DOMENICO LOSURDO: UN FILOSOFO MARXISTA ESEMPLARE

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Recensioni Comunità e Resistenza 70 Di Costanzo Preve Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005 Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007 D omenico Losurdo è uno studioso esemplare, che unisce la precisione e la documentazione filologica impeccabile dello studioso professio- nale di storia della filosofia con la continua pratica di una dimensione “politica” della scrittura filosofica. Questa dimensione politica non deve assolutamente essere confusa con il fiancheggiamento ideologico di partiti, partitini, gruppi e gruppettini, e neppure con la pratica dell’ideologizzazione strumentale di tutto quanto viene detto, in modo che si “adatti” alle esi- genze di legittimazione di determinate linee politiche. Sebbene abbia dedicato a suo tempo un saggio forte- mente elogiativo del pensiero di Antonio Gramsci (cfr. Antonio Gramsci dal liberalismo al “comunismo criti- co”, Gamberetti editore, 1997), saggio che nonostan- te alcune critiche problematiche e sempre ben docu- mentate non giunge mai ad una “stroncatura” del personaggio (come è invece il caso del libro di Christian Riechers, Gramsci e le ideologie del suo tempo, Graphos, Genova 1993), Losurdo non può essere definito in alcun modo un “intellettuale orga- nico”. Lo sarebbe forse stato se ci fosse oggi un cre- dibile movimento comunista internazionale, ma sic- come non esiste, ed è un fatto acclarato che non esi- ste, Losurdo resta un esempio di studioso indipen- dente di convincimenti marxisti ed anti-imperialisti. Non lo considero invece un “intellettuale”, perché il ceto conformista degli “intellettuali di sinistra”, tanto peggiore di lui, lo considera con sufficienza e disprez- zo un mastodonte di epoche passate. Ed il motivo per cui il circo conformista ad accesso mediatico degli intellettuali politicamente corretti disprezza Losurdo è esattamente il motivo per cui chi scrive lo stima e prova nei suoi confronti sentimenti di rispetto. Losurdo non ha infatti mai avuto paura di affrontare direttamente degli intellettuali generalmente invece rispetta con canina devozione. E non c’è in questo che l’imbarazzo della scelta. Il primo motivo di onore e di coraggio da segnalare nella testimonianza culturale di Domenico Losurdo è il suo rifiuto di accettare il generalizzato ricatto per cui ogni critico radicale del sionismo, ed in generale della politica espansionistica e razzista di Israele verso il popolo palestinese da essa cacciato ed espro- priato, è anche ipso facto un antisemita più o meno mascherato. Non nego che esistano antisemiti ideo- logici che si “mascherano” dietro la critica al sioni- smo, dal momento che dopo il 1945 in Europa il cosiddetto “negazionismo” è addirittura proibito per legge e può comportare il carcere (caso dello storico inglese di “destra” Irving, eccetera). Al di là dei nor- mali e fisiologici dibattiti sul numero esatto delle vit- time ebraiche del nazionalsocialismo e dei suoi allea- ti, e del carattere volontario, pianificato o meno della politica genocida di Hitler, la mia opinione è che uno sterminio razzista degli ebrei è veramente avvenuto, e che pertanto sia legittimo parlare di genocidio, come del resto è possibile parlarne nel caso degli armeni in Turchia nel 1915. Ha avuto dunque torto il pur onesto Roger Garaudy (cfr. I miti fondatori della politica israeliana, Graphos, Genova 1996), che pur avendo correttamente individuato i due miti fondato- ri di legittimazione dell’occupazione coloniale sioni- sta della Palestina (e cioè il mito biblico della terra promessa ed il mito olocaustico di legittimazione diretta dell’espulsione armata dei palestinesi dalla loro terra), utilizza poi in modo poco sorvegliato dati statistici di tipo negazionista (o se vogliamo minimiz- zatore). Ha invece assolutamente ragione il saggista ebreo americano Norman Finkelstein (cfr. L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Rizzoli, Milano 2002) a puntare il dito verso questo vero e proprio scandalo morale e culturale, anche se l’onesto Finkelstein non sembra cogliere appieno l’elemento sistemico e strutturale di questa ideologia, che è la colpevolizzazione infinita dell’Europa, in modo che l’Europa tutta intera, inchiodata per l’eternità alle sue (innegabili) colpe del 1939-45, resti per sempre in uno stato di minorità psicologica e di assenza virtuale di sovranità politica e militare, ed in questo avalli all’infinito le politiche criminali degli USA e di Israele in Medio Oriente (a partire dal crimine massimo e principalissimo, l’inva- sione dell’Irak nel 2003). In Italia questa industria ricattatoria della colpevoliz- zazione funziona a pieno regime, e cito qui soltanto Emanuele Ottolenghi (cfr. Autodafé. L’Europa, gli ebrei e l’antisemitismo, Lindau, Milano 2007), Gadi Luzzatto Voghera (cfr. Antisemitismo di sinistra, Einaudi, Torino 2007), e soprattutto la vedette insu- perabile di questo intossicamento ideologico, la signora fiorentina Fiamma Nirenstein (cfr. Gli antise- miti progressisti. La forma nuova di un odio antico, Rizzoli, Milano 2004). Nel caso della Nirenstein siamo effettivamente di fronte ad un vero e proprio scanda- lo, lo scandalo dell’impunità di una signora invasata, vera e propria sionista estremista, che per anni ha avuto sulla “Stampa” di Torino il monopolio virtuale delle “informazioni” sulla Palestina, e che ha usato lo stesso islamista sionista americano Bernard Lewis come testimonial della sua furia sionista (interviste a Lewis, 21-10-02 e 10-05-06) e soprattutto della sua furia di avallo all’invasione criminale USA dell’Irak. Eppure, proponiamo al lettore un semplice indovinel- lo. Chi ha scritto queste righe: “Il sionismo è morto, ed i suoi aggressori sono seduti al governo di Gerusalemme. La nazione israeliana ormai non è che un ammasso informe di corruzione, oppressione e ingiustizia…la realtà è uno stato che sviluppa delle colonie guidato da una cricca di corrotti incuranti della morale civica e della legge…anche se però gli arabi piegassero la testa e ingoiassero la loro umiliazione, verrà un momento in cui nulla funzionerà più…è impossibile credere che siamo la sola democrazia nel Medio Oriente, perché non lo siamo. Senza l’egua- DOMENICO LOSURDO: UN FILOSOFO MARXISTA ESEMPLARE

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Di Costanzo Preve

Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo,Laterza, Roma-Bari 2005Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’impero. Lessico

dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007

Domenico Losurdo è uno studioso esemplare,che unisce la precisione e la documentazionefilologica impeccabile dello studioso professio-

nale di storia della filosofia con la continua pratica diuna dimensione “politica” della scrittura filosofica.Questa dimensione politica non deve assolutamenteessere confusa con il fiancheggiamento ideologico dipartiti, partitini, gruppi e gruppettini, e neppure conla pratica dell’ideologizzazione strumentale di tuttoquanto viene detto, in modo che si “adatti” alle esi-genze di legittimazione di determinate linee politiche.Sebbene abbia dedicato a suo tempo un saggio forte-mente elogiativo del pensiero di Antonio Gramsci (cfr.Antonio Gramsci dal liberalismo al “comunismo criti-

co”, Gamberetti editore, 1997), saggio che nonostan-te alcune critiche problematiche e sempre ben docu-mentate non giunge mai ad una “stroncatura” delpersonaggio (come è invece il caso del libro diChristian Riechers, Gramsci e le ideologie del suo

tempo, Graphos, Genova 1993), Losurdo non puòessere definito in alcun modo un “intellettuale orga-nico”. Lo sarebbe forse stato se ci fosse oggi un cre-dibile movimento comunista internazionale, ma sic-come non esiste, ed è un fatto acclarato che non esi-ste, Losurdo resta un esempio di studioso indipen-dente di convincimenti marxisti ed anti-imperialisti. Non lo considero invece un “intellettuale”, perché ilceto conformista degli “intellettuali di sinistra”, tantopeggiore di lui, lo considera con sufficienza e disprez-zo un mastodonte di epoche passate. Ed il motivo percui il circo conformista ad accesso mediatico degliintellettuali politicamente corretti disprezza Losurdoè esattamente il motivo per cui chi scrive lo stima eprova nei suoi confronti sentimenti di rispetto.Losurdo non ha infatti mai avuto paura di affrontaredirettamente degli intellettuali generalmente invecerispetta con canina devozione. E non c’è in questoche l’imbarazzo della scelta. Il primo motivo di onore e di coraggio da segnalarenella testimonianza culturale di Domenico Losurdo èil suo rifiuto di accettare il generalizzato ricatto percui ogni critico radicale del sionismo, ed in generaledella politica espansionistica e razzista di Israeleverso il popolo palestinese da essa cacciato ed espro-priato, è anche ipso facto un antisemita più o menomascherato. Non nego che esistano antisemiti ideo-logici che si “mascherano” dietro la critica al sioni-smo, dal momento che dopo il 1945 in Europa ilcosiddetto “negazionismo” è addirittura proibito perlegge e può comportare il carcere (caso dello storicoinglese di “destra” Irving, eccetera). Al di là dei nor-mali e fisiologici dibattiti sul numero esatto delle vit-time ebraiche del nazionalsocialismo e dei suoi allea-ti, e del carattere volontario, pianificato o meno della

politica genocida di Hitler, la mia opinione è che unosterminio razzista degli ebrei è veramente avvenuto,e che pertanto sia legittimo parlare di genocidio,come del resto è possibile parlarne nel caso degliarmeni in Turchia nel 1915. Ha avuto dunque tortoil pur onesto Roger Garaudy (cfr. I miti fondatori della

politica israeliana, Graphos, Genova 1996), che puravendo correttamente individuato i due miti fondato-ri di legittimazione dell’occupazione coloniale sioni-sta della Palestina (e cioè il mito biblico della terrapromessa ed il mito olocaustico di legittimazionediretta dell’espulsione armata dei palestinesi dallaloro terra), utilizza poi in modo poco sorvegliato datistatistici di tipo negazionista (o se vogliamo minimiz-zatore). Ha invece assolutamente ragione il saggistaebreo americano Norman Finkelstein (cfr. L’industria

dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli

ebrei, Rizzoli, Milano 2002) a puntare il dito versoquesto vero e proprio scandalo morale e culturale,anche se l’onesto Finkelstein non sembra cogliereappieno l’elemento sistemico e strutturale di questaideologia, che è la colpevolizzazione infinitadell’Europa, in modo che l’Europa tutta intera,inchiodata per l’eternità alle sue (innegabili) colpe del1939-45, resti per sempre in uno stato di minoritàpsicologica e di assenza virtuale di sovranità politicae militare, ed in questo avalli all’infinito le politichecriminali degli USA e di Israele in Medio Oriente (apartire dal crimine massimo e principalissimo, l’inva-sione dell’Irak nel 2003). In Italia questa industria ricattatoria della colpevoliz-zazione funziona a pieno regime, e cito qui soltantoEmanuele Ottolenghi (cfr. Autodafé. L’Europa, gli

ebrei e l’antisemitismo, Lindau, Milano 2007), GadiLuzzatto Voghera (cfr. Antisemitismo di sinistra,Einaudi, Torino 2007), e soprattutto la vedette insu-perabile di questo intossicamento ideologico, lasignora fiorentina Fiamma Nirenstein (cfr. Gli antise-

miti progressisti. La forma nuova di un odio antico,Rizzoli, Milano 2004). Nel caso della Nirenstein siamoeffettivamente di fronte ad un vero e proprio scanda-lo, lo scandalo dell’impunità di una signora invasata,vera e propria sionista estremista, che per anni haavuto sulla “Stampa” di Torino il monopolio virtualedelle “informazioni” sulla Palestina, e che ha usato lostesso islamista sionista americano Bernard Lewiscome testimonial della sua furia sionista (interviste aLewis, 21-10-02 e 10-05-06) e soprattutto della suafuria di avallo all’invasione criminale USA dell’Irak.Eppure, proponiamo al lettore un semplice indovinel-lo. Chi ha scritto queste righe: “Il sionismo è morto, ed

i suoi aggressori sono seduti al governo di

Gerusalemme. La nazione israeliana ormai non è che

un ammasso informe di corruzione, oppressione e

ingiustizia…la realtà è uno stato che sviluppa delle

colonie guidato da una cricca di corrotti incuranti della

morale civica e della legge…anche se però gli arabi

piegassero la testa e ingoiassero la loro umiliazione,

verrà un momento in cui nulla funzionerà più…è

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glianza completa degli arabi, non c’è democrazia”? Machi sarà questo fanatico antisemita? Risposta: èAvraham Burg, deputato laburista israeliano, ex-pre-sidente della Knesset, ex-presidente dell’AgenziaEbraica (cfr. “Il Manifesto”, 16-09-03). E sono nume-rosi gli ebrei israeliani, da Daniel Amit a IsraelShamir, che scrivono cose anche più dure di Burg.Saranno tutti antisemiti, oppure – come è di modadire oggi – sono tutti “ebrei che odiano se stessi”?Il segreto di tutta questa storia sta in ciò, che ormaiil filosionismo mistico non ha più nulla a che farecon gli ebrei in quanto tali, ma è semplicemente unreparto ideologico d’avanguardia di una formaaggressiva di occidentalismo politico, che non è nep-pure più difeso da ebrei veri e propri, ma da “ebrei ad

honorem” (Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara, AdrianoSofri, eccetera). Costoro utilizzano strumentalmentelo sterminio hitleriano degli ebrei (che – lo ripeto – èveramente avvenuto) per altri scopi. Di fronte a tuttoquesto ci sono solo tre possibilità: iscriversi comevolontario entusiasta in questa nuova armata impe-rialista di contractors ideologici; restarne opportuni-sticamente fuori come un “pesce in barile”, sapendobene che chiunque tocchi questi temi può morire ful-minato dal gossip e dalla diffamazione; oppureopporsi coraggiosamente, e rivendicare il pieno dirit-to ad esprimere la piena solidarietà ai palestinesi e lacritica radicale alla natura colonialista ed imperiali-sta del sionismo e per conseguenza allo statod’Israele in quanto tale. Domenico Losurdo ha fatto coraggiosamente la terzascelta, e l’ha ovviamente pagata con il pettegolezzoinfamante, con il gossip irresponsabile, e con tutte leinterdizioni del caso. Io stesso, all’Unione Culturaledi Torino, ho ascoltato un noto storico e incorreggibi-le cialtrone che ha definito Losurdo un “antisemita”.Ora, Losurdo non solo (ovviamente) non è un antise-mita, ma è un critico documentato del revisionismo edel negazionismo storici (cfr. Il revisionismo storico.

Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 2002). E nonpotrebbe essere diversamente, perché Losurdo è unrazionalista di tipo classico, e ovviamente l’antisemi-tismo non può che essergli radicalmente estraneo(cfr. Il linguaggio pp. 114-186). Non gli si perdona,però, l’aver criticato la lettura della storia delNovecento in termini di “giudeocentrismo”, come seAuschwitz fosse stata l’unica chiave di lettura inter-pretativa del secolo appena trascorso (cfr. “MarxismoOggi”, 3-1995, pp. 61-76). E torna ad onore diLosurdo non essersi limitato a criticare il giudeocen-trismo metafisico di legittimazione (GML), per cui sela chiave del secolo è Auschwitz, e soltantoAuschwitz (e non il 1914, il 1939, il 1917, Dresda,Hiroshima, le guerre coloniali franco-inglesi, le guer-re imperiali americane, la decolonizzazione, eccete-ra), allora tutto deve essere maniacalmente ricondot-to a quest’ultima e solo a quest’ultima, ma di aversaputo andare oltre, cercando di interpretare la cen-tralità della questione dell’imperialismo nelNovecento (cfr. Marx e il bilancio storico del novecen-

to, Biblioteca editrice, Gaeta 1993). Questione del-l’imperialismo sistematicamente “silenziata” daipagliacci che parlano invece del Novecento come sce-

nario di delirio produttivi-stico dell’homo faber, edaltre consimili fregnacce. E questo mi permette dipassare al secondo punto,quello del Losurdo intellet-tuale impegnato control’attuale ideologia crimina-le della esportazione dellademocrazia in nome dellacosiddetta “universalità”dei diritti umani e delmodello occidentalistico dicultura e civiltà. Non è difficile capire che si tratta diuna vergognosa ideologia di legittimazione neocolo-nialista persino per chi proviene da una matricediversa ed anzi opposta a quella di DomenicoLosurdo (cfr. Alain de Benoist, Oltre i diritti dell’uomo.

Per difendere la libertà, Editrice Settimo Sigillo,Roma 2004), e proprio questa convergenza criticanell’opporsi all’ideologia imperiale dell’esportazioneforzata dei “diritti umani” è stato il fattore che ha piùinfluenzato la mia personale visione del mondo (cfr.Il Bombardamento Etico, Editrice CRT, Pistoia 2000).Losurdo non è certo solo a battersi su questa trincea,e ricordo qui soltanto i notissimi saggisti italianiLuciano Canfora (cfr. Esportare la libertà. Il mito che

ha fallito, Mondatori, Milano 2007) e Danilo Zolo (cfr.La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Bagdad,Laterza, Bari-Roma 2006). Eppure, Losurdo hasaputo andare addirittura “oltre” Canfora e Zolo,giungendo fino ad un atto esemplare incredibilmentecoraggioso, l’adesione ad una manifestazione roma-na del dicembre 2003 indetta dal noto CampoAntimperialista in appoggio alla resistenza irachenaarmata contro gli invasori americani ed i loro fantoc-ci europei e locali. Rileggere la canea mediatica diquei giorni, dal “Corriere della Sera” al “Manifesto” a“Liberazione”, canea mediatica rivolta soprattuttocontro chi scrive, battezzato come “nichilista” (sic!), èun esercizio storico indispensabile per ricostruirel’atmosfera spirituale di questo inizio secolo in Italia(e non solo).Vorrei insistere molto su questo punto, perchéLosurdo appartiene alla stessa generazione “sessan-tottina”, oggi tutta oltre i sessant’anni, che ha pro-dotto gli Adriano Sofri in Italia, i Daniel Cohn-Benditin Francia, gli Joshka Fischer in Germania, eccetera,in una parola tutta la miseria politico-mediatica diappoggio all’espansionismo armato USA, all’occupa-zione coloniale sionista, alla subordinazione strategi-ca dell’Europa alla strategia di dominio imperialeatlantico, alla normalizzazione neoliberale del siste-ma politico di tipo bipolare-maggioritario, eccetera. Ilperché il Sessantotto abbia partorito anche e soprat-tutto questa miseria non è oggetto di questa recen-sione. E tuttavia il fatto che alcuni siano sfuggiti aquesta sorta di normalizzazione e di integrazionedeve essere fatto oggetto di studio, e non basta ricor-dare la nota e ricorrente fascinazione degli intellet-tuali verso la guerra (cfr. Angelo D’Orsi, I chierici alla

guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da

Adua a Bagdad, Bollati Boringhieri, Torino 2005).

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C’è evidentemente qualcosa di specifico che deveessere indagato, ed indagandolo possiamo analizzareun aspetto della riflessione di Losurdo particolar-mente degna di attenzione.Credo che il segreto dell’atteggiamento di Losurdo neiconfronti di quanto sta avvenendo nel mondo stia inuna peculiare capacità, che a suo tempo il grandemarxista americano Paul Sweezy ha definito la capa-cità di intendere “il presente come storia”. Intendereil presente come storia, e non solo come contingenzacasuale di avvenimenti cui è soltanto possibile appli-care un metodo di valutazione moralistica, inevitabil-mente soggettivistica e narcisistica, significa inten-dere il presente come anello di congiunzione fra unpassato ed un futuro considerati entrambi in termi-ni di arco storico di eventi dotati di senso. Per chi siispira alla critica marxiana del capitalismo, l’arcostorico fra presente e futuro, in cui è collocato ancheil “presente come storia”, viene considerato global-mente, sulla base del criterio hegeliano della con-traddizione, cui Lenin e Mao hanno poi aggiunto ilcriterio ulteriore della distinzione fra l’aspetto princi-pale della contraddizione ed i suoi aspetti secondari.Losurdo proviene da una esperienza politica nelmovimento marxista-leninista, ed anche se sembrache abbia largamente rimosso e superato questaesperienza, non c’è dubbio che vi abbia imparatoalmeno una cosa, e cioè la padronanza della distin-zione fra l’aspetto principale e gli aspetti secondari diuna specifica contraddizione storica.Se la contraddizione principale del Novecento è vistanel rapporto fra l’imperialismo e la guerra, è chiaroche la figura storica di Lenin giganteggia come quel-la di un grande eroe cosmico-storico. Chi scrive noncondivide la concezione ideologica di filosofia soste-nuta da Lenin (cfr. Storia critica del marxismo, Cittàdel Sole, Napoli 2007, pp. 130-144 e pp. 185-187), econdivide anzi il giudizio negativo dato da AntonPannekoek sulla filosofia di Lenin (cfr. Lenin filosofo,Feltrinelli, Milano 1972). Ma quello delgiudizio sul Lenin filosofo è solol’aspetto secondario della contraddi-zione, laddove l’aspetto principale stasicuramente nel giudizio globale dilegittimità storica della rivoluzionerussa del 1917. Su questo punto ilgiudizio di chi scrive e quello diLosurdo coincidono perfettamente: larivoluzione russa del 1917 fu unagrandissima cosa, pienamente legitti-mata dalla necessaria risposta storicaal massacro imperialista di milioni dipersone, e chi la pose in atto, Lenin inprimo luogo, ha ben meritato dall’inte-ra umanità. Nella mefitica atmosfera di quella cheAlain Badiou chiama la SecondaRestaurazione in cui siamo sciaguratamente immer-si (cfr. Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 39) è dimoda presentare Marx non più come il fondatore teo-rico del gulag sovietico, ma come barbuto e pacificoprofeta dei problemi della globalizzazione, mentreLenin è oggetto invece della esecrazione massima ed

imperdonabile. Ed in effetti il fondatore vero e pro-prio del ciclo storico del comunismo storico realmen-te avvenuto nel Novecento (1917-1991) è stato Lenin,non certo Marx, che morì prima che tutto potesseanche solo vagamente incominciare. Giudicare Leninsignifica allora non limitarsi ad una vaga valutazione“universitaria” del pensiero marxiano (alla Finelli,per intenderci), ma significa “mettere i piedi nel piat-to”, e cioè azzardare una valutazione globale dellaquestione. Per farlo è necessario coraggio morale edanticonformismo esistenziale, e Losurdo ne è indub-biamente fornito (non solo lui, certamente, ma inquesto caso parliamo di lui).Il giudizio storico di Losurdo su Lenin è globalmentepositivo (cfr. AA. VV., Lenin e il novecento, La Cittàdel Sole, Napoli 1997). Lenin è visto come colui che(e non posso che concordare entusiasticamente conquesta impostazione di fondo) ha saputo per la primavolta “mondializzare” veramente il pensiero di Marx,che lo stesso Marx non aveva saputo adeguatamente“mondializzare” per ragioni storiche ottocentesche, eche quasi tutto il marxismo della SecondaInternazionale (1889-1914) aveva confinato in unavisione puramente eurocentrica, e di fatto indiretta-mente (ed in alcuni casi particolarmente osceni,anche direttamente) colonialistica, in nome di unavisione meccanicistico-lineare, ed in realtà ideologi-camente occidentalistica, dell’idea illuministica diprogresso. Se Einstein, pur senza ovviamente “rinne-gare” Newton, fu il rifondatore della fisica newtonia-na, nello stesso modo Lenin, pur senza ovviamente“rinnegare” Marx, fu il rifondatore del materialismostorico, e di conseguenza della filosofia marxistadella storia. Chi oggi pensa di “ritornare” a Marx rin-negando virtuosamente Lenin, visto come simbolodemoniaco del totalitarismo, si interdice la stessacomprensione delle contraddizioni imperialistiche dioggi. Non si tratta allora di “prendere o lasciare” tuttoLenin, per cui o lo si prende tutto o lo si rifiuta tutto.

Questo è il vecchio dilemma stalinia-no del “leninismo” inteso come ideolo-gia di organizzazione del comunismoterzinternazionalista, ma oggi questodilemma è storicamente esaurito, epossiamo allora assumere di frontealla figura di Lenin un atteggiamentopiù razionale. Vi sono infatti cose daaccettare e cose da respingere. Manell’essenziale oggi (2007), Lenin èattuale, almeno come è attuale Marx(e qui ritengo che per Losurdo lo sia inrealtà ancora più di Marx – viva laprovocazione!). È Domenico Losurdo uno “stalinista”?Posta in questo modo (ma il chiac-chiericcio di sinistra, che potremmochiamare heideggerianamente il

Gerede politicamente corretto, la pone sempre inva-riabilmente in questo modo), la domanda ha lo sta-tuto epistemologico della chiacchiera da bar. Il pro-blema non sta infatti nell’esternare quello che ilnostro opinare (meinen) opina su Koba il Terribile,ma nel produrre una valutazione dell’epoca di Stalin

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che non sia puramente moralistica e virtuosamenteindignata, confluendo così nel grande mare (inquina-to) delle geremiadi neoliberali contro il secolomostruoso delle ideologie da sostitui-re con un grande supermercato aprezzi fortemente differenziali. A que-sta valutazione di Stalin io non misono peraltro sottratto (cfr. “Eurasia”,n. 2, 2005, pp. 117-135), ma nellostesso tempo ritengo che ci voglia unvero storico per far luce sulla questio-ne, ed io sono un filosofo digiuno diricerca storica. Per farla corta, credoche le valutazioni storiche globali diStalin di matrice marxista vadano daun estremo di giustificazionismoassoluto, esemplificato nel saggio diLudo Martens (cfr. Stalin. Un altro

punto di vista, Zambon editore,Bologna 2005), al saggio opposto diAldo Natoli (cfr. Sulle origini dello sta-

linismo, Vallecchi, Firenze 1979). Martens parte dalprincipio presupposto per cui Stalin, nel contestostorico determinato in cui si trovò ad agire, difesesempre la linea politica migliore (o meno peggiore), lapiù realistica e concreta, e respinge gli attacchi dimatrice liberale o trotzkista che gli sono stati condot-ti. Natoli, sviluppando una tesi molto simile a quelladel francese Charles Bettelheim, ritiene invece che lasocietà socialista edificata da Stalin sia stata nell’es-senziale una società di classe inedita ma non menointollerabile e feroce, e che questa edificazione nonsia stata iniziata nel 1917, e neppure nel “periodosperimentale” 1917-1929, ma sia stata invece messaa punto attraverso il meccanismo formalmente “neu-trale” del primo piano quinquennale 1929-1933.Come si vede, le opposte valutazioni di Ludo Martense di Aldo Natoli sono assolutamente incompatibili,ma questa radicale incompatibilità non ha una natu-ra “storica”, e non può essere risolta con rimandi avalutazioni storiografiche di tipo specialistico, inquanto si è di fronte a due concezioni incompatibili aproposito della natura di una “società socialista”degna di questo nome. Per finire su questo punto,non mi stancherò mai di consigliare il dibattito fraPaul Sweezy e Charles Bettelheim (cfr. Il Socialismo

Irrealizzato, Editori Riuniti, Roma 1992), inarrivabilemodello di franchezza politica e di profondità teorica,modello estraneo al mondo mefitico dei burocrati“comunisti” dal culo di pietra e dalle masse urlantidei fedeli militanti e militonti, sempre pronte a rin-ghiare contro i dissidenti ed i critici di ogni tipo. Losurdo non può essere assimilato né a Martens néa Natoli, ma è certamente più vicino al primo che alsecondo, il che non fa comunque di lui – vogliamoribadirlo ancora – uno “stalinista”. Egli fa parte piut-tosto di quella corrente largamente informale di stu-diosi italiani che rifiuta in via di principio di aderiread una liquidazione demonizzante dell’intera espe-rienza staliniana, e cerca invece di battere la strada,discutibile ma anche a mio avviso del tutto legittima,della contestualizzazione storica dell’intera esperien-za che va dal 1924 al 1953. Questa corrente ha come

principale rappresentante lo studioso marxistaAndra Catone (cfr. La transizione bloccata,Laboratorio Politico, Napoli 1998), ed ha anche pro-

dotto un notevole saggio collettivo (cfr.AA. VV., Problemi della transizione al

socialismo in URSS, La Città del Sole,Napoli 2004). È ovvio che questi studinon possono avere nessun “accesso”critico-informativo agli organi di stam-pa del Politicamente Corretto diSinistra (PCS), l’unico partito intellet-tuale informalmente riconosciuto dalceto politico di comando insediato alpotere nelle nostre società post-demo-cratiche, ultra-oligarchiche e neo-libe-rali. Ma questo è un argomento che faloro onore. Losurdo finisce peraltro pergiustificare Stalin, ma nello stessotempo lo accusa non certo di eccessivodogmatismo, come fa il concerto con-formistico liberal-trotzkista dell’ultimo

cinquantennio, ma al contrario di “essersi fermato ametà nella sua meritoria lotta contro l’utopia astrat-ta di matrice ortodossa” (cfr. Problemi della transizio-

ne, p. 67). E qui ci sta il Losurdo anti-utopista e cri-tico radicale dell’utopia, il Losurdo hegeliano, ed anziassai più hegeliano che hegelo-marxista. È giuntoinfatti il momento di discutere il Losurdo studioso diHegel, perché nell’interpretazione hegeliana diLosurdo c’è la chiave per intendere anche tutto ilresto che seguirà, dalla controstoria del liberalismoallo smontaggio del lessico messianico del nefastoimpero americano. E tuttavia il “problema Hegel”, che è ad un tempo unproblema filosofico ed un problema storico-politico,va al di là del pur importante contributo di Losurdo.Coglierò allora l’occasione di questa rassegna che gliho dedicato in spirito di stima e di amicizia per allar-gare il discorso su Hegel in generale, attraverso tremomenti successivi. In primo luogo, chiarirò quali sono a mio avviso i dueaspetti della “contraddizione-Hegel”, prima l’aspettoprincipale e poi l’aspetto secondario. In secondo

luogo, dal momento che non posso presupporre nellettore la conoscenza del mio punto di vista su Hegel,lo compendierò in quattro punti principali. In terzo

luogo, infine, passerò al contributo specifico diLosurdo, insistendo soprattutto sul suo concettocentrale, quello di “libertà dei moderni”. Premetto,ovviamente, di essere personalmente un deciso edesplicito sostenitore del “partito hegeliano” in filoso-fia (ma questo si era già certamente capito, almenoda parte del lettore esperto in questioni di critica filo-sofica).L’aspetto principale della contraddizione-Hegel sta inciò, che l’attuale antipatia verso Hegel da parte delpensiero dominante (e di quelle sue appendici secon-darie e poco rilevanti che sono le facoltà di filosofia)è ancora più forte di quella che questo pensieroprova nei confronti di Marx. Marx può essere infattiridotto a barbuto profeta della globalizzazione capita-listica, e la sua utopistica tesi dell’estinzione dellostato (nazionale) può essere riciclata e rifunzionaliz-

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zata all’odierna necessità da parte del capitalismotransnazionale a ridurre praticamente a zero lasovranità della politica, ridotta a governance pura-mente amministrativa. Marx può essere contrappo-sto a Lenin, cui si carica addosso tutta l’esperienzadel comunismo storico novecentesco (1917-1991), ecosì “purificato” e ridotto ad una sorta di “animabella” della critica dello strapotere dell’economia,strapotere che oggi inquieta persino i pensatori piùorganici al capitalismo che esistano (da Soros aStieglitz). Ma Hegel? Hegel è un signore del tutto irre-cuperabile, perché sostiene non solo la sensatezzadella storia intesa come progressivo processo diautoconsapevolezza razionale del genere umano pen-sato idealisticamente come un unico soggetto tra-scendentale riflessivo (tesi che a mio avviso trapassainteramente a Marx – checché ne dicano i marxistianti-hegeliani), ma sostiene anche fortemente lasovranità dello stato politico. È dunque del tutto naturale che, dopo la parentesistorica novecentesca dell’“uso ideologico” di Hegel daparte del fascismo italiano e del comunismo critico-eretico (si notino gli aggettivi qualificativi, che segna-lano al lettore che invece il nazionalsocialismo tede-sco di Hitler ed il marxismo ufficiale dello stato-par-tito di Stalin, Hegel non lo usarono mai!), uso ideolo-gico (che naturalmente ogni persona bennata dovràseparare accuratamente da Hegel in quanto tale), sisia entrati in un’epoca ultraliberale e soprattuttoultraliberista, postborghese e postproletaria, in cui lafilosofia deve essere se possibile “normalizzata” eridotta o a filosofia analitica o a sistemazione delle“etiche regionali”, e allora Hegel diventa il mostromassimo ed intollerabile. È questo, non mi stanche-rò mai di ripeterlo, l’aspetto principale, anzi principa-lissimo, della contraddizione-Hegel. L’aspetto secondario della contraddizione-Hegel,diventato oggi del tutto secondario, ed anzi seconda-rissimo, sta invece in ciò, che una parte consistentedelle scuole di marxismo storico novecentesco hannocreduto opportuno, per avere un “vero Marx” inte-gralmente e completamente “proletario” e rivoluzio-nario, di rompere con Hegel e con la sua tradizione,e di conquistare così un marxismo interamente de-hegelianizzato. Alla base ci stava un equivoco, fonda-

to sulla scorretta equazione fra Borghesia eCapitalismo, dalla quale si deduceva che Hegel,essendo stato indiscutibilmente un pensatore “bor-ghese”, fosse stato ispo facto anche un teorico delcapitalismo e delle sue esigenze ideologiche di inte-grazione. Nulla di più errato. Il capitalismo, che nonè un soggetto antropomorfico e quindi teoreticamen-te antropomorfizzabile (e per capire questo si legganoin contemporanea due opere che mettono in guardiadai processi spontanei di antropomorfizzazione sog-gettivistica del mondo, l’Etica di Spinoza e la Scienza

della Logica di Hegel), non può certo riconoscersinella concezione della libertà dei moderni di Hegel,che implica la necessaria mediazione statuale deiconflitti che la società civile organicamente produce,ma si riconosce invece nella tradizione anglosassonedella teoria della proprietà di Locke e della teoriaanti-giusnaturalistica ed anti-contrattualistica del-l’utilitarismo di Hume, l’unica teoria (non a casoripresa poi nel 1776 da Adam Smith) che possa met-tere il mercato sopra allo stato, appunto perché inquesta teoria il mercato, identificato con le pulsionispontanee della natura umana, nasce prima dellostato e lo può ridurre a “stato minimo”.Tutto questo per quanto concerne l’aspetto politico diHegel. Per quanto riguarda l’aspetto più propriamen-te teoretico, queste scuole hanno insistito su tutti ipunti in cui Hegel potesse essere “staccato” da Marx,a partire dalla cosiddetta “critica delle ipostatizzazio-ni” (scuola italiana di Galvano della Volpe), passandoalla critica del cosiddetto “umanesimo soggettivisti-co” (scuola francese di Louis Althusser), fino alla cri-tica del concetto di scienza in Hegel contrapposta alconcetto di scienza in Marx della scuola spagnola diManuel Sacristán (cfr. Marx, marxismo, filosofia.

Saggi, due volumi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,Roma 1988). Non c’è qui lo spazio per discutere leaporie in cui si sono cacciate queste tre scuole, dalsuicidio collettivo del marxismo alla teoria del cosid-detto materialismo aleatorio dell’ultimo Althusser. Eresta però un punto, e cioè che gli “epuratori” diHegel non hanno potuto raggiungere il loro scopo,per una ragione estremamente semplice, e cioè che lastruttura intima ed interna del modo di ragionare diMarx non appartiene al mondo filosofico di Kant, di

Locke-Hume o diComte-Spencer, ma almondo di Fiche e diHegel. In ogni caso, ilciclo delle tre scuolemarxiste anti-hegelianeeuropee è terminato,con tutto il rispettoovviamente per le tregrandi e rispettabilifigure di Galvano dellaVolpe, di LouisAlthusser e di ManuelSacristán. È chiaro chestiamo entrando in un“ciclo filosofico” com-pletamente nuovo.Posizioni anti-hegeliane

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si ripresenteranno certamente, e sono tuttora robu-stamente presenti (Toni Negri, tanto per non farenomi), ma scommetterei che un vero e proprio “cor-rentone anti-hegeliano” non si ripresenterà più. Infondo, solo lo sciocco insiste nelle automutilazioni. Passerò ora al secondo punto, e cioè alla segnalazio-ne al lettore della mia posizione su Hegel. Ho giàaffermato di far parte del “partito filosofico hegelia-no”, ma questo non significa ancora granché, perchéquesto partito è diviso ulteriormente in “sottopartiti”del tutto disomogenei. Pensiamo soltanto, per fareun esempio storico, alla dialettica negativa diAdorno, alla dialettica ontologico-utopica di Bloch,ed infine alla dialettica ontologico-sociale di Lukács.Si tratta di tre hegeliani, sia pure eterodossi (cuipotrei tranquillamente aggiungerne un quarto, e cioèHerbert Marcuse), eppure propongono vie alternativee del tutto incompatibili. Compendierò allora le mieposizioni in proposito in quattro punti.1) Io sono talmente convinto del legame strettissimoche intercorre fra Hegel e Marx da non rassegnarmineppure a fermarmi a mezza strada ed ad elaborareuna sorta di “teoria di media portata” (middle-range

theory), per cui Marx sarebbe stato un vero materia-lista, sia pure virtuosamente post-umanista e post-feuerbacchiano, che ha però conservato “tracce con-sistenti” del metodo hegeliano (fino a dire con Engelse con il Lenin dei Quaderni Filosofici che Marx eredi-ta il metodo dialettico rivoluzionario di Hegel respin-gendone soltanto il sistema conservatore), ma daosare andare scandalosamente oltre, affermandoinvece la piena appartenenza del pensiero di Marx alcodice filosofico idealista vero e proprio (cfr.Un’approssimazione del pensiero di Karl Marx. Tra

materialismo e idealismo, prefazione di Diego Fusaro,Editrice Il Prato, Padova 2007). È evidente che inquesta sede non posso portarne l’argomentazionesufficiente, e rimando il lettore curioso alla segnala-zione bibliografica precedente.2) Sulla base delle analisi linguistiche e semantichedi Reinhardt Koselleck, è bene ribadire che non esi-ste nessuno “statalismo conservatore” in Hegel (etantomeno statalismo dispotico e tirannico), ma chein Hegel il termine tedesco Staat è invece l’equiva-lente del termine inglese commonwealth e del termi-ne francese république, indicando la realizzazionepacifica di un programma illuministico di supera-mento dei residui feudali della legittimazione delpotere politico (cfr. Costanzo Preve, I Secoli Difficili,Editrice CRT, Pistoia 1999, pp. 41-55).3) Ribadisco che l’unico modo di comprendere la col-locazione storica della elaborazione della filosofiapolitica di Hegel deve essere appunto un modo stori-co determinato, e non certo la “retroazione indebita”di problemi tipicamente novecenteschi (statalismo,fascismo, comunismo, eccetera). Hegel si muove inun triangolo costituito da tre distinti partiti politico-filosofici, il partito di Metternich, il partito della dit-tatura dell’economia politica inglese controllata cheesaltava la civil society capitalistica con lo stato ridot-to a government di quest’ultima, ed infine il partitodella “furia del dileguare” della rivoluzione giacobinaispirata da una lettura direttamente politica di

Rousseau e messa in opera nel triennio 1792-94 daMassimiliano Robespierre, connotato da Hegel comecolui che inevitabilmente fece rovesciare dialettica-mente la “virtù in terrore”. Non c’è qui lo spazio perdiscutere nel merito le critiche di Hegel a queste trecorrenti politico-filosofiche, ma deve essere chiaroche Hegel intendeva criticarne gli elementi unilatera-li (nel suo linguaggio, “astratti”), e questo è il puntoessenziale da cui partire (cfr. Costanzo Preve, Elogio

del Comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, pp.141-154).4) Per concludere, ritengo che gli storici della filoso-fia che hanno scelto il criterio della decisività diHegel per la periodizzazione dell’intera filosofia con-temporanea abbiano ragione nell’essenziale (cfr.Massimo Bontempelli – Fabio Bentivoglio, Il Senso

dell’Essere nelle Culture Occidentali, corso di storia

della filosofia, tre volumi, Trevisini, Milano 1992, pp.141-144). Nello stesso tempo, fermarsi alla constata-zione della decisività di Hegel per la comprensionedell’intero senso della storia della filosofia contempo-ranea non è sufficiente se questo senso non vieneilluminato da un contestuale utilizzo critico e sorve-gliato del metodo marxiano della deduzione socialedelle categorie (e per questo rimando ancora al mioElogio del Comunitarismo, in particolare alle pp. 81-108). E veniamo finalmente al nostro Losurdo. Losurdo hadedicato studi storici esemplari alla storia dell’hege-lismo in Italia (cfr. Dai fratelli Spaventa a Gramsci.

Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in

Italia, La Città del Sole, Napoli 1997) e soprattutto inGermania (cfr. Hegel e la Germania, Guerini eAssociati, Milano 1997). Questo non è un caso, per-ché l’Italia e la Germania sono le due “patrie” cultu-rali e linguistiche di Losurdo, che è stato a suo tempostudente a Tubinga negli anni sessanta. E tuttavia ilLosurdo “filosofo in proprio”, che cioè utilizza Hegelper comunicare la sua propria concezione, deve esse-re cercato a mio avviso in un saggio che ha comeoggetto proprio il tema della libertà (cfr. Hegel e la

libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992). Suquesto tema dovremo dunque soffermarci maggior-mente. C’è oggi un’assordante grancassa neoliberale, ampli-ficata dal circo mediatico e dai paginoni “culturali”dei grandi quotidiani detti d’“opinione” (l’opinionedegli oligarchi e solo di questi, ovviamente), chesostiene che in Marx non c’è e non ci può esserealcun concetto di libertà, e che Marx è il portatore diun programma di uguagliamento livellatore forzatoche nega sia i meriti individuali sia il diritto di prati-care stili di vita differenti. Si confonde così Marx conla Cgil-Scuola italiana degli anni settanta e con lepulsioni di colpa della piccola borghesia sessantotti-na impazzita, in rotta con la “meritocrazia” paterna.Si confonde la teoria dell’individuo libero e responsa-bile di Marx con la sindrome sociologica livellatricedella subcultura contestatrice italiana post-sessan-tottina per cui qualsiasi cosa uno facesse, dallostrozzare la nonna per comprarsi una dose allo scip-pare una vecchietta per pagarsi la discoteca, la“colpa” non era mai dell’“individuo”, ma era sempre

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della cosiddetta “società”. Il fatto che questo pattumeideologico non c’entrasse nulla con Marx non venivaevidentemente in mente a nessuno.In realtà, che questo pattume sociologico-ideologicodella plebe sinistrese italiana degli anni sessantanon c’entrasse niente con Marx era già venuto inmente ad alcuni conoscitori dei testi di Marx. Chiscrive, per esempio, dedicò alla questione della liber-tà in Marx un apposito libro (cfr. L’eguale libertà,Vangelista, Milano 1994). Questo saggio, ispiratonell’essenziale alle tesi di Balibar sulla cosiddetta“egalibertà” (cfr. AA. VV., Egalité/Inegalité,

Quattroventi, Urbino 1990, pp. 23-41, dove sono pre-senti anche saggi di Losurdo e di chi scrive), insiste-va sulla riproposizione di quel vero e proprio paradig-ma sintetico di filosofia della storia indiscutibilmen-te vergato dalla penna di Marx e quindi filologica-mente incontrovertibile (cfr. Lineamenti fondamentali

della critica dell’economia politica, La Nuova Italia,Firenze 1968, pp. 98-99), in cui lo stesso Marx dise-gnava la successione di tre epoche storiche, quelladella dipendenza personale (società precapitalisticheed asiatiche), quella dell’indipendenza personale(società di tipo borghese-capitalistico), ed infine quel-la della libera individualità (e cioè la società comuni-sta così come Marx la concepiva). Dal momento chela filologia non è (ancora) un’opinione, non vi sonodubbi (filologici) sul fatto che Marx, quello veramen-te esistito e non quello inventato da Popper, stabilivaper la futura società comunista due coordinate, quel-la della individualità e quella della libertà. Se alloraMarx è pensatore “comunitario” (forse non “comuni-tarista”, ma “comunitario” certamente sì), lo è soltan-to nella misura in cui questa comunità riesce agarantire sia la coltivazione della propria individuali-tà sia un quadro politico che possa garantire anchela libertà, intesa come ega-libertà, cioè come praticaeguale della libertà da parte di individui concreti, enon solo come formalismo astratto che copre unadisuguaglianza economico-sociale concreta. D’altraparte questo concetto di libertà è talmente importan-te per i marxisti che il grande marxista italianoLudovico Geymonat gli dedicò uno dei suoi ultimiscritti filosofici (cfr. La Libertà, Rusconi, Milano1988).Dove però chi scrive e Losurdo sostanzialmente con-cordano è nel respingere, più o meno cortesemente,l’utopia marxiana dell’estinzione dello stato, per cuila libertà sarebbe stata garantita nella futura societàcomunista senza più la mediazione di forme istituzio-nali che la possano garantire al di là delle decisionicontingenti di maggioranze “consiliari” che praticanola più completa ed integrale autogestione economicaed il più soddisfacente e democratico autogovernopolitico. Marx ha certamente aderito a questo vero eproprio “mito trasparenzialistico”, ma noi non siamocostretti a condividerlo, ed in fatti ci sono stati stu-diosi che lo hanno cortesemente demolito (cfr. DaniloZolo, La teoria comunista dell’estinzione dello stato,De Donato, Bari 1974). Nell’importante opera di Zolo(p. 93) viene anche opportunamente ricordata unatesi di Pierre Naville, per cui Marx avrebbe sviluppa-to la tesi della “superfluità” dello stato direttamente

da Saint-Simon e dai sansimoniani, e su questa basesansimoniana si sarebbe opposto alla filosofia dello“spirito oggettivo” di Hegel. Anche Maximilien Rubel,che pure è sempre cautissimo nell’interpretare lecitazioni marxiane (cfr. Gianfranco Ragona,Maximilien Rubel (1905-1996), Franco Angeli, Milano2003), definisce semplicemente “anarchica” la posi-zione marxiana. La concezione dello stato in Marx,dunque, era di fatto del tutto “anarchica”, il che nonè di per se qualcosa di scandaloso, purché lo si sap-pia, e sapendolo lo si possa accettare e rifiutare. Incompagnia con Losurdo e Zolo chi scrive rifiuta que-sta concezione, ma non se ne scandalizza neppure,perché è evidente che essa ha avuto una matrice sto-rica sansimoniana (cfr. Luca Meldolesi, L’utopia real-

mente esistente. Marx e Saint-Simon, Laterza, Roma-Bari 1982). Se però si riflette sulla matrice produtti-vistico-scientistica dell’utopia sansimoniana dellacosiddetta administration des choses, in cui i rappor-ti sociali sono appunto ridotti a chose, la cosa menodialettica che esiste nell’intera via Lattea, appariràchiara la maggiore lungimiranza di Hegel, che invecesapeva che la “cosa” era contraddittoria, e la suacontraddittorietà non avrebbe mai potuto essere“governata” con la spontaneità dell’immediatezzairriflessa. Come si vede, vi sono ottime ragioni perprendere in considerazione le obiezioni di Losurdoall’utopismo anarchico di Marx. Ma alle spalle ci stasempre Hegel, perché soltanto sulla base della dialet-tica hegeliana è possibile capire che l’immediatezzadella decisione anarchica pura non può che rove-sciarsi nell’autoritarismo dispotico delle maggioranzecontingenti.Losurdo comprende quindi chiaramente che il solomodo di impostare il tema della libertà dei modernisenza oscillare continuamente fra i due poli apparen-temente antitetici ed in realtà in solidarietà antiteti-co-polare (cfr. György Lukács, Ontologia dell’Essere

Sociale, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 85) del mitoautogestionario anarchico integrale in condizione diestinzione (sansimoniana) dello stato, da un lato, edell’arbitrio proprietario assoluto scambiato per veralibertà incondizionata, dall’altro, è una mediazionestatale democratica. Hegel non l’ha certamente pro-dotta, perché non era un pensatore democratico, mala sua teoria politica non è incompatibile con unaeventuale correzione “democratica” posteriore, laddo-ve la teoria di Locke, che per la scuola di NicolaAbbagnano e di Norberto Bobbio resta la sola teoriaveramente liberale doc, non può essere corretta, inquanto ha nel suo DNA teorico di fondazione l’arbi-trio individualistico del proprietario assolutizzato(cfr. Giuliano Gliozzi, Le teorie della proprietà da

Lutero a Babeuf, Loescher, Torino 1978). Questoarbitrio individualistico del proprietario assolutizzatoin Hegel non c’è, ed ecco perché Hegel è oggi tantoodiato, e gli si preferiscono personaggi filosoficamen-te secondari come Karl Popper, Isaiah Berlin eRaymond Aron (cfr. Ralf Dahrendorf, Erasmiani. Gli

intellettuali alla prova del totalitarismo, Laterza,Roma-Bari 2007). Non a caso, Dahrendorf se la pren-de addirittura con Bobbio, che pure non è per nullaun marxista, e lo ha sempre onestamente dichiarato

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(cfr. Né con Marx né contro Marx, Editori Riuniti,Roma 1997), sostenendo che Bobbio sbagliava a rite-nere la libertà e l’eguaglianza conciliabili, e che ilmarxismo è una espressione di una pulsione autori-taria simile a quella del nazionalsocialismo, per cuicon esso non ci può essere nessuna mediazione.Secondo Dahrendorf, infatti, soltanto Popper, Berline Aron si sono realmente mostrati nel novecento“impermeabili” alle tentazioni del totalitarismobifronte nazista-comunista.Se questo è ciò che passa oggi il convento intellettua-le europeo, apparirà ancora più preziosa l’analisi cheLosurdo fa del liberalismo nella sua “controstoria”.Controstoria tanto più necessaria, ed anzi indispen-sabile, quanto più oggi il liberalismo, identificato conil liberismo economico e con la governance politicasistemica dall’alto, ha smesso di presentarsi comeuna delle tante legittime teorie politiche in pluralisti-ca competizione reciproca per autoinvestirsi comenuova religione globalizzata e fondamento del bino-mio che ci sta oggi soffocando, l’unione fra PensieroUnico e Politicamente Corretto. E vediamo allora gliassi portanti della ricostruzione storiografica diLosurdo, senza perderci in pur importanti analisi didettaglio. Losurdo compie un’autolimitazionevolontaria alla propria periodiz-zazione del liberalismo fra idue estremi del 1689 circa(l’anno della

c o s i d d e t t aglorious revolution parlamentare inglese) al 1914,anno dello scoppio della prima guerra mondiale,interpretata correttamente non come un “incidentedi percorso” del liberalismo, ma come la sanzione delsuo fallimento (p. 293). In questo periodo 1689-1914il liberalismo non mente neppure a se stesso (comefa ora, in cui si nasconde dietro l’ideologia democra-tica dell’esportazione armata “benefica” dei dirittiumani), ma rivela chiaramente la propria base“metafisica”, che consiste nella separazione fra due“spazi”, lo Spazio Sacro di chi merita la tutela dellapropria libertà e lo Spazio Profano di chi invece nonla merita (pp. 293-318). Lo Spazio Profano è diviso asua volta fra uno spazio profano interno, quello delleclassi lavoratrici o classi “pericolose”, di cuiBenjamin Constant dice addirittura che vorrebberofar diventare i poveri una “casta privilegiata” mante-nuta dall’eccessiva tassazione dei ricchi (p. 320), ed

uno spazio profano esterno, costituito dai popolicoloniali o potenzialmente colonizzabili cui imporrein primo luogo il passaggio dalla proprietà comunita-ria tribale collettiva (considerata dai liberali come“non proprietà”, e quindi come una sorta di res nul-

lius indegna di tutela giuridica e giudiziaria). Losurdonota acutamente che non siamo qui di fronte ad unapatologia accidentale del liberalismo, ma ad una suadimensione fisiologica permanente, e ce ne dà un’il-lustrazione dettagliatissima. E tuttavia l’arrestarsi al1914 fa sì che manchi proprio ciò che oggi è piùimportante, e cioè l’insieme di mascheramentipostmoderni di questa separazione fra spazio sacro espazio profano, separazione che è più forte che mai,ma che non può più dichiararsi come al tempo diLocke, di Calhoun e di Tocqueville, ma deve camuf-farsi sotto un apparente universalismo democraticoerga omnes. E tuttavia Losurdo ci offre anche la chia-ve teorica di questa commistione fra liberalismo edemocrazia con il concetto di Herrenvolk Democracy,e cioè di democrazia riservata al popolo dei signori.Losurdo non nasconde che la vittoria attuale del libe-ralismo sul comunismo storico novecentesco ponecertamente un problema interpretativo (ad Hegel

almeno lo avrebbe posto), perché se questo èavvenuto bisognerà pur sempre spie-garcelo. Ma Losurdo affronta di sfug-

gita questo problemagrande come una

catena di monta-gne solo all’ulti-

ma pagina (p.339), osser-vando che ill iberalismoha saputomostrars i

“flessibi-le” dif r o n t ealla pale-se “rigidi-

tà” del suorivale, il comunismo storico

novecentesco recentemente defunto (1917-1991). La dicotomia Flessibile (capitalismo) / Rigido(comunismo) non è una cattiva dicotomia, anche per-ché è quasi provocatoriamente evidente, ma se ci sirichiama al materialismo storico di Marx bisognaspiegarla “materialisticamente”, e non accontentarsidi registrarla quasi distrattamente. In ogni caso, lacategoria losurdiana di Herrenvolk Democracy,democrazia riservata al popolo dei signori, è anche lachiave interpretativa per passare al problema del les-sico imperiale di oggi.Chiunque si opponga oggi non agli USA in quantotali, ma alla politica imperiale USA di intervento mili-tare unilaterale nel mondo, mondo che gli USAhanno cosparso di una miriade di basi navali edaeree fornite di armi atomiche, viene immediatamen-te diffamato dal circo mediatico asservito come “anti-americano”. Chi scrive ne sa qualcosa, e dal momen-to che ormai ci si è bagnati, tanto vale entrare diret-

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Di Antonio Savini

Jean-Pierre Chevènement, La Faute de M. Monnet. La

République et l’Europe, Fayard, Paris 2006.

La Faute de M. Monnet. La République et l’Europe (initaliano L’errore di Monet. La République e l’Europa)è uno splendido pamphlet politico degno della miglio-re tradizione francese che, da una brillante analisidell’attuale Comunità Europea, fatta a partire dacategorie teoriche generali, fa discendere una serie diproposte concrete, realistiche ed efficaci. Purtroppo non esiste ancora una sua traduzione ita-liana dell’ultima fatica di Chevènement, ma La Faute

de M. Monnet costituisce la migliore risposta allasfida neoliberista ed euroatlantica della costruzioneeuropea che il nostro continente sia riuscita a pro-durre fino ad oggi e merita di essere discusso conattenzione.Il libro è una serrata critica delle istituzioni europee

di cui si attacca la struttura burocratica ed antide-mocratica pensata da Monnet (capitolo I), il dominiodel capitale finanziario sulla politica (capitolo II) e leideologie di legittimazione pro-europeiste (capitoloIII). Infine, Chevènement ci propone un dettagliatoprogetto di revisione dei trattati europei in sensodemocratico come unica speranza per arrestare ildeclino del nostro continente e sua la subordinazio-ne agli Stati Uniti (capitolo IV).Un programma ben articolato, immediatamente rea-lizzabile, basato su una critica intelligente e assolu-tamente non politicamente corretta. E questo emer-ge fin dall’inizio con la ricostruzione storica dellafigura di Monnet; che viene rappresentato solitamen-te come uno spirito illuminato, che pensò l’unifica-zione del nostro continente come antidoto alle guer-re fratricide tra gli europei e per favorire il benesseree la convivenza tra i popoli. Chevènement distruggequesta “pia icona” e osserva come in realtà Monnetsia stato, in virtù delle sue relazioni, uno degli uomi-ni più potenti del continente europeo. Un personag-

tamente in acqua e nuotare (cfr. Costanzo Preve,L’ideocrazia imperiale americana. Una resistenza pos-

sibile, Editrice Settimo Sigillo, Roma 2004). Losurdoha scritto un importante saggio di analisi del lin-guaggio imperiale, ma è il caso di notare che non c’ènessun bisogno di “smascherare” questo linguaggio,perché esso si presenta come tale in modo sfrontata-mente esplicito (e si veda il documento della National

Security Strategy of the USA presentato da George W.Bush al congresso americano il 17 settembre 2002).L’aspetto più interessante è proprio quello dellanatura esplicita, unilaterale e dichiaratamente reli-gioso-messianica di questa pretesa imperiale, cherende superflua ogni strategia ideologica di “demisti-ficazione” (non a caso un termine ormai obsoleto,laddove questo termine furoreggiava nella mia giovi-nezza negli anni sessanta). L’impero ribattezza auto-ritariamente i termini da usare, insieme con il lorosignificato “autorizzato” (islamismo, fondamentali-smo, terrorismo, eccetera), e di fronte ad un’opera-zione così sfrontata non è più possibile parlare di“inganno” (gli USA infatti non ingannano nessuno, senon coloro che fingono di credere che armi strategi-che poste ai confini fra Polonia e Russia servano perdifendere la Polonia dall’Iran e dalla Corea del Nord),quanto di “servitù volontaria”.Il concetto di “servitù volontaria”, che è oggi il codiceteorico principale per capire la decadenzadell’Europa, non è indagato da Losurdo, perché nonfa parte del lessico “diretto” dell’Impero. Eppure amio avviso sarebbe il più interessante. Non c’è dub-bio che l’Europa abbia cominciato a “suicidarsi” nel1914 (cfr. Mario Silvestri, La decadenza dell’Europa

Occidentale, due volumi, Rizzoli, Milano 2002). Maeffettivamente la servitù volontaria e l’assoggetta-mento canino dell’Europa agli obbiettivi geopoliticistrategici agli Usa resta un enigma. Per quanto miriguarda, ho preso atto da tempo che la geopoliticaesiste, anche se sarebbe bello che non esistesse, e

che non avendo senso rimuovere questa imbarazzan-te ed inquietante esistenza con la fuga in avanti inun (per ora inesistente) mondo pacificato di animebelle dedite all’autogoverno consiliare di piccolecomunità secessioniste liberate in cui pecore e uomi-ni pascolano affratellati recitando mantra bertinot-tiano-buddisti, tanto vale collaborare con la rivista“Eurasia”, alla faccia di chi vive ancora circondato daparanoici tabù dell’impurità. Losurdo ha sempre fatto il suo dovere di storico dellafilosofia. Anche a proposito di Nietzsche (cfr.Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri,Torino 2004), nonostante il gossip diffamatorio deicommentatori politicamente corretti dei paginoni deiquotidiani dell’opinione oligarchica che volevanoinchiodarlo al cliché di ripetitore di Lukács (cfr. La

distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959),Losurdo non si è affatto limitato a riproporre ilmodello del Nietzsche “cantore dell’imperialismo raz-zista della belva bionda”, ma ha al contrario messol’accento sull’ambivalenza strutturale di Nietzsche,un autore che nessuna potrà mai fare proprio edannettersi (uno “scriba del caos”, secondo l’azzecca-ta espressione di Ferruccio Masini), e dunque unautore che non cessa mai in nessun momento diindicare con il suo dito-martello le menzogne con cuii “buonisti” mascherano i loro progetti “cattivisti”.Non esiste infatti cattivista peggiore di un buonistaipocrita e belante. Quello che Losurdo non ha anco-ra scritto (ma lo aspettiamo “al varco”) è invece unesaustivo e sistematico saggio su Marx, o megliosulla sua interpretazione di Marx. Personalmente,ritengo che si tratti di un dovere cui non ci si puòsottrarre. In caso contrario, si potrebbe pensare chementre Kant, Hegel e Nietzsche richiedono interpre-tazioni ed “ermeneutiche” di vario tipo, Marx siainvece, per così dire, “ovvio” e scontato. Non lo è, e suquesto “hic Rhodus, hic salta” aspettiamo il filosofoDomenico Losurdo. V

JEAN MONNET E LA VISIONE DELL’EUROPA