DOMENICA MAGGIO EMANUELA AUDISIO eENRICO SISTI Muro Il...

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DOMENICA 21 MAGGIO 2006 D omenica La di Repubblica cultura I manifesti, tigri di carta del maoismo FEDERICO RAMPINI la lettura Gli amori omosessuali del Novecento DARIA GALATERIA e LAURA LAURENZI spettacoli La seduzione zingara dei nuovi circhi CONCITA DE GREGORIO YUMA I l termometro nel cruscotto scandisce il viaggio verso il confine, come la discesa dentro un vulcano. Parto da Phoenix che segna 32 gradi centigradi. Appena la città si arrende al nulla dell’Arizona, sbriciolandosi in un vuoto che mi accompagnerà per 350 chilometri fino a Yuma e inghiottirebbe mezza pianura Padana senza un rutto, comin- cia a salire. Dopo un’ora è a 35 gradi. Dopo due ore e mezza sfiora i 40 gradi. E quando l’enorme bandiera americana che segna la fine del mio mondo appare oltre la curva di un picco- lo canyon color cioccolato, ecco la frontiera, ecco il vulcano. Quarantasei gradi. In maggio. Welcome to Yuma. Cinquecento arresti al giorno. Gatti grassi contro topi fa- melici. Settantamila all’anno che ce la fanno e settecento che no, che muoiono seccati dal sole come prugne, nella corsa per attraversare il deserto e sfuggire alla “Migra”, soprannome della polizia anti immigrazione. Qui sorgerà il muro america- no, la nuova Berlino pensata non per chiudere dentro, ma per chiudere fuori, nel punto dove il contatto immaginario fra il Nord e il Sud si fa incandescente sotto le suole e nero come l’a- sfalto che sfuma e prende alla gola. Qui si combatte una guer- ra di silenzi, di morti che cadono senza un grido e vengono seppelliti dove cadono, sotto le pietre per proteggerli dagli animali, una battaglia senza esplosioni, sotto un cielo stu- pendamente feroce e infinito. Prigionieri di un paesaggio che Dio aveva creato per le salamandre, non per gli uomini. Yuma, Arizona. L’ultima frontiera, la guerra tra i ricchi del mondo che hanno bisogno dei poveri per restare ricchi, e i poveri che hanno bisogno dei ricchi per sfuggire alla con- danna della nascita. Sì, c’è anche il treno per Yuma, proces- sioni di container trascinati dai muli diesel della Union Pa- cific, lentissimi perché nulla può muoversi in fretta in que- sto forno, neanche un treno. «Mexico: Last Exit Before the Border», mi avverte un cartello sull’autostrada numero 8, ultima uscita prima del confine. Commedia divina alla ro- vescia: lasciate ogni speranza, o voi che uscite, perché per rientrare, se la vostra mamma non ha avuto il buon gusto di partorirvi nel mondo giusto, sarete condannati a vivere af- facciati sull’abisso e a consumare la vita a decidere se but- tarvi giù. In undici milioni, se le cifre sono vere e ne dubito, sono saltati giù e sono sopravvissuti. In cinquecentomila ci provano ogni anno, tenendosi per mano, chiudendo gli oc- chi, portandosi solo quello che hanno sulla schiena, una maglietta sudata, un paio di jeans, prima che costruiscano «the Wall», il muro di seicento chilometri che ora dovrebbe- ro innalzare per sigillare l’Arizona dallo stato di Sonora, il Norte che ammicca nel buio oltre i cespugli e il Sur, l’Ameri- ca che non è America. (segue nelle pagine successive) il fatto Il cuore prussiano sotto Berlino 2006 ANDREA TARQUINI e BERNARDO VALLI la memoria Fosbury, un salto indietro verso il futuro EMANUELA AUDISIO e ENRICO SISTI VITTORIO ZUCCONI l’incontro Brian Eno, architetto della musica GIUSEPPE VIDETTI Muro Americano Il Viaggio al centro del nulla, sul confine Arizona-Messico Quel che basta per scoprire l’inutilità della piccola guerra di Bush contro i clandestini FOTO CHRISTOPHER J. MORRIS/REDUX Repubblica Nazionale 31 21/05/2006

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DOMENICA 21 MAGGIO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

cultura

I manifesti, tigri di carta del maoismoFEDERICO RAMPINI

la lettura

Gli amori omosessuali del NovecentoDARIA GALATERIA e LAURA LAURENZI

spettacoli

La seduzione zingara dei nuovi circhiCONCITA DE GREGORIO

YUMA

I l termometro nel cruscotto scandisce il viaggio verso ilconfine, come la discesa dentro un vulcano. Parto daPhoenix che segna 32 gradi centigradi. Appena la cittàsi arrende al nulla dell’Arizona, sbriciolandosi in un

vuoto che mi accompagnerà per 350 chilometri fino a Yuma einghiottirebbe mezza pianura Padana senza un rutto, comin-cia a salire. Dopo un’ora è a 35 gradi. Dopo due ore e mezzasfiora i 40 gradi. E quando l’enorme bandiera americana chesegna la fine del mio mondo appare oltre la curva di un picco-lo canyon color cioccolato, ecco la frontiera, ecco il vulcano.Quarantasei gradi. In maggio. Welcome to Yuma.

Cinquecento arresti al giorno. Gatti grassi contro topi fa-melici. Settantamila all’anno che ce la fanno e settecento cheno, che muoiono seccati dal sole come prugne, nella corsa perattraversare il deserto e sfuggire alla “Migra”, soprannomedella polizia anti immigrazione. Qui sorgerà il muro america-no, la nuova Berlino pensata non per chiudere dentro, ma perchiudere fuori, nel punto dove il contatto immaginario fra ilNord e il Sud si fa incandescente sotto le suole e nero come l’a-sfalto che sfuma e prende alla gola. Qui si combatte una guer-ra di silenzi, di morti che cadono senza un grido e vengonoseppelliti dove cadono, sotto le pietre per proteggerli dagli

animali, una battaglia senza esplosioni, sotto un cielo stu-pendamente feroce e infinito. Prigionieri di un paesaggio cheDio aveva creato per le salamandre, non per gli uomini.

Yuma, Arizona. L’ultima frontiera, la guerra tra i ricchi delmondo che hanno bisogno dei poveri per restare ricchi, e ipoveri che hanno bisogno dei ricchi per sfuggire alla con-danna della nascita. Sì, c’è anche il treno per Yuma, proces-sioni di container trascinati dai muli diesel della Union Pa-cific, lentissimi perché nulla può muoversi in fretta in que-sto forno, neanche un treno. «Mexico: Last Exit Before theBorder», mi avverte un cartello sull’autostrada numero 8,ultima uscita prima del confine. Commedia divina alla ro-vescia: lasciate ogni speranza, o voi che uscite, perché perrientrare, se la vostra mamma non ha avuto il buon gusto dipartorirvi nel mondo giusto, sarete condannati a vivere af-facciati sull’abisso e a consumare la vita a decidere se but-tarvi giù. In undici milioni, se le cifre sono vere e ne dubito,sono saltati giù e sono sopravvissuti. In cinquecentomila ciprovano ogni anno, tenendosi per mano, chiudendo gli oc-chi, portandosi solo quello che hanno sulla schiena, unamaglietta sudata, un paio di jeans, prima che costruiscano«the Wall», il muro di seicento chilometri che ora dovrebbe-ro innalzare per sigillare l’Arizona dallo stato di Sonora, ilNorte che ammicca nel buio oltre i cespugli e il Sur, l’Ameri-ca che non è America.

(segue nelle pagine successive)

Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, uscivaun nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo

il fatto

Il cuore prussiano sotto Berlino 2006ANDREA TARQUINI e BERNARDO VALLI

la memoria

Fosbury, un salto indietro verso il futuroEMANUELA AUDISIO e ENRICO SISTI

VITTORIO ZUCCONI

l’incontro

Brian Eno, architetto della musicaGIUSEPPE VIDETTI

Lettere d’amore

MuroAmericano

Il

Viaggio al centro del nulla,sul confine Arizona-MessicoQuel che basta per scoprirel’inutilità della piccola guerradi Bush contro i clandestini

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la copertinaMuro Americano

(segue dalla copertina)

Quando Bush è stato qui, giovedì scorso, glisceneggiatori della Casa Bianca, che hannoriscoperto la guerra nel deserto di casa lorodopo il disastro della guerra nel deserto deglialtri, lo hanno inquadrato dietro l’unico pez-zo di frontiera fortificata ma, come tutte le

scenografie della falsa informazione, anche questo sket-ch era un inganno, un set. La frontiera fra gli Usa e il Mes-sico non esiste. Basta uscire dalla città di Yuma che si fi-nisce a sbattere contro il posto di controllo di San Luis,seguire le strade di campagna dall’altra parte o da questaper vedere che la sola barriera sono il caldo, la notte, il di-sorientamento, lo spazio, i serpenti a sonagli. E al muronessuno crede davvero, neppure quelli che lo invocanoper far scena con gli elettori e per distrarli dalle guerrelontane. Non lo vuole neppure Bush, che parla di «fron-tiere sicure» e di «permessi di lavoro temporanei» condocumenti per gli immigrati clandestini, che è l’equiva-lente politico del “sale sulla coda”.

Documenti, dice? Torniamo a Yuma. La chica, la ra-gazza messicana che mi porta i tacos al tavolo, ha occhibelli e svegli sotto le ciglia finte e il rimmel, sia mai dettoche una messicana si fa trovare struccata fuori casa. «De-sculpe, me necessitan papeles…», azzardo nel mio im-probabile spagnolo. «Parlo inglese», mi fulmina con unlampo di mascara «sono nata qui a Yuma, I am an Ameri-can». Ok. Sorry. Mi servono documenti per un’amica checerca lavoro... insomma… capisce, e stiro venti dollarisul vassoio di plastica. Capisce. La ragazza, rassicuratadal mio accento straniero, mi sussurra in fretta un nome,«Pollo a la Brasa», e un indirizzo, «Colorado Avenue e15esima. Ernesto», e se ne va coi miei venti dollari e le sueciglia finte.

Documenti, mister President? Nella rosticceria delpollo alla brace l’Ernesto rosola galline e frigge docu-

menti falsi. Il menu è semplice: un pollo intero quindicidollari con papas fritas. Permesso di soggiorno falso cin-quecento dollari, e senza patate fritte. Se lo voglio buo-no, con identità vera rubata a qualche ignaro cittadino,ci vogliono tre mesi e cinquemila dollari. La roba buonacosta sempre cara. Però poi neppure la “Migra”, riescepiù a pizzicarti. Torno domani coi soldi, lo saluto. E il pol-lo non lo vuoi? No, niente pollo. I polli sono quelli che siagitano credendo che si possa spegnere il vulcano del-l’immigrazione dal Sud con un secchio d’acqua.

Yuma, Arizona. El Norte, la calamita, e il Sur, il Sud, pol-vere di ferro, limatura di umanità che vola e si incolla persempre. Un popolare demagogo di origine italiana, taleTom Tancredo, sta in tv a ogni ora e in ogni canale perpredicare che i clandestini andrebbero arrestati tutti edeportati nei paesi di origine, Messico, Honduras, Gua-temala, Salvador, tutto il centro America. Il classico cre-tino di successo da talk show, come ne conosciamo be-ne, basti pensare a quanti Jumbo Jet 747 servirebbero perportare via almeno undici milioni di persone, circa tren-tunomila aerei, più dell’intera flotta civile e militare delmondo. Per adesso, sotto la notte senza fine della Fron-tera, anziché deportarli, se non ce la fanno li seppelli-scono sotto una pietra anonima con una scritta graffia-ta: No Olvidado, non dimenticato. La sera prima che ar-rivasse Bush, sono morte una donna incinta e il figlio didue anni. Al presidente non lo hanno detto, per non tur-bare lo spot.

Attraverso e riattraverso la Frontera, per gusto sadico,per impudenza, come i ricchi che nelle vignette si accen-dono i sigari con le banconote. Perché io posso e loro no,loro sono nati nel posto sbagliato e muoiono nel postosbagliato. Tutti gli uomini sono stati creati con gli stessi di-ritti inalienabili, proclama la Costituzione americana. Di-pende da dove nascono, si sono dimenticati di aggiunge-re. Questa volta vado a piedi, ad Algodones, insieme confrotte di vecchi americani che vanno in Messico a compe-rare farmaci che costano un terzo rispetto agli Stati Unitie sono altrettanto inefficaci. Riprovo la stessa sensazionedi vertigine che avvertivo quando attraversavo, tre decadior sono, la frontiera sovietica. Di qua o di là, carcerati percaso. Rifaccio la parte dell’aspirante clandestino.

Le ottanta farmacie che conto nella strada principale diAlgodones sono la pista di lancio della polvere verso il Nord.Nella farmacia Maria Virgen, un po’ di devozione aiuta lafarmacologia, sotto un bar dove coppie di americani d’an-tiquariato succhiano margaritas e daiquires da cannucci-ne strettissime per farli durare di più, chiedo e ottengo ri-sposta. Il “farmacista”, che di giorno vende pillole e di not-te fa il “coyote”, il traghettatore di anime oltre la Frontera,conosce le leggi del mercato. «Ora è tutto più difficile, piùpeligroso, da quando Buuush — lo pronunciano così, stra-scicando la “u” — ha chiuso la Frontera», mi spiega. Due-mila dollari a persona, con recapito in una casa sicura a Yu-ma. Duemila? I miei amici avevano detto mille e cinque. No,Mister (Señor lo dice soltanto Speedy Gonzales), oggi c’è

VITTORIO ZUCCONI

Il progetto di un imbarazzante “Berlin Wall”, le truppe, la visitadi Bush per rendere spettacolare l’avvio di una nuova “guerra”,questa volta nel deserto di casa propria. Siamo andati a Yuma,sul confine bollente tra Arizona e Messico, per vedere che succedee per capire quanto sia vana la politica della Casa Bianca

Qui si combatte una battagliafatta di silenzi, di morti

che cadono senza un gridoe vengono seppelliti dove cadono,

sotto una pietra anonimagraffiata con le parole

“no olvidado”, non dimenticato

I CONTROLLINella foto sopra, i poliziotti di frontiera americani perquisiscono

gli immigrati senza documenti fermati al confine tra Messico

e Arizona. Sotto, la “Playa de Tijuana” in Baja California

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

LE BARRIERE

CEUTA E MELILLA

Enclave spagnole

in territorio marocchino,

sono protette

da una rete metallica

anti-immigrazione

BERLINO

Il muro che negli anni

della Guerra fredda

divise in due la città

fu eretto nel 1961

e abbattuto nel 1989

CIPRO

Turchi e greci dal ’74

(anno dell’invasione

delle truppe turche)

sono separati da 180

chilometri di cemento

BELFAST

Negli anni ’70 fu eretto

un muro di mattoni e filo

spinato per ridurre

le violenze tra quartieri

cattolici e protestanti

COREA

La Corea del Sud

ha costruito nel ’77

una muraglia

che divide il paese

lungo il 38° parallelo

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Buuuuush, muy duro, muy duro. Ci sono garanzie? Ride.«Suerte, mister». Questione di culo.

Nella notte infinita, io, figlio del passaporto giusto,guardo dal basso della valle, dove il Colorado alle sue ulti-me anse, ormai stanco dopo aver scavato il Grand Canyon,bagna di verde le sponde del deserto, come il Nilo in Egit-to; guardo i lampi delle fotoelettriche della “Migra”, mon-tate sui furgoncini bianchi, tagliare la notte e sembrano iriflettori delle contraeree, contro il cielo stupendo. L’a-gente Tom Clayburn, che mi scorta, ascolta nel walkietalkie il bollettino: 250 presi e ributtati oltre, «catch and re-lease» si chiama, acchiappa e rilascia, come i pesci pesca-ti dai pescatori buoni. Lo scorso anno ne avevano presi75mila, in questo tratto: «E dove le abbiamo 75mila cel-le?», ride amaro. I politicanti sognano tendopoli apposite,erette nel deserto, per detenere i clandestini. «Se l’imma-gina l’incubo di dar da mangiare e da bere a duecentomi-la accampati nel deserto, vecchi, neonati, malati?». Mel’immagino, ma la politica deve fingere di avere soluzioni,anche quando soluzioni non ci sono.

Se acciuffano i “coyotes”, i contrabbandieri di animeche arrotondano con l’ecstasy, le anfetamine prodotte inMessico e divorate negli Stati Uniti, quelli sì li mettono ingalera, ma i “coyotes” sono bestie accorte. Fiutano l’o-dore della “Migra” da lontano, lasciano al loro destino ipoveracci che hanno spolpato e corrono dall’altra parteridendo: «Ci rivediamo domani sera, maricones gringos»,americani froci. «Fermare l’immigrazione clandestinacon pezzi di muro — dice Alejando Ruiz Costa, della Ari-zona University — è come stringere un palloncino pienod’aria. Si gonfia da un’altra parte». Chiudi la California,passano per l’Arizona. Sigilli l’Arizona, passano per ilNew Mexico, poi il Texas. E se accetti l’ignominia di un“Berlin Wall”, arriveranno dal Canada, passando dal for-no al frigorifero, o per nave, come i container che oggisbarcano a Seattle carichi di cinesi, a volte vivi, a volte no.

«Vada all’ospedale di Yuma», mi aveva suggerito ilprofessore della Arizona State University. Yuma oggi ha200mila abitanti, scoppia di soldi, è una “boom town”,ha appena costruito uno shopping mall scicchissimo,con tutto il ciarpame del consumo di lusso. Ha portici difinto stucco coloniale irrorati da una nebbiolina di ac-qua gelida che scende a velo dal soffitto sui consumato-ri per tenerli freschi e vogliosi di spendere. Il 95 per cen-to della manodopera che l’ha costruito era di clandesti-ni, scrive il Comune di Yuma, l’altro 5 per cento erano“regolari”, probabilmente con i “papeles” cucinati daErnesto. Sono gli stessi manovali, muratori, carpentieriche hanno costruito l’ospedale, lo “Yuma Regional Ho-spital”, nuovissimo.

Gli ospedali, come gli obitori nelle zone di guerra, nonmentono mai, sono i tristi amici del cronista. Entro nelreparto “Maternità e Infanzia”, un’ala a parte. Sembra lahall di un albergo a cinque stelle. Vetrate isolanti, clima-tizzazione perfetta, gli “illegali” hanno lavorato bene.Colori rassicuranti, pastelli azzurri e rossi, ovviamente.

Pelouche giganti, qualche citazione western, “decò” digusto Apache, ma sobrio e poi qui gli Apache c’eranodavvero, anche se oggi i loro discendenti gestiscono iparcheggi e il solito casinò. Nella sala d’attesa con pol-trone comode ma non soffici, studiate per donne col maldi schiena da gravidanza, ne conto dieci vistosamenteincinte, otto con neonati o bambini piccoli a rimorchio.Nessuno piange, nessuno protesta. Sono tutti latinosmeno una, la receptionist che mi guarda un po’ strano.Posso aiutarla? No, grazie, mia figlia verrà, volevo vede-re. Ho visto. Come avevo visto, qualche ora prima, la “Cli-nica” di Algodones, la sola del paese.

Un’ora di macchina, una corsa nella notte tra i cespuglicon il cuore in gola, un documento falso, e una donna por-ta il bambino che ha in pancia da un bordello sucio, sporco,urlante, sgomitante a questo reparto di maternità dove an-che a un maschio viene voglia di partorire. E quella che riu-scirà a farcela, a vendere tutto quello che possiede, se stes-sa compresa, la donna che sopravviverà alla traversata deldeserto, a ore nel cassone sigillato di un camion sotto il so-le di Sonora, ai coyotes, ai serpenti e agli uomini velenosiper sbarcare allo “Yuma Regional Hospital” metterà almondo un americanino vero, uno del Norte. Uno con il suopassaportino giusto e tutte le cartine a posto. Uno con unfuturo attraverso tutte le Fronteras.

Non l’hanno ancora inventato un muro che possa fer-mare una donna incinta che vuol dare un futuro al pro-prio figlio. Ma ci costano venti miliardi di dollari all’an-no, strepitano i neo-fasc che sognano la grande muraglianel deserto contro i messicani che vorrebbero tornare inquelle terre che ieri gli appartenevano. È vero, le donneche ce la fanno, quei bambini che verranno al mondo cit-tadini del grande Nord e andranno a scuola e si farannocurare nei pronto soccorso costano e parlano spagnolo.Fuori tutti, gridano. Via, via, chiudete la porta e buttatela chiave. E poi gli shopping center con la pioggerellinafinta chi glieli costruisce? L’Ernesto? Chi gli comperatonnellate di rimmel e mascara? Le donne sotto le pietrenon si truccano.

Al centro del nullasulla frontieraricchezza-povertà

Se non siete nati dalla partegiusta del confine, sietecondannati a vivere affacciatisull’abisso e a consumare la vitaa decidere se buttarvi giù:undici milioni lo hanno già fattoe sono sopravvissuti

LE RECINZIONINella foto sopra, una bimba messicana saluta la cugina

che si trova in territorio americano: sono moltissime le famiglie separate

dalla barriera. Sotto, un volontario dell’Arizona presidia il confine

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 21 MAGGIO 2006

MAROCCO

Negli anni ’80,

per fermare i guerriglieri

saharawi fu costruita

una barriera

di 2.400 chilometri

INDIA

Ha due muri: uno eretto

nel 1986 verso il

Bangladesh e l’altro

costruito nel 1989 verso

il Pakistan

BOTSWANA

Nel 2003 il governo

ha fatto costruire

un muro lungo i 550

chilometri del confine

con lo Zimbabwe

ARABIA SAUDITA

Nel 2003 è iniziata

la costruzione di una

barriera di protezione

verso lo Yemen: ora

i lavori sono sospesi

ISRAELE

Ha fatto discutere

la decisione di costruire,

a partire dal 2003,

un muro di sicurezza

in Cisgiordania

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il fattoForme del vivere

Neanche vent’anni fa qui passava il confine militare tra duemondi opposti. Ora che l’ampliamento a est fa della capitaletedesca la capitale Ue, gli architetti si sono improvvisatistorici, chirurghi, psicologi. E avendo il rischioso compitodi disegnare il futuro, spesso si sono arroccati nel passatoTra le eccezioni, la Stazione centrale che sta per debuttare

Chi guarda la Portadi Brandeburgodalla terrazzadell’hotel Adlonha un frammentodi panoramaimmutato dall’800

tedesca, destinata a diventare, nel no-stro secolo, il centro dell’Unione Euro-pea, allargata ai Paesi orientali. NelContinente diviso, Parigi era l’epicen-tro della parte occidentale; nel Conti-nente senza più lo steccato ideologico,economico e militare tra capitalismo ecomunismo, Berlino è il nuovo epicen-tro. È uno spostamento geopolitico chesegna il XXI secolo europeo.

Il ritorno del Parlamento e dellaCancelleria a Berlino, nella vecchiacapitale del Reich, situata a Est, sullaSprea, più vicina all’Elba e molto lon-tana dal corso del Reno, è stato un mo-mento storico non soltanto per la Ger-mania. Il Reno era stato per mezzo se-colo un ancoraggio all’Occidente af-facciato sull’altra sponda. Una vici-nanza rassicurante che aveva profusoquiete e saggezza a tutta l’Europa, at-traverso la pastorale Repubblica diBonn, considerata un provvisorio«esilio interno», ma nella realtà indi-spensabile asse portante della stabi-lità non solo continentale.

Una Germania «svizzera» andava agenio a molti. Il trasloco ha segnato larinascita della Repubblica di Berlino.Vale a dire il ritorno del potere in Prus-sia, con gli inevitabili, atavici interroga-tivi sui tedeschi. Interrogativi, sospetti,ancora più forti se la capitale ritrovataavesse assunto un aspetto imperiale.Gli urbanisti ne hanno tenuto conto.Hanno tenuto un profilo basso.

Perché, si sono chiesti, non adottarelo stile prussiano, spurgato dal militari-smo, ed enfatizzato nella sua modestia,

che teneva conto di una terra allorapiuttosto povera, e che era dotato diuna solida, non arcigna, austerità? Si èvoluto al tempo stesso evitare che lacittà diventasse una «gigantesca vetri-na», con un aspetto fatiscente, un gro-viglio di metalli, di vetri e di luce, cometutte le metropoli nuove o rifatte, di-sperse nei vari continenti. L’architettu-ra nazista aveva corrotto il classicismo.L’architettura democratica lo rinsavi-sce, almeno nel cuore di Berlino. Alcu-ni hanno denunciato l’eccessiva so-brietà e la mancanza di immaginazio-ne. L’architetto Philip Johnson volevacreare sulla Friedrichstrasse qualcosadi «fantasioso», ma ha dovuto ripiegaresugli enormi blocchi di edifici allineatiche egli stesso ha poi bistrattato.

Gli autori del piano hanno anzituttoevitato che gli architetti si sbizzarris-sero, come era accaduto in molti an-

goli della metropoli occidentale, neglianni successivi al nazismo, quandoprevaleva l’ansia di cancellare il pas-sato. Quel che allora era comprensibi-le, cinquant’anni dopo non lo era più,sostenne Hans Kollhoff, uno dei prin-cipali architetti della nuova Berlino.Non era più in gioco un quartiere peri-ferico, un edificio isolato, una biblio-teca o un auditorium. Si trattava dicreare il centro della capitale, non uncentro sperimentale d’architettura. Ilgrande Norman Foster è stato richia-mato più volte all’ordine: e il vistosobaldacchino che voleva sospenderesul Reichstag si è saggiamente trasfor-mato in una tradizionale cupola simi-le a quella di fine Ottocento. I principiche hanno disciplinato i grandi lavoriberlinesi erano assai semplici: anda-vano dal rispetto delle strade e dellepiazze, dei vecchi tracciati in genera-le, alla raccolta degli edifici in grossiblocchi, ciascuno destinato a riempi-re lo spazio tra quattro strade; dallaproibizione di superare, in altezza, iventidue metri, alla composizione difacciate possibilmente in pietra.

Qualche strappo è stato consentito.Di grattacieli ne spuntano almeno unadecina, ma non sono grappoli di fun-ghi giganti sparsi nel panorama urba-no. Ce ne sono sulla Potsdamerplatz esulla Alexanderplatz. Lo spazio dell’A-lexanderplatz è stato rispettato persalvaguardarne il carattere popolare.Quasi una reliquia dopo il romanzo diDoeblin. Un felice sgarro al regola-mento mi sembra la torre di ottanta e

più metri, rigata da strisce in terracot-ta, di Renzo Piano. Essa sorge sullaPotsdamer, dove vado puntualmentead alloggiare in un albergo di un lussofrancescano (non è una contraddizio-ne, è possibile), cioè dove tutto è es-senziale, nulla superfluo.

Mi sembra un po’ lo stile della nuo-va Berlino, quella esentata in parte dalrigore urbanistico e che si inquadrabene nel Duemila. Essa trionfa sullaPotsdamerplatz dove le bombe,creando un vuoto spazioso, hannoconcesso mezzo secolo dopo una cer-ta libertà agli architetti. Nell’attesache gli anni diano a quell’area centra-le della metropoli la patina che le man-ca (anche un quartiere troppo nuovo,come un abito o un paio di scarpe, habisogno di essere usato), mi astengodall’esprimere un parere. Il temposarà un ottimo giudice. Ma già il fattodi affidarsi alla sua sentenza significache nulla è compromesso. Insommal’incerto pregiudizio è favorevole.

I berlinesi dell’Est postcomunista sisono sentiti disprezzati anche urbani-sticamente: gli edifici del comunismoprussiano sono stati quasi tutti demoli-ti uno dopo l’altro. A Hans Kollhoff è sta-to rimproverato di avere distrutto l’inte-ro quartiere di Mitte, dove gli architettidi Ulbricht e di Honecker, i leader dellaRepubblica democratica tedesca, ave-vano costruito i loro edifici più ambizio-si, affiancandoli a quelli dell’epoca diHitler. Kollhoff ha respinto l’accusa, maha aggiunto che i bulldozer non eranostati abbastanza spietati.

Berlino, quel cuore prussianosotto la pelle della nuova città

BERNARDO VALLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

Dalla terrazza dell’Adlon,in una giornata pallida, lapietra chiara della Portadi Brandeburgo, e la sa-goma scura della quadri-ga che la sormonta come

uno sparviero, mi appaiono in tutto illoro trionfalismo. Al quale la memoriastorica aggiunge un inevitabile tragicotocco. Oggi il bunker di Hitler, a pochimetri da qui, è la tomba di vecchi de-moni nascosta sotto la città risorta. Michiedo quali idee ispirasse questo an-golo monumentale di Berlino, ai clien-ti succedutisi all’Hotel Adlon nel primoNovecento, quando la Seconda guerramondiale non aveva ancora arato laGermania e la sua capitale e i delitti delTerzo Reich non erano ancora statiscritti nella Storia: mi interrogo sulleemozioni che questa solenne parte del-l’Unter den Linden poteva suscitare inpersonaggi celebri come Guglielmo II(il Kaiser spesso soggiornava nell’al-bergo), Marlene Dietrich, Charles Cha-plin, Albert Einstein, Enrico Caruso,Lawrence d’Arabia, Erich vonStroheim... Tutti testimoni oculari del-l’era precedente all’Apocalisse, comenoi siamo testimoni del nuovo secolo,ormai lontano dall’epoca dannata.

La Berlino che ho sotto gli occhi è l’e-spressione di un presente tedesco civi-le, affascinante, direi per tanti aspettiideale, se l’aggettivo non rischiasse diesaltare una perfezione che è ben lon-tano dall’esistere, a Berlino o altrove. Inquesta stessa Berlino si legge, si intra-vede il passato che la memoria storicaimpedisce di cancellare, nonostante lozelo riparatore di architetti e urbanisti.C’è insomma uno sfondo tragico, nellaforte attrazione che esercita la demo-cratica capitale tedesca del Duemila.

Se ad abbracciarlo fosse soltanto losguardo direi che questo frammentodel panorama berlinese è quasi immu-tato. Ai fianchi della Porta di Brande-burgo sono rispuntate le case Sommere Liebermann, e sono state ridisegnateanche le lunghe aiuole con le loro fon-tane. Se uno getta un’occhiata alle fo-tografie d’archivio, prebelliche, nonscopre rilevanti differenze. Le copienon sono troppo dissimili dagli origi-nali. La leggera, impercettibile, im-pronta moderna lasciata sulle due co-struzioni da Paul Kleihues, uno degliarchitetti della rinascita di Berlino, at-tenua il rigido stile classico che si è vo-luto conservare.

La saggezza dello stile classico

È vero, gli edifici di un tempo, polveriz-zati dai bombardamenti, nelle fotogra-fie sembrano meno impacciati. Lo stes-so Hotel Adlon, a osservarlo bene, è unatorta rifatta con la stessa forma ma noncon la stessa anima. Una copia è sempreuna copia. E ci si può chiedere perchémai, rifacendo Berlino, preparandolaad essere di nuovo la capitale della Ger-mania riunificata, si sia preferito retro-cedere ai primi del Novecento, o addi-rittura all’Ottocento, piuttosto che pun-tare al Duemila. La risposta non è ambi-gua: è stato senz’altro saggio procederea ritroso. Ne è la prova, nonostante si av-vertano tracce di kitsch inevitabili nellecose rifatte, la sobria ricostruzione dellaPariser Platz, all’estremità Ovest dellaUnter den Linden, ai piedi, appunto,della Porta di Brandeburgo. È inevitabi-le trovare da ridire su un’operazione ur-banistica tanto imponente e quindi tan-to vulnerabile. Senz’altro la più vastad’Europa, dopo quella seguita alla guer-ra: ed anche la più carica di significati:poiché il vuoto tra le due Berlino, sinoall’89 attraversato dal Muro, era una fe-rita che, una volta cicatrizzata con laPotsdamerplatz risorta, ha saldato ledue Germanie.

Gli architetti hanno avuto innume-revoli missioni. Sono stati chirurghi,psicologi, storici, politici. Avevano lostraordinario, rischioso compito di di-segnare il futuro, e si sono arroccati nelpassato, per sfuggire alle trappole e agliagguati della Storia e della politica. Nonè accaduto dappertutto nella città rico-struita, ma è senz’altro accaduto nelsuo cuore. Qui è avvenuta la ritirata, euna ritirata è (quasi) sempre una fuga.In questo caso una fuga nel passato in-telligente e astuta. Non era semplicedecidere il nuovo volto della capitale

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Lo spoglio degli archivi della Stasi, lapolizia comunista, ha rafforzato la tesidi coloro che trovano molti punti in co-mune tra la dittatura nazista e la ditta-tura comunista (sia pur con l’essenzia-le riconoscimento che quest’ultima«non ha pianificato massacri sistema-tici»). Con la stessa severità gli architet-ti hanno giudicato e condannato leopere urbanistiche dei due periodi.Stefan Heim, scrittore dell’Est, ha pub-blicato una raccolta di racconti sullaGermania comunista con il titolo Co-struito sulla sabbia.

Le velleità naziste

Estendo la sentenza anche all’ediliziadei tempi di Ulbricht e Honecker, fa-cendo però un’eccezione: la cura concui i comunisti hanno protetto, incerti casi, i monumenti storici, al finedi presentarsi come i continuatoridella tradizione germanica. L’ambi-zione nazista fu più prepotente. Hi-tler assegnò ad Albert Speer, nato inuna famiglia liberale di architetti, elui stesso architetto, ma nazista, ilcompito di creare la capitale del «Rei-ch pangermanico». E Speer fece de-molire interi quartieri e avviò cantie-ri in cui furono impegnati i «lavorato-ri stranieri», molti dei quali erano sla-vi deportati e acquartierati nei campidi concentramento.

Delle opere realizzate all’epoca diSpeer esistono ancora, anzitutto, il Mi-nistero dell’Aviazione del Reich, all’an-golo di Wilhelm e Prinz Albrecht Stras-se (oggi Ministero delle Finanze), l’ae-roporto di Tempelhof e lo Stadio delReich, in cui si svolsero le Olimpiadi del‘36. Nello stesso Stadio, modernizzato,si giocheranno tra pochi giorni le parti-te decisive del Campionato mondialedi calcio. Nella nuova Berlino, capitaledemocratica della più grande nazionedell’Unione Europea, hanno un signi-ficato catartico, purificatore, il Museoebraico disegnato dall’architetto Da-niel Libeskind, e l’Holocaust Mahn-mal, creato a due passi dalla Porta diBrandeburgo e dal luogo in cui si trova-va il bunker di Hitler.

BERLINO

C’era una volta il treno, pensavamo fino a ieri. C’era una vol-ta il treno per raggiungere luoghi remoti e collegare gli uomini traloro: il lussuoso Orient Express teatro dei gialli di Agatha Christie oi lenti convogli zaristi narrati da Dostoevskij. Ricordi lontani, ro-manzi di ieri: oggi ci pensano l’aereo e i collegamenti internettianiad accorciare le distanze, avvicinare le Memorie. Eppure proprio aBerlino il treno sta risorgendo, come un link vitale per l’Europa checresce insieme. Tra pochi giorni, a fine maggio, sarà inaugurata lanuova Hauptbahnhof, la più straordinaria stazione del nostro tem-po. Un edificio ultramoderno, il nuovo hub e crocevia del Vecchiocontinente grazie all’alta velocità che pure tanti ancora contesta-no. Da ovest a est colazione a Parigi, shopping e cena a Berlino, tem-po per l’ultimo spettacolo ai cinema di Postdamer Platz o per unapuntata nei locali alternativi di Prelzlauerberg. Poi colloqui d’affa-ri il giorno dopo a Varsavia o a Praga, tutto senza volare. O se prefe-rite, da nord a sud: caffè del mattino presto ad Amburgo e sera al-l’Arena di Verona. Vita a trecento all’ora senza rischiare ritardi esenza lasciare il suolo. Con Berlino e la sua nuova stazione centra-le quale pulsante luogo di riferimento del Vecchio continente.

La cattedrale vetrata dei treni è costata, compresi allacci ed elet-tronica, dieci miliardi di euro. Il 26 maggio sera Angela Merkel lainaugurerà con un grande spettacolo di fuochi d’artificio. Andia-mo dunque a vederla, la stazione delle meraviglie, il crocevia del-l’Europa di domani. Eccola là sotto i nostri occhi, la cattedrale divetro illuminata dal primo sole del cielo sopra Berlino. Un tunnel-navata di cristallo lungo 321 metri, due minigrattacieli ipervetratianche loro che enormi gru hanno scaricato dall’alto sui binari inuna notte lo scavalcano come archi cubisti. Sotto il tunnel traspa-rente corrono alti i sei binari della rotta est-ovest, sorretti da dueponti sospesi sulla Sprea. Arriveranno e ripartiranno da qui, unoogni novanta secondi, i bianchi Ice-3 tedeschi e olandesi della Sie-mens, i Tgv bluargento francesi o i Velaro spagnoli, e poi treni po-lacchi, cèchi, un giorno anche russi e ucraini. Un mondo soprae-levato come un sogno, già lo vediamo entrando nel cantiere dovefervono gli ultimi lavori. Un mondo che sta per destarsi, pronto adaccogliere un minimo di oltre trecentomila passeggeri ogni gior-no da ogni parte dell’Europa.

Il progetto dell’architetto Meinhard von Gerkan sfida l’impos-sibile. Tutto vetro e trasparenze: scordiamoci qui pesanti costru-zioni in cemento e marmo per accogliere i convogli. La cattedraledei treni, il grande tempio di cristallo che puoi già scorgere dai cor-ridoi del Parlamento, dalle finestre della Cancelleria o passeg-giando sul Tiergarten appena a ovest della Porta di Brandeburgo,è solo la punta emersa dell’iceberg. Percorriamo il tragitto che trapoche settimane i viaggiatori faranno comodi, con 54 scale mobi-li e diciotto mega-ascensori a disposizione. Ecco il pianoterra: unenorme shopping center, ritrovi per giovani, locali d’ogni tipo.L’ambizione è farne un altro Luogo della capitale, come Potsda-mer Platz o il Ku’Damm, o come il Beaubourg o Montparnasse aParigi. Poi andiamo al sotterraneo, trenta metri sotto. Ecco l’altrovolto del grande crocevia d’Europa: binari e pensiline del trafficonord-sud, nove binari in tutto. Più due per la U55, la nuova lineadel metrò berlinese con i treni automatici che ti porteranno allaPorta di Brandeburgo e ad Alexanderplatz, più altri due per la S-Bahn, la linea veloce che conduce in ogni angolo della metropoli edei suoi paraggi. Il passante nord-sud è affidato a un’opera ciclo-pica, un tunnel a quattro binari di tre chilometri e mezzo che pas-sa sotto il centro della capitale, scavato da una ‘talpa’ gigantesca.

«La nuova stazione-crocevia d’Europa sta nascendo un po’ co-me è nata Potsdamer Platz, Renzo Piano sa bene cosa voglio dire»,confessa Hany Azer sorridendo soddisfatto. Piccolo, olivastro, l’a-ria dimessa, l’architetto e ingegnere egiziano plurilaureato è il di-rettore dei lavori. È un esempio ammirato d’integrazione per laGermania multiculturale: «Ho studiato al Cairo, poi in Europa, hocostruito reti di metrò nel territorio della Ruhr, l’antico cuore in-dustriale tedesco», racconta. «Ma questa è un’altra esperienza,molto più appassionante. È la mia piramide. Anche se dieci annidi lavoro qui — da tanto si lavora a questa Fabbrica di san Pietro delcrocevia europeo, notiamo — mi sono costati un infarto, mi han-no persino imposto di smettere di fumare».

«Potsdamer Platz fu il primo grande cantiere della nuova-anti-ca capitale, nell’ex terra di nessuno immortalata dalle riprese diWim Wenders», prosegue Hany Azer. «La stazione che stiamo perinaugurare sarà l’ultimo. Con la sua apertura al pubblico si chiu-derà anche un’epoca d’Europa: l’epoca di Berlino che torna capi-tale rincorrendo se stessa. La Berlino città-cantiere comincerà adiventare compiutamente città nuova col primo treno ad alta ve-locità che sotto questa volta vetrata scaricherà qui passeggeri dal-la Francia o dalla Polonia, da Copenaghen o dall’Italia».

Il grande sogno del crocevia sta diventando realtà, sotto lagrande volta vetrata sorretta da quarantotto archi. Computer esistemi di controllo tracciati come circuiti stampati sotto i bina-ri consentono di organizzarlo senza rischi d’incidente. L’alta ve-locità viaggia rapida, ma arriva e riparte anche rapida. Eccoquindi il treno ogni novanta secondi, ecco un volume di trafficominimo calcolato in cinquecento treni al giorno al piano sotter-raneo, il piano nord-sud come si diceva, e trecento almeno so-pra. Capacità massima, mille treni al giorno. Più gli ottocentotreni quotidiani della S-Bahn e i mille del metrò.

Da Berlino ad Amburgo o a Hannover in un’ora e mezza anzi-ché in quattro, a Francoforte in tre ore anziché quasi otto, a Mo-naco in tre e tre quarti anziché quasi nove. Questi sono i prima-ti che la cattedrale di cristallo offrirà al traffico solo in Germania.Come crocevia d’Europa, andrà ancora meglio: fino a Parigi o aVerona in poco più di otto ore, a Varsavia in quattro ore e trequarti, a Praga in tre ore e dieci. La suggestione della Belle épo-que, quando le verdi, eleganti vaporiere Creusot-Loire, Krupp oVickers trascinavano i lussuosi convogli blu-oro degli espressieuropei più esclusivi, rivive in chiave postmoderna.

Venticinquemila tonnellate d’acciaio, un milione di metricubi di cemento, quanto ne basta per sessantacinque chilo-metri d’autostrada a sei corsie, centinaia di chilometri di cavi.«Ma le cifre sono fredde, aride», dice Hany Azer. «Non ti dannol’emozione del nuovo che nasce e del vecchio che rivive, qui nelgrande cantiere costruito dove un tempo passava il Muro. For-se — confessa con un bel sorriso — non c’è niente di più belloche progettare il crocevia d’Europa proprio qui, camminandocon l’emozione come sul filo del funambolo sull’ex linea rossadella città frontiera della Guerra fredda».

Tunnel di cristallocrocevia d’EuropaANDREA TARQUINI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 21 MAGGIO 2006

IL GIOIELLONelle foto in

questa pagina,

la nuova stazione

di Berlino centrale.

La grande opera

architettonica

sarà inaugurata

il prossimo

26 maggio

Per costruirla

sono stati

necessari

25mila tonnellate

d’acciaio

e un milione

di metri cubi

di cemento

UN TRENO OGNI NOVANTA SECONDI

La nuova Berliner Hauptbahnhof, che sarà inaugurata il 26

maggio, è costata 700 milioni di euro. Potrà avere un ritmo

di arrivi e partenze di un treno ogni novanta secondi. Al piano

superiore (est-ovest) transiteranno 300 convogli al giorno mentre

al piano inferiore (nord-sud) ne passeranno 500. La capacità

massima sarà di mille treni al giorno. I viaggiatori si sposteranno

all’interno con 54 scale mobili e 18 ascensori, nella struttura

si apriranno cinema, negozi ed esercizi di ogni tipo. Con le linee

ad alta velocità si potrà raggiungere Parigi o Verona in otto ore,

Monaco in cinque, Praga in tre ore e dieci

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C’era una volta un ragaz-zo che non sapeva co-sa fare del suo presen-te. Si divertiva ad an-dare al campo d’alle-namento tutti i giorni,

sperando di sorprendere qualcuno con isuoi salti da scimmia ammaestrata. Nonaveva gran talento, solo tanto coraggio euna cinica determinazione nel contrad-dire gli ordini della sua famiglia: «Cheperdi tempo a fare con quelle scemenze,Dick!». Nella domenica della brava gentedi Medford, Oregon, sua madre, segreta-ria di una piccola ditta di ricambi auto,avrebbe preferito portarselo dietro inchiesa a pregare un dio che, senza dirlo anessuno, suo figlio incontrava in privatotutti i pomeriggi a fine allenamento: Dickprotestava («lo facevo bisbigliando») conil suo invisibile referente alzando gli oc-chi al cielo davanti al minuscolo manife-sto di Elvis Presley che aveva sopra il let-to: «Perché non riesco a fare il salto giu-sto? Perché gli altri sì e io no?».

Dick aveva sedici anni. Era nato nel ‘47.Gli americani avevano già messo a sub-buglio l’atletica leggera ma non l’avevanoancora colonizzata sino a trasformarla inuna loro provincia. Aveva deciso di but-tarsi sul salto in alto. Giocando da bambi-no si divertiva a saltare le staccionate fa-cendo la forbice. Vide alcuni fare altret-tanto in pedana. A scuola gli fecero capireche poteva abbandonare le staccionate

per qualcosa di più redditizio: «Saltavacon una naturalezza impressionante»,dirà il suo primo coach Berny Wagner. Sa-rebbe bastata una leggera rettifica, un ag-giornamento nel modo di scavalcare l’a-sticella e Dick avrebbe cominciare a cre-scere. Sarebbe diventato un atleta vero.Cocciuto com’era però, e refrattario agliinsegnamenti pratici, Dick non si fececonvincere a cambiare stile (lo pregavanodi dedicarsi alla tecnica ventrale, quellapiù diffusa) e cercò altre strade. Tentò coni cento metri. Fra i suoi miti entrò in pian-ta stabile un tedesco bianco che correvapiù veloce della luce: Armin Hary. Esile, fi-liforme, robusto, Dick non ebbe fortunaneppure con la velocità: a stento scende-va sotto gli undici secondi. «Gli consigliaipersino il salto triplo», disse Wagner.

Poi la folgorazione. «Ancora qui, ra-gazzo? Spicciati che oggi non c’è nes-suno e allora chiudo prima». Il custo-de del campo quella mattina aveva laluna di traverso. «Pioviccicava». Dickandò in pedana pensando che dovevaosare, sperimentare, andare verso ilnuovo: «La notte prima ero rimastosveglio a immaginare una pazzia». Unsalto rovesciato. Si era infatti resoconto che perfezionando il vecchio

Un salto all’indietro e Dick

EMANUELA AUDISIO

ENRICO SISTI “Non ero nienteNé un tuffatore,né un’acrobata”,dirà di sé l’inventoredella nuova tecnicarievocando i suoiprimi tentativi,che nel 1968a Città del Messicoavrebbero finitoper portarloall’oro olimpico

SEDUTO A MEZZ’ARIAQui sopra, Dick Fosbury

supera l’asticella utilizzando

la sua rivoluzionaria tecnica

all’indietro. L’immagine

è del 1968, l’anno dell’oro

olimpico. Accanto, un ritratto

del saltatore Usa nel 1970

Il vento nuovo soffiò. Li scosse e travolse. Lui scese, lei salì. Portava libertà, fuori dagli sche-mi, descritti minuziosamente in 270 pagine. Stesso cielo, ma voli diversi. Il Fosbury cam-biò per sempre le loro vite e carriere. Erminio e Sara. Azzaro e Simeoni. Due atleti, una cop-

pia, un respiro fatto d’aria. E l’altro, l’americano, che si mette in mezzo. Sembra di sentire lacanzone di Aznavour: «Lui sa tentarti con maestria, tu sei seccata che io ci sia. Ed io tra di voi senon parlo mai osservo la vostra intesa». Erminio è primatista italiano e nel ‘68 vede il salto in

tv. «Mi dico: oh, ma questo che combina? Passa con il dor-so? La mattina dopo a Formia ci provo anch’io: va male,mi do una ginocchiata, il naso mi sanguina».

Per lui, niente da fare. L’atletica in quegli anniè scossa da molti cambiamenti, ognuno sembraribellarsi allo stile classico, vuoi vedere che si puòfare la rivoluzione e inventarsi un altro modo?Amos Biwott cambia la tecnica nel correre le sie-pi. Anche Sara è davanti alla tv, anche lei tenta.«Non c’erano ancora i sacconi in gommapiuma,cadere di schiena fa male, l’asticella d’alluminiotriangolare lascia lividi pazzeschi. L’errore è do-

loroso, il corpo urla, la paura fa sbagliare. Il salto è fuori norma, devono cambia-re i regolamenti, perché la prima a passare è la testa e le leggi di allora non lo per-mettono. Del nuovo stile non si sa niente, ma proviamo, cerchiamo di arran-giarci. La rincorsa è semicircolare, metà in rettilineo, metà in curva. Le sensa-zioni sono buone». Per lei, tutto da provare.

Il mondo dello sport è tradizionalista, si affida ai padri fondatori. Erminio salta

con lo stile ventrale, ha come modello il sovietico Valery Brumel, soprannomina-to il saltatore del cosmo, un campione capace di stabilire tre record mondiali indue mesi, il simbolo di un’epoca. La pedana è di carbonella, si cade sulla sabbia. Ilventrale non prevede velocità di entrata, ma grande forza. Non c’è spazio per faredi testa propria, per sentire le vibrazioni. Azzaro migliora otto volte il record ita-liano, lo porta da 2.11 a 2.18. Sara che è all’inizio invece trasgredisce, si convertealla tecnica del gambero. Il Fosbury flop, appunto.

Erminio e Sara si conoscono in una trasferta a Soci sul Mar Nero nel ‘72. Si fidan-zano. Lei gli dice: o mi alleni tu o lascio. Lui si rassegna, soprattutto al tendine rotu-leo, sempre infiammato. «In allenamento non mi risparmio, ottanta salti al giorno,ma ormai ho troppo male, e a ventitré anni smetto». Sara intanto con il Fosbury sca-la il cielo: sesta a Monaco ‘72 con 1.85, argento a Montreal ‘76 con 1.91. Non sa comesi fa, però lo fa. «È un momento da pionieri. Bello, divertente, diverso. Erminio si met-te a disposizione, chiede aiuto al professor Vittori che allena Mennea, domanda:perché non proviamo questo esercizio? Il Fosbury punta su velocità e ritmo, allascuola di Formia mi esercito con gli ostacoli, con i saltelli, gioco a basket, alla sera so-no esausta, ma diversamente da prima smaltisco meglio il lavoro. Anche se dalla fa-tica crollo a letto come un sasso. Le attrezzature da palestra mancano, ma gli operaiche sono lì, ci aiutano con piccoli e grandi accorgimenti: la cintura zavorrata condentro la sabbia, la scarpetta di ferro e altre diavolerie. Difficile far capire agli altriche sono un’atleta professionista, mangiare all’hotel Miramare diventa un incuboperché ci fanno i ricevimenti nuziali e tutti vogliono fare la foto con me».

Salti, amore e fantasia. Il Fosbury è democratico, ma soprattutto unisex. È unanovità che stava nell’aria: già nel ‘66 la canadese Debbie Brill usava quello stile,

L’INCLINAZIONEÈ fondamentale nella fase curva

della rincorsa: deve essere

proporzionale alla velocità di entrata

e al raggio di curvatura

LA RINCORSAÈ divisa in due parti,

la prima è rettilinea

e consiste in due

o quattro passi,

la seconda è curva

ed è di quattro passi

LO STACCOPoggiando tutto il piede,

si indirizza il corpo

verso l’alto; il ginocchio

della gamba libera

viene slanciato

in seguito alla spinta

I destini incrociatidi Sara ed Erminio

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

la memoriaRivoluzioni sportive

C’era una volta in Oregon un atleta ragazzinoche non riusciva a eccellere in nessuna specialitàFinché, ribelle ai consigli, provò a superare l’asticellacon la schiena anziché con il ventre, come facevano tuttiLo considerarono un numero da circo, ma dopo la primavittoria, quarant’anni fa, calamitò l’attenzione di tutti

CORNELIUS JOHNSONVince l’oro a Berlino 1936 saltando

2,03 con la tecnica “Western roll”

CHARLES DUMASFra i più celebri saltatori con la tecnica

ventrale: supera i 2,13 nel ‘56

VLADIMIR YASHCHENKONel 1977 salta i 2,33, primo record

mondiale con lo stile Fosbury

JAVIER SOTOMAYORCon i 2,45 saltati nel 1993 è l’attuale

detentore del record maschile

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stile a forbice la sua schiena si appiat-tiva sull’asticella. E più si appiattiva epiù andava alto. Allora, pensò, faccia-mo un movimento che stabilizzi que-sto “appiattimento”. Era la negazioneteorica del salto ventrale classico concui i grandi campioni superavano ab-bondantemente i due metri.

La mattina che il salto in alto divenne ilsalto in “altro”, Dick aveva il cuore in tem-pesta. Riuscì ugualmente ad effettuare unbalzo verso la luce. «Il salto è all’indietro,però è pura avanguardia», avrebberoscritto un giorno, molto più tardi. Dickprovò. Rincorsa circolare, sotto l’asticellauna torsione in senso orario del troncoper alzarsi e oltrepassare l’asticella con laschiena, piegando la testa in basso, guar-dando qualunque cosa, i sacchi, il cielo, ilmondo, tutto meno che l’asticella. Ci pro-va e ci riprova. Va oltre 1,68, che era il suorecord di sforbiciata.

Per due anni chi lo vede dice: «Ma dovepensi di andare con quello sgorbio volan-te?». Dovevano passare mesi e mesi prima

che qualcuno capisse. «Adesso direte: ec-colo là, per forza, studiava ingegneria ci-vile, medicina, e così non ha dovuto fati-care troppo a inventarsi un altro modo disaltare. Ma non è così. Non ero niente. Néun tuffatore, né un acrobata». E aveva an-che abbandonato gli studi di ingegneriaper dedicarsi alla cultura orientale. Quel-lo che Dick fece fu molto più semplice epiù folle: intravide «una fessura piena diluce crepitante». Si infilò in quella fessurada cui sarebbe passata tutta la sua vita, uncentimetro alla volta, fino alla conquistadella medaglia d’oro alle Olimpiadi diCittà del Messico nel 1968.

Migliaia di persone lo avrebbero se-guito. Una rivoluzione del genere, legataall’intuizione di solo uomo, appartienepiù al mondo della scienza che a quellodello sport. «Fu nell’aprile del ‘66 che perla prima volta smisero di prendermi peri fondelli, dopo che ebbi vinto i campio-nati juniores della Camera di commer-cio del ‘65». Per due anni quel suo stram-bo avvitamento aereo era stato l’attra-zione del campo di allenamento:«Bravo, divertente, bello da veder-si, ma fuori da un circo non com-binerai mai nulla». Nel ‘66 peròl’aria era cambiata. «In realtà

Fosbury entrò nel futuroOrmai tutti hannoadottato il suo stileOggi lui ha 59 annie ogni tanto fail commentatoresportivo

COMPAGNI DI VITAErminio Azzaro e Sara Simeoni,

compagni di vita e di salti:

per lui il Fosbury Flop significò

il tramonto agonistico,

per lei il successo mondiale

ma si sa Debbie è una ragazza hippy che vive nelle comuni e fuma spinelli, love,peace e qualche volta anche un good jump. Già in una foto del 24 maggio ‘63 si ve-de Bruce Quande, studente del Montana, inarcarsi in quel modo strano, da mat-to del villaggio. Solo una prova, che poi Fosbury perfezionerà. È un salto destrut-turato, che non sta in nessun catalogo. Spiega Erminio: «Il ventrale era codifica-to, aveva un manuale più lungo della Bibbia, quattro pagine solo per la posizionedel capo allo stacco. Un po’ come studiare il latino, non si poteva sgarrare. E so-prattutto era rigido: dovevi essere alto, avere potenza. A Formia ogni sera con unproiettore che noi chiamavamo per scherzo «macinino» ci venivano illustrate conle immagini le varie fasi del salto. Noi dovevamo guardare, copiare, ripetere. Il Fo-sbury invece era facile, permetteva variazioni, era un fai da te, un prefabbricatoadattabile ad ogni taglia. Non veniva dai libri di scuola, ma dalla pratica. Facevaa meno di gerarchie consolidate, incoraggiava l’anarchia. C’era il flop uno e due.Più ritmica, meno tecnica. Ognuno poteva modificarlo e adattarlo alle sue esi-genze. Non c’era più un solo modello giusto».

La fantasia al potere, anche in volo. E Sara che non la ferma più nessuno. Nel ‘78apre i cancelli del cielo: 2,01 a Brescia, record del mondo. La tedesca est Ackermannè battuta, sembra una vecchia pagina ingiallita. Sconfitto anche il suo stile, il ven-trale. Il Fosbury funziona anche nei giorni in cui le donne stanno da cane. Simeoniconferma: «Il giorno prima della gara svengo per la pressione bassa, dovuta al pe-riodo mestruale. Non mi reggo in piedi, tanto che mi consigliano di dare forfait. Sal-to lo stesso, sento che ce la posso fare le sensazioni sono buone, guardo il cielo, l’a-sticella, l’orizzonte. All’improvviso tutto mi sembra alla mia portata».

Agli europei di Praga, ventisette giorni dopo, Sara eguaglia il record del mondo. Ai

piedi ha i famosi calzettoni con i rospi. Lotta ancora contro Rosemarie Ackermannche non vuole credere al Fosbury e nemmeno farsi da parte. Via, sciò, adesso in ci-ma c’è Sara, che dal ‘73 al ‘77 aveva perso sei meeting su sette contro l’avversaria. Eseduto in curva, a fumare sigarette, a masticare nervosismo, ora c’è Erminio. Capi-ta che i due bisticcino, sui dieci passi della rincorsa e su altro. «L’avrei ammazzato.Non mi permetteva nessuna trasgressione, era severissimo, c’erano sere in cui misarebbe piaciuto uscire, fare tardi, ma lui niente, me lo proibiva. Dovevo dare l’e-sempio, mai un sabato a ballare, non l’ho mandata giù».

Ai Giochi di Mosca nell’80 Sara è la favorita. Vince, ma l’inizio è disastroso. «Entronello stadio e all’annuncio del mio nome mi prende un groppo in gola tremendo.Sono emozionata, non capisco più niente, misuro i passi in maniera sbagliata. Sen-to Erminio che mi urla: sveglia, la rincorsa è dall’altra parte. Ah, ecco, perché nonfunzionava». Il Fosbury permette rammendi, strappi del cuore, ferite del tempo. Sa-ra a Los Angeles nell’84 è malconcia. Soffre di un’infiammazione al tendine, ha la ca-viglia gonfia, conosce un fisioterapista che la convince a provare gli ultrasuoni. Madeve restare a letto, non può allenarsi, beve solo acqua, perde peso. «Ero già moltomagra, pesavo 57 chili mentre alla mia prima Olimpiade sulla bilancia ero 69. Ave-vo lo stomaco chiuso, non riuscivo a mandare giù niente. Però superai i 2 metri, mi-sura che non ottenevo da sei anni e vinsi la medaglia d’argento dietro alla tedescaMeyfarth. Mi venne da piangere, pensai a Erminio che non aveva mai potuto gode-re di quell’emozione olimpica, gli dissi di non essere triste, che i miei successi eranoun po’ anche i suoi. Eravamo saliti insieme, questo contava».

Il record mondiale di Sara Simeoni durò quattro anni, lo stile Fosbury dura anco-ra. Spalanca cieli. Certe perturbazioni in volo sono miracolose, come le rivoluzioni.

salto in alto? Il secondo era: e se questatecnica facesse rompere l’osso del colloa migliaia di ragazzi americani?».

La rivoluzione ci fu, le ossa del collo so-no rimaste intatte. Il “salto alla Fosbury”ha soppiantato il salto ventrale come l’e-lettricità soppiantò le candele. Il ventraleè stato praticato fino agli anni Settanta.Poi è scomparso. L’unico, piccolo para-dosso è che Fosbury non è mai arrivato asuperare il record del mondo (2,28 delrusso Valery Brumel). Dopo però c’è sta-ta la valanga. Il progressivo arricchimen-to della struttura muscolare dei pratican-ti, ad alto e basso livello, e la conseguente,irreversibile velocizzazione dei movi-menti hanno consentito ai più talentuosidi superare i 2,40. Ora il salto ventrale è pu-ro modernariato.

«Strano. Pensavo di durare di più einvece vincere le Olimpiadi mi esaurìtotalmente. Provai a qualificarmi per leOlimpiadi di Monaco, nel ‘72, ma erogià spento». Anche in questo Fosbury èstato un marziano.

C’è chi si è divertito, facendo ovvia-mente un salto all’indietro, a cercare ilnome del primo giornalista che si reseconto di essere davanti a una probabilerivoluzione. Tutti gli indizi portano a unanonimo redattore della Mail TribunediMedford, che nel ‘66 tirava poco più diventimila copie. Scrisse meraviglie, mapoi siccome temette di aver esageratoconcluse così: «Chiamiamolo FosburyFlop». Dove la parola flop aveva un dop-pio significato: salto (tonfo) e fallimento.In realtà fu il contrario: una rivoluzionedella cultura sportiva.

Dick Fosbury, il rivoluzionario che vi-de il futuro guardando indietro, ha 59 an-ni e sovrintende i progetti urbanistici diun’azienda di Ketchum, Ohio. Ogni tan-to fa il commentatore sportivo.

LO SVINCOLOSuperata

l’asticella

col bacino,

le gambe vengono

“richiamate”

flettendo

le ginocchia al petto

per evitare

che i piedi la tocchino

IL VALICAMENTOCon una rotazione

del ginocchio

e della spalla

interna, il corpo

viene a trovarsi

con il dorso

all’asta. Il bacino

valica l’ostacolo

in perpendicolare

LE ALTERNATIVEEcco le principali

tecniche di salto in alto

che hanno preceduto

il Fosbury e che ora

sono state abbandonate

A sinistra

il salto ventrale,

a destra

la sforbiciata

L’ATTERRAGGIOAvviene

con la parte alta

del dorso.

Per motivi

di sicurezza

è meglio arrivare

sul materasso

con le ginocchia

leggermente

divaricate

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 21 MAGGIO 2006

non capii mai perché. So solo che veni-vano da me, mi facevano domande, poisi allontanavano ma restavano a guar-darmi. Era tutto un po’ ridicolo e io ognitanto perdevo la concentrazione, cosache mi faceva imbestialire».

Un tecnico federale filmò la stramberiadel ragazzo dell’Oregon. Malgrado le per-plessità ancora diffuse, Dick saltò 2,20 equesto, che costituiva un miglioramentodi tre centimetri, fu sufficiente perché eglivenisse ammesso nel gotha dell’atleticaamericana: quaranta anni fa esatti.

Ai raduni statali, nei campus universi-tari, ai meeting, improvvisamente non siparlava d’altro che di quel fenomeno. Fuparagonato al marziano di Ultimatum al-la Terra. Prima di andare alle Olimpiadi, evincerle, continuava a pensare che la suatrovata «in fondo non era niente di spe-ciale». Alle Olimpiadi gli bastò un “mo-desto” 2,24: «Mi fermavano nei ristoran-ti: “Ehi Dick, ti ho visto in televisione!”Ma avevo ancora la sensazione che mitrattassero come un fenomeno da ba-raccone». Nel dicembre ‘68, davanti alMadison Square Garden, a New York,campeggiava un manifesto con su scrit-to: «Venite ad ammirare il campione

olimpico Dick Fosbury». «All’epo-ca l’opinione pubblica si stavaponendo due interrogativi chemi facevano sorridere entram-bi perché non li ritenevo ap-propriati. Il primo era: il saltoalla Fosbury rivoluzionerà il

ETHEL CATHERWOODAd Amsterdam ’28, è la prima donna

a vincere l’oro olimpico: salta 1,59

ROSMARIE ACKERMANNÈ la prima donna a toccare

i due metri, saltati nel 1977 a Berlino

SARA SIMEONIPrimatista del mondo nel 1978

con 2,01, record ancora imbattuto in Italia

STEFKA KOSTADINOVADetiene il record mondiale femminile

con 2,09, raggiunti nel 1987 a Roma

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i luoghiCittà al bivio

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

VITÓRIA

Entrando nella baia di Vitóriachi vi giunse a metà del Cin-quecento dové restare sbi-gottito: un arcipelago fra-

stagliato di isole, un dedalo di rii, un si-nuoso inanellarsi di coste rocciose nel-l’interno e bionde spiagge sabbioseaperte sull’oceano. Su questi bordi del-l’isola precipita una vegetazione lussu-reggiante nel cui serto serpeggiano fontid’acqua dolce essenziali al primo inse-diamento e si levano montagne acumi-nate come tanti pan di zucchero, anchese in una dimensione geomorfologicaassai più ridotta rispetto alla monumen-tale baia di Rio de Janeiro. Questi glabricocuzzoli rocciosi fioriscono nella ver-zura copiosa e dalle tinte squillanti, han-no una foggia d’acciaio brunito, scintil-lano al sole e si staccano sul verde dellamacchia e sul rosso ruggine della terra.

Un sistema paesistico ancora, mira-colosamente, intatto: il Parque da FonteGrande, che sale fino a trecento metri sulmare, è una foresta che s’erge a spartire— come un benefico gigante — la cittàantica del primo insediamento da quel-la nuova: sorta, al finire dell’Ottocento,su una lottizzazione tipica dell’urbani-stica post-haussmaniana. Vitória è la ca-pitale dello stato di Espírito Santo, distacinquecento chilometri da Rio e circa ildoppio da Salvador de Bahía: è un’isola,oggi collegata con ponti alla terraferma;conta circa quattrocentomila abitantied è una città dallamisura sorpren-dentemente ac-concia rispetto allesfatte megalopolibrasiliane.

La tradizionevuole che fu fon-data l’8 settembre1551, pertanto èuna delle più anti-che città di questosterminato Paesela cui colonizza-zione principiòdalla costa atlanti-ca: dall’entroterraselvaggio e dall’O-ceano ha tratto lasua vita, si è svi-luppata la sua eco-nomia mercantilee manifatturiera, èmaturata la suaprosperità. Oggi èil secondo portodel Paese con arti-colate struttureche s’attorciglia-no come un fusoattorno all’isola. Silevano lungo lebanchine enormigru dipinte concolori sgargiantisenza alcuna ini-bizione industria-le, navi e containerin fila si acquatta-no nella placidabaia. Se da Ilhéupartivano e partono navi cariche di ca-cao, da Vitória salpavano e salpano na-vi cariche di caffè, zucchero, legno e mi-nerali provenienti dall’interno di Mi-nas Gerais.

Il nome Vitória ricorda l’assedio re-spinto che le pose la flotta francese: lafregata che difese i primi coloni sichiamava Gloria e ancora oggi ci sonoun caffè e un cinema che portano que-sto nome. Vila Velha, la città vecchiache sta dinanzi all’isola sulla terrafer-ma, fu, con ogni probabilità, il primoinsediamento dei coloni: un pianorosul mare oggi irriconoscibile nei suoitratti geografici, fagocitati da un’inso-lente melma edilizia.

La città vecchia di Vitória è degrada-ta, ma non tanto da non poter essere sal-vata, perde popolazione ed è questo l’a-spetto più preoccupante. La sua misuraedilizia è per larga parte preservata —edifici di due, tre piani al più — anche sela sostituzione edilizia la sta erodendo:

nostasi coloniale. Mi accolgono con l’u-suale cortesia di queste parti e leggononel mio sguardo la delusione.

Le roccaforti dei cristiani

Francescani, domenicani, carmelita-ni, gesuiti qui eressero le loro roccafor-ti di evangelizzazione con lotte cruentealmeno quanto quelle usuali nel Vec-chio continente: qui è tutto sopra le ri-ghe. Il paesaggio è splendido, una na-tura che può apparire e in parte è anco-ra incontaminata, distese di mare orla-te di spume perenni e di spiagge bion-de senza confini a perdita d’occhio: inquesto sito d’incanto si accesero furio-si conflitti intestini tra una mescola dirazze che oggi — ed è l’aspetto più se-ducente dell’intero Brasile — convivo-no pacificamente. Indios, portoghesi,francesi, olandesi, tedeschi, negri de-portati dall’Africa da una ciurma ditrafficanti si contesero l’isola, avventu-rieri di ogni risma vi posero piede.

Il meticciato è la cifra di queste terre. Ilcapitano Thomas Cavendish contese l’i-sola a Luisa Grimaldi, vedova del con-cessionario portoghese Fernandes Cou-tinho; nel 1625 fu la volta dell’ammira-glio Pieter Heyen, olandese, al serviziodella Compagnia delle Indie. Agli esordidell’Ottocento le incursioni assunseroaltro carattere: giunsero viaggiatori illu-stri come il principe tedesco Maximiliande Wied-Neuwied, il naturalista france-se Auguste de Saint-Hilaire, il geologocanadese Frederich Hartt e il pittorefrancese François Biard. Nel 1860 il viag-gio dell’imperatore Pedro II — che dànome alla cala già detta delle Colonne —suggella la fortuna della città.

Sul finire dell’Ottocento principia lalenta ma sempre più insistita migrazio-ne dall’Italia e in particolare dal Vene-to: tanto che l’attuale popolazione diVitória per il 63 per cento è di origini ita-liane. Ne ho incontrati alcuni, ma i piùhanno perso la memoria della linguad’origine. Alcuni giovani hanno preso astudiare l’italiano. Gli indios a giudica-re dai tratti somatici perduranti sonominuscola minoranza, perché, a manoa mano che avanzava la colonizzazio-ne, si ritiravano nell’interno. I gesuitivolevano cristianizzarli a modo loro: ilprimo cronista della fondazione diVitória è il gesuita Simão de Vasconce-los che così descrive il sito: «Comodo al-la vita umana, circondato di acque, na-turalmente protetto, idoneo all’arte».La Compagnia di Gesù eresse la Chiesae il Collegio di Santiago che sorgeva do-ve oggi è il palazzo Anchieta: una sortadi memoria del barocco danubianopiovuta qui come un meteorite dal Vec-chio mondo, ma con tinte e stucchi benpiù prodighi di quelli che si possono ve-dere nelle residenze aristocratiche enei conventi tra Vienna e Melk. Così co-me il sontuoso teatro fa l’eco all’Operaparigina di Charles Garnier.

La fazenda coloniale dei Monjardim,che per oltre un secolo e mezzo ebberoun ruolo essenziale nella comunità, èoggi un significativo piccolo museo: unedificio a un piano, con tetti a tegole, in-tonacato di bianco; al piano terra i ma-gazzini e le stalle, al primo l’apparta-mento padronale. Si capiscono il mode-sto agio, le ambizioni borghesi di questi

del tempo di Vasco Fernando Coutinhoe Duarte De Lemos, i primi concessio-nari portoghesi dell’isola, rimangonoalcune testimonianze, a partire dall’im-pianto urbano. Il santuario di Sant’An-tonio, primo nome dell’isola, impo-nente e goffamente bramantesco, è pa-lesemente rifatto o restaurato con ma-no assai pesante; la chiesa di Santa Lu-cia è una cappelluccia coloniale; SanGonçalo è un garbato edificio nel suodoppio ordine; poco distante è il duo-mo di un neogotico fiammeggiante tut-to trine, pinnacoli, guglie, archi acutis-simi di bianco zucchero. Gli ospiti gen-tili mi inducono a entrare nel duomo.Riluttante cedo e fingo stupore ammi-rato. Più in alto la strada s’inerpica ver-so il convento di San Francesco, con unporticato e due fronti affiancati tardoseicenteschi, con una torre campanariain cima, che annunciano una chiesa eun convento. La delusione è amara, die-tro non c’è più nulla: solo un centro perl’assistenza ai malati. Trovo donne,vecchi e bambini in attesa di una visitaambulatoriale. È rimasta solo quelladoppia facciata che è divenuta una ico-

È la capitale dello stato brasiliano di EspirítoSanto, fondata nel 1551. Indios, portoghesi,francesi, olandesi, tedeschi, africani deportati,infine nostri emigranti se la conteserocon asprezza. Oggi questa mescola di razzeconvive pacificamente e scommette sul futuro

Vitória, oasi meticciacon il cuore italianoCESARE DE SETA

IERI E OGGIA sinistra,

un edificio

coloniale

Accanto, il Palácio

Domingos Martins.

A destra,

un dipinto

ottocentesco

di François-

Auguste Biard

sull’abolizione

della schiavitù

nelle colonie

In basso,

una stampa

cinquecentesca

che raffigura

la colonizzazione

del Brasile

Navi cariche di caffè e legni pregiatisalpano da secoli dal suo porto,che oggi è il secondo del PaeseE il centro del tessuto urbano è ancorala minuta trama dell’abitato antico

Tutto, in questa baiadi sorprendentebellezza, è soprale righe: cocuzzolicolor acciaio brunitosvettano sul verdedella foresta,sul rugginedella terra,sulle spiagge bionde

fazendeiros che hanno mobilia di fattu-ra indigena, ma realizzata con legni pre-giati. Con il prosperare della fortunaagricola la famiglia col tempo acquistòvasellame in ceramica portoghese, por-cellane provenienti dall’EstremoOriente, specchiere francesi, lumi ingle-si, cristalleria di Murano o Baccarat, cu-cine e stufe tedesche, utensili belgi e ma-nufatti brasiliani. Non mancano alcunetele con marine e nature morte, sbiaditamemoria di pittura olandese o inglese;qualche ritratto dei padroni di casa chesarebbe un azzardo qualificare perscuole o nazioni familiari in Europa: tut-to di una qualità coloniale, senza osten-tazione di superflua raffinatezza ma so-lo segno di un solido decoro borghese.Una sobrietà che mi ricorda la casa delcolonnello Ramiro descritta con tantaamorevole passione e minuzia da JorgeAmado in Gabriella garofano e cannella.

I bastimenti di caffè

La fortuna economica di Vitória pren-de vigore a metà dell’Ottocento quan-do dalla sua baia muovono bastimenticarichi di caffè e di legno alla volta del-l’Europa e degli Stati Uniti. Un’accu-mulazione capitalistica dai tratti anco-ra preindustriali, che consente tuttaviaalla città di crescere impetuosamente edi espandersi con un piano che data al1896 e si estende nella parte orientaledell’isola che affaccia sull’Atlantico.Una scacchiera regolare, a maglia qua-drata, tipica di queste città di fondazio-ne del Nuovo mondo. La città di oggi èun campionario di architetture le piùdiverse e talune giungono al più scon-cio post-modern. La nuova sede dellaCamara Municipal e il più pretenziosograttacielo sulla Avenue dos Navegan-tes sono stati costruiti dall’architettoBebeto, a cui spararono qualche annofa in una via cittadina. Ma non è unastoria di corna come nei romanzi diAmado, piuttosto un intrigo di affari.

Attraversando il più grande pontedella città si giunge al Convento de Peh-na: è chiuso, ma è una fortezza più cheun convento, in una posizione che stor-disce perché squaderna un panoramaincantevole. Oggi l’abitano pochi vec-chi fraticelli. A oriente si scorge la costaatlantica, con le isole “do frade” e “doboi”; la prima è legata alla riva con ilponte de “paes barreto” elegantissimonella sua forma di cemento armato adorso d’asino, a conferma che il mo-dernismo dell’architettura brasilianaha una bella tradizione. La baia s’insi-nua come un fiordo costellato da pic-cole isole; di fronte — sull’altra sponda— si leva imponente il parco con la co-lossale “Pedra dos Olohos”, ma il cui no-me originario è Frei Leopardi: a memo-ria di un frate che abitò il sito e che for-se, penso io, era fuggito da Recanati persottrarsi a un conte Monaldo…

Sotto questa preziosa riserva naturali-stica di scorcio si vede il minuto tessutodella città coloniale: esso scompare qua-si dinanzi all’estensione della città nuova,ma è l’antica città coloniale che rimaneancora oggi il cuore della città. Essa, nella

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 21 MAGGIO 2006

sua complessa contraddittorietà, vive undifficile equilibrio tra la morsa di cemen-to e un futuro in cui questo arcipelagopossa esser preservato nei suoi tratti spet-tacolari. Il potenziamento del porto è inatto, ma l’apertura di una ventura auto-strada che colleghi il Pacifico all’Atlantico

è il miraggio che insegue Vitória. La cittàoggi deve potenziare il porto, salvare lacittà antica, restaurarla e far sì che diven-ti una piccola Bahía. Ma l’impresa di granlunga più importante è preservare i suoitratti morfologici, la sua baia, i suoi pan dizucchero, le estese aree verdi: è un bel la-

voro da intraprendere. L’amministrazio-ne saggiamente insegue il modello Curi-tiba, considerata la città meglio ammini-strata del Brasile e tra le più attente allapreservazione dell’ambiente.

Nell’isola “do frade” c’è un silenzioassoluto, si scorgono le luci della città, i

benedettini qui eressero un cenobioche è in rovina. Un inteso profumo dicestrum pervade l’aria umida e mite.C’è più avanti sull’altura lo spettro diuna casa: con le pareti esterne in piedi,con alcune travi di legno in bilico, masenza tetto, senza solai, senza nulla.

Sulle pareti l’ombra dei mobili che vierano addossati. Una bianca unghia diluna alta nel cielo la illumina, quasidondola sul blu denso della volta stella-ta: è inquadrata nell’orbita cieca di unafinestra. Se Magritte fosse passato diqui non avrebbe inventato nulla.

‘‘Jorge AmadoFra l’azzurro intenso

del cielo e il verdedel mare, la naveostenta i colorinazionali. Aria

immobile. Caldo.In coperta,

fra francesi, inglesi,argentini e yankeesi affolla il Brasile

Da IL PAESE DEL CARNEVALE

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

A trent’anni dalla mortedel Grande Timonierei vecchi manifesti

della propaganda offrono una chiave per rileggeremezzo secolo di utopie, fanatismi e violenzeE i più rari vanno a ruba nelle aste di Hong Kong

PECHINO

Oggi si vendono a mezzo euro l’uno,ingialliti e ammucchiati alla rinfusain pile polverose sulle bancarelle perturisti. I cinesi non li degnano di uno

sguardo. Eppure i vecchi manifesti della propa-ganda maoista nascondono un tesoro. Offronouna chiave d’accesso alla storia della Cina in un pe-riodo in cui gli stranieri erano esclusi dal paese piùgrande del mondo (salvo eccezioni come le dele-gazioni dei partiti “fratelli”, il regime non gradiva ivisitatori occidentali), e sul quale gli stessi giovanicinesi oggi ricevono informazioni lacunose e reti-centi. Quei manifesti sono interessanti perfino dalpunto di vista artistico. Realizzati da pittori o stu-denti dell’accademia, mescolano curiosamente leantiche tradizioni figurative cinesi, i temi del fol-clore popolare, insieme con l’impronta del “reali-smo socialista” sovietico e infiltrazioni capitalisti-che come l’influenza della pubblicità commercia-le in voga nella ruggente Shanghai degli anni Ven-ti (le soavi donnine delle marche di sigarette).

Essendo strumenti di propaganda i poster natu-ralmente non rappresentano la Cina com’era dav-vero. Tuttavia sono un aspetto importante dellaCina “come la vedevano” i suoi stessi abitanti. Per-ché erano onnipresenti nel paesaggio urbano e ru-rale: prodotti inizialmente a poche migliaia neiprimi anni Cinquanta, arrivarono a tirature di mi-lioni di esemplari nel 1968 e decoravano ogni am-biente, dalle case alle scuole, dalle fabbriche allemense collettive, dagli uffici pubblici alle stazionidei treni e degli autobus. In un paese contadino,sottosviluppato e analfabeta, erano spesso i mez-zi privilegiati della comunicazione di massa. Du-rante la Rivoluzione culturale circolavano perfinonel formato di miniature che i bambini collezio-navano, si scambiavano e incollavano sui quader-ni, come le nostre figurine Panini.

Sono un reperto essenziale per ricostruire vi-cende del recente passato che i cinesi non studia-no a scuola, decenni di utopie e di grandi sogni, diviolenze e di fanatismi che esercitarono un fascinoanche in Europa e in America. I sentimenti che su-scitano dopo tanto tempo sono contrastanti. Perquegli occidentali che vissero solo da lontano l’in-fatuazione ideologica maoista, i poster possonorappresentare frammenti di scenografia da “lameglio gioventù”. Per i cinesi sono più spesso unatestimonianza grafica che rievoca periodi di po-vertà e insicurezza, arbitrio, persecuzioni e traumifamiliari; talvolta ispirano anche una sorta di ama-ra nostalgia e perfino di rimpianto: nelle campa-gne povere, non di rado i ritratti di Mao restano an-cora oggi in bella vista a casa dei contadini.

La produzione industriale di manifesti iniziacon l’avvento dei comunisti al potere nel 1949. Ilpartito manda subito gruppi di pittori e di tipogra-fi in Unione sovietica per studiare i metodi dellapropaganda staliniana; salvo poi fonderli con sim-boli e colori della mitologia cinese come gli animalidel calendario zodiacale, i dragoni raffigurati dasecoli negli striscioni del Capodanno lunare, leiconografie dei templi buddisti, i costumi elabora-ti e sgargianti dei personaggi dell’Opera di Pechi-no. L’uso di immagini familiari della cultura na-zionalpopolare è indispensabile per far breccia inuna Cina che nel 1949 ha già mezzo miliardo di abi-tanti ma dove solo un quarto dei bambini fre-quenta la scuola elementare e il tre per cento le me-die. L’indottrinamento politico non è l’unica fun-zione dei manifesti; servono anche a lanciare cam-pagne di mobilitazione nazionale di volta in voltacontro l’analfabetismo o per l’allattamento natu-rale, per l’uso della medicina tradizionale, per pro-muovere alcune regole elementari di igiene (vediil poster educativo con un bel soldato dell’Eserci-to di Liberazione Popolare che si lava in una tinoz-za sorridendo, mentre altri militari entusiasti stro-finano le divise sporche in acqua e detersivo).

Uno dei primi manifesti riprodotti in massa nel1950 raffigura Mao in divisa sul balcone di PiazzaTienanmen nel giorno in cui è stata proclamata laRepubblica popolare, in compagnia di quattrobambini che gli offrono fiori, tutti ridenti e con glisguardi rivolti verso un futuro radioso: un qua-dretto irreale, che trasmette un messaggio di sere-nità dopo decenni di occupazione straniera, poianni di guerra civile. Il “periodo sovietico” nei ma-nifesti dominati da titaniche figure di operai ner-

La Cina di cartadalle Guardie rosseallo shopping

MaoZeDongi poster

rivoluzionedella

FEDERICO RAMPINI

Negli anni Cinquanta il realismostaliniano si fonde con simbolie colori della mitologia nazionale

I REVISIONISTI

Qui sopra, manifesto

di fine anni Sessanta:

un operaio schiaccia

l’ex numero due

cinese, Liu Shao Qi

In alto a sinistra,

poster del 1967:

una guardia rossa,

una donna soldato,

un operaio e un

contadino cancellano

il quartier generale dei

revisionisti

Immagini tratte

da “Les annèes Mao”

di Jean-Yves Bajon,

edito da Les Èditions

du Pacifique

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 21 MAGGIO 2006

boruti, martelli e chiavi inglesi, ciminierefumanti, è quello della prima collettivizza-

zione forzata, quando le purghe dei capitalisti(più i regolamenti di conti privati) fanno un milio-ne di morti, e il paese si sottopone a uno sforzo diriarmo per partecipare alla guerra di Corea controgli americani.

A questa fase di unità mondiale della sinistra fi-losovietica appartengono i quadri dove Mao figu-ra ancora a fianco di Stalin nel firmamento dei lea-der del proletariato, e sotto di loro sono ben rico-noscibili gli dèi minori come il segretario del PciPalmiro Togliatti, il leader vietnamita Ho ChiMinh, il maresciallo Tito. Nel 1956 lo shock delladestalinizzazione lanciata da Kruscev, e aborritada Mao, dà il via al divorzio tra Pechino e Mosca: daquel momento il culto della personalità ha un soloessere supremo, il Grande Timoniere, ritratto indimensioni via via più gigantesche rispetto all’u-manità normale che lo attornia devota e festosa.

Con il terzo plenum del comitato centrale nelsettembre 1957 si inaugura per l’arte popolare

dei manifesti quella stagione che è sta-ta soprannominata — con ironia feroce

— “l’estetica del traliccio”. Mao lancial’obiettivo allora velleitariodi sorpassare la produzioneindustriale dell’Inghilterra.Parte così l’industrializza-zione coercitiva delle cam-pagne. Novanta milioni di

contadini sono distolti dal lavoro dei campi per co-struire altiforni siderurgici in ogni villaggio, fon-dendo perfino le pentole da cucina per produrreacciaio. Abbondano le immagini di contadini rag-gianti che sfilano davanti al leader supremo gui-dando camion, scavatrici, locomotive, fra prati in-vasi da cantieri, fabbriche e centrali elettriche. Fa-sci di spighe dorate fanno da sfondo a navi e aero-plani, mentre nei cieli appaiono spesso il dragonee la fenice, allegorie del principio maoista secondocui l’economia cammina su due gambe, l’agricol-tura e l’industria. La realtà è tragicamente diversa.Il metallo prodotto in campagna è così scadente daessere inutilizzabile. Il raccolto di grano “dichiara-to” a mezzo miliardo di tonnellate crolla nel 1959 a170 milioni. La mortalità infantile raddoppia in treanni, la carestia fa decine di milioni di vittime. L’u-nico sprazzo di verità nei poster dell’epoca vienerivelato da un indizio materiale: la scadente e fra-gile carta riciclata su cui sono stampati tradisce lapenuria economica.

Il 18 agosto 1966 ha inizio ufficialmente la Rivo-luzione culturale: è il giorno della prima sfilataoceanica sulla Piazza Tienanmen di un milione digiovani Guardie rosse, aizzate da Mao a rivoltarsicontro la burocrazia del partito con lo slogan«bombardate i quartieri generali». I manifesti as-sumono toni crudi e virulenti, restituiscono condettagli realistici il clima anarchico e insurrezio-nale. Una celebre immagine riunisce quattro gio-vani — una ragazza in tenuta da Guardia rossa, un

contadino, un operaio, un soldato dell’esercito —con lo sguardo carico di disprezzo; l’operaio conun colpo di pennello cancella una fortezza in rovi-na: è la fazione moderata della classe dirigente cheMao ha deciso di liquidare accusandola di quattrodeviazioni conservatrici (vecchie idee, vecchiacultura, vecchie pratiche, vecchie abitudini).Un’altra illustrazione densa di notizie ha sullosfondo un corteo di manifestanti che impugnanoil Libretto Rosso con le citazioni del presidente; inprimo piano una Guardia rossa sta sferrando unamartellata sulla testa ben riconoscibile di DengXiaoping — il capo dei moderati — disegnata su uncorpo di gatto, allusione alla sua celebre definizio-ne del pragmatismo («non importa se il gatto è ne-ro o grigio, purché acchiappi i topi»). Nella realtàDeng riesce a salvarsi scomparendo dalla circola-zione per lunghi periodi ma suo figlio è meno for-tunato: gettato da una finestra dai suoi compagniuniversitari, resta paralizzato a vita.

I manifesti della Rivoluzione culturale hannouna tale potenza evocativa che si sono conquista-ti un posto particolare nella letteratura post-maoi-sta. Jung Chang, l’autrice di Cigni selvatici, ricordail senso di caos e smarrimento di quegli anni: dopoaver letto sul Quotidiano del Popolo l’elogio di uncontadino che ha incollato ben 32 diversi ritratti diMao nella sua minuscola casa, si affretta anche leia riempirsi la stanza di immagini del leader; poi litoglie in preda al panico quando gira il vento e ilcontadino viene accusato di essere un opportu-nista che ha usato le effigi di Mao come carta daparati gratuita. Anche Min nel romanzo autobio-grafico Azalea rossa cerca di reprimere un’attra-zione lesbica verso la sua compagna di lavoro fis-sando le pose austere e algide delle eroine dell’O-pera rivoluzionaria nei cartelloni degli spettaco-li. A volte il puritanesimo sessuofobico ottiene ri-sultati imprevisti. Chen Xiaomei ricorda le pul-sioni suscitate dal ritratto della più celebreattrice-ballerina dell’epoca, Wu Qinghua. Nellapubblicità del balletto propagandistico Il Batta-glione Rosso delle Donne, Wu è dipinta mentre èprigioniera del proprietario terriero che l’ha lega-ta per torturarla. La star comunista deve trasmet-tere al pubblico l’ammirazione per la sua indo-mita resistenza. «Ma quella immagine della don-na incatenata, con le braccia alzate, i lunghi ca-pelli al vento, il vestito lacerato dalle frustate —scrive Chen — eccita fantasie sessuali e diventaper una generazione di giovani cinesi l’equiva-lente delle foto di Marilyn Monroe».

Dopo la fine della Rivoluzione culturale nel1976, la vittoria di Deng e l’avvio delle riforme dimercato, l’arte popolare dei manifesti si avvia ra-pidamente verso il declino. Prima di scomparire fain tempo però a registrare nelle sue immagini i sin-tomi della grande svolta capitalista. Nel 1978 ap-paiono per le strade cartelloni che scimmiottanola retorica dell’ottimismo propagandistico delpassato, ma con scopi ben diversi. Una donna bea-ta sorride in mezzo a una batteria di pentole da cu-cina nuove fiammanti; il manifesto manipola conironia involontaria uno slogan maoista: «Fornireprodotti di alta qualità è servire il popolo». Un al-tro poster del ’78 magnifica le qualità progressistedi un nuovo bene di consumo, la televisione: duedonne contemplano con gioia degli schermi tv, iltesto dice «le buone notizie viaggiano per diecimi-la miglia e rincuorano diecimila famiglie». Sono isaluti di commiato del manifesto cinese, un gene-re destinato ad essere spazzato via dalla modernapubblicità commerciale che invade le vie di Pechi-no e Shanghai. Non di rado i pubblicitari di oggi,come pittori e scultori della pop-art, si divertono amanipolare vecchie immagini comuniste per il gu-sto di giocare con il “retrò” e irriderlo.

Il mercato che tritura e digerisce tutto ha l’ulti-ma parola. Negli anni Novanta i capitalisti di HongKong lanciano la moda del “kitsch comunista” ascopi speculativi. Il modello originale del manife-sto Il presidente Mao va ad Anyuan del 1967 (il lea-der comunista è dipinto da giovane, magro, alto eslanciato, con aria meditabonda e abito lungo, suuno sfondo di montagne sacre evocativo dell’este-tica buddista) viene messo all’asta nel 1995 e rag-giunge la cifra record di 700mila dollari. Ha il sa-pore di una beffa anche la creazione recente dellapiù grande collezione mondiale di manifesti del-l’èra maoista, ben cinquecento pezzi originali ca-talogati e commentati da esperti, più migliaia di ri-produzioni e miniature. La sua sede non è Pechinoma la University of Westminster, a Londra.

Un contadino venne lodatodalla stampa di regimeper aver appeso in casa32 ritratti del leaderPoi, quando il vento girò,fu trattato da opportunistaper averli usati comecarta da parati gratuita

I BAMBINI

A destra, poster

del 1951: Mao

con quattro bambini

In alto, tre manifesti

del ‘68/69, all’apice

del culto di Mao

e, sotto, uno

stampato nel 1960

in occasione

della pubblicazione

di un suo testo

ideologico

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la letturaAnticipazioni

Arriva in libreria “Liberi di amare”, un libro Rizzoli scrittoda Laura Laurenzi che getta una nuova luce sul tema che fino a pochi anni fa era considerato tabù: le grandipassioni omosessualidel Novecento

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

presto, nel 1980, pochi giorni dopo l’u-scita del suo primo film, Pepi, Luci Bom ele altre ragazze del mucchio in cui Pedroritaglia per sé una piccola parte, un ruolocammeo: il giudice di gara nel concorso«Grandi Erezioni».

Scandalizzare resta per lui un impe-rativo categorico. «Lo scandaloè negli occhi di chi guarda,come si legge nella Bibbia.Non c’è niente di straor-dinario se mi metto unavestaglietta o una sotto-veste», ride, «e mi stupi-sce l’ingenuità dellagente che si può scan-dalizzare per così poco».Lui in realtà mira moltopiù in alto: «Non ho maipensato allo scandalo fine ase stesso», sostiene. «Scanda-lizzare con le immagini sarebbefin troppo facile. Io vorrei farlo con ilmondo delle idee». Il fatto che la stam-pa trash nel 1994 annunci il suo matri-monio con il travestito più famoso diSpagna, la voluttuosa Bibi Anderson,per esempio è uno scandalo? No: è sem-plicemente una falsa notizia, una mon-

tatura promozionale.Ma Almodóvar non ne ha alcun biso-

gno: è ormai conosciuto in tutto il mon-do, e non più come «il Fassbinder me-diterraneo» o «il nipotino di Buñuel» nécome «l’Andy Warhol della movida»,bensì come un grande regista che si

prepara a vincere l’Oscar, quella«pesante statuina dorata e

asessuata che il mondo in-tero desidererebbe culla-re». È uno dei talenti piùcorrosivi nel panoramaeuropeo: lo imitano, loosannano, lo idolatra-no, sembrano ormai ve-nerarlo. Anche re Juan

Carlos, anche il primoministro Aznar, conserva-

tore, si congratulano calo-rosamente con lui onorando-

lo come un eroe nazionale quan-do nel 2000 gli viene tributato l’Oscarper Tutto su mia madre, il film dell’arti-sta adulto e maturo che qualcuno ribat-tezza Tutto su Almodóvar.

Dalla commedia ha virato al melo-dramma e dal melodramma all’almo-drama, la nuova parola coniata espressa-

mente per le sue opere, che travalicano esuperano ormai i confini del suo collau-dato «umorismo genitale», secondo laformula da lui stesso inventata. Già, leformule: quella che più lo irrita e in cuimeno si riconosce è quella di regista digay movies, un’etichetta che consideralimitativa e sessista. L’amore è un ritooscuro, un gioco di incontri e abbandoni,e così il desiderio e la passione: non cam-bia niente se ad amarsi, a baciarsi, strin-gersi, soffrire, esultare, sono due uominioppure una coppia eterosessuale. È sol-tanto un dettaglio, sostiene il regista, undettaglio del tutto inessenziale: quelloche conta è l’intensità del sentimento.

Lui stesso, in un’autointervista del1984, si era definito «un povero ragazzobisognoso d’amore». Delle sue storiepersonali parla il minimo indispensa-bile: preferisce nascondersi dietro i per-sonaggi dei suoi film, senza che nessu-no però sia mai perfettamente autobio-grafico. In amore è sempre lui che chiu-de e dice basta: per una sorta di defor-mazione professionale, spiega. Scri-vendo copioni, capisce in modo moltolucido quello che sta succedendo, e so-prattutto quello che succederà. Unoscrittore di sceneggiature, sostiene,possiede in una certa misura le qualitàdi un futurologo: «In amore ci si raccon-tano un sacco di bugie, ma è facile sco-prirle, ed ecco che allora io mi limito adanticipare un po’ la parole fine, sempli-cemente perché la vedo».

Non si considera rigorosamente gay:«Io mi definisco pansessuale, mi piacequalunque tipo di sesso, compresiquelli che devono ancora essere inven-tati». Sull’omosessualità è telegrafico:«La gelosia è la stessa, le debolezze sonole stesse, il dolore è lo stesso e la passio-ne che si prova è la stessa».

Ammette che i gay «capiscono alcunecose delle emozioni usualmente desi-gnate come femminili. Per questo mo-tivo, secondo lo stereotipo, i gay sareb-

Ma chi è Patty Diphusa?«Prima di tutto vorreisapere se sono uomo,donna o travestito»chiede a Pedro la bel-lissima vamp. Patty è

un personaggio di carta, una pornostardei fumetti partorita dalla fantasia diAlmodóvar prima della catastrofe Aids,una “Venere dei gabinetti” di cui Pedroè il biografo ma anche — lo ammette —l’alter ego: «In fondo è il mio autoritrat-to più onesto e sincero». Patty però è bel-la, è bionda e dice sempre sì. Patty èspesso strafatta di coca. Patty è tenera egrottesca ed è ottimista come Pollyan-na, fornita di un corpo che esibisce difrequente e di un cervello che mostra so-lo di tanto in tanto, come impongono lenorme del pudore e del buon gusto.Patty — raccontata a puntate nei primianni Ottanta sulla rivista La Luna — èsegno zodiacale Bilancia, come l’auto-re, come Brigitte Bardot e come OscarWilde. Patty, ha un bisogno inesausto disesso ma anche di amore ed è una sortadi Virgilio che ci guida nel dedalo alter-nativo della movida, nella grande festamobile, attraverso un frastornante cata-logo di tipi umani, vizi e virtù.

È soltanto un’invenzione dei giorna-li la movida, uno slogan, una sigla, unacomoda etichetta da rotocalco, secon-do Almodóvar. Quando arrivò la stam-pa era già tutto svanito, un po’ come laDolce vita di Fellini. Epopea notturnadi stili, trasgressioni, tendenze, esplo-sioni di vitalismo dopo il lugubre son-no quarantennale della dittatura, ecci-tazione per la ritrovata libertà politica:la movida somiglia più a una lampeg-giante produzione di Almodóvar chenon a un fenomeno reale. Lui la riassu-me così: «Le feste venivano pubblicatesulle riviste, le idee diventavano dischi,i travestimenti moda e i pettegolezzicolonne stampate. Con la stessa spon-taneità con cui apparve, scomparve».

Sembra una sceneggiatura della mo-vida Fuoco nelle viscere, il romanzo bre-ve che Almodóvar scrive nel 1981, diver-tita e caustica allegoria a tempo di fla-menco-punk su un’epidemia di lussu-ria che devasta Madrid. L’ex capitaledella dittatura si trasforma velocemen-te in zona franca della libidine e dellasessualità coatta. C’è dentro tutto nellacittà che «vive lo splendore del caos piùinfernale»; l’eco della guerra fredda e gliorfanotrofi, le femministe del FronteDonne Autonome padrone di un avvia-to pornoshop e gli avidi ministri ram-panti, gli interni famigliari cupi e repres-sivi e la comunità hippy. E molto sessorubato: negli ascensori, nei parchi, nel-le fabbriche, nelle corsie d’ospedale. Levarie protagoniste cadono preda diun’isteria collettiva che scatena una tor-bida caccia al maschio, e lascia gli uomi-ni infetti, menomati, talvolta morti.

Una summa del Pedro-pensiero, unpuzzle con tutti i tasselli da sistemare alposto giusto (o sbagliato): le identitàmesse in gioco, i ruoli scambiati, la crisie la femminilizzazione del maschio, l’e-ros grottesco e irrazionale, le nevrosi, gliimpulsi trasgressivi, l’amore saffico di-lagante, il narcisismo che deborda. Suquesto magma incandescente preval-gono due ossessioni: il sesso e le donne.

E se Mara, Katy, Eulalia, Isidra, Flor,Lupe, Lola, Consuelo, Eugenia rappre-sentano l’avanguardia di questo biz-zarro gineceo, decine di altre figurefemminili scalpitano già in lista d’atte-sa nella penna e nella cinepresa di Al-modóvar, impazienti di venire alla lu-ce. Sono sull’orlo di una crisi di nervima si mantengono perfettamente inequilibrio. Impudiche, estreme, volu-bili, passionali, confuse, tutto ruota at-torno a loro: gli uomini non sono checomparse sbiadite e sognano soltantodi diventare donne, e spesso soccom-bono. L’universo femminile è più ba-rocco, più complesso e insieme più fre-sco, meno soggetto a pregiudizi.

«Preferisco l’amicizia e la complicitàfemminili a quelle maschili», spiega il re-gista. «Mi incuriosisce quella specie disegreto e di misteriosa indipendenzache vive nel cuore delle donne, anche le

DALLE PISTOLETTATE ALLE NOZZE

1873, Paul Verlaine spara tre colpi di pistola ad Arthur Rimbaud,

il suo “grande e radioso peccato”. 2005, Elton John e David Furnish

celebrano il loro matrimonio nella Guildhall di Windsor. Tra questi

due fatti un secolo scandito da infinite storie d’amore tra persone

dello stesso sesso. Nel suo libro “Liberi di amare” (Rizzoli, 252 pagine,

16,50 euro, in libreria mercoledì prossimo) Laura Laurenzi ci guida

alla scoperta delle più emblematiche: tra le altre, Marguerite Yourcenar

e Grace Frick, Federico Garcìa Lorca e Salvador Dalì, Greta Garbo

e Cecil Beaton, Eleanor Roosevelt e Lorena Hickok, Pier Paolo Pasolini

e Ninetto Davoli, Rudolf Nureyev e Erik Bruhn, Gianni Versace

e Antonio D’Amico

LAURA LAURENZI

L’amore necessariodi Almodóvar e Patty Diphusapiù umiliate ed oppresse». Gli appaionopiù ricche, più spontanee, più generose,più disponibili al rischio e all’abbando-no. «Sono cresciuto in mezzo a loro, èloro che ho amato e ammirato, mentreil mio universo maschile era conserva-tore, arretrato, maschilista, troppo in-flessibile. Un giorno le donne domine-ranno il mondo».

È il trionfo del matriarcato, che si su-blima in una figura fondamentale: quel-la della madre Francisca, detta Paquita.«Il rapporto con una madre non ha biso-gno di parole, è racchiuso in un gesto»,teorizza Almodóvar. È lei, sottolinea il re-gista, che gli ha insegnato a «colorare larealtà» proprio perché a tre anni l’aveva-no già obbligata a portare il lutto. È lei chegli ha insegnato ad annaffiare i fiori anchese sono di plastica, a credere nelle storiedei fotoromanzi come se fossero vere, adialogare con i ramarri e con le lucertole,ad ascoltare «l’unica musica del cuoreche esista, e cioè il tango e il bolero». È leiche gli ha fatto amare i sacchetti di plasti-ca, «invenzioni geniali», le insegne alneon dei supermercati, la pubblicità deidetersivi in televisione.

Quanto a suo padre, muore troppo

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Sono pagine intense dove scorrono le storie “scandalose”di donne e uomini straordinari: Lorca-Dalì,

Rimbaud-Verlaine, Garbo-Beaton...Pubblichiamo l’ultimo capitolo,

dedicato a una coppia moltospeciale e trasgressiva

tità: «La ses-sualità in fondo è

un gioco molto primiti-vo, quasi infantile. Un modo

per farsi beffe della natura, per gioca-re a essere Dio con il proprio corpo».

E aspirare magari ad avere un figlio.Pedro Almodóvar racconta di avercipensato molto spesso e di invidiare chiha dei bambini. Voy a ser mamá. È il cor-po che glielo chiede. «Ho pensato tantevolte di cercare la ragazza giusta e averecon lei un figlio biologico. Il punto è cheio desidero avere un figlio, ma non unafamiglia, strumento primario di repres-sione. Nessuno può ricattarti così bene,così brutalmente, così crudelmente edolorosamente come la famiglia. La fa-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 21 MAGGIO 2006

La Sodoma fecondadi Gide e Cocteau

Legami omosex, ma non solo

DARIA GALATERIA

Lei era parente di due assassini di Rasputin, edue volte nipote di zar. Bambina, giocava alBois de Boulogne scortata dagli ufficiali del-

la Guardia Bianca. La principessa Natalie Paleyera pallida fin nel biondo dei capelli, e la più belladi Parigi; algida, «la banchisa si richiudeva sem-pre» sul suo volto versatile. Semplice però di mo-di, entrando nel minuscolo appartamento di Coc-teau si era subito seduta sul tappeto, e si era fattainiziare all’oppio.

Lui infatti non si era ancora ripreso dalla morte delgenio in erba Radiguet, e da allora cercava di di-menticarsi. Aveva perfino tentato con la conversio-ne, che aveva messo alla moda («ma l’ostia non è mi-ca un’aspirina!», aveva obiettato al poeta Max Jacob,che insisteva per quel toccasana); ora, nel 1932, a 43anni, provò a innamorarsi di una donna. Natalie Pa-ley, che seduceva solo omosessuali, si trasferì da lui,tra le più chiassose proteste di Jean Desbordes, ilmarinaio sostituto in titolo di Radiguet, e — para-dossalmente — con l’ostilità della madre di Coc-teau, frastornata da quella relazione del figlio, peruna volta, con una donna, e di buona famiglia. Il ma-rito di lei, il sarto Lucien Lelong — che la aveva resti-tuita al lusso quando, rovinata dalla Rivoluzione del1919, faceva la mannequin — protestò solo quandoCocteau chiese a Natalie un figlio: «Nulla mi impe-disce di avere una famiglia», ragionava lo scrittorenell’osceno e splendido Livre blanc: «Del resto, sen-za sforzo, niente di bello esiste».

Parigi allibì; Cocteau infatti raccontò subito dellotzarevitch (che fosse un maschio, per carità): «Chiama, scrive sui muri»; mentre lei protestava: «Nonsai come proteggere una donna; e come sono fragi-li gli amori tra due esseri di sesso diverso». Nataliementiva senza badarci, e le amiche cominciarono apensare che lei non fosse incinta affatto. Di fatto, leiandò a Saint-Moritz a guarire un’anemia — ad abor-tire, sospettarono in molti; Cocteau partì per il sudcon Desbordes, e non perdonò mai alla donna dinon avergli dato una replica imperiale di se stesso.

Anche Gide voleva un maschio. Di una femmina,non sapeva che farsene, né come educarla. Che fa-re? Architettò dapprima un’unione feconda tra ilsuo grande amore Marc Allegret (il futuro regista)e Elisabeth van Rysselberghe. Marc era suo nipote;Elisabeth la conosceva da bambina: era la figlia diuna donna piccola e decisa, la Petite dame, che aGide aveva votato un culto definitivo, e viveva sulsuo stesso ballatoio col marito, il pittore Théo, an-notando ogni parola del suo vate. Elisabeth avevanove anni, e un bambolotto in mano tenuto comeuno scudo, quando Gide, di ritorno dall’Africa do-ve andava con regolarità per diventare meno intel-ligente, le aveva detto: «Sai che anch’io giocavo conle bambole»; lei aveva replicato: «Che peccato chetu non sia un bambino!». Tra Elisabeth e Marc eradi fatto scoppiata una breve passione. Ma una se-ra, in treno — era il 1919, nel pieno della guerra, elui rientrava da un funerale — Gide ebbe un im-pulso di vita, e scrisse a Elisabeth una specie diavance in prima persona: «Non amerò mai d’amo-re che una sola donna» (parlava di sua moglie Ma-deleine, cui lo univa un matrimonio bianco), «enon posso avere veri desideri che per giovani ra-gazzi. Ma mi rassegno male a vederti senza figli, e anon averne io». Il tempo è galantuomo, e nel lugliodel ‘22, nel silenzio di un mattino in riva al mare, l’i-dea trovò compimento.

Gide pensò di parlarne a Théo, con considerazio-ni civiche, del genere: il ripopolamento dopo laguerra; ma non ne fece nulla. Oppure progettavapubblicità per l’avventura, perché avesse una por-tata più generale; ma si preoccupava per la moglie:«Con i tuoi gusti, nessuno penserà a te», lo rassicuròun amico. Conversava con la Petite dame e le ami-che, che erano scanzonate; ritenevano che il matri-monio convenisse all’uomo, la donna poteva benis-simo farne a meno; Gide era d’accordo. Pensava an-che, vagamente, che una donna potesse nutrire de-siderio e amore contemporaneamente, ma non neera sicuro. Elisabeth comunicò al padre la sua deci-sione di avere un figlio fuori del matrimonio, Théoreagì con «biasimo e tristezza»; lei decise di render-si indipendente, e andare a dirigere una fattoria nelsud della Francia. Gide intanto la andava a trovareogni mattina per farle delle piccole letture, e si in-cantava quando lei rigettava, che era una confermadel suo stato. Con la Petite dame, Gide aveva asseri-to: «Il regno dell’uomo è finito». Ma quando nacqueCatherine, fu inconsolabile.

Quante specie d’amore sotto il cielo, è il sottinte-so del saggio di Laura Laurenzi, che con rara ele-ganza ed emozione ne racconta alcuni esempi nonconvenzionali. Gli amori omosessuali, d’accordo;però sono sterili, lamentava Proust: ma chi ha dettoche sono contro natura? In Sodoma e Gomorra,Proust si diverte appunto a raccontarli usando lescienze naturali, le api e i fiori, come si racconta ilsesso ai bambini. Cita il Darwin botanico, e i suoi in-setti che, storditi dal nettare, si impolverano di pol-line, e lo trasportano di fiore in fiore. Ma accanto al-le unioni «incrociate o legittime», Darwin evocal’autofecondazione di piante che presentano fiorimaschili e femminili sullo stesso ceppo: praticano«unioni illegittime» che rendono difficile la ripro-duzione. A primavera, attenti alle primule, avverteProust: hanno costumi così bizzarri, e ménages cosìsregolati, che potrebbero far venire idee pericolose.

bero come le donne. Ma tutto ciò è spaz-zatura. Noi continuiamo ad avere uncomportamento definito maschile macontemporaneamente ci manteniamoin contatto con un lato diverso delleemozioni umane». Una ricchezza in piùdunque, come quella che consente glislittamenti di genere, gli scambi di iden-

migliacontrol-

la le tue vi-scere».Fin da ra-

gazzo ha datoadito «a ire furi-

bonde e ad amoriappassionati», si glo-

ria. Victoria Abril, unadelle sue attrici-feticcio, lo

ha definito «un pasto com-pleto, esageratamente nutrien-

te, difficile da digerire». Le sue pri-me esperienze sessuali risalgono aquando aveva tredici o quattordici an-ni: «Ma con persone bisex, per cui noncredo che allora fossi consapevole del-la mia diversità, che ho accettato soloverso i diciotto anni». Ha mai deside-rato essere una donna, ha mai pensa-to di poterlo diventare? Mai, e ne è lie-to: tutti i transessuali che ha conosciu-to hanno consacrato la loro vita a que-sto cambiamento, una strada durissi-ma da percorrere.

È vulcanico, veemente, generoso. Unpo’ più malinconico da quando ha avutotanto successo: «Non mi sento felice, an-che se senza dubbio mi ritengo un uomofortunato». In tre anni ha cambiato tre ca-se. Pur detestando la campagna, che glidà claustrofobia, dopo gli Oscar ha com-prato una villa a mezz’ora da Madrid conpiscina, campo da tennis, biliardo: anchese la natura lo sconcerta e lo annoia, da expovero è contento di avere un bel giardi-no, però — si lamenta — non comunicacon i fiori. Non gli piace la sua faccia e siproclama sempre più sordo. Odia la no-stalgia e sogna «un mondo senza pregiu-dizi, né morali né sociali». Se qualcuno glidice che è un genio ribatte: «E se fosse tut-ta una montatura?». Combatte con le die-te e con le vertigini. Ha qualche civetteria:per esempio si toglie un paio d’anni, dicedi essere nato nel 1951, «con il mambo eil rumore della guerra appena finita nelleorecchie», ma nelle prime biografie l’an-no di nascita risulta il 1949.

Fa sua la frase di Madame De Staël:«Capire tutto significa perdonare tut-to». La cosa che lo spaventa di più è l’in-differenza. Quanto alla sua intermit-tente solitudine, ormai c’è abituato e sisforza di trasformarla in un elementofertile della sua esistenza.

Con umiltà e trepidazione torna a ri-petere che l’amore — di qualunque na-tura, tipo, forma, variante, genere essosia — è l’unica cosa per la quale vale lapena vivere: «Credo che sia un’emozio-ne necessaria, l’origine della porzionedi felicità che un essere umano puòconquistare e insieme l’origine di unenorme dolore. Nell’amore è iscritta lasua stessa fine». L’amore non ti fa vola-re, anzi: ti tiene ben radicato a terra, so-stiene. Ti impone una disciplina pienadi umiltà, ti fa conoscere la fragilità el’insignificanza del tuo essere umano.Ma è anche un sentimento che si impa-dronisce di te e diventa superiore a ognitua capacità.

Senza l’amore la vita non è vita: è an-che il titolo di un capitolo di PattyDiphusa e altre storie, là dove si raccon-ta che «Cristo ci consigliò di amarci gliuni con gli altri. E Dio Padre ci pro-grammò, senza consultare nessuno,con una necessità di amore assoluto.Ma si scordò la reciprocità. E noi madri-leni siamo qui, nella maggior parte deicasi, amando chi non ci ricambia e ama-ti dalla persona sbagliata».

Indipendentemente dal sesso.

LE ICONESopra, una foto

di Pierre e Gilles

tratta dal volume

“Sailors & Sea”,

edito da Taschen

Nell’altra pagina,

Pedro Almodóvar

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Sono nate quarant’anni fa ma maicome oggi godono di buona salute,si moltiplicano e attirano pubblico

e aspiranti artisti. Sono le mille carovanedi quel fenomeno battezzato “le nouveau cirque”,nate per “violare l’inviolabile e dire l’indicibile”

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

Signore e signori, benvenuti allo spettacolo di que-gli uomini e quelle donne che avevano paura alprincipio e poi non l’hanno avuta più. Cioè al vo-stro spettacolo, lo spettacolo delle vostre vite seavrete la grazia di concederci anche solo per sta-sera, per gioco e per finta non abbiate timore, che

la paura è in ciascuno il motore di ogni cosa perché ogni gior-no, ogni mattina vi alzate e pensate di essere cortesi ma inrealtà avete paura di alzare la voce, credete di essere giusti manon osate delinquere, vi beate della vostra morigerata so-brietà ma avete terrore del desiderio, il vostro incontenibiledesiderio di quell’uomo, di quella donna e chissà perché pro-prio quella, di quell’odore o di un altro bicchiere di vino manon potete averlo perché non sapreste che fare dello squili-brio, dopo, dell’eccesso, della passione, del movimento e in-somma della vita. Ecco perché state fermi lì su quella sedia,in quell’angolo dentro quel recinto per animali impagliati.Alzatevi pure, però, stasera: siate «deboli». Concedetevelo.Arrendetevi, spogliatevi, tremate di paura: accomodatevi tranoi. Venite tra gli zingari del vento. Gli zingari che ballano esuonano — gli zingari in festa di Saintes Maries de la mer —sono sempre piaciuti alla gente perbene, è così bello per dueore affacciarsi a frequentare gentaglia e assaporare così l’eb-brezza breve del contagio. Gli odori, gli incensi. Tutto questotroppo. Prendetene un po’, solo per oggi. Siete al circo.

Non è un circo qualsiasi, questo. Non è il circo triste deglianimali con gli occhi ingrigiti e le unghie tagliate, dei doma-tori di leoni stanchi e dei pagliacci nani con la biacca di unsorriso posticcio. No, no. Non è quella cosa lì, niente tendo-ni né gabbie di fiere stordite: è il circo del pericolo vero. Il cir-co dei sentimenti che divampano e divorano. In definitiva,vedete, il circo della paura. C’è gente che ha passato anni acatalogare le paure, il modo di dargli forma. C’è qualcuno cheha censito tutti gli spettacoli più rischiosi che esistono, quel-li che la gente ci va per sentirsi chiudere lo stomaco e perde-re l’equilibrio da seduti. C’è un catalogo, persino. L’arte delrischio, s’intitola. Parla — da non credere — di circhi. Dice ci-tando Cocteau, Dario Fo e Kafka che il circo — il «nuovo cir-co», quello dell’anima — è la poetica del rischio e dell’azzar-do. Si parte sempre dalla paura. Ci sono due modi per vin-cerla, spiega: uno è convincersi di amare il pericolo, molti ra-gazzi lo fanno. Corrono a fari spenti con le moto, schivanoostacoli messi lì apposta, provano sostanze, infrangono di-vieti tra gli applausi del pubblico ridente di terrore. L’altromodo è distrarsi, non pensarci. Lasciarsi incantare da qual-cos’altro.

Scrive Paul Auster nella prefazione al Trattato sul funam-bolismo di Petit che «il buon funambolo si sforza di fare inmodo che lo spettatore non percepisca il pericolo, lo distraedal pensiero della morte. Lo fa così, semplicemente: con labellezza del suo gesto sul filo». Ecco, è la bellezza che più ditutto distrae dalla paura: puoi persino diventare acrobata seriesci a farti guidare dall’eleganza del gesto, dalla forza deldesiderio. Puoi persino dimenticare il rischio. Puoi provare,una volta. Ci sono quelli che nella vita non hanno provatomai. Ci perdono.

Nato insieme alla rivolta sociale, cresciuto degli anni Set-tanta come festa di liberazione dalle dittature anche politi-che, come schiaffo alla convenzione e all’equilibrio dellamoderazione il «nuovo circo» (le «nouveau cirque» si dicepensando ancora al maggio francese) ha quarant’anni: l’etàpeggiore, la più critica per le passioni. E però lui vive e crescenon solo nella memoria, decine e decine di nuove compa-gnie si formano, centinaia di ragazzi abbandonano le loro ca-se e continuano oggi come ieri a partire con le carovane: An-na, Letizia, Emilio. Sono tanti i ragazzi italiani — i nomi infondo ai depliant — che sono partiti per il mondo così. Han-no visto lo spettacolo che passava da lì, un giorno, dal paese.Si sono fermati la sera a parlare accanto alla carovana, han-no detto a casa torno subito, l’hanno seguita e non son tor-nati più se non per Natale, a volte, anni dopo ormai da adul-ti. Un po’ come nella favola di Pinocchio e negli incubi dei ge-nitori che «gli zingari vengono e ti portano via», quella gentecattiva, quella gente senza legge, stai vicino non ti allontana-re stai qui.

In Catalogna poche settimane fa si è celebrato con una mo-stra nel più bel museo di arte contemporanea di Barcellonal’ingresso nella maturità del nuovo circo, i suoi quarant’an-ni. «L’arte del rischio», appunto. Il contrordine della culturaquando si prende troppo sul serio. Lo spettacolo che nonaspetta il pubblico ma se lo va a prendere per strada. Tutte leavanguardie del ventesimo secolo lo hanno tenuto a riferi-mento. L’acrobata di Picasso parla di questo. I vecchi ingre-dienti del circo per una ricerca nuova. Niente più animali,

CONCITA DE GREGORIO

Una tecnica vecchia per un raccontomai sentito. Si parte da Beck, Mnouchkine,Fo, i padri fondatori, per arrivareal Circ Cric, al Cirque du Soleil, a Zingaro

CircoIl nuovo

Trematedi desiderioe pauraecco gli zingari

in vendita

da oggianche su

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 21 MAGGIO 2006

niente «signori sempre più difficile» né il gusto del rischio peril rischio. Non una semplice concatenazione di «numeri dacirco» ma un canovaccio, invece, una drammaturgia e un te-ma: la violazione dell’inviolabile, di solito. L’indicibile. L’ir-raggiungibile. Il desiderio e il suo contrario: la paura.

Hanno usato una tecnica vecchia per cercare una formadi racconto nuova. D’altra parte è quello che hanno fatto neltempo Joyce e Kafka, Kandinskij e Peter Brook, Pina Bausche John Cage ciascuno per la sua parte. Sono anni, quelli, incui cambia molto anche il teatro: il Living Theatre, le Thea-tre du Soleil di Ariane Mnouchkine, il Mistero buffo di DarioFo. Un’altra storia nei luoghi della vecchia. Quando parte inEuropa il primo circo itinerante, il catalano Circ Cric (siamoall’inizio degli Ottanta) c’è già da due anni in Australia il Cir-cus Oz, nasce in Inghilterra il Circus Hazard, poi verrà inQuébec le Cirque du Soleil (’84) e quasi dieci anni dopo il me-raviglioso notturno e balcanico Cirque Eloize: un circo do-ve t’incanti a vedere una ragazza che dondola in altalena daun capo all’altro della scena e dice «mi vedete, riuscite an-cora a vedermi?».

Fra gli ultimi si muove l’Italia, Arcipelago circo teatroporta in tournée lo spettacolo presentato l’anno prima al-la Biennale di Venezia, Ombra di luna, e siamo già nel 2002.È lo stesso anno delle Metamorfosi di Ovidio dirette daGiorgio Barberio Corsetti. Altrove nel mondo e in Europa ègià da anni leggendaria l’onirica poesia equestre del teatrodi Bartabas, il suo cavallo più nero si chiama Zingaro conl’accento sulla o e così la sua compagnia. Si conoscono ladelicatezza del Cirque plume, lo psicologismo del Que-cir-que, l’erotismo del Circo Diva. Nella Spagna che esce dal-la dittatura e ora anche dalla transizione il teatro guarda alcirco e ci si specchia: Els comedians, Els joglars, la Fura delbaus, tutti catalani.

Il circo guarda alla vita, finalmente di nuovo capace dievadere dai recinti assegnati ed è un’esplosione collettiva.Dal Circ Cric come fosse un mulinello creativo nascono de-cine di piccoli gruppi, Circ semola, Circ perillos: in quest’ul-timo Adelaida e Jordi volano in aria e si sorreggono come permiracolo esattamente con quell’incanto di bellezza che fadimenticare la paura, il pericolo (perill, in catalano) da cui ilgruppo prende il nome. Vengono lei dall’esperienza del mi-mo, Lindsay Kemp e Marcel Marceau, lui dal mondo dei ca-valli di Bartabas. Ai loro spettacoli ridono e battono le maniinsieme ai nipoti Joan Miró e Joan Brossa, quest’ultimo — ilpoeta visuale — ossessionato dal ricordo di Fregoli: la velo-cità, il trasformismo, l’illusione della realtà e la verità del ge-sto. «Dell’Italia amo Michelangelo e Brachetti», diceva. Bra-chetti, in quel tempo, in Italia non lo conosceva nessuno.

Anche Clement Marty, a cui Jordi ferrava i cavalli, ha co-minciato dal circo. Clement non sarebbe mai diventatoBartabas se un incidente in motorino non gli avesse sfra-cellato le gambe: se non gli avessero detto «non cavalcheraimai più» inducendolo perciò a diventare il più magnetico,ipnotico, il più elegante e selvaggio dei cavalieri. Nella suabiografia appena uscita in Italia (Bartabas il cavaliere delvento di Jerome Garcin, Sperling & Kupfer) si legge questo.«Cosa significa montare se non fondersi nel cavallo fino adimenticare il proprio corpo, negare la decrepitezza pros-sima, aspirare a disincarnarsi e reincarnarsi?». Non c’è de-scrizione del gesto erotico più precisa, non c’è altro da diredell’amore carnale: fondersi, negare la fine, dissolversi ereincarnarsi.

Quando frequentava il festival di Avignone con il CirqueAligre, Bartabas aveva due topi trapezisti, li vestiva da Ro-meo e Giulietta e recitavano Shakespeare: insomma, sem-brava che, e la gente impazziva di divertimento. Gli attorierano osceni, eccessivi, rumorosi, selvaggi come cosacchitra le trine della civiltà. La gente del posto protestava che gliamministratori progressisti gli avessero concesso di sostarenel sacro terreno del castello per le prove: ci si accampava-no dentro come barbari. Bartabas — che ha letto Malraux eche a nove anni scriveva compiti in classe che sembranopezzi dei Fiori blu, perciò bocciato — si è stancato presto deitopi. È tornato ai cavalli e ha imparato a far loro affrontarequalsiasi fatica, ogni pericolo senza sudore. Con la natura-lezza delle origini: ci si accede solo col tempo e con l’ascol-to. «Adagio, che ho fretta», dice sempre. Più vai piano e me-no tempo perdi. Solo se entri in sintonia capisci, solo seascolti. D’altra parte — spiega Bartabas — i cavalli «espri-mono il loro affetto solo quando smetti di chiedergliene pro-va». Non c’è niente che amino di più del «convincere chi sisottrae». Basta allontanarsi da loro per farli avvicinare. Cosìgli uomini, del resto. Non c’è niente che amino di più di chisi sottrae. Il circo è lì anche per questo. Per consolare chi nonsa farlo, per ricordare che comunque si può anche rischiareogni tanto. Per insegnare ad avere paura e a non averne più.

GLI SHOW

CIRC CRICIl circo itinerante

catalano comincia

a portare in giro

i suoi spettacoli

nel 1981. Tra i suoi fan

c’è anche Joan Miró.

È il primo a importare

in Europa il nuovo genere

CIRQUE DU SOLEILLa grande fabbrica

di sogni e illusioni nasce

nel 1984 da un’idea

del canadese Guy

Laliberté: negli spettacoli

fonde invenzioni

avveniristiche e antiche

tradizioni circensi

CIRQUE ELOIZEFondato da un gruppo

di giovani canadesi

nel 1993, ha girato

per oltre 200 città

in tutto il mondo.

Le sue incantevoli

esibizioni sono

state più di 1.400

I CAVALLI DI BARTABASDal 1984 la compagnia

Zingaro di Clement Marty

(Bartabas) porta in giro

per il mondo

gli spettacoli a cavallo

che hanno rilanciato

e reinventato il circo

equestre

IL CAVALIERE DEL VENTO

Bartabas è il creatore di Zingaro, il teatro equestre

più grande e famoso del mondo. In “Bartabas

il cavaliere del vento-La vera storia dell’uomo

che parlava ai cavalli” di Jerôme Garcin (Sperling

& Kupfer, 224 pagine, 17 euro, in libreria

il 30 maggio) si racconta l’universo affascinante

di Clément Marty, l’uomo che ha realizzato

i suoi sogni trasformandosi via via in Bartabas

LA MAGIANella foto grande,

un momento

dello spettacolo

“Dralion”

del Cirque du Soleil

Nelle altre

immagini,

gli show

delle principali

compagnie

del “nuovo circo”

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spettacoliCinema nuovo

Moretti, Bellocchio,Sorrentino, Rossi Stuart:a giudicare dall’accoglienzadel Festival, le nostrepellicole tornano di moda

NATALIA ASPESIcome Moretti. E c’è già al Festival chi gli attri-buisce doti di veggente, visto che dopo lasconfitta elettorale, c’è chi nella destra ha pro-nunciato realmente frasi eversive non diverseda quelle che chiudono il film.

Il cinema italiano sta tornando di moda, ec’è molta curiosità anche per il secondo film inconcorso, L’Amico di famiglia di Paolo Sor-rentino veramente inedito in quanto non an-cora visto neppure in Italia. Ieri è stato accol-to con buon successo nella sezione “Un Cer-tain Regard” Il regista di matrimoni di MarcoBellocchio, molto amato in Francia sin daitempi dei Pugni in tasca. E Le Monde, definen-do Bellocchio «l’ultimo dei mohicani dellaNouvelle Vague italiana», sembra preferire ilsuo film anche al Caimano di Moretti.

Ottima accoglienza ugualmente per Anchelibero va bene, di Kim Rossi Stuart, film che èstato una bella sorpresa anche in Italia: quan-do una persona è così bella, si pensa che nonpossa fare che l’attore. Invece Kim, che puredel suo film è protagonista, si è rivelato un au-tore profondo, capace di dirigere gli attori e dicommuovere il pubblico. Concorre, nella se-zione “La Quinzaine des Réalisateurs”, al pre-mio Caméra d’Or per l’opera prima.

Ieri c’è stata molta allegria, il nuovo modo diaccogliere i cosiddetti film scandalo, allaproiezione ovviamente fuori concorso diShortbus del simpaticamente scorretto e irri-tante John Cameron Mitchell. Melodrammaporno a prevalenza gay, il film ha per protago-nista non, come dal titolo, il piccolo bus cheporta a scuola i ragazzi cosiddetti sottodotati,ma il famoso orgasmo, che almeno per quelche riguarda le signore, risulta talvolta unachimera persino dal punto di vista politico.L’estroso regista avverte che sono stati gli in-terpreti a inventare di volta in volta il sogget-to, il che fa pensare che già che c’erano, tuttele scene di sesso (in ogni versione, dalla ma-sturbazione all’orgia) siano, beati loro, au-tentiche. Trama: una coppia di bei giovanot-ti gay molto innamorati va da una consulentematrimoniale e sessuologa per sapere se fan-no bene a diventare coppia aperta. Lei stessaperò avrebbe bisogno di un esperto, dato chepur continuamente sbattuta in ogni angolodella casa da un marito per altro insignifican-te, resta fredda come un baccalà. Ne succe-dono di ogni colore, compreso un tentato sui-cidio. Per il resto intreccio di membri di mi-sure encomiabili, cose davanti di dietro su egiù in un allegro locale dove non si fa altro, asuon di musica. Scene divertenti: un giova-notto tipo bambolotto e molto ginnico riescea farsi da solo una fellatio; una eiaculazione siabbatte su un quadro tipo De Koonig e locompleta artisticamente.

CANNES

Arriva Nanni Moretti ed è come seportasse con sé l’Italia nuovauscita dalle elezioni. Arriva Il cai-mano, in concorso domani e su-

bito dopo su tutti gli schermi francesi, e qui loaspettano ansiosamente, come se gli si potesseattribuire un sia pur piccolo merito per il cam-biamento politico del nostro Paese. Giusta-mente Moretti lo nega, perché il cinema puòniente rispetto alla televisione che in periodoelettorale ha parteggiato spudoratamente peril governo oggi pensionato; ma certo potrà al-lietare i suoi molti cinefan raccontando dellamontagna di scemenze dette e scritte in Italiasul suo film giudicato, soprattutto da chi nonl’aveva visto o addirittura non va mai al cinema,una pericolosa arma di guerra politica, vuoi prodestra vuoi pro sinistra. I francesi lo attendonodevoti e qui ricordano quanto fosse rabbuiato,cinque anni fa, quando era arrivato con Lastanza del figlio: era il 2001, in Italia le elezionierano state vinte da pochi giorni, a forte mag-gioranza, dal centrodestra. Poi il suo decimofilm vinse la Palma d’Oro e fu almeno una gran-de consolazione professionale, non sufficientea distrarlo da una situazione politica che lui im-maginava disastrosa e che poi si rivelò tale.

Sono tanti cinque anni tra un film e l’altro, pu-re per il riflessivo, cauto Moretti; ma anche inFrancia hanno seguito il suo intermezzo di im-pegno politico, i suoi interventi in piazza, so-prattutto quello del settembre 2002 a San Gio-vanni davanti a un milione di persone, quandosenza volerlo divenne il portavoce della sinistracivile scontenta della sinistra politica confusa espaventata. Moretti è atteso a questo Festivalcome la massima star del bel cinema, dopo l’u-miliante luccichio imposto dalle star dell’im-balsamato megacinema commerciale; e lastampa internazionale che negli ultimi anni si èoccupata dell’Italia quasi esclusivamente perraccontare, stupita, ironica, scandalizzata, il fe-nomeno Berlusconi, è pronta ad accoglierlonon solo come autore rispettato e amato ma an-che come figura carismatica di un Paese chevuole cambiare, dimenticare, ricostruire.

Già i giornali francesi sono pieni di lungheinterviste che certo vogliono sapere tutto del-la genesi del Caimano, dei quattro volti cheMoretti attribuisce all’ex premier, quello delvero Berlusconi stesso di memorabili docu-mentari, quello degli attori De Capitani e Pla-cido e infine il suo stesso, che diventa una im-magine di minaccia ed eversione; ma anchedell’Italia che sta per cominciare un camminodiverso anche sotto gli occhi, vigili, di gente

L’autore del “Caimano”atteso dalla stampa

internazionale come figuracarismatica di un Paese

che vuole cambiare

“Il regista di matrimoni”,appena presentato,

ha raccolto un giudiziomolto positivo da parte

dal critico di “Le Monde”

Cannesla caricadegli italiani

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 21 MAGGIO 2006

FO

TO

AN

SA

I FILM

IL CAIMANO

Nanni Moretti

è in corsa anche

quest’anno

(dopo il successo

del 2001 con

“La stanza del figlio”)

per la Palma d’oro

IL REGISTADI MATRIMONIL’ultimo lavoro

di Marco

Bellocchio

partecipa

al Festival

nella sezione “Un

Certain Regard”

ANCHE LIBEROVA BENEL’opera prima

dell’attore Kim

Rossi Stuart

viene presentata

nella rassegna

“La Quinzaine

des Réalisateurs”

L’AMICODI FAMIGLIAIl film di Paolo

Sorrentino

è l’altro candidato

italiano in concorso

per l’assegnazione

della Palma

d’oro

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

i saporiPiaceri estivi

La novità del momento è il sorbetto all’azoto liquido: cremoso, profumato,leggero. Ma a contendergli il mercato dell’eccellenza c’è quello fattoseguendo la ricetta tradizionale e rigorosamente senza additiviL’appuntamento è ora a “Gelatò” la kermesse torinesedove il 23 e 24 giugno le due scuole si incontreranno e si scontreranno

Naturale o hi-tech?È sfida fra i maestri

Un gelato in abito da sera: fine, setoso, elegan-te, colorato senza altri trucchi che la fre-schezza regalata da madre natura. Un gelatoche non ghiaccia la bocca, non addormentale papille gustative. Al contrario, capace di li-berare gli oli essenziali più delicati, come se

una mano benedetta avesse spremuto le molecole aromatiche auna a una. La nuova frontiera del gelato passa dall’azoto liquido, la

componente quantitativamente più importante dell’aria, imprigio-nato e raffreddato fino a ridurlo allo stato liquido. La temperatura è ter-rificante: quasi duecento gradi sotto zero. Ma immergerci la mano den-tro per qualche secondo non crea alcun problema (esperimento nonpraticabile in una pentola d’olio bollente).

È un gelato da magia gastronomica: appena versato sulla “base” pre-scelta, l’azoto passa allo stato gassoso, espandendosi settecento volte, inun tripudio di fumo bianco da antro di mago Merlino. Trenta secondi do-po, avete in bocca la più suadente, setosa, profumata, naturalissima cre-

ma gelata della vostra vita: niente additivi, nel dolce-simbolo della cu-cina molecolare.

Se Ferran Adrià, con il suo bonbon ghiacciato di pistacchio,due anni fa ha sdoganato l’azoto liquido dai laboratori me-

dici (dove si usa come conservante e anti-verruche) perfarne l’ennesimo elemento spettacolare della sua

straordinaria cucina, in Italia il merito della ribal-ta spetta a Davide Cassi. Parmigiano doc, do-

cente di fisica geniale e mattocchio, nel suo mi-cro-laboratorio ha dilatato l’utilizzo del fu-

mo-che-ghiaccia, contagiando i suoi allie-vi. Così, a partire da metà giugno, un ma-nipolo di allegri laureandi, con sgargian-te scritta “Crio-bar” sulla maglietta,approderà a coppie sulle spiagge roma-gnole: uno con l’azoto liquido nellabombola-carrellino, l’altro con cesta atracolla piena degli ingredienti-base edi una ciotolona dove operare in di-retta il piccolo miracolo gourmand.

La nuova tecnica è destinata a pe-sare nello scontro tra due scuole di ge-lateria sempre più antitetiche: da unaparte gli artigiani duri e puri — solomaterie prime naturali, tecnica e pas-sione — dall’altra le industrie e so-prattutto i gelatieri che, pur lavoran-

do in proprio, non disdegnano semilavorati e ad-ditivi. Perché se il super-maestro Luca Cavaziel abbraccia in toto

la filosofia dei semilavorati («Il gelatiere ricorre con sempre maggiore frequenza all’u-so degli ingredienti composti per la loro grande versatilità, notevole apporto in fatto dipraticità, resa qualitativa e sicurezza igienica»), i pochi irriducibili del gelato di casa —radunati intorno al progetto di Slow Food e Confederazione italiana agricoltori per lacertificazione del gelato di qualità — rifiutano ogni compromesso. Racconta il mila-nese Daniele Cuomo: «Cercano di far passare le polverine come ingredienti normali,per mascherare materie prime mediocri e ridurre i tempi di lavorazione. Noi non ci stia-mo. Certo, fare il gelato senza chimica riduce parecchio i margini di guadagno. Ma lasoddisfazione di vendere un prodotto buono, digeribile, non grasso, salutare, è senzaprezzo». Non a caso, ai laureandi bocconiani con vocazione alimentarista, vengonosuggerite due attività imprenditoriali dal fatturato sicuro: gelaterie e pizzerie.

E allora, via libera ai gelati naturali, con o senza azoto. La tendenza a sostituire il pa-nino della pausa-pranzo con un bel gelato (complice la bella stagione), ha allargato lalista dei gusti. I salutisti scelgono tè verde, cereali, yogurt e miele, frutta bio, tarassaco,mentre i golosi tout court restano fedeli ai sapori tradizionali, magari regalandosi lo sfi-zio di un cru di cioccolato, della crema arricchita da scorze d’agrumi e liquori preziosi,o puntando alla trasgressione golosa con l’abbinamento parmigiano-pere.

Se il troppo lucido, troppo colorato, troppo rigonfio vi inquieta, mentre chiedete algelatiere di farvi assaggiare le nuove creazioni, sbirciate l’elenco degli ingredienti (pub-blico per obbligo di legge). Oppure programmate un viaggio a Torino per fine giugno:il 23 e il 24, durante “Gelatò”, gli artigiani prepareranno dal vivo i loro gioielli. Senza truc-chi e senza scorciatoie.

Cru VenezuelaIn testa alle preferenze

degli italiani, solletica

la vanità professionale

dei gelatieri,

alla continua ricerca

del cioccolato più fine

e persistente. Tra i Cru

Venezuela (composti

solo con le pregiate

fave di cacao locali)

più richiesti, Amedei,

Domori, Vahlrona

Cookies & pistacchioLa premiata ditta

torinese Grom-

Martinetti ha messo

a punto un super-

gusto con pochi rivali

in golosità. Ma a far

grande l’accoppiata

sono gli ingredienti:

i biscotti al cioccolato

sono quelli di Marco

Vacchieri, i pistacchi

arrivano da Bronte

Miele di tarassacoGuai a considerarlo

un gelato dolce-dolce

Al contrario, il miele

in tutte le meravigliose

varianti — dal

primaverile tarassaco,

con il suo impatto

di caramella agli oli

essenziali, alla lieve

acacia — sostituisce lo

zucchero, per un

gelato più salutare

Parmigiano & pereI due gusti, preparati

in maniera distinta,

bilanciando

stagionatura

del formaggio

e maturazione

della frutta, regalano

un mix dolce-salato

suadente e particolare

Apprezzato

da chi non ama troppo

i gusti dolci

Arancia amaraIl sapore acido-

amarognolo ne fa

l’ingrediente ideale

per la confezione

di marmellate. Eppure,

se raccolta matura,

quando il gusto

si arrotonda, regala

un sapore fresco

ed elegante al sorbetto

Abbinamento ideale,

i piatti di pesce

ArmagnacLa passione dei fratelli

Alongi (San Crispino)

per le materie prime

“assolute” arriva

fino ai distillati

Il Laberdolive ’85 viene

mantecato con una

crema a ridotto tenore

di zucchero e grassi.

Profumato e profondo,

difficile trovare un fine-

cena estivo migliore

LICIA GRANELLO

Gelato

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 21 MAGGIO 2006

itinerariCorrado Sanelligestisce con madree figlio una piccolagelateria nel cuoredi Salsomaggiore,dove serve cremee sorbetti

utilizzando solo materieprime naturalie biologiche. È il primoartigiano italiano ad avereintrodotto l’azoto liquidoper la preparazionedei gelati

Città-cardine

nella divulgazione

della cultura

gastronomica —

dal Salone del Gusto

a Cioccolatò —

ospiterà a giugno

una manifestazione

dedicata

al gelato artigianale, tra preparazioni in diretta

e degustazione dei sapori più golosi e tradizionali

DOVE DORMIREARTUÀ & SORRENTINO

Via Brofferio 3 angolo corso Re Umberto

Tel. 011-5175301

Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARESOTTO LA MOLE

Via Montebello 9

Tel. 011-8179398

Chiuso a mezzogiorno, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREGELATERIA TESTA

Corso Re Umberto 56

Tel. 011-599775

TorinoSospesa tra Liberty

e Decò, la cittadina

termale è situata

in una zona

benedetta

per le produzioni

alimentari. Così,

alcuni gioielli

gastronomici come

il Parmigiano e l’aceto tradizionale balsamico

si trasformano nei gusti dei gelati più intriganti

DOVE DORMIRERITZ FERRARI

Viale Milite Ignoto 5

Tel. 0524-577744

Camera doppia da 104 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELOCANDA STELLA D’ORO (con camere)

Via Mazzini 8

Tel. 0524-597122

Chiuso lunedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREGELATERIA SANELLI

Piazza del Popolo 2

Tel. 0524-574261

Salsomaggiore (Pr)Poche, le città dove

il gelato è declinato

in maniera così

appassionata

e creativa

A produrlo,

un gruppo

di artigiani storici

e nuovi, decisi

a difendere la qualità degli ingredienti, integrati con

elementi originali, dall’Armagnac all’arancia amara

DOVE DORMIREIL CASTELLETTO

Via Dei Carraresi 27

Tel. 06-66166573

Camera doppia da 96, colazione inclusa

DOVE MANGIARETABERNA RECINA

Via Recina 22

Tel. 06.7000423

Chiuso domenica, menù da 30euro

DOVE COMPRAREIL GELATO DI SAN CRISPINO

Via Acaia 56

Tel. 06.70450412

Roma

Quando la fisicaentra in cucina

DAVIDE CASSI

In un fine settimana d’aprile, nella tradizionalis-sima gelateria Sanelli di Salsomaggiore, ha mos-so i primi passi una piccola rivoluzione: il gelato

all’azoto liquido è entrato a far parte della lista deiprodotti offerti ai clienti. La tecnica di preparazio-ne, in sé, non è nuova: la liquefazione dell’azoto èprecedente all’invenzione del frigorifero, ed è do-cumentato che, già all’inizio del Novecento, fisicigiocherelloni preparavano il gelato estemporaneonel giardino di casa. Ma, per oltre un secolo, l’azotoliquido è rimasto appannaggio di tecnici e scien-ziati, inesperti di pasticceria: per questo, il congela-mento rapidissimo delle creme tra vapori densi eraconsiderato una sorta di spettacolo da illusionisti,piuttosto che un’impareggiabile tecnica di cucina.La novità di questi ultimi anni è la scoperta delle po-tenzialità gastronomiche dell’azoto liquido, e la no-vità dell’ultimo mese è la possibilità di deliziarsene,offerta a tutti gli avventori di una normale gelateria,e al prezzo di un gelato comune.

La preparazione del gelato estemporaneo è diuna semplicità disarmante: si versa la base in unapentola e, mescolando velocemente con una fru-sta, si aggiunge l’azoto liquido, finché il tutto non siè trasformato in una morbida crema gelata. Il pro-cesso è velocissimo: tralasciando il record mon-diale di due gelatieri particolarmente robusti, Co-mini e Pendin, (un chilo di gelato in tredici secon-di), un comune mortale ce la fa in un minuto. Piùimpressionante è il risultato: eccezionalmente sof-fice, morbido, cremoso. Rinfresca la bocca senzacongelarla e sprigiona aromi più intensi e prolun-gati. Merito dell’azoto liquido, che, dai suoi meno195,8 gradi centigradi, evapora rapidamente acontatto con la base, sottraendole calore e gon-fiandola di microscopiche bollicine. Il congela-mento ultrarapido produce poco ghiaccio, ma sot-to forma di infiniti cristalli piccolissimi: così picco-li da non essere percepiti al tatto, ma tanto nume-rosi da addensare la crema come farebbe una pol-vere fine. La minore quantità di ghiaccio sottraemeno calore alla bocca, che così resta piacevol-mente fresca senza ghiacciarsi, pronta ad apprez-zare gli aromi e i sapori di un nuovo boccone. An-che l’aspetto visivo migliora, e i colori sono più in-tensi. Le bollicine, poi, sono d’aria profumata, per-ché l’azoto è il principale componente dell’aria(78%) ed estrae con grande efficienza gli aromi da-gli ingredienti.

Non è difficile procurarsi l’azoto liquido: bastacercare sulle pagine gialle un fornitore di gas tecni-ci. Vi costa intorno ai 50 centesimi al litro, ma conquel litro potete preparare anche quattro chili digelato. I contenitori in cui si conserva ormai sonoalla portata di tutti: un “bidone” da venticinque li-tri si trova a meno di 500 euro ed è praticamente in-distruttibile. Ma il fascino della nuova tecnica stasoprattutto nella possibilità di trasformare in gela-to praticamente ogni base liquida, senza l’utilizzodi quegli additivi e addensanti che inibiscono aro-mi e sapori e lasciano la bocca appiccicosa. Con l’a-zoto liquido possiamo congelare all’istante un suc-co di frutta appena spremuto, il caffè appena usci-to dalla macchina, il latte appena munto, control-lando di persona la qualità delle nostre materie pri-me. Le possibilità divengono ancora maggiori, seincludiamo la vasta gamma di gelati salati, che sipossono produrre partendo da basi alla birra, al-l’olio d’oliva, ai centrifugati di verdura.

È strano dirlo, ma la gastronomia dell’azoto li-quido è ancora all’età della pietra: come se avessi-mo da poco scoperto il fuoco e stessimo iniziando astudiare cosa e come con esso si può cuocere. Pro-vatelo, dunque, perché vi riserverà piacevolissimesorprese.

(L’autore è gastronomo e docente di fisicaall’Università di Parma)

SorbaÈ uno dei frutti antichi

di ritorno sulle nostre

tavole. Usato per il

suo gusto asprigno

nelle marmellate,

se raccolto dopo

le gelate e lasciato

appassire sotto

la paglia, acquista

gusto morbido,

che ben si sposa

con la base crema

Torta BarozziLa ricetta segretissima

della mitica torta

al cioccolato & caffè

prodotta da un secolo

a Vignola

si trasforma in gelato.

Merito dell’emiliano

Corrado Sanelli,

che ben la conosce

Gli adepti al culto

della Torta Barozzi

ne sono entusiasti

‘‘‘‘

Carlo GoldoniA Napoli

poi convienecedere la manoper i sorbetti.

Hanno de’ saporisquisiti; e quelloch’è rimarcabile

per la salute,sono lavoraticon la neve,

e non col ghiaccio

Da PAMELA FANCIULLA

Marsilio editore

Il consumo pro capite

annuo di gelato in Italia

12 kgIl fatturato annuo

dell’industria del gelato

3,5 mln

Gli italiani che dichiarano

di amare il gelato

50 mln

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

le tendenzeFantasie colorate

Una pioggia di rose, camelie, margherite. Sulle t-shirt,sulle gonne estive, sugli spolverini. Ma anche sulle borse,sugli accessori e sui gioielli. È il gran ritornodella moda floreale, un trionfo neo-romantico che riempiele vetrinesenza però penalizzare la grinta e la vitalitàdelle donne e delle ragazze degli anni duemila

SEMPREVERDEArriva dall’archivio

storico di Roberta

di Camerino

la riedizione

di una borsa

“evergreen”

con la classica

chiusura a scatto

INTIMO DI STAGIONEIntimissimi segue il trend di stagione

e propone biancheria intima con fiori

delicati che si alternano a pizzi romantici.

Le stesse stampe si ritrovano su bikini,

costumi e piccoli top

E la donnasi veste di papaveri

style

Stampati, ricamati, intarsiati, traforati su ogni genere di materiale. I fiori si prendono la rivincita e,dopo anni di oblio, tornano a invadere gli armadi. Per tutta l’estate, si assisterà a un vero trionfo del-le fantasie floreali, con fiumi di margherite, camelie, papaveri e peonie sparse su eterei chiffon, se-te impalpabili e cotoni. Non c’è collezione che non sia contagiata da questa ventata bucolica. Cheha tra i suoi esponenti più prestigiosi Ken Scott, il cui marchio è tornato di recente sul mercato conuna vitalità prorompente e fantasie fiorite che piacciono anche alle ragazzine.

«Il fiore ha mille vite e aiuta a sognare — spiega Gianfranco Ferré — e, in più, evoca con immediatezza im-magini di femminilità e di dolcezza. Per noi stilisti è avvincente reinterpretare i fiori, tema che ha una grandeversatilità e che può essere declinato con molteplici tecniche».

Tornano gli abiti che sono un inno alla natura ma non c’è nulla di sdolcinato in questa moda estiva, solo ap-parentemente romantica. Infatti, basta vedere come Frida Giannini, la stilista di Gucci, ha mixato i fiori dellacollezione, già in vendita nelle boutique, per rendersi conto che petali e corolle non sono il manifesto di unadonna arrendevole. Anzi. Da Gucci, la maglia a fiori si porta con pantaloni di taglio maschile, proprio per te-nere le distanze da abbinamenti troppo sdolcinati.

Fiori sì, ma per donne grintose, che in amore sono loro a fare la prima mossa. Come le fan dei Dolce & Gab-bana, innamorate delle stampe con i papaveri mescolati alle spighe. «Il rosso dei papaveri è espressione dellapassione — spiegano i due stilisti — sono fiori semplici e sofisticati allo stesso tempo, proprio come le donneche noi vestiamo». Chi, da sempre, propone i fiori è Anna Molinari di Blumarine, ribattezzata la «regina dellerose». Petali e boccioli scarlatti campeggiano su t-shirt, golf, gonne e spolverini, perfetti per donne solari edesuberanti. Anche Alberta Ferretti è una fan del floreale. «Il fiore è simbolo di rinascita e in più stimola il buonumore — dice la stilista — e spero che i miei abiti siano in grado di trasmettere questa sensazione».

Nella folta schiera di stilisti che esaltano il «flower power» c’è anche Valentino: «Adoro i fiori — ammette —non potrei vivere senza. L’orchidea bianca è la mia preferita, insieme alle peonie, alle rose e all’ibiscus. I fioriper me sono una fonte di ispirazione. Sono la felicità. Ecco perché, in ogni mia collezione, c’è sempre un rife-rimento ai fiori». Tra i bucolici spinti, un posto d’onore va ad Antonio Marras che osa fantasie in versione gi-gante accostate in modo apparentemente discordante. Nella sua linea, ma anche in quella di Kenzo che lui di-segna, i ricami floreali si ispirano a quelli tipici della tradizione sarda o a quelli riprodotti su antichi kimonogiapponesi. Un mix tra l’etnico e le antiche tradizioni orientali che Marras sa interpretare alla perfezione.

I fiori dilagano, si impossessano di borse (come nel caso di Fendi, Etro, Dior, Prada e Moschino), di abiti (Ar-mani, Missoni, Mariella Burani, Amuleti J., Coveri e Vuitton) e anche di gioielli. Coco Chanel, che ha fatto del-la camelia il suo simbolo, ha una intera col-lezione di preziosi con petali, corolle e pi-stilli in zaffiri, rubini, smeraldi e diamanti.Tanto che, nella storia della moda, la ca-melia si associa immediatamente a CocoChanel. Fiori anche per la gioielleria di Ch-ristian Dior, dove l’oro si fonde con smaltie tutte le più belle pietre preziose.

FioriUN’ESPLOSIONEDI PETALIUn fiore gigante

con tanto di petali

coloratissimi

per la borsa

di Braccialini

che crea un effetto

“gardening”

LAURA ASNAGHI

OMAGGIO ALLA CAMELIAÈ la classica borsa Chanelche, in questa versione,

rende omaggio ai fiori a partire

dalla camelia,

il simbolo della maison

IL GIARDINOANCHE A TAVOLAQuella dei fiori

è una piacevole

mania che va oltre

l’abbigliamento

e dilaga anche sui

piatti della collezione

Driade “Kosmo Tws

Rami” disegnata

da Vittorio Locatelli

IN BIANCO E NEROFiori in bianco

e nero, effetto

optical art,

per le borse

a tracolla

di Stefanel.

La stessa stampa

floreale si ritrova

su gonne

e camicie

che si ispira

alla moda

dei figli dei fiori

L’ESTATEA COLORI

Fiori e colori

a go-go

per la

collezione

estiva

di Benetton

con abiti,

pantaloni

e giacchini

fioriti

FLOWER POWERAnche Sisley

esalta il “potere

dei fiori” con abiti

estivi, tagliati

come una

sottoveste

dalle stampe vivaci

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 21 MAGGIO 2006

Il vintage contadinodelle ragazze hippie

SULLE SPALLECON CLASSEÈ in seta preziosa

lo scialle da gran

sera con lunghe

frange (nella foto

a sinistra), firmato

da Valentino

I ramages di fiori

dai colori delicati

sono ricamati

su un fondo beige

PASSEGGIANDOSOTTO IL SOLEFiori stilizzati

per il cappello Louis

Vuitton, con tanto

di fascia, che celebra

un’estate

all’insegna dei colori

della natura

STIVALIPER L’ESTATEGli stivali estivi

realizzati

da Giuseppe

Zanotti

sono in canvas

di cotone

con fiori

ricamati a mano

Se, come sostengono alcuni, un nome può influenzare il destino, si-curamente il mio l’ha fatto, eccome. Fiorucci è in realtà un dimi-nutivo che vuol dire piccoli fiori... Non è quindi un caso che io ab-

bia vissuto (e continui a vivere) tutta la mia vita con lo spirito leggero esognante di un figlio dei fiori e che i fiori siano diventati anche il leit-mo-tiv delle mie creazioni, quasi una magnifica ossessione.

Ho sempre guardato con ammirazione e stupore a questa magia chesi rinnova a ogni stagione: la natura si addormenta e, quando è il mo-mento giusto, come per incanto, allo scadere di un’ora, di un minuto, diun secondo, in qualsiasi luogo e a qualsiasi latitudine si risveglia e com-pie il miracolo. In un punto preciso della Terra, ma anche di un sempli-ce vaso sul nostro balcone, spunta una creatura bellissima e colorata,uguale a migliaia di altre, ma diversa. E siccome nella vita abbiamo con-tinuamente bisogno di favole, questa mi sembra sia davvero tra le piùintriganti e, soprattutto, non dobbiamo fare nulla per inventarcela, per-ché ce l’abbiamo lì, continuamente a portata di mano e di sguardo.

Una bellezza spesso paragonata a quella femminile: non si dice infat-ti «bella come un fiore»? La bellezza ma anche la delicatezza con una va-lenza profonda. Il fiore è da sempre inteso come simbolo di nascita e divita, eterna tentazione di pittori, musicisti, poeti. La primavera del Bot-ticelli ne è un esempio eclatante, un trionfale e armonioso incontro traqueste felici similitudini.

Anche nel mio lavoro il fiore e la decorazione floreale hanno sempreavuto una parte molto rilevante. Nell’immaginario collettivo, se si pen-sa allo stile di Elio Fiorucci, vengono infatti in mente soprattutto i fiori ei colori vivacissimi, quasi invadenti. Ne ho davvero utilizzati di tutti i ti-pi, dalle rose inglesi descritte nel Gattopardo, con la loro sensuale car-nalità, all’archetipo del fiore stilizzato e riprodotto all’infinito dal mae-stro della pop-art Andy Warhol. Fino all’ibiscus dei mari tropicali e ai fio-rellini di quei vestitini un po’ imperfetti e sbilenchi che hanno un non soche di conosciuto, di polveroso e nello stesso tempo di molto moderno,come se fossero appartenuti alle madri, alle nonne, alle donne contadi-ne ma anche alle ragazze hippy e trasgressive che hanno segnato la sto-ria degli anni Settanta.

Perché penso che la memoria sia importante e il fiore sia da sempre alcentro di una complessa rappresentazione interiore, un’esperienza to-tale che coinvolge tutti i sensi, un’incomprensibile alchimia emotiva.Ma ciò che mi sembra ancora oscuro e misterioso è come possa quellasua apparente fragilità ispirare sentimenti e pensieri sicuramente tra ipiù intensi.

Ora i fiori ritornano, in tutte le collezioni estive, come fresca deco-razione del corpo. Ma non solo. I fiori tornano anche nel design, conmobili, accessori e oggetti d’uso quotidiano che si rifanno alla bel-lezza incontaminata della natura. I tempi sono cambiati e sono cam-biate le regole estetiche ma l’apparenza romantica degli abiti con-temporanei trasmette, ancora una volta, tutta la loro forza magica,seduttiva e miracolosa.

DISEGNATI PER STUPIRESono super decorati gli zoccoli,

con tacco alto, della linea

Moschino. Sulla fascia è

applicato un fiore gigante

con otto petali ritagliati in pelle

ELIO FIORUCCI

STILE INGLESESono fiori

che si ispirano

alla campagna

inglese quelli

che Ballantyne

ha usato per la sua

collezione estiva:

le righe

si mescolano ai fiori

con delicatezza

UNA ROSA AI PIEDISono di Christian Lacroix,

il geniale stilista dell’alta moda francese,

i sandali con rosa gigante

che si portano anche con un tubino

IL FASCINODELLA ZEPPA

La tendenza

contamina

anche Miu Miu

che punta

sui sandali

con zeppa e tacco

alto decorati

con tessuti

dalle stampe

floreali

L’ORA DEL TÈNel revival

del floreale

non poteva

mancare

la classica

tazzina da tè

inglese,

della linea

“Royal Albert” ,

distribuita

in Italia

da Michielotto

I NUOVI GIOIELLIQuesto anello con fiori

smaltati a mano,

mescolati a pietre

preziose, fa parte

della collezione Dior

Joaillerie disegnata

da Victoire de Castellane

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52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21 MAGGIO 2006

l’incontroDivi discreti

LONDRA

«Dio ha deciso di re-galare il mondo aBudda. Così com-pra un nastro per

infiocchettarlo. Quarantaduemila chi-lometri di nastro, equivalente alla cir-conferenza della Terra. Ma al momentodi infiocchettarlo, si rende conto che glihanno venduto un metro di nastro in ec-cesso. Quanto spazio dovrà lasciare trala crosta terrestre e il nastro per com-pensare quel metro in più?». Un giornoa pranzo con Brian Eno, in un ristoranteitaliano di Londra, può diventare un’e-sperienza impegnativa. Sceglie lui tuttele pietanze per gli invitati. Pretende diindovinare i gusti di ognuno, e ci riesce.Poi, all’antipasto, incomincia a sfidare icommensali con quiz che mandano tut-ti in tilt, irrisolvibili senza l’uso della cal-colatrice (severamente proibita dal re-golamento).

Nel loft dell’artista l’atmosfera è piùdistesa. Sulla lavagna all’ingresso c’è at-taccato il promemoria per un concertodi Kanye West. «Non tragga conclusioniaffrettate. Ho due figlie, di quattordici esedici anni, al concerto ci andrò con lo-ro, non vado pazzo per il rap», puntua-lizza. L’inventore della musica d’am-biente protegge trentacinque anni distoria d’artista in un luminoso openspace di Notting Hill. Alcuni operai stan-no cercando di far uscire dalla porta sulgiardino un magnifico esemplare di pia-noforte a coda che per qualche giorno èrimasto nello studio. «Un ospite d’ono-re», dice Eno, accarezzandolo con gli oc-chi per l’ultima volta. «In realtà io l’hosolo sfiorato, a suonarlo ho chiamatouna professionista, Joanna McGregor.Mi sono limitato a registrare alcune suemagnifiche esecuzioni di partiture diJohn Downham».

Brian cataloga suoni; solo frammentidi tutto quel che compone e usa per lesue installazioni, a Pechino, Lione, Mo-naco, León, Istanbul, finiscono su disco.Un archivio vivo e prezioso, che giace lìtra biografie di Elvis, volumi sui costrut-tivisti russi e Vendere la guerra-La pro-paganda come arma d’inganno di mas-sa, il libro in cui Sheldon Rampton eJohn Stauber teorizzano che l’11 set-tembre è stato solo uno strumento pergiustificare l’invasione dell’Iraq. In unarticolo pubblicato nel 2003 sull’Obser-

stre istituzioni, quindi dobbiamo lotta-re per cambiarle. Ma ci vuole fegato perfare quel che fa, trattare con quella gen-te, questo glielo riconosco».

L’ultima installazione l’ha fatta a Pe-chino, al Ritan Park, «un cerchio magicoche una volta veniva usato per funzionireligiose. Pensavo che la Cina fosseuguale al Giappone, dove tutti sonoschiavi della propria gentilezza. Invecelì ci si danno pacche sulle spalle come inItalia. La più grande qualità dei cinesi èla flessibilità, ed è esattamente questoche gli occidentali temono, la capacitàdi adattarsi facilmente a un nuovo am-biente, a una nuova professione. La Ci-na è un paese affascinante per uno comeme che non ha il culto della personalità.Tutto nella cultura occidentale è un in-citamento all’autocelebrazione e alconsumismo: diventare più ricchi, ave-re una macchina più grande, vestiti piùcostosi, donne più belle. Più consumipiù sei importante. Più consumi più seivisibile. Non mi piace, sono felice chequesto non sia un problema che mi af-

ver, Eno si pronunciò chiaramente con-tro l’occupazione militare, spiegandoquanto sia «difficile controllare la mani-polazione delle notizie che i governi fan-no per assecondare interessi ideologicie politici. Il controllo sociale delle de-mocrazie occidentali è più sottile dellapropaganda. Io infatti lo chiamo “prop-agenda”, non il controllo del nostropensiero ma delle nostre opinioni».

«Brian, Brian, ci sei?», la voce arrivastridula dal vicolo, Eno fa segno a tutti ditacere. «Dille che non ci sono», sussurraalla sua collaboratrice, «oggi non hotempo per Prue». «Brian non farti nega-re, ti ho visto», squittisce Prue, prima cheJane («la produttrice del produttore», lachiama lui) abbia il tempo di proferireparola. «Ho ospiti oggi Prue, ci parliamodomani». La vecchina del condominiobussa quando ne ha voglia, e soprattut-to quando sente buona musica usciredal vicolo. «Poverina, è in crisi di asti-nenza, per giorni ha ascoltato le note delpianoforte di Joanna, ma non ha mai po-tuto bussare alla porta perché avevo ap-peso fuori un cartello che vietava achiunque di disturbare».

La sobrietà, il buon gusto e l’intelli-genza che lo circondano non lascianointuire quel passato da rocker, morto esepolto, con i Roxy Music. Brian Eno, 58anni, esordì nel 1971 con rimmel, fon-dotinta, lunghi capelli biondi (oggi la te-sta è lucida come una palla da biliardo)e piume di pavone. Era geniale con i sin-tetizzatori in quel contesto rock, ma nonsi sentiva tagliato per la musica dei gran-di numeri e se ne andò dopo due capo-lavori per diventare un professore dimusica minimale e un inventore disound landscapes, paesaggi sonori. Og-gi, più che produttore, è un maître-à-penser della musica contemporanea.Uno stilista dei suoni che per DavidBowie ha progettato la leggendaria trilo-gia berlinese (Low, Heroese Lodger), peri Talking Heads l’inconfondibile mini-mal punk fiore all’occhiello di DavidByrne, e per gli U2 il suono epico che haesaltato la voce dell’evangelizzatore piùpotente della storia del rock.

«Non ci sono parole per definire l’in-telligenza di Bono. Lo capisci subito eimmediatamente dopo ti rendi contoche è più intelligente di quanto pensavi.Lavorare con lui è stato facile: io, al con-trario delle rockstar, mi sveglio presto ecomincio in tempo a organizzare il lavo-ro per la giornata. Quando gli U2 arriva-vano in studio, avevamo già parecchieidee sulle quali discutere. Poi li lasciavoda soli a elaborarle, ma li caricavo anchedi “compiti a casa”, spunti che il giornosuccessivo pretendevo di trovare svi-luppati. Solo su una cosa Bono e io nonsiamo d’accordo. Lui pensa che percambiare il mondo sia indispensabilescendere a patti con le istituzioni esi-stenti, di conseguenza convincere il go-verno americano a spendere più soldi inaiuti. Spero che ci riesca, ma la mia posi-zione è diversa, io ritengo che il proble-ma fondamentale siano proprio le no-

fligge. Non mi sono mai svegliato la mat-tina pensando “oggi vado a comprarmiun’automobile”. Dimenticherei anchedi comprare il pane se non lo annotassisulla mia agenda».

I giornali inglesi continuano, annodopo anno, a vagheggiare una riunionedei Roxy Music, lo schivo Brian non sipreoccupa più neanche di smentire. Chilo conosce sa che un suo ritorno nell’a-rena del rock sarebbe un paradosso.Non solo l’artista non ama rivangare ilpassato, ma raramente parla della suamusica, che per definizione è discreta,mai invadente e studiata per migliorareacusticamente l’ambiente in cui è diffu-sa (Music for airports fu composto conquesto obiettivo). «Se c’è una cosa chemi rompe è parlare di me. Ho 58 anni,cos’altro ho da dire? Non mi consideroun soggetto interessante. M’indigna laconfusione, particolarmente pronun-ciata in Italia, che si fa tra una persona ela sua arte. Non c’è nessuna connessio-ne tra l’opera e il suo autore, e se c’è nonmi interessa. La musica pop si nutre pro-prio di questo ambiguo rapporto, gene-rato da un’immagine romantica cheviene attribuita all’artista. Questo è quelche mi ha allontanato dal rock, l’equa-zione indispensabile tra personalità ecelebrità che trovo falsa, diseducativa,insopportabile. Oggi, non paghi di ido-latrare i divi, abbiamo incominciato aseguire morbosamente il privato di gen-te comune, attraverso i reality show.Una vera e propria piaga sociale: do-vremmo prendere dei provvedimenti ecurarci. Per decenni la capitale di questafollia è stata l’America. Ma adesso gliUsa si dibattono in problemi ben piùgravi: all’interno degli States vivono duecomunità distinte che sono diverse al-meno quanto i tedeschi e gli albanesi:quelli che hanno votato per Bush e quel-li che non hanno votato per Bush. È unafrattura religiosa, politica, sociale edeconomica che ha spaccato la popola-zione di fronte alle scelte più importan-ti del Paese. Continuano ad erigere mu-ri sempre più alti per difendere il proprioterritorio, controlli capillari negli aero-porti, impronte digitali e fotografie, manon hanno ancora capito che il nemicoè dentro le mura. E a questo punto la miavisione politica non coincide più conquella di Bono».

A malapena ricorda di aver dato i dirit-ti a Nanni Moretti per inserire la sua in-cantevole By this river (da Before and af-ter science, 1977) nella colonna sonora diLa stanza del figlio. «Un bel film, ma oranon ricordo la trama. A proposito... L’al-tro giorno ho visto il film più bello degliultimi anni, Caché, di Michael Haneke,con Daniel Auteuil e Juliette Binoche».

La collaborazione con Paul Simon,per il quale ha prodotto Surprise, un di-sco appena uscito, sembra preistoria.All’orizzonte ci sono mille altri impegni,e nessuno lo vede come protagonista.«Non penso più a me stesso come a unmusicista, mi trascuro. Dovrei prender-mi più cura di me. Cerco di scrivere ap-

punti su un’agenda, per ricordare che èl’ora di comprarmi un nuovo paio discarpe o un abito. Quindici minuti algiorno per ricordarmi che esisto. La miaesistenza è in bilico tra due estremi:creatività e banalità, tipo rispondere al-le mille domande che la gente mi fa perposta o per e-mail. Quando compongoo creo, sono completamente fuori da mestesso, in una sorta di trance. Ho sempreavuto l’abilità di arrendermi completa-mente a quel che ascolto o che faccio, discomparire quasi. Quando ho nelleorecchie una musica che mi piace, nonsono più io. Ecco perché mi è semprepiaciuto ascoltare canzoni, ammirarequadri, guardare film, perché mi annul-lano, ed è una sensazione che mi piace.Fin da piccolo, fin da quando ascoltavoi soldati americani cantare quelle ma-gnifiche canzoni doo-wop. Ho presotutto da mio padre, faceva il postino (no-nostante il nome altisonante del figlio,Brian Peter George St. Baptiste de la Sal-le Eno), e non mi ha mai insegnato cheun uomo dovrebbe sprecare del tempoa pensare a se stesso. Prendiamo adesempio gli ultimi due giorni della miavita: come potevo pensare a me con unpianoforte come quello in casa e unafantastica pianista che lo suonava? Misono isolato dal mondo, ho staccato iltelefono, sbarrato la porta. Mi spavental’impossibilità della gente di stare in unposto alla volta. Sul treno tutti guardanogli sms sul cellulare, in automobileascoltano la radio, a casa la tv. Questo èun problema che mi rende molto su-scettibile».

Inutile insistere a parlare di musica,Brian è in partenza per l’Egitto, ha già lepiramidi negli occhi. «Cosa dovrei fareper non essere un turista banale?», chie-de. Poi conclude: «La musica non è maistata una lingua universale. Meno chemai ai tempi di Bach e Beethoven. Neglianni Sessanta e Settanta credevamoche fosse riuscita a smuovere le co-scienze e a parlare una sorta di linguauniversale, ma era solo presunzione.Chi ha mai ascoltato un’opera cinese? Ètotalmente incomprensibile al nostroorecchio, e il pubblico esplode in ap-plausi fragorosi nei momenti che a noisembrano meno adatti». La scatola ne-ra che contiene le “Strategie oblique”,sorta di tarocchi che ha elaborato conPeter Schmidt, è sul tavolo. Le usa sem-pre? «Sì, ogni giorno. Sono i miei “IKing”». Fruga nel mazzo, estrae unacarta, c’è scritto: «Resisti al cambia-mento con tutte le tue forze».

La musica non è maistata una linguauniversale. Negli anni’60 e ’70 credevamoche fosse riuscitaa smuoverele coscienze, ma erasolo presunzione

Esordì nel 1971 con rimmel, lunghicapelli biondi e piume di pavoneOggi, a 58 anni, la sua testa è lucidacome una palla da biliardo e il suopassato da rocker è morto e sepolto

Il genio dei sintetizzatoriè diventato un inventoredi “paesaggi sonori”e un maître-à-penserdella musica: “ M’indignala confusione tra unapersona e la sua arteÈ questo che mi ha

allontanato dal rock, l’equazionetra personalità e celebrità che trovofalsa, diseducativa, insopportabile”

GIUSEPPE VIDETTI

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