Così parlò Peppino

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Nel corso di un anno, Peppino impara molte cose dalla vita e cerca di estrapolare grandi significati da piccolezze che lo fanno crescere, come fare giri in bici, prendere il sole, guardare le anatre, guardare cosa combinano gli anziani, fare la fila, provarci con le ragazze in spiaggia, coltivare ceci e fare pipì nei bagni del supermercato.

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Giuseppe Delfino

Così parlò Peppino

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COSÌ PARLÒ PEPPINO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Giuseppe Delfino ISBN: 978-88-6307-300-3

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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E se nessuno ti parla, allora ti tocca pensare. Stefano Benni

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L’ANTISTADIO La fila ai botteghini è lunga e informe, invade la strada e assume una forma attorcigliata, tanto da sembrare una salsiccia. Peppino è uno del gruppo e la sua presenza si confonde con quella degli altri; non capisce più quale sia l’ordine delle persone in fila, se la persona che gli è di fianco sia arrivata là prima o dopo di lui. Per sicurezza, mette in avanti il piede destro come un imperatore romano, come a dire che quei pochi centimetri stabiliscono chi sia arrivato per primo, come se in tutto quel marasma qualcuno noti il suo piede destro po-co avanti. Il primo della fila ha finito, e Peppino è lesto ad avanzare, già prepa-rato psicologicamente alla partenza, come un automobilista al sema-foro o come un centometrista alle Olimpiadi. Ogni passo in avanti è una piccola sfida, perché lui sa che al mondo ciascuno non aspetta altro che fregarlo e di rubargli il posto, che si tratti di conquistare una cadrega tra le più ambite cadreghe per guidare il Paese, o di un misero posto in fila al botteghino per una partita di calcio di Serie C. “Ma perché cercano di fregarmi? E fra poco saremo tutti a tifare per la stessa squadra, saremo tutti là per lo stesso motivo. A cosa serve risparmiare un minuto, se il prezzo da pagare è aver fregato un altro essere umano come te, che è pure tifoso della tua stessa squadra? Quanti minuti, quarti d’ore, mezz’ore, ore, sprechiamo nell’arco di una vita? Basterebbe dormire cinque minuti in meno a notte per ac-cumulare sei giorni in più di vita. Sei giorni sono pochi, ma possono anche essere una vacanza in più, o il tempo per scrivere un libro: Kafka quanto tempo impiegava per scriverne uno?”. E mentre Peppino si è distratto per pensare alla fugacità del tempo, ai cinque minuti e a Kafka, nota davanti a sé un tizio che prima non

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aveva visto. Gli basta così poco per sentire sminuita la sua virilità! Mentre lui approfittava della fila per meditare, un tizio che magari sbuffava e batteva il piede per l’impazienza l’ha sorpassato, cosicché la prontezza si è dimostrata più utile del pensiero. Quel tizio che (forse) l’ha sorpassato, viene subito raggiunto dalla propria fidanzata. Lo smalto viola sulle unghie dei piedi di lei rima-ne impresso a Peppino, che più volte torna a guardarlo. Le unghie delle sue mani, invece, sono trascurate, corte e mangiucchiate. “Molte donne hanno le unghie dei piedi più belle di quelle delle ma-ni, perché a quelle dei piedi non arrivano con la bocca” sentenzia il Peppino filosofo. Intanto, analizza completamente la piccola ragaz-za: guardarla sarebbe una rivincita, qualora quel tizio l’avesse dav-vero sorpassato, come crede. Osservando l’intero panorama da de-stra a sinistra, puntualmente Peppino si sofferma su di lei, sulla sua femminea pelle liscia, sui suoi capelli sciolti, sui suoi occhi verdi mentre lei è di profilo. “Dammi la carta d’identità” comunica rudemente alla compagna il tipo che (forse) l’ha sorpassato. Lei la sfila dalla borsetta e la apre: Peppino focalizza l’attenzione sui suoi dati, senza scandagliare più la totalità del panorama dell’antistadio, ma soffermandosi esclusi-vamente sul documento della ragazza; legge, in barba alla riserva-tezza, di Valentina L., nata a, residente a, in via, al numero. Il bifol-co e la bella Valentina si stanno per abbonare per l’intero anno alle partite casalinghe della Pro Patria, e in quell’abbonamento congiun-to Peppino legge una promessa d’amore, quantomeno sino alla fine del campionato, per sfruttare tutti i soldi spesi per le partite allo sta-dio. Sono le 14:52: Peppino guarda in continuazione l’ora, ha otto minuti per aspettare il pelato davanti, la coppietta (che forse l’ha sorpassa-to), ed entrare allo stadio. Ripensa al minuto di poco prima: “Quel minuto, così irrisorio rispetto all’esistenza, potrebbe farmi perdere il primo gol del campionato. Forse il più bello di tutto il campionato, forse il più bello dell’intera storia del gioco del calcio”. Certo, è im-probabile che la sua squadra segni proprio al primo minuto, ma la

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probabilità è la stessa che segni al quarto, al ventesimo, al cinquan-taquattresimo o al settantanovesimo minuto. “Vuoi vedere che ci perdiamo il primo gol della stagione?” interloquisce il ragazzo che (forse) l’ha sorpassato, rivolgendosi a Peppino e non alla propria ragazza: Peppino, essendo un uomo, è automaticamente un esperto di calcio. “Forse sì, chi può dirlo!” risponde lui non sapendo cosa dire, perché in realtà pensa “Magari me lo perdo io e tu no perché mi hai sorpassato, brutto…!”. Sono le 14:58, finalmente è il suo turno: paga per un abbonamento singolo, lui non ha nessuno con cui condividere quella passione. Fa-re l’abbonamento per tutta la stagione equivale ad essere un uomo solo: è l’ultima settimana di agosto, e Peppino prevede che per i prossimi mesi, una domenica sì e l’altra no, sarà da solo a vedere le partite. L’idea di abbonarsi lo spaventa, gli sembra una responsabili-tà troppo grande, mentre presentarsi da solo di volta in volta ed ac-quistare un singolo biglietto per diciassette volte consecutive signifi-cherebbe esser sì da solo, ma soltanto per quella domenica. Un caso isolato, sarebbe un caso che si ripeterebbe diciassette volte consecu-tive. “Un abbonamento non è altro che una somma di gare che si potreb-bero tranquillamente vedere in solitudine, una per una. Quindi, se può essere per una domenica, può essere anche per una somma di singole domeniche, come se una grande montagna da scalare spa-venti più di diciassette piccole montagne” filosofeggia allora. Peppino paga per un anno intero e corre verso lo stadio: sorpassa la coppia, lei ha i tacchi e deve camminare piano. Entra, la partita è già iniziata. C’è subito una punizione dal limite per la Pro Patria, la se-gue mentre sale gli scalini senza guardare dove mette i piedi. Gol! Gol! Gol! Gol! Peppino si guarda in giro, tutti festeggiano e al-zano i pugni al cielo. In fondo vede la coppia che sta per entrare nel-lo stadio, mano nella mano, hanno appena varcato il cancello: si so-no persi un gol bellissimo, con la palla che si è infilata nell’angolino alto. “GOL!” grida, e in quell’urlo c’è anche lo sfogo verso quel ti-zio che (forse) lo aveva sorpassato nella fila.

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Peppino si siede su un gradone pitturato di blu: lui fa parte della T; con lo stadio nudo si legge la scritta PRO PATRIA da lontano. Si guarda un po’ avanti e indietro, e la solitudine lo mette a disagio, come se gli altri mille siano lì a guardare lui, anziché guardare la partita. Guarda bene e nota altre persone da sole, e si sente meno so-lo. Lo solletica l’idea bizzarra di riunire tutti i tifosi solitari e forma-re un gruppo di solitari. Gruppo solitari: ha formato un gruppo o ha formato un ossimoro? Ciascuno, a ben vedere, segue la partita in solitudine: è sempre un rapporto esclusivo tra i propri occhi e il match in campo. Peppino non riesce a seguire la partita con molta passione: lo spettro della so-litudine continua ad imbarazzarlo, lui non partecipa mai cantando, incitando, caricando o esclamando come fanno gli altri “Su! Dai! Forza! Avanti! Tira! Spazza! Allarga! Arbitro cornuto, deficiente, sei la rovina del calcio, mai visto un arbitro così, corrotto, disonesto, svegliatevi, fuori i coglioni, andate a lavorare”. Durante gli istanti del gol, però, esce fuori dai suoi pensieri: un’estasi orgasmica ed effimera lo coinvolge, il gol lo pone al di là di tutto: si alza, urla come uno scalmanato, si dimena. L’orgasmo finisce e si risiede compostamente, con le mani ancora rosse che un po’ bruciano per i battiti. E, silente, attende il prossimo gol.

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LA VENDETTA La Pro Patria ha vinto per 1-0. Eppure, Peppino non è pienamente soddisfatto. Torna a casa arrabbiato, perché gli sembra che quel tizio l’avesse scavalcato a fare la fila. Non ne è pienamente sicuro, ma gli brucia molto lo stesso. Certo, la sua squadra ha vinto, si è anche accertato che il nemico non ha nemmeno visto il gol, l’unico gol della partita. Ma gli rode comunque. Si ricorda chi era la ragazza del nemico: quella bella ragazza, un po’ bassa, con le unghie dei piedi molto curate e quelle delle mani non molto accudite. Si chiama Valentina L., se lo ricorda bene, è nata a Busto Arsizio il 5 maggio del 1988. Il suo lavoro non sa quale sia, sulla carta d’identità non c’era scritto. Peppino ha la fortuna di vivere nell’era di internet: basta una leggera pressione su un pezzo di plastica chiamato mouse per mettersi in contatto con persone dell’Alaska e della Nuova Zelanda! E’ formi-dabile! Il prezzo da pagare, molto spesso, è la rinuncia a mettersi in contatto con gli altri esseri umani in carne ed ossa. Peppino si collega a Bipeding, il social network dove si scrive le fra-sette con gli amici: da qualche tempo gli capita più spesso di comu-nicare in internet anziché al bar, come invece aveva sempre fatto sin dalla più tenera età. Mentre al bar nascevano racconti su strampalate vite di paese e disavventure capitate di persona, in internet non nasce proprio niente: Peppino e gli amici si scambiano frasi brevi, si scambiano slogan, commenti. Non dialogano più. Forse perché vi-vono in un’era superveloce che non dà tempo ai pensieri lunghi, alle riflessioni e ai racconti, quindi tutti sono costretti a parlare tramite petites phrases.

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In Bipeding, Peppino può cercare persone di tutto il mondo: se vuole cercare di conquistare una ragazza non deve nemmeno più impe-gnarsi a trovare uno stratagemma per avvicinarla. Non deve vincere la timidezza: gli basta una delicata pulsione su quel coso di plastica lì, mouse gli han detto che si chiami. “Ho sempre disprezzato queste cose, certo. Ma devo adattarmi al mondo, non posso continuare ad intestardirmi nelle mie idee, è finito il tempo delle serenate: il mondo adesso va così. Punto e basta”. I tasti che digita sulla tastiera simboleggiano l’inizio di una nuova era anche per lui: la conquista tramite computer! Valentina L. Invio! La vede! E’ lei! Anche lei fa parte di quel 98% di giovani che si so-no iscritti a Bipeding, chi l’avrebbe mai immaginato? Peppino le chiede l’amicizia: non occorre instaurare un rapporto di confidenza e fiducia, ma è sufficiente fare un click. Infatti si ritrova ad avere 197 amici in Bipeding, ma al sabato sera non riescono ad incontrarsi in cinque per riempire una macchina. Al-la domenica pomeriggio va da solo allo stadio.

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PEPPINO VA A LAVORARE Peppino è al lavoro: prende un pezzo di ferro, apre uno sportello, mette il pezzo di ferro in un punto X che non sa cosa rappresenti. Chiude lo sportello, schiaccia un tasto verde. Aspetta quaranta se-condi durante i quali si diverte a ciondolare le braccia: quando il braccio destro va avanti, quello sinistro va indietro, e viceversa. Una lucina si accende, Peppino apre lo sportello di quel macchinario (tornio, gli han detto si chiami), estrae il pezzo e lo lancia in un cas-sone, eseguendo con il braccio un movimento slanciato, dolce, da pattinatore. Così si diverte. Sono le 8:01, deve sbrigarsi; prende un pezzo di ferro, apre uno sportello, mette il pezzo di ferro in un punto X che non sa cosa rappresenti. Chiude lo sportello, schiaccia un ta-sto verde. Aspetta quaranta secondi durante i quali si diverte a cion-dolare le braccia: quando il braccio destro va avanti, quello sinistro va indietro, e viceversa. Una lucina si accende, Peppino apre lo spor-tello di quel macchinario (tornio, gli han detto si chiami), estrae il pezzo e lo lancia in un cassone, eseguendo con il braccio un movi-mento slanciato, dolce, da pattinatore. Così si diverte. Sono quasi le 8:02, deve sbrigarsi. Passano i minuti, aumenta il numero di “pezzi fatti” che getta nel cassone, del quale quasi non riesce più a vedere il fondo. Il primo strato è quasi del tutto occupato, e già stanno cominciando a formar-si dei primi mucchietti qua e là. Sono le 9. “Ho fatto soltanto 87 pezzi, ieri a quest’ora ero già a 89!” si rammarica Peppino, che pertanto inizia a lavorare con più foga, aprendo con maggiore velocità lo sportello di quel coso che gli han-no detto essere un tornio, risparmiando così quasi mezzo secondo ogni volta che lo apre e ogni volta che lo richiude.

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Sono le 10. “Sono già a 180 pezzi! Ieri, a quest’ora, ero appena a 178!” e una minima gioia lo accoglie. Sono le 12: ha fatto 358 pezzi, proprio come il giorno precedente. Ogni giorno lavora stando dietro ad un numero; alla fine di ogni ora pensa al 90 e ai suoi multipli 180, 270 e 360. Di notte, sovente, so-gna di essere ad una corsa dove l’atleta che lo precede ha la casacca col numero 90, 180, 270 o 360. Dopo la quarta ora di lavoro arriva un collega che gli sottrae il cas-sone e lo cambia con uno vuoto. Ogni pezzo che ha buttato là dentro ha contribuito, pian piano, a far sì che quel contenitore si riempisse. E per cosa, poi? Boh! Peppino non lo sa. Dopo tanta fatica, tanto sforzo, quattro ore di lavoro in cui ogni minuto è stato identico a quello precedente e a quello successivo, si ritrova nuovamente con un cassone vuoto. E questa storia di doversi sbarazzare così, in un soffio, di quel cassone cui ormai era quasi affezionato, gli sembra un’ingiustizia, un antipatico sgambetto. E’ insopportabile, per lui, vedersi sottrarre quel cassone riempito con cura, pezzo dopo pezzo, come un risparmio accumulato negli anni e bruciato da un giorno di inflazione. Che senso ha avuto, a questo punto, il suo lavoro? E’ come se ad un muratore, finito di erigere un muro, qualcuno gliel’avesse buttato giù con una cannonata e gli avesse detto “E ora ricomincia. Stronzo!” E Peppino, nel pomeriggio, deve ricominciare di nuovo, daccapo. Il cassone è vuoto. Il primo pezzo che lancia ha un suono unico, è il rumore del rintocco tra il pezzo e il fondo che crea un rimbombo, un’eco tra tutto quel vuoto. Poi il secondo, il terzo, il quarto… pian piano quel rumore svanisce, ed è sostituito da un rumore, sempre uguale, dei pezzi che rimbalzano su se stessi. I pezzi da tornire (così gli han detto si chiami quell’operazione che esegue) sono già finiti. Un collega viene a prendergli quel cassone e gliene riporta uno nuovo per domani. Lo riconosce! E’ lui! Sì, sì, è proprio lui! E’ lo stesso cassone con cui aveva iniziato quella stessa mattina, ne riconosce ogni singola parte arrugginita, le ammaccatu-re, ne riconosce quelle forme che si sono create dove è saltata la vernice, assumendo qua la forma dell’Austria, là la forma della Sve-

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zia, là dell’esagono francese, mentre quell’altra sembra essere nien-temeno che una donna! Ma questo cassone dovrà riempirlo pure domani? Sì, dovrà riempirlo pure domani. Ma ha un senso questo lavoro? No, non ha un senso questo lavoro. Quel cassone è vuoto. Vacuità è il suo lavoro.

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PEPPINO E I DUE CACICAVALLI Peppino va al supermercato. Ha un caciocavallo nella mano destra e uno nella mano sinistra, dritti davanti agli occhi. Gira entrambi i polsi e guarda i due formaggi come se si stessero muovendo su una pedana rotante, e li scruta con serietà, impegno, dedizione. E’ il momento delle decisioni irrevocabili: quale dei due caci deve sce-gliere? Mentre guarda con occhio attento e concentrato, dal basso, una pic-cola voce lo chiama, con un semplice ciao. Peppino sposta lo sguar-do dai due caci per dirigerlo al pavimento: un bambino di poco più di un metro di altezza lo ha salutato, e lui immediatamente riporta lo sguardo sulle due forme di formaggio, fingendo di non aver sentito, anche se si è voltato appunto per il richiamo della sua voce. Il bambino ha la pelle scura, con tutta probabilità viene dall’Africa centrale. Oppure da Pordenone, ma i suoi genitori sono senz’altro dell’Africa centrale. “Come dovrei comportarmi?” si domanda Pep-pino; la questione comincia a preoccuparlo più della scelta del for-maggio. Poco distante, con la coda dell’occhio, Peppino avvista una donna con la pelle scura che quasi sicuramente è la madre, e comincia a sentirsi osservato dalla donna mentre sta vicino al pargolo. Vorrebbe dirgli “Ciao bimbo, come ti chiami?”, nella speranza di liquidarlo subito o che se ne vada ancora prima, come fanno spesso alcuni piccoli, che salutano e se ne vanno. Ma teme che, salutando il bambino così calorosamente e già comin-ciando quella piccola comunicazione, la madre possa scambiarlo per un pedofilo per via dello spauracchio della pedofilia inculcato nella mente delle persone, che non si fidano più degli estranei, dei cono-scenti, degli amici, nemmeno più della matematica.

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Peppino guarda il caciocavallo sulla sinistra, e ci pensa. Come sa-rebbe meglio reagire? Può far finta di nulla, e continuare a guardare i formaggi con un’esagerata attenzione, con aria da elucubratore del latticino che lambicca per l’importante scelta: così, sembra che Peppino si na-sconda dietro i due cacicavalli. In questo caso, però, potrebbe sbucare, da un anfratto tra le salsicce, una signora anziana per accusare Peppino di essere un balordo, un ragazzo insensibile, spregevole e meschino che calpesta l’animo fra-gile, innocente e puro dei bambini mentre esplorano l’esistenza alla ricerca di esperienza sul suolo terrestre. E magari gli direbbe che si comporta così con l’aggravante di essere un razzista. Quel bambino è pure nero. Quindi, se lo salutasse, oltre a passare per un deviato pedofilo che cerca di attrarre a sé i bambini, Peppino temerebbe l’arrivo della madre che lo riprenderebbe perché lui non deve ostentare teatralmente che tutti siamo uguali sulla Terra. “Guardi, abbiamo una dignità anche se siamo vittime del razzismo, e non abbiamo bisogno della sua compassione. Eviti pure di salutare mio figlio, che noi, della sua ostentazione del suo pensiero di ugua-glianza tra i popoli non ce ne facciamo proprio nulla, anzi, lei sfrutta noi negri per dare a intendere il suo ideale politico e filosofico di uguaglianza, lei recita dinanzi agli astanti, lei vuole comunicare ai presenti i suoi ideali, e noi ci ritroviamo immischiati nella sua causa. Ci fa un favore più grande se se ne sta per i fatti suoi, e la sua indif-ferenza a noi sconosciuti è il miglior modo di dimostrare la nostra uguaglianza: ci tratti come tutti”. Ma allo stesso tempo, quel suo modo di aver spostato gli occhi dal viso del bambino per metterlo sulle due forme di caciocavallo, può voler dire che lui snobbi l’esistenza dell’africano, ritenendosi sopra-elevato per la sola tintura dell’epidermide, reputando più importante guardare il formaggio che perdere un solo secondo con un nero. Peppino preferisce quindi perseverare nell’indifferenza al bambino, proprio ad indicare che il suo essere nero non costituisce un motivo di imbarazzo e di disagio. Il suo saluto non lo preoccupa, è un fatto come un altro, privo di qualsiasi rilievo. Così Peppino, indaffarato,

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nonché riservato per natura, si occupa d’altro. Ma questo occuparsi d’altro equivale a dire che nella totalità del panorama dinanzi ai suoi occhi, il bambino africano e il suo saluto assumono la stessa impor-tanza dell’ammorbidente, dei biscotti e del caciocavallo, spodestan-do le anime umane della loro eccellenza, confusa con i beni materia-li. Un essere umano merita più attenzione di un cavolfiore. No: la sua presenza non deve risultare indifferente, perché il bimbo ha dei sentimenti, e Peppino deve riconoscere la sua supremazia al mondo, senza confonderlo con oggetti e vegetali. Quindi, capisce che deve dedicargli un po’ di attenzione, come meri-ta ciascun essere umano su questo pianeta già per il solo fatto di es-sere un uomo, e quell’attenzione deve essere equilibrata, senza un’invadenza che voglia dimostrare pubblicamente che non è un razzista! Ecco: deve dargli un’occhiata senza eccedere nello sguar-do, come invece si fa guardando un alieno o un oggetto misterioso. Ma deve rispondere o no al saluto? E se lo salutasse con quel ritardo dovuto alle sue paranoie, dimostrerebbe di aver pensato al come re-agire? E in quei momenti imbarazzanti i due latticini sembrano essere di-ventati i consiglieri: uno vuole dire “Rispondi al saluto del bambino, e non fare il solito paranoico che teme di essere frainteso da persone malfidenti! Salutalo e basta, senza temere di passare per pedofilo, per razzista o per pedofilo razzista”. Ma l’altro caciocavallo dice “Fuggi, fuggi finché sei in tempo, e non stare qui a pensare, il pensiero è nemico dell’uomo. Vuoi forse ri-schiare di passare per un pedofilo o per un razzista? Oggigiorno è un rischio piuttosto comune! Via, via!”. Mentre pensa fissando quei due formaggi, il piccolo bambino con la pelle scura rivolge nuovamente la parola a Peppino: “Scusi signore, ma li prende tutti e due i cacicavalli?”. Colto impreparato, Peppino sbologna un caciocavallo a caso nelle mani del bambino. E gli sorri-de.