Don Milani Oggi

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Questo testo è una riflessione sul messaggio pedagogico di Don Milani ancora oggi per molti aspetti dirompente.

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DON MILANI OGGI

L’esperienza umana e pedagogica di Don Milani, come d’altra parte qualsiasi esperienza umana, è per lo più unica e irripetibile. Nelle sue parole, però, echeggiano valori, passioni, idee che ancora oggi hanno una forza dirompente. Se dovessi scegliere un aspetto di questa esperienza, che reputo ancor oggi centrale per la riflessione pedagogica e la prassi nella scuola, credo indicherei l’importanza della relazione nei processi di insegnamento-apprendimento. In una relazione profonda, innanzitutto, il rapporto tra insegnamento e apprendimento si muove all’interno di un processo dialettico in cui i poli finiscono per rovesciarsi: “Devo tutto quel che so ai giovani contadini e operai con cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere…”. Così, nel metterci umilmente in relazione con l’altro possiamo scoprire il suo tesoro, la sua ricchezza. Se riusciamo ad andare oltre i ruoli rigidamente predeterminati, possiamo imparare dall’altro. Questo però implica uscire fuori dalla logica didattica della trasmissione unidirezionale delle informazioni, per approdare al senso più profondo di comunicazione, che è fondamentalmente movimento di pensiero e di parole aperto in entrambe le direzioni (sulla comunicazione in ambito educativo bisogna ricordare le pagine memorabili di Danilo Dolci). Nella comunicazione siamo all’interno di una relazione pedagogica animata da reciprocità, dove si va oltre il formare come “agire su qualcuno”, come

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pressione esterna, azione demiurgica che cerca di dare una propria forma a ciò che è oggetto inerte. Andare oltre, quindi, significa riconoscere la soggettività dell’altro, la sua dignità, la dignità dei suoi saperi, porsi in ascolto. Questa prospettiva pedagogica ci introduce in una dimensione del fare scuola dove è centrale il proprio essere e non certo le tecniche didattiche: “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola…Insistono perché io scriva loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola. Questa domanda che pone Don Milani è veramente centrale e forse è ancora più importante oggi, nel tempo in cui crediamo ancora nell’onnipotenza delle tecniche e della scienza e, allo stesso tempo, siamo completamente disorientati su ciò che ha realmente valore e che giustifica le tecniche e le scienze, cioè il valore dell’essere (sulla modalità dell’essere contrapposta a quella dell’avere bisognerebbe ricordare le parole di Fromm). La domanda di Don Milani, dal mio punto di vista, ci riporta alla centralità della relazione nel rapporto educativo-didattico: i contenuti e gli apprendimenti passano all’interno di una relazione calda e significativa dal punto di vista umano. Laddove la trasmissione di contenuti, il nozionismo e l’apprendimento meccanico possono prescindere dalla relazione e muoversi nella distanza dei ruoli rigidamente predeterminati dall’istituzione, gli apprendimenti significativi che promuovono una crescita complessiva dell’umanità delle parti coinvolte nella relazione non possono che alimentarsi di scambi, di interesse reciproco, d’affetto: “Quei due preti mi domandavano se il mio scopo finale nel far scuola fosse di portarli alla Chiesa o no…E io come

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potevo spiegare a loro così pii e così puliti che io i miei figli li amo, che ho perso la testa per loro, che non ho testa se non per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare.” Bella e significativa questa immagine dell’educatore-insegnante giardiniere che si prende cura con amore delle piante, favorendo in tutti i modi la loro crescita. Non è l’insegnante-educatore vasaio che modella materia inerte; l’insegnante-educatore giardiniere ha a che fare con materia viva, con una propria forma e struttura, organismi che possono crescere solo nel rispetto di questa forma e struttura. Muoversi pedagogicamente e umanamente in questa direzione implica certamente un approccio critico rispetto all’istituzione scolastica per come è e per come viene vissuta da troppi insegnanti. Uno degli aspetti più significativi della critica di Don Milani all’istituzione scolastica è la condanna della selezione scolastica, presente in particolare in Lettera ad una professoressa. È una critica che credo abbia ancora ragion d’essere. La scuola cioè con le sue dinamiche interne, in cui il momento della valutazione mantiene un’importanza centrale, rischia di legittimare e consolidare i capitali culturali (per dirla con Bourdieu) preesistenti, senza preoccuparsi più di tanto di accorciare le distanze tra i diversi patrimoni ereditati in famiglia: “Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e che scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio “lalla”. E il babbo serio:”non si dice lalla, si dice aradio”. Ora se è possibile è bene che Gianni impari anche a dire radio: la vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola” Queste parole ci rimandano all’interrogativo fondamentale: qual è la funzione della scuola? È un’opportunità di crescita per tutti o un sistema che ratifica delle differenze preesistenti? Credo che questi

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interrogativi debbano continuare a farci riflettere perché troppo spesso le funzioni esplicite dell’istituzione scolastica (l’istruzione e l’educazione per tutti)sono contraddette dalle pratiche, anche in forma inconsapevole. Spesso infatti basta aderire acriticamente alle routine dell’istituzione. Dal mio punto di vista (vedi anche Benasayag-Schmit L’epoca delle passioni tristi) la scuola rischia troppe volte di mancare completamente il suo scopo: anziché accendere la motivazione intrinseca, il desiderio di conoscenza, assecondando quella che Freud definiva pulsione epistemofilica, si fa prendere da logiche “economico-produttive” dove i risultati del processo sono da certificare con “opportune” valutazioni.