Diversità e integrazione . L’immagine antropologica ... · Tralasciando le singole differenze...

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1 Diversità e integrazione. L’immagine antropologica rispetto alla diversabilità nella legislazione italiana sull’integrazione scolastica delle persone in situazione d’handicap. Di Alessandro Pizzo * * Alessandro Pizzo è Dottorando di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Collabora con il locale Laboratorio di Logica (www.fieri.unipa.it/lablogica ). * * Pareyson 2005 p. 82. * * * Collodi 1979 5 . * * * * Pontiggia 2003 pp. 35 – 6. La scuola dev’essere oggetto di cura particolarissima da parte dello stato, perché i suoi effetti si ripercuotono in bene sulla società intera, sì che si potrebbe anche dire che in questo senso scuola per tutti significa scuola a vantaggio di tutti * * Pinocchio andò a scuola. Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino * * * Se un bambino disabile viene immesso inaspettatamente in un gruppo di bambini, tutti lo guarderanno dapprima con curiosità o stupore o sgomento, secondo l’inesorabilità dei punti di vista. Gli unici che conserveranno un’attenzione concentrata, una partecipazione ambigua e un occhio torbido saranno quelli che cercano in lui uno specchio. Alcuni, avvinti quanto sopraffatti dalla paura di riconoscersi, reagiranno addirittura con la fuga o l’aggressività. Ma tornare è il loro destino vischioso, la loro sconfitta rassicurante * * * *

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Diversità e integrazione. L’immagine antropologica rispetto alla diversabilità nella legislazione italiana sull’integrazione scolastica delle persone in situazione

d’handicap. Di Alessandro Pizzo∗

∗ Alessandro Pizzo è Dottorando di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Collabora con il locale Laboratorio di Logica (www.fieri.unipa.it/lablogica). ∗∗ Pareyson 2005 p. 82. ∗∗∗ Collodi 19795. ∗∗∗∗ Pontiggia 2003 pp. 35 – 6.

La scuola dev’essere oggetto di cura particolarissima da parte dello stato, perché i suoi effetti si ripercuotono in bene sulla società intera, sì che si potrebbe anche dire che in questo senso scuola per tutti significa scuola a vantaggio di tutti∗∗

Pinocchio andò a scuola. Figuratevi quelle birbe di

ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino∗∗∗

Se un bambino disabile viene immesso

inaspettatamente in un gruppo di bambini, tutti lo guarderanno dapprima con curiosità o stupore o sgomento, secondo l’inesorabilità dei punti di vista. Gli unici che conserveranno un’attenzione concentrata, una partecipazione ambigua e un occhio torbido saranno quelli che cercano in lui uno specchio. Alcuni, avvinti quanto sopraffatti dalla paura di riconoscersi, reagiranno addirittura con la fuga o l’aggressività. Ma tornare è il loro destino vischioso, la loro sconfitta rassicurante∗∗∗∗

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(tavole tratte da: Nidasio 1997 pp. 32; 47 – 8)

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1. Cornici. L’idea secondo la quale le nostre società sono permeate dalla differenza affonda

indubitabilmente le proprie radici nella costituzione culturale moderna entro la quale ha più valore la tutela della diversità che l’omologazione (sempre: l’ inclusività che l’emarginazione; l’ integrazione che l’esclusione).

Paradigma ancor più vero se si pone mente al fatto che assai spesso non è chiaro cosa sia né quale sia la normalità alla quale si vorrebbe ridurre la condizione altra. La lezione fondamentale dell’Illuminismo è tutta qui: le differenze esteriori non hanno importanza dal momento che v’è la ragione la quale (universalmente) ci rende uguali (ed egualmente cittadini del mondo).

È pur vero che il postmoderno ha pesantemente criticato questa concezione, rilevandone un forte etnocentrismo (in genere, occidentale), ma resta innegabile l’utilità del principio di fondo, secondo il quale siamo diversi ma uguali1.

Il riconoscimento della diversità è eredità della nostra condizione culturale entro la quale non si tratta di negare la differenza (o, le differenze), quale che essa sia, ma di garantire un equo trattamento che non passi attraverso dissomiglianze per operare disuguaglianze.

È, dunque, innegabile asserire che siamo tutti diversi e che, al tempo stesso, siamo tutti uguali. Non si tratta di una componente livellatrice, ma di riconoscere che al di là delle apparenze v’è qualcosa che al fondo ci rende uguali.

L’ immagine antropologica occidentale, secondo la quale chi soffre di un handicap (sebbene, sia del tutto lecito dire che quanti versino in una condizione di disabilità abbiano un’abilità di tipo diverso, ma non che ne siano del tutto privi) non va discriminato, ci consente di poter asserire che lo sviluppo della persona umana deve procedere oltre le differenze esteriori (e, quasi, prescindendo dagli ostacoli più o meno oggettivi che tendono ad impedirlo). A riprova del fatto che la cultura non è un fenomeno oggettivo e statico, ma sempre una concreta pratica di vita di una data comunità2.

2. La lettera e la storia. Tralasciando le singole differenze che poco possono incidere al pieno

soddisfacimento delle aspettative di vita dei singoli, ci poniamo il problema del riconoscimento da un lato della diversità e, dall’altro, dell’integrazione delle persone affette da handicap. Infatti, se siamo diversi (e come potrebbe essere diversamente?) com’è possibile garantire l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, tra “normali”3 e coloro i quali, purtroppo, vivono con molti ostacoli la propria vita? Anche in questo caso la ragione giuridica vive in simbiosi con la dimensione antropologica umana al punto da pensare da un lato, l’enunciazione di

1 Sui limiti e sul valore del relativismo culturale, Jervis 2005. 2 Geertz 1994. 3 Art. 3, 1° comma, Cost.

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principio dell’uguaglianza formale degli uomini (per il semplice fatto di essere tali), e dall’altro , l’enunciazione dell’uguaglianza sostanziale degli stessi, attribuendo alla res publica il compito di garantirlo, procedendo alla rimozione di tutti gli ostacoli che possano impedire o ostacolare il pieno e completo sviluppo umano delle persone4. Ma tale fondamento antropologico, pur molto nobile, resta immobile (non sortisce alcun effetto, e meno che mai proprio quello positivo che si vorrebbe) se non si segue una via legislativa che ne dia attuazione, altrimenti si finisce col negare il principio secondo il quale «gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale»5.

Purtroppo, come spesso accade, devono passare parecchi anni prima che la sensibilità politica si accorga del problema, o raggiunga la necessaria compattezza (o, se si preferisce, efficace decisione) per affrontare la questione. Infatti, dalle altisonanti enunciazioni del 1948 bisogna aspettare sino agli anni ’70 per vedere i primi sintomi della tendenza in virtù della quale la migliore educazione possibile per chi soffre di ostacoli (gli handicaps, per l’appunto) non risiede nella differenziazione per classi e per scuole (le cosiddette “scuole differenziali” o “speciali”), ma nella piena e completa integrazione nel mondo reale dei normodotati (il principio è il seguente: la disabilità, quale che sia, non annulla la dignità umana e i potenziali di sviluppo che qualunque essere umano possiede, tale da non potersi realizzare nell’unico mondo che conosciamo)6.

L’idea è quella secondo la quale il diverso va trattato come chiunque altro (e quest’ultimo, da parte sua, può arricchire la propria esperienza di vita, vivendo a stretto contatto con i meno fortunati). D’altra parte, la nostra stessa Carta è figlia della tradizione culturale secondo la quale la diversità non è un problema, ma una ricchezza (il riconoscimento del pluralismo in luogo della omogeneizzazione).

Dunque, si comincia a profilare la prospettiva che vede nello svantaggiato non più l’elemento marginale, magari da escludere ancora di più, ma, al contrario, un elemento sì diverso dagli altri ma da integrare nel vissuto collettivo della società (anche il disabile, infatti, è membro della società, non un elemento ad essa eterogeneo; in più, è in una situazione di handicap non perché handicappato, ma perché lo è la realtà sociale presso la quale vive, perché è quest’ultima a produrre situazioni inidonee alla sua vita, a frapporre continui ostacoli tra lui e la sua vita da normale, la sua vita eguale a quella di tutti gli altri). Ove, attenzione, l’integrazione non va assolutamente intesa quale una forma di occultamento delle differenze (in passato perseguita tramite l’ospedalizzazione e/o la chiusura in forme educative separate da quelle comuni), ma come la necessità di garantire un minimo (compatibilmente con i singoli casi) di benessere che può essere dato solo dal

4 Art. 3, 2° comma, Cost. 5 Art. 38 Cost. 6 Art. 28, L. 118/1971. tuttavia, e questo lungo la strada che porta all’ideale della piena integrazione del soggetto disabile, la sentenza n. 215/1987 Cort. Cost. abroga l’art. 28 della L. 118/1971 in quanto lesivo dell’art. 3 Cost. poiché l’iscrizione a qualunque istituto deve essere garantita.

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contatto con i propri simili, non dall’esclusione né dalle classi differenziali né tantomeno dalle scuole speciali7.

Ancora, solo con la L. 104/92 si inquadrano le coordinate fondamentali del riconoscimento della diversità, della sua tutela e della sua integrazione (anche se non mancarono tanti preocorrimenti, in primis la Commissione Falcucci (così come la L. 118/71 prevedeva che il percorso formativo della scuola dell’obbligo passasse per la scuola comune, e non per quella speciale, aprendo di fatto alla loro abolizione e all’inizio dell’attuale processo integrativo delle persone disabili a scuola prima, nella vita sociale poi) che elaborò la prima idea, utopica e forte, mirante alla piena integrazione di disabili e normodotati nella vita civile, come in quella scolastica, non distinta né disgiunta dalla prima, ma l’unica ove, forse, purtroppo, più visibile è lo sforzo, umano e materiale, di andare oltre le differenze di partenza, di tentare di rimuovere gli ostacoli, di diminuire lo svantaggio8).

Infatti, se siamo diversi (ed uguali) perché chi già vive in una condizione di privazione dovrebbe incontrare (ulteriori) ostacoli nel corso della propria vita? V’è il bisogno di riconoscere tutta una serie di facilitazioni e di garanzie al fine di garantire un miglior adattamento (ce ne scusino i biologi) all’ambiente sociale di appartenenza9. Essendo l’ambiente sociale un insieme di persone e di relazioni tra persone, colui il quale si trova in una condizione di handicap (o, di ostacolo al pieno raggiungimento del completo sviluppo della sua persona umana) deve poter essere aiutato a instaurare un soddisfacente complesso di relazioni sociali10 (cioè, una buona integrazione sociale, tanto cognitiva quanto lavorativa).

Resta comunque la constatazione del fatto che ancora molto ci sia da fare, molto ancora da precisare nel dettaglio dato che, com’è antica pratica legislativa italiana, prima si fanno le grandi cornici, i grandi inquadramenti, le “leggi quadro” (in una tendenza di marketing politico, basato sull’effetto dell’annuncio), rinviando a dopo le misure atte a realizzare le enunciazioni, a dar concretezza ai principi, e così via (ove, naturaliter, il principale ostacolo o problema è la riserva economica).

3. Il bon savage, lo studioso, la cultura.

7 Laddove, invece, la tendenza opposta dell’integrazione, deve valersi di strumento differenti da quello comuni, di una pedagogia speciale (Canevaro 2000) o di una didattica speciale (Ianes 20052), considerato anche che l’aspetto macroscopico attraverso il quale mettere in atto politiche di integrazione è quello scolastico (dopo, ovviamente, aver trovato un accordo sulla definizione di intelligenza che passa gratificare la stessa diversità o diversabilità (Lefrançois 1999 p. 190). 8 Nel quale contesto, tuttavia, è bene osservare come la tendenza non sia quella di accordare (pseudo) privilegi ad alcuni studenti rispetto agli altri, ma quella di riconoscere a ciascun alunno, pur nelle innegabili restrizioni di bilancio, il riconoscimento dei propri (e differenti) “bisogni educativi speciali” (Ianes 2005; Canevaro 1999). Di contro alla persistente, e spesso la risorgente, tentazione di ridurre la questione della “presa in carico” della diversabilità all’assegnamento di un “insegnante di sostegno” (Cornoldi 1999 p. 23). 9 In tale direzione, ad esempio, va la nomenclatura ICF elaborata dall’OMS (2002) che, rispetto, al DSM IV, elaborato dall’Associazione psichiatrica nordamericana (1998) ha sott’occhio non solo, e non tanto, la causa organica dello svantaggio, ma il complesso del buon adattamento generale ai fini della qualità della vita della persona disabile. 10 Non si tratta solo di apprendere qualcosa, ma di poter diventare “persone”, esattamente come tutti gli altri; non si tratta solo di apprendimento, ma di poter realizzare un “progetto di vita” adulta, di poter contribuire anche tramite il proprio lavoro alla produzione della ricchezza del Paese; non si tratta di dar loro il “pesce”, ma di imparar loro a pescare, ad essere autonomi, a poter conseguire una (accettabile, rispetto agli standard occidentali) qualità della vita.

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Sono io. Sei tu. Ma sei come me. No. Siamo due. Siamo, quindi, diversi. Ma

diversi diversi? No, diversi. Ma sempre due. Allora, io non sono te, ma come te. Si. Siamo uguali. No. Non proprio. Siamo diversi comunque. Eppure ci assomigliamo. Siamo diversi. Ma uguali. Ecco, siamo uguali nella diversità.

L’Illuminismo, peccando forse di presunzione, credeva che in nome della

comune ragione fosse possibile reintegrare chi come i bambini selvaggi della Francia di fine ‘700 (il cd. idiotismo o il mito del bon savage, costruzione concettuale idealizzata che serviva politicamente a detrarre il valore della civiltà occidentale) non aveva mai conosciuto la civiltà.

L’Illuminismo credeva anche che i selvaggi, in genere, mitizzando di certo la realtà delle cose, per il loro esser rimasti puri, senza la contaminazione della sofisticazione moderna, fossero buoni intrinsecamente, non avendo conosciuto la corruzione dei costumi e l’uso della violenza che, invece, la nostra storia secolare mostra ad abundantiam.

Lo studioso, in genere, tende a peccare in questi termini, tende a sbagliare livello di comprensione della realtà. E se ciò accade già a livello di mondo fisico, figuriamoci quanto può essere il livello di errore nel caso della realtà sociale11. Non tanto perché quest’ultima può esser costruita mediante le pratiche di vita, ma perché il descriverla ne comunica solo una parte, lasciando nel dubbio, nell’ignoranza altri aspetti, in genere la globalità (è questo il dilemma di tutte le scienze umane: cogliere il tutto o le parti?).

Cos’è la cultura? Non un insieme di concetti, di idee, di credenze, non soltanto almeno, ma anche il concreto insieme di pratiche sociali (individuali e cooperative) che una società realizza (p.e. la lingua; gli usi; i costumi; la tradizione; le forme simboliche; i rituali; l’accordo intersoggettivo attorno ai principi di base; la visione del mondo; etc.).

Qual è allora la posizione culturale rispetto all’handicap? L’idea secondo la quale si consegue davvero il pluralismo se, e solo se, a chi vive una condizione di ostacolo al proprio pieno sviluppo si garantisce la speranza dell’integrazione, della messa in opera di tutta una serie di provvedimenti finalizzati alla riduzione dell’handicap (in quest’ottica si leggono correttamente le misure che prevedono agevolazioni scolastiche e concorsuali, sino alle riserve, per quanti sono disabili). Infatti, rispetto al problema organico (il cd. deficit o la malattia vera e propria), causa dell’handicap, di natura genetica o a seguito di danni irreparabili, nulla può la scienza, nulla la responsabilità dell’uomo tecnologico (Jonas), solo la società, solo la civiltà, solo la cultura12.

Il soggetto handicappato non è tale per sua natura, ma perché la società assume livelli funzionali tali da escludere i non funzionali, i non – normodotati, dalla vita sociale. L’ostacolo (o, svantaggio), allora, non è una malattia, ma la concezione

11 Berger – Luckmann 2002. 12 Pontiggia 2003 pp. 157 – 158.

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che una data cultura attribuisce a forme (più o meno durature) di deficit (cognitivo e/o motorio).

Utile appare allo scopo il seguente schema13 riepilogativo delle (possibili) cause dell’handicap:

Sono cioè cause, di possibili deficit del sistema organico, le seguenti:

1. organizzazione sociale ed ambientale; 2. comportamento individuale; 3. incidente; 4. biologia.

alle quali corrispondono i seguenti fattori di rischio:

1.1 – fattori socioeconomici; 1.2 – ambiente fisico; 1.3 – salubrità alloggi e urbanistica; 1.4 – organizzazione dei servizi; 1.5 – posto di lavoro;

13 Tratto da: Canevaro 2000 p. 13.

Fattori di rischio _ _ _ _ _ _ cause

Capacità _ _ _ _ _ _ incapacità

Fattori ambientali _ _ _ _ _ _ ostacoli

Abitudini di vita _ _ _ _ _ _ situazioni di handicap

Sistemi organici _ _ _ _ _ _ deficit

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2.1 – rischi sociali, culturali; 2.2 – rischi familiari; 2.3 – violenza; 2.4 – nutrizione; 2.5 - tabagismo, alcolismo, tossicomania; 2.6 – sedentarietà; 2.7 – igiene; 3.1. incidenti di lavoro; 3.2 – incidenti della strada; 3.3 – incidenti domestici; 3.4 - incidenti durante lo sport e lo svago; 4.1 – rischi genetici; 4.2 – rischi perinatali; 4.3 – rischi patogeni; 4.4 – rischi organici. Mentre, i sistemi organici, sui quali possono incidere i fattori di rischio, sono: a) sistema nervoso; b) sistema auricolare; c) sistema oculare; d) sistema digestivo; e) sistema respiratorio; f) sistema cardio – vascolare; g) sistema urinario; h) sistema endocrino; i) sistema ematopoietico e immunitario; l) sistema riproduttivo; m) sistema cutaneo; n) sistema muscolare; o) sistema osseo e articolare; p) morfologia. Invece, sono le capacità (e, dunque, le possibili relative incapacità): 1. capacità collegate alle attività intellettive; 2. capacità collegate al linguaggio; 3. capacità collegate ai comportamenti; 4. capacità collegate ai sensi e alla percezione; 5. capacità collegate alle attività motorie; 6. capacità collegate alla respirazione; 7. capacità collegate alla digestione; 8. capacità collegate all’evacuazione; 9. capacità collegate alla riproduzione;

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10. capacità collegate alla protezione e alla resistenza. Ancora, sono rispettivamente fattori sociali ed ecologici i seguenti:

Infine, sono abitudini di vita le seguenti:

1 – fattori sociali 2 – fattori ecologici

1.1 – organizzazioni socio – economiche 1.1.1 – struttura familiare; 1.1.2 – sistemi politici e strutture governative; 1.1.3 – servizi giuridici; 1.1.4 – organizzazione e servizi economici; 1.1.5 – servizi sanitari e servizi sociali; 1.1.6 – servizi educativi; 1.1.7 – servizi delle infrastrutture pubbliche; 1.1.8 – organizzazioni comunitarie. 1.2 – regole sociali 1.2.1 – diritto; 1.2.2 – valori e atteggiamenti

2.1 – natura 2.1.1 – geografia; 2.1.2 – clima; 2.1.3 – tempo. 2.2 – sistema di coordinamento 2.2.1 – architettura; 2.2.2 – pianificazione territoriale; 2.2.3 – tecnologia.

Nutrizione

1. regime alimentare; 2. preparazione alimenti; 3. assunzione dei pasti.

Relazioni familiari

1. affettività familiare; 2. relazioni coniugali; 3. cure parentali; 4. altre relazioni parentali; 5. altre relazioni di parentela.

Condizione corporea

1. sonno; 2. condizione fisica; 3. condizione mentale.

Relazioni interpersonali

1. relazioni sessuali; 2. relazioni affettive; 3. relazioni sociali.

Cure personali

1. igiene corporea; 2. igiene nell’eliminazione delle

feci; 3. vestiario;

Comunità

1. consumo; 2. associazioni volontarie; 3. gruppi religiosi.

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È, pertanto, obiettivo della società medesima rimuovere tali ostacoli14, è compito

della Repubblica garantire la sostanzialità dell’uguaglianza tra cittadini, del soddisfacimento dei diritti.

La sua presa in carico, cioè, non è (mera) questione di Cura (Sorge15) o (mera) compassione nei confronti dell’altro in cui splende (tra il velame) il volto16 della vedova, dell’orfano o dello svantaggiato. Non è nemmeno un momento durante il (e di fronte al) quale chiedersi “dov’era Dio”17.

L’ handicap era e resta una condizione sociale che vede nella (mera) efficienza lo standard minimo (quando non unico) di vita, e secondo il quale criterio produrre è condicio sine qua non per godere di una (seppur minima) redistribuzione di benefici (quindi, anche di relativi diritti soggettivi). Ciò implica (sic!) che quanti non possano corrispondere a tale stereotipo (culturale) non possano godere dei diritti «normali» (figurarsi, quindi, di quelli «speciali»

14 Gli schemi e gli elenchi qui riformulati su sistemi organici, capacità, fattori ambientali e abitudini di vita, sono tratti da Canevaro 2000 pp. 15 – 8. 15 Heidegger 2000. 16 Lévinas 1998. 17 Jonas 1999.

4. cure sanitarie.

Comunicazione

1. espressione di informazione; 2. ricezione dell’informazione.

Educazione

1. prescolare; 2. scolare; 3. professionale; 4. altre.

Abitazione

1. domicilio; 2. economia domestica; 3. arredamento.

Lavoro

1. orientamento professionale; 2. ricerca di un impiego; 3. occupazione retribuita; 4. occupazione non retribuita.

Responsabilità

1. responsabilità finanziarie; 2. responsabilità civili.

Tempo libero

1. sport e giochi; 2. arti e cultura; 3. altre abitudini.

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derivanti dal caso singolo) perché non «normodotati» (cognitivamente; affettivamente; motricicamente; psicologicamente; etc.)18.

È sicuramente possibile fornire varie definizioni e classificazioni dell’handicap19, ma non è questo il dato saliente: (come, invece) porsi la questione di come possa invertirsi un trend culturale, al fine di tutelare i meno fortunati, di garantire i più indifesi, di integrare quanti, per colpa della società, e della sua cultura dominante, restano esclusi dalle pratiche di vita più comuni, al fine, cioè, di rendere possibile la loro integrazione (laddove è bene integrare ma senza procedere in maniera integralistica20). D’altra parte, è anche vero che la vita umana si caratterizzi per la sua natura progettuale (in cui assume valenza particolare, e decisiva, la possibilità di vita, di destino futuro, del soggetto in «situazione d’handicap»), inteso quale «progetto di vita». Ciò comporta, da un lato il fatto che in nessun caso è possibile isolare, a mo’ di monade a sé bastante, l’universo formativo; e, dall’altro , il fatto che bisogna formulare in modo adeguato il progetto educativo (in ogni caso «permanente», mai concluso lungo l’arco di vita dei soggetti), «insieme di finalità coordinate fra loro da precisi rapporti di implicazione e di complessità e costituite da componenti contenutistiche (disciplinari), scientifico – umane e deontiche (valoriali)»21, un progetto che nel caso dei disabili deve essere «globale»22, dalla nascita sino alla morte, passando per le età della vita.

4. La legge, la realtà, lo spirito dell’utopia. Il trattamento dell’handicap mira ad integrare chi vive la condizione degradante

del deficit nel complesso dei progetti di vita posti in essere dalla società. L’ integrazione diventa, allora, l’orizzonte conglobante all’interno del quale vedere (e valutare) tutte le politiche rispetto all’handicap.

Ebbene, la politica vuole l’integrazione, la legge prescrive i passi da compiere per garantire un buon adattamento sociale, anche il linguaggio opera delle trascrizioni di senso in tale direzione (political correct), com’è (invece) la realtà? Chi vive nel mondo della scuola (solo per fare un esempio tra i certamente innumerevoli che si potrebbero fare) è a conoscenza di tutte le difficoltà oggettive di un processo di (progressivo) inserimento (e fin dove possibile) della “persona handicappata”23.

La legge è buona, la realtà dura. Una legislazione coraggiosa ma utopica (Piazza 1996). Come in ogni cosa, non bastano le buone parole né le velleità. Quando l’obiettivo è (attualmente) al di là delle condizioni culturali date dalla realtà, ecco che una qualsiasi legge, per quanto buona possa essere, deve accettare

18 Appare evidente, infatti, che la condizione di svantaggio impedisca il raggiungimento di standard produttivi normali. Il che rende necessario l’istituzione o di comunità lavorative protette oppure la differenziazione d’impiego in settori «normali». 19 Cornoldi 1999 p. 23. Anche: Canevaro 2000 p. 13 e Soresi 1998 pp. 19 - 49. 20 Canevaro 2000 p. 64 e sgg. 21 Dalle Fratte 1992 p. 236. 22 Massi 2004. 23 Art. 3 L. 104/92.

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(ma non rassegnarvisi) i limiti reali. Giunge, cioè, il momento in cui si deve valutare, al di là di posizioni preconcette, la valenza dei tentativi. Cos’è stata la L. 104/92? Certamente una pietra miliare nelle politiche (nazionali) rispetto all’handicap (perlomeno nella tendenza apprezzabile del riordinare la legislazione dispersa precedente in merito e nel predisporre le attuali politiche di integrazione dei più svantaggiati nel trattamento «normale» di tutti i cittadini), sebbene già la Costituzione andasse in tale direzione, riconoscendo la piena uguaglianza tra cittadini e il diritto a vedere tale condizione pienamente riconosciuta, assicurando la traduzione in concreto dei valori per il tramite dell’attribuzione allo Stato del compito di rimuovere ogni sorta di ostacoli (fisici; ambientali; comportamentali; organici; culturali).

In sintesi: la L. 104/92 prevede

1. le finalità dell’intervento statale in merito alle situazioni d’handicap (art. 1);

2. i soggetti aventi diritto (art. 3); 3. i criteri per l’accertamento dell’handicap (art. 4); 4. gli interventi di diagnosi e di terapia precoci (art. 6); 5. il principio dell’assistenza medica e dell’inserimento (integrazione)

sociale (artt. 7 - 11); 6. il diritto all’educazione e all’istruzione (art. 12) e alla sua correlativa

integrazione scolastica (artt. 13 – 16) e lavorativa (artt. 17 – 22); 7. nonché la rimozione di qualunque ostacolo alla libertà di movimento e di

espressione del soggetto disabile (artt. 23 – 28); 8. ed anche alla partecipazione politica, alla vita economica e ai vari bisogni

(artt. 29 – 37); 9. infine, provvede anche a stabilire come tutti questi principi debbano

essere attuati da parte di enti locali (artt. 38 – 40), i compiti del Ministero per gli affari sociali e l’istituzione del Comitato nazionale per le politiche dell’handicap (art. 41) (più la parte finale relativa a copertura finanziaria (art. 42) e ad abrogazione ed entrata in vigore (artt. 43 – 44)).

In sintesi: sono finalità della L. 104/92

a) rispetto della dignità umane, dei diritti di libertà ed autonomia del soggetto disabile;

b) prevenzione e rimozione delle condizioni invalidanti; c) recupero funzionale e sociale, superamento dell’emarginazione.

Alla L. 104/1992 sono seguiti:

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1. la L. 162/98 (modifiche alla L. 104/92 riguardo alle misure di sostegno in favore delle persone in situazione di handicap grave);

2. la L. 68/99 (che prevede delle misure a favore dell’integrazione lavorativa dei disabili);

3. il D.M. 141/99, il quale vieta la formazione di classi con più di 25 alunni in presenza di un alunno in situazione d’handicap (mentre se gli alunni disabili sono due il numero massimo di elementi per classe è ridotto a 20);

4. la L. 328/2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali)

5. la L. 333/2001, che autorizza i dirigenti scolastici allo sdoppiamento delle classi in attuazione del D.M. 141/99.

Vorremmo poter dire che la legislazione attuale, a prescindere dal modello

antropologico veicolato, e forse proprio in funzione dello stesso non lo è, fosse sufficiente a realizzare l’ideale della piena integrazione (che è poi un’ulteriore declinazione dei principi irrinunciabili della civiltà democratica, specie rispetto ad uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini). Invece, non è (certamente) sufficiente, né tantomeno può esserla se slegata dal vissuto sociale.

Spesso, troppo spesso, infatti, questa stessa legge mostra il fianco ad altre pratiche ben radicate nel pianeta scuola (oltre al limite della sua natura non sanzionatoria24), così come nella vita di tutti i giorni, ove l’handicappato è, innanzitutto e per lo più, il deficiente, il Pinocchio, il ritardato mentale25 o l’idiota di turno (quando non anche esprimere le forme ben più estreme dell’esclusione sociale, sintetizzate, grosso modo, nell’espressione “lo scemo del villaggio”), colui il quale non va preso in considerazione, non va integrato, ma escluso (quando ciò ritorna utile agli interessi singoli), emarginato (come se la sua condizione non fosse già abbastanza afflittiva)26, credendo, a torto, che l’intelligenza umana sia unica, e non multipla (Gardner).

Buono era certamente lo spirito dell’utopia, ma limitati i risultati (oltre ad essere fortemente diversi a seconda del territorio nazionale) concreti, non perché errate fossero le finalità e/o le premesse, ma perché è mancata la volontà politica di proseguire lungo questa strada e perché l’innovazione s’è scontrata con l’inerzia di costumi consolidati avversi (ed anche con una certa e talvolta malcelata ostilità).

Appare ovvio, allora, che lo stato attuale costituisca un punto di partenza (e, dati

24 Scrive Canevaro 2000 pp. 25 - 6: «la legge quadro ha conosciuto delle forti critiche, soprattutto nella sua impostazione non coercitiva e non sanzionatoria; infatti è la legge del “si può e non si deve”, che non prevede sanzioni per chi non osserva ciò che essa prescrive. Nonostante questi limiti, la legge 104 ha una vastità di respiro che permette di capire quanto la stessa legislazione abbia recepito la prospettiva dell’integrazione come possibilità che i soggetti con bisogni particolari abbiano uno statuto positivo che permetta loro l’ingresso e la presenza continua nel tessuto sociale, e che consenta loro di coevolvere, cioè, ancora una volta, di controllare e di essere controllati». 25 Per un suo corretto inquadramento: Pfanner – Marcheschi 2005. 26 Come bene scrive Pontiggia 2003 p. 187: «alcuni lo riconoscono e lo salutano. Lui si ferma con la schiena contro l’intonaco, sempre pronto a parlare con tutti. Intuisco che certi lo trattano come un bambino. Sono gli stessi che trattano i bambini come idioti e stabiliscono con loro, finalmente, un rapporto alla pari. Lui è in grado di dire cose che loro, probabilmente, non sanno neanche pensare, ma si limita a guardarli, mentre bamboleggiano, con il suo sorriso mite».

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altri esempi, sostanzialmente uno dei migliori, un “modello” visto all’estero come assai interessante), mai di arrivo, e che certamente è bene andare oltre in quanto integrare i diversamente abili non è solamente compito della legislazione (la quale, comunque, è sempre espressione consustanziale di una data cultura), ma anche missione della civiltà27, se questa intende collocarsi oltre la prospettiva della legge della giungla (o del darwinismo sociale), oppure del dominio del più forte (Homo homini lupus)28, altrimenti è inutile dire che noi si sia (Finalmente? Inesorabilmente? Casualmente? Per fortuna?) nell’età dei diritti29.

Integrare vuol dire anche far sì che un concetto sia al tempo stesso tessuto vivo della socialità umana30, uno dei luoghi costitutivi della socialità31.

27 Il luogo del diritto è, infatti, alla confluenza tra la cultura e l’azione umane (Pizzo 2006a). 28 Canevaro – Ianes 2003. 29 Bobbio 1992. 30 Il riferimento alla realtà scolastica, nello scritto e in bibliografia, trova origine in due, distinte ma non irrelate, esperienze personali: la frequenza di un corso di specializzazione alle tematiche dell’handicap e la circostanza, che in sé deve far riflettere, lungo la quale l’aspetto della vita umana che maggiormente si è proposto il problema dell’integrazione, producendo molte discussione e letteratura al riguardo, è stato quello attinente alla scuola. 31 Pizzo 2006b.

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