde gotiche, longobarde e franche. A leggere bene si tratta di una teoria che ha elementi fondati di verità, L’Italia aveva assorbito le popolazioni germaniche, convertendole alle civili strutture romane, un po’ perché quelle invasioni furono meno alluvionali che altrove, la società viveva ancora, anche se in decadenza, dell’organizzazione sociale tardo imperiale e infine, nonostante la capitale della romanità fosse ormai Costantinopoli, Roma era pur sempre la sede del cristianesimo che in quegli anni viveva una stagione di grande proselitismo. I tedeschi erano perciò obbligati, anche se solo per pregare, a imparare il latino. Una volta in possesso dello strumento linguistico, disponevano della chiave per comprendere la superiorità delle leggi e delle Istituzioni latine. Questa riscoperta progressiva della civiltà romana venne chiamata Umanesimo ed Umanisti quei topi di biblioteca che riuscirono a ritrovare numerose opere classiche di cui non si aveva più alcuna conoscenza e per l’attribuzione delle opere ritrovate ai veri autori nacque e si sviluppò una nuova scienza, la filologia. Il recupero della cultura classica fu uno degli aspetti peculiari del Rinascimento: La sintassi di Cicerone, l’epica ed il verso Virgiliano, il lirismo catulliano furono i nuovi strumenti di lavoro per i poeti e in genere dei laureati che non si limitarono solo a imitare i grandi classici latini, fu proprio quello che aggiunsero a fare del Rinascimento la più grande esplosione del genere umano che la storia abbia registrato, dopo il secolo d’oro ateniese. Rinacquero innanzitutto le città. Il nomadismo e l’incastellamento dei secoli precedenti avevano negato qualsiasi prospettiva di progresso civile: è dalla città che nascerà e progredirà, dall’Italia al resto d’Europa, il progresso rinascimentale, come dalle città di Atene e Roma erano nate le civiltà precedenti. La rinascita economica, sociale e artistica fu agevolata anche dalla felice posizione dell’Italia al centro del Mediterraneo, ovvero al centro dei grandi traffici tra
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occidente ed oriente, Cristianesimo, mondo Islamico e la romanità greca di Bisanzio. Dall’Oriente arrivavano in Italia e poi in Europa le sete, i damaschi e le stoffe, ma anche la geometria, l’algebra e la logica aristotelica. Logico quindi che i porti italiani si arricchiscano e tornino a proliferare arti e mestieri. In fondo durante il Medio Evo l’unica industria che funzionava era la Chiesa su cui si riversavano tutti gli oboli dei cristiani europei, Comunque in Italia un po’ di economia girò anche nei momenti più bui: la moneta non scomparve del tutto, come accadde nei Paesi completamente ruralizzati. A farla da padrone furono soprattutto Genova e Venezia, le maggiori città marinare che disponevano delle migliori flotte, gli ammiragli più bravi e coraggiosi ed eserciti consistenti. Il Rinascimento non sarebbe stato concepibile senza l’accumulo di ricchezza di queste Repubbliche, con l’aggiunta dello strapotere delle banche fiorentine a cui attingevano anche i re stranieri. Nasceva lentamente il ruolo della grande borghesia, di tanti nuovi ricchi che non avendo un blasone araldico, ne cercarono uno nel mecenatismo finanziando artisti, letterati e grandi architetti: Da loro arrivavano le commesse e gli ideali di bellezza del Rinascimento poterono essere perseguiti con successo, senza neppure il rischio di censura che incombeva sulle opere degli ordini religiosi o singoli prelati. Se nel Duecento all’avanguardia c’era la Francia con una lingua già strutturata, la langue d’oil, la poesia trobadorica, la filosofia di Abelardo (filosofo e teologo, precursore della Scolastica), l’architettura gotica. Ma la Francia rinunciò a questi primati per impegnarsi a costruire un’unità nazionale, la creazione dello Stato Francese e perciò si svilupparono l’esercito, la diplomazia e soprattutto la burocrazia statale, sempre più di altissima formazione, primato che conserva tuttora. Al contrario la storia dell’Italia è un affresco in cui campeggiano grandi città e grandi personaggi, non lo sviluppo di un intero Paese, ovvero una Nazione guidata da uno Stato unitario.
CAP. II. DAGLI SVEVI AGLI ANGIOINI
Nel 1250 moriva a Fiorentino, in Puglia, divorato dalla dissenteria, il più grande
imperatore Svevo, Federico II Hohenstaufen, ma anche ultimo normanno, era figlio
di Costanza d’Altavilla e visse la sua vita sentendosi più siciliano che Svevo e ancor
meno italiano. Era cresciuto a Palermo e rappresentava la sintesi del grande
splendore della civiltà cosmopolita siciliana contemporaneamente greca, araba ed
ebraico fenicia. I siciliani vissero sempre nel ricordo di questa loro originaria
grandezza che poi sarà alla base della loro costante insofferenza verso altri poteri
che l’assoggettavano e l’annettevano. L’ultima grande ribellione la vissero nella
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prima metà dell’Ottocento, quando non accettavano di far parte del Regno delle due
Sicilie in una posizione subalterna a Napoli : in quell’occasione il re Ferdinando II
represse molto duramente l’insurrezione. Possiamo arrivare anche ai giorni nostri e
comprendere meglio il tentativo milazziano del dopo guerra che mirava a staccare
la Sicilia dall’Italia: lo si può considerare l’ultimo tentativo indipendentista.
Ma torniamo a Federico II di Svevia. Nella sua vita non smise mai di tentare
l’unificazione dell’Italia, naturalmente come espansione dell’impero non per motivi
nazionalistici, ma la forza dei liberi comuni, che si stavano trasformando in Signorie
e poi in Principati, e la presenza del papato che non lo amò mai (ma anche lui non
amava quella istituzione), non gli consentirono mai di spostare i confini.
Ripetutamente scomunicato dal papa lo ricambiava perseguitando i papalini,
torturandoli ed accecandoli. All’epilogo della sua vita si ritrovò con il figlio Enzo
prigioniero dei Bolognesi, e dalla torre in cui fu rinchiuso non sarebbe più uscito e
l’altro figlio, Manfredi (“Biondo, bello e di gentile aspetto”)che, pur vincitore di tante
battaglie, non avrebbe mai del tutto sconfitto i suoi nemici. Apparentemente un
bilancio fallimentare, eppure l’eredità federiciana ci racconta di tante leggi
opportune, di tribunali laici, di ordinata amministrazione statale, una propria
moneta, una polizia efficiente, una ordinata rete stradale ed un solido esercito ed
infine un circolo culturale che trasformò il dialetto in lingua artistica ponendo le
basi di quella che sarà la lingua italiana (Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini –
inventore del Sonetto - Pier delle Vigne, per fare alcuni nomi).
Le congiure di palazzo, per invidia e gelosie, di cui farà le spese un innocente Pier
delle Vigne, i nemici esterni e soprattutto il papato , che non poteva dividere il suo
potere in Italia con nessuno, non consentirono a Federico di portare a termine
l’unificazione dell’Italia. E stessa sorte ebbe il figlio illegittimo (madre Bianca Lancia)
Manfredi. L’imperatore Corrado IV, figlio di Federico, scese dalla Germania per
evitare che il Papa Innocenzo IV s’impossessasse del Regno di Napoli e Sicilia di cui
rivendicava l’appartenenza all’impero, purtroppo dopo aver assicurato all’impero
quel regno morì di malaria. Manfredi prese il comando dell’esercito e ricacciò
facilmente le ultime truppe papaline. Innocenzo IV ne morì di crepacuore e il suo
successore Alessandro IV si spinse addirittura a bandire una crociata contro
l’impero. Ne fece le spese Ezzelino, cognato di Manfredi (aveva sposato una figlia
illegittima di Federico II), che, rimasto isolato al nord, fu sopraffatto ed ucciso. Anzi
fu ferito a morte e lui, violento anche con se stesso, rifiutò qualsiasi aiuto, compreso
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il confessore e si lasciò morire. La guerra fu continuata da Manfredi che nella
battaglia di Montaperti riportò una netta vittoria. Per cinque anni riuscì a
governare tranquillamente, ma il Papa Urbano IV si rivolse al re di Francia Luigi IX
per sconfiggere Manfredi e gli promise in cambio la Corona del regno di Napoli e
Sicilia. Luigi IX rifiutò elegantemente di imbarcarsi in quella avventura, ma per non
scontentare il Papa gli offrì un esercito con a capo il fratello Carlo d’Angiò.
Questi scese in Italia con un esercito di 30.000 uomini, il doppio delle truppe di
Manfredi, e lo affronto a Benevento nel 1266. Nella battaglia perse la vita Manfredi
e il suo esercito fu annientato.
CORRADINO DI SVEVIA
Iniziò così il regno Angioino in Italia. Ma due anni dopo, il nipote di Manfredi, il
sedicenne Corradino, figlio di Corrado IV, deciso a riprendersi il regno italiano scese
in Italia e affrontò Carlo d’Angiò a Tagliacozzo. Catturato dai francesi, fu portato a
Napoli e decapitato sulla piazza del mercato. Era il 29 ottobre del 1268.
Così terminava definitivamente la presenza Sveva in Italia.
CAP- III. L’ARRIVO DEGLI ARAGONESI
Carlo d’Angiò aveva un’ottima occasione per creare una grande potenza nel meridione d’Italia e tentarne l’unificazione: tutto giocava a suo favore: una grande Palermo efficiente e ben organizzata, crocevia di tutte le culture del Mediterraneo alla testa di un regno sapientemente governato da Federico con un’economia solida, l’appoggio del Papa sempre più legato alla Francia e una protezione europea che poteva assicurargli il fratello Luigi da Parigi. E invece di concentrarsi sulla politica italiana si lanciò in nuove conquiste per allargare il regno ed estendere i suoi domini in Grecia e in Tunisia. I suoi soprusi e le sue violenze gli alienarono alcune
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alleanze, a cominciare dal papato. Il lungo conclave di Viterbo (tre anni) si concluse con l’elezione di un italiano e non un francese, nella persona di Gregorio X. Lui rianimò i ghibellini, ridotti al silenzio dopo la morte di Manfredi, e soprattutto fece nominare imperatore Rodolfo d’Asburgo, già alleato degli Hohenstaufen. Ma il papato di Gregorio X durò poco e alla sua morte i cardinali francesi ripresero io sopravvento con l’elezione di Martino IV. Ma una grave tempesta si annunciava all’orizzonte. Il 31 marzo 1282, settimana di Pasqua, a Palermo, un soldato francese allungò la mano su una donna a spasso con il marito, questi, colpito nell’onore, sguainò la spada e lo uccise. La folla immediatamente si schierò con il cittadino offeso e, al grido di “mora, mora”, per tutta la notte fu caccia all’uomo. Una vera rivolta: erano iniziati i “Vespri Siciliani”, una manifestazione violenta del malcontento dei siciliani. Gli insorti si appellarono al Papa per ottenere giustizia. Ma papa Martino IV non poteva mettersi contro i Francesi e diede a Carlo mano libera per domare la rivolta. Re Carlo inviò una flotta che pose l’assedio a Messina, ma questa, sotto la guida del generale Ruggero di Lauria, resistette; nel frattempo i capi della rivolta si rivolsero a Pietro il Grande di Aragona offrendogli la corona dell’isola. Il re spagnolo stava già nel Mediterraneo meridionale e non impiegò molto a scaricare l’esercito a Trapani e proseguire con la flotta su Messina. Qui affrontò la flotta angioina e la distrusse. Carlo d’Angiò, furibondo, chiese ed ottenne dal Papa la scomunica per gli Aragonesi e i siciliani alleati, ma non sortì alcun effetto. Allora Carlo, convinto che si trattasse di un fatto personale tra lui e Pietro d’Aragona, anche se settantenne, lo sfidò a duello. Lo scontro doveva avvenire a Bordeaux il 12 giugno 1283, ciascun contendente poteva essere accompagnato da 99 cavalieri. Carlo fu puntuale, ma Pietro, nonostante si fosse impegnato con un giuramento, non arrivò. Secondo il codice cavalleresco fu giudicato “Codardo”. Ma Pietro con una successiva lettera spiegò che lui era stato a Bordeaux fin dal 31 maggio, naturalmente travestito e aveva notato che in città c’era un contingente di tremila uomini che stavano preparando un’imboscata. Anche Dante commentò l’episodio e si schierò a favore di Pietro d’Aragona: considerati i tempi non si fa fatica a credere agli aragonesi! Comunque quella diatriba diede luogo ad una guerra l’anno successivo e consentì a Pietro d’Aragona di infliggere una nuova sconfitta a Carlo d’Angiò nella baia di Napoli. Presto i due protagonisti morirono e a Napoli salì al potere Carlo II, mentre a succedere a Pietro ci furono due figli: Alfonso che si tenne l’Aragona e Giacomo fu incoronato re di Sicilia. Morto giovane re Alfonso, il fratello Giacomo cinse la corona d’Aragona e promise ai francesi di restituire la Sicilia, a suggellare questo patto intervenne il suo matrimonio con la figlia di Carlo II. Ma a questo punto furono i siciliani a ribellarsi. Diedero la corona al terzogenito d’Aragona, Federico, e affidarono l’esercito a
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Ruggero di Lauria. Dopo complicate vicende successive, si arrivò alla pace di Caltabellotta che riconobbe la sovranità di Federico sull’isola, ma solo vita natural durante. Naturalmente i fatti si incaricarono di smentire quell’accordo.
CAP. IV. LA SITUAZIONE ITALIANA E LA
“CATTIVITA’ AVIGNONESE”
All’inizio del primo dei secoli più importanti per l’Italia, il Trecento, la situazione italiana era la seguente. La Penisola era divisa ormai stabilmente tra gli Stati di Genova, Venezia, Milano, Firenze e Napoli. Roma aveva un certo peso solo per la presenza della corte papale, trasferita quella ad Avignone, Roma divenne una città abbandonata senza peso politico ed economico: non più di trentamila abitanti, falcidiati dalla malaria, con tutti i monumenti del vecchio impero del tutto in rovina. Questo mosaico si creò e rafforzò man mano che andavano in crisi gli istituti comunali: nonostante il ricorso al podestà, a soggetti esterni, i vecchi comuni non riuscirono ad assicurare l’ordine e una civile convivenza: le risse tra fazioni e tra famiglie erano continue creando immobilismo nelle città; nonostante vari provvedimenti per coinvolgere nella vita cittadina il maggior numero possibile di cittadini, le masse erano sempre più marginalizzate e se a Firenze cinquemila cittadini godevano i pieni diritti civili ed erano rispettati, gli altri settantamila vivevano da sudditi; ancora un altro motivo lo possiamo individuare nella enorme crescita economica che finì con l’allargare i confini commerciali a dismisura e per governarli non bastava più il semplice contabile aziendale, si cercò di creare un’associazione tra comuni, ma fallì. Non restò quindi che accettare la sfida a chi era più forte e più grande, senza più alcun vincolo ideologico perché il guelfismo ormai non esisteva più (il guelfismo fungeva da difesa delle autonomie locali, con l’aiuto della Chiesa, contro il potere imperiale). Carlo d’Angiò era stato chiamato dalla Chiesa e minacciava di fare ciò che non era riuscito a Enrico IV, a Federico Barbarossa e a Federico II, ovvero unificare l’Italia sotto un unico potere centrale, uccidendo tutte le autonomie locali. I grandi comuni quindi si trasformarono progressivamente in Signorie (il potere in mano alla famiglia più potente) e a loro volta in Principati (quando il potere del Signore divenne ereditario) e si affermarono così i Visconti a Milano, i della Scala a Verona, i Medici a Firenze, i Gonzaga a Mantova, gli Este a Ferrara ecc, A Venezia e Genova ressero gli istituti repubblicani, naturalmente oligarchici.
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LA CATTIVITA’ AVIGNONESE
Il drammatico trasferimento della sede papale ad Avignone fu preceduto dal durissimo confronto tra papa Bonifacio VIII e Filippo il Bello. Papa Bonifacio, il cardinale Caetani, aveva sostituito il dimissionario papa Celestino V, ovvero l’eremita Pietro da Morrone). Con l’espressione “Cattività Avignonese” si intende il periodo che il pontefice e la sua corte trascorsero presso la città di Avignone, in Provenza, praticamente sotto il controllo della monarchia francese. Tale periodo va dal 1309 al 1377, durante il quale sette successivi papi risiedettero nella città provenzale e segna il peggior momento della vita della Chiesa. La situazione nacque dal conflitto tra papato e corona francese. L’ostilità irriducibile di Filippo il bello, sfociò nell’assedio di Anagni, dove il Papa si era rifugiato, l’ingresso violento nelle sue stanza da parte della soldataglia di Sciarra Colonna e il famoso schiaffo in pubblico. Bonifacio non si riprese da quella tragica esperienze e ne morì L'arcivescovo Bertrand de Got, eletto Papa nel 1305 col nome di Clemente V, con il pretesto del clima insalubre di Roma, ma in realtà per sottrarsi ai conflitti della città, scelse di fissare la sua dimora ad Avignone nel 1309. Nei primi quattro anni del suo pontificato, il Papa viaggiò costantemente avanti e indietro tra Poitiers, Bordeaux e Lione e alla fine scelse Avignone come suo luogo di residenza permanente. Il periodo avignonese costituisce, a detta di tutti gli storici, una fase di oggettiva debolezza del potere papale che viene direttamente controllato dalla monarchia francese di Filippo il Bello e dagli Angioini di Napoli (a cui Avignone apparteneva), come dimostrò il caso dei Templari, ordine religioso-cavalleresco sciolto proprio in questo periodo dal monarca francese (desideroso di azzerare i propri debiti e impossessarsi del patrimonio templare, riducendo nel contempo il potere della Chiesa). Lontano dai contrasti romani, però, la Curia sviluppò ordinatamente la propria strutturazione burocratica e fiscale. I papi che si distinsero durante quel periodo furono soprattutto Benedetto XII che risistemò le finanza della Curia soprattutto cercando di moralizzare la chiesa soprattutto sul versante di una sfrenata simonia. Il successore Clemente VI, un ricco nobile francese, tornò subito alle abitudini precedenti, inseguendo sfarzo, lusso, pranzi pantagruelici, arrivando a vendere cariche ecclesiastiche anche alle donne, che tra l’altro avevano libero accesso nella sua corte. Le colossali somme impiegate per completare il palazzo dei Papi ad Avignone furono finanziate con un enorme ed irrazionale carico fiscale, reso insopportabile per la povertà dei tempi e soprattutto provocò la reazione dei principi tedeschi e dell’Inghilterra che proibirono le esportazioni di valuta e negarono dei contributi religiosi. Naturalmente ci furono reazioni violente anche tra i fedeli.
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Come era accaduto in passato con le contestazioni dei Valdesi, i Catari e i Patarini, si moltiplicarono le reazioni negative assumendo anche forme violenti, al punto che la Chiesa per venirne a capo dovette intensificare l’attività dei tribunali dell’ inquisizione, la tortura e il rogo. In questa occasione, un frate di Novara, fra Dolcino ( 1250 circa – 1º giugno 1307), con prediche infiammate cominciò a denunciare pubblicamente i tre vizi capitali della curia papale: Simonia, Nepotismo, Cesaropapismo. Nel 1291 Dolcino entrò a far parte del movimento denominato Apostolica Confraternita, guidato da Gherardo Segalelli, un ordine religioso promiscuo in cui ognuno si impegnava a vivere in castità e povertà. È dubbio come la definizione di "frate", con cui spesso anche Dolcino viene definito, debba essere intesa, perché non si è affatto sicuri che egli abbia mai pronunciato voti religiosi: si limitò forse ad autodefinirsi "fratello" nell'ambito del movimento ereticale. Gli Apostolici, in sospetto di eresia e già condannati da papa Onorio IV nel 1286, furono repressi dalla Chiesa cattolica e il Segalelli fu arso vivo sul rogo il 18 luglio 1300. In seguito il Papa ordinò al tribunale dell’Inquisizione di convocare i ribelli, che si guardarono bene dall’ubbidire e, anzi, si ritirarono sulle alpi piemontesi, dove si cibarono di erbe e ghiande. L’inquisizione armò un robusto esercito di mercenari e li assalì. Un migliaio caddero combattendo, molti furono arrestati tra cui fra Dolcino e la sorella Margherita. Le torture prima del rogo furono lunghe e dolorose perchè nessuno accettò di abiurare. A Margherita, ancora bella, le proposero un matrimonio e la salvezza se avesse abiurato, ma rifiutò e mori bruciata. Fra Dolcino e il suo collaboratore Longino dopo le torture furono portati in piazza con i loro carnefici mentre dilaniavano le loro carni con tenaglie roventi e lanciavano al popolo brandelli della loro carne. Come accadde spesso alla Chiesa, nei momenti peggiori nascono dei grandi santi che la risollevano. Anche in questa occasione fu la giovane S. Caterina sa Siena ad inondare la curia Avignonese di lettere infuocate per spingere i Papi a tornare a Roma, per iniziare la “Riformazione” della Chiesa. Evidentemente fu convincente. Nel 1366 il Papa Urbano V diede ordine di tornare a Roma, anche se il ritorno concretamente fu fatto dal suo successore Gregorio XI. Il 13 gennaio 1377 il pontefice tornò ufficialmente a Roma ponendo fine alla Cattività Avignonese.
CAP. V. DANTE ALIGHIERI
Dante Alighieri o Alighiero fu battezzato come Durante di Alighiero degli Alighieri, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 22 maggio e il 13 giugno 1265 – Ravenna, 14 settembre 1321). Secondo la testimonianza del figlio Jacopo il suo nome sarebbe l’ipocoristico di Durante. Insomma una trasformazione simile al nostro Beppe o Peppe al posto di Giuseppe, Checco al posto di Francesco, ecc.
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DANTE
Il padre si chiamava Alighiero di Bellincione e svolgeva l’attività di
“cambiavalute”, mentre la madre si chiamava Bella (Gabriella) degli Abati,
famiglia Ghibellina, di lei Dante non parlò mai, così anche del padre, che
probabilmente non stimava molto. Boccaccio racconta che la sua nascita fu
preannunciata da lusinghieri auspici. La madre di Dante infatti, poco prima di
darlo alla luce, ebbe una visione: sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in
mezzo a un vasto prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante
appena partorito, e di vedere il bimbo tendere la piccola mano verso le fronde,
mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone.
La madre morì che aveva cinque anni e presto il padre si risposò con Lapa di
Chiarissimo Cialuffi. Che gli diede altri tre figli, un maschio e due donne. Quando
Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma,
figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni.
Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si
faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti
ad un notaio. Da Gemma Dante ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia, e un
possibile quarto, Giovanni. Infatti si dice fosse figlio suo anche un certo
"Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia", che compare come testimone in
un atto del 21 ottobre 1308 a Lucca. Antonia divenne monaca con il nome di
Sorella Beatrice, sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna.
Dante Alighieri è universalmente riconosciuto come il massimo poeta italiano ed
uno dei più grandi geni letterari del mondo.
Sua è l’opera immortale la “Comedia” (poi ribattezzata Divina Commedia a
cominciare dal Boccaccio).
Ma sono suoi anche “La Vita Nova”, “De Vulgari Eloquentia”, “Convivio”, De
Monarchia”, “Questio de Aqua et Terra” Opere fondamentali sia per la storia
letteraria e linguistica italiana sia per la conoscenza della nostra storia civile e
politica. Infatti Dante fu anche uomo politico impegnato, amministratore della sua
città, Firenze, all’epoca appartenente al partito Guelfo, di parte “Bianca” (i Guelfi
Neri, contro i quali si scagliò violentemente e ne ricevette in cambio l’esilio e la
condanna a morte, erano contrari all’Impero e favorevoli alla Teocrazia), ovvero
era contrario al dominio assoluto dell’Impero, ma non voleva l’ingerenza della
Chiesa nell’amministrazione dei liberi comuni.
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Dante è considerato il padre della lingua Italiana per lo studio che egli fece dei
dialetti italiani nell’opera De Vulgari Eloquentia. In Questa opera Dante non si
preoccupò di “raffinare” il solo dialetto fiorentino, ma, come vedremo, perseguì un
ideale di “volgare illustre” e molti critici videro proprio nella Divina Commedia
la codifica “ del “Volgare Illustre” italiano da cui nel Trecento partiranno gli
altri scrittori che vorranno scrivere in volgare.
E a proseguire su quella strada ci furono personaggi del calibro di Petrarca e
Boccaccio.
La sua formazione politica avvenne all’interno del Partito Guelfo di parte Bianca
pur essendo sposato con Gemma Donati appartenente ad una influente famiglia
Guelfa di parte Nera All’interno del partito Guelfo Dante fece una discreta carriera
politica, dopo essersi iscritto all’”Arte dei Medici e Speziali”, l’iscrizione ad una
delle Corporazioni era requisito indispensabile per entrare in politica, ed arrivò a far
parte del “Consiglio dei Cento”, e fu finanche “Priore” all’interno della sua
Corporazione.
Nel 1302, mentre era a Roma per una missione diplomatica dal Papa, fu
raggiunto dalla notizia che era stato condannato al rogo in contumacia dai
Guelfi Neri che avevano preso il potere a Firenze con l’aiuto di Carlo di Valois.
Iniziò così un lungo esilio presso varie corti dell’Italia settentrionale. In diciannove
anni di esilio fu ospite di diverse casate dell’Italia settentrionale. Permanenze e
ospitalità comunque mortificanti ai suoi occhi: “Quanto sa di sal lo scendere e il
salir le altrui scale”. Nel 1320 è a Verona dove presenta la sua ultima opera latina,
la “Questio de Aqua et Terra”.
Muore a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, di ritorno da una missione
diplomatica a Venezia, a causa della malaria che aveva contratto a Comacchio, il
14 settembre del 1321.
Le sue ossa furono nascoste per timore che venissero trafugate dai fiorentini. Solo
nel 1865 si ritrovarono nascoste in una cassetta dietro una porta murata della chiesa
di s. Francesco a Ravenna e si scoprì che il suo mausoleo era in effetti un cenotafio,
ovvero una tomba vuota. Le sue ossa furono poi ricomposte e sepolte nel tempietto
neoclassico ancora visibile a Ravenna.
Circa gli studi di Dante poco o nulla si sa di sicuro. Qualche notizia riusciamo a
ricostruirla attraverso le sue opere e i riferimenti a Brunetto Latini, considerato il
suo maestro. Brunetto era un notaio stimato che godeva di notevole prestigio. Oltre
ad essere coltissimo, era anche un raffinato diplomatico di cui si servì il Comune
per alcune missioni delicate in Spagna. Compose un’opera importante, il Tesoretto,
una specie di enciclopedia per riassumere l’intero scibile del suo tempo. La
formazione culturale di Dante deve molto a questo maestro, soprattutto la sua robusta
formazione classica, l’ ottima conoscenza della lingua latina, frutto di severi studi di
grammatica e di sintassi, non eccelsi furono invece i suoi studi di filosofia,
teologia, fisica, astronomia, ma erano temi che non appartenevano alle sue
corde, sensibili soprattutto alla poesia.
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Diremo dopo di Dante Stilnovista e poeta, in questa sede ci interessa soprattutto
conoscere il suo pensiero politico illustrato nell’opera:
DE MONARCHIA
L'opera venne composta in occasione della discesa in Italia dell'imperatore
Enrico VII di Lussemburgo tra il 1310 e il 1313. Si compone di tre libri.
L’ uomo, secondo Dante, per raggiungere la salvezza eterna, ha due punti di
riferimento: La Chiesa e l’Impero. La crisi politica che travaglia la civiltà dipende
dalla corruzione della Chiesa che aspira a controllare il potere politico. Essa è
diventata una chiesa istituzione, una chiesa-stato che si è sovrapposta in tutto ed in
ogni circostanza al suo destino naturale di Chiesa spirituale. Nel “De Monarchia”
individua le ragioni che giustificano l’autonomia dell’impero rispetto alla Chiesa.
L’impero, a suo giudizio, è il termine ultimo delle varie forme di società perché
corrisponde in tutto all’istituzione politica a carattere universale che realizza in
pieno il principio dell’unità del genere umano. L’impero, a suo giudizio, è la
coordinazione di tutte le comunità minori, autonome e subordinate all’autorità
dell’imperatore. Dante sognava l’avvento di un “Papa Angelico” che riportasse la chiesa alla sua
tradizionale spiritualità e favorisse nel contempo la risurrezione dell’Impero in
tutta l’Europa. L’Imperatore, il monarca universale, pensato e voluto da Dante,
doveva essere super partes e doveva solo vegliare per garantire la pace all’interno
e tra le singole e indipendenti comunità .
Secondo la tesi teocratica di Innocenzo III, la Chiesa e l’Impero potevano
paragonarsi al sole e alla luna.
Ovvero l’Impero doveva vivere di “luce riflessa”, come la luna.
Ma Dante dice che la luna non dipende dal sole, bensì dall’ordine che regola il
movimento degli astri, voluto da Dio. Quindi il monarca temporale non riceve la
sua autorità dal potere spirituale ma solo una maggiore capacità ad operare a
seguito della consacrazione.
Perciò è più giusto parlare di “Due Soli”.
E vede nella figura di Arrigo VII l’imperatore che potrà riportare ai vecchi
splendori l’impero. Nel 1308 Dante è in Toscana per l’arrivo in Italia di Arrigo VII,
interessato a restaurare l’impero; impresa impossibile, ma Dante se ne infiammò al
punto da scrivere una lettera solenne “a tutti e singoli regi d’Italia, a senatori
dell’alma cittade, a duchi e marchesi e a tutti i popoli” per invitarli a sottomettersi
all’imperatore. E andò fino a Milano per consegnare quella lettera personalmente ad
Arrigo. Dopo non molto i vari “regi” italiani dimostrarono quanto poco avessero a
cuore il ripristino del potere imperiale: a loro stava bene solo il simulacro
dell’impero.
E i più protervi e decisi a bloccare ogni tentativo imperiale erano proprio i
concittadini di Dante che, con quella lettera si bruciò qualsiasi possibilità di
perdono che gli consentisse il ritorno a Firenze.
Dopo il tentativo fallito di Arrigo VII (morì a Buonconvento in Toscana nel 1313
per poterne trasportare le ossa fu bollito – era in uso allora di conservare i cadaveri
dei re sotto sale o imbalsamandoli, e magari lasciare un osso o altra parte del corpo
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ad una città o famiglia anche per volontà testamentaria dell’interessato), Da allora
Dante fece “parte a sé” negli anni successivi e continuò il suo peregrinare tra le
varie corti dell’Italia centrosettentrionale, fino a stabilirsi a Ravenna, presso i
Da Polenta.
In una sua lettera indirizzata ai parenti che gli annunciavano di aver trovato il modo
per farlo rientrare a Firenze, a condizione che “chiedesse perdono al Comune e
ammettesse le sue colpe”, Dante rispose: “Quando troverete una strada degna della
grandezza e dell’onore di Dante per quella mi incamminerò con passi lesti”.
Non se ne fece nulla, in ossequio a quanto aveva detto di se, per marcare la differenza
con gli altri fiorentini, nell’ incipit della Comedia: -Libri titulus est: "Incipit
Comedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus". »
Le altre opere più importanti.
VITA NOVA. DANTE STILNOVISTA
La Vita nova è la prima opera di attribuzione certa di Dante Alighieri, scritta tra il 1290 ed il 1295. Si tratta di un prosimetro (opera letteraria di poesia e prosa) nel quale sono inserite 31 liriche (25 sonetti, 1 ballata, 5 canzoni) e 42 capitoli. Si ipotizza che i vari componimenti poetici dell'opera siano frutto di un lavoro pluriennale. Il testo che ne risulta è quindi una sorta di assemblaggio di diversi lavori scritti in varie fasi e occasioni delle vita e che vengono così riunite in una sola opera (appunto la Vita Nuova) a partire dal 1290, anno di morte di Beatrice. E’ considerata l’opera stilnovista più riuscita del tempo, che serve a Dante per ricordare, innanzitutto a se stesso, l’amore per Beatrice. Il sonetto dantesco, anche se curato ed elegante, non raggiunse la perfezione stilistica del Petrarca. Ma per comprendere a pieno la grandezza della poesia dantesca bisogna riflettere
attentamente sulla realtà della poesia italiana alla fine del Duecento. Essa era una
succursale della poesia provenzale, che era nata in Francia un paio di secoli
prima. Infatti fu la Francia a riconoscere una dignità di lingua a quella che veniva
parlata dal “volgo” (perciò “volgare”): una mescolanza di latino, celtico (che era
la lingua di Vercingetorige) e germanico. Alla fine si imposero due di quei dialetti:
la “langue d’oc”(centro meridione) e la “langue d’oil” (centro settentrione, in
seguito “langue du oui”), in italiano “lingua del sì”.
Le prime opere scritte in quelle lingue arcaiche furono “Le chanson de geste”, di
contenuto epico, cavalleresco, religioso ed erano nate al tempo delle Crociate. In
Italia quel genere non attecchì sia perchè il latino resistette di più, sia per la
scarsa partecipazione italiana alle crociate. Quando sul finire del dodicesimo
secolo si esaurì il grande slancio conquistatore in Terrasanta, quel genere poetico si
ridimensionò anche in Francia e nelle corti dei Signori francesi soprattutto della
Provenza si affermò un nuovo genere poetico: ironico, leggero, anticlericale.
Questa nuova poesia si chiamò “Gai Saber” o “Gaia Scienza” ed i cantori di quelle
poesia furono chiamati “Trovatori” o “Troubadour” in occitano.
Quelle poesie cambiavano genere stilistico in base al contenuto:
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1. la Canzone parlava d’amore;
2. la Tenzone di moralità e filosofia;
3. il Serventese era un canto di guerra;
4. il Pianto, argomentava sul dolore e la morte;
5. la Ballata era il racconto di un fatto;
6. la Serenata, un omaggio serale;
7. la Pastorella un dialogo.
Quanto alla metrica il colmo della bravura era la Sestina, ovvero la sequenza di sei
Stanze di sei versi ciascuna.
Questa poesia era più esportabile della Chanson de Geste, Infatti i temi erano
convenzionali e prestabiliti e contava più l’abilità tecnica che il contenuto.
I trovatori arrivarono in Italia soprattutto durante la Crociata contro gli
Albigiesi, essi ritennero infatti più opportuno lasciare la Francia e trovare
ospitalità in Italia. Comunque furono preceduti da un Italiano che aveva appreso
quella tecnica in Francia ed era tornato in Italia: il mantovano Sordello da Goito.
Egli infatti dovette fuggire in Provenza dopo aver sedotto e abbandonato Cunizza da
Romano, moglie del Conte di s. Bonifacio di Verona, che gli aveva dato ospitalità. e
sorella di Ezzelino da Romano (un personaggio, Sordello, che Dante colloca nel
celeberrimo sesto canto del Purgatorio).
Sordello fu un raffinato interprete di quel genere poetico.
Alcuni di quei girovaghi menestrelli presero la via del sud, attratti, forse, dal
mecenatismo di Federico II e trovarono terreno fertile incontrando poeti come Cielo
(o Ciullo) d’Alcamo, Rinaldo d’Aquino, Jacopo da Lentini e lo stesso primo
ministro di Federico, Pier delle Vigne.
Poi questo genere si raffinò e divenne italiano a Firenze ad opera di Guittone
d’Arezzo e Ciacco dell’Anquillara. Ad esso si contrappose un nuovo genere
poetico ad opera di un gruppo di giovani poeti con a capo il giurista e filosofo Guido
Guinizzelli che con la Canzone “A cor gentil repara sempre amore” fissò i canoni
della nuova poesia, lo Stil Novo, che sostituì l’amore estetico e sensuale, ma
anonimo, dei Trovatori, con un amore spirituale per una persona precisa, ma
disincarnata ed angelicata, elevata a simbolo di perfezione spirituale e mezzo per
elevarsi a Dio. I cultori di questo genere poetico furono Guido Cavalcanti, Lapo
Gianni, Cino Da Pistoia e pochi altri, un gruppo ristretto e chiuso della Firenze
bene del tempo, appartenevano a quelle 250 famiglie nobili (non di sangue, ma per
censo) della città che facevano vita a sé, riservata, ed avevano un club esclusivo,
notevolmente snob, che si chiamava “Società delle Torri”, Buon ultimo vi entrò
Dante Alighieri, ma non per censo, bensì attraverso i buoni uffici di Cavalcanti che
era rimasto affascinato dalla lettura di un sonetto dell’Alighieri nello stile di
Guinizzelli. La riconoscenza di Dante non si fece attendere e la solida amicizia
che ne derivò, anche con Lapo Gianni, viene raccontata nel bellissimo sonetto
“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
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per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.
CONVIVIO (1304-1307)
dal latino convivium, ovvero "banchetto" (di sapienza), è la prima delle opere di
Dante scritta subito dopo l’esilio. È un prosimetro, come la Vita Nova, e
compendia un'enciclopedia dei saperi più importanti destinati a coloro che
volessero dedicarsi nella loro vita all'attività pubblica e civile ma non hanno
compiuto gli studi superiori. È scritta in volgare per essere appunto capita da chi
non ha studiato il latino.
Il progetto iniziale di Dante Alighieri era di scrivere un'opera ripartita in quindici
trattati, il primo dei quali con funzione introduttiva e i restanti quattordici di
commento ad altrettante canzoni. Si fermò però al quarto trattato, commentando le
sole tre canzoni Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, Amor che ne la mente mi
ragiona e Le dolci rime d'amor ch'i' solìa. Ciò perché si pensa avesse già in mente
lo schema di un'opera superiore, la "Commedia". Dante con questa opera supera del
tutto la concezione stilnovistica, infatti a Beatrice succede la donna gentile simbolo
della filosofia. Dio e la salvezza dell'anima non si possono più raggiungere attraverso
un'ascesi mistica prodotta dal sentimento d'amore, ma seguendo la filosofia e il
sapere, cioè attraverso la ragione. La conoscenza diventa dunque strumento di
salvezza e Dante afferma nel Convivio: "Dico e affermo che la donna di cui io
innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo
imperatore de lo universo, a la quale Pitagora pose nome Filosofia".
Dante, nel Convivio pronuncia la prima difesa del volgare, accostato al latino
quanto a bellezza e nobiltà. La prosa del Convivio raggiunge una solidità
sintattica, un equilibrio compositivo ed una chiarezza espositiva non inferiori a
quelle tramandate dal latino. Dunque Dante fonda la prosa filosofica in volgare
in cui frequenti sono gli usi di metafore e similitudini, attraverso cui conferisce
concretezza ed evidenza alle proprie rappresentazioni, anche a quelle più
squisitamente teoriche.
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I tre temi fondamentali del Convivio sono quindi: la difesa del volgare,
l'esaltazione della filosofia, la discussione intorno all'essenza della nobiltà, cui si
riconnette la proposta della monarchia universale rappresentata dall'impero e
dalla tradizione romana.
Non è esagerato parlare di Dante come “inventore” della lingua italiana. Fu
infatti soprattutto lui ad “inventare” vocaboli e forme idiomatiche che arricchirono
un dialetto scarno e popolare al punto da poterlo usare per trattare argomenti
complessi di teologia, filosofia, scienze ecc.
DANTE E L’UNITA’ D’ITALIA
Non sappiamo se Dante fu il precursore dell’Unità d’Italia, come vollero alcuni
dantisti del Risorgimento, e, nel caso, quale unità avesse in mente. Lui fu soprattutto
uomo del Medio Evo e l’aspirazione massima che coltivò fu la rinascita dell’impero.
Ma Padre della Lingua Italiana lo fu certamente con l’importante opera De
Vulgari Eloquentia.
La corte Federiciana tenne a battesimo i primi tentativi di uso poetico del volgare in
sostituzione del latino sempre più relegato all’interno di una cerchia élitaria.
Jacopo da Lentini (inventò il sonetto) Cielo d’Alcamo, Pier delle Vigne, insomma
la cosiddetta “Scuola Siciliana”) scrivono come parla il popolo: ne viene fuori una
lingua molto simile all’attuale (“rosa fresca aulentissima…”). Dante non si
preoccupa di “raffinare” il solo dialetto fiorentino, ma nel perseguire un ideale di
“volgare illustre” , si preoccupa che sia comune a tutte le regioni italiane, perciò
descrive ben 14 “dialetti” ed indica i tratti comuni da cui partire per arrivare ad
un volgare illustre comune a “tutti gli italiani”. Da questo lavoro verrà fuori il “De
Vulgari Eloquentia”. Oltre ad inventare una lingua italiana e non fiorentina,
Dante parlò sempre dell’Italia come di un unico Paese, se non di unico Stato,
certo di unica Nazione: la celeberrima invettiva del sesto canto del Purgatorio si
riferisce all’ intero popolo italiano, considerato, appunto, come Nazione (…serva
Italia…).
Il DE VULGARI ELOQUENTIA è un trattato in lingua latina che Dante scrisse tra
il 1303 e il 1304. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo
libro, inizialmente era destinato a comprendere quattro libri. Pur affrontando il
tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante
voleva rivolgersi appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della
tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore a qualsiasi
volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era
infatti usato soltanto per scrivere argomenti di legge, religione o trattati
internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in un'appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di
diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di
Virgilio.
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COMEDIA. Da Boccaccio in poi sarà Divina Commedia. Opera immortale tra le
più grandi dell’umanità. Dante la chiamò "Comedia" in quanto scritta in stile
"leggero", ovvero non aulico. L’opera fu iniziata intorno al 1300 (anno giubilare,
tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno, venerdì santo, il suo viaggio nella selva
oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le
completava. Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313,
mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi. Il Paradiso, iniziato
forse nel 1316, fu pubblicato man mano che si completavano i canti negli ultimi
anni di vita del poeta.
Il poema è diviso in tre libri (cantiche), ciascuno formato da 33 canti (tranne
l'Inferno che ne presenta 34, poiché il primo funge da proemio all'intero poema);
ogni canto si compone di terzine di endecasillabi: l’ Inferno conta 4740 versi, il
Purgatorio 4755, mentre il Paradiso è lungo 4728 versi, Complessivamente
contiamo 14.223 endecasillabi.
L’immaginario viaggio ultraterreno inizia il 7 aprile 1300, venerdì santo, ovvero
l’anno giubilare voluto da Bonifacio VIII o, secondo altri critici, la sera del 25
marzo, in ossequio alla tradizione che faceva coincidere in quel giorno la creazione
di Adamo, l’incarnazione e la morte di Gesù, inoltre quella data è più compatibile
con alcuni riferimenti astronomici forniti dalla stesso Dante. Da ultimo il 25 marzo
coincideva con il primo giorno dell’anno a Firenze, dove era d’uso di contare gli anni
ab incarnatione e non a nativitate. L’incipit del grande poema e solenne ed oscuro:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita \ mi ritrovai per una selva oscura” . Quindi a
35 anni. Qui è chiaro il riferimento ad Isaia: “In dimidio dierum meorum vadam ad
portas inferi” (nel mezzo della mia vita andrò alle porte dell’inferno).
E la “selva oscura” allegoricamente indica la sua condizione di peccato. L’ intero
poema è una lunga serie di allegorie. Le tre cantiche si sviluppano lungo una rigida e complessa costruzione aristotelica
dei regni ultraterreni ed inglobano tutto ciò che allora si conosceva di
astronomia, fisica, scienze, teologia, filosofia: insomma un grandioso compendio
dello scibile umano sotto la guida protettiva di Virgilio per due cantiche (inferno
e purgatorio), a simboleggiare la Ragione, e quella amorevole di Beatrice e S.
Bernardo in paradiso, ovvero la Fede.
Celeberrimi i sesti canti delle tre cantiche per le violenti invettive politiche per la
decadenza della sua Firenze, dell’Italia e dell’Impero.
La prima Cantica, l’Inferno, è quella più ricca di poesia, a giudizio dei critici, Croce
in testa. Infatti i temi trattati sono “terreni”, ci sono odi, rancori, amori,
disperazione, invettive ovvero sentimenti umani che danno al poeta la possibilità di
sinceri abbandoni poetici o durissime requisitorie con uno stile inconfondibile. Gli
incontri con alcuni personaggi lo coinvolgono emotivamente fino a commuoversi
ai loro tragici racconti (Paolo e Francesca e il Conte Ugolino). Dante fa raccontare
dalle anime che incontra la loro storia spesso dolorosa:
“….nessun maggior dolore /
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che ricordarsi del tempo felice /
ne la miseria; e ciò sa il tuo dottore",
dirà Francesca a Dante nel canto V dell’Inferno. E così risponde il Conte Ugolino
sollecitato a raccontare la sua storia:
“….Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme”.
In parte nel Purgatorio, ma soprattutto nel Paradiso Dante ha a disposizione solo due
elementi terreni alla base della sua poesia: la luce e la musica e pertanto notevole
fu il ricorso a discussioni filosofiche, teologiche e scientifiche. Ciò non esclude che ci
siano canti di ispirata poesia come l’inno alla Vergine di s. Bernardo nel canto
XXXIII del Paradiso:
“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio”
Tutto il poema va letto per simboli ed allegorie, come voleva una certa tradizione
poetica; nulla è lasciato al caso sia nella costruzione dei tre mondi ultraterreni, sia
nella presentazione di tantissimi personaggi del suo tempo. L’innegabile ricorso
all’esoterismo del tempo fu argomento di indagine critica da parte di alcuni studiosi
che provarono a leggere il poema in chiave esoterica, è questo il caso degli studi
danteschi di Gabriele Rossetti. La “Comedia” fu una “scommessa” vinta. Molti
critici ci vedono la codifica “ del “Volgare Illustre” italiano da cui nel Trecento
partiranno gli altri scrittori che vorranno scrivere in volgare. Da lì nascerà la
“Lingua Italiana”.
Va comunque detto che non fu capito subito.
I contemporanei e i critici del cinquecento gli preferirono a lungo il Petrarca,
considerato più moderno e comunque l’incarnazione dell’Umanesimo.
Nel settecento nascerà una vera e propria storiografia dantesca e filoni critici di
grande spessore che ne riconobbero gli altissimi meriti culturali, ma soprattutto
poetici.
CAP.VI. IL RITORNO DEL PAPATO A ROMA
PRIMA FASE.
Finalmente nel 1377 le suppliche di S.Caterina e di tanti nobili del tempo, furono
esaudite. Ma a favorire il ritorno del papato a Roma fu anche la debolezza del re di
Francia impegnato nella guerra dei Cento Anni contro l’Inghilterra e quindi non in
grado di imporsi al Papa e soprattutto la consapevolezza che stavano fiorendo
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molte Signorie nell’Italia centrale che invadevano e si dividevano le terre della
Chiesa, prostrate da pestilenze e carestia, come I Malatesta, gli Ordelaffi, i
Montefeltro, i Varano, i Trinci.
Annualmente scendevano in Italia fatiscenti imperatori che continuavano ad
essere eletti in Germania, ma con il tacito assenso ad un ruolo di mera
rappresentanza. Nel 1354 toccò a Carlo IV di Boemia scendere in Italia,
d’accordo con il Papa per essere incoronato in Vaticano dal cardinale Bernardi
su delega papale. Poi risalì la penisola rastrellando soldi dai vari signorotti in cambio
della protezione, sempre più teorica che reale. C’era un tacito assenso tra le
Signorie italiane: massimo rispetto per gli imperatori, a condizione che non
governassero e lasciassero massima libertà alle realtà locali, anzi molti se ne
erano serviti per avere il titolo di Vicari Imperiali, nomina che legittimava il loro
potere ottenuto con la forza e spesso con la sopraffazione.
Anche il ben noto Cola di Rienzo, notaio, aveva indossato la toga di Augusto, in
nome dell’imperatore. Ma la sua prima esperienza di “Signore di Roma” (1347)
finì con una tragica fuga inseguito dai romani inferociti per le sue stravaganze.
Poi processato ad Avignone, per volontà di Clemente VI, se la cavò con tre anni di
esilio Avignonese sopportato con dignità, al punto che il successore di papa
Clemente, Innocenzo VI lo rispedì a Roma come suo emissario (1353), ma a
fianco gli mise un cardinale di ben altra tempra, Alvarez Carrillo de Albornoz,
che si era formato nelle caserme più che nei seminari, che tra l’altro neppure
esistevano. Per le sue imprese militari lo avevano nominato vescovo di Toledo.
Fu contento dell’incarico ricevuto dal Papa e scese in Italia con il piglio del generale
più che del cardinale. Infatti lasciò che Cola di Rienzo scendesse a Roma da solo
mentre lui si fermò a Firenze per farsi finanziare l’allestimento di un esercito,
anzi di un pugno di uomini che gli bastarono per ricondurre alla ragione i vari
signorotti dell’Italia centrale: usava con tutti la stessa tecnica: li invitava a trattare
il negoziato di pace e in loro assenza gli faceva demolire le piazzeforti.
Se volevano restare in sella non avevano che da accettare il ruolo di Vicari del
Papa. Non ci mise molto a convincere i vari piccoli potentati che era loro interesse
difendere le prerogative del Papa. Il risultato fu che le due Signorie maggiori, i
Malatesta e gli Ordelaffi si ritrovarono isolati e potevano essere sconfitti con una
guerra. Infatti prima sconfisse i Malatesta che accettarono il ruolo di vicariato, anche
se erano stati scomunicati. Poi dichiarò guerra agli Ordelaffi, di ben altra tempra e
più difficile da sconfiggere. Infatti ci vollero venti mesi di guerra per averne
ragione. Subito dopo anche Bologna si consegnò al vincitore.
Intanto Cola di Rienzo, dopo una prima fase di tranquillità, ricominciò peggio di
prima a proporsi come un dittatore con arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie al
punto che il popolo non ne poteva più, tra l’altro era anche dedito all’alcool. Cola
s’avvide che le cose si mettevano male e tentò di fuggire travestito da pastore con
la faccia sporca di nero fumo, ma fu riconosciuto per il braccialetto d’oro che
aveva al polso, che per vanità non aveva tolto. Trascinato davanti al Campidoglio
tentò di prendere la parola, ma fu colpito da una pugnalata di un artigiano.
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Seguirono altre pugnalate che lo ammazzarono. Il corpo, crivellato di colpi,
rimase due giorni appeso ad un balcone (1354).
Era tempo che Albornoz scendesse a Roma per riportavi un po’ di ordine. Infatti
le tradizionali regioni che sostituivano lo Stato della Chiesa, Marche, Umbria,
Emilia Romagna, Lazio erano state riconquistate. A Roma affidò il potere ad un
senatore non romano e dettò le famose e durature “Costituzioni Egidiane” (1357)
che regolarono la vita della Chiesa fino all’Ottocento (il nome italiano di Albornoz
era “Egidio”). Ormai la strada era libera per il ritorno del papa a Roma, che non fu
Innocenzo VI, morto da poco, ma Urbano V.
Finalmente nel 1367 l’intera corte papale si imbarcò a Marsiglia, nonostante le
proteste dei cardinali francesi. L’entrata a Roma del Papa fu trionfale sia per la festa
dei romani sia per la presenza di tanti signori e signorotti italiani accorsi a Roma per
rendergli omaggio. Mancava solo Albornoz, morto poco tempo prima.
Il Papa non impiegò molto ad accorgersi che Roma e la campagna romana erano in
condizioni disperate: le basiliche e i grandi monumenti erano in rovina e così le
strade, le case erano state costruite senza alcun criterio, nessuna industria ed estrema
povertà diffusa. Il Papa stanziò notevoli fondi per le opere più urgenti, ma non si
rassegnò a vivere a Roma. Dopo un periodo di permanenza a Montefiascone,
preso dalla nostalgia di Avignone, vi fece ritorno (1370) e lì morì.
SECONDA FASE Il successore fu Gregorio XI (1), nipote di Clemente VI e da
lui creato cardinale a 18 anni. Naturalmente non aveva alcuna voglia di scendere a
Roma e delegò ai suoi cardinali francesi il governo dello Stato della Chiesa. Essi
si comportarono come dittatorelli in terra di conquista, ma gli effetti del malgoverno
si trasformarono in vera e propria insurrezione alla cui testa c’era Firenze.
La reazione del papa non si fece attendere, pur senza muoversi da Avignone.
Scomunicò Firenze autorizzando così Francia e Inghilterra a sequestrare gli
immensi patrimoni che i banchieri e commercianti fiorentini avevano in quei
Paesi. La reazione di Firenze fu altrettanto veloce e violenta: sequestrò tutti i beni
della Chiesa, chiuse i tribunali dell’inquisizione distruggendone anche le sedi e
incarcerò i preti che non si sottomettevano al potere comunale, i più riottosi
furono giustiziati, poi lanciò un appello a Roma perché si unisse alla rivolta. Papa
Gregorio corse ai ripari e comunicò ai romani che se non si fossero alleati con
Firenze sarebbe tornato a Roma.
Naturalmente per tornare dovette prima domare la rivolta e per farlo si servi di due
Compagnie di Ventura, per la verità già di casa in Italia, Una aveva a capo un
inglese, in Italia lo chiamarono Giovanni Acuto, e guidava una banda di predoni
violenti e stupratori: s’impadronì con un colpo di mano di Faenza dove trucidò
trecento inermi, poi cacciò tutta la popolazione e tenne in città solo le donne più
giovani date in pasto ai suoi soldati.
(1)LA CARRIERA DI GREGORIO XI: nato a Rosiers-d'Égletons, 9 maggio 1330; cardinale 29 maggio 1348;
Papa 30 dicembre 1370, ordinazione sacerdotale 2 gennaio 1371, Vescovo 3 gennaio 1371, Incoronazione 5
gennaio 1371. Tutto in una settimana!
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Né migliore fu l’altro capitano di ventura Roberto di Ginevra, sebbene fosse
cardinale: era a capo di un folto drappello di Bretoni e a Cesena, che occupò con
l’inganno, trucidò addirittura quattromila persone e deportò le altre, dopo aver
selezionato le donne più giovani per i suoi soldati.
Queste drammatiche notizie arrivarono a Firenze e convinsero S.Caterina a
partire per parlare con il Papa.
Davanti a lui presentò una requisitoria durissima rischiando anche l’arresto, ma sta
di fatto che subito dopo papa Gregorio si imbarcò per Roma (17.1.1377).
Questa volta l’accoglienza fu molto fredda e a tal punto temette anche per la
propria vita e perciò preferì ritirarsi ad Anagni.
Questa volta con diplomazia e non con la forza il Papa lentamente riuscì a riprendere
in mano la situazione e infine anche Firenze cedette, ma per la remissione della
scomunica dovette versare 250.000 fiorini.
Finì così il periodo Avignonese, chiamato con qualche ragione “cattività” per il forte
sospetto che il papato fosse ormai nelle mani della monarchia francese come la
chiesa ortodossa era nella disponibilità degli imperatori di Costantinopoli. Infatti su
134 cardinali del sacro collegio ben 113 erano francesi a riprova che la Francia
voleva accaparrarsi il papato.
Una volta di più si dimostrò che solo Roma poteva essere la sede del papato, visto
che non era diventata e non diventerà, ancora per cinque secoli, la capitale di
una Nazione che avrebbe potuto pretendere, come la Francia, di esercitare il proprio
potere anche sulle regioni amministrate dalla Chiesa.
Alla Chiesa questa situazione andava bene: del resto da sempre si era impegnata
a non far sorgere uno Stato unitario in Italia.
S, Caterina da Siena (1347/1380)
SANTA CATERINA DA SIENA
Caterina Benincasa, universalmente conosciuta come Caterina da Siena, nacque a
Siena, 25 marzo 1347 e morì a Roma, 29 aprile 1380.
Fu canonizzata da papa Pio II nel 1461, nel 1970 è stata dichiarata dottore della
Chiesa da Papa Paolo VI. È compatrona d'Italia e d'Europa.
Entrò nel convento delle Terziarie Domenicane di Siena, chiamate le Mantellate per il
mantello nero che portano, quando aveva 16 anni.
Non sapendo né leggere né scrivere, chiese a una consorella più istruita di insegnarle
quel tanto che bastava, ma non ne ricavò nulla. Per tre anni si isolò dalle altre suore.
Si dedicò soprattutto alla cura degli ammalati.
Caterina da Siena iniziò un'attività di corrispondenza con grandi personalità
avvalendosi della collaborazione di alcune consorelle alle quali dettava le lettere. Ne dettò circa 380, durante gli ultimi dieci anni (1370-1380) della sua vita.
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Questo ricco epistolario affrontava problemi e temi sia di vita religiosa che di vita
sociale di ogni classe, e anche problemi morali e politici che interessavano tutta la
Chiesa, l'impero, i regni e gli Stati dell'Europa trecentesca.
Rientrata a Siena da Firenze, Caterina fu impegnata ad assistere gli ammalati,
colpiti da una delle frequenti epidemie di quel tempo. Secondo la leggenda nel
1375 a Pisa nella chiesa di Santa Cristina, Caterina ricevette le stimmate, che
però su richiesta della santa rimasero a tutti invisibili.
Incomincia agli inizi del 1376 la corrispondenza con il Papa, da lei definito il “dolce
Cristo in terra”. In un anno furono ben dieci le missive da lei dirette al pontefice.
In esse vengono toccati tutti i temi riguardanti la riforma della Chiesa, a
cominciare dai suoi pastori, insistendo in maniera sempre più ossessiva sul
ritorno del papa alla sua sede propria che è Roma.
Il 18 giugno 1376 Caterina giunse ad Avignone, dove l'attendevano fra Raimondo
coi suoi compagni e fu ricevuta dal Papa con il quale parlò con molta schiettezza,
rischiando anche di essere arrestata.
E invece il 17 gennaio dell’anno dopo papa Gregorio XI varcò il ponte sul Rodano
e lasciò Avignone alla volta di Roma. La mattina della domenica dopo l'Ascensione, il 29 aprile 1380, prima dell'alba, fu
notato in lei un grande mutamento, che fece pensare all'avvicinarsi della sua ultima
ora. Il suo respiro diventò così fievole che fu deciso di darle l'Unzione degli infermi.
Morì poco prima di mezzogiorno di quella domenica 29 aprile del 1380. La sua eredità documentale con le riflessioni politico-spirituali comprende :
1. 381 Lettere;
2. Dialogo della Provvidenza ovvero Libro della divina dottrina;
3. Le Orazioni.
LE RELIQUIE
- Numerose sono oggi le reliquie attribuite a Caterina. Ella fu sepolta a Roma, nel
cimitero di Santa Maria sopra Minerva: il corpo è ancora conservato in tale
basilica.
-Ma l'anno successivo, nel 1381, le fu staccata la testa per portarla a Siena come
reliquia.
-Nella stessa basilica di San Domenico è conservato un dito di Caterina
-Il piede sinistro è invece conservato a Venezia (nella chiesa dei Santi Giovanni e
Paolo).
-Nel Duomo di Siena era presente una costola: essa però fu donata al santuario
di Santa Caterina ad Astenet in Belgio, costruito nel 1985 per volontà dei devoti
di quel paese;
-una scaglia di una scapola di Caterina sta nel santuario di Caterina a Siena;
-la mano sinistra della santa, che porta il segno delle stigmate, è custodita nel
monastero del Santo Rosario di Monte Mario a Roma.
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CAP.VII. LO SCISMA D’OCCIDENTE
Nel 1378, poco dopo il ritorno del papato a Roma, si dovette procedere ad nuovo
conclave per trovare il successore di Gregorio XI. I sedici cardinali riuniti in
conclave furono assediati dai romani che pretendevano un papa romano o
almeno italiano. I cardinali così intimoriti dai moti di piazza si affrettarono a
nominare il vescovo si Bari che prese il nome di Urbano VI.
Il nuovo papa, molto energico, riorganizzò la polizia e l’esercito nominando
uomini di sua fiducia, Poi passò alla riforma della Curia abolendo le parcelle e le
“bustarelle” che i prelati di curia si facevano pagare per ogni pratica. Il cardinale Orsini che andò a protestare fu cacciato in malo modo; finchè i
cardinali francesi, temendo di perdere il loro primato, promossero una riunione ad
Anagni per invalidare l’elezione di Urbano VI visto che il conclave non era stato
libero per l’intimidazione della folla. Il 20 settembre 1378 un’assemblea di
cardinali ad Avignone elesse un nuovo papa nella persona di Clemente VII che
aveva l’appoggio dei re di Francia, Napoli e Spagna: il mondo cattolico a questo
punto si divise, coinvolgendo anche grandi personalità in futuro canonizzate: se S.
Caterina, era rimasta favorevole a Urbano VI, S. Vincenzo Ferreri si schierò a
favore di papa Clemente… lo scisma era alimentato anche dagli Stati nazionali
che pretendevano ciascuno un proprio Papa.
Infatti morti i primi due papi, il conclave romano elesse Bonifacio IX (1389) e il
conclave avignonese elesse, 1394, al posto di Clemente VII, Benedetto XIII.
Giunti alla fine del secolo papa Bonifacio indisse un Giubileo. Prevedendo ostacoli
“politici” alla partecipazione dei pellegrini, promise, attraverso i suoi predicatori,
che qualora avessero avuto difficoltà a partire, avrebbero potuto godere
ugualmente di tutti i benefici spirituali del Giubileo, se solo avessero versato
alle casse del Papa l’importo dei viaggi pur senza intraprenderli.
L’espediente di papa Bonifacio ebbe successo, almeno economico. I Colonna si
ribellarono allo strapotere del papa e, aiutati dai francesi, reclutarono otto mila
soldati per rovesciarlo. Bonifacio IX si rinchiuse dentro Castel s. Angelo deciso a
resistere, ma a questo punto la folla si scagliò contro gli assalitori.
Una trentina dei loro capi furono catturati. Ad uno di essi Bonifacio promise la
salvezza a condizione che facesse il boia degli altri. Lo sciagurato accettò e fu
costretto ad impiccare anche il fratello e il padre!
Non molto tempo dopo Bonifacio morì (1404) e fu eletto Papa Innocenzo VII.
Di nuovo i Colonna tornarono all’offensiva e il papa fuggì a Viterbo. Quando la
situazione si normalizzò, il papa potette tornare a Roma, ma di lì a poco morì
(1406). Il successivo Conclave elesse Gregorio XII, ma con la condizione che si
sarebbe dimesso, insieme a papa Benedetto per riunire i due collegi cardinalizi e
procedere alla nomina di un unico papa. Il tentativo fu fatto, ma visto il
tentennamento dei due e soprattutto di papa Gregorio XII, anche per la pressione
della famiglia, sette cardinali d'ubbidienza romana lasciarono Lucca in segreto,
dove si trovava il papa, e negoziarono coi cardinali di Benedetto la convocazione
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di un concilio generale, nel corso del quale i due papi sarebbero stati deposti e ne
sarebbe stato eletto un altro. I due gruppi convocarono infatti un concilio a Pisa,
invitando a parteciparvi i due rivali; ma né Gregorio XII né Benedetto XIII si
fecero vedere. Il Concilio si svolse ugualmente e si proclamò “canonico”, quindi
in grado di promulgare leggi valevoli “erga omnes”. Nel corso della quindicesima
sessione, il 5 giugno 1409, il concilio di Pisa depose i due pontefici come
scismatici, eretici, spergiuri e scandalosi.
Dal conclave che ne seguì fu eletto papa il cardinale greco Pietro Filargo, che
prese il nome di Alessandro V.
Ora di Papi ce n’erano tre, Ma papa Alessandro morì quasi subito(1410). Al suo
posto fu eletto Giovanni XXIII, con l’impegno di indire un nuovo Concilio.
Il nuovo Papa era ambizioso e privo di scrupoli anche morali: aveva tutte le
qualità che un sacerdote non dovrebbe avere: era un politicante ambizioso e accorto,
un amministratore abile e rapace, un generale sagace e spietato: resta un
mistero perché avesse fatto il prete invece che il condottiero, ancora meno si sa
perché lo elessero Papa, e in un momento come quello. Stando al suo segretario,
egli aveva sedotto duecento fra ragazze, spose, vedove e suore.
Una volta eletto papa, ritardò a lungo l’indizione del Concilio, finchè l’imperatore
Sigismondo di Lussemburgo non glie lo impose. Il nuovo Concilio, di cui si
autoproclamò presidente, si sarebbe tenuto a Costanza nel novembre del 1414.
Al Concilio partecipò il gotha della chiesa, dell’aristocrazia e della cultura del
tempo, a tal punto fu imponente la partecipazione che quel Concilio fu paragonato
a quello di Nicea.
Il primo problema che dovette affrontare il Concilio fu la fuga di Giovanni
XXIII che temeva di essere incriminato per i peccati di lussuria, delitto, empietà. Gli fecero sapere che l’unico modo di sottrarsi al processo era la sua rinuncia al
papato insieme a Benedetto e Gregorio, ma papa Giovanni dapprima sembrò
accettare, poi si rifugiò a Sciaffusa presso l’arciduca d’Austria Federico.
Di lì emanò il famosissimo decreto “Sacrosancta”. Esso riconosceva al Concilio
un’autorità che le veniva da Dio stesso ed era una sorta di Costituente per la Chiesa.
Perciò le sue decisioni erano vincolanti per tutti, papa compreso. Un colpo di teatro
che mirava a fargli riprendere la guida del Concilio.
Ma i cardinali non si fecero incantare più di tanto, era ovvio che non avrebbero
accettato visto che quel decreto li esautorava del tutto. Perciò riaffermarono il
loro diritto ad eleggere il papa.
Il Concilio invitò Giovanni XXIII a dimettersi e non ottenendo una risposta
soddisfacente lo chiamò a rispondere di cinquantaquattro reati. Il 29 maggio
1415 Giovanni fu deposto e confinato nel castello di Heidelberg.
Da lì uscì solo tre anni dopo per l’intervento di Cosimo dei Medici che si
impegnò a tenerlo a Firenze fino alla morte.
Ora il Concilio doveva risolvere la situazione dei due papi, Gregorio e Benedetto,
che testardamente rifiutavano di dimettersi.
Papa Gregorio XII ebbe un lampo di genio e propose al Concilio che si sarebbe
dimesso solo dopo essere stato riconosciuto Papa legittimo.
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A quel punto lui avrebbe indetto un nuovo Concilio e si sarebbe dimesso.
Riaffermando quindi l’autorità del papa a indire il Concilio. I cardinali accettarono
e lo nominarono legato e Governatore di Ancona.
Ora restava da convincere papa Benedetto che si ostinava a considerarsi Papa. Ma
non aveva seguaci e il Concilio lo depose senza conseguenze. Si ritirò in un
convento a Valencia e lì morì.
Ora era possibile eleggere un unico Papa riconosciuto da tutti e scelsero un
esponente della famiglia Colonna, il cardinale Oddone, che scelse il nome di
Martino V.
Era il 1417, lo scisma era proprio finito.
APPEDICE SCHEMATICA
Elenco dei papi ed antipapi:
Papi: URBANO VI Antipapi: CLEMENTE VII
BONIFACIO IX BENEDETTO XIII
INNOCENZO VII (morì dopo due anni)
GREGORIO XII
Concilio di Pisa – 1409; elegge ALESSANDRO V (morì quasi subito) e poi
GIOVANNI XXIII
Concilio di Costanza – 1414 Depone:
GIOVANNI XXIII, GREGORIO XII, BENEDETTO XIII
Eletto papa unico: MARTINO V
Fine dello SCISMA D’OCCIDENTE: 1417
CAP- VIII. LA SCOLASTICA E L’INQUISIZIONE
La filosofia cristiana medievale è passata alla storia con il termine “Scolastica”, dal
greco scholastikos, ovvero “educato a scuola” e quindi per estensione “Filosofia di
Scuola”, da cui il dispregiativo “scolasticismo”.
Naturalmente ebbe una lenta evoluzione raggiungendo il massimo splendore nel
tredicesimo secolo con i grandi filosofi Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e
Bonaventura da Gagnoregio: tutti e tre Santi e ricordati come Dottori della Chiesa.
La Scolastica si suddivide nei seguenti periodi tra Medio e Basso Medio Evo:
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1° Fase: Periodo Carolingio. Coincidente con l’VIII e IX secolo, caratterizzati dalla
nascita della “Schola Palatina” diretta all’inizio da Alcuino di York e poi affidata al
monaco irlandese Giovanni Scoto Eriugena, da non confondere con il monaco
francescano scozzese Duns Scoto, del XIII secolo, beatificato da Papa Giovanni
Paolo II, il 20 marzo 1993.
(Papa Giovanni Paolo II nella catechesi del 5 giugno 1996 definì Scoto «Dottore
dell'Immacolata», perché con la sua dottrina offrì alla Chiesa la chiave per superare
le obiezioni circa l'Immacolata Concezione di Maria. Per questo suo apporto alla
dottrina cattolica, già papa Paolo VI, in precedenza, l’aveva definito il “Dottore
Sottile e Mariano”).
2° Fase: Alta Scolastica. Questo periodo comprende i secoli dal X al XII ed è
caratterizzato dalla grande figura di Anselmo d’Aosta (1033/1109).
3° Fase: Bassa Scolastica che coincide con il XIII secolo: periodo di massimo
splendore della Scolastica, dominato, come di sopra ricordato, da Alberto
Magno (1206/1280), il suo discepolo preferito, il domenicano Tommaso d’Aquino
(1225/1274) e dal francescano Bonaventura da Bagnoregio (1221/1274).
4° Fase: Tarda Scolastica, collocabile dopo Duns Scoto, il cui principale esponente
fu Guglielmo di Ockham (1285/1347).
Dopo questo periodo che caratterizzò la Scolastica propriamente detta, seguì un
periodo definito dagli storici la “Seconda Scolastica” .
Viene definito così il movimento culturale che ebbe luogo, soprattutto in Spagna e in
Italia, nei secc. XV / XVII che si configurò come una ripresa dei temi più cari ai
filosofi medievali, senza ignorare però le conquiste operate dalla cultura
umanistica.
I maggiori esponenti della seconda Scolastica furono studiosi come Tommaso De
Vio, (ovvero il cardinale Caetano perché nativo di Gaeta), autore di un ponderoso
commento a Tommaso d’Aquino non privo di influssi dovuti alla dottrina di Duns
Scoto, e poi gli spagnoli Francesco de Vitoria e Francisco Suárez, ma per quanto
notevoli possano essere considerati i loro contributi, essi non riuscirono a modificare
l’assetto culturale di un’epoca ormai segnata dalla nuova atmosfera umanistica e
rinascimentale né ad apportare un contributo effettivamente nuovo al pensiero della
Scolastica così come si era sedimentata nei secoli precedenti.
PROTAGONISTI E CARATTERISTICHE
Come anticipato la scolastica ebbe origine nelle scholae, ossia nel sistema scolastico-
educativo diffuso in tutta Europa che garantiva una sostanziale uniformità di
insegnamento. Esso fu il primo, e forse unico, sistema scolastico organizzato su
vasta scala della storia dell'Occidente: un unico sistema scolastico per tutta
l’Europa centrale. Era stato Carlo Magno a volerlo, fondando ad Aquisgrana la Schola Palatina,
per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere allo scopo di dare unità e
compattezza al Sacro Romano Impero.
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A tal fine si era servito dei monaci benedettini, che vantavano il grande merito di
aver salvaguardato la cultura dei classici tramite la paziente trascrizione a mano
(amanuensi) dei testi antichi, non solo di quelli religiosi ma anche scientifici e
letterari: le loro abbazie divennero così i centri del nuovo sapere medievale.
Gli insegnamenti in queste scholae erano divisi in due rami:
A) l'arte del trivio (ovvero il complesso delle materie letterarie);
B) l'arte del quadrivio (il complesso delle materie scientifiche).
Preposto all'insegnamento di queste arti cosiddette "liberali" era anticamente lo
Scholasticus, a cui in seguito si affiancò un Magister artium, di grado superiore,
esperto in teologia. Le lezioni venivano tenute, dapprima, nei monasteri, poi
progressivamente nelle scuole annesse alle cattedrali e infine nelle Università.
CARATTERISTICHE E MOTODI: IL RUOLO DI TOMMASO d’AQUINO
L’opera fondamentale che riassume tutte le ricerche teologiche di Tommaso
d’Aquino (nacque nel 1225(?) a Roccasecca (Fr) e morì a Fossanova (Lt) nel 1274) fu
la Summa Theologiae, testo di riferimento del Concilio di Trento e alla base
delle ricerche filosofiche e teologiche successive. Lo scopo fondamentale della
filosofia scolastica consisteva nell'illustrare e difendere le verità di fede con l'uso
della ragione, verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. A tal fine, essi si
servirono delle conoscenze già esistenti su cui costruirono ricerche e nuove
conoscenze.
L'intento degli scolastici era quello di sviluppare un sapere armonico, integrando la
rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo ellenistico, convinti della
loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare dei grandi
pensatori come Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, una via in grado di far
accettare i dogmi cattolici e contrastare il razionalismo islamico.
Ma l'utilizzo della ragione, che essi vedevano sapientemente esercitata dai filosofi
greci, veniva messo in rapporto con la fede non solo allo scopo di dimostrarne i
fondamenti razionali, ma anche e soprattutto per contrastare le tesi eretiche e
cercare di convertire gli atei.
Poiché la scolastica si sviluppò in varie scholae europee e quindi in realtà diverse,
era inevitabile che in ogni schola, avendo essa differenti esigenze e finalità, i
pensieri e i metodi acquistassero caratteristiche diverse. Vi erano quindi scholae
più vive e attive dove spesso si accendevano contrasti tra gli intellettuali più
conservatori e i maestri d'arte più innovativi.
Gli scolastici svilupparono un peculiare metodo di indagine speculativa, noto
come Quaestio, basato sul commento e la discussione dei testi all'interno delle prime
Università. I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei
riferimenti precisi, tra i quali vi era in particolare la logica formale di Aristotele. Le tesi sostenute dovevano poggiarsi sulle auctoritas, che erano rappresentate dagli
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scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica), dai testi sacri, e da scritti della
tradizione cristiana.
LA COSCIENZA
Alla filosofia scolastica si devono studi ed approfondimenti di grandissimo
valore teologico e filosofico su molti temi dottrinali come ad esempio il concetto di
coscienza, che per gli scolastici è una parte della coscienza, ma vista la sua capacità
di farci distinguere il bene dal male, secondo s. Tommaso avrebbe anche la qualità
della “sinderesi”..
Dalla sinderesi dipenderebbe quindi la capacità dell'uomo di desiderare il bene e
di provare rimorso per il male compiuto.
MERITO INDIVIDUALE E GRAZIA
Di importanza ancora maggiore, per gli sviluppi successivi, furono gli studi sul
rapporto tra “merito individuale” e “dono” o “grazia” divina ai fini della salvezza.
Il rapporto tra Merito e Dono divino, secondo la Scolastica, non è mai di
equivalenza, ovvero non è mai “de condigno”, ma sempre e solo “de congruo”.
Infatti l’uomo non può prepararsi alla Grazia, che è incomparabile, in maniera
adeguatamente degna (de condigno), ma può prepararsi solo in modo congruo (de
congruo).
Il ruolo della Grazia nella “Salvezza” sarà alla base di molti equivoci successivi e
feroci dibattiti tra riformisti e controriformisti.
IL PECCATO ORIGINALE E CONCETTO DI PECCATO
Il peccato originale non viene cancellato con il battesimo, per gli scolastici, solo
non ci viene più imputato, ma resta vivo in noi come concupiscenza, che è la
nostra propensione a fare il male e la ritrosia a fare il bene, alimentata dal
“fomite”, ovvero le passioni peccaminose, l’incentivo a peccare. Ma tutto ciò,
comunque, non ci sarà imputato come peccato: Dio non imputa la colpa della
debolezza, l’”inclinatio ad malum”, ma imputa la colpa della volontà che cede
alla debolezza: questo è il peccato.
Vedremo in seguito che il peccato originale in Lutero è, appunto, la concupiscenza.
ISTITUZIONE FESTA DEL CORPUS DOMINI
S. Tommaso, insieme a Bonaventura da Bagnoregio, fu uno dei protagonisti
dell’istituzione della festa del Corpus Domini. Papa Urbano IV, quando istituì la
festa nell’agosto del 1267, incaricò proprio S.Tommaso di comporre un inno
adeguato e Tommaso compose il Pange Lingua!
LE CINQUE VIE DI SAN TOMMASO
L’esigenza di dimostrare l’esistenza di Dio anche attraverso la ragione, Tommaso la
soddisfa con l’elaborazione delle famose “Cinque Vie”: La certezza inoppugnabile
che Dio esista ci è data dalla fede, ma la ragione ha il suo percorso che prepara
l'adesione libera dell'intelletto e della volontà dell'intera persona umana
rendendo plausibile, credibile, l'adesione al Dio che si rivela.
Tra i grandi pensatori cristiani si sono elaborati diversi percorsi razionali per
dimostrare l'esistenza di Dio, l'unico modo per arrivarci, secondo Tommaso,
consiste nel procedere a posteriori: partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza
sensibile, che è la prima a cadere sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente
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la sua Causa prima. Si tratta di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto
dagli effetti. Sulla base di questa premessa Tommaso espone le sue prove
dell'esistenza di Dio, non a caso chiamate in latino viae, cioè "percorsi", "cammini"
presi come esempi di largo respiro.
I cinque percorsi indicati da San Tommaso sono:
Ex motu et mutatione rerum : tutto ciò che si muove esige un movente primo
perché, come insegna Aristotele nella Metafisica: "Non si può andare
all'infinito alla ricerca di un primo motore". Insomma è necessario
individuare un motore immobile.
Ex ordine causarum efficientium : cioè "dalla causa efficiente", la cosiddetta
creatio ab aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un
altro detto causa; necessità di una causa prima incausata);
Ex rerum contingentia : cioè "dalla contingenza" o corruttibilità. L’ esistenza
di esseri generabili e corruttibili rimanda ad un essere assolutamente
necessario e incorruttibile. Nella terminologia di Tommaso la generabilità e
corruttibilità sono prese come segno evidente della materialità, sinonimo, nel
suo vocabolario, di "contingenza". Tommaso, in questa argomentazione della
Summa Theologiae distingue attentamente il necessario dipendente da altro
(anima umana e angeli) e il necessario assoluto (Dio):
Ex variis gradibus perfectionis : le cose hanno diversi gradi di perfezione,
come verità, bontà, nobiltà ed essere, ma solo un grado massimo di
perfezione rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi;
Ex rerum gubernatione : cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà
non intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non
essendo in loro quest' intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le
ordina così.
Al metodo aristotelico-tomista si oppose Bonaventura da Bagnoregio,
BONAVENTURA DA BAGNOREGIO nacque a Bagnoregio VT, 1217/1221 e
morì a Lione il 15 luglio 1274.
Vescovo e cardinale, dopo la morte venne canonizzato da papa Sisto IV nel 1482 e
proclamato Dottore della Chiesa da papa Sisto V nel 1588. È considerato uno tra i
più importanti biografi di san Francesco d'Assisi.
Sotto la sua guida furono pubblicate le Costituzioni Narbonesi (a Narbonne in
Francia, 1257, si tenne l’assemblea generale francescana), su cui si basarono tutte le
successive Costituzioni dell'Ordine.
La visione filosofica di Bonaventura partiva dal presupposto che ogni conoscenza
derivi dai sensi: l'anima conosce Dio e se stessa senza l'aiuto dei sensi esterni.
Risolvendo così il problema del rapporto tra ragione e fede in chiave platonico-
agostiniana. Molto lontano quindi dall’aristotelismo dell’Aquinate.
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Per Bonaventura, l'unica conoscenza possibile è quella contemplativa, cioè la via
dell'illuminazione, che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino
di accostarsi a Dio misticamente. L'illuminazione guida anche l'azione umana, in
quanto solo essa determina la sinderesi, cioè la disposizione a distinguere il bene dal
male: il ruolo della coscienza di fronte ad una scelta di comportamento o azione.
San Bonaventura, francescano, venti giorni dopo l'indizione della festa del Corpus
Domini predicò il Sermo de sanctissimo corpore Christi alla presenza di papa
Urbano IV e del concistoro generale.
Bonaventura, con Tommaso d'Aquino, come abbiamo ricordato, è stato tra i
protagonisti di quell'evento rilevante nella storia religiosa ma anche nella storia
della cultura: veniva istituita, infatti, una nuova festa per la Chiesa latina,
incentrata sul mistero dell'eucaristia.
IL RUOLO DI FRANCIS BACON
La filosofia scolastica era particolarmente incentrata sullo studio del dogma religioso
cristiano, ma non solo. Gli scolastici diedero infatti un forte impulso anche allo
sviluppo della scienza. Perciò la Scolastica fa parte a pieno titolo dell’Umanesimo.
Nel XII-XIII secolo, nell'ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime
Università europee come Bologna, Parigi, Oxford, si svilupparono diverse
ricerche sulla natura, ovvero sul creato, comunque considerato opera di Dio.
Per i filosofi scolastici della natura la creazione era come un libro aperto che andava
letto e compreso, un libro contenente leggi naturali la cui transitorietà era
riconducibile a regole immutabili fissate da Dio al momento della creazione.
Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi avrebbe consentito di elevare
l'intelligenza umana e di avvicinarla sempre più a Dio. In quest'ambito valevano
come auctoritas anche filosofi dell'epoca greca e persino pensatori di origine
islamica.
Due furono in particolare le scuole di pensiero, attestate peraltro su posizioni
alquanto distanti tra di loro, che elaborarono ognuna un proprio metodo scientifico:
quella di Parigi, facente capo ad Alberto Magno, seguito dal suo discepolo
Tommaso d'Aquino, e quella di Oxford, dove fu attivo Ruggero Bacone. Costoro,
pur restando fedeli al metodo aristotelico, si occuparono di filosofia della natura
basandosi sulle osservazioni degli eventi e contestando alcuni elementi anti-
scientifici del pensiero greco.
Oltre alla scienza, il metodo scolastico venne applicato anche agli studi di diritto,
almeno a partire da Raniero Arsendi in avanti, operante nella scuola di Bologna.
Dopo il periodo d'oro, la scolastica conobbe un periodo di lenta decadenza, a causa
della perdita dell'unità teologica dei Cristiani dopo la fine del Medioevo. Da
allora i termini “Scolastico” e “Scolasticismo” assunsero un significato negativo,
ovvero l’abitudine di affidarsi ad un sistema collaudato per giustificare le proprie tesi
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GUGLIELMO DI OCKHAM
Guglielmo di Ockham nacque ad Ockham nel 1285 e morì a Monaco di Baviera
nel 1347. Entrò nell'ordine francescano in giovane età, studiò all'Università di
Oxford fra il 1307 e il 1318, divenendo poi docente nella medesima università.
Ad Avignone, dove soggiornò per quattro anni, conobbe Michele da Cesena, il
ministro generale dell'ordine francescano, che condivideva con lui l'idea che le
comunità cristiane potessero avere in uso dei beni ma mai possederli, secondo la
dottrina della povertà evangelica, un'idea radicale contrariamente a quanto
sosteneva il papato.
Nel maggio 1328 Guglielmo si ritirò a Pisa, dove entrò al seguito dell'imperatore
Ludovico il Bavaro al cui fianco si era schierato nella controversia tra l'Impero e
il Papato.
Lì arrivò la scomunica da parte del papa, dopo la quale Guglielmo decise di
seguire l'imperatore andando con lui a Monaco di Baviera, seguito anche da Michele
da Cesena, con il quale continuò la polemica contro la Chiesa. Morto l'imperatore e il
generale francescano, Guglielmo cercò di riavvicinare le sue posizioni a quelle
della Chiesa, ma morì nel 1347 prima che questo riavvicinamento si compisse.
Guglielmo, nella disputa tra papa, imperatore e i nuovi poteri delle monarchie
nazionali e delle città, si oppose sia alle tesi ierocratiche di Bonifacio VIII, sia a
quelle della laicità dello Stato di Marsilio da Padova. Secondo lui autorità
religiosa e civile dovevano essere nettamente separate perché finalizzate a scopi
diversi, così come diversi erano i campi della fede e della ragione. Ockham è
convinto dell'indipendenza di fede e ragione ed è convinto che le verità di fede
non sono per nulla evidenti e la ragione non le può indagare; solo la fede, dono
gratuito di Dio, può illuminarle.
Il papa è fallibile e non può attribuirsi alcun potere, né temporale (l'impero, infatti,
esiste da tempo più remoto, rispetto alla Chiesa, e non discende dal Papa ma
direttamente da Dio), né spirituale, giacché la sola possibilità per l'uomo di
salvarsi deriva dalla grazia divina. Nel Dialogus sostenne come l'imperatore fosse
superiore alle leggi, ma sottoposto al proprio popolo, il quale, nel caso in cui egli
non rispettasse il principio dell'equità naturale era autorizzato a disubbidirgli.
La delega che il popolo dava all'imperatore nell'esercitare il potere era quindi
vincolata al suo buon operato e non assoluta. Con Marsilio da Padova queste tesi
furono tra i fondamenti del potere statale inteso in senso moderno.
Il Rasoio di Ockham. Sulla base di queste premesse, Ockham applica ai suoi
ragionamenti il tradizionale principio medievale di semplicità della natura,
ovvero intende eliminare dai ragionamenti i concetti superflui per spiegare una realtà
intesa volontaristicamente: questo metodo si riassume nella formula entia non sunt
multiplicanda praeter necessitatem sinteticamente definita il Rasoio di Ockham,
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Egli ritiene che la Chiesa debba avere pochi diritti in campo politico e accusa
apertamente il papa e la Curia di quattro eresie:
1. eresia: uguagliare il potere petrino a quello divino, permettendo al papa
di intromettersi ordinariamente nella gestione dell'impero;
2. eresia: affermare che il papa può comandare quanto Dio chiese ad
Abramo;
3. eresia: conferire al papa il potere di istituire nuovi sacramenti;
4. eresia: concedere al papa il diritto di privare i re dei loro regni.
Ce n’era abbastanza per incorrere nei rigori del “Santa Inquisizione” e la
scomunica fu infatti puntuale e automatica.
L’INQUISIZIONE
l'Inquisizione, come tribunale preposto all’accertamento e repressione delle eresie,
nacque nel Concilio di Verona nel XII sec.(1184), presieduto da papa Lucio III e
dall'imperatore Federico Barbarossa, con la costituzione Ad abolendam diversarum
haeresum pravitatem; in seguito fu perfezionata da Innocenzo III e dai successivi
papi Onorio III e Gregorio IX, per reprimere il movimento Cataro, diffuso nella
Francia meridionale e nell'Italia settentrionale, e per controllare i diversi e attivi
movimenti spirituali e pauperistici.
Nel 1252, con la bolla Ad extirpanda, Innocenzo IV autorizzò l'uso della tortura e
Giovanni XXII estese i poteri dell'Inquisizione nella lotta contro la stregoneria.
Tale Inquisizione medievale si distingue dall'Inquisizione spagnola, istituita da
Sisto IV nel 1478 su richiesta dei sovrani Ferdinando e Isabella, che fu estesa
nelle colonie dell'America centro-meridionale e nel Regno di Sicilia (ma non nel
Regno di Napoli per la fiera opposizione popolare). Allo scopo di combattere più efficacemente la Riforma protestante, il 21 luglio 1542
Paolo III emanò la bolla Licet ab initio, con la quale si costituiva l'Inquisizione
romana, ossia la «Congregazione della sacra, romana ed universale Inquisizione
del santo Offizio».
Mentre nel XIX secolo gli Stati europei soppressero i tribunali dell'Inquisizione,
questa fu mantenuta dallo Stato pontificio e assunse nel 1908, regnante Pio X, il
nome di «Sacra Congregazione del santo Offizio», finché con il Concilio Vaticano
II, durante il pontificato di Paolo VI, in un clima profondamente mutato dopo il
papato di Giovanni XXIII, assunse nel 1965 l'attuale nome di «Congregazione
per la dottrina della fede».
Dopo varie riforme ed ampliamenti dei fini di quel Tribunale Speciale, dal
sedicesimo secolo, gli inquisitori operavano:
“contro gli eretici ed i fautori o ricettatori di essi, contro i sospetti di una
falsa credenza, contro quelli che impediscono agli inquisitori di esercitar
liberamente il loro uffizio, e contro quelli che richiesti a prestar la loro opera
35
per poterlo eseguire, si ricusano, ancorché siano principi, magistrati e
comunità”;
“contro i pagani che venuti alla fede e battezzati, ritornano a professare il
paganesimo”;
“contro i malefici ed i sortilegi che con arti superstiziose tentano di
danneggiare il prossimo; contro gli astrologi giudiziari, divinatori e maghi,
molto più se questi abbiano fatto patti col demonio, ed abbiano apostatato
dalla vera religione; contro quelli che impediscono ai bramosi di professare
la vera fede e di abbracciarla; contro chi predichi dottrine scandalose e
contrarie alla vera religione; contro quelli che in pubbliche lezioni o dispute,
ed anche in discorsi e scritti privati sostengono che la ss. Vergine non sia
stata concepita senza macchia originale”;
“contro chi usa litanie nuove non approvate dalla sacra congregazione de'
riti; contro chi celebra la messa e ascolta le confessioni non essendo
sacerdote; contro i sacerdoti sollecitanti a cose turpi nell'atto della
confessione o immediatamente innanzi o dopo di essa, o nell'occasione o col
pretesto della medesima; contro i ministri del sagramento della penitenza,
che negligentino di avvertire i penitenti dell'obbligo di denunziare i
sollecitenti, o che insegnano non esservi siffatta obbligazione, e contro i
testimoni falsi e calunniatori che depongono in causa di fede”;
“contro i cristiani apostati, anzi possono procedere contro i giudei ed altri
infedeli se neghino quelle verità, che nella loro credenza sono comuni coi
cristiani, se invochino o facciano sacrifizi ai demoni, e cerchino d'indurre i
cristiani ad eseguirli, se pronunzino delle bestemmie ereticali, ed in molti
altri casi”.
CAP. IX. VITA E OPERE DI UN BANCHIERE DEL
TRECENTO. L’ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Per ricostruire uno spaccato della vita in una città italiana nel quattordicesimo secolo,
raccontiamo la storia di un banchiere di Prato, Francesco Datini, che ebbe il
grande merito di lasciare alla sua città un archivio di famiglia dal valore
inestimabile, esso comprende: centocinquantamila lettere, cinquecento registri ed
altri documenti! Questo imponente materiale d’archivio ha consentito agli storici di
ricostruire la figura e l’opera di un banchiere del Trecento e, naturalmente, il contesto
in cui viveva. Utilizziamo quindi la sua storia per conoscere meglio quel secolo.
Francesco Datini era figlio di un oste, che morì di peste insieme alla moglie nel
1348, Francesco a tredici anni si trovò orfano e con la responsabilità di un
fratellino. Furono allevati da una certa Piera Boschetti, che chiamarono sempre
mamma. L’anno dopo Francesco iniziò a lavorare in una bottega di Firenze e
ogni giorno sentiva i racconti dei mercanti che trafficavano con Avignone,
Raggiunti i quindici anni e in possesso di quattrocentocinquanta fiorini, emigrò
proprio nella nuova residenza papale. Lì cominciò a prendere conoscenza dei grandi
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traffici e delle grandi ricchezze dei papi e dei cardinali, che si rifiutavano di bere
in coppe che non fossero di metallo prezioso. Con papa Clemente VI lo sperpero di
denaro era scandaloso. Molti erano gli artigiani e i commercianti fiorentini che
facevano affari ad Avignone. Circostanza questa che non faceva sentire solo il
giovane Datini.
I primi traffici, che iniziò con i soldi che si era portati da Prato, furono di armi. La guerra dei Cento Anni aveva prostrato la Francia, bande di predoni scorrazzavano
per il Paese mettendo in pericolo anche il Papa che dovette finanziare un proprio
esercito per la difesa personale. Datini vendette armi indistintamente ai francesi,
ai papalini e ai predoni. Per esempio nei suoi libri troviamo annotata la fornitura di
“50 corazze per briganti” importate da Lione e Milano. E i guadagni non si fecero
attendere. Non aveva le grandi visioni dei Peruzzi, dei Bardi e dei Medici,
preferiva una miriade di piccole imprese dove era possibile guadagnare molto sul
poco, dividendo così i possibili rischi. Riusciva a vendere di tutto: pelletterie,
gioielli, lino e fustagno, biancheria per le spose ed cofanetti da viaggio e
tantissimi paramenti sacri, quadri e arredi. Era un campione di prudenza e
coraggio, grandezza e meschineria. Moltiplicava le sedi di rappresentanza in tutta
Europa e moltiplicava le ricchezze. Era religiosissimo e visse nel terrore dell’inferno perciò non lesinò finanziamenti
alle chiese e ai conventi, fece digiuni e pellegrinaggi. Ma contemporaneamente
collezionò concubine e figli illegittimi, finche verso i quarant’ anni sposò una
ragazza fiorentina, Margherita Bandini, che ne aveva sedici e viveva ad Avignone.
Quella ragazza l’amò a tal punto che non riuscendo a dargli un figlio legittimo,
si accollò l’onere di allevare quelli illegittimi nati anche dopo il matrimonio. La festa di nozze fu fastosa. Tra le sue carte sono stati ritrovati gli elenchi degli
acquisti. “406 pagnotte, 250 uova, 50 chili di formaggio, mezzo vitello, due
montoni, 37 capponi e 11 galline”, queste le voci più importanti.
Nel 1375 ebbe un colpo di fortuna. Papa Gregorio XI, incerto se tornare a Roma o
no, aveva affidato l’amministrazione deli Stati Pontifici nell’Italia Centrale a dei
Legati francesi che avevano scontentato tutti. Alla testa della reazione dei comuni
desiderosi di liberarsi degli amministratori francesi, si pose Firenze. Come abbiamo
visto in precedenza, il papa reagì scomunicando Firenze e autorizzando francesi e
inglese a sequestrare i beni dei banchieri e commercianti fiorentini. Essi dovettero
abbandonare precipitosamente i loro magazzini e banche e per non farsele
sequestrare le affidarono a Datini che essendo di Prato non ricadeva sotto le
sanzioni e furbescamente aveva anche fatto professione di fede a papa Gregorio.
Non si sa bene come, ma da allora i suoi beni si moltiplicarono enormemente.
Datini si rese conto che ormai il papato sarebbe tornato a Roma e non aveva più
senso governare i suoi bene da Avignone. Era tempo che tornasse a Prato e vi
spostasse il centro operativo dei suoi traffici, ormai di dimensioni europee.
A Prato l’aspettava la vecchia mamma Piera che dopo averlo rivisto morì, ed una
città di non più di dodicimila abitanti in mano alla potente corporazione dell’Arte
della Lana. Gli aderenti ad essa avevano in mano la produzione e la
commercializzazione della lana, ma controllavano anche tessitori, filatori, tintori e
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cardatori; per tutti gli operai fissavano gli orari di lavoro, prezzi e salari. Datini,
reduce dalla fastosa Avignone, rimase sconvolto da quella città grigia: nessuno lo
riconosceva, nè lui ci tenne a farsi riconoscere, anzi mimetizzava le sue ricchezze per
via delle trasse che erano la sua ossessione, perciò denunziò un patrimonio di soli
3000 fiorini. Ma poi si costruì una casa fastosa con un grande giardino, che
meravigliò tutti. Qui installò il suo fondaco, i suoi uffici, l’archivio con i suoi
registri che sulla copertina recavano il motto della sua azienda: “Cho ‘l nome di Dio
e di Ghuadagno”
Da lì riannodò i rapporti con la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, Germania e
Medio Oriente, si iscrisse all’Arte della Lana e si scelse come socio uno che vi
godeva molto prestigio. Non si interessò di lavorazione, ma assicurò al socio grossi
rifornimenti di ottima lana inglese, migliore di quella di Prato.
Presto si rese conto, però, che la cittadina di Prato era troppo angusta per i suoi
traffici. E perciò si trasferì a Firenze, ma a Prato lasciò la moglie a governare la
casa e i suoi beni. A Firenze di iscrisse all’Arte della Seta ed aprì un grosso
fondaco munito di robuste sbarre alle finestre e alle porte. Nel retrobottega c’era un
letto per il garzone che, secondo gli Statuti dell’Arte, doveva dormirci la notte. Completavano il personale lo scrivano che aveva il monopolio della contabilità, e tre
ragazzi apprendisti. Da questi fondachi e con questo staff (che oggi apparirebbero
ridicoli), i mercanti fiorentini dirigevano transazioni di miliardi su tutte le piazze
commerciali del mondo.
Per alcune destinazioni come Venezia o le Fiandre i mercanti fiorentini avevano
un vero e proprio servizio postale con due corrieri al giorno. Ma Datini si serviva
anche di privati visto che aveva interessi in Spagna e nel Levante. Per mettersi al
riparo da disguidi e sorprese, usava spedire diverse copie affidate a corrieri
differenti. Le perdite di merci erano frequenti per via dei pirati in mare e i banditi
sulla terraferma, perciò spendeva somme ingenti per dare alle merci una
copertura assicurativa.
A Firenze iniziò anche il traffico degli schiavi, visto che era consentito, a patto
che fossero degli infedeli, ovvero musulmani o ebrei.
Datini commercialmente agiva per “Compagnie”, un tempo aziende famigliari
composte da padre, figli e fratelli, ovvero persone che “mangiavano lo stesso
pane”, da cui il nome. In seguito queste “compagnie” si allargarono anche ad
estranei, detti soci. Datini si servì di questo modello di compagnia e pretendeva dai
“soci” lo stesso rapporto esistente tra padre e figli, e lui ovviamente ricopriva il ruolo
di padre.
Sul finire del secolo, Datini si iscrisse all’Arte dei Cambiatori e aprì una banca. La nuova attività gli procurerà molti guai perché lo accusarono di usura.
Nell’opinione corrente banchiere e usuraio erano sinonimi. Del resto non
esistevano regole precise sui tassi d’interesse. La stessa chiesa solo dopo il mille
condannò l’usura, ma con formule che dicevano tutto e il contrario di tutto
richiamandosi al dettato tomista che riconosceva un “giusto prezzo” del denaro. Dopo la morte del socio Cambioni, Datini si affrettò a liquidare la banca, sebbene
fosse diventata una delle più forti d’Europa.
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Nonostante il tantissimo lavoro da svolgere, Datini riusciva ancora a dedicarsi alla
sua vecchia passione per le donne: durante un fine settimana trascorso a Prato
mise gli occhi su una serva di casa che rimase incinta.
Fu perciò necessario trovarle un marito che si accollasse anche il nascituro e
questo gli costò ben 165 fiorini. Il bambino sopravvisse solo sei mesi e lui
acconsentì che venisse sepolto nella sua cappella privata, ai piedi dell’altare,
posto riservato ai figli illegittimi. Di lì a qualche tempo dopo, un’altra serva di
casa, di nome Lucia, diede alla luce una bambina, che chiamarono Ginevra, la
moglie di Datini, Margherita, che si sentiva in colpa per non aver dato un figlio
al marito, decise di allevarla lei come fosse sua figlia. Quindici anni dopo fu data in
sposa ad un giovanotto di Prato con la bella dote di 1000 fiorini.
Ma Datini quando arrivò il momenti di versarli, ne trattenne 840 per le spese
della cerimonia, che era stata particolarmente sfarzosa, con l’aggiunta, però, che se
Ginevra fosse morta entro due anni il marito avrebbe dovuto restituirgli 1000
fiorini.
Nel 1399 scoppiò l’ennesima peste e Datini per restarne immune si vestì da monaco
e con una candela in mano se ne andò in pellegrinaggio. Lui era un anticlericale e più
volte si era fatto beffe dei preti, ma credeva in Dio e soprattutto nell’inferno perciò
faceva elemosine e si confessava spesso. Quando la peste arrivò a Prato lui si
organizzò con la moglie e Ginevra, più due impiegati e alcuni servitori e si
trasferì a Bologna. E lì rimase per quattro mesi.
Tornò a Prato dopo l’epidemia e da lì non si mosse più. Pensando di essere vicino
alla fine, fece testamento e rivelò al notaio l’ammontare delle sue fortune: 70.000
fiorini, quanto il re di Francia non ne incassava in un anno! Questa somma la
destinò alla “Casa del Ceppo dei Poveri” di Prato. Ovviamente lasciò una rendita
alla moglie e alla figlia Ginevra. Morì nel 1410.
ORGANIZZAZIONE SOCIALE
1, SERVITU’ DELLA GLEBA
Nel quattrocento era ancora molto diffusa in Italia l’istituto della “servitù della
gleba“. Questa istituzione sociale si sviluppò sotto Diocleziano, l'imperatore
romano, al fine di fermare la fuga dalle campagne verso le città dei “colonus” o
affittuari, con un provvedimento di legge impose ai coloni di trasmettere il
proprio mestiere ai loro discendenti legandoli di fatto, anche per le generazioni
successive, al terreno che coltivavano. Il vincolo era così rigido che essi potevano
essere venduti insieme al fondo che coltivavano, passando così al servizio del
nuovo proprietario del fondo.
Il proprietario del fondo aveva il diritto di reclamare i coloni al suo servizio qualora
si allontanassero dal fondo; poteva infliggere loro pene corporali in caso di
disobbedienza; poteva stabilire in quali modi ogni colono potesse utilizzare la sua
paga (chiamata peculius, come quella concessa agli schiavi).
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Nel sec. XVI la servitù della gleba si affermò quasi ovunque, ed era talmente
rigida che in alcuni territori, soprattutto nell'area tedesca, molti contadini liberi,
per lavorare in campagna, erano ridotti alla condizione di servi della gleba: la
proprietà di un fondo si identificava con la servitù della gleba di chi lo coltivava.
Nei sec. XVII e XVIII non vi era praticamente opposizione alla servitù della
gleba. Poteva persino accadere che i servi della gleba rifiutassero le offerte di
liberazione dalla loro condizione, nonostante, molto spesso, fossero stati in grado di
sostenerne gli oneri finanziari.
Solamente agli inizi del secolo XIX, con la liberazione dei contadini, cominciò il
tramonto della servitù della gleba. E’ convinzione diffusa che l’abolizione della
servitù della gleba non derivò tanto dalla pesantezza degli obblighi imposti ai
contadini-servi, quanto piuttosto dal contrasto tra gli ideali illuministici ormai
diffusi e la desueta concezione di un vincolo personale.
Una delle prime zone d'Europa che stabilì ufficialmente la liberazione dei servi
della gleba dai loro doveri fu Bologna. Il 3 giugno 1257, mentre era vescovo
Giacomo Boncambio e massima autorità civile era Rolandino de' Passeggeri,
Bologna liberò, previo riscatto, 5855 servi sottomessi a signori laici, mentre i
servi sottomessi a signori ecclesiastici furono liberati senza oneri.
In ricordo di quegli eventi Bologna mise nel suo stemma la parola “Libertas”.
MEZZADRI E FITTAVOLI
La servitù della gleba si trasformò in altri istituti agrari, ancora presenti nel
secondo dopoguerra, come la mezzadria o con la concessione di un fondo ad
affittuari tenuti a versare ai proprietari, insieme ad una somma di denaro anche
contributi in natura come olio, vino, frutta e finanche una minestra settimanale
di verdura. Se da un lato si attenuarono i vincoli relativi alle persone, rimasero forti i
vincoli che consentivano gli interventi dei proprietari sulla conduzione delle attività
agricole.
2. LEGGE DEL MAGGIORASCATO
Un altro Istituto tipicamente medievale fu la legge del maggiorascato“, il diritto di
maggiorasco (in latino maioratus) era, nell'antico sistema giuridico, il diritto del
primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare. L'eredità andava di solito
al figlio maschio maggiore, mentre gli altri ne restavano esclusi. Tuttavia, ogni
luogo aveva le sue usanze: per esempio, in certe zone della Francia e della
Germania, il "maggiorasco" era più che altro un "minorasco", poiché era il
figlio minore ad ereditare tutto, essendo quello che restava più a lungo con i
genitori, e potendo provvedere così più probabilmente alla loro vecchiaia.
Il maggiorascato era disciplinato da alcune norme legislative secondo cui il
matrimonio, la trasmissione dei titoli nobiliari e dell'asse patrimoniale erano
appannaggio dei soli primogeniti maschi. Il patrimonio era indissolubile e
fedecommesso (destinazione obbligata dopo la successione) con la garanzia della
sua conservazione.
Il destinatario del fedecommesso godeva dell'usufrutto generale dei beni con
l'obbligo di conservarli per restituirli ai suoi successori. Per questi vigeva il
divieto assoluto di alienazione, ipoteca, donazione, cessione e qualsiasi altra
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forma di suddivisione dell'asse patrimoniale, che peraltro era soggetto
obbligatoriamente all'inventario.
Nel secolo XVIII, si trasformò in legge un’antica abitudine che impediva ai
maschi cadetti qualunque possibilità di contrarre matrimonio: per strategie
familiari, erano destinati ad intraprendere o la carriera ecclesiastica o quella militare.
Solo nel caso in cui il primogenito non potesse garantire una discendenza, si
concedeva eccezionalmente al cadetto la possibilità di contrarre matrimonio.
Il Manzoni, ne “I Promessi Sposi”, parla diffusamente di questa tradizione
giuridica e ci racconta in dettaglio alcuni aspetti tragici del maggiorascato che
caratterizzarono la vita di Gertrude (Virginia de Leyra).
Già nel corso del Settecento, i vincoli perpetui delle proprietà erano stati
soppressi: venivano ammessi solo i fedecommessi che vincolavano il patrimonio
familiare per una sola generazione (fino alla riforma del 1975).
La tradizione del maggiorascato era talmente radicata nella società del tempo che
ancora nel XVIII secolo Tommaso Crudeli, poeta, libero pensatore e raffinato
giurista (1702 -1745), per aver rinunciato al diritto di maggiorascato a favore dei
fratelli; finì davanti al Tribunale dell’Inquisizione di Firenze accusato di ribellione.
Questo gli inflisse torture e danni fisici i cui postumi determinarono
anticipatamente la morte quando fu messo agli arresti domiciliari a Poppi.
Il Codice Napoleonico, introdotto da Gioacchino Murat nel 1809 a Napoli, stabilì
l'abolizione dei fedecommessi e l'uguaglianza ereditaria per tutti i figli.
La Restaurazione del 1815 introdusse delle modifiche, riconoscendo la quota
legittima da ripartire a tutti gli eredi in maniera identica senza più distinzione di
sesso e di età, una quota disponibile e l'obbligo della collazione (l'obbligo da parte
di chi accetta l'eredità di conferire nell’asse ereditario quanto ha ricevuto in
donazione in vita dal “de cuius” ).
Attualmente, l'unica area in Europa in cui permane un istituto giuridico
assimilabile al diritto di maggiorasco è l'Alto Adige, dove l'art. 11 della Legge
Provinciale 17/2001 prevede che il maso chiuso possa essere assegnato solo ad un
unico erede o legatario.
3. LA VITA IN CONVENTO
La monacazione, soprattutto per le donne, nel Medio Evo era massiccia sia per le
classi più agiate che per quelle del popolo minuto. Per questo motivo esistevano
anche conventi, soprattutto femminili, di difficile accesso per i poveri a causa
dell’alta dote che doveva accompagnare l’ingresso in convento, anche se le leggi
della Chiesa proibivano qualsiasi offerta che non fosse spontanea.
Nel Medioevo le ragazze si consideravano adulte a quindici anni, potevano
sposarsi senza permessi speciali a dodici e potevano farsi monache a quattordici.
L’ingresso nei conventi più aristocratici comportava anche il pagamento di un
diritto d’ingresso. Alla novizia bisognava assicurare il nuovo abito, un letto e
qualche mobile; ci impegnava ad organizzare una festa in occasione della
pronuncia dei voti aperta a tutto il convento e agli amici che si intendeva invitare.
Inoltre era a carico della famiglia della novizia anche il regalo al celebrante. Tutto
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questo dopo il noviziato. Spesso le ragazze entravano in convento quando erano
in età di poter decidere da sole se veramente sentivano quella sincera vocazione,
ma c’erano quattordicenni, e a volte anche di età inferiore, che entravano in
convento per studiare o per decisione familiare.
Nella storia della Geltrude manzoniana viene ricostruito alla perfezione il contesto
sociopolitico e la “carriera” delle novizie appartenenti all’alta borghesia.
Le suore recitavano sette Uffici ogni giorno: verso le due, dopo mezzanotte, veniva
recitato il Mattutino, a tal fine si alzavano tutte dal letto al suono della campana e
andavano nella cappella del convento e dopo il mattutino recitavano anche le Lodi.
Tornavano a letto quasi all’alba e si alzavano definitivamente alle sei per
recitare la Prima e durante il giorno, ad intervalli stabiliti recitavano Terza, Sesta,
Nona, Vespri e Compieta. Quest’ultimo ufficio si recitava alle sette di sera. Dopo
cena di norma andavano a dormire. Al sonno erano dedicate otto ore.
I pasti erano tre: una leggera colazione, un pranzo sostanzioso a metà giornata,
accompagnato da letture edificanti o del martirologio e una sobria cena dopo i Vespri.
All’inizio dell’epoca d’oro del monachesimo, solo uomini e donne con
un’autentica vocazione entravano in convento, nel tardo Medio evo i giovani
cominciarono a considerare il monastero più come una professione da scegliere
che come una vocazione da seguire. C’erano molti uomini e donne che prendevano i
voti con spirito veramente religioso, ma con loro ne entrarono degli altri che non
avevano alcuna attitudine alla vita monastica poiché la trovavano troppo dura e
contraria al loro carattere e ne abbassarono così il livello. Infatti le cronache del
tempo registrano numerosi scandali accanto a fulgidi esempi di santità.
Soprattutto nel Rinascimento si consolidò l’abitudine per le signore dell’alta
borghesia che avevano i mariti lontano per motivi militari o d’affari di farsi
ospitare, naturalmente a pagamento, nei conventi più accoglienti per vivere lì anche
per un anno: nulla piaceva tanto ai signorotti di campagna o ai ricchi cittadini
quanto usare i conventi come pensioni per le donne della loro famiglia.
Tutto ciò turbava non poco la tranquillità e il rigore comportamentale delle monache
visto che le ospiti sfoggiavano abiti lussuosi, gioielli spesso avevano al seguito
anche il loro cane, né disdegnavano la presenza di amici ed amiche. Era naturale
che questo continuo contatto con persone del mondo esterno dovesse provocare la
diffusione di abitudini secolari e mondane. Da qui i frequenti richiami dei vescovi a
limitare quelle presenze. Si tennero anche Sinodi per stabilire il tipo di
abbigliamento delle suore: se consentire spille d’oro, anelli con pietre preziose,
corsetti aperti, scollature e strascichi, persino pellicce di valore e stoffe
costosissime.
I GALATEI
La cultura umanista e soprattutto quella rinascimentale, ormai svincolata del
tutto dalla metafisica, si caratterizzò anche per il raffinamento delle abitudini
alimentari, la cura dell’abbigliamento e delle relazioni sociali e quant’altro
attiene alla vita quotidiana. Questa ricerca della educazione e delle buone maniere,
del vivere ordinato e rispettoso fino alla leziosità si pensò di calarla all’interno di un
preciso e vincolante codice comportamentale, una sorta di precettario che
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monsignor Giovanni Della Casa chiamò “Galateo” , nel 1558 nel suo celeberrimo
“il Galateo overo de' costumi”, il nome "galateo" deriva da Galeazzo Florimonte,
vescovo della diocesi di Sessa Aurunca il titolo dell'opera, infatti, corrisponde alla
forma latina del nome Galeazzo: Galatheus, appunto.
Ma prima di lui era stato il raffinato umanista Baldassarre Castiglione nella sua
opera Il Cortegiano a fissare una lunga serie di precetti comportamentali da
rispettare nella vita sociale e soprattutto a corte, ovvero come soggiornarvi piacendo
al principe, ed anch'egli impartisce al lettore una serie di precetti esortando il suo
apprendista cortigiano a fare un calcolo sistematico perché non gli sfugga nulla
di ciò che deve essere fatto e detto. Soprattutto ci tiene ad insegnare all’apprendista
cortigiano che i suoi discorsi a corte devono essere leggeri, semplici, buffi ed
allegri, lontani dalla pedanteria dei filosofi di professione. Ecco perché il Castiglione
inserisce nel suo Cortegiano, come protagonista, il più grande petrarchista del tempi,
Pietro Bembo, depositario della concezione platonica dell'amore: egli, nell'opera
di Castiglione, rappresenta il tipico metafisico e si avventura in un discorso
platonizzante, finché non viene interrotto da Cesare Gonzaga, che lo mette in
guardia facendogli cortesemente notare che a parlare in maniera così elevata si
rischia di far la fine di Icaro!
Ma se questi sono due esempi di libri di buone maniere che valevano per tutti, molti
furono i testi che si ripromettevano di insegnare alle donne come comportarsi con
il proprio marito. Tra questi si distingue un testo francese del XIV secolo,
anonimo, intitolato Mènagier de Paris, ovvero il Capofamiglia parigino. Si tratta
di una serie di raccomandazioni molto concrete di un marito anziano alla moglie
quindicenne. Eccone un esempio:
“Quando ti rechi in città o in chiesa, fatti accompagnare, come si conviene alla tua
condizione, da donne rispettabili, ed evita qualunque compagnia sospetta: non
permettere mai che una donna di cattiva fama si faccia vedere con te. Cammina a
testa alta e con gli occhi bassi, senza mai batter le palpebre; guarda diritto davanti
a te a una distanza di circa quattro pertiche, senza guardare né uomini né donne,
né a destra né a sinistra né in alto, non lanciare occhiate di qua e di là, e non
fermarti mai a parlare con qualcuno per la strada”.
Oggi farebbe scandalo un matrimonio tra un sessantenne ed una quindicenne, nel
Medioevo, epoca di matrimoni combinati, non scandalizzava nessuno! Nel testo
spesso si avvertono toni più paterni che coniugali. Ma ciò che stupisce nelle
esortazioni di questo marito anonimo è la singolare giustificazione addotta per gli
insegnamenti impartiti alla moglie, ovvero la volontà di “farla crescere”, educarla
in modo che se dopo la sua morte vorrà di nuovo sposarsi, gli faccia fare bella
figura con il nuovo marito: egli non dovrà trovare nel suo comportamento motivi di
rimprovero e magari si complimenterà con il defunto primo marito per gli
insegnamenti impartiti alla moglie.