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Luigi Manglaviti Dossier Templari Graal Tutti i diritti riservati — All rights reserved Mangla ©2007-2008 Sono vietate la stampa, la copia e la diffusione di questo documento o di parti di esso: è consentita la fruizione a schermo Saggio

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Luigi Manglaviti

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Il quadro storico

molti figli, in seguito alla morte della moglie Giovanni l’Elemosiniere aveva donato tutti i propri beni ai poveri, era divenuto vescovo di Alessandria, aveva fatto sempre mostra di carità esemplare ed era scomparso nel 617. Il patrocinio di un uomo che aveva dedicato la vita a sacrificarsi per gli altri testimonia il vero scopo dei membri dell’Ospitale. D’altronde nel 1113, data del suo riconoscimento ufficiale, l’Ordine degli Ospitalieri aveva già aperto ospizi in Europa, e precisamente a Saint-Gilles-du-Gard, a Pisa, a Bari e a Taranto, vale a dire nei porti d’imbarco per la Terrasanta. Si trattava proprio di un ordine internazionale votato alla carità e non si poteva certo farvi affidamento per garantire la sicurezza delle strade che portavano a Gerusa-lemme (l’Ospedale si sarebbe militarizzato soltanto nel 1140, in circostanze poco note). Potrebbe però aver fatto da “modello” per quei cavalieri che, già presenti sul territorio ben prima del fatidico 1118, vennero poi codificati come “Templari”. E il “Giovanni” cui l’Ordine del Tempio sarebbe stato cosí devoto potrebbe esser stato desunto proprio dalla stessa persona.

L’Hospitale era stato istituito, addirittura nel 1023, dal “beato” Gerardo � (ruolo di fondatore confermato dalla bolla papale di Pasquale ii novant’anni piú tardi), il quale aveva acquisito terre e rendite per la sua confraternita nei dintorni di Gerusalemme. Il suo successore Raymond du Puy de Provence aveva costituito il primo “ospizio” nei pressi della Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, idea che si era potuta realizzare per concessione dell’imām fatimide d’Egitto Al-Zāhir; la struttura, edificata sul luogo del monastero di San Giovanni Battista (curiosamente, essa è oggi, affidata in custodia agli Armeni, l’ultimo avamposto dell’Aramaico, la lingua originale di Gesú), era servita da monaci benedettini. Il gruppo inizialmente si prendeva cura solo dei pellegrini giunti a Gerusalemme, ma dopo la Prima Crociata ed il riconoscimento ufficiale l’Ordine estese i suoi servizi alla scorta armata, che dal 1140 crebbe fino a diventare un piccolo ma sostanzioso esercito. L’Ospitale cominciò a distinguersi in battaglia contro i Musulmani e i suoi soldati indossavano una sopravveste nera con una croce bianca. Dalla metà del xii Secolo l’Ordine era nettamente diviso tra membri militari e coloro che prestavano assistenza ai malati; era ancora un ordine religioso e godeva di privilegi funzionali concessi dal papato, tra i quali l’indipendenza da ogni autorità che non fosse quella del papa stesso, l’esenzione dai tributi e la concessione di edifici religiosi.

Molte delle fortificazioni piú importanti in Terrasanta sarebbero state

(�) Per alcuni storici Gerardo era originario di Amalfi, secondo altri era francese. Nel mona-stero benedettino di Santa Maria Latina in Gerusalemme egli aveva l’incarico di dirigere la fore-steria, detta anche hospitale, in cui venivano accolti i numerosi pellegrini in visita ai luoghi santi. Per meglio gestire e organizzare la loro accoglienza, il Beato Gerardo aveva appunto fondato la Confraternita di San Giovanni, poi “Ordine dell’Ospitale di San Giovanni di Gerusalemme”, ancor oggi esistente come “Sovrano Militare Ordine di Malta”.

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Gli inizi e l’ascesa

struttura si caratterizza per diverse particolarità, fra cui la vasca battesimale ottagonale (un motivo geometrico che ricorrerà spesso, nella storia della milizia del Tempio); su alcuni lati del battistero (anch’esso ottagonale) si possono ammirare croci di particolarissima fattura: hanno tutte una palese somiglianza con quella che sarà, in seguito, la prima Croix Pattée, e recano un puntino circolare inciso accanto ad ogni spigolo. Il puntino circolare carat-terizza anche quella che sarà la “croce catara”, e sebbene questa somiglianza sia motivo di gioia per gli esoteristi nella polemica “Templari-Catari” che non mancheremo di esaminare, in verità la peculiarità di queste “croci con i puntini” è soltanto di avere una comune origine nell’arte romanica.

Al centro e a destra, la Croix Pattée; in Terrasanta essa era peraltro lo stemma del casato degli Ibelin. Barisano ii di Ibelin, meglio conosciuto come “Baliano il Giovane” (ca. 1140–1193), fu uno dei piú importanti crociati del Regno di Gerusalemme. Tale nome rinvierebbe ad un’origine barese (barisano, ossia “di Bari”) del capostipite della famiglia, anch’egli un “Barisano” — forma attestata pure in Toscana e in Liguria intorno al 1175 —. A sinistra, la Croce di Tolosa: ancor oggi simbolo degli Occitani di Guardia Piemontese in Calabria.

Se Ugo era italiano, allora forse vide ed amò tali croci, adottandole come simbolo una volta che si trovò lontano dalla propria terra. La teoria di Moi-raghi non è nuova: nel 1610 lo storico Filiberto Campanile sosteneva che «mastro Hugo» era nato a Nocera dei Pagani in Campania e discendeva da un tale Albertino di Bretagna, mentre nel 1651 Pietro Maria Campi affer-mava che «maestro Hugo» fosse nativo di Piacenza. D’altro canto, però, un Hugues de Payens/Payns esistette veramente, ed era un Templare, impa-rentato con la famiglia Montbard (e questa parentela, come detto, ha la sua rilevanza): un atto del conte di Champagne del 1100 reca la firma “Hugues de Payns”, e questi sarebbe morto il 24 maggio 1136 a Reims, come riportato da un documento dell’epoca conservato nell’anagrafe mortuaria della città francese. Inoltre, come ben noto, pare che i cavalieri che diedero origine al nucleo primigenio dei Templari fossero tutti francesi: come mai il loro capo sarebbe stato un italiano? La biblioteca municipale di Carpentras conserva un manoscritto che riferisce di un dono del 29 gennaio 1130 da parte di Lau-gier, vescovo di Avignone: in quell’occasione, Ugo di Payens è indicato come «originario di Viviers, nell’Ardèche». Non è nota né si arguisce la ragione di tale menzione, però c’è e va tenuta in conto — peraltro Viviers si trova

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Dossier Templari Graal

centinaia di chilometri piú a sud di Troyes e Château Payns.Ma c’è di piú. Negli annali delle cronache di Simone di Saint-Bertin del

1140 si legge: «...durante lo splendido regno di Geoffroi de Boulogne [Gof-fredo di Buglione] alcuni cavalieri decisero di non tornare fra le ombre del mondo, dopo aver cosí intensamente sofferto per la gloria di Dio. Di fronte ai prìncipi dell’armata di Dio essi si votarono al Tempio del Signore, con questa regola: avrebbero rinunciato al mondo, donato i beni personali, rendendosi liberi di perseguire la purità e conducendo una vita comunitaria, con abiti dimessi, usando le armi solo per difendere le terre dagli attacchi incalzanti dei pagani, quando la necessità lo richiedeva». Goffredo morí nel 1100: chi sono questi misteriosi “cavalieri” che, almeno 18 anni prima della presunta fondazione dell’Ordine dei Templari, si recano in Palestina “votandosi al Tempio” e adottando gli identici costumi dei Templari? L’abbazia di Saint-Bertin era nei pressi di Saint-Omer: piú avanti vedremo che a “Saint-Omer” è riferito uno dei nove mitici fondatori...

Per stabilire il come e il quando della fondazione dei Templari, le fonti sto-riche dell’epoca sono assai limitate. Come sempre, in questi casi controversi, la cosa piú opportuna è riguadagnare le fonti senza alcuna intermediazione. E per gli inizi dei Templari le fonti, come concordano — per una volta unanimemente — gli storici, sono soltanto tre: le cronache di Guillaume de Tyre (Guglielmo di Tiro), quelle di Jacques de Vitry (Giacomo di Vitry o Vitriaco) ed i brevi cenni di Michele Siriano (1166–1199), patriarca giaco-bita di Antiochia (l’unico a citare un numero di cavalieri intorno alle trenta unità). Il cronista Guglielmo di Nangis (m. 1300), che ne parla in una sola frase, indica addirittura nell’anno 1120 la data in cui sarebbe sorta la milizia del Tempio, «comandata dal maestro Ugo». Foucher de Chartres (Fulcherio di Chartres)�, cronista ufficiale del re, contemporaneo del primo Maestro Templare e fondatore e testimone di tutti i primi accadimenti della libera-zione di Gerusalemme e della fondazione dei regni d’Outremer (il territorio occupato dai Cristiani in Siria-Palestina era chiamato “Outremer” perché rispetto all’Occidente si trova al di là del mar Mediterraneo), nei suoi scritti non accenna minimamente ai Templari.

(�) Fulcherio di Chartres (�0�9–���7), storico e scrittore francese. Partecipò al Concilio di Clermont, su invito del vescovo Ivo di Chartres, e scrisse la testimonianza dell’esortazione «Dio lo vuole» di Urbano ii. Dopo aver viaggiato in Francia e in Italia alla corte di Roberto ii di Nor-mandia, arrivò a Costantinopoli dove si aggregò all’esercito crociato. Nel �097 ad Antiochia fu nominato cappellano di Balduino i. Dopo la conquista di Gerusalemme del �099 e dopo la nomina di Balduino a re, mantenne la carica di cappellano almeno fino al ����. Fulcherio è ricordato per la sua “Historia Hierosolymitana” (detta anche “Gesta Francorum”): divisa in tre libri, narra le vicende della conquista di Gerusalemme a partire dal �09�. La genesi dell’opera risale con tutta probabilità al ��00. A questa prima versione (oggi perduta) si ispirò Guiberto di Nogent per redigere le sue “Dei gesta per Francos”.

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Gli inizi e l’ascesa

nuova “militia” veniva posizionata all’opposto della “malitia” tipica della Cavalleria: la “dama” del cavaliere, tipica dell’Amor Cortese, nei Templari diveniva la “dama santa”, degna di un amore ben piú alto.

Già Sant’Agostino aveva valorizzato l’opera di chi poneva la propria vita a difesa degli oppressi quale guerra legittima (“bellum iustum”), in nome del bene supremo della pace, e la sua teorizzazione si era rivestita di simbologia militare. Si deve pure ricordare che nella cultura dell’Oriente il modello del combattente religioso era molto radicato e trasfigurato di una luce mistica: sorvolando sulla controversa e irrisolta questione storica se i Templari siano stati influenzati o meno dal “ribat”, cioè l’idea della guerra santa come concepita in ambito islamico (ma il loro destino, trasposto in una metafora moderna, avrebbe un perfetto parallelo con gli islamici hīzbullāh ), bisogna ricordare che la Bibbia conteneva già diversi modelli di uomini santificati dal fatto di combattere per la difesa della propria religione: innanzitutto re Davide, capo del suo popolo ed eletto di Dio, ma anche Gedeone, anch’egli prescelto da Dio stesso per guidare i suoi soldati alla vittoria. Questi modelli valorizzavano la figura del guerriero religioso in chiave eroica e mistica, figura già abbondantemente esaltata nel Vecchio Testamento che la spiri-tualità militante degli agostiniani Canonici del Santo Sepolcro riproponeva in chiave difensiva per garantire la salvezza dei piú deboli.

A lungo si è sostenuto che fu Bernardo di Chiaravalle in persona a redi-gere la Regola del Tempio. In realtà, nelle sue disposizioni essenziali, la Regola era sicuramente anteriore al Concilio di Troyes, con tutta probabi-lità già abbozzata da Hugues de Payens o piuttosto dalle alte gerarchie di Gerusalemme — re Balduino e il patriarca —; peraltro i manoscritti della Regola del Tempio non segnalano affatto una redazione del testo ad opera di san Bernardo. La lettera di Ugo di Payens conservata nella biblioteca di Nîmes, pur nella sua incerta paternità, è il riflesso di questa opinione; d’altro canto, secondo il testo stesso, una volta che Hugues di Payens ebbe esposto gli statuti, l’obiettivo e il fine del suo Ordine, «i prelati approvarono di quella Regola ciò che pareva loro piú saggio e ne soppressero ciò che sem-brava loro assurdo, lasciando alla discrezione di papa Onorio e del patriarca di Gerusalemme la cura di terminare quell’opera incompleta». Dopo tale discussione, Giovanni Michel, «per ordine del Concilio e di san Bernardo, al quale era stata affidata quella cura, meritò, per grazia divina, di esserne l’umile estensore».

Bernardo rifiutò di scrivere la Regola? Oppure il tal “Giovanni Michel” fu solo l’amanuense che obbedí ai dettami di Bernardo? E Hugues de Payens (anche se non nominato nell’elenco ufficiale) era presente ai lavori del Conci-lio di Troyes? Impossibile stabilirlo nove secoli dopo. Ma una ricostruzione coerente e plausibile del procedere degli eventi è verosimilmente questa:

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Gli inizi e l’ascesa

tavano un ente esentasse, e anzi erano autorizzati a prelevare a loro volta le decime�. Un decreto, come si può facilmente immaginare, foriero di gelosie e contrasti all’interno delle gerarchie ecclesiastiche territoriali, che con le decime vivevano — e pure agiatamente —. In riconoscimento del sangue offerto per la difesa della fede cristiana, ai Templari veniva concessa completa autonomia dai poteri ecclesiastici regolari e secolari, ossia l’Ordine era sciolto anche dall’obbedienza ai patriarchi (si può cosí comprendere l’acrimonia del cronista Guglielmo di Tiro, che era arcivescovo: «essi [i Templari] comin-ciarono nella giusta via, ma in seguito rigettarono per orgoglio l’autorità dei vescovi e del patriarca»...) e rimaneva responsabile soltanto dinanzi al papa; il Maestro e il Capitolo generale dell’Ordine avrebbero potuto gestirne la vita e le consuetudini senza interferenza di alcuno, eccetto il solo pontefice, e per fare in modo che quest’indipendenza divenisse un fatto concreto, veniva perfino data ai Templari la facoltà di avere sacerdoti propri, svincolati dalla sottomissione ai vescovi e agli arcivescovi:

«Affinché abbiate la pienezza della salvezza e della cura delle vostre anime, potete aggregare al vostro collegio dei chierici e dei preti per la celebrazione degli uffici divini e per dare il sacramento ecclesiastico. [...] Essi hanno l’incarico della cura delle anime. Non sono soggetti a nessuno, salvo al Capitolo. [...] Al di là delle riserve che formuliamo circa i diritti dei vescovi, per quanto concerne le decime, le offerte e le sepolture, vi concediamo la facoltà di costruire cappelle in tutti i luoghi collegati al Tempio, affinché voi e i vostri familiari possiate ascoltare gli uffici ed esservi sepolti...».

Questo secondo decreto sarebbe piú tardi risultato esiziale, contenendo in nuce il remoto strumento della rovina dell’Ordine, con conseguenze estremamente importanti a proposito dei “misteriosi riti templari”: ne ripar-leremo a tempo dovuto.

Una bolla pontificia contenente riconoscimenti di cosí vaste proporzioni (addirittura la facoltà di costruire proprie cappelle), per un Ordine appena nato e che per di piú riguardava soltanto la Terrasanta, può sembrare a prima vista al di là di ogni ragionevole logica — e gli esoteristi infatti ne approfittano per sostenere che il papa era ricattato da “scottanti scoperte su Gesú” fatte nelle Stalle di Salomone... —; in realtà bisogna considerare che si stava dando la possibilità ad un esercito papale di stanza in Terrasanta di provvedere al proprio sostentamento in totale autonomia, perché le decime ed i possedimenti in Europa non sarebbero dovuti servire altro che a man-tenere efficiente un corpo dedito alla guerra in un territorio lontano, in Outremer. Inoltre il grande successo morale del nuovo Ordine si spiega alla luce di quanto asseriva in quella stessa epoca il cronista e mistico Guiberto

(�) La società occidentale pagava periocamente alla Chiesa la “decima” parte dei propri pro-venti, da cui il termine.

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Gli inizi e l’ascesa

presso Antiochia, un testimone oculare vide i Templari della guarnigione tenere chiusa una breccia nelle mura facendo scudo con il proprio corpo, «immobili come una muraglia». Non appena un cavaliere cadeva, subito un compagno prendeva il suo posto.

Una simile capacità di abnegazione richiedeva ovviamente un’adesione ideologica fortissima alle motivazioni etiche che animavano l’Ordine, ma anche un opportuno condizionamento psicologico per rendere questi guer-rieri capaci di simili sacrifici, e l’educazione al concetto di obbedienza asso-luta era evidentemente la chiave per la riuscita.

Struttura dell’Ordine

L’organigramma iniziale dell’Ordine, nella sua struttura portante attiva in Terrasanta, si può sommariamente riassumere secondo questo schema:

Maestro (poi “Sovran” Maestro o “Gran” Maestro), capo supremo; la sua autorità si esercita su tutte le commende d’Oriente e d’Occidente.

Visitatore, rappresentante del Maestro in ciascuno dei regni dove l’Or-dine ha dei possedimenti;

Siniscalco, luogotenente del Maestro;Maresciallo, capo militare; è assistito dal Turcopolier (comandante delle

truppe ausiliarie), dal Gonfaloniere (comandante degli scudieri), e dal Sottomaresciallo (responsabile dei “fratelli di mestiere”, gli operai);

Commendatario (o Comandante) della Terra di Gerusalemme, tesoriere supremo dell’Ordine. Questi ha direttamente ai suoi ordini:

Drappiere;Commendatario (o Comandante) della Città di Gerusalemme;

Commendatari delle altre città d’Outremer (Acri, Antiochia,Tripoli, etc.);

Commendatari delle fortezze e delle commende di importanza minore;

Balivi� (funzione di “sceriffo” derivata dal feudalesimo);Cavalieri del Tempio;Sergenti;Fratelli di mestiere;Turcopoli, le truppe ausiliarie.

(�) “Bailie” era il termine in francese arcaico per balivo. Il termine sopravvive ancor oggi nelle Isole del Canale, che per scopi amministrativi sono raggruppate nei due baliati di Jersey (comprendente l’isola di Jersey e le isolette note come Minquiers e Ecréhous) e Guernsey (com-prendente le isole di Guernsey, Sark, Alderney, Brecqhou, Herm, Jethou e Lihou). Ogni baliato dell’arcipelago è guidato da un Balivo.

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Diffusione

a Brindisi e Bari. Il flusso import/export da e per l’Oriente registrava beni essenziali a tutti i crociati in generale, come legno, ferro, cavalli, armi, grano, orzo, legumi, tessuti, spezie, allume, cotone. I finanziamenti correnti da parte delle magioni occidentali erogavano all’Ordine un terzo delle loro entrate: in casi particolari venivano stabiliti dei tributi (responsiones) straor-dinari, destinati a mantenere l’esercito in Oriente; è evidente che per poter far fronte alla richiesta di tributi le magioni occidentali dovevano disporre di un patrimonio con delle rendite.

I generi di consumo, a parte poche derrate, non potevano sopportare i tempi lunghi del viaggio via mare; perciò i Templari erano costretti a con-vertire i beni in denaro, che la loro fama di guerrieri teneva generalmente al riparo dai rischi della pirateria. Giunti in Terrasanta, i capitali trasportati venivano riconvertiti in generi alimentari, bestiame e altri beni necessari nei mercati del vicino Oriente; per l’interesse dell’Ordine e della crociata stessa era indispensabile che tutte queste operazioni non si risolvessero in perdita ma piuttosto venissero gestite calcolando la possibilità di danni (ad esempio il naufragio) e prevedendo un adeguato surplus di guadagno per coprire i possibili rischi. I prodotti provenienti dalle grange templari sui vari mercati d’Europa erano inoltre molto convenienti proprio perché l’Ordine godeva degli sgravi che di norma gli altri produttori, soprattutto laici, non avevano: i prezzi imposti dal Tempio, per usare un termine moderno, erano decisamente concorrenziali.

Le donazioni costituirono la fonte principale del patrimonio dell’Ordine in Occidente. Potevano essere di ogni genere: terreni, case, mulini, denaro; esse venivano amministrate diligentemente in quanto era da queste che derivavano le entrate necessarie a pagare le “responsiones”. Tali donazioni vennero peraltro spesso ostacolate dalle autorità secolari, che vedevano dimi-nuire in misura considerevole i loro introiti materiali — ed anche in termini di valore, in quanto le donazioni erano esenti da tributi —. Le donazioni “della propria persona”, senza menzione di professione religiosa, sono molto riconoscibili negli atti sopravvissuti nelle biblioteche. I firmatari pronun-ciavano praticamente la medesima formula: «io mi dono» oppure «dono il mio corpo e la mia anima a Dio, alla Madonna e ai fratelli della milizia del Tempio, come pure i miei beni, onori...». Tutti questi “donati” non diven-tavano dei religiosi. Siamo in presenza di un infeudamento camuffato.

L’Ordine accettava molte persone nel suo entourage. In effetti quanti si “affiliavano” erano esenti da ogni canone, ecclesiastico o laico. Questi donati, confratelli o uomini ligi, diventavano membri della giurisdizione ed entravano di conseguenza nella “tregua di Dio” — in senso allargato — che la Chiesa raccomandava e predicava. La classe media assicurava la

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Diffusione

detentori di denaro e uomini armati, trovavano disdicevole la completa indipendenza dei frati-guerrieri anche rispetto all’arcivescovo; i vescovi vede-vano il denaro sfuggire loro e cercavano di reagire causando fastidi ai fra-telli. Alcuni lasciti furono all’origine di numerose dispute, dato che i prelati prelevavano un terzo del reddito quando qualcuno si faceva seppellire nei cimiteri dell’Ordine. Ogni papa replicò con sempre maggior forza in favore del Tempio: in tre anni il solo Innocenzo iii inviò quattordici lettere contro i prelati ed i vescovi che se la prendevano con i Templari. I suoi successori Onorio iii (1216–1227) e Gregorio ix (Ugolino dei Conti di Segni, 1227–1241) contribuirono rispettivamente con 89 e 97 bolle pro-Tempio.

Purtroppo per i Templari, questa assoluta dipendenza dal papa avrebbe mostrato la corda nel momento meno opportuno: il papato si sarebbe inde-bolito proprio in concomitanza con la perdita definitiva della Terrasanta, alla fine del Duecento, e l’assenza della protezione pontificia avrebbe accelerato il precipitare degli eventi.

Architettura mistica o mistificata?

A causa della tragedia di cui fu vittima e dell’alone esoterico che troppo spesso gli viene affibbiato, il Tempio è l’ordine militare sul quale si sono fatti piú confronti (fasulli) in materia di costruzioni e di difese.

In Palestina i Templari, prima di mettersi a edificare (cosa avvenuta abbastanza tardi), ricevettero castelli già costruiti: Gaza, ceduto all’Ordine nel 1149; Tortosa nel 1165; Safed nel 1169. Una volta perduta Gerusalemme soltanto gli ordini del Tempio e dell’Ospedale furono tanto potenti e ricchi da edificare e mantenere altre fortezze. Ma come erano costruite? Che rap-porti avevano le loro caratteristiche architettoniche con quelle delle fortezze musulmane? E soprattutto, che fondatezza ha la diffusa nozione che i Tem-plari copiarono il loro modello difensivo da quello islamico?

Nessuna. Il “ribat” musulmano, al tempo stesso fortezza, convento e rifugio, era di molto anteriore agli ordini militari; quando i Musulmani rimpiazzarono i Bizantini, in particolare sulle frontiere marittime, occupa-rono le fortezze difensive edificate dai loro predecessori e ne costruirono altre seguendo lo stesso modello. L’insieme della fortezza bizantina presenta una pianta regolare, fiancheggiata ai quattro angoli da torri rotonde o quadrate; una merlatura corona torri e cortine; altre torri quadrate, piú piccole, difen-dono i lati della fortezza e il loro numero varia a seconda della distanza tra una torre d’angolo e l’altra. Lo stesso sistema fu utilizzato in Terrasanta come nella penisola iberica da tutti gli attori in gioco, perché era evidentemente congeniale alle medesime necessità: le costruzioni, fossero esse bizantine,

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Le vicende di Terrasanta

Fiumi di sangue in Terrasanta

1138–1153: AscalonaL’occasione di usare le armi in Terrasanta non piú solo come “forza di

polizia” a difesa dei pellegrini ma in veri e propri scontri armati venne offerta ai Templari dall’offensiva sferrata dai Musulmani contro i Cristiani nel Vicino Oriente.

Il primo attacco arrivò dai Turchi musulmani di Ascalona che nel 1138 assalirono la cittadina di Teqoa, patria del profeta biblico Amos. Robert de Craon, secondo Maestro del Tempio dopo la morte di Ugo di Payens, vi accorse con i Templari, cui si erano uniti dei cavalieri laici. I nemici fuggi-rono ma il drappello cristiano, invece di inseguirli, si fermò a raccogliere il bottino (come d’altra parte era consentito dalla Regola). Tornati preparati allo scontro, i Musulmani ebbero la meglio e compirono un feroce massacro. La prima occasione di incrociare le spade fu dunque per il Tempio anche la prima occasione per coprirsi di ombre.

L’avidità templare entrò nuovamente in gioco 15 anni dopo in un famoso episodio. Nel 1153 si prospettò la possibilità di una “rivincita”: il re di Gerusa-lemme Balduino iii, con un forte appoggio da parte dei Templari, intraprese l’assedio di Ascalona; nonostante la strenua resistenza degli assediati, dopo sette mesi si riuscí ad aprire una breccia nelle mura e lo stesso Bernard de Trèmelay (Guglielmo di Tiro lo chiama “Tremblay”), quarto Maestro del Tempio, volle varcarla solo con un contingente di quaranta dei suoi. Gli assediati, vedendo che il resto dell’esercito non li seguiva, li circondarono e li uccisero tutti, approfittando del disorientamento degli avversari per richiu-dere la breccia. La città tuttavia cadde in mano ai Cristiani qualche giorno dopo. Ecco la cronaca dell’episodio dalle pagine di Guglielmo di Tiro:

«[Il crollo delle mura] provocò grande rumore, tanto che l’armata tutta fu posta all’erta e tutti corsero alle armi per entrare nella città attraverso questa breccia. Ma il Maestro del Tempio, Bernardo di Tremblay, con suoi Templari, superò di molto gli altri e si pose davanti alla breccia, affinché nessuno entrasse, tranne i suoi con-fratelli. Egli fece questo per conquistare un maggiore bottino nella città.

Accade spesso che imprese iniziate per una cattiva intenzione non siano con-dotte a buon fine, e questa ne fu la prova lampante. Infatti all’interno della città

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tra uomini e donne” (in realtà anche gli Assassini, come gli ordini militari cristiani e islamici, erano composti unicamente da uomini celibi votati alla castità). In piú le pagine di Guglielmo di Tiro, peraltro contraddette da un commentatore arabo coevo molto certosino come Usāma ibn Munqidh, contribuiscono ad ingarbugliare non poco l’analisi degli eventi.

Cominciamo con il fare chiarezza sugli “Assassini”. Erano una tribú di Ismailiti (da Ismaele, figlio di Agar, del ramo cadetto di Maometto: la diffusa nozione che discendessero da un imam Ismaele, figlio di Dosheferi-Sudik, è inesatta) che si erano presto separati dalla corrente principale dell’Islam per professare un ascetismo di tipo panteista; avevano costituito un vero e proprio principato attorno ai castelli di Masyaf e Qadmus, nell’entroterra di Margat e Maraclea. Il nome della setta derivava dall’arabo assas (guar-diano), sebbene non sia da escludere una relazione con il termine “hashish”, poiché sembra che per i loro assassinii politici (lo stesso conte Raimondo ii cadde sotto i loro colpi) ricorressero alla tecnica di offuscare con hashish la mente dei sicari terroristi designati. Il conte Enrico di Champagne ebbe un assaggio del loro cieco fanatismo quando li vide gettarsi numerosi dalle mura di Al-Khaf per un semplice capriccio del loro capo, del quale Enrico era ospite. Obbedivano agli ordini di comandanti supremi conosciuti con il titolo di Veglio (o Vecchio) della Montagna, personaggi degni dei piú sofisticati lavaggisti del cervello del xx Secolo; l’abilità di uno di costoro nel circuire i proseliti è citata nel 1300 da Marco Polo nel “Milione”:

DEL VEGLIO DELLA MONTAGNA, E COME FECE IL PARADISO, E GLI ASSESSINI

Egli avea fatto fare fra due montagne in una valle lo piú bello giardino, e ‘l piú grande del mondo; quivi avea tutti frutti, e li piú belli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro... Quivi era donzelli e donzelle gli piú belli del mondo, e che meglio sapevano cantare e sonare e ballare: e faceva lo Veglio credere a costoro, che quello era lo paradiso. E perciò il fece, perché Malcometto disse, che chi andasse in para-diso avrebbe di belle femmine tante quante volesse, e quivi troverebbe fiumi di latte e di miele e di vino: e perciò lo fece simile a quello che avea detto Malcometto. E gli Saracini di quella contrada credevano veramente, che quelli fosse lo paradiso e in questo giardino non entrava se non colui, cui egli voleva fare assassino. [...] Lo Veglio teneva in sua corte tutti giovani di dodici anni, li quali li paressono da diventare prodi uomini. Quando lo Veglio ne faceva mettere nel giardino, a quattro, a dieci, a venti egli faceva loro dare bere oppio, e quegli dormivano bene tre dí, e facevagli portare nel giardino, e al tempo gli faceva ispogliare. Quando gli giovani si svegliavano, egli si trovavano là entro, e vedevano tutte queste cose, veramente si credevano essere in paradiso, e queste donzelle sempre istavano con loro in canti e in grandi sollazzi; donde egli aveano sì quello che volevano; che mai per lo volere non si sarebbono partiti di quello giardino. Il Veglio tiene bella corte e ricca, e [...] quando egli ne vuole mandare niuno di quelli giovani, in niuno luogo, li fa loro dare beveraggio che dormono, e fagli recare fuori del giardino in sul suo palagio. Quando coloro si svegliono molto si maravigliano, e sono molto tristi, che si trovano fuori del paradiso. Egli se ne vanno incontanente dinanzi al Veglio, credendo che sia un gran profeta, e ingiuochiansi. Egli gli domanda: onde venite?

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Le vicende di Terrasanta

In Calabria, Riccardo aveva sentito parlare di un vecchio eremita, Gioac-chino da Fiore (1130–1202), il quale si diceva traesse interpretazioni inedite dall’Apocalisse e, subito, gli aveva fatto visita: i testimoni osservarono cosí la curiosa scena del monaco calabrese che esponeva i suoi vaticini un po’ stravaganti al re d’Inghilterra il quale, secondo i suoi accompagnatori, «si dilettava ad ascoltarlo». Gioacchino presentava una Chiesa nuova, la Chiesa della carità e dei contemplativi, che perpetuasse lo spirito di San Giovanni; seguendo calcoli alquanto sconcertanti, essa avrebbe dovuto fare la sua appa-rizione nell’anno 1260. Riccardo non sarebbe vissuto tanto, e ad ogni modo non avrebbe mai visto il xiii Secolo: morí appena quarantunenne nel 1199.

Come vedremo molto piú avanti, quattro secoli piú tardi un altro cala-brese di Bagnara, emigrato in Germania, Johann Valentin Andreae (il cui vero nome era D’Andrea, latinizzato in “Andreae”), avrebbe dato vita al mito dei Rosacroce costruendo la figura di Christian Rosenkreutz proprio su quella di Gioacchino da Fiore.

Lo stupro di Bisanzio

Dal punto di vista morale, negli ultimi anni dell’xi Secolo era stata la fede a creare l’Oriente latino; nel xiii Secolo era la richiesta delle spezie a tenerlo in piedi. Gerusalemme non sarebbe stata piú riconquistata. Il regno sussisteva, ma non la sua ragion d’essere. E si poteva già intravvedere che la sopravvivenza assicurata dalle colonie commerciali, installate nei porti, non era se non finzione: anche senza che i Crociati ne fossero chiaramente coscienti, le loro spedizioni volgevano alla guerra commerciale. La riconqui-sta dei Luoghi Santi lasciava il posto alla lotta generalizzata contro l’Islam e ciò che veniva conteso non erano altro che i mercati.

Una quarta, travagliata crociata fu indetta agli inizi del 1200, e vide protagonisti i Veneziani. Preparare una crociata, allora, significava princi-palmente che in tutti i porti si sarebbe dovuto incominciare a costruire le navi e i buzzes, grossi bastimenti da trasporto capaci di trasportare ottanta cavalli e piú di trecento passeggeri, senza contare i servitori e i marinai; significava che nelle città si sarebbero dovute tessere le vele ed intrecciare le funi; che eserciti di taglialegna avrebbero dovuto abbattere interi boschi per fare gli alberi maestri e le carene mentre, nelle radure accanto, le pic-cole ferriere avrebbero dovuto lavorare senza posa; in ogni foresta dovevano essere forgiati centinaia di migliaia di ferri da cavallo con cui equipaggiare a nuovo decine di migliaia cavalli; per tacere delle armi e delle armature, delle maglie di ferro morbide che richiedevano un lavoro delicato, e degli elmi e degli scudi, martellati a gran colpi sull’incudine, delle frecce sottili

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Dossier Templari Graaldal paese dei Franchi, e non ha mai visto nessuno a pregare fuorché col viso rivolto a oriente”. “Ho pregato abbastanza”, risposi; e uscii, stupefatto per quel demonio, che tanto si era alterato e agitato al veder pregare in direzione della Qibla».

Anche un altro importante personaggio musulmano ottenne il favore di poter entrare a pregare sulla roccia sacra, e non poté fare a meno di scandalizzarsi per la devozione che i Templari avevano nei confronti della Madonna:

«Vidi poi io stesso uno di loro presentarsi all’emiro Mu’ín ad-Dīn — che Dio ne abbia misericordia — mentre si trovava alla Moschea della Roccia, e dirgli: “Vuoi vedere Iddio bambino?”. “Sì”, rispose, e quegli ci precedette fino a mostrarci l’immagine di Maria col Messia piccolo in grembo. “Questo — disse — è Iddio bambino”».

L’episodio viene peraltro commentato da Usāma con una formula cora-nica per evidenziare come quelle parole suonassero blasfeme per un musul-mano: «Ben piú in alto è Iddio altissimo da ciò che gli Infedeli sostengono!». L’Islam infatti, al contrario di quanto avviene nel Cristianesimo, vieta ogni rappresentazione iconografica del divino: teniamo a mente questa fondamen-tale caratteristica musulmana, quando esamineremo la celebre questione del “Bafometto”, presunta “immagine di Maometto” adorata dai Templari...

1244–70: i Mongoli, Mansūra, il riscatto di San LuigiNel frattempo un nuovo, possente nemico si era affacciato sul teatro

mediorientale. Il 16° Maestro, Armand de Périgord, morí nel 1244 a Gaza con 312 Templari combattendo contro i Mongoli: per tentare di fermarne l’invasione si erano riunite sia le forze cristiane — Templari e Ospitalieri — che parte di quelle musulmane — i baroni di Siria —, senza evitare la sconfitta; in precedenza, gli stessi insuccessi avevano registrato sia un esercito tedesco-polacco che i Templari di Riga, Slavonia e Ungheria. I pochi cavalieri sopravvissuti alle disfatte (in tutto, appena 36 Templari e 26 Ospitalieri) si riorganizzarono a fatica nelle tradizionali roccaforti, con pochi altri aiuti dalle province occidentali.

Nello stesso 1244 Luigi ix (1214–1270), piú tardi meglio conosciuto come “san Luigi”, re di Francia, si fece crociato per un voto fatto durante una malattia, e nel 1248 organizzò la spedizione in Outremer.

Dal 1245 i Templari avevano un nuovo Maestro (il 18° secondo alcune cronache, 19° secondo altre) nella persona di Guillaume de Sonnac. Questi intratteneva rapporti segreti con gli emiri musulmani nell’intento di metterli in contatto con il re di Francia per intavolare negoziati di pace, o quanto meno giungere ad un compromessso, o ancora allo scopo di creare una diver-sione in campo musulmano. La mancanza totale di flessibilità di “san” Luigi gli fece rifiutare ogni trattativa: egli biasimò vivamente il Maestro del Tempio

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Declino e arresto

rimasti nella Volta, tutti piú o meno malconci o feriti, serrarono le porte e continuarono a far imbarcare la popolazione, mentre il sultano faceva minare dall’esterno le mura e si preparava all’assalto. I Cavalieri del Tempio allora recisero i garretti ai cavalli affinché il nemico non se ne servisse, quindi scavarono le fondamenta della torre principale e la puntellarono con pali relativamente fragili, calcolando che il peso della marea umana costituita dai mamelucchi accalcatisi nell’invasione dell’edificio l’avrebbe fatta crollare: lo stratagemma funzionò, la costruzione rovinò sugli assalitori, tra i quali si trovavano anche 200 cavalieri turchi, ma rimasero schiacciati sotto le macerie anche i Templari scampati fino a quel momento («muoia Sansone con tutti i Filistei»...). Era il 28 maggio 1291.

Alcuni Cavalieri, con in testa Thibaut Gaudin, Gran Commendatario dell’Ordine, erano riusciti a rifugiarsi a Sidone per attendere rinforzi; altri fratelli tenevano ancora i castelli di Sayette, Beirut e Chastel Pélerin. Non vedendo arrivare nulla e nessuno, Gaudin si ritirò con tutti i fratelli nel castello di Sayette dove la guarnigione si costituí in Capitolo Generale e lo elesse Maestro (il penultimo: sarebbe morto un anno dopo). Egli partí alla volta di Cipro con gli archivi dell’Ordine e i vasi sacri. Accusato di viltà per aver abbandonato la Terrasanta, rimase nell’isola dove il resto dei Cavalieri del Tempio di Sayette e di Chastel Pélerin andò a raggiungerlo.

Il Balivo di Tiro rinunciò a difendere la sua città, che era una delle meglio fortificate della Terrasanta, e con la guarnigione si rifugiò a Cipro. Sidone cadde il 14 luglio. Gli abitanti di Beirut, fidandosi del periodo di tregua di cui avevano goduto con i Mamelucchi, aprirono le porte della città e furono fatti prigionieri, mentre i Templari della commenda vennero impiccati (21 luglio). Tortosa e Chastel Pélerin furono evacuate senza che ci fosse com-battimento, il 3 e il 4 di agosto: i loro occupanti poterono rifugiarsi a Cipro. Negli anni successivi i viaggiatori tramandarono l’eco di Templari divenuti pescatori al servizio del sultano nel Mar Rosso! Le città e i castelli della costa palestinese vennero sistematicamente smantellati per scongiurare l’arroccarsi di un’eventuale nuova spedizione crociata; una porta gotica di Santa Croce di Acri fu trasportata al Cairo per ornare la moschea di Al-Nāsir. Le biblioteche e le opere d’arte scomparvero del tutto.

L’epopea templare d’Outremer e l’intera Terrasanta erano ingloriosa-mente game over.

«Ed ora che facciamo?»Cipro pullulava di fuggitivi, nobili spossessati e borghesi, poveri e ricchi.

Gli Ordini militari vi avevano stabilito il loro quartier generale: quale sarebbe stato il loro futuro, quale la ragion d’essere di tali numerosi disoccupati ?

Per i Teutonici il problema di una nuova mission non si pose: avevano

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Dossier Templari Graal

poteva arguire da tanti segnali — e che peraltro era quasi stato privato del pieno potere dalla “diarchia” che lui stesso aveva favorito.

Progetto di fusione

La drammatica limitatezza e miopia di Jacques de Molay traspare pre-potentemente dalla risposta che egli forní per iscritto al papa sull’ennesima inevitabile— e prevedibile — idea di una fusione degli Ordini.

«Caro Santo Padre, sulla questione che voi mi ponete relativamente all’unione degli Ordini del Tempio e dell’Ospitale, io Maestro del Tempio, rispondo quanto segue:

Francamente mi ricordo che, quando il Papa si trovava al concilio di Lione con san Luigi e molte altre persone, ecclesiastici e laici, vi era anche Guglielmo di Beaujeu, allora Maestro del Tempio, e con lui molti altri fratelli del nostro Ordine, degli anziani; era presente pure fratello Guglielmo di Courcelles, dell’Ordine del-l’Ospitale di San Giovanni, con parecchi altri fratelli e diverse persone di que-st’Ordine. Il Papa e san Luigi vollero avere un parere relativamente alla suddetta unione, ed era loro intenzione di fare un unico Ordine di tutti gli Ordini militari religiosi. Ma fu risposto che i Re di Spagna non avrebbero acconsentito assoluta-mente, a causa dei tre Ordini militari religiosi istituiti da loro. Per questo, si decise che valeva la pena che ciascun Ordine restasse cosí com’era. Inoltre, al tempo di Papa Nicola iv, in seguito alla perdita della Terrasanta che si ebbe allora, poiché i Romani e altri popoli gli rimproveravano con forza di non aver inviato soccorsi suf-ficienti per la difesa della suddetta Terra, il Papa, per scusarsi in qualche modo e per mostrare che voleva porre rimedio alla situazione in Terra Santa, rinnovò o riprese il suddetto progetto d’unione; ma alla fine non se ne fece niente. In seguito, Papa Bonifacio ne parlò a piú riprese; tuttavia, tutto considerato, preferí abbandonare completamente il problema, come voi potete sentire da qualcuno dei cardinali che c’erano in quel periodo. Item, Santo Padre, relativamente all’unione degli Ordini, bisogna considerare i vantaggi e gli svantaggi, l’onore e gli scandali che potrebbero risultarne. Mi sembra, in primo luogo, che non sarebbe conveniente unire ora degli Ordini cosí antichi che, sia in Terra Santa, sia altrove, hanno fatto tanto del bene, perché c’è da temere che non succeda il contrario di quello che essi hanno fatto finora; mai o molto raramente si rinnova senza che ne nascano grandi pericoli. Item, soprattutto, è da temere il pericolo delle anime. E dico questo, perché forzare un uomo, che spontaneamente si è votato all’abito e alla professione di un Ordine, a cambiare la sua vita e le sue abitudini, o a scegliere un altro Ordine se lui non lo vuole, è agire in una maniera molto ostile e molto dura...».

L’estratto rende abbastanza bene l’idea dello spirito limitato di Giacomo di Molay, che è quello di un buon amministratore che difende la sua impresa e il suo personale, ma che sembra inadatto a volare piú alto degli interessi immediati. De Molay continua sottolineando che in caso di una fusione le elemosine dei due Ordini diminuirebbero in modo consistente. Ne approfitta per segnalare che, nonostante la sua vocazione militare, il Tempio «fa grandi elargizioni ai poveri» e specifica quali. Che per forza di cose, nei posti in cui ci siano una commenda ospitaliera ed una templare, una delle due debba

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Declino e arresto

non dire annetterlo. Il piano partito con la denuncia di Esquieu de Floyran procurava al re l’occasione di abbattere subito i Templari: poi sarebbe even-tualmente venuto il turno degli Ospitalieri... Ma forse il progetto era piú ambizioso, e l’intenzione di fondo non era quella di cancellare gli Ordini.

Il piano “neocon” di Lullo per Filippo il Bello

Nell’orizzonte delle sue prospettive, Filippo disponeva anche di una “pezza d’appoggio filosofica” che gli spalancava le porte di una gloria che nessuno nella Storia aveva mai avuto: piú grande dell’Impero di Roma, piú grande dell’Impero di Alessandro Magno. Dal 1292 il poeta ed alchimista catalano Raimondo Lullo, che da molto tempo accarezzava l’utopia di con-vertire l’Islam alla fede cristiana, si era fatto propagatore di un vasto piano di conquista e di evangelizzazione dei Paesi musulmani. Il progetto di Lullo era il seguente: alcuni missionari con una buona conoscenza della lingua araba (lui stesso era un arabista) avrebbero ricevuto l’appoggio di un nuovo esercito di crociati, il cui nucleo sarebbe stato costituito dagli Ordini del-l’Ospedale e del Tempio riuniti in uno solo; il comandante supremo avrebbe avuto il titolo di “bellator rex” e sarebbe diventato re di Gerusalemme (come vedremo a proposito del Graal, le cronache di Nennio dipingono Re Artú con un appellativo simile, il “dux bellorum”: non possiamo sapere se Lullo trasse l’idea dall’Artú di Nennio, ma l’ipotesi è suggestiva). In un primo tempo Lullo sperò di riuscire a convincere il re Giacomo ii d’Aragona ad intraprendere una crociata contro Granada, ancora in mano ai Musulmani, ma ben presto trovò invece ascolto a Parigi, alla corte del re di Francia: Filippo il Bello comprese subito quanto sarebbe stato vantaggioso per lui essere nominato bellator rex. Conosceva il potere degli ordini militari: gli Ospitalieri avevano acquisito il controllo del Mediterraneo, i Templari erano una rete potente e ricca in seno al continente europeo; diventare comandante supremo di entrambi sarebbe stato come comandare il mondo civilizzato. Se poi fosse anche riuscito — e sarebbe stato quasi automatico — a fregiarsi del titolo di re di Gerusalemme, il suo regno avrebbe avuto perfino... il benestare divino.

L’utopico progetto non è cosí inverosimile e gratuito come può a prima vista apparire: Filippo il Bello prese davvero in considerazione una simile prospettiva, poiché esiste un documento frammentario, conservato in un manoscritto aragonese del 1308, nel quale è sommariamente descritto un “programma in 24 punti” per la realizzazione del piano del bellator rex. Filippo progettava di abdicare in favore del figlio primogenito per diventare Gran Maestro del nuovo Ordine, che si sarebbe chiamato “Ordine dei Cava-

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Dossier Templari Graal

cristiani erano comunque colpevoli ed estranei alla comunione dei credenti. La sopravvivenza del Tempio poteva passare unicamente attraverso l’umilia-zione solenne, la richiesta del perdono e l’accettazione della penitenza, e ciò era da identificarsi probabilmente nella fusione con l’Ospitale che Clemente v del resto credeva politicamente e storicamente necessaria.

L’atto originale dell’inchiesta avvenuta a porte chiuse nelle segrete di Chinon, da poco rinvenuto, restituisce l’esito del procedimento, che si con-cluse con l’assoluzione dei capi e il loro pieno reintegro nella comunione cattolica. La pergamena che contiene la deposizione davanti ai teologi della Sorbona di Jacques de Molay porta la data dell’ottobre 1307: esattamente settecento anni dopo (un caso?), il Vaticano ha editato un volume che rac-coglie la copia anastatica di tutti i documenti riguardanti l’antico e molto discusso processo, alcuni dei quali, come la pergamena di Chinon, ritrovati solo di recente (ritrovati non nel senso che fossero andati perduti, bensí catalogati in modo vago nell’Archivio Segreto vaticano, tanto che per secoli sono rimasti separati e in ombra). Pergamena che testimonia senza ombra di dubbio che Clemente v, sia pure “papa avignonese” — e per di piú di famiglia francese —, cercò di contrastare il progetto assai poco cristiano del re di Francia, assolvendo l’Ordine dall’accusa di eresia e reintegrandolo nei sacramenti.

«Absolutionis» si può leggere chiaramente in una delle ultime righe del manoscritto e, subito sotto, «reintegrantes ad Ecclesiam». “Processus contra Templarios” si chiama il grande volume, in veste preziosissima — cuoio, stoffa e pergamena —, curato dagli officiali dell’Archivio e stam-pato in 799 copie (prezzo intorno ai 5 mila euro!), per le quali sono piovute richieste di acquisto da tutto il mondo (biblioteche e istituzioni ma anche collezionisti privati, sceicchi arabi compresi). Per la cronaca, il fantomatico Archivio Segreto vaticano non è altro che 85 chilometri di documenti che ne formano il corpus, conservati in quattro piani del palazzo apostolico, oltre che nel bunker sotterraneo voluto da papa Paolo vi (1963–1978); per avervi accesso, dice la regola vaticana, bisogna «averne titolo scientifico» — ossia dimostrare, laurea in mano, di essere degli “studiosi”.

In quest’atto oggi finalmente disponibile, molti dettagli mostrano che Jacques de Molay era in profondo conflitto con Hugues de Pérraud, che vi furono intense negoziazioni e che alla fine il capo templare si piegò alle proposte del papa. Tuttavia si trattò di un successo effimero, come il papa ebbe presto modo di sperimentare.

L’antico piano regio di processare Bonifacio viii non era caduto nell’oblio nemmeno alla morte dello sfortunato pontefice “schiaffeggiato”, poiché la scomparsa fisica di Benedetto Caetani non poneva nel nulla le sanzioni che

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Eleonora d'Aquitania

zio del quale il “taglio dell’olmo” non sarebbe che una metafora, divorzio scaturito dalla sconfitta in Outremer ad opera del Saladino). Non sappiamo come andarono realmente le cose, perché della curiosa vicenda esistono ben tre versioni inverificabili (esclusa quella del Priorato, che è una bufala): ciò che è certo è che accadde nel 1188 (la data è nello stemma di Gisors), un anno dopo il disastro dei Corni di Hattin in Terrasanta, e che i protagonisti furono i sovrani di Francia e d’Inghilterra.

Prima versione. All’ombra dell’olmo di Gisors, Enrico ii Plantageneto è sul prato, con i comandanti del suo esercito; insieme con lui si trova il nuovo re di Francia, Filippo ii, in seguito chiamato “Augusto”, anche lui con le alte gerarchie militari. L’ospite d’onore è Guglielmo, arcivescovo di Tiro, lo stesso che ci ha lasciato il primo scritto sulla fondazione del Tempio. Guglielmo perora la causa della Terza Crociata e la sua eloquenza è tale da entusiasmare tutti i presenti. I baroni prendono la croce al classico grido di «Dio lo vuole!». A partire da questo momento lo stemma della città di Gisors porterà la croce spinata d’oro su fondo azzurro, sotto una corona che reca la data 1188. Piú tardi, nel 1555, il re di Francia Enrico ii (sì, c’era una grande fantasia per i nomi: che confusione, con tutte queste omonimie!), per ringraziare la città della sua lealtà e della solenne accoglienza che gli sarà riservata, le concederà di aggiungere allo stemma tre gigli d’oro. Nessun albero secolare viene abbattuto.

Seconda versione. Tra Enrico ii Plantageneto ed il re di Francia Luigi vii restano pendenti non poche questioni; tra le altre, quella relativa alla fortezza di Gisors ed al Vexin normanno, che costituiscono la dote di Margherita di Francia. Margherita, figlia di Filippo, nel 1186 è rimasta vedova di Gof-fredo, figlio di Enrico ii ed Eleonora, e ha sposato in seconde nozze il re di Ungheria, Béla: non sussiste piú nulla di una unione su cui, trent’anni prima, Enrico ed Eleonora hanno fondato le speranze di un’unica corona francese-inglese. I ricorsi alle armi si sono moltiplicati, seguìti da colloqui di pace che si svolgono generalmente “sotto l’olmo di Gisors”, un albero plurisecolare dal tronco gigantesco «che nove uomini assieme possono a stento cingere». Un dato giorno del mese di agosto del 1188 Enrico ii Plantageneto e i suoi, arrivati per primi all’appuntamento di pace, si sono messi all’ombra sotto l’olmo; una volta là, essi hanno occupato tutto il posto, in modo scortese, senza curarsi del re Filippo e della sua scorta. I negoziati si protraggono per tutto il giorno; il re d’Inghilterra sta sotto l’ombra dell’olmo, il re di Francia ed il suo seguito stanno invece in mezzo ai campi sotto il cocente sole estivo. Verso sera, dopo tanti andirivieni di messaggeri dall’uno all’altro gruppo, dalle fila dei mercenari gallesi da cui Enrico Plantageneto si è fatto scortare parte una freccia. Su tutte le furie per la violazione di ogni consuetudine, i Francesi, inaspriti anche dalla lunga e poco confortevole attesa, si lanciano