Dispensa di testi discussi nel libro del prof. Daniele ...

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Dispensa di testi discussi nel libro del prof. Daniele Maria Pegorari Amleto o lo specchio oscuro della modernità. Tre secoli di riscritture italiane 1705-2019 (Metauro, Pesaro 2019) valida per l’anno accademico 2020-2021 La dispensa, curata dal titolare del corso, costituisce un’antologia a esclusivo uso didattico e non è consentita la sua diffusione all’infuori di questa finalità. Si ringraziano molto calorosamente Lino Angiuli, Andrea Cra- marossa e Davide Rondoni per la loro esplicita e liberale concessione dei testi dei cui diritti sono proprietari insieme ai loro editori. Tale concessione è da intendersi come eccezionale, allo scopo di agevolare lo studio, con beneficio economico degli studenti dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. L’antologia contiene: A. Zeno, Pietro Pariati, Ambleto (1705), Nuova grafica lucchese, Lucca 1979. F. Clerico, Amleto. Ballo tragico in cinque atti, da rappresentarsi negl’imperiali regj teatri di corte, Schmidt, Vienna 1798. A. Boito, Amleto, Ricordi, Milano-Napoli 1865. G. Verga, Rosso Malpelo (1878), in Id., Vita dei campi, Treves, Milano 1880. L. Capuana, Ofelia (1893), in Id., Fausto Bragia e altre novelle, Giannotta, Catania 1897. E. Flaiano, Amleto ’43 (Monologo in quattro quadri e un epilogo), in Id., Opere. Scritti postumi, vol. I, Bompiani, Milano 1988. G. Testori, Post-Hamlet (1983), selezione della scena IV, in Id., Opere, vol. III: 1977-1993, Bompiani, Milano 2013. M. Devena, Sospetto di magia, Editori Riuniti, Roma 1976 (selezione delle pp. 9-39) C. Bene, Pinocchio e Proposte per il teatro (1964) – Un altro Amleto di meno (1983) – Hamlet Suite. Versione-collage da Jules Laforgue (1994), in Id., Opere. Con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995. F. Guccini, Ophelia, in Id., Due anni dopo, EMI, 1970. F. De André, F. De Gregori, Via della Povertà, in F. De André, Canzoni, Produttori Associati, 1974. S. Endrigo, Ofelia, in Id., Sarebbe bello, Vanilla-Fonit Cetra, 1977. S. Cammariere, S.S. Sacchi, Il principe Amleto, in S. Cammariere, Sergio Cammariere, Sony Music Entertainment Italy, 2012. C.M. Pegorari, Ofelia, quattro testi per un’installazione di M. De Carolis a Calvisano (BS), 1999. L. Angiuli, Elsinore/Helsingør, in Id. Diana Battaggia (a cura di), Luoghi d’Europa, La Vita Felice, Milano 2015. L. Angiuli, Amleto innamorato (2018), in Id., Addizioni, Aragno, Torino 2020. D. Rondoni, Ghertruda, la mamma di A., in Id., Cinque donne e un’onda, Ianieri, Pescara 2015, pp. 53-101. A. Cramarossa, False Hamlet. Opera teatrale in Fa maggiore, Fondo Verri, Lecce 2019.

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Dispensa di testi

discussi nel libro del prof. Daniele Maria Pegorari

Amleto o lo specchio oscuro della modernità. Tre secoli di riscritture italiane 1705-2019

(Metauro, Pesaro 2019)

valida per l’anno accademico 2020-2021

La dispensa, curata dal titolare del corso, costituisce un’antologia a esclusivo uso didattico e non è consentita

la sua diffusione all’infuori di questa finalità. Si ringraziano molto calorosamente Lino Angiuli, Andrea Cra-

marossa e Davide Rondoni per la loro esplicita e liberale concessione dei testi dei cui diritti sono proprietari

insieme ai loro editori. Tale concessione è da intendersi come eccezionale, allo scopo di agevolare lo studio,

con beneficio economico degli studenti dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.

L’antologia contiene:

A. Zeno, Pietro Pariati, Ambleto (1705), Nuova grafica lucchese, Lucca 1979.

F. Clerico, Amleto. Ballo tragico in cinque atti, da rappresentarsi negl’imperiali regj teatri di corte, Schmidt, Vienna 1798.

A. Boito, Amleto, Ricordi, Milano-Napoli 1865.

G. Verga, Rosso Malpelo (1878), in Id., Vita dei campi, Treves, Milano 1880.

L. Capuana, Ofelia (1893), in Id., Fausto Bragia e altre novelle, Giannotta, Catania 1897.

E. Flaiano, Amleto ’43 (Monologo in quattro quadri e un epilogo), in Id., Opere. Scritti postumi, vol. I, Bompiani, Milano 1988.

G. Testori, Post-Hamlet (1983), selezione della scena IV, in Id., Opere, vol. III: 1977-1993, Bompiani, Milano 2013.

M. Devena, Sospetto di magia, Editori Riuniti, Roma 1976 (selezione delle pp. 9-39)

C. Bene, Pinocchio e Proposte per il teatro (1964) – Un altro Amleto di meno (1983) – Hamlet Suite. Versione-collage da Jules Laforgue (1994),

in Id., Opere. Con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995.

F. Guccini, Ophelia, in Id., Due anni dopo, EMI, 1970.

F. De André, F. De Gregori, Via della Povertà, in F. De André, Canzoni, Produttori Associati, 1974.

S. Endrigo, Ofelia, in Id., Sarebbe bello, Vanilla-Fonit Cetra, 1977.

S. Cammariere, S.S. Sacchi, Il principe Amleto, in S. Cammariere, Sergio Cammariere, Sony Music Entertainment Italy, 2012.

C.M. Pegorari, Ofelia, quattro testi per un’installazione di M. De Carolis a Calvisano (BS), 1999.

L. Angiuli, Elsinore/Helsingør, in Id. Diana Battaggia (a cura di), Luoghi d’Europa, La Vita Felice, Milano 2015.

L. Angiuli, Amleto innamorato (2018), in Id., Addizioni, Aragno, Torino 2020.

D. Rondoni, Ghertruda, la mamma di A., in Id., Cinque donne e un’onda, Ianieri, Pescara 2015, pp. 53-101.

A. Cramarossa, False Hamlet. Opera teatrale in Fa maggiore, Fondo Verri, Lecce 2019.

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AMBLETO

Dramma per musica.

testi di

Apostolo Zeno

Pietro Pariatimusiche di

Francesco Gasparini

Prima esecuzione: 16 gennaio 1706, Venezia.

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Informazioni Ambleto

Cara lettrice, caro lettore, il sito internet www.librettidopera.it è dedicato ai librettid'opera in lingua italiana. Non c'è un intento filologico, troppo complesso per essere

trattato con le mie risorse: vi è invece un intento divulgativo, la volontà di farconoscere i vari aspetti di una parte della nostra cultura.

Motivazioni per scrivere note di ringraziamento non mancano. Contributi esuggerimenti sono giunti da ogni dove, vien da dire «dagli Appennini alle Ande».

Tutto questo aiuto mi ha dato e mi sta dando entusiasmo per continuare a migliorare eampliare gli orizzonti di quest'impresa. Ringrazio quindi:

chi mi ha dato consigli su grafica e impostazione del sito, chi ha svolto le operazionidi aggiornamento sul portale, tutti coloro che mettono a disposizione testi e materialiche riguardano la lirica, chi ha donato tempo, chi mi ha prestato hardware, chi mette a

disposizione software di qualità a prezzi più che contenuti.Infine ringrazio la mia famiglia, per il tempo rubatole e dedicato a questa

attività.

I titoli vengono scelti in base a una serie di criteri: disponibilità del materiale, datadella prima rappresentazione, autori di testi e musiche, importanza del testo nella

storia della lirica, difficoltà di reperimento.A questo punto viene ampliata la varietà del materiale, e la sua affidabilità, tramite

acquisti, ricerche in biblioteca, su internet, donazione di materiali da parte diappassionati. Il materiale raccolto viene analizzato e messo a confronto: viene

eseguita una trascrizione in formato elettronico.Quindi viene eseguita una revisione del testo tramite rilettura, e con un sistema

automatico di rilevazione sia delle anomalie strutturali, sia della validità dei lemmi.Vengono integrati se disponibili i numeri musicali, e individuati i brani più

significativi secondo la critica.Viene quindi eseguita una conversione in formato stampabile, che state leggendo.

Grazie ancora.

Dario Zanotti

Libretto n. 199, prima stesura per www.librettidopera.it: febbraio 2010.Ultimo aggiornamento: 23/12/2015.

In particolare per questo titolo si ringrazia laBiblioteca nazionale «Braidense» di Milano

per la gentile collaborazione.

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Attori

A T T O R I

AMBLETO, erede legittimo del regno, amantedi Veremonda .......... SOPRANO

VEREMONDA, principessa di Allanda, amantedi Ambleto .......... SOPRANO

FENGONE, tiranno di Danimarca .......... TENORE

GERILDA, moglie di Fengone, e madre diAmbleto .......... SOPRANO

ILDEGARDE, principessa danese .......... SOPRANO

VALDEMARO, generale del regno .......... CONTRALTO

SIFFRIDO, confidente di Fengone, e capitanodelle guardie reali .......... CONTRALTO

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Eccellenza Ambleto

Eccellenza

Sono così abbondanti le grazie, con le quali vostra eccellenza si degna di qualificare ilnostro rispetto, che ormai diventa nostro rimorso ciò che finora ci servì di vantaggio, enon potendo noi retribuirle  cosa che sia ad esse proporzionata,  abbiamo quasi piùvolte  desiderato  che fosse ella  men generosa nell'impartircele,  perché  noi  fossimomeno confusi nell'impotenza di corrispondere alle medesime. Ma perché né dobbiamomortificarci di ciò che ridonda in fregio del magnanimo di lei cuore, né sofferire chela   benignissima   sua   protezione   rimanga   più   lungamente   senza   qualche   pubblicatestimonianza   della   nostra   umilissima   gratitudine,   mossi   da   pari   ragioni,   siamoconcorsi   nel   conforme   sentimento   di   consacrare   al   nome   autorevole   dell'e.   v.   ildramma presente, e di supplicarla ad aggradirne l'offerta, debole sì, ma sincera. Inquest'atto non creda ella che noi pensiamo a diffalcare alcuna minima porzione de'nostri   comuni   doveri;   anzi   è   nostro   voto   di   accrescerli   con   ottenere   il   singolarbeneficio  di   un  clementissimo  patrocinio  alle  nostre   fatiche.  Egli   è   assai  noto   almondo che il chiarissimo sangue, la famiglia gloriosa, e la persona istessa di v. e. èsuperiore a qualsivoglia applauso: onde riesce anche manifesto che nel chiamarla adinvigorire con la sua assistenza la nostra fiacchezza, non vi ha parte né la illustre suanascita, né 'l singolare suo merito; ma tutto ben sì l'interesse è del nostro credito chericorre per appoggio alla  di  lei  autorità   riverita.  Piaccia così  all'e.  v.  di  perdonareall'ardimento di tale speranza; ed accogliendo in questo ufficio un mero tributo dellanostra ossequiosa riconoscenza,  ci  permetta  che in esso comparisca l'obbligo ed iltitolo col quale ci protestiamo

di v. e.umiliss.mi divotiss.mi ed obblig.mi ser.ri

N.N.

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Argomento

Argomento

Orvendillo, re di Danimarca, da Fengone che men di ogni altro il dovea, a tradimentofu ucciso. Il traditore occupò la corona, e mancando di fede ad Ildegarde, principessadanese, con cui per l'addietro passava amori, sposò a forza la regina Gerilda moglie diOrvendillo, e madre di Ambleto, il quale non sapendo come fuggire la morte che glipreparava il tiranno, si finse pazzo. Sospettò questi del vero, e tentò vari mezzi perassicurare i suoi dubbi. Fra le molte prove che egli ne fece, eccone le tre principali.La prima fu di scegliere una bellezza delle più singolari che fossero nella sua corte,dando ordine che questa fosse condotta nel più folto di un bosco, dove Ambleto erasolito a ritirarsi, con animo che alla veduta di questa fosse egli per dar qualche segnodi sua finzione: del che dovevano esservi testimoni in quella selva nascosti. Fingesiche l'ordine ne fosse dato a Veremonda, principessa di Allanda, amata dal principedurante   la  vita  del  padre,  e  promessagli   in   isposa,   la  quale  dopo  la  morte  del   reOrvendillo ritiratasi ne' suoi stati aveva mossa guerra al tiranno; ma vinta e presa daValdemaro   generale   di   Danimarca,   era   stata   da   lui   che   n'era   divenuto   amante,condotta come in trionfo alla corte.Svanito  il  primo disegno, poiché  Ambleto cautamente  avvertito,  che  vi era chi   loascoltava, continuò ne' suoi finti deliri, si venne al secondo esperimento, che fu con laregina sua madre. Simulò Fengone di voler imprendere un viaggio lontano; e lasciatala reggenza dello stato a Gerilda, fece nelle stanze di questa nascondere un suo fidato,perché  notasse   i   ragionamenti  del   figliolo  con  la  madre,  che  probabilmente  ve  loavrebbe fatto condurre per desiderio di vederlo e di abbracciarlo, il che per altro nonle veniva permesso. Anche questo artificio andò a vuoto. Il principe avvisato di ognicosa   (fingesi   da   Siffrido   consigliere   in   apparenza   fidatissimo   di   Fengone,   mainternamente suo capitale nemico)  entrò  nella  camera della madre,  e mostrando inprima di non conoscerla,  qua e là  raggirandosi per rinvenire il nemico nascosto, efinalmente scopertolo, con più ferite l'uccise. Indi conoscendo che poteva parlare consicurezza,   rivoltosi   alla   regina,   le   manifestò   senz'altra   finzione   il   suo   animo,   erinfacciandole la sua sofferenza, la trasse agevolmente ne' suoi sentimenti.L'ultima prova fu nelle allegrezze di un convito. Il tiranno che meditava di ubriacare ilprincipe per  iscoprirne  l'interno col  vino,  restò  da  lui  medesimo con una bevandaalloppiato, e per ordine di Ambleto fu poco dopo in pena de' suoi tradimenti  fattomorire.Tanto riferisce Saffone Gramatico, antico scrittore danese, e dopo lui ne raccontano ilfatto il Pontano, e 'l Meursio nelle loro Storie di Danimarca. La scena si rappresenta inLetra,   antica   residenza  de'   monarchi   danesi,   della   quale   oggidì   non   ci   è   rimastovestigio.Non paia strano ad alcuno che vi si nomini qualche deità de' greci col vocabolo greco.I  danesi,  durante  il   loro gentilesimo,   le  avevano pure  in  venerazione,  benché  condiverso nome. Poiché Giove presso di loro chiamavasi Toro. Marte appellavasi Odino,ecc. Del che si possono consultare Tommaso Bartolini il giovane, Olao Vormio, edaltri scrittori settentrionali. Qui si è stimato bene servirsi del nome più conosciuto perpiù chiarezza, e per isfuggire la confusione di vocaboli così strani.

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Atto primo Ambleto

A T T O   P R I M O

Scena primaPortici interni della reggia.

Fengone assalito da Sicari, e Gerilda da un altro lato con Guardie.

FENGONE Ah traditori! Olà, custodi, aita.

GERILDA Al vostro re? Felloni,vi costerà la vita.

FENGONE Inseguitegli, o fidi, e nel lor caporecatemi un trofeo del valor vostro.Per te vivo, o consorte.

GERILDA (Iniquo mostro.)

FENGONE Tanto deggio al tuo amor.

GERILDA Di' al mio dovere:che in me trovi la moglie, e non l'amante.

FENGONE Sposa di un anno ancor nemica?

GERILDA Ancoral'ombra vien di Orvendillo, il morto sposoa turbar nel tuo letto i miei riposi.Quel che stringi, ei mi dice,è 'l carnefice mio. Queste feriteopre son del suo braccio,e se no 'l vieta il cielo,quel braccio istesso alza già il ferro, e in senogià lo vibra di Ambleto, il caro figlio.E tu, barbara madre, empia consorte,e lo soffri? E lo abbracci? O dio! Dagli occhisi dilegua frattantol'ombra col sonno, e sol vi resta il pianto.

FENGONE Ah! Gerilda, Gerilda,e quai sonni trar possose non di amor, di sicurezza almenoa te nemica in seno?

GERILDA Odi, Fengon. Son tua nemica, è vero.Bramo il tuo sangue: bramola mia vendetta. Esser vorrei tuo infernoper dare a me più furie, a te più doglie;ma con tutto quest'odio io ti son moglie.

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

GERILDA

Nel tuo sen, crudel, vorreivendicare il mio dolor,

ma si oppone a' sdegni mieiquesta fede che ti diedela virtù, non mai l'amor.

Nel tuo sen, crudel, vorreivendicare il mio dolor.

Scena secondaFengone, e Siffrido.

SIFFRIDO Grazie agli dèi. T'inchinofuor di periglio, o re. (Perfida sorte!)

FENGONE Di Gerilda l'amor mi tolse a morte.

SIFFRIDO Ma qual duolo ancor serbi?

FENGONE Goder poss'io con mille insidie al fianco?

SIFFRIDO Del felice tuo imperomeglio intendi il destin. Vinta è l'Allanda.

FENGONE Trofeo di Valdemaro, il duce invitto.

SIFFRIDO Veremonda è tua schiava.

FENGONE (Anch'io sua preda.)

SIFFRIDO Ambleto è in tuo poter.

FENGONE Pur ne pavento.

SIFFRIDO Che puoi temer d'un forsennato? Han toltotante sciagure il senno all'infelice.

FENGONE Fors'egli finge.

SIFFRIDO È gelosia di regno.

FENGONE Siffrido, un gran timore ha un grande ingegno.Cada egli pur.

SIFFRIDO Ch'ei cada?Qual frutto avrai? D'odio, e d'infamia.

FENGONE E ognoradovrò temerne?

SIFFRIDO I tuoi sospetti accerta.

FENGONE Ma per qual via?

SIFFRIDO Di Veremonda un temponon arse il prence?

FENGONE (Anch'io ne avvampo.) È vero.

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Atto primo Ambleto

SIFFRIDO Non gli è madre Gerilda?

FENGONE De' suoi primi sponsali unico frutto.

SIFFRIDO Può a fronte di beltade, o di natural'arte coprirsi? E se pur anche Ambletosforza gli affetti, e fa tacere il sangue,fanne a mensa real l'ultima prova;che fra le tazze il simular non giova.

FENGONE Saggio consigli, e non si tardi l'opra.Tosto la real cacciavanne, amico, a dispor. Me chiama intantodi Valdemaro il merto alla sua gloria.

SIFFRIDO Già ferve al tuo destin sorte e vittoria.

FENGONE

Smanie di re geloso,datevi un dì riposo,stanche di più penar.

Schiavo di rio sospettoson condannato, e affrettome stesso a paventar.

Smanie di re geloso,datevi un dì riposo,stanche di più penar.

Scena terzaSiffrido, e poi Veremonda.

SIFFRIDO Vanne, o crudel. Non semprela morte fuggirai ch'io ti preparo.Al caro padre, ed al german diletto,dall'odio tuo svenati,questa vittima io deggio, e 'l fatal colpo...Qui Veremonda? (Il suo dolor m'accora.)

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

VEREMONDA

Empia sorte, a me togliestie comando, e libertà,

ma non nasce il mio doloreda miseria, o da catene.Quel che piango, è un maggior bene,già delizia dell'amore,ora oggetto alla pietà.

Empia sorte, a me togliestie comando, e libertà.

SIFFRIDO Principessa, al tuo piantofa ragione il mio duol.

VEREMONDA La mia sciaguracomincio a meritar, se tu la piangi.La pietà di un fellon giusta la rende.

SIFFRIDO Ciò che par fellonia, sovente è fede.

VEREMONDA Arte è d'anima rea finger virtude.

SIFFRIDO Mal si giudica il cor sol dall'esterno.

VEREMONDA Ma l'opre sono il testimon del core.

SIFFRIDO Non muove il mio, che zelo, fede, e onore.

VEREMONDA Del tuo ucciso monarcarispettar l'uccisor: servir l'iniquodistruttor della patria:mirar dall'empio, e sofferirlo, e amarlo,il regno desolato, e sin ridottoalla miseria, o dio! degna ch'io semprel'accompagni col pianto, il regio erede.Questo è onor? Questo è zelo? E questa è fé.

SIFFRIDO È ver.

VEREMONDA Parti. Usar tecopiù lunga sofferenza.O diventa mia colpa, o mio tormento.

SIFFRIDO Credimi reo: mi assolverà l'evento.Credimi, sì, qual vuoi,perfido, e traditor: non ho discolpa.Ma in mezzo agli odi tuoipiù sento il tuo dolor, che la mia colpa.

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Atto primo Ambleto

Scena quartaVeremonda, e poi Ambleto con Ildegarde.

VEREMONDA Il so. Non ha discolpa il tradimento.Ed è lusinga... Ah! Che vegg'io?

ILDEGARDE

(ad Ambleto)Che pensi?

AMBLETO Vorrei saper...

ILDEGARDE Che mai?

AMBLETO Perché non piangel'aurora in cielo, or ch'è prigione il sole.

ILDEGARDE (Vezzose frenesie!)

VEREMONDA (Pietoso oggetto!)

AMBLETO Io vi conosco sì.(ad Ildegarde)

Tu Clizia sei, che segui,ma senza speme, intendi ben, di Apollo,che non ti ascolta, i passi.

(a Veremonda)

Tu Citerea. Ravvisoin quel ciglio, in quel labbro Amore assiso.

ILDEGARDE (Vaneggia, e m'innamora.)

VEREMONDA (L'idea de' primi affetti ei serba ancora.)Ambleto, ormai da pace...

AMBLETO A chi favelli?Quest'Ambleto dov'è? Dov'è?

ILDEGARDE Tu 'l sei.

AMBLETO Io Ambleto? E dov'è il padre?Dove i vassalli? Veremonda? Il trono?Ambleto è morto. Io l'ombra sol ne sono.

VEREMONDA (Misero prence!)

ILDEGARDE Dove te n' vai? Che cerchi?

AMBLETO Cerco il cor che perdei.

ILDEGARDE (Core di sì bel seno almen foss'io.)

VEREMONDA (Tu non sei senza cor se tieni il mio.)Ma quando lo smarristi?

AMBLETO Allor che la mia pace a me fu tolta.

VEREMONDA Chi te l' rapì?

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

ILDEGARDE Chi la possiede?

AMBLETO Ascolta.

AMBLETO

A questi occhi giunse un dìla bellezza con amor,e per gli occhi in sen mi entrò.

Quando poi da me partì,se ne uscì con essa il cor,e l'amore vi restò!

ILDEGARDE Dunque ancor sei amante?

AMBLETO Ma dove, dov'è Ambleto?Dov'è 'l mio cor?

(a Veremonda)

Forse in quel sen racchiuso?No no: ch'egli è di neve,e 'l mio povero core è tutto foco.

VEREMONDA Mi struggo di pietade.

ILDEGARDE (Ardo di amore.)Veremonda, che tardi? A Valdemaronel suo nobil trionfola tua dimora il più bel fregio invola.(Così col bel che adoro io resto sola.)

VEREMONDA Si ubbidisca la sorte.Le sventure di Ambletoveder senza morir più non poss'io,perché il duol ch'ei non sente, è dolor mio.

VEREMONDA

Nel furor de' suoi deliritrovo ancor la sua beltà.

E l'affettodice a me che i miei sospirison di amor, non di pietà.

Scena quintaIldegarde, ed Ambleto.

ILDEGARDE (Or si tenti il destin.) Prence.

AMBLETO Non vedi?Partito è 'l sol: tutto si oscura il giorno.Deh! Nasconditi, fuggi.

ILDEGARDE Almen...

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Atto primo Ambleto

AMBLETO Vanne al destino, e di' che ormaifaccia spuntar quel giorno in cui si stiacol diadema real...

ILDEGARDE Chi?

AMBLETO La pazzia.

ILDEGARDE Sentimi.

AMBLETO Hai tu 'l mio scettro?Hai tu 'l mio regno?

ILDEGARDE In questo sen l'avrai.

AMBLETO Incauta farfalletta,l'ali perder potraise del tuo foco ai rai qui più ti aggiri.

ILDEGARDE Sembran furie, e son grazie i suoi deliri.

ILDEGARDE

Non so qual siamaggior folliao 'l danno della mente, o 'l mal d'amore;

so ben che ugualison questi mali,il viver senza senno, e senza core.

Scena sestaAmbleto.

AMBLETO

Questa sola mi resta, iniqui fati,per le miserie mie strada infelice?Ciò che sperar doveadalla madre, da' sudditi, dal sangue,dal pudico amor mio, dal mio valore,m'imponete ch'io deggia ad un inganno?Pur se giova, si finga, e i giusti sdegnicopra follia, purché si viva e regni.

AMBLETO

Stelle, voi che in ciel reggeteproteggete la mia speme.

Se placateun dì mirate.L'innocenza de' miei pianti,già respira, e più non teme.

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Scena settimaPiazza per gli spettacoli.

Valdemaro con Séguito, e poi Veremonda.

VALDEMARO

Tromba in campo, e spada in guerrapiù non armi i suoi terrori.Abbiam pace, abbiam vittoria.

Volto il ferro in miglior usosol le glebe apra alla terra,e coltivi eterni allori,Dania invitta, alla tua gloria.

VEREMONDA Eccomi Valdemaro. A' tuoi trionfiservano pur di Veremonda i ceppi.Tuo pregio è ch'io li tragga, ed è mio vantotrargli in trofeo senza viltà di pianto.

VALDEMARO S'io per tuo scorno, o per mio fallo agli occhidella Dania ti esponga, a te lo dicaquel rispettoso amor...

VEREMONDA Di amor non parliall'infelice beltà chi tal la rese.

VALDEMARO Del nemico le offeserisarcirà l'amante.

VEREMONDA Tardo è 'l riparo, e la cagion n'è vile.

VALDEMARO Non condannar di tua beltà i trofei.

VEREMONDA Se piacciono a un nemico,son ribelli al mio cor sin gli occhi miei.

Scena ottavaFengone con Guardie, e li suddetti.

FENGONE Fra queste braccia, ed all'onor di questispettacoli di gioiavieni, illustre campione, invitto duce.Vincesti: eguale al mertopremio si dée. Tua sia la Falstria. È degnoche stringa scettro il difensor d'un regno.

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Atto primo Ambleto

VALDEMARO Si è vinto, o gran monarca,con l'armi tue, con la tua gloria. Purese qualche prezzo all'opravuoi conceder, signore, ecco i miei voti.Suddita alle tue leggiFalstria rimanga. In dono, od in mercedesol si dia Veremonda alla mia fede.

FENGONE Duce...

VEREMONDA No. A Veremonda,benché vinta, e cattiva,si lasci in libertà ch'ella risponda.La ragion che ti diero armi e fortunasulla mia vita, è tuo trofeo. Di questa,Valdemaro, disponi. Io son tua spoglia,ma che ingiusto tu vogliastendere ancor sovra gli affetti mieil'autorità della vittoria e 'l frutto,soffri ch'io 'l dica, è tropp'orgoglio, o duce.Libera ho l'alma, e in leile tue conquiste alcun poter non hanno.Tu se' mio vincitor, se vuoi mia vita,ma se pensi al mio cor, se' mio tiranno.E tu, signor, che in fortunato imperoreggi la Dania, ed hai propizio il fato,non ti abusar del suo favor. Sostienicontro un superbo amor la mia costanza;né soffrir che trionfisulle perdite mie l'altrui baldanza.

FENGONE In me, vergine eccelsa,non troverai, qual pensi, un re nemico.Rasserena il bel volto, e tutto attendida un re che ti assicura. (E che ti adora.)

VALDEMARO (Delusi affetti, e non morite ancora?)

FENGONE Se alle tue brame, o duce,Veremonda si oppone, il re ne assolvi:pur non andrai senza mercé. Qui tostovenga Ildegarde.

(a Veremonda)

Intantomeco ti affidi.

VEREMONDA O ciel! Deh! Col mio duolodel trionfo il piacer non si funesti.

FENGONE Tutto a te si conceda.

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VEREMONDA

Nella miasfortunata prigioniasospirando ti dimandoquesta sola libertà.

Quando un'alma non è in calma,piange solole ragioni del suo duolo,e piangendo amar non sa.

Nella miasfortunata prigioniasospirando ti dimandoquesta sola libertà.

Scena nonaFengone, Valdemaro, e poi Gerilda.

FENGONE Vieni, o duce, agli onori.

VALDEMARO (Meco piangete, o sfortunati amori.)

GERILDA Fermati, o re.

FENGONE Consorte.

GERILDA A un sol passo che inoltri, avrai la morte.

FENGONE Come?

VALDEMARO Che?

GERILDA Già ruinala fatal pompa.

VALDEMARO O precipizi orrendi!

GERILDA E si apron tombe ove i trionfi attendi.

FENGONE Ed è ver ch'io ti deggia...

GERILDA La vita, sì, per mia sciagura, iniquo.

FENGONE Ma chi l'inganno ordì? Come, o Gerildaa te ne giunse il grido?

VALDEMARO Parla, scuopri l'infido.

GERILDA Si svelò il tradimento:si taccia il traditor. Dir quel doveala moglie di Fengon. Tacer dée questola moglie di Orvendillo.

FENGONE Chi mi lascia in timor, mi vuole in rischio.

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Atto primo Ambleto

GERILDA Piacemi che principisin dalla mia pietà la mia vendetta.

FENGONE Deh! Consorte diletta...

GERILDA Addio. Rimantisalvo per me, per me di vita incerto.Prega gli dèi, che tuttimi giungano all'orecchio i tuoi perigli:che di me non avrai miglior difesa.Ma ti vegliano ancoratanti nemici, e tante insidie intorno,che possibil non è la tua salvezza.Stanno l'odio, e la morte alle tue soglie:temi ciascun: sol non temer chi è moglie.

Scena decimaFengone, Valdemaro, Ildegarde.

FENGONE Duce, vedesti maipiù severo favor? Pietà più cruda?

VALDEMARO Stupido resto, e temo.

ILDEGARDE Qui per tuo cenno...

FENGONE Bella.

ILDEGARDE Tal parvi agli occhi tuoi,quando...

FENGONE Frena l'accuse. In Valdemaroavrai chi risarciscal'infedeltà d'un re. Tu sei sua sposa.Ti sorprende la gioia? In Ildegardeduce avrai la mercé del tuo valore.Ti confonde il piacer?

VALDEMARO (Di sdegno avvampo.)

ILDEGARDE A Valdemaro io sposa?

FENGONE Sì: l'arte io so d'una beltà ritrosa.

ILDEGARDE Del tradito amor miocosì compensi il danno?

FENGONE Eh! Che i grandi in amor legge non hanno.

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FENGONE

Or prepara Amor due dardi,e se n' viene al vostro core per darvi eguale ardor,nel balen de' vostri sguardidue facelle accende Amor.

Or prepara Amor due dardi.

Scena undicesimaIldegarde, e Valdemaro.

ILDEGARDE Vanne, o perfido, va'. Sentimi, o duce,non è disprezzo no, non è rifiutoil negarti la destra; è una ragionedel cor ch'è già perduto in altri lacci.

VALDEMARO Con l'esempio del mio lodo il tuo core.Ma dimmi: ami Fengone?

ILDEGARDE Adoro Ambleto.

VALDEMARO Segui ad amarlo. (Essa un rival mi toglie.)Io Veremonda.

ILDEGARDE Segui.Segui, e spera mercé. Le sue catenela renderan men fiera.

VALDEMARO Ella troppo è crudele.

ILDEGARDE Eh! Segui, e spera.(parte)

VALDEMARO La speme del nocchiero è in una stella;e nella speme ha la sua stella Amore.Se l'uno è abbandonato, ahi! Che procella!Se l'altro è disperato, ahi! Che dolore!

Scena dodicesimaParco reale.

Gerilda, e Siffrido.

SIFFRIDO Due volte il fato estremopendé sul capo al regnator tiranno.

GERILDA E due volte per me non cadde l'empio.

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Atto primo Ambleto

SIFFRIDO Ma, regina, perché? Tu stessa al colposproni la fede, e poi la man disarmi?

GERILDA Chi sa oprar e tacer, può vendicarmi.

SIFFRIDO Solo a Gerilda io confidai l'arcano.

GERILDA Far che 'l sappia Gerilda, egli è un tradirlo.

SIFFRIDO E una moglie reginatacer potrà ciò ch'io tentai?

GERILDA Ti affida.Se la trama perì, l'autore n'è salvo.

SIFFRIDO Ma non hai salvo il figlio,cui dal trono sovrasta odio e periglio.

GERILDA O dèi!

SIFFRIDO Qui 'l re. Cela il tuo duol.

Scena tredicesimaFengone con Séguito, e li suddetti.

FENGONE Siffrido,persiste ancor nel suo tacer Gerilda?

SIFFRIDO Seco perduta è l'arte.

GERILDA Piace, perché tua pena, a me me l'arcano.

SIFFRIDO Comanda un re.

FENGONE Prega un marito.

GERILDA È vano.

FENGONE Furor ti regge, tu ragion lo credi.Ma poiché la saluted'un fellone ti è a cuor, più che la mia,ceda l'amor. L'esempio tuo si segua.L'odio, il furor non si risparmi omai.

GERILDA Ah! T'intendo, o tiranno.

FENGONE Tu mi chiami tiranno, e tu mi fai.

GERILDA Dove pensi ferirmi, il cor mi dice.Moglie non temo, e temo genitrice.Pur senti, io non impetrolagrimosa al tuo piè che viva il figlio.Ambleto, e se non basta,pera anche il regno, anche Gerilda mora;ma il carnefice tuo sia vivo ancora.

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GERILDA

Minacciami, lusingamicon l'odio, o con l'amor. Saprò tacer.

Se vieni sposo amante,dirò: non vo' goderse barbaro regnante,dirò: non so temer.

Minacciami, lusingamicon l'odio, o con l'amor. Saprò tacer.

Scena quattordicesimaFengone, e Siffrido.

FENGONE Qui, Siffrido, saprò, se Ambleto siao politico, o stolto.Qui verrà Veremonda.Tu parti. Un cauto amorequand'ha chi osservi, ha i suoi riguardi, e tace.

SIFFRIDO E beltà, quando è sola, è ancor più audace.

Scena quindicesimaFengone, e poi Veremonda.

FENGONE Viene la bella. O qualemi si accende nel sen voglia amorosa!Ma sinché rode il pettotarlo di gelosia, taccia l'affetto.

VEREMONDA Eccomi a' cenni tuoi.

FENGONE Mia principessa,(che a te non toglie il gradochi ti tolse l'impero) a me chiedestidi frenare il desio di Valdemaro.Il feci, o bella.

VEREMONDA E fu cortese il dono.

FENGONE Per me non fosti al suo trionfo espostaspettacolo infelice.

VEREMONDA E fu dono gradito il mio contento.

FENGONE Or di mia cortesia, de' doni mieiti chieggo una mercé.

VEREMONDA Giusta? L'avrai.

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Atto primo Ambleto

FENGONE Ambleto già ti amò: tu pur l'amasti.Vo' saper, s'ei sia folle, o s'ei s'infinga.Già m'intendi. Con essorimanti in libertà. Lascia che sfoghisenza contrasto il genio antico, o parliin sua balia, qual parla altrui, da stolto.

VEREMONDA Cieli!

FENGONE Ei vien. Qui mi celo, e qui l'ascolto.(si ritira)

Scena sedicesimaAmbleto da cacciatore, e Veremonda.

AMBLETO Quante belve han queste selve,tante furie ha questo petto.

VEREMONDA Ch'io cospiri a tradir l'idolo mio?

AMBLETO Tormentato, laceratosente il mal... Che vegg'io? Qui Veremonda?

VEREMONDA (In sen palpita l'alma.)

AMBLETO (Dopo tante tempeste ecco una calma.)

VEREMONDA (Sfortunato cimento.)

AMBLETO (Son pur solo, o speranze.)

VEREMONDA (Ahi! Che far deggio?)

AMBLETO Or le dirò che sol d'amor vaneggio.O del mio cor fiamma innocente, e chiaraquest'è pur... ma che fia? Nemmeno un guardo?

VEREMONDA (Mi fa ingegnosa il rischio suo.)(scrive col dardo in terra)

AMBLETO (Pur solomi veggio. A che tacer?)

VEREMONDA (Leggesse almeno.)

AMBLETO Eccoti al piè misero sì, ma sempre...(E tuttavia mi sdegna?)

(guarda per la scena)

VEREMONDA (Incauto ei cancellò le fide note:ma le rinnovi il dardo. Amor mi aita.)

(torna a scrivere in terra col dardo)

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

AMBLETO (Son perduto. Ma infida, e sorda, e ingratasappia quant'io l'adoro, e s'ella poipietà mi nega, e fedequi se le mora al piede.)Volgetevi pietose, o luci amate,almeno a rimirar le mie ferite.

VEREMONDA Io ti ho ferito? Mirail ferro del mio dardo. Ei del tuo sanguetinto non è.

AMBLETO Che leggo? «Il re ti ascolta.»(Intendo.) Lascia, sì, lascia, mia dèa,ch'io baci un sì bel dardo.

VEREMONDA (Amor mi arrise.)

AMBLETO (Ma nel baciarlo ei mi addolcì le labbra.)Dimmi: l'hai tu di nettare, o di mielesparso, Cinzia gentil, Cinzia, mio nume.

VEREMONDA Che favelli? Non vedi?Son Veremonda, che Orvendillo un giorno...

AMBLETO Che parli di Orvendillo?Si cancelli un sì bel nome.E dai faggi, e dalle rupi.

VEREMONDA Perché?

AMBLETO Perché? Me 'l divoraro i lupi.

VEREMONDA (O cauto, o forsennato ei dice il vero.)

AMBLETO Senti, Diana. Ha queste selve un mostrofiero, e crudel, degno de' nostri dardi.Tu mi reggi la destra, e a te divotone recherò l'orrido teschio in voto.

VEREMONDA Deliri, o prence.

AMBLETO Taci. Ecco la feratra quelle frondi. O che bel colpo!

VEREMONDA Ferma.

Scena diciassettesimaFengone, e li suddetti.

FENGONE Cotanto audace?

AMBLETO E chi se' tu? Rispondi.

VEREMONDA Il re. Che? No 'l conosci?

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Atto primo Ambleto

AMBLETO Il re? Ah ah ah. Un satiro tu sei,(guardati, bella dèa) crudo, e lascivonemico delle leggi, e degli dèi.

FENGONE (Si avvalora il sospetto.)

AMBLETO (L'ira qui può tradir la mia vendetta.)

VEREMONDA Ambleto, ove te n' vai?

AMBLETO Giove mi aspetta.

AMBLETO

Quando io torni, voi vedreteche il baleno, il lampo, il folgoremeco in terra io porterò.

Le tempeste, le cometeil terror, la strage, il fulmine,e la morte in pugno avrò.

Quando io torni, voi vedreteche il baleno, il lampo, il folgoremeco in terra io porterò.

Scena diciottesimaFengone, e Veremonda.

FENGONE (Sono anche incerto.) Il prenceforse delira, e 'l suo maggior deliriofu 'l partir da voi, luci adorate.

VEREMONDA A chi parli?

FENGONE A' tuoi lumi, ed al tuo core.

VEREMONDA Tiranno. O del mio nometroppo debole virtù, se non spaventisì temerario ardire! Ardir tropp'empio,se della mia virtude oltraggi il lume?

FENGONE Empio no, no 'l chiamar. Chiamalo cieco,perch'è un ardir d'amore.

VEREMONDA E parli meco?Tu re marito a Veremonda amori?

FENGONE Non sono eterne al cor d'un re, mio bene,d'Imeneo le catene.

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

FENGONE

Meglio intendi un dolce affetto,e saprai che non ti offende.

Non è oltraggio, ma rispettosoquel desio che in me si accende.

Meglio intendi un dolce affetto,e saprai che non ti offende.

Scena diciannovesimaVeremonda.

VEREMONDA

A tante mie sciaguresi aggiungerà l'indegno amor d'un empio?Ma si aggiunga. Del fatovinsi tutto il furor. Vincasi ancoratutto il poter di così rea baldanza,ed abbia più trofei la mia costanza.

VEREMONDA

Quanto più godetra voi contenta,o selve amene,la pastorella.

Qui forza o frodenon la spaventa;e col suo bened'amor favella.

Quanto più godetra voi contenta,o selve amene,la pastorella.

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Atto secondo Ambleto

A T T O   S E C O N D O

Scena primaCortile segreto.

Fengone, e Siffrido.

FENGONE Tanto seguì. L'arti deluse e i vezzidi beltà lusinghiera.

SIFFRIDO Pazzia già certa un fier rival ti toglie.

FENGONE Eppur vive, Siffrido, il mio timore.

SIFFRIDO Se ragion no 'l sostiene, è un timor lieve.

FENGONE Basta che sia di re, perché sia grande.

SIFFRIDO Deh! Lascia...

FENGONE No: la madreall'amante succeda.Fingerò con Gerilda,che ribelli al mio scettro abbiano i Cimbriscosso il lor giogo. Io duceuscirò al campo, e me lontano, ad essaqui 'l supremo comandoconcesso sia.

SIFFRIDO Qual n'è il tuo fin.

FENGONE La madrevaga di dare al figlio i dolci amplessi,farà condurlo alle sue stanze. Iroldodella reggia custode, e a me fedelestarà ivi occulto ad osservarne i detti.

SIFFRIDO E 'l vero intenderà de' tuoi sospetti.

FENGONE Tu taci, e scorta il prence,quando fia d'uopo, alla regina.

SIFFRIDO Intesi.(Ma delle trame avvertirò chi deggio.)

Scena secondaFengone, ed Ildegarde.

FENGONE Venga Gerilda.

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ILDEGARDE In tale indugio, o sire,la gloria d'inchinarti abbia Ildegarde.

FENGONE Grata del nobil dono a me te n' vieni.È Valdemaro il primoduce dell'armi nostre.

ILDEGARDE Il più forte guerrier, che stringa acciaro.

FENGONE Ornamento del regno, amor del soglio.

ILDEGARDE Sì: ma perdona, o sire...

FENGONE Che?

ILDEGARDE Con tutti i suoi fregi io non lo voglio.

FENGONE Ildegarde, riflettiche non son più tuo amante. Il tuo re sono.

ILDEGARDE E ad un re che fu amante, io rendo il dono.

FENGONE Se nuovo amor non ti avvampasse in seno,non saresti sì audace.

ILDEGARDE I tuoi spergiuri in libertà mi han posta.

FENGONE Scuopri l'oggetto, e l'imeneo ne approvo.

ILDEGARDE A chi già mi schernì, poss'io dar fede?

FENGONE Scettro ancor non stringea chi a te la diede.

ILDEGARDE Il crederti or mi giova. Adoro Ambleto.

FENGONE Stravagante desio!

ILDEGARDE Consola l'amor mio,e lo lascia regnar sovra il mio core.

FENGONE Compiacerti non posso, incauta amante.

ILDEGARDE E la real tua fede?

FENGONE Un re l'oblia, s'ella gli torna in danno.

ILDEGARDE Dovea farmi più accorta il primo inganno.

ILDEGARDE

Prestar fede a chi non l'ha,alma mia,tu lo vedi, è frenesia,tu lo provi, è vanità.

Quando crede a un falso core,è l'amore una follia,è la speme una viltà.

Prestar fede a chi non l'ha,alma mia,tu lo vedi, è frenesia,tu lo provi, è vanità.

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Atto secondo Ambleto

Scena terzaGerilda, e Fengone.

FENGONE (Si lusinghi costei.) Teco, o Gerilda,cospirano a' miei danni anche i vassalli.Già la Cimbria rubellam'obbliga all'armi. Io partirò. Tu solaserba l'arcano. Oh folleal par di quegl'infidimia facile conquista anche il tuo core!

GERILDA Troppo fosti crudel per non averlo.

FENGONE Regina, odiami pur: le insidie occulta,né più strugga la man del core i voti.

FENGONE

Pur luci amorose,benché disdegnose,sì godo in mirarvi,che ad onta di vostr'ire io voglio amarvi.

GERILDA (Non s'irriti un amor che salva il figlio.)Signor, meno di affetto io ti richiedo.Lasciami l'odio mio con più innocenza.

FENGONE Io parto. A te frattantotutto resti in balia l'alto comando.Addio, diletta. È questol'ultimo forse. Io se cadrò fra l'armi,tu sarai sola il mio pensiero estremo.Felice me, se mi perdoni estinto,e se di qualche fior questa, ch'io bacio,candida mano, il freddo sasso adorna.

GERILDA Va', pugna, vinci, e vincitor ritorna.

FENGONE

Sulla fronte giù cingo gli allori,e felici ne prendo gli auspici,luci care, dal vostro piacer.

Quegli sguardi che armate di amori,per ferire dan l'armi, e l'ardire,e per vincer l'esempio, e 'l poter.

Sulla fronte giù cingo gli allori,e felici ne prendo gli auspici,luci care, dal vostro piacer.

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Scena quartaVeremonda, e Gerilda.

VEREMONDA Son comuni i miei torti anche a Gerilda.Arde di me il tuo sposo.

GERILDA Arde di te?

VEREMONDA Nel vicin bosco ei stessoscoprì l'ardor. Con quale orror, tu 'l pensa.

GERILDA Tanto egli osò? Tu orror ne avesti?

VEREMONDA Comefavellar può di amore un re maritoa vergine real senza oltraggiarla?

GERILDA E tu la grave offesa a me confidi?

VEREMONDA A te che sei consorte: a te che in luinon ritrovi, lo so, che il tuo tiranno.

GERILDA Non mi affligge il suo amor; piango il tuo inganno.

VEREMONDA L'inganno mio?

GERILDA Gerildanon mai gli fu più cara.

VEREMONDA E appunto un corequando cerca tradir, finge più amore.

GERILDA Eh! Veremonda, è l'uso,sia senso, o bizzarria, d'alma regnantequesta mostrar sovranità d'affetto,col parere incostante:cercar più d'un diletto:voler piacere a molte:molte ancor lusingarne,e poi sol una amarne.

VEREMONDA Credi meno ad un empio, io ti consiglio.

GERILDA Tu meno al tuo bel ciglio.

GERILDA

Hai bel vezzo, hai bel sembiante;ma non sempre a labbro amantedéi dar fede, e lusingarti.

Facil cede alma che crede;e più vinci in men fidartidi chi giura di adorarti.

Hai bel vezzo, hai bel sembiante;ma non sempre a labbro amantedéi dar fede, e lusingarti.

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Atto secondo Ambleto

Scena quintaVeremonda, e Valdemaro.

VEREMONDA Troppo, troppo semplice Gerilda!

VALDEMARO Veremonda, permettiche teco l'amor mio...

VEREMONDA Non mi offende il tuo amor: che non vi è donna,credilo, sì, donna non vi è che irataoda giammai d'onesto amante i voti,ma 'l tuo col mio destinovogliono ch'io sia crudele, e tu infelice.Amo Ambleto. Sì, l'amo. Hai per rivaleun che nacque tuo re. Tu nel mio coreonora il di lui grado. Ha la tua fede,ed ha la tua virtù questo dovere.

VALDEMARO Ambleto?

VEREMONDA Sì. Né bastache tu sveni al suo nome i tuoi desiri;convien che tu 'l difendain questo sen. Qui lo minaccia, o ardire!E qui l'insidia il re con empia brama.

VALDEMARO Il re?

VEREMONDA Dillo tiranno, e tale ei mi ama.

Scena sestaAmbleto, e li suddetti.

AMBLETO (Che ascolto?)

VEREMONDA Sì: l'iniquo mi ama, e questodegli acerbi miei mali è 'l più funesto.

AMBLETO

(a Veremonda)Flora, dimmi, sai tu l'aspra sventuradi quel bel giglio?

VEREMONDA (O ciel, quanto è vezzoso!)

AMBLETO

(a Valdemaro)E tu sai l'ardimentodi quella serpe?

VALDEMARO O sfortunato prence!

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

AMBLETO A me poc'anzi, a mene raccontò Zeffiro amico il caso.Cinto di amiche rose un dì crescea,bianco figlio dell'alba, un giglio ameno:ed un'ape innocente in esso aveariposo al volo, ed alimento al seno.Quando una serpe, insidiosa, e rease gli accostò col suo crudel veleno,e allor si udì fra 'l danno, e fra 'l perigliopianger quell'ape, e sospirar quel giglio.

VEREMONDA (Par che per me favelli.)

AMBLETO Deh! Accorrete in difesa a fior sì vago.

VALDEMARO (Seguir conviene i suoi deliri.) Taci,che già fuggì l'infida serpe altrove.

AMBLETO Ma torneravvi.(a Veremonda)

Tu di acute spinearma quel fiore, e 'l custodisci illeso.

VEREMONDA Non temer.

AMBLETO

(a Valdemaro)E se torna

il suo nemico, e tu col piè lo premi.(M'intendesser così.)

VEREMONDA (Quanto il compiango!)

VALDEMARO Accheta il duol. Me in tua difesa avrai.Ma concedi...

AMBLETO

(a Valdemaro)Rimira,

qual s'erge al ciel denso vapor che oscuradi Febo i rai... (La gelosia mi uccide.)

VEREMONDA (Tormentosi deliri!) Valdemaro,alla tua gloria affidol'onor mio, la mia pace, e mentre in essala mia salvezza bramo,la tua virtude in mio soccorso io chiamo.

VEREMONDA

Non è sì fido al nidodell'usignuolo il volo,com'io son fida a te: ma non m'intendi.

Non è sì chiara, e bellad'amore in ciel la stella,com'è la fé, ch'è in me: ma no 'l comprendi.

Non è sì fido al nidodell'usignuolo il volo,com'io son fida a te: ma non m'intendi.

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Atto secondo Ambleto

Scena settimaAmbleto, e Valdemaro.

VALDEMARO In me che speri, amore?

AMBLETO Amor nel pettochiuso trattieni? Io vo' che spieghi i vanniprima a' bei rai della mia diva, e posciameco venga a posar.

VALDEMARO Dove?

AMBLETO Sul trono.

VALDEMARO Come?

AMBLETO Non sai che il re de' cori io sono?

VALDEMARO (Mi fa dolor benché rivale.) Io parto.

AMBLETO Ferma. Dov'è il valoredella tua man? Vediamlo.Di': non sei tu di questo ciel l'Atlante?Così lo reggi? Di'. Così 'l difendi?Ma questo che sospendi al nobil fiancoillustre arnese a te che serve?

VALDEMARO È 'l brando,strumento a' miei trionfi.

AMBLETO Sì: lo veggio,e di pianto, e di sangueche sparse l'innocenza ancor fumante.Vanne: e ad uso miglior da te s'impieghi.Segui l'esempio mio.Venga la clava, e si apparecchi intantode' mostri il sangue, e de' tiranni il pianto.

AMBLETO

Vieni, e mira, come giradalla cima sino al fondosconcertato tutto il mondo.Non lo voglio più così.

Di' a quel monte che si abbassi,perché i passi m'impedì.Non lo voglio più così.

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Scena ottavaValdemaro.

VALDEMARO

Valdemaro, che pensi?Sei reo con Veremonda, allor che l'ami;e più sei reo, se bramida un risoluto ardir la sua difesa,ma il lasciarla in periglionon è della tua gloria,non è dell'amor tuo saggio consiglio.

VALDEMARO

Sì, ti sente l'alma mia,amorosa gelosia,sì, t'ascolta questo cor.

E l'affetto,che nel petto ancor si asconde,ti rispondecon le voci dell'onor.

Sì, t'ascolta questo cor.

Scena nonaSala negli appartamenti di Gerilda.Gerilda, e poi Ambleto da guerriero.

GERILDA Caro, adorato figlio,non giungi ancor? Dacché mi trasse all'arevittima più che sposa il fier regnante,svelto dal sen mi fosti; e più non vidiquel volto, o dio! sol mia delizia e gioia.Vieni, diletto figlio...

AMBLETO Su: qui tutto si accampil'esercito fatal dell'ire mie,e giustizia, e ragion ne sieno i duci.

GERILDA Viscere mie, mio sangue.

AMBLETO E sangue io voglio.(entra in una stanza)

GERILDA Deh! Ferma, Ambleto. E non distrugge amoreque' fantasmi, quell'ombreche gli offuscan la mente?

AMBLETO Ov'è il nemico? Parla.

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Atto secondo Ambleto

GERILDA Nemico qui? Me non ravvisi, o figlio,tua madre?

AMBLETO A chi sei madre?

GERILDA A te.

AMBLETO Sei mia tiranna, e mia nemica.(entra in un'altra stanza)

GERILDA O deluse speranze!O tradito conforto!Empio destin!

AMBLETO

(di dentro)Son morto.

GERILDA Cieli! Che sarà mai?(entra in una stanza)

AMBLETO Fu verace Siffrido. Or vada, vadaquell'ombra scellerataal tiranno crudel nunzia di morte.

GERILDA Ahimè! Che fece? Iotemo...l'ira del re. So che l'ucciso Iroldode' suoi fidi è 'l più caro.

AMBLETO Seguasi la vendetta.

GERILDA Mio caro figlio, in questo pianto almenonon ravvisi il mio core?La madre non ravvisi?

AMBLETO Non ti ravviso no. Madre ad Ambleto,consorte ad Orvendillo era Gerilda.Era in lei fede, era onestà, e virtude.Ma ti d'allor che al fiancodell'empio usurpatoremacchiasti il regio letto, e di Orvendillola memoria tradisti, altro non seiche adultera per lui, per me matrigna.Smarrite or son le tue sembianze, e tecosul trono ancor di regia morte intrisoregna il vizio, e l'orror. Non ti ravviso.

GERILDA O me infelice! È vero,è vero pur che non sia stolto il figlio?

AMBLETO O dèi! Così lo fossi:che mi torria questa sciagura almenoal senso de' miei mali, e de' tuoi scorni.

GERILDA Vieni, o viscere care, al sen materno...

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AMBLETO Addietro, o donna. Amplessicomuni ad un fellone a me tu porgi?A me stendi quel labbroche già stancar di un parricida i baci?Va', misera, e li serba a chi già infamail tuo soglio, il tuo letto, e la tua fama.

GERILDA M'avea il piacer finoraa' rimproveri tuoi chiuso l'udito.Ma già 'l silenzio è stupidezza. Ascolta.

AMBLETO Che dir porrai, che te più rea non mostri?

GERILDA Dirò. Che quant'io debbi,diedi al tuo genitor...

AMBLETO L'urna realea' novelli imenei cangiando in ara?

GERILDA Ah! che vi andai costretta. Io donna, e solache far potea col regnator lascivo?

AMBLETO Pria che ceder, morir.

GERILDA Ma con qual ferro?

AMBLETO Può mancar mai la morte a un generoso?

GERILDA Manca anche questa, o figlio,in corte di un tiranno, allor ch'è dono.

AMBLETO E chi potea sforzarti ad abbracciarlo?

GERILDA Pria che sua moglie, esser dovea sua predae lui drudo soffrir pria che marito?

AMBLETO Dovevi almen fra primi sonni immersonel talamo real lasciarlo esangue.

GERILDA Ahimè! Gerilda allora era sua moglie.

AMBLETO Anzi più che sua moglie era sua amante.

GERILDA Giuro agli dèi...

AMBLETO Spergiura,siati pur caro il tuo novel consorte.Soffri che ombra dolente, e invendicatasulle sponde di Stige erri Orvendillo,e che gema la patriasotto il duro comando; e se non bastache vittima di stato a piè ti cadaquel che chiami tuo figlio iniqua madre.Dopo tutto anche soffri,che regina ti esigli,che moglie ti ripudi il re spietato.

Continua nella pagina seguente.

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Atto secondo Ambleto

AMBLETO Questo forse n'è 'l giorno, e 'l favor soloche dal tiranno attendo,del tuo ripudio è 'l disonore, e 'l duolo.

AMBLETO

Della vendetta il fulminesovra di te cadrà.

Regina senza regno,consorte senza sposo,non so se a riso, o a sdegnoognun ti additerà.

Scena decimaSiffrido, e li suddetti.

SIFFRIDO Ah! Regina.

GERILDA Che fia?

SIFFRIDO Veremonda è rapita, e Valdemaroaudace la rapì.

AMBLETO Cieli.

GERILDA (Che sento?)

SIFFRIDO Già son fuor della reggia,ed ei la tragge al vicin campo.

AMBLETO (Iniquo!)

SIFFRIDO Non lasciar che impunito...

AMBLETO Non più, non più. (L'orme ne seguo.) Udite.

AMBLETO

(Ho nel cuor la gelosia.)(a Siffrido)

Tu nel sen la fedeltà.(a Gerilda)

Della vendetta il fulminesovra di te cadrà.

Scena undicesimaGerilda, e Siffrido.

GERILDA Siffrido, io son perduta. Ambleto uccisepoc'anzi Iroldo. Ei colà giace.

SIFFRIDO Il vidi.

GERILDA E nelle piaghe sue teme la madre.

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A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

SIFFRIDO Al difetto del sennoil perdono real facile io spero.Non paventar. Avrai per la sua vitada' prieghi tuoi, dalla mia fede aita.

GERILDA

Farò, che sul cigliofavelli il mio pianto,sintanto che il figliosi renda al mio cor.

E tenero oggettofarò del rigordi sposa l'affetto,di madre l'amor.

Farò, che sul cigliofavelli il mio pianto,sintanto che il figliosi renda al mio cor.

Scena dodicesimaSiffrido.

SIFFRIDO

M'intese il prence. Egli d'Iroldo in pettodel senno, e del valor scolpì le prove.Per servir al mio sdegno a lui si serva.Così quest'alma aspettadalla sua fedeltà la sua vendetta.

SIFFRIDO

Allo scettro, al regno, al sogliol'innocenza tornerà.

E cadràsotto il peso del suo orgoglioatterrata l'impietà.

Allo scettro, al regno, al sogliol'innocenza tornerà.

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Atto secondo Ambleto

Scena tredicesimaSobborghi con tende in lontano.

Veremonda, e Valdemaro con Séguito.

VEREMONDA Qual, duce, è 'l tuo pensier? Dove mi guidi?Già comincio a temer qualche tua colpa.

VALDEMARO Altra colpa non ho che l'amor mio.

VEREMONDA Fuor delle mura, e cintada' tuoi soldati? Intendo. Valdemaroil tuo credei soccorso, ed è rapina.

VALDEMARO Anche questa rapina è tuo soccorso.

VEREMONDA Ambo ci guida al disonore un ratto.

VALDEMARO Questa è la via che solati salva da un tiranno.

VEREMONDA Espormi a un mal peggior quest'è salvarmi?

VALDEMARO Con fronte più serenariedi alla libertà, riedi al tuo soglio.Quel che lasci è prigion. Quel dove vieniè campo amico. Io ducelo moverò, riparator dei mali,le tue province a liberar dal giogo.

VEREMONDA (Che resti Ambleto? E ch'iosegua altro amante? Esser non può, cor mio.)Valdemaro, vo' fartiquesta giustizia. In te stimar che un rattosia pietà, non amor: virtù, non senso.Ma basta ad offuscar limpido onoreun sospetto d'error, non che un errore.

VALDEMARO E quell'onor, se resti, è in più periglio.

VEREMONDA Sii tu meco in difesa, e no 'l pavento.

VALDEMARO Che far posso, se resto?

VEREMONDA Hai forze, hai coreper ripormi sul trono, e non l'avraiper cacciarne un fellon?

VALDEMARO Nella sua reggiatroppo è forte il tiranno, e 'l popol vileavvezzo a tollerar, l'odia, ma 'l teme.Combatterlo da lungi è più sicuro.

VEREMONDA Va' dunque. Anch'io da lungiapplaudirò de' tuoi trionfi al grido.

VALDEMARO Nulla temer da un generoso amore.

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VEREMONDA Meno amor ti richiedo, e più virtute.

VALDEMARO Perder qui tempo è un trascurar salute.

VEREMONDA Ah! Vile. Anche la forza? È questo, è questoil generoso amor, di cui ti vanti?

VALDEMARO Resisti invan.

VEREMONDA Crudele,vuoi pianti e prieghi? Eccoti prieghi, e pianti.

VEREMONDA

Tu miri le mie lagrime,e non le sente il cor? Crudel! Così?

In te dov'è la fé?Che fa la tua pietà? Rispondi. Di'.

Tu ammiri le mie lagrime,e non le sente il cor? Crudel! Così?

VALDEMARO Quasi ah! Quasi mi vinse un sì bel pianto.Ma lasciarmi sedur saria fierezza.Vieni.

VEREMONDA Verrò, spietato,ma non speri 'l tuo amor che odio, e disprezzo.

VALDEMARO Di salvarti or desio, non di piacerti.

VEREMONDA Usa il poter. Mi giovache ogni mio passo un tuo delitto sia.

VALDEMARO Salute e amore, e ogni riguardo oblia.

VEREMONDA Valor troppo indiscreto!Stelle, destin, chi mi soccorre?

Scena quattordicesimaAmbleto, e li suddetti.

AMBLETO Ambleto.Fermati, Valdemaro.Insultar Veremondasenza oltraggiar me tuo signor non puoi.

VEREMONDA O cieli! Ambleto, idolo mio, son questiaccenti di follia?

AMBLETO Dove, o mia cara,s'agita il viver mio, fingo i deliri;dove il periglio tuo, perdo i riguardi.

VALDEMARO (Credo appena all'udito appena ai guardi.)

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Atto secondo Ambleto

AMBLETO Duce, mi hai nella partemiglior dell'alma offeso.Te n' preferivo l'emenda, e a te con quantodi autorità può darmil'esser principe tuo, parlo, e comando.Ama la tua regina;ma di un amor che sia di ossequio, e fede.Essa campion ti chiede, e non amante:io suddito ti voglio, e non rivale.Né guardar ch'io sia solo:difeso è un re dal suo destin. Costoro,che ti stanno d'intorno,pria che guerrieri tuoi, fur miei vassalli.Rispetta il cenno, ed oggich'io principio a regnar, mi è fausto e caroche il primo ad ubbidir sia Valdemaro.

VALDEMARO E Valdemaro il fia. Mio re già sei.Cedo il mio amor. Perdona,se il difficile assensonon può darti il mio cor senza un sospiro.

AMBLETO La tua virtù nel tuo dolor rimiro.

VEREMONDA Compisci, o generoso,la magnanima idea. Quell'armi istesseche voleva l'amor, muova il tuo zelo.

VALDEMARO Sì, né più qui si tardi: io vado al campo.Là non dée tosto esporsila persona real. Prima il tuo nomerispetto vi disponga, e amor vi desti.Qui rimangan per pocovostra difesa i miei guerrieri. Al piededarà moto il periglio, al cor la fede.

VALDEMARO

Non dirò che ancora io v'ami,e che il cor più non vi brami,occhi bei, non vi dirò.

Fra ragion che fa il dovere,e beltà che fa il potere,dir l'amore non si deve,e negarlo non si può.

Non dirò che ancora io v'ami,e che il cor più non vi brami,occhi bei, non vi dirò.

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Scena quindicesimaAmbleto, e Veremonda.

AMBLETO Diletta Veremonda, egli è pur tempoche a cor franco io ti parli, e ch'io ti abbracci.

VEREMONDA Ambleto, anima mia, son così avvezzaal funesto mio duol, ch'esser mi sembramisera nel contento.

AMBLETO Quando è immenso il piacer, meno si gode.

VEREMONDA Ah! Che questa impotenzaè un presagio di mali.

AMBLETO Temer nel bene è un diffidar del cielo.

VEREMONDA Goder nel rischio è un lusingar le pene.

AMBLETO Qual rischio a te figuri?

VEREMONDA Il poter di un tiranno, e l'altrui frode.

AMBLETO Virtù ci affidi. Abbiam per noi, mia vita,quella di Valdemaro, e più la nostra.

VEREMONDA Dunque al gioir, felice.

AMBLETO E un momento felicenon occupi timor di male incerto.

VEREMONDA Piacer tranquillo è guiderdon del merto.

AMBLETO

Godi, o cara, ma di un dilettoche misura sia dell'amor.

Quell'affetto, che ben non gode,quand'è in braccio del dolce oggetto,è un affetto di debol cor.

Godi, o cara, ma di un dilettoche misura sia dell'amor.

VEREMONDA

Godo, o caro, quanto so amarti,e sin godo nel tuo goder.

L'alma amante che in me respira,in te passa per abbracciarti,e là s'empie del suo piacer.

Godo, o caro, quanto so amarti,e sin godo nel tuo goder.

AMBLETO Fugace godimento! Ecco il tiranno.

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Atto secondo Ambleto

VEREMONDA E Valdemaro è seco.

VEREMONDA EAMBLETO

Ah! Siam traditi.

Scena sedicesimaFengone con Séguito, Valdemaro, e li suddetti.

VALDEMARO Funesto incontro!

FENGONE Ambleto, Veremonda,fuor della reggia? Tu prigion? Tu stolto?

VEREMONDA Sinché la tua vittoriala libertà mi tolse, e le grandezze,chinai la fronte al mio destin: ma quandonel vincitor conobbiil mio crudel tiranno...

FENGONE È tirannia che amoreti renda il ben che ti rapì fortuna?

VEREMONDA La gloria, e non l'amore a me lo renda.

VALDEMARO (O magnanimo ardir!)

AMBLETO Che strani mostri!Pluton tu sei. Cerbero è quegli, e questaProserpina rapita.

FENGONE Vano è 'l pensier. Chi seppeinvolar Veremonda al mio potere,non è stolto, ma 'l finge.

VEREMONDA Eppur t'inganni.Nel volto di costoroleggi qual sia della mia fuga il reo.

AMBLETO Son questi tante fier. Io sono Orfeo.

FENGONE Son questi, Valdemaro, i tuoi custodi.

VALDEMARO Signor, della mia fedeperdona all'amor mio le colpe. Offesoil tuo sen non credei dalle mie brame;e quando alla rapina io mi disposi,pensai dentro al mio corenon di torla al mio re, ma al tuo rigore.

VEREMONDA (Reo si finge con l'empio.)

AMBLETO (O traditore!)

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FENGONE (È poderoso il duce,perché l'armi ha in balìa. Seco si finga,ma si riserbi il colpo.)Al valor del tuo bracciotutta de' falli tuoi dono la pena.Vanne alla reggia, e svena al mio piacerel'ardir del tuo volere.

AMBLETO (O scellerate frodi!)

VEREMONDA (Segno del tradimentoè un sì facil perdono.)

VALDEMARO (Sapesse almen quant'innocente io sono.)(parte)

Scena diciassettesimaFengone, Ambleto, e Veremonda.

FENGONE O sia stolto, o s'infinga,del mio furor costui sia oggetto. A voila custodia ne affido. E tu preparaquell'alma contumace, e quel bel voltoalle delizie mie.

VEREMONDA EAMBLETO

(Cieli! Che ascolto?)

FENGONE

Preparati ad amaralmen nel mio piacerla tua felicità.

Perché il voler penar,quando si può goder,non è che crudeltà.

Preparati ad amaralmen nel mio piacerla tua felicità.

Scena diciottesimaVeremonda, e Ambleto fra Guardie.

AMBLETO (Quel bel seno delizia ad un tiranno?)

VEREMONDA (Ch'io deggia amar ne' suoi piaceri i miei?)

AMBLETO (E 'l permettete.)

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Atto secondo Ambleto

VEREMONDA (E lo soffrite.)

VEREMONDA EAMBLETO

(O dèi?)

Insieme

VEREMONDA Sempre in cielo avverso il fatonon saràper te, mio bene.

Dal mio duolo, un dì placato,sì, che avràqualche pietàdelle tue pene.

AMBLETO Sempre in cielo Giove iratonon saràper te, mio bene.

Dal mio pianto, un dì placato,sì, che avràqualche pietàdelle tue pene.

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A T T O   T E R Z O

Scena primaGalleria d'idoli.

Gerilda, e Siffrido.

GERILDA Perirà dunque Ambleto?E sarà la sua morte un tuo consiglio?

SIFFRIDO Sospenderla poss'io, se il re l'impone?

GERILDA E se l'impone il re, puoi tu soffrirla?

SIFFRIDO Soffrir convien ciò che impedir non puossi.

GERILDA Se reo di più congiure, e reo, Siffrido,sei ancor di più morti,io, cui tutto affidasti,tacqui finor? Ma senti, ingrato, a questipresenti dèi io giuro,della vita del figlioconto mi renderai con la tua vita.

SIFFRIDO Farò più che non vuoi per ubbidirti.

GERILDA E sarà il mio tacer la tua mercede.

SIFFRIDO Più che il timor, mi muoverà la fede.

GERILDA Or vanne, e col regnantetu impiega il zelo; io tenterò l'amore.

SIFFRIDO L'amor?

GERILDA Sì, che nel pettoper me gli avvampa.

SIFFRIDO Odi, regina, e parto.

SIFFRIDO

Quel cor che traditor fu al suo regnante,può ancor alla beltà farsi infedele.

Non è l'empio vassallo un casto amante,né mai tenero sposo è un re crudele.

Quel cor che traditor fu al suo regnante,può ancor alla beltà farsi infedele.

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Atto terzo Ambleto

Scena secondaGerilda, e Fengone con Guardie.

FENGONE Fuor della reggia appenatraggo il passo primier, che Iroldo è ucciso.Veremonda è rapita, Ambleto fugge,e colpevol ne sei tu sola, o donna.

GERILDA Io?

FENGONE Chi può, né 'l ripara il mal commette.

GERILDA Sono in nostra balia l'opre del caso?

FENGONE È dover di chi regge il prevenirlo.

GERILDA Non è sempre poter ciò ch'è dovere.

FENGONE Ma sia sempre tua pena il mio potere.

GERILDA Signor, se ami la madre, il figlio serba.

FENGONE Ama più di sua vita il mio riposo.

GERILDA Deh! Mio re. Deh! Mio sposo...

FENGONE Olà. Qui Veremonda.

GERILDA Sì crudel con Gerilda?Passò in odio l'amor? Troncar ti aggradai giorni miei nel caro figlio? Almenomi uccidi in me, pria che svenarmi in lui.

FENGONE Piangi, o donna, i tuoi mali, e non gli altrui.

Scena terzaVeremonda, e li suddetti.

VEREMONDA Eccomi al cenno.

FENGONE Veremonda, è tempoche presente Gerilda, esca e sfavillil'immenso ardor che in me que' lumi han desto.

VEREMONDA (Ardor d'impura vampa.)

GERILDA (Tanto sugli occhi miei?) Signor, se godifinger per tormentarmi...

FENGONE Io fingo? Dani,in fronte di costei più non si onori,il titolo di sposa, e di regina.

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VEREMONDA Un sì giusto decreto...

FENGONE Or comanda lo sdegno,e libero comandi. Quando amorele sue leggi preferiva a Veremonda,allora ella si opponga, ella risponda.

GERILDA La non creduta mia sciagura è dunquetanto vicina? Ingrato,dopo la marital giurata fede,oggi che più 'l tuo labbromi diè d'amor tenere prove, ed oggich'io 'l meritai maggiorenella vita due volte a te serbata,oggi...

FENGONE Sì, ti ripudio. Oggi mi piaceper farti più infelice esser più ingiusto.

VEREMONDA (Empio.)

GERILDA Sarò infelice,ma sarà il mio disastro il tuo castigo.Perderò letto e trono,ma perderai tu ancor la tua difesa.Moglie, è ver, ti aborria; ma l'odio alloracostretto all'impotenza era mia pena.Grazie alla tua fierezzache me ne assolve, e in libertà rimettedi vendetta e di sfogo i miei furori.

FENGONE Parti, e di un re più non turbar gli amori.

GERILDA

Impero, vita, e amore,crudel, ti turberò.

E tutta in tuo dolorel'offesa cangerò.

Impero, vita, e amore,crudel, ti turberò.

Scena quartaVeremonda, e Fengone.

FENGONE Sciolto dal grave laccioposso pur senza colpaofferirti una man che ti alza al trono.

VEREMONDA Da' mali altrui felicità non cerco.

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Atto terzo Ambleto

FENGONE Vieni, o cara...

VEREMONDA Alla tomba?

FENGONE All'are sacre...

VEREMONDA Che or or contaminate ha un tuo ripudio?

FENGONE Nasce da questo sol la tua grandezza.

VEREMONDA Me la insegna a temer l'altrui caduta.

FENGONE Provoca l'ire che 'l favor rifiuta.

VEREMONDA Meno dell'amor tuo temo il tuo sdegno.

FENGONE Ora il vedrem. Custodi,qui se le guidi, e se le lasci Ambleto.

VEREMONDA (Ahimè!)

FENGONE Piega già stancoFebo all'occaso. In vuote piume, o bella,non vo' languido trar freddi riposi.Tu vi verrai preda, o consorte. Ambletoo deliri, o s'infinga,le pene soffrirà di un tuo rifiuto.Sì, Veremonda: la sentenza è questa:pensaci: o la tua mano, o la sua testa.

Scena quintaVeremonda.

VEREMONDA

La tua mano? O la sua testa?Stelle! Qual legge è questa?

VEREMONDA

Che farai, misero core?Il crudel ti vuol sua preda:in periglio è 'l caro amante.

Una ingiusta tiranniavuol ch'io siao spietata, od incostante.

Che farai, misero core?

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Scena sestaAmbleto, e Veremonda.

AMBLETO

Mi rinasce più bella, più lietadel piacer nel sen la speranza;

e de' mali vicino alla metatutto il duolo diventa costanza.

Mi rinasce più bella, più lietadel piacer nel sen la speranza.

VEREMONDA Quale speranza! Ambleto,o la tua testa, o la mia man vuol l'empio.L'una o l'altra è più che morte.

AMBLETO Alma mia, ti vo' più forte.

VEREMONDA Qual scampo in sì grand'uopo?

AMBLETO Quello che più opportuno è col tiranno:la lusinga, l'inganno.

VEREMONDA Ah! Caro alla tua vita, all'onor mioin quest'ombre s'insulta.

AMBLETO Ed in quest'ombre avrai soccorso. Fingi.

VEREMONDA Meco in breve il lascivofavellerà di amori.

AMBLETO E tu pur amorosa a lui rispondi.

VEREMONDA Chiederà i dolci sguardi.

AMBLETO E tu cortesel'ire n'esiglia, e li componi al vezzo.

VEREMONDA Stenderà l'empia ma...

AMBLETO La tua l'incontri.

VEREMONDA Guiderammi agli altari...

AMBLETO (Ove si esiga dèi!)La marital non osservabil fede.

VEREMONDA Che più? Che più? Vuoi ch'ei mi tragga, oal talamo aborrito, e ch'io ve 'l segua?

AMBLETO Sì, principessa; e questoquesto il termine sia de' suoi contenti.

VEREMONDA Ambleto, o tu vaneggi, o tu mi tenti.

AMBLETO Io vaneggiar, quando son teco, e solo?Il mio consiglio...

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Atto terzo Ambleto

VEREMONDA Intendo.Te 'l detta una viltà. Perder la vitatemi più che il tuo amore,e spergiura mi vuoi, perché sei vile.

AMBLETO Io vil ti vo' spergiura? Amo me stessoio più di Veremonda?Io che se mille vite avessi in seno,mille a te ne darei?Ne temi ancora? I tuoi sospetti ingiustisul mio sangue cancelli. Addio. Già vadotutto amor, tutto ardire al fier regnante.Più non fingo deliri,suo rival, suo nemico a lui mi svelo,e una morte gli chiedo,non so se disperato o generoso,che sia insieme mia gloria, e tuo riposo.

VEREMONDA Ferma, e perdona, o caro,a gelosa onestà. Pronta già svenoal tuo voler gli affetti.

AMBLETO In tua difesam'avrai nel maggior uopo, e Valdemarogran parte avrà nell'opra.

VEREMONDA Valdemaro, che infido...

AMBLETO I dubbi accheta.Per lui prese avria 'l campol'armi in nostro favor, ma 'l re che quindivolgeva allor ver la cittade il passo,per via il rattenne, e l'obbligò al ritorno.Fummo sorpresi. Ei traditor ci parve,ma la nostra sventura era sua pena.Chiare prove ei poc'anzidiemmi di fede. Io te n'accerto, e solomanca l'opra a compir la tua lusinga.

VEREMONDA Servasi al tuo destino, e amor si finga.

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VEREMONDA

Teneri guardi,vezzi bugiardigià mi preparo a fingere,anima mia, per te.

Ma in prova dell'affettoquant'userò più frode,il merito e la lodetanto più avrò di fé.

Teneri guardi,vezzi bugiardigià mi preparo a fingere,anima mia, per te.

Scena settimaValdemaro, e Ambleto.

AMBLETO Sulla tua fede, o duce,fingerà Veremonda.

VALDEMARO Son già i mezzi disposti. Io senza colpal'usurpator deludo, e ne' tuoi cennid'un legittimo re seguo la sorte.

AMBLETO Si confidi l'arcano anche a Siffrido.

VALDEMARO Il consiglier dell'empio?

AMBLETO Il suo più fier nemico in lui si asconde.Senza lui questo giorno...

VALDEMARO Taci. Ildegarde.

AMBLETO Alle follie ritorno.

Scena ottavaIldegarde, e li suddetti.

ILDEGARDE Ambleto, idolo mio.

AMBLETO Qual idolo ti sogni?

ILDEGARDE In te che adoro...

AMBLETO Taci;che se di questi sassi alcun ti ascolta,diratti...

ILDEGARDE E che?

AMBLETO Che più di me se' stolta.

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Atto terzo Ambleto

ILDEGARDE Tale mi rende amore.

AMBLETO Amor conosci? Ove il vedesti mai?

ILDEGARDE A' tuoi be' lumi appresso.

AMBLETO T'inganni. Eccolo espresso.Vedi che di Cupidoporta in fronte per te dardi, e facelle.

VALDEMARO Il ciel vuol ch'io sia vostro, luci belle.

ILDEGARDE (Misera mia speranza!)

AMBLETO La speranza tu sei?Dagli tosto il tuo core:che mai non va senza speranza amore.Su, porgimi la destra. E tu la prendi.

VALDEMARO Ubbidisco.

ILDEGARDE Ma...

AMBLETO Che?

ILDEGARDE Tu non m'intendi.

AMBLETO T'intendo sì. Tu se' qua! rosa appunto,che brama il sol vicino, e poi ritrosanelle foglie si chiude;ma 'l modesto rossor vincasi; e intanto,perché sono Imeneo,del laccio marital gli applausi io canto.

AMBLETO

Mille amplessipreparate i più tenaci,e i vezzi fra di voi sien mille, e mille.

Poi con essimille e mille sieno i bacialle labbra, alle guance, alle pupille.

Mille amplessipreparate i più tenaci,e i vezzi fra di voi sien mille, e mille.

Poi con essimille e mille sieno i bacialle labbra, alle guance, alle pupille.

Mille amplessipreparate i più tenaci,e i vezzi fra di voi sien mille, e mille.

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Scena nonaIldegarde, e Valdemaro.

VALDEMARO Poiché il vuole il destin, ti chieggo, o bella,con la tua destra il core.

ILDEGARDE Che mi narri di destra?Di cor che mi discorri? Un forsennatoserve a te di ragione, a me di legge?Or via, perché non chiedianche gli amplessi, e con gli amplessi i baci?

VALDEMARO Bramo solo che il seno...

ILDEGARDE Quel sen che tutto ardea per Veremonda?

VALDEMARO Ardea, ma poiché tuttaperdei la mia speranza, e che il doverevinse i desiri miei, per altro focoche per quel de' tuoi lumi, egli non arde.

ILDEGARDE E in difetto di altrui si ama Ildegarde.Or aspetta ch'io pureperda la mia speranza, e che il doverevinca i desiri miei, forse...

VALDEMARO Di Ambletocosì rispetti i cenni?

ILDEGARDE Quando Ambleto dal soglio,o in sen di Veremondami comandi ch'io t'ami, allora forse...

VALDEMARO Segui.

ILDEGARDE Allor ti amerò. Questa è la fede.

VALDEMARO L'alma che altro non brama, altro non chiede.

Scena decimaIldegarde.

ILDEGARDE

Degno ch'io l'ami è 'l duce,e in esso il grado, in esso il nome onoro;ma indarno ei si consola.Se Ambleto, perché folle, a lui mi dona,Ambleto, perché vago, a lui m'invola.

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Atto terzo Ambleto

ILDEGARDE

È troppo amabile quel bel sembiante,che lagrimar, che sospirar mi fa.

Ma 'l duol maggiore del core amante,è ch'ei no 'l mira quando sospira,ed il suo pianger egli non sa.

È troppo amabile quel bel sembiante,che lagrimar, che sospirar mi fa.

Scena undicesimaVigne consacrate a Bacco.

Valdemaro, e Siffrido.

VALDEMARO La vendetta più cauta è la più certa.

SIFFRIDO Ma talor la tradisce un troppo indugio.

VALDEMARO Si affretti. Io nella reggia ho i miei guerrieri,e per colpo sì illustreeglino il cenno, ed io ne attendo il tempo,

SIFFRIDO In sì lieto apparatochi fa? Chi fa? Forse perir l'iniquofarà pria del tuo ferro il mio veleno.

VALDEMARO Comunque ei cada, il suo morir ci salva.

SIFFRIDO S'egli per me non cade,odio di questo cor, non fei ben lieto.

VALDEMARO Che più? Mora Fengone.

VALDEMARO ESIFFRIDO

E regni Ambleto.

Scena dodicesimaGerilda, e li suddetti.

GERILDA Io de' miei torti e testimonio e pompa?

VALDEMARO ESIFFRIDO

Regina.

GERILDA O dio! Chi regnavuol ch'io sia sol Gerilda.

VALDEMARO Ma il valor di più destrevuol che tu sia regina, e vendicata.

GERILDA Come? Quando? Che fia?

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VALDEMARO In quest'ombre vedrai...

SIFFRIDO Guardati, o duce,di far noti a Gerilda i tesi inganni.Al re più che a nemica ella è consorte,e due volte, a me infida, il tolse a morte.

VALDEMARO Che sento? Hai cor che possasenza sdegno cader da un regio trono?

GERILDA (Fingerò. Forse il mertodi svelar la congiurami renderà scettro, e marito.) Amici,plaudo al vostr'odio, e 'l mio vi aggiungo. Dite.Qual n'è 'l pensier? Chi n'è 'l ministro? EGerilda offesa, e ripudiata il chiede. (Quando?)

SIFFRIDO Invan. Non le dar fede.

GERILDA Perfidi, il tacer vostrosenza pena non sia. So i congiurati,se non la trama. Andrò...

VALDEMARO Vanne. Ma tecovenga il ripudio tuo, venga il tuo danno.Va'. Racconta al tirannoche Valdemaro è suo nemico. Digliche le ruine sue tenta Siffrido.E se l'autore chiededi questo, che non sai, grande segreto,eccone il nome. Odilo, e trema: Ambleto.

VALDEMARO

Va', se puoi: tradisci un figlio,perché viva un reo consorte,(ed il cieco tuo consiglio)che finor fu il suo periglio,sia pur anche la sua morte.

Va', se puoi: tradisci un figlio.

Scena tredicesimaGerilda, Siffrido, poi Fengone, e Veremonda.

GERILDA O infedele, o spietatami vuole il mio destino. Ambo delittiche col pianto l'orror chiaman sul ciglio.

SIFFRIDO L'uno ti è traditor, l'altro ti è figlio.E qui col traditore è 'l tradimento.

FENGONE

(a Veremonda)Pur men fiera ti veggio.

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Atto terzo Ambleto

VEREMONDA (O che tormento!)

FENGONE Parla. Il dono d'un regnopiù cortese ti chiede.

SIFFRIDO

(a Gerilda)Or vanta il tuo dovere, e la tua fede.

VEREMONDA È dono sì; ma di Gerilda il duolofa' che ei sembri mia colpa, e mia rapina.

FENGONE In te la sua reginasoffra in pace costei.

GERILDA E l'onte aggiungi, o sconoscente, ai danni?

FENGONE

(a Veremonda)Del mio gioir presenteper trionfo ti vo', non per accusa.Ma, ben lucidi rai, meno severia mirar le mie fiamme io vi vorrei.Così dicea l'ingrato un giorno a' miei.

VEREMONDA Mi ricorda Gerilda,che troppo è fral della tua destra il laccio.

FENGONE No, no: la sua fierezza;ma più la tua beltà da lei mi scioglie.

SIFFRIDO (Udisti? Udisti? Ei non ti vol più moglie.)

FENGONE

(a Veremonda)Or vieni, e qui ti affidi.

VEREMONDA (Ambleto, a che mi astringi?)

FENGONE Qui co' più dolci amorisi temprino gli ardori...

Scena quattordicesimaAmbleto da Bacco, e li suddetti.

AMBLETO O che fiamme! O che foco! Un venticellode' più freschi, e soaviqui tosto venga. Io già lo prendo, e tuttolo spargo a voi d'intorno.

VEREMONDA (O mia cara speranza!)

AMBLETO Sediam: ma dimmi: adesso è notte o giorno?

FENGONE Non vedi arder le stelle?

AMBLETO Ah sì: le veggio. O son più chiare e belle,ma non son stelle no.

GERILDA Che dunque sono?

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AMBLETO Infocati sospiriche già son giunti ove hanno i numi il trono.

VEREMONDA (Io ne intendo il mistero.)

AMBLETO Orsù: questo è il momentoche anch'io trionferò. Bacco vedeteche renderà soggette al carro eccelsole tigri più crudeli.

FENGONE (Attento osservo.)

AMBLETO Su: lodate col canto i miei trionfi:e propizie, e sincererisponderan con l'armonia le sfere.

CORO

Qui di Bacco nella reggiasi festeggia il dio d'Amore.

AMBLETO No, no: questa non ècanzon degna di me. Udite, udite.

AMBLETO

Qui d'Astrea vicino al sogliosorgerà lieto l'onore:e sarà temuto scoglioper l'orgoglio il mio valore.

CORO

Qui di Bacco nella reggiasi festeggia il dio d'Amore.

AMBLETO Festeggi dunque Amore. Io delle selvenume, e custode un tempo, a voi ne trassialcun de' miei seguaci. Eccoli. Amicoalla danza alla danza.

Segue il ballo.

FENGONE Col pregiato liquor bramo, Siffrido,del genio mio felicitar la sorte.

SIFFRIDO (E tu berrai la morte.)(parte)

VEREMONDA Sia pur felice il tuo primiero affetto.

FENGONE Son giudice a costei, non più suo amante.

GERILDA (Cangiamento tiranno!)(a Siffrido che torna, e gli leva la coppa dalle mani)

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Atto terzo Ambleto

AMBLETO Chi credi più assetatoTantalo, o Radamanto? Io berrò pria.

SIFFRIDO (Sorte nemica!) Usurpial re sì temerario i primi sorsi?

AMBLETO Hai ragione, hai ragione.Alla salute mia beva Giunone.

(presenta la coppa a Gerilda)

FENGONE Lascia, o Siffrido, in libertade il folle.

VEREMONDA (Io temo, e spero.)

AMBLETO

(a Gerilda)Bevi,

rallegrati il cor. Tosto ritorno.(parte)

SIFFRIDO (In periglio Gerilda? Ahi! Che far deggio?)

GERILDA Non festeggia di un empioGerilda i tradimenti;e sì vil non son io, benché negletta.

(getta la coppa)

SIFFRIDO (Si perdé nel veleno la mia vendetta.)(parte)

AMBLETO (tornando con coppa in mano)

(Mi arrida il ciel.)(a Veremonda)

Con tanto foco intornoha una gran sete il sol. Prendi: ristorale tue labbra vezzose.Sì, prendi. A lui lo porgi, e solo ei beva.

VEREMONDA A te signor si dée...(la porge a Fengone)

FENGONE Sì, Veremonda,sia lieto il viver nostro;ed ai voti del cor risponda amore.

(beve)

VEREMONDA

(a Fengone)(Più soffrir non poss'io.) Vedi, a tuoi giorni...(Ma taci, incauto zelo. Ambleto è figlio.)

AMBLETO Godeste i freschi fiatide' zeffiretti amici. Or non più indugi:gite al riposo, sì. Gite al riposo.

FENGONE (Cor che non è geloso, al certo è stolto.)Porgi, o bella, la destra.

VEREMONDA La destra sì, che tardi?Vorrai che vada solo amor ch'è cieco?Tosto potria cader. Non più. Va' seco.

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FENGONE (Non vuole altro cimento una pazziache cede un sì gran ben.) Cor mio, che pensi?Alle piume mi chiama il grave sonno.

VEREMONDA

(verso Ambleto)Vicina ho la vergogna ed il periglio.

AMBLETO Va'. Non temer. Mostra più lieto il ciglio.

FENGONE

Sì, sì: consolami,né più tardar:e affretta il giubilodel mio piacer.

Sul trono amabilevieni a regnar:nel regio talamovieni a goder.

VEREMONDA

Verrò: già l'animadesia d'amar:e amor sollecitail mio dover.

Parto; ma timidanon so sperar:parto, ma nobilenon vo' temer.

Scena quindicesimaGerilda, e Ambleto.

GERILDA Il vidi, il vidi pur. Passa con l'empioVeremonda al m io letto. E 'l soffro? E 'l soffri?Nella madre oltraggiato, e nell'amante?

AMBLETO Vada pure ai piaceri il fier regnante.

GERILDA Ah! Vile.

AMBLETO Orsù: ti accheta.Qui principiò la mia vendetta, o madre.

GERILDA Come?

AMBLETO Nel fatal vetroil tiranno bevé...

GERILDA La morte forse?

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Atto terzo Ambleto

AMBLETO No: che una morte al perfido si deveche abbia tutto il dolore, e tutto il senso.Bevé in succhi possentiun invincibile sonno. Alto letargolo premerà, prima ch'ei goda; e dovesognava amplessi, incontrerà ritorte:che là di Valdemarostan gli armati in agguato.

GERILDA Ma ti sovvenga poi, ch'io son consorte.

AMBLETO Tal sii, ma di Orvendillo.Ad un nome sì sacrogià Fengon rinunciò. Nel comun rischiosii più madre che moglie. In trono assisopiacciati il figlio. Piacciati punitoil fellon parricida; e 'l tuo si aggiungaal pubblico desio.

GERILDA Sì: vivi, e regna.Giusto è il furore, e la vendetta è degna.

AMBLETO

Sul mio crine amore, e sdegnomi preparo a coronar.

Negli amplessi del mio bene,e col sangue dell'indegnovo' goder, e vo' regnar.

Sul mio crine amore, e sdegnomi preparo a coronar.

Scena sedicesimaGerilda.

GERILDA

O di pietà importuna,o d'ingiusto dover miseri avanzi,da me partite. Un infedel n'è indegno.Sprezzo rendasi a sprezzo, e sdegno a sdegno.

GERILDA

Beltà così dée far:l'ingrato cor non curar,e un'anima infedel soffrir in pace.Amando chi la offendesol per parer fedel,più vil sé stessa rende, e lui più audace.

Beltà così dée far.

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Scena diciassettesimaAnfiteatro reale.

Fengone incatenato in atto di svegliarsi.FENGONE

Orribili fantasmi,spaventi dell'idea, furie dell'alma,lasciatemi, fuggite,e dov'è Veremonda, orror si sgombri.Veremonda, ove sei? Sogno? Ad un sassosiede Fengon? Ferrea catena il preme?

(si leva)

Ov'è lo scettro, ove il diadema? Il manto?Chi me qui trasse? È questa,questa è la reggia, alle mie gioia eletta?Veremonda, Siffrido,servi, custodi... o dèi! Non v'è chi frangai duri ceppi, o 'l mio destin compianga?

FENGONE

Stelle, dèi, vassalli, amici,terra, ciel... tutti ho nemici,ho nemico anche il mio cor.

Cielo, terra,fate pur, fatemi guerra;voi non siete il mio terror.Il mio cor sol mi spaventa,e diventa mio dolor.

Scena diciottesimaValdemaro, poi Ildegarde, poi Gerilda, poi Veremonda, e Fengone.

FENGONE Deh! Valdemaro, il tuo valor mi tolgaalle miserie mie.

VALDEMARO Quel valor, cui negasti empio, e lascivoVeremonda in mercede?A chi non è mio re, nego la fede.

FENGONE A te, bella Ildegarde,chieggo soccorso. Il nostro amor te n' priega.

ILDEGARDE Infedele. Or mi prieghi?Resta: che del tuo amoreperché tu passegger, scordossi il core.

FENGONE Gerilda, mia regina, amata sposa.

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Atto terzo Ambleto

GERILDA Nomi, che mi togliesti ingrato, e cieco.A me in fronte, tu 'l sai, più non s'inchinail titolo di sposa, e di regina.

FENGONE Almen tu, Veremonda,toglimi alle catene.Te n' priego per la tua virtù pudica.

VEREMONDA Tardi, o fellon, la mia virtù conosci.Ingiusto l'offendesti: e invan presumireo di più colpe al fio sottrarti.

FENGONE O numi!

Scena ultimaAmbleto con Séguito, e poi Siffrido, e li suddetti.

AMBLETO Non profanare il cielo.Con le tue voci, o scellerato.

FENGONE Ambleto...

AMBLETO Aggiungi, e tuo monarca, e tuo tormento.

FENGONE Pietà.

AMBLETO Me la insegnasti?

FENGONE È ver.

AMBLETO Taci; che un empiosuol confessare i fallidisperato ben sì, ma non pentito.Morrai; ma pria rimirasulla mia fronte il tuo diadema. Leggiin questo dolce amplessodelle lascivie tue l'onta e l'orrore.

VEREMONDA Così è l'infelice allor ch'è giusto amore?

FENGONE Né mi uccide il dolor pria che l'acciaro?

GERILDA Da te, crudel, la crudeltade imparo.

AMBLETO Or traggasi, miei fidi,l'iniquo all'ombre, ai ceppi, e la più lentasenza morir la morte ei soffra, e senta.

SIFFRIDO Signor, mi si concedach'io 'l custodisca. Vieni.Tu lacci, tu prigion soffrir non déi.

(parte)

FENGONE Son anche a mia difesa amici, e dèi.(parte)

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VEREMONDA Ed ancor spera l'empio?

GERILDA E della sua speranza è reo Siffrido.

VALDEMARO Seguasi tosto.

AMBLETO Andiamo, e si dividafra 'l traditore, e fra 'l crudel la morte.

SIFFRIDO (torna con spada nuda)

Quest'acciaro, che fortefe' la vostra vendetta, e più la mia,a voi dirà, se traditore io sia.

AMBLETO Come?

SIFFRIDO Dovea cader l'iniquo mostro;ma per me solo. Oggi 'l tentai; ma invano,col ferro, con ruina, e con veleno.Qui 'l tolsi a vostri colpi;ma 'l tolsi, eccome il sangue,per gloria del mio braccio.

AMBLETO Traditor generoso, al sen ti abbraccio.

VEREMONDA (Alma, non più spaventi.)

AMBLETO Io, Veremonda,sposo, e re godo teco: e Valdemarosposo pur goda ad Ildegarde in seno.

VALDEMARO Ambleto è re. Di Veremonda è sposo.

ILDEGARDE Intendo. Or sia 'l suo cenno il tuo riposo.

AMBLETO Tu regnerai pur meco, o genitrice.

GERILDA Nel tuo, nel comun bene io son felice.

VEREMONDA Torna già quel serenche quest'alma cercò.

AMBLETO Gioirò nel piacerche più pena non ha.

GERILDA L'impietà del crudelpiù temere non so.

SIFFRIDO Pur godrò col pensierdella mia fedeltà.

VALDEMARO La beltà stringo al senche già il sen m'infiammò.

ILDEGARDE Io vivrò nel tuo corche mio core si fa.

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Indice Ambleto

I N D I C E

Attori.......................................................3

Eccellenza...............................................4

Argomento..............................................5

Atto primo...............................................6Scena prima........................................6Scena seconda....................................7Scena terza.........................................8Scena quarta.....................................10Scena quinta.....................................11Scena sesta.......................................12Scena settima....................................13Scena ottava.....................................13Scena nona.......................................15Scena decima....................................16Scena undicesima.............................17Scena dodicesima.............................17Scena tredicesima.............................18Scena quattordicesima......................19Scena quindicesima..........................19Scena sedicesima..............................20Scena diciassettesima.......................21Scena diciottesima............................22Scena diciannovesima......................23

Atto secondo.........................................24Scena prima......................................24Scena seconda..................................24Scena terza.......................................26Scena quarta.....................................27Scena quinta.....................................28Scena sesta.......................................28

Scena settima....................................30Scena ottava.....................................31Scena nona.......................................31Scena decima....................................34Scena undicesima.............................34Scena dodicesima.............................35Scena tredicesima.............................36Scena quattordicesima......................37Scena quindicesima..........................39Scena sedicesima..............................40Scena diciassettesima.......................41Scena diciottesima............................41

Atto terzo..............................................43Scena prima......................................43Scena seconda..................................44Scena terza.......................................44Scena quarta.....................................45Scena quinta.....................................46Scena sesta.......................................47Scena settima....................................49Scena ottava.....................................49Scena nona.......................................51Scena decima....................................51Scena undicesima.............................52Scena dodicesima.............................52Scena tredicesima.............................53Scena quattordicesima......................54Scena quindicesima..........................57Scena sedicesima..............................58Scena diciassettesima.......................59Scena diciottesima............................59Scena ultima.....................................60

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AMLETO

Tragedia lirica.

testi di

Arrigo Boitomusiche di

Franco Faccio

Prima esecuzione: 30 maggio 1865, Genova.

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Informazioni Amleto

Cara lettrice, caro lettore, il sito internet www.librettidopera.it è dedicato ai librettid'opera in lingua italiana. Non c'è un intento filologico, troppo complesso per essere

trattato con le mie risorse: vi è invece un intento divulgativo, la volontà di farconoscere i vari aspetti di una parte della nostra cultura.

Motivazioni per scrivere note di ringraziamento non mancano. Contributi esuggerimenti sono giunti da ogni dove, vien da dire «dagli Appennini alle Ande».

Tutto questo aiuto mi ha dato e mi sta dando entusiasmo per continuare a migliorare eampliare gli orizzonti di quest'impresa. Ringrazio quindi:

chi mi ha dato consigli su grafica e impostazione del sito, chi ha svolto le operazionidi aggiornamento sul portale, tutti coloro che mettono a disposizione testi e materialiche riguardano la lirica, chi ha donato tempo, chi mi ha prestato hardware, chi mette a

disposizione software di qualità a prezzi più che contenuti.Infine ringrazio la mia famiglia, per il tempo rubatole e dedicato a questa

attività.

I titoli vengono scelti in base a una serie di criteri: disponibilità del materiale, datadella prima rappresentazione, autori di testi e musiche, importanza del testo nella

storia della lirica, difficoltà di reperimento.A questo punto viene ampliata la varietà del materiale, e la sua affidabilità, tramite

acquisti, ricerche in biblioteca, su internet, donazione di materiali da parte diappassionati. Il materiale raccolto viene analizzato e messo a confronto: viene

eseguita una trascrizione in formato elettronico.Quindi viene eseguita una revisione del testo tramite rilettura, e con un sistema

automatico di rilevazione sia delle anomalie strutturali, sia della validità dei lemmi.Vengono integrati se disponibili i numeri musicali, e individuati i brani più

significativi secondo la critica.Viene quindi eseguita una conversione in formato stampabile, che state leggendo.

Grazie ancora.

Dario Zanotti

Libretto n. 200, prima stesura per www.librettidopera.it: febbraio 2010.Ultimo aggiornamento: 23/12/2015.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Personaggi

P E R S O N A G G I

AMLETO, principe di Danimarca .......... TENORE

Claudio, RE di Danimarca .......... BARITONO

POLONIO, lord ciamberlano .......... BASSO

ORAZIO, amico di Amleto .......... BASSO

MARCELLO, ufficiale .......... BASSO

LAERTE, figlio di Polonio .......... TENORE

OFELIA, figlia di Polonio .......... SOPRANO

Geltrude, REGINA di Danimarca, madre diAmleto .......... MEZZOSOPRANO

Lo SPETTRO .......... BASSO

Un SACERDOTE .......... BASSO

PRIMO BECCHINO .......... TENORE

ATTRICE SOPRANO

ATTORE TENORE

LUCIANO BASSO

Tre Cantori. Cortigiani, Paggi, Dame, Ufficiali, Soldati, Popolo.

La scena è in Elsinora.

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Atto primo Amleto

A T T O   P R I M O

Parte primaGran sala reale nel castello di Elsinora.

Il Re, la Regina, Amleto, Polonio, Laerte, Dame, Cortigiani,Ciamberlani, Ufficiali, Paggi.

Frailty the name is woman.

Festa d'incoronazione. Il nuovo Re beve a mensa; ad ogni tazza ch'eglivuota scoppiano gli evviva per tutta la reggia. Ofelia entra più tardi e più

tardi ancora entrano Orazio e Marcello.TUTTI Viva il re!

RE Di giulivi clamorisorga un tuon per le splendide sale,e fra i suoni, le danze, i fulgori,s'alzi un carme che narri di me.Né si vuoti una tazza regalese pria l'orbe il suo plauso non diè!Alla vostra salute, o signori!

LAERTE E POLONIO Viva il re!

CORTIGIANI E DAME Viva il re!

UFFICIALI Viva il re!

AMLETO

(in disparte)(Ah si dissolva quest'abietta forma

di duolo e colpe! Si dissolva in nulla.Deh! Se il reietto suicida non fosse

fulminato da dio!... per me la vitaè dannazione, e la terra un immondoloto maligno. ~ E qui si danza, e un mesenon è compiuto che morì mio padre!...

Ahi vituperio! E le incestuose membracon ansia invereconda abbandonavala sposa del magnanimo defuntonell'atre braccia di quel drudo! Orrore!

Ti frena o lingua, e non tradir lo sdegnoche mi s'addensa nel core profondo.)

OFELIA E LAERTE Su beviam negli eletti bicchieri,fra il gioir delle danze cocenti.

CORTIGIANI Altra danza da prodi guerrieridanzerem ove il voglia la fé.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

UFFICIALI Ove il fier Fortebraccio s'attentidi levar la sua spada su te.

RE Alla vostra salute, o messeri!

LAERTE E POLONIO Viva il re!

CORTIGIANI Viva il re!

UFFICIALI Viva il re!

Segue una danza.

RE Caro Amleto, e qual t'ange rancurache t'arruga la fronte pensosa?

AMLETO Nulla, o re, sol contrasta l'oscuraveste e il lutto fra tanto splendor.

REGINA Caro Amleto, men triste e crucciosavolgi al re la parola del cor.

CORTIGIANI E DAME Su, danziam! Per le splendide muratutto esulta di luce e d'amor.

LAERTE Leva, o prence, lo sguardo giocondo.Non t'attristi de' morti il pensiero.

REGINA Egli è fato comune che al mondociò che ha vita è dannato a perir.

AMLETO

(amaramente)Ben parlate, signora, davvero.

CORO Dunque ognuno s'affretti a gioir.Poich'è fato comune che al mondociò che ha vita è dannato a perir.

(entra Ofelia e s'avvicina gentilmente ad Amleto)

OFELIA Principe Amleto! Tutto mesto e nerofra gli splendori del regal connubiorassomigli alla larva del mistero.

AMLETO

(cupamente)O al fantasma del dubbio!

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Atto primo Amleto

OFELIA

(sempre ad Amleto)

Dubita pur che brillinodegl'astri le carole,dubita pur che il solefulga, e che sulla roridazolla germogli il fior;

dubita delle lagrime,dubita del sorriso,e dubita degli angeliche sono in paradiso,ma credi nell'amor!

RE

(ad Amleto)È pertinace invero un tal corruccio,cugino mio; d'un traviato coree' mi discopre le tenaci fibreimmansuete. Al cielo offendi, o insano,cogli eterni sospir; la rassegnatapazienza è virtù, smetti il cordoglio.Nello immutabil fato ell'è folliacoll'umana cervice dar di cozzo.Ed or ch'esulta Danimarca interanon venga il duolo a contristarci: ai mortitributiamo un pensier di ricordanza,pur misto al gaudio di procaci posee di bicchieri spumeggianti; il risostia del labbro signore, e nel profondopetto s'accolga la pietà del pianto.Così, messeri; e un pio brindisi or sciolgoper darvi il retto esempio.

CORTIGIANI E noi ti udiamo.

RE (con un nappo in mano)

Requie ai defunti. ~ E colmisid'almo liquor la tazza.Oriam per essi. ~ E il calicetrabocchi sull'altar.

Tal che fra i suoni e i canticidell'ora ardente e pazza,scenda rugiada e balsamosui morti il pio libar.

Libiam! La lagrimasul ciglio spunti.Oriam. ~ E tremulovacilli il piè.

Requie ai defunti!

CORTIGIANI E gloria al re!

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

REGINA Requie ai defunti. ~ E intreccinsipoetiche carole.Oriam per essi. ~ E un canticoalziam di voluttà.

Lungi dai morti il lugubrelamento e le viole.La danza ai mesti spiritipiù dolce assai parrà.

Libiam! La lagrimasul ciglio spunti.Oriam! Ed agiletrasvoli il piè.

Requie ai defunti!

CORTIGIANI E gloria al re!

AMLETO (Dell'ebro la bestemmiapunisci, o dio possente,fa' che non giunga all'animadel padre mio dormente.La requie eterna i perfidipregan pe 'l genitor.

Ma la lor prece è folgoreche ricadrà su lor.)

OFELIA (La pace eterna e il placidoriposo dei beatiinvoco io pur sull'animadei giusti trapassati.Ma le mie labbra al calicenon posso avvicinar.)

LAERTE (porgendole una tazza)

Su bevi, Ofelia, e allegrati...

OFELIA Lasciatemi pregar.

CORTIGIANI E DAME Libiam! La lagrimasul ciglio spunti.Oriam! Ed agiletrasvoli il piè.

RE Requie ai defunti!

TUTTI E gloria al re!

(entrano Marcello ed Orazio, e s'accostano ad Amleto misteriosamente, formando un gruppo a parte)

MARCELLO Prence.

ORAZIO Signor.

AMLETO Mio buon Marcello... Orazio...

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Atto primo Amleto

LAERTE

(al Re)Bello il brindisi affé. ~ Per le purgantianime tristi avrà valso mill'annidi beata indulgenza.

POLONIO Ed all'arsicciogorgozzule bramoso una feliceinnaffiata.

AMLETO

(ad Orazio e Marcello)È ver; seguir le nozze

ben presto ai funerali ~ Oh! Padre mio!...Parmi vederlo.

MARCELLO E dove?...

AMLETO Coll'ardentepupilla del pensiero.

ORAZIO O mio buon prence.Nella passata notte io sì che 'l vidi.

AMLETO Chi?...

ORAZIO Vostro padre?...

MARCELLO (Il vidi anch'io!)

LAERTE (co' la tazza alzata)

Versate!

LAERTE

Sovra il desco inebriatopiovan baci e gemme e fiori,piovan nembi di fulgori,armonie di voluttà!

CORO E la reggia un incantatoparadiso ci parrà!...

ORAZIO

(ad Amletomisteriosamente)

Nell'ora dei morti ~ vegliava Marcellosolingo in vedetta ~ lunghesso il castello.

MARCELLO Vegghiavo in vedetta ~ quand'ecco ver mes'avanza tremendo ~ lo spettro del re.Tre volte l'immota ~ pupilla da mortobrillar di corrusche ~ scintille v'ho scorto.Tre volte le cupe ~ mascelle sbarrò,e presso al mio corpo ~ tre volte passò.

POLONIO

(dal desco)Son discesi in questa reggia

una turba di giullari.

LAERTE

(scherzosamente)Con prestigi e giochi rarie diaboliche virtù.

AMLETO Né motto a lui feste?

MARCELLO Richiesi 'l tremante,pur muto ed immobil ~ mi stette davante.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

ORAZIO Sol credo una volta ~ volesse parlar.

MARCELLO Ma sparve repente ~ d'un gallo al cantar.

OFELIA

(dal desco)Sì davver?...

LAERTE Nullo pareggiaa codesti cerretani.

POLONIO Son di climi assai lontani.

LAERTE Figli son di Belzebù.

AMLETO E avea la sembianza?...

MARCELLO Sdegnosa ed altera.

ORAZIO E ritta sull'elmo ~ tenea la visiera.

CORTIGIANI Su! La danza scatenifuribonda, ardente e pazza.

UFFICIALI Dall'ebbrezza della tazzaall'ebbrezza dell'amor.

ORAZIO

(ad Amleto)Signor, questa notte ~ di scolta sarò.

AMLETO Ebben questa notte ~ pur io ci verrò.

CORTIGIANI Ve' l'ansar de' bianchi seni!Ve' degli occhi la baldanza!

UFFICIALI Danza, danza, danza, danza!Tutto è riso, luce e fior!

AMLETO Ben io gli parlerò, se pur l'avernotutto s'armasse contro me; sepoltoresti in voi l'accaduto. In questa nottevo' vedere l'ombra di mio padre.

RE

(gridando dal desco)Ai morti

la requie eterna, e ai vivi la follia!

LAERTE Ben dice il re. Danziamo!

AMLETO (Io d'un mal giocosospetto assai.)

MARCELLO Che pensi Amleto?

AMLETO Andiamo.(parte con Orazio e Marcello)

TUTTI Su! La danza scatenifuribonda, ardente e pazza,e si getti al suol la tazzae trasvoli ardente il piè.

CORTIGIANI Ve' l'ansar de' bianchi seni!

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Atto primo Amleto

UFFICIALI Ve' degli occhi la baldanza!

TUTTI Danza, danza, danza, danza!

CORTIGIANI Al re gloria!(la danza è interrotta dalla partenza del Re)

TUTTI Gloria al Re.(il Re abbandona la festa accompagnato dalla Regina e dai ciamberlani. Grida di evviva. La folla si disperde)

Parte secondaUna piattaforma.

È oscura notte: a destra il castello d'Elsinora. Gli alberi e i culmini delcastello biancheggiano di neve.

Amleto, Orazio, Marcello, avvolti in lunghi mantelli s'avanzanolentamente, poscia lo Spettro.

O, horrible! O, horrible! Most horrible!

AMLETO Soffia la brezza acuta.

ORAZIO Il freddo punge.

AMLETO Quante ore son?

MARCELLO Cred'io che poco manchia mezzanotte.

ORAZIO È già scoccata.

MARCELLO Alloranon posi mente. ~ Il tempo s'avvicinache suol lo spettro errar fra questi spaldi.

(s'odono musiche dal castello, i tre rimangono muti per qualche istante. Apparisce lo spettro)MARCELLO

Ecco egli vien...

AMLETO Gran dio... misericordia!...Vegliate su di me, santi del cielo!E te, spettro vagante, angelo o furia,

spirto di pace o di martiri, invoco!Sotto care sembianze a me ne vieni,

te uomo padre, a rispondi, e il velodi mia mente dirada. A me rispondi!

Oh! Qual misterio la tua salma avviva,che dall'avello ne risorgi, e gettiil lenzuol della morte, e vagolandocadavere vivente e d'armi cintovieni nell'alta notte a spaventarecol morto aspetto i vivi? A me rispondi! ~(lo Spettro accenna col braccio ad Orazio e Marcello)

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

ORAZIO Ei d'andar ne fa cenno. Al solo Amletoparlar vorrà.

AMLETO V'allontanate.

MARCELLO O prence,né temi?...

AMLETO Io nulla; ite, ve n' prego.

MARCELLO

(a Orazio)Orazio,

poco discosti gli starem; col mortomal fora abbandonarlo. Andiam qui presso.

(s'internano fra gli alberi)

Lungo silenzio.SPETTRO Tu déi saper ch'io son l'anima lesa

del morto padre tuo, su cui lo sdegnodell'eterna giustizia incombe e pesa.

Me stesso fei per mio fallire indegnoed or le colpe della vita lietapurgo col foco del dolente regno.

Oh! Se non fosse il ciel che lo mi vieta,io ti direi del mio patir, e ghiaccioper lo terror ti si faria la creta.

Pur alte cose udir t'è forza; impaccionon ti sia lo spavento. O figlio! O figlio!

Vendetta io vo' del maledetto braccioche mi diè morte...

AMLETO

(con impeto immenso)Orror!... Deh narra, e quale?...

Qual fu colui?... Ch'io lo conosco, e rattocome un desio d'amor voli e l'uccida!

(s'odono ancora le musiche di danza)

SPETTRO Or se la tua parola è in cuor nutrita,ascolta o figlio: in Danimarca suonad'un serpe reo che mi furò la vita,e ognun di ciò come del ver ragiona,ma il ver tu sappi; il serpe che m'ha spentoor porta in capo la regal corona.

AMLETO Ahi! Veggente cor mio!

SPETTRO Ma intorno io sentocome un olir di soffio mattutino;breve adunque sarò. ~ Era il momentodopo il meriggio, e sceso nel giardinodormia sonno di pace, allor che il tristofratello mio s'appiatta a me vicino.

Continua nella pagina seguente.

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Atto primo Amleto

SPETTRO E con orrenda man, goccia, non visto,nel mio orecchio un venen sì rio che d'anguesoperchia ogni puntura, o d'improvvistocongela il cor nell'attoscato sangue.

E tal morimmi, d'atra scabbia impuralasciando maculato il corpo esangue.

L'anima mia dei vizi la lorduralava soffrendo, e nella cupa nottecosì vestita errando si rancura.

Orribil cosa! E tu se pur corrottenon hai le fonti d'ogni senso umanofaimi vendetta! ~ Or riedo alle mie grotte,fra l'ignei guai, poiché là nel lontanoscerno del ciel la nube picciolettabiancheggiar di splendor antelucano,e languidir la stanca luccioletta.Io m'accomando, ti sorregga Iddio;ricordati di me, della vendetta.

Già più non dico, è giunta l'ora; addio.(si sprofonda)

AMLETO Angioli e santi! Inferno e ciel! Reggetequeste mie membra e questa mente, e il corenon diventi pusillo. Ah! Mio buon padre,vendicato sarai, lo giuro.

(entrano affannosi Orazio e Marcello)

ORAZIO Amleto...

MARCELLO Signor?

ORAZIO (Lo guardi iddio!)

AMLETO Miei cari, un lievefavor non mi negate; il gran prodigioche in questa notte apparve alcun no 'l sappia.

ORAZIO Nulla direm.

AMLETO Giurate.

ORAZIO Sulla fede.

MARCELLO Sulla fede giuriamo.

ORAZIO E sulla spada.(sguainano le spade)

SPETTRO

(di sotterra)Giurate!...

AMLETO Sì, scenda su te la requie,spirto affannato.

SPETTRO

(con voce sempre piùcupa)

Per la fé giurate!

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

AMLETO, ORAZIO EMARCELLO

Giurammo, sì.(incrociando le spade)

SPETTRO Giurate!

AMLETO O miei compagni,preghiam per lui.

AMLETO, ORAZIO EMARCELLO

De profundis clamavi...

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Atto secondo Amleto

A T T O   S E C O N D O

Parte primaUna sala nel castello.

Il Re, la Regina, Polonio, poscia Amleto.

To be, or not to be!

POLONIO Egli ha mania di gironzar soventilungh'ore in questa sala.

RE Or ben, qual provane date voi che fia suggel del vero?

POLONIO Quand'ei qui giunga, a lui verrà mia figlia,ed appiattati dietro quell'arazzoavvertirem le lor parole. Il giuro:Amleto è pazzo per amor di Ofelia.Io non vi mento, o re, mi condannatese falso è il mio parlar.

REGINA Ecco ei s'appressapensoso in aria di dolor.

POLONIO Partiamo.(partono cautamente. S'avanza Amleto assorto in profondissima meditazione)

AMLETO Essere o non essere! Codestala tesi ell'è. ~ Morir? ~ Dormire ~ e poi?...

Finir le angosce di quest'egra e lerciadi carne eredità con un letargo!...

Morir? ~ Dormire ~ e poi?... Dormir ~ Sognare!Qui si dismaga l'intelletto: e quali

sogni fuggiti dalla grama vitamorbile verranno a popolar quella feraleeternità di sonno?... E qui s'impiglial'umana gente e n'esce il nero dubbio.

AMLETO

Ah se bastasse il rapidovibrar d'uno stilettoper annientar quest'animache ci tumultua in petto,chi mai vorria l'ingiuriedell'oppressor soffrire,i disinganni e l'ire,e la tradita fé?

Continua nella pagina seguente.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto secondo

AMLETO Ma dalla tomba s'alzanofantasmi di terroreed un mistero orribileci fa pusillo il core,ci lega alle miseriedi questa età mortalepria che gettarci al maleche noto ancor non è.

(entra Ofelia con un cofanetto fra le mani)AMLETO

Chi vien? La giovinetta Ofelia.

OFELIA Prence.

AMLETO

(fingendo demenza)Odi o gentil ~ quando la sera

stende la bruna ~ ala pe 'l ciel,quand'ergi a Dio ~ la tua preghieraprostrata a piè ~ del santo ostel.

Prega pei mesti ~ cui passion fieraha morto il cuore ~ morta la fé;del santo ostel ~ prostrata al piè.

Prega per me.

OFELIA Signor, da gran tempo ~ tenevo nel cordi rendervi questa ~ memoria d'amor.

È d'oro e d'argento ~ è degna d'un re.Ma pur pe' miei sguardi ~ l'incanto perdé!

AMLETO Prega per me.

OFELIA Prendetela o prence.

AMLETO Che mormori mai?Vezzosa fanciulla ~ dai fulgidi rai?

OFELIA Se morto v'è il cuore ~ se morta la fé,per me questo pegno ~ l'incanto perdé.

AMLETO Prega per me,ma pur s'egli è vero ~ che un giorno t'amai,vezzosa fanciulla ~ dai fulgidi rai,vo' darti un consiglio ~ ascoltalo o bella;recidi del capo ~ le morbide anella;

fatti monachella.

OFELIA (Lo salva, o Signore ~ pietoso, possente,disperdi le nubi ~ dell'egra sua mente,ascolta d'un'alma ~ la pura favella,ascolta la prece ~ di mesta donzella.)

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Atto secondo Amleto

AMLETO Sì, fatti monachella. ~ E se maritopigliar t'è forza, allor ti sposa a un pazzo;di ciò t'assenno, perché i saggi han menteda discerner quai mostri usin le sposefar de' lor sposi ~ ti fa monachella.

Ed or te n' va' te n' va'... non più parolasu ciò che il senno mi turbava... Il giuro!

Connubi più non si faran! Coloroche ammogliati son già viver potranno...viver potranno tutti... fuor d'un solo...

OFELIA (Lo salva, o Signore ~ pietoso, possente,disperdi le nubi ~ dell'egra sua mente.)

AMLETO Vo' darti un consiglio ~ mia povera bella:recidi del capo ~ le morbide anella.

Fatti monachella ~ fatti monachella.(Ofelia s'allontana pensierosa e dolente)

POLONIO (rientrando)

Prence, v'annuncio de' cantor l'arrivo.

AMLETO Ohibò!

POLONIO Da' senno, a noi verran fra breve.

AMLETO (con piglio da pazzo)

A caval d'un asinellogaloppava un menestrello.

POLONIO Ponete orecchio al mio parlar.

AMLETO Vecchiardo,un gran tesor possiedi.

POLONIO E quale o prence?

AMLETO Una figliola ~ fresca e gentilcome viola ~ di primo april.

POLONIO Vi parlai dei cantor.

AMLETO Sta ben, gli accoglicortesemente, e di' lor ch'io comandoper questa sera una grande tragedia.Per esempio: «L'orribile assassiniodi re Gonzaga».

POLONIO Prence sì.(esce)

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto secondo

AMLETO Soventeudii narrar di pravi e manigoldicui la lor grama coscienza, nudediscopria le lor colpe in faccia al mondo.Ed ei medesmi si tradian, commossiin veder dalle scene i lor delitti. ~Il dramma dei cantor è l'atra istoriadell'uccision del padre mio: presenteil re sarà. ~ Vo' scrutinar quell'occhionelle remote impression del core...S'ei raccapriccia... io mi sobbarco al colpo!

(esce precipitosamente)

Parte secondaLa sala degli spettacoli sontuosissimamente adorna, e da splendidi

candelabri illuminata.Nel fondo un breve rialto coperto di velluti ricchissimi e d'oro a foggia

di palcoscenico; nessun altro ornamento vi sta sopra fuor d'unosgabello. Qua e là nella sala saranno collocati degli scanni per gli

spettatori. Ingresso pomposo della Corte.Entrano il Re, la Regina, Polonio, Laerte, Ofelia, Amleto, Orazio e

Marcello.

Lights, lights, lights!

Squillo di trombe. Marcia.

AMLETO

(a Polonio)E son presti i cantor?

POLONIO Attendon soloil piacer vostro, o prence.

REGINA Amleto, siedida' costo alla tua madre.

AMLETO (accennando là dove siede Ofelia)

Una più fortecalamità costà m'attira.

POLONIO

(piano al re)Udiste?

AMLETO

(a Ofelia)Sulle ginocchia di madonna il capom'è concesso posar?

OFELIA Prence, vi frullal'allegria questa sera?

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Atto secondo Amleto

AMLETO Eh! Mi celiate!

OFELIA Daddovero, signor.

AMLETO (adagiandosi a' piedi d'Ofelia)

Vostro giullareper tal guisa sarò; su questa terrasi dée viver gioiosi, e la reginane dà l'esempio, benché morto ei siada poch'ore mio padre. Oh! Strano lutto!Mi risovvien di qual matto epitaffio:

«Il funerale ~ del carnovalefra nappi e fior ~ s'affoga e muor»...

OFELIA Tacete... s'incomincia.

Alcuni Suonatori schierati davanti il rialzo con viole, lironi, chitarre,arpe incominciano un preludio.

AMLETO Uf! Questo stilesa odor di muffa un miglio; a lungo andareci annoierà.

OFELIA Prence, corrivo sieteal giudicar.

AMLETO Seguo l'usanza.

OFELIA Or viadate orecchio alla musica.

AMLETO Ciarlandoe celiando più l'arte s'apprezza.

I due Cantori che fanno la parte di re Gonzaga e di regina Giovannarisalgono sul rialto della rappresentazione. Un momento di silenzio.

ATTORE

(re)Vieni, compagna, un tiepido

orezzo vespertinfa carolar le mammolenel placido giardin.

Vieni, delizia caradi questa vita amara,sorreggi ancora gli ultimipassi del mio cammin.

ATTRICE

(regina)Perché di malinconiche

fole t'annebbi il cor,perché ti crei fantasimidi cruccio e di terror?

Ridono i fiori e cantal'augello in su la pianta.Volan scherzando i zeffiri,e tu sospiri ognor?

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto secondo

AMLETO (mentre si canta, furtivamente e rapidissimamente a Orazio)

Fruga con occhio scrutator se al puntogiunti i cantori che tu sa' l'arcanosulla fronte del re si disasconda...Cautamente anch'io gli sguardi fissiterrò ne' sguardi suoi.

ORAZIO Prence, l'aiutovi dà l'amico.

AMLETO Or ben, facciam le visted'esser oziosi; a te m'arraccomando.

(ritorna presso Ofelia, e scherzando col suo ventaglio fissa attentamente il re)

ATTORE

(re)Già cala al fondo il tramite

della mia tarda età.Questa mia creta poveraforse doman morrà.

E tu vivrai; nel coreti batterà l'amore,e inghirlandato il talamodi nuovi fior sarà.

ATTRICE

(regina)Non sarà mai ch'io maculi

l'intemerata fé,ch'io ti donai nei teneridì, che m'univa a te.

Colei cui voglie oscenetraggono a nuovo imenespense con man sacrilegalo sposo che perdé.

ATTORE

(re)Bada che presto obliansi

le lagrime e i sospir,bada che presto sperdeside' morti il sovvenir.

Addio... già cala il sole.Su quel guancial di violechiuder vorrei la languidapupilla, e m'assopir...

(si adagia e s'addormenta. La regina del dramma esce dal palcoscenico)

AMLETO Vi garba, o madre, il dramma?

REGINA È di soperchioloquace la regina.

RE L'argomentocosa non chiude che ferir ne possa?

AMLETO Nessuna al mondo.

RE Il titolo?

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Atto secondo Amleto

AMLETO La «Trappola».(con piglio da pazzo)

E il sorcio? O diamine!il sorcio ov'è?Non la si scappola,il sorcio è il re.Viva la «Trappola»!

È un fatto occorso in Vienna, una faceziadi veleni, di stupri e di rapine.E che perciò? Gonzaga è quel che dorme,Giovanna è la regina, e un ser Luciano,ch'è fratello del re, verrà fra breve.

OFELIA Prence valete quanto il coro.

AMLETO (con un segno a Orazio e Marcello)

Attenti...(entra Luciano lentamente e facendo una lunga scena mimica prima d'avvicinarsi al re Gonzaga)

(durante il soliloquio di Luciano, tutti gli spettatori del dramma parlano sommessamente a seconda dellepassioni da cui sono agitati)

RE Regina, nel core ~ mi lacera il morsod'un negro pensiero ~ d'un bieco rimorso.Regina, m'aita ~ mi sento tremar.Quel vecchio che dorme ~ non posso guardar.Quel vecchio... no 'l vedi? Orrenda figura!È un morto che spezza ~ la sua sepoltura...

Regina! Ho paura.

REGINA Paura, pusillo ~ di fatua fiamma?Di vana chimera ~ che i sensi t'infiamma?

Paura d'un dramma?

RE Non ridere, o donna ~ quel cheto giardino,quel veglio corcato ~ quel torvo assassinoche a passi di iena ~ si vede venirm'agghiaccian le vene ~ son presso a morir...

REGINA Coraggio! Di faci ~ risplendon le mura,discaccia la fola ~ che il cor ti tortura.

RE Regina! Ho paura.Un foco d'inferno ~ le fauci m'infiamma,non posso gridare... m'investe una fiamma.

REGINA Paura d'un dramma!

RE Non ridere, o donna ~ pon mente... dal senoquel trovo omicida ~ ritragge un veleno.Or ecco... s'appressa ~ s'appressa... gran dio!Quel torvo omicida ~ regina ~ son io...

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto secondo

AMLETO Osserva, Orazio,su quella frontenon vedi un funebrestrano pallor?Son quelle, Orazio,le tetre improntedell'uccisor...

ORAZIO Vedo, signor.

AMLETO Osserva, Orazio,livido e tetroaccenti mormorad'ira e terror;dunque un miracoloera lo spettrodel genitor...

ORAZIO Vedo signor.

AMLETO (Domani esanimecadrammi al piè.)

(con violenta allegria)

Là non si scappola,il sorcio è il re...Viva la «Trappola».

OFELIA Prence, silenzio,la vostra celiala queta musicaconturba ognor.

AMLETO Deh perdonatemi,soave Ofelia,sereno ed ilaremi sento il cor.

VECCHI SPETTATORI EPOLONIO

Oh ammirabile tragedia.Piena d'estro e di splendor!

GIOVANI SPETTATORI Questa musica ci tedia,ci addormentano i cantor.

VECCHI SPETTATORI Quale incanto! Bravi, braviviva l'arte de' nostri avi!

GIOVANI SPETTATORI (deridendo)

Noi più baldi e men devotivogliam l'arte dei nipoti.

VECCHI SPETTATORI (battendo le mani)

Viva l'arte de' nostri avi.Bravi, bravi!

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Atto secondo Amleto

LUCIANO

(attore)L'ultimo sonno, o re Gonzaga, è questoche dormi in terra, dormirai fra pocosonno più duro, e la virtù d'un filtroviatico sarà per l'altro mondo.O re Gonzaga, buona notte.

(versa il veleno nell'orecchio di Gonzaga)

RE (spaventato)

Orrore!

OFELIA S'alza il re...

RE Faci, faci!...

AMLETO (gridando e trattenendo il re)

Eh! Nulla, zio.È morto attossicato, e dal fratelloattossicato... orribil cosa... e 'l spenseper rapirgli lo scettro e la consorte.È pura storia, il giuro... dunque prestoche il dramma si prosegua...

RE Basta, basta!...Faci, aita!...

REGINA Che fai, folle?...

POLONIO Cessate!E rimbombi la marcia trionfale.Faci! Il re si ritira!

(i trombettieri ripigliano la marcia danese confusamente e scomposta)

AMLETO

(a Orazio)Hai tu veduto?

Egli è là! L'assassino! O mia vendettaarmati!

ORAZIO O mio signor, prudente siate.

AMLETO La non si scappola,il sorcio è il re.Viva la «Trappola»!

RE Fuggiam lo spettro... faci... aiuto...

POLONIO Faci...

Il Re fugge. I Ciamberlani lo seguono. Confusione, spavento, disordine,stupore generale.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

A T T O   T E R Z O

Parte primaUna alcova nel castello.

Porta con cortinaggi. Un inginocchiatoio; vari altri mobili; un ritrattodel Re appeso alla parete.

Il Re, poscia Amleto.

How now! A rat?

RE O nera colpa! Orribilmente inflittaentro l'occhio dell'anima! Perenneimmutabil ricordo! ~ E non fia maich'io mi rimondi, o che dal core io tolgala nota del rimorso?... O spaventosacoscienza mia, cui tanto leppo ammorba,prega! La dolce orazione è un frescolenimento al dolor... prega... e voi rudiginocchia vi piegate, e tu cuor duroapriti a caritade, e tu mia linguatremante e balda, mormora una santapreghiera a dio per un poco di pace.

(s'inginocchia ~ passa Amleto con un pugnale in mano)

AMLETO (Ecco il momento... ei sta pregando... All'opra!...No! Ché nel cielo il lancerei d'un colpo...

folle, e vendetta non avrei. ~ Nel buioinferno io vo' precipitarlo. Andiamo.)

(esce)

RE

O padre nostro ~ che sei nel cielosii benedetto ~ nel tuo splendor...Pregan le labbra ~ ma son di gelo

anima e cor.Venga il tuo regno ~ e sulla terra

si compia l'alta ~ tua volontà...Ah! Che un demonio ~ pe 'l crin m'afferra.

Pietà, pietà!Ne dona il pane ~ quotidiano

o padre santo ~ dolce sovran...Di sangue lorda ~ ho ancor la mano

e prego un pan!Continua nella pagina seguente.

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Atto terzo Amleto

RE Perdona al tristo ~ le sue peccatacom'ei perdona ~ all'offensor...Ciel! La mia morte ~ ho qui segnata.

Pietà, signor!(s'alza inorridito)

Non ascoltarmi ~ e' fu il demonioche di mie labbra ~ gioco si fe'.Non ascoltarmi ~ quest'orazione

non è per me.(fugge)

Entrano Polonio, la Regina, poscia Amleto.POLONIO Qui l'attendete e con forti rampogne

quel bizzarro cervel dite che ammansi;dite che il suo celiar già passa il segno,e che no 'l soffre il re.

REGINA N'andate, ei viene.(Polonio esce)

AMLETO Madre?

REGINA Signor, grave un'offesa all'altamaestà scagliaste.

AMLETO Grave offesa, o madre,al padre mio scagliaste.

REGINA Orsù, frenatela pazza lingua.

AMLETO E la lingua perversafrenate voi.

REGINA Tant'osi, Amleto! E dunquechi mi sia tu obliasti?

AMLETO Oh per lo cielo!Ben v'ho a mente regina, che la sposavoi siete del fratel del padre mio,ben v'ho a mente che madre a me voi siete.Togliesse 'l dio!

REGINA Principe!

AMLETO Or via, tranquilladimorate e tacete, infin che tuttal'anima vostra in un immondo specchioio v'addimostri... né fuggir tentate.

REGINA Ciel! Che? Vuoi forse trucidarmi? Aiuto!...Aiuto!...

POLONIO (dietro l'arazzo)

Aiuto!... Alla Regina! Aiuto...

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

AMLETO Cos'è codesto? Un topo... un topo... un topo...scommetto ch'io l'infilzo.

(sguaina la spada e trapassa l'arazzo)

POLONIO Oh dio!...

REGINA Che festi?

AMLETO No 'l so da senno! Oh... forse il re!(corre e solleva l'arazzo)

REGINA Polonio!...

AMLETO Morto. Messere, mal vi consigliastedi torvi briga di soperchio: taledell'arti vostre è il frutto. Eh! Non ciarlate?Voi che di ciance eravate maestroeccovi tutto grullo e incamuffito!

REGINA Oh assassinio crudel!

AMLETO Meno crudeleche d'uccidere un re, madre, per posciaisposarne il fratello!

REGINA Oh tu vaneggi.

AMLETO No, per mia fé, madre pudica, il veroio parlo, e quella sozza e laidavoi siete.

REGINA Amleto!

AMLETO A incestuoso imenevoi vi gettaste col fratel, che portalo scettro di mio padre. ~ Oh re fetente!Turpe omicida incoronato, e drudo...

AMLETO

(quasi farnetico rivolto verso il ritratto del Re)

O Re ladrone!Che rubi e insudicitroni e corone,rasciuga il tetrosangue che sgoccioladal regio scettro,

o Re ladrone!

REGINA Cessa, pietà!

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Atto terzo Amleto

AMLETO (sghignazzando)

Ah! Ah! Ah! Ah!O Re assassino!

T'indraca in sordideorge nel vino,poi co' la sposacorri alla coltricelussuriosa,

o Re assassino!

REGINA Figlio, pietà!

AMLETO Ah! Ah! Ah! Ah!Re pulcinella!

L'hai fatta orribilela gherminella.Ma in veritàche qualche diavoloti pagherà:

Re pulcinella!(sghignazzando)

Ah! Ah! Ah!(apparisce lo Spettro)

AMLETO (interrompe le risa con un grido di spavento)

Ah!

SPETTRO Figliuol, dal cieco furiar rimanti,smetti le vote grida, e in mezzo al corenutri il pensier che dée trarreti avanti.Io vegno a te per drizzarti l'ardorea retto segno, e innovarti il propostoche ti chiama di me vendicatore.

Non disviar da quel sentier che postoti se' per meta, e allenta il desioquando il reo sangue avrà pagato il costo.

Prega per me che mi perdoni iddio.

AMLETO Celesti spirti! O lugubrespettro del padre morto,perdon se in vana furiam'ebbi un istante assorto,alla tua vista un igneopensiero mi divampa,e di terribil vampasento affocarmi il cor.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

REGINA Figlio vaneggi; orribilepazzia t'invade l'alma.Deh torna ai queti, ai teneridì della dolce calma.Irti i capelli, e pallido,e gli occhi spalancati,dimmi, che spettro guatiche t'empie di terror?

AMLETO Colà, colà, quel mortoch'è dall'avel risortonon scerni, o madre?

(lo Spettro s'allontana)

REGINA Io no.

AMLETO No 'l vedi? In sepolturaei serba l'armaturache vivo egli portò.Or ei dispare...

REGINA Oh vano!...

AMLETO Laggiù lontan, lontano...già tutto ei dileguò...

Spettro dolente e pioti placa... Or madre addio.

(esce)

REGINA

Ah che alfine all'empio schernomi ribello, o snaturato!La pietà del cor materno,falso pazzo, hai cancellato.Fingi pur deliri e spasmi,io non simulo il furor:

bada a te, d'ombre e fantasmio bugiardo evocator!...

Ah! Che dissi? Io rea, che il padrespensi al figlio e tolsi il trono,non son madre, ah non son madre!...Vien, m'uccidi, io ti perdono.Di regina e di consorteprofanato ho i nomi, il so:

corri Amleto, e dammi morte,madre almeno io morirò.

(esce)

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Atto terzo Amleto

Parte secondaLuogo romito nel parco d'Elsinora.

Nell'estremo fondo a sinistra s'erge un fianco del castello. Alte macchiedi pini e d'abeti sparse qua e là. A mezzo della scena scorre un ruscello

alle di cui sponde sinuose s'assiepano cespugli di fiori. Un salicepiangente bagna i suoi rami nell'onda. L'ora è il tramonto, una luce

calda indora il paesaggio.Il Re seguìto dai Soldati percorre smarrito la scena, come per cercare

un rifugio. Laerte e Ofelia: strepito di rivolta nel lontano.

Hey non nonny, nonny, hey nonny!

GRIDA

(lontane)Morte al re! Morte al re!

RE

(ai soldati)Guardie! Le mura

del castel custodite, a ferro e focosterminate i rubelli.

(le guardie partono)

GRIDA Morte! Morte!

ALTRE GRIDA Laerte è nostro re.

GRIDA

(più vicine)Viva Laerte!

RE Fuggiam... la folla irrompe...

LAERTE Ove s'appiattacodesto re? ~ Compagni, e voi sostate,e niun mi segua. ~ E tu mi rendi il padre!

RE Pace, Laerte, pace...

LAERTE Ov'è mio padre?...

RE Morto. Ma non da me, morto.

LAERTE E chi dunque,e chi dunque l'uccise? Ah! Per satana!Vendetta io vo' del padre mio!

UNA VOCE DI DENTRO Sgombrateil passo a lei.

LAERTE Chi giunge?... Ofelia! Ofelia!(Ofelia passa, ornata stranamente di fiori, e col grembiale pieno d'erba e di pianticelle, cantando)

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

OFELIA

La bara involtad'un drappo neromove alla voltadel cimitero.

Zitto! Chi passa,chetate l'orme,che in quella cassav'ha un che dorme.

Ma voi di risopingete il visoe di pietà.

E dite a questaorfana mesta:chi è nella cassaper un che passanon s'alzerà.

È un sonno fortequel della morte!

OFELIA

Ma quando sarem giunti al camposantoe che ci avran levato il bruno manto,e che l'avran calato nella fossa,tutto cosparsa di viole e d'ossa,m'assetterò tranquilla a lui vicino,per piantar sulla fossa il mio giardino.

E là... su que' capelli bianchi e lustrici metterò un boschetto di ligustri;sugli occhi tanto azzurri e tanto belliseminerò due grani di napelli...e sui denti d'avorio, un bianco fioredi giglio... e qui dove gli batte il core...vo' posare una rossa pianticinadi quel bel fior che chiaman vedovina;e là... sul petto dov'ha la feritavo' che nasca una triste margherita,mista a un po' di pervinca e di genziana,che è un'erba per le piaghe tanto sana...

E quando avrò di fior cosparso l'ortovo' inginocchiarmi e dire un requie al morto.

LAERTE Sventura orrenda! Ofelia mia gentile,dolce sorella... io vo' pagare a sanguela tua demenza. Udisti, Re?

RE Fu Amletoche trafisse tuo padre.

LAERTE Oh! Per lo cielo!

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Atto terzo Amleto

RE Deh, buon Laerte, al tuo dolor profondoio son commosso, e se vendetta brami,vendetta avrai. La sicurtà del regnoil vuole anch'essa. Intanto tu racquetala ciurmaglia che mugge, e fa che salvasia d'ogni insulto la maestà danese;alla tua voce obbediran sommessii rivoltosi.

LAERTE Amleto! Dov'è Amleto?Ove s'asconde?

RE Ebben, se il vuoi, mi segui.(partono il Re e Laerte)

(i tumulti lontani svaniscono e si spande il silenzio del tramonto. Ofelia, errando mestamente verso il ruscello)

OFELIA (sola)

Amleto! Amleto! Chi parlò d'Amleto?Cala queto ~ vespero, la brezza

è una carezza ~ un bacio, una favella,la brezza è quella ~ che cantò quel nome.

O come, o come ~ tutto io mi rammento!...I miei pensieri tornan col vento ~ a frotte

quando imbruna la notte ~ allora io sentoquasi un concento ~ che si rinnovella!...

Ei mi dicea: Va'! Fatti monachella!...Va' fatti monachella!... Va' le anella...

del tuo capo recidi... ed io non volli(me lassa!) udir la parola profonda!

Ed or me n' vo co' sospir tronchi e folli...per troppo amor della mia chioma bionda.

(si adagia sul salice)

(aurora lunare)OFELIA

Ahimè! Chi piange? È il saliceche piange, e piange tantoche l'acqua del suo piantoformò questo ruscel.Bello alberel dolentela vergine piangenteti chiamerà fratel.

E i rami tuoi (pateticadi due dolor catena)alla mia franta lenasaran blando guancial,mentre con pio lamentoverrà a cullarmi il ventodal cielo oriental!...

(il ramo si spezza, Ofelia cade lievemente nel ruscello, cantando sempre, mentre ilsuo corpo, circondato di fiori, viene trascinato dal corso dell'acque)

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto quarto

A T T O   Q U A R T O

Parte unicaUn cimitero. È notte oscura.

Due Becchini scavano una fossa e cantano. Poi Amleto e Orazio.

Ah, poor Yorick!

PRIMO BECCHINO Oggi a me, domani a te.Oggi a te, domani al re.Oggi al re, domani a me.La è faceta per mia fé!

AMLETO Cantano e van scavando!

ORAZIO Al lor lavoroassiduo costume i fe' di pietra.

PRIMO BECCHINO (al secondo che esce)

Compare, ho sete, porteme un gottocostì dall'oste.

(getta un cranio)

AMLETO Or ve' a che grullo modoè ridotto quel cranio! E' si potrebbegiocar con esso al giuoco del paleo...

PRIMO BECCHINO (canterellando)

Oggi a me, domani a te...

AMLETO Di', dabben uomo, e se' tu da molt'anniqui sepoltore?

BECCHINO Da quel dì che nacqueAmleto, il prence che ha il cervello a' grilli

AMLETO Tu se' un furbo compar.

BECCHINO Ma non più furbodi quel ch'or fa vent'anni avea per capoquesto putrido teschio.

(scava un altro cranio)

AMLETO E chi era desso?

BECCHINO Malan venga al briccone! Un dì versommientro la nuca un caraffon di Reno.Questi era, o bel messere, Yorick giullaredel re.

AMLETO Codesto?

BECCHINO Per l'appunto.

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Atto quarto Amleto

AMLETO (prende in mano il cranio di Yorick)

Ahimè!Povero Yorick! Me 'l rammento io pure,giovial collega e mattamente gaio,pien di briose fantasie. Soventiei mi portava a spalle... Orazio, vedi,su quest'ossa veniam due liete labbrach'io baciai tante volte. Ah! Lezioseistorielle e canzoni e motti e beffe,allegrie della mensa! Ove n'andaste?Muta, chiusa in eterno è questa bocca!...

(getta con ribrezzo il cranio)

E manda orrendo leppo. Oh qual bagliore!

BECCHINO Un funerale.

AMLETO Orazio, io non m'inganno.Quello è il real corteo. N'andiamo in parteove non luca delle faci il raggio.

(s'allontanano)

S'avanza lentamente il funerale d'Ofelia. Laerte, il Re, la Regina, unSacerdote, Popolo, Cortigiani, Soldati con ceri accesi. Un mormorio

sordo come di folla che preghi.LAERTE (si avvicina al cataletto)

Preghiam per la morta che dorma tranquilla,che in pace riposi la chiusa pupilla,preghiam per la morta che ieri vivea.

SACERDOTE E POPOLO Oremus pro ea.

BECCHINI (sogghignando, sottovoce)

Cacciamola giù!Mors tua, vita mea.Gli è un gotto di più.

REGINA (s'avvicina al cataletto dopo Laerte)

Serena, ridente, ripiena d'amore,correva per l'erbe, coglieva ogni fiore;preghiam per la morta che iddio ci togliea.

SACERDOTE E POPOLO Oremus pro ea.

BECCHINI (sogghignando, sottovoce)

Cacciamola giù!Mors tua, vita mea.Gli è un gotto di più.

RE (s'avvicina al cataletto dopo la regina)

Ahi povera Ofelia, sì buona, sì bella!In terra pareva celeste facella;nel mondo de' santi or santa si bea.

SACERDOTE E POPOLO Oremus pro ea.

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A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto quarto

BECCHINI (sogghignando, sottovoce)

Cacciamola giù!Mors tua, vita mea.Gli è un gotto di più.

LAERTE (davanti al cadavere d'Ofelia)

Che iddio scaraventi l'ardente saettasull'alma tre volte da me maledettadel principe Amleto...

(movimento d'orrore)

AMLETO (scagliandosi)

Sciagurato! In golaricaccia i tuoi deliri...

RE E REGINA Amleto!Che ti porti satana...

AMLETO Ah! Manigoldo!(incomincia un duello furibondo fra Amleto e Laerte)

RE Separateli, guardie!

AMLETO In quella bucavo' gittarti sgozzato!

REGINA Amleto!

LAERTE Infame!

ORAZIO

(ad Amleto)Pace, pace, signor.

AMLETO No, per l'inferno!

CORO

(una parte)Sacrilegio! Delitto!...

CORO

(altra parte)Sacrilegio!

REGINA Furenti son, li dividete!

AMLETO (disarmando Laerte)

A terra!

REGINA Qual demonio t'invade!

AMLETO

(con impeto)Io quella morta

amai più che l'amor di mille e millefratelli insiem!

CORO Profanazione! Orrore!

AMLETO

(a Laerte)No, la mia spada il sangue tuo rifiuta...Voglio il sangue del Re!

(s'avventa sul Re e lo trafigge)

RE Soccorso!(cadendo)

AMLETO

(con impeto)È fatto!

Sei vendicato o padre!

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Atto quarto Amleto

REGINA Tradimento!

CORO Sacrilegio! Delitto!

DONNE Ofelia! Ofelia!

TUTTI Temi l'ira del ciel! Tu profanastiquel puro avello!

AMLETO Ah! In nome della sacravendetta mia, tu Ofelia, mi perdona!

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Page 104: Dispensa di testi discussi nel libro del prof. Daniele ...

A. Boito / F. Faccio, 1865 Indice

I N D I C E

Personaggi...............................................3

Atto primo...............................................4Parte prima.........................................4Parte seconda....................................10

Atto secondo.........................................14Parte prima.......................................14

Parte seconda....................................17

Atto terzo..............................................23Parte prima.......................................23Parte seconda....................................28

Atto quarto............................................31Parte unica........................................31

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UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

Rosso Malpelo Giovanni Verga Vita dei campi(1880)Racconto verista

MRosso Malpelo è un ragazzo cresciuto nell’indifferenza, come una bestia, e avviato pre-

cocemente a un lavoro duro, come accadeva spesso nella Sicilia di fine Ottocento. Èmaltrattato e infelice, ma anche se vive la propria condizione con rassegnazione, è sorret-to dall’orgoglio per la propria resistenza fisica e per la propria capacità di guardare senzaillusioni agli aspetti dolorosi della vita.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi per-ché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire1 un fior di bir-bone. Sicché tutti alla cava della rena rossa2 lo chiamavano Malpelo; e persinosua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suonome di battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa conquei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere chene sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorellamaggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti3 e non più;e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessunoavrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un cane rognoso, elo accarezzavano coi piedi4, allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio5 la loro mine-stra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo cor-bello6 fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno lebestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo7, e gli tiravan dei sas-si, finché il soprastante8 lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava9

fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi.Era sempre cencioso10 e lordo11 di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta spo-sa12, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica13 pertutto Monserrato e la Carvana14, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano«la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo teneva-no addirittura per carità e perché mastro Misciu15, suo padre, era morto nellacava.

Quando

Epoca contempora-nea alla stesura

Dove

Sicilia

1. riescire: diventare.

2. cava… rossa: collo-cata sotto le secolaricolate di lava dell’Et-na; rena: sabbia.

3. erano tanti: eranoproprio quella datasomma.

4. lo accarezzavanocoi piedi: lo trattavanoa pedate.

5. in crocchio: in cer-chio.

6. corbello: cesto divimini.

7. motteggiandolo:

prendendolo in giro.

8. soprastante: sorve-gliante.

9. c’ingrassava: ci vi-veva benissimo.

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10. cencioso: malve -stito.

11. lordo: sporco.

12. fatta sposa: fidan-zata.

13. bettonica: piantamolto diffusa, conproprietà medicinali.

14. Monserrato e laCarvana: sobborghi diCatania.

15. mastro Misciu: ilpadre di Malpelo (Mi-sciu: Domenico) erasterratore, scavava lasabbia; mastro era ge-neralmente l’appellati-vo riservato ai lavora-tori manuali.

Metodi e fantasia

Narrativa

Atmosfere realisti-che e d’ambientepp. 337-411

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2

PE

RC

OR

SO

I G E N E R I D E L L A N A R R A Z I O N EBEra morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a

cottimo16, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che oranon serviva più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra17

di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni e ne avanzava ancora per lamezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione comemastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare18 a questo modo dal padrone; per-ciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto19 ditutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi ilpane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe.Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie20 cascassero sulle suespalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri:«Va’ là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre».

Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché21 fosse una buonabestia. Zio Mommu lo sciancato22 aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avreb-be tolto per venti onze23, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo-so nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato.Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’ave-maria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa ese n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del pa-drone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzoalle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi dizappa in pieno; e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino!Questo per la gonnella di Nunziata24!» e così andava facendo il conto del comeavrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante!

Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e gi-rava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa,contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi!ohi! Anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro ilpiccone, il sacco vuoto ed il fiasco di vino. Il padre che gli voleva bene, poveret-to, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se ca-scano dall’alto dei sassolini o della rena grossa.» Tutt’a un tratto non disse piùnulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumoresordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lu-me si spense.

Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva ilavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltronacon un trono, perch’era gran dilettante25. Rossi26 rappresentava l’Amleto, e c’eraun bellissimo teatro. Sulla Porta si vide accerchiato da tutte le femminucce diMonserrato che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran di-sgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e

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16. cottimo: forma diretribuzione per cui ilsalario viene stabilitoin base alla quantità dilavoro eseguito.

17. carra: carri.

18. gabbare: (toscani-smo) ingannare.

19. asino da basto:l’uomo addetto ai la-vori più faticosi, simileall’asino che porta ipesi.

20. soperchierie: so-prusi, prepotenze.

21. tuttoché:nonostante.

22. Zio… sciancato:zio era appellativo sici-

liano rivolto alle per-sone anziane in segnodi rispetto. Mommu:altro diminutivo diDomenico o anche diGerolamo. sciancato:zoppo per un difettoall’anca.

23. onze: moneta delRegno delle due Sici-lie.

24. Nunziata: la figliacui provvedere, perchéin età da marito.

25. gran dilettante:appassionato.

26. Rossi: ErnestoRossi (1827-1896), ce-lebre attore livornese.

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UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

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LABO

RATO

RIOsbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che

il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da luidopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento27, ma passaronoaltre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dalmateriale caduto ci voleva una settimana.

Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tut-ta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovevaprendere il doppio di calce28. Ce n’era da riempire delle carra per delle settima-ne. Il bell’affare di mastro Bestia!

L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia29; e gli altri minatori si strin-sero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel granchiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulladi umano, e strillava: «Scavate! scavate qui! presto!» «To’!» disse lo sciancato, «èMalpelo! Da dove è venuto fuori Malpelo?» «Se tu non fossi stato Malpelo, nonte la saresti scappata30, no!» Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpeloavea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio31 duro a mo’ dei gatti. Malpe-lo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nel-la rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accosta-rono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati32, e tale schiu-ma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dallemani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; nonpotendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlopei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualchegiorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, al-le volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzinon volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasiogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zap-pava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralu-nati e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussur-rava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorniera più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lobuttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché icani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio,povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria diMalpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: «Cosìcreperai più presto!»

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e la-vorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sa-pendo che era malpelo, ei si acconciava33 ad esserlo il peggio che fosse possibile,e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri o che un asino sirompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che

scappata: non ti sare-sti salvato.

31. il cuoio: la pelle.

32. invetrati: vitrei,gelidi.

33. si acconciava: sisforzava.

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27. torcie a vento: tor-ce fiammanti che nonsi spegnevano al ven-to.

28. il doppio di calce:

una quantità di calcedoppia di quella dellasabbia.

29. Ofelia: nella con-clusione della tragedia

muore Ofelia, la fidan-zata di Amleto. Signi-fica che l’ingegnere,indifferente alla trage-dia reale della mortedi Mastro Misciu, tor-

na a vedere la fine del-lo spettacolo, perchépiù interessato allafinzione artistica.

30. non te la saresti

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I G E N E R I D E L L A N A R R A Z I O N EBera stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se lepigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Coglialtri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare suideboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo.Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrat-tamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cuil’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fannocosì! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!» E una voltache passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui,per trentacinque tarì!34» E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e simetteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un poveroragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una cadutada un ponte s’era lussato35 il femore e non poteva far più il manovale. Il poveret-to, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sem-brava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gliavevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio co-m’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per pren-dersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo esenza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, conmaggiore accanimento, e gli diceva: «To’ Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’ani-mo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare ilviso da questo e da quello!»

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici:«Così, come ti cuocerà il dolore delle busse imparerai a darne anche tu!» Quan-do cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva pun-tare gli zoccoli, rifinito36, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lobatteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchisugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per lebattiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, ece n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; eMalpelo allora confidava a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non puòpicchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbela carne a morsi». Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle piùforte che puoi: così coloro su cui cadranno ti terranno per37 da più di loro, e neavrai tanti di meno addosso».

Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegliah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora,» diceva a Ranocchio sottovoce;«somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei piùforte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre labatteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Be-stia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui.»

Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchiopiagnuccolava a guisa di38 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e losgridava: «Taci pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano,

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34. trentacinque tarì:circa 15 lire era lasomma pattuita perpagare mastro Misciuper quel lavoro; il tarìvaleva 42,5 centesimi.

35. lussato: s’era pro-curato una lussazione,cioè un danno all’arti-colazione.

36. rifinito: sfinito.

37. ti terranno per: ticonsidereranno.

38. a guisa di: come.

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dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppuregli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e sistringeva nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».

Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di ba-dile, o di cinghia da basto39 a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire suisassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiu-nare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra.Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone ma lebusse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, atradimento, con qualche tiro40 di quelli che sembrava ci avesse messo la coda ildiavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non erastato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustifi-cava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spa-ventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: «Ache giova? Sono malpelo!» e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capoe le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, enon si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era chenemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene fa-ceva mai.

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di len-tiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, lasorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese,ché avrebbe fatto scappare il suo damo41 se avesse visto che razza di cognato glitoccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egliandava a rannicchiarsi sul suo saccone42 come un cane malato. Adunque, la do-menica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulitaper andare a messa o per ruzzare43 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spas-so che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle poverelucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi deifichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese,come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia dibuscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi lacoda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano af-famati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena,brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto ap-posta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gat-to che ammiccavano44 se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavoranonelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove ilpozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. So-no asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portar-li alla Plaja45, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancorabuoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se veniva fuori dalla cava il sabato

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39. cinghia da basto:cinghia per legare lagrossa sella degli asini.

40. tiro: scherzo.

41. damo: fidanzato.

42. saccone: il paglie-riccio dove dormiva.

43. ruzzare: giocare.

44. ammiccavano: si

chiudevano infastiditi.

45. Plaja: località inriva al mare pressoCatania.

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I G E N E R I D E L L A N A R R A Z I O N EBsera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare aportare a sua madre la paga della settimana.

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavo-rare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schie-na – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena dellacava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tut-to il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fareil contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi46,e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era sta-to il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò,indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancoradella rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, edondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare sisarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fusta-gno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sem-pre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sot-terra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra ea sinistra, e descriveva, come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto iloro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara47 nera edesolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, oschiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora,senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poterudire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di ma-stro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta collefuni, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si po-terono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbe-ne i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro glisi era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava cu-riosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia diqua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.

Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di vedercomparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più dar-vi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorarein un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tregiorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso,e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che avevadovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addos-so, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestiaavea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lace-rate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!» ripeteva lo sciancato,«ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là.» Però non dissero nulla al ra-gazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.

Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sba-razzava dalla rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carca-me48, c’era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolì i calzonie la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la

46. carrubbi: alberi dafrutto.

47. sciara: terreno ne-ro e desertico, formatodalla lava solidificatadell’Etna.

48. lezzo del carcame:puzza del cadavere.

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prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto,giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella nonne aveva volute di scarpe del morto.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pa-reva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli icapelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chio-do, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pi-gliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accantoall’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palmeper delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il pic-cone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti perl’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pa-gati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li aveva resi così lisci e lu-centi nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri piùlisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.

In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiereera andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa,» brontolava Malpelo; «gliarnesi che non servono più si buttano lontano.» Ei andava a visitare il carcamedel grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il qualenon avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisognaavvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare conl’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie deidintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come compa-rivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando49 sui greppi50 dirimpetto, ma il Rossonon lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera,» glidiceva, «che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame de-gli altri. Gliele vedi quelle costole!» Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se nestava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero avuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli lace-ravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplicecolpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigorequando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avutodei colpi di zappa e delle guidalesche51 e anch’esso quando piegava sotto il peso egli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo batte-vano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano icani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata etutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e salivae scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, oun uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone dicoloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto eratutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tantoche una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capellibianchi e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessu-no poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell’idea, sebbeneavesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.

49. ustolando: guaen-do per la fame.

50. greppi: pendii.

51. guidalesche: ferite.

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I G E N E R I D E L L A N A R R A Z I O N EB«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare.

Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà.»Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla

sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelostanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo,a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di lu-na, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vaga-mente allora la sciara sembra più brulla e desolata. «Per noi che siamo fatti pervivere sotterra,» pensava Malpelo, «ci dovrebbe essere bujo sempre e dappertut-to.» La civetta strideva sulla sciara, e ramingava52 di qua e di là; ei pensava: «An-che la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può an-dare a trovarli».

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridavaperché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asi-no grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni nonsentivano più il dolore di esser mangiate. «Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti comei gatti,» gli diceva, «e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sot-terra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che sontopi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti.» Ra-nocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero afar le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno astare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori.«Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glieloaveva detto la mamma.

Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso damonellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece deicalzoni, tu dovresti portar la gonnella.»

E dopo averci pensato su un po’: «Mio padre era buono e non faceva male anessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trova-to i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io».

Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò inmodo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le cor-be53, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ra-gazzo non ne avrebbe fatto osso duro54 a quel mestiere, e che per lavorare in unaminiera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva or-goglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsa-na, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva ani-mo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlosul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo spaventa-to si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giuravache non avea potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimo-strarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi unoperaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonòcome su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo chel’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha pic-chiato più forte di me, ti giuro!»

Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la feb-

52. ramingava: va -gava.

53. corbe: ceste per iltrasporto della sabbia.

54. non ne avrebbefatto osso duro: sareb-be morto prima di in-durirsi in quel me -stiere.

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bre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi dalla paga della settimana, percomperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasinuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune voltesembrava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo55 della feb-bre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiam-mata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui gi-nocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli ilritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato56 el’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinitosotto il carico nel salire la viottola, ei gli borbottava: «È meglio che tu crepi pre-sto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi!» E il padrone diceva cheMalpelo era capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorve-gliarlo.

Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se nelavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio ched’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il po-vero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava co-me se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio per-ché sua madre strillasse a quel modo, mentre che57 da due mesi non ci guada-gnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava ret-ta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora ilRosso si diede ad almanaccare58 che la madre di Ranocchio strillasse a quel mo-do perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenutocome quei marmocchi che non si slattano59 mai. Egli invece era stato sano e ro-busto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non ave-va mai avuto timore di perderlo.

Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la ci-vetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpatedel grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora delgrigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sa-rebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la ma-dre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adessosi era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali60; anche la sorella siera maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro nonimportava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigioo come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.

Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e siteneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che erascappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per deglianni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogodove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi làdentro e guardati a vista.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che avevaprovata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo di-chiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto sicontentava61 di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un

55. il ribrezzo: il fred-do.

56. trafelato: contrat-to.

57. mentre che: nono-stante che.

58. almanaccare: im-maginare.

59. slattano: svezzano.

60. Cifali: località vici-no Catania.

61. si contentava:avrebbe preferito.

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I G E N E R I D E L L A N A R R A Z I O N EBparadiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavo-rano nella cava non si fanno mettere in prigione?» domandò Malpelo.

«Perché non sono malpelo come te!» rispose lo sciancato. «Ma non temere,che tu ci andrai e ci lascerai le ossa.»

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo di-verso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicassecol pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe rispar-miata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non eravero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padredi famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse ilsangue suo per tutto l’oro del mondo.

Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo perla sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era ri-maritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa.La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padreappese al chiodo; perciò gli commettevano62 sempre i lavori più pericolosi, e leimprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne ave-vano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si ri-sovvenne63 del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina ecammina ancora al bujo gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; manon disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, ilpiccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò:né più si seppe nulla di lui.

Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano lavoce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo com-parire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

(G. Verga, Rosso Malpelo, in Tutte le novelle, a cura di C. Ricciardi, Mondadori, Milano 1979)

62. commettevano:affidavano.

63. si risovvenne: siricordò.

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Luigi Capuana, OFELIA, in «la Tribuna illustrata», 1893 (poi in Fausto Bragia e altre novelle, Giannotta, Catania 1897)

— Segga — disse il delegato di pubblica sicurezza. — Abbia pazienza un momentino, il tempo di rileggere e firmare queste carte. Colui rimase in piedi, mantrugiando con una mano la falda del cappello di feltro grigio, passando replicatamente l'altra su la fronte umida di sudorino diaccio, chiudendo gli occhi di tanto in tanto, a ogni brivido acuto che gli scorreva per tutta la persona. Guardava impaziente il delegato, il quale seguiva con lieve movimento del capo lo scritto dei fogli spiegati sul tavolino, facendovi ora correzioni di punteggiatura, ora lunghi freghi sopra cui tornava a scrivere lentamente invadendo anche i margini con la grossa calligrafia. — Segga — replicò il delegato alzando la testa dopo aver firmato e raccolto i fogli. — In che cosa posso servirla? Neppur questa volta colui diè retta al cortese invito, e abbassate le braccia, rizzata la persona quasi per dare maggior solennità a quel che stava per dire, pronunziò a mezza voce: — Mi faccia arrestare. Ho ucciso la mia promessa sposa. Il delegato mutò tono, e prese aria severa: — Chi è lei? — Mario Procci, pittore. — Dove? Quando l'ha uccisa? — Ier l'altro, a Porto d'Anzio. Il delegato fece una mossa di stupore e stese la mano al bottone del campanello elettrico, che squillò nella stanza vicina. Una guardia comparve su l'uscio. — Chiamatemi Pini — diede ordine. E continuò: — In che modo? Perchè l'ha uccisa? — Per gelosia. L'ho annegata. — Come si chiamava? — Anna De Luigi. Dovevamo sposarci fra due mesi... — Segga — replicò il delegato, accompagnando la parola con un gesto imperioso. Il pittore esitò alquanto, un po' offeso di quel gesto; poi sedette, e riprese a mantrugiare con tutte e due le mani il cappello, guardando fisso il delegato che volgeva gli occhi verso l'uscio in attesa del subalterno fatto chiamare. — Pini — egli disse, vedendolo entrare — ieri l'altro non eravate a Porto d'Anzio? — Sì, signor delegato. — È avvenuto un delitto e non me n'avete detto niente? — Un delitto?... Una disgrazia, signor delegato. Ero presente... C'era anche questo signore, lo riconosco benissimo. È annegata una bagnante. — Questo signore si accusa di averla annegata lui. — Non è possibile — rispose il Pini. — Egli era davanti a me, ritto sull'arena della spiaggia. Io lo guardavo, ammirando la sua bella maglia rossa, variopinta di strani ricami. Non entrò nell'acqua, non si mosse

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neppure quando si udirono gli urli delle signore che gridavano al soccorso; pareva di sasso. Dopo mi fu spiegata la cosa: mi dissero che era il promesso sposo dell'infelice signorina. Lo trassero di là senza ch'egli opponesse resistenza; era pallido, batteva i denti, non diceva una parola. Lo condussero nella cabina; e quando ne uscì, era così sconvolto che faceva pietà. Due persone, una delle quali suo parente — sono bene informato? — lo trascinarono via, sostenendolo per le braccia. È vero? — Verissimo, — rispose il pittore. — Perchè dunque si accusa di quell'annegamento? — domandò il delegato. — Perchè è anche vero che l'ho commesso io — replicò il pittore. I due funzionari di pubblica sicurezza scambiarono un'occhiata d'intelligenza. — Capisco — disse colui. — Lor signori credono d'aver da fare con uno che ha smarrita la ragione per eccesso di dolore. S'ingannano. Appena sapranno in che modo l'incredibile annegamento è potuto accadere, a pochi passi dalla spiaggia dove l'acqua è così bassa che non giunge al collo d'una persona di media statura..... — La spiegazione fu data subito — lo interruppe il Pini, che intendeva giustificarsi in faccia al suo superiore. — La signorina si sentì mancare, e lo disse alla cugina che le stava accanto. Rideva però nel dirlo — raccontò la cugina quasi accusandosi — ed io non le credetti! Tutt'a un tratto, mi sfuggì di mano (ci tenevamo per mano) affondò, e l'ondata sopravvenuta la portò via. Non ricomparve più! — Questa deposizione è consacrata nel verbale da me fatto e firmato dai testimoni. È strano dunque.... E il Pini terminò la sua frase con un gesto molto espressivo delle mani e della faccia, che intendeva confermare al delegato il comune sospetto. — I fatti apparenti sono questi — disse il pittore. — Ella non ha torto. Osservino però: sono relativamente calmo; il mio aspetto, le mie maniere non hanno niente da far supporre uno sconvolgimento della ragione. Vengo ad accusarmi, pentito di quel che ho fatto, senza negare che ho agito sotto l'impulso della gelosia, della più cieca e più terribile gelosia, quella che non osa manifestarsi. Avrei potuto tacere; nessuno avrebbe mai sospettato il mio delitto, perchè il modo con cui è stato eseguito è di quelli che sfuggono per ora a ogni investigazione della giustizia. — Quale? — domandò il delegato, corrugando le sopracciglia. — Mi ascolti. Giudicherà dopo. Con un gesto della mano il delegato gli accennò di attendere un momento; scrisse in fretta alcune righe sopra un foglio di carta e lo porse al Pini, che lesse ed uscì. — Dica — soggiunse, sdraiandosi su la poltrona per ascoltare più comodamente. Per qualche istante Mario Procci parve perdere quell'aria di sicurezza e di tranquillità con cui aveva parlato poco prima. Lasciò cascare a terra il cappello, si strizzò le mani, chiuse gli occhi, e il volto gli si coprì di nuovo pallore, che prendeva maggior risalto dalla folta e scomposta capigliatura nera, dai baffi e dalla barbetta acuminata al mento e rada su le gote. Fece stridere i denti, si morse le labbra scolorite, poi battè desolatamente le palme sui ginocchi, e fissando con

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pupille luccicanti il delegato, disse: — Mi ascolti. Per quanto mi sforzi d'esser calmo, non potrò fare una narrazione ben ordinata... Ella, spero, mi scuserà. E continuò, con frequenti brevi pause, quasi gli mancasse il fiato: — Non dormo da due notti; non mangio da due giorni... Ho errato per la campagna, fra le macchie, come una bestia selvaggia, cacciato via via dal rimorso e dal dolore. Salendo le scale di quest'ufficio, mi reggevo a mala pena. Dunque... fu così. Sono pittore; forse il mio nome non le è ignoto.... — Sì, sì — rispose il delegato. — Ora ricordo; l'ultimo suo quadro ebbe l'onore d'essere comprato da Sua Maestà il Re, all'esposizione della primavera scorsa. — L'ha veduto? — Ofelia, se non isbaglio. — Precisamente. Il ritratto di lei... Si direbbe un presentimento. Che fatalità!.... Il mio quadro era abbozzato, ma non trovavo una modella che mi contentasse. Passavano settimane senza che io potessi dare una sola pennellata... Avevo bisogno d'una figura reale, corrispondente all'ideale che mi balenava nella fantasia, e non la trovavo!... Un giorno — quasi due anni fa — un giorno che avevo disperatamente buttato per aria tavolozza e pennelli ed ero scappato via dallo studio, sissignore, in piazza di Spagna, davanti a una vetrina di gioielliere, veggo fermata... Dio! Mi parve proprio che la mia Ofelia avesse preso all'improvviso carne e ossa e mi stesse dinanzi agli occhi per opera d'incanto. Provai un sussulto doloroso, una meraviglia, una stordimento!... E come la vidi andar via insieme con le altre persone che l'accompagnavano, non potei resistere al desiderio di seguirla per scoprire dove abitasse e chi fosse; e seguendola, fantasticavo mille stratagemmi per avvicinarla e ottenere la grazia di una, due sedute... Perchè no? Si trattava di un'opera d'arte... È inutile raccontarle come e dove, per una serie di favorevoli circostanze e di incidenti imprevidibili, potei esserle presentato. Tutto accade a puntino quando si tratta di rovinare un pover'uomo!... Amare la propria modella è caso non raro tra noi pittori. Per me poi, non si trattava d'una modella comune. Anna non era soltanto bella, di quella bellezza delicata e gentile che sembra fatta a posta per sfidare qualunque potenza d'artista; era colta, era artista anche lei; suonava e cantava divinamente. Contraddizione non rara tra l'aspetto ed il carattere, quella pensosa figura da Ofelia diventava spigliata, allegra, caustica nella conversazione, appena si abbandonava al piacere di parlare. Insomma... ci amammo! Dovrei dire: si lasciò amare. Non aveva cuore costei, no, non aveva cuore!... Era vana della sua bellezza, della sua voce, della sua abilità di suonatrice; amava di essere corteggiata, idoleggiata; non poteva amare, forse... Chi lo sa? La natura aveva dimenticato di mettere qualcosa in quel corpo, o in quell'anima... Eppure ella acconsentì liberamente alla nostra promessa. Il mio nome, l'aureola di fama che lo aveva circondato dopo il gran successo del mio quadro, la illusero un momento? Un momento, sì, ho detto bene... Era anche crudele. Accortasi della mia gelosia, quantunque non osassi

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mai muoverle rimprovero, agiva in maniera da più aizzarla e rinfocolarla, quasi si divertisse a quel giuoco. Mi vedeva soffrire, e rideva; mi vedeva triste, e mi canzonava o mi rimproverava; — Non posso patire visi lunghi!... — E non n'era lei la cagione? Ma non ardivo rimbeccarla; l'amore mi rendeva timido. E fu peggio quando mi parve che si fosse messa di accordo con quell'altro, con colui che la svagava a furia di motti e stupidità d'ogni genere. Non potevo sentirla nè vederla ridere. E colui le stava sempre attorno; se l'accaparrava in tutte le società dove c'incontravamo; la faceva ridere, ridere, ridere!... E a me mi si spezzava il cuore a quel gorgheggio argentino, a quel suono freddo della voce dove niente d'intimo vibrava. Se mi passava accanto, Anna mi guardava e borbottava: — Ecco musone! L'amavo! Ero pazzo di lei! E musone soffriva zitto, masticava tossico. Soltanto pensava: — Quando sarà proprio mia!... C'era un altro... ce n'erano parecchi, ero geloso di tutti!... Quest'altro non la faceva ridere, ma la circuiva con continue adulazioni, con complimenti ben raggirati, con frasi che, spesso, me n'accorgevo, la facevano arrossire e che lei avrebbe dovuto riprendere, e che accoglieva invece con un sorriso accompagnato da tale smorfietta da incoraggiarlo a proseguire... Avevano stabilito, per patto scherzoso, che a ogni scommessa perduta ella doveva darle a baciare la mano. Io mi sentivo morire ogni volta che quelle labbra mostacciute si accostavano alla bianca manina che nessuno aveva più diritto di baciare da che tra Anna e me era corsa promessa di nozze. Ella se n'era accorta... e non ismetteva! Eppure diceva di amarmi! E quando mi rispondeva: — Sì, sì, ti voglio bene! — quantunque mi accorgessi che lo diceva sbadatamente, le credevo, e mi sentivo felice. Lo stesso tormento della gelosia mi si mutava alla fine in segreta gioia d'amore... Colui che la faceva ridere, ridere, m'ispirava una specie di disprezzo; quest'altro, no; l'odiavo. Mi pareva che colui sfiorasse appena la pelle d'Anna; e che costui, invece, penetrasse proprio nell'intimo di lei, e dovesse risentirne un piacere quasi di possesso... Per questo l'odiavo. E per consolarmi, ripetevo: — Quando sarà proprio mia! Oh, li avrei messi alla porta tutti costoro; e lei, l'avrei portata via con me, lontano, a Napoli, a Torino, in capo al mondo, dove nessuno avrebbe potuto contrastarmela o insidiarmela!... L'amavo come un pazzo; non potevo vivere senza amarla! — Come mai dunque?... — domandò il delegato, che era stato ad ascoltare con grandissima attenzione. Il Procci lo guardò in faccia, quasi non avesse capito la ragione della domanda. S'era talmente eccitato parlando e talmente assorto nella visione del passato, da dimenticare lo scopo della sua venuta lì e di quella confessione accusatrice. Chiuse gli occhi, si passò più volte una mano su la fronte, riprese coscienza del suo stato, e continuò con voce dimessa, quasi chiedendo scusa:

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— Mi sono dilungato troppo intorno a questi particolari. Avevo il cuore ridondante; è la prima volta che posso sfogarmi. E avrei tanto da dire! Ma... Eccomi al fatto. Badi: non c'è stata premeditazione. Fu un'idea improvvisa, un lampo.... Prima però bisogna che le spieghi... altrimenti avrebbe ragione di credermi pazzo. Ascolti bene. L'importante viene ora. Ha inteso parlare di Donato? — Quale Donato? — Quel belga ipnotizzatore, suggestionista, come si qualificava, e che voleva fare sedute pubbliche qui in Roma, come ne aveva fatte a Torino, a Milano, a Bologna?... — Sì, ricordo; ne ho inteso parlare. Che c'entra costui? — La polizia gli negò il permesso. Donato perciò fece degli esperimenti in privato; ed io vi assistei parecchie volte; la stranezza dei fatti mi attirava. Volli provarmi anch'io, prima a essere suggestionato, poi a suggestionare alla mia volta. E riuscii oltre ogni credere... Allora mi venne idea di suggestionare Anna... Quel fragile corpicino doveva risentire in modo straordinario gli effetti della mia facoltà, che si svolgeva ogni giorno più con gli esperimenti ripetuti negli studi degli artisti miei amici. Anna rifiutò di tentare la prova. Sua madre fu più severa: mi proibì fin di parlare di tali operazioni, secondo lei, diaboliche... La proibizione della madre servì intanto a stuzzicare la curiosità d'Anna. Ella si compiacque d'aver da fare col diavolo... Credeva al diavolo anche lei, e, sapendo di far male, lo faceva. Era perversa per istinto. Ed era così bella! Pareva una madonna. Bianca di carnagione, bionda di capelli, slanciata di persona, con certi occhi grandi così, d'un azzurro limpidissimo... Si lasciò suggestionare di nascosto, a poco a poco, e fu sopraffatta in men d'una settimana. Il mio disegno era questo: Strapparle una sincera confessione; — Mi amava? Non m'amava? — Esitai, proprio sull'estremo punto di raggiungere il mio intento. Esitai pensando: — E se non m'ama? Se ama un altro? — Allora mi diedi a suggestionarle stranezze contro i miei rivali. Il suo braccio doveva trarsi indietro quando stava per porgere la mano; e si ritraeva. Ella non doveva più ridere alle sciocchezze di quel tale..., e non rideva; rimaneva seria, quasi le si fossero fermati i muscoli del volto che producono il riso. Non doveva udire le parole di quell'altro... e non le udiva, colpita da improvvisa sordità... Avrei potuto imporle d'amarmi... Fui onesto; non volli. Che valore avrebbe avuto per me un amore così ottenuto? La lasciai libera su questo punto... Ed era uno sforzo grandissimo; mi sentivo continuamente tentato. Fui onesto; non osai mai, mai! Sarebbe stata viltà. L'amavo così com'era; non la volevo diversa... E forse ho avuto torto! Forse sarebbe stato bene per me e per lei... Non volli. Ormai è irrimediabile!... La mia azione su lei era divenuta straordinaria: potevo arrestar Anna col solo sguardo, mentre andava da un punto all'altro d'una stanza. Si fermava, mi guardava, pregandomi, con rapida occhiata, di lasciarla andare... E la rendevo libera, con la sola volontà, quasi ella fosse ridotta un membro del mio corpo... Avrei potuto farne quel che avrei

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voluto... Non mi crede? Dubita della mia forza suggestiva? Mi dia la mano; bisogna ch'ella abbia una prova evidente... Mi dia la mano. — Perchè? — domandò il Delegato, con un sorrisetto che intendeva nascondere il senso di indefinita paura da cui era turbato in quel punto. — So di che si tratta; ne ho letto qual cosa anch'io. La sua prova, in ogni caso, potrà farla in migliore occasione, davanti ai suoi giudici. — Come vuole — riprese il pittore. Si fermò, tentando umettarsi le labbra con la lingua arida anch'essa, e riordinare un istante i ricordi che gli sfuggivano o gli turbinavano nella memoria; scosse la testa, e, con un gran sospiro di sollievo, riprese: — Siamo alla fine! In questi ultimi mesi avevo sofferto più terribilmente. La gelosia mi divorava e le lotte contro me medesimo per resistere alla tentazione d'adoprare la mia intensa facoltà a strapparle una confessione dov'ella non avrebbe potuto mentire, o a imporle un amore al quale ella non avrebbe saputo resistere, mi prostravano l'animo in guisa che il corpo ne soffriva. Dimagravo, perdevo il colorito. La testa, l'avevo già perduta. L'arte, da mesi, era parola morta per me. E tornavo a ripetermi: — Quando sarà proprio mia!... Invece parve ch'ella cominciasse a irritarsi di così grande predominio su lei. Più non si prestava volentieri agli esperimenti, quantunque il segreto avesse tuttavia una maligna attrattiva per quell'indole viziata... Volle mostrarmi che poteva ribellarsi? Volle vendicarsi? Non lo so. Quel cuore è rimasto un enimma e nessuno potrà più svelarlo! Sì, voleva ribellarsi, sottrarsi alla mia influenza; influenza vana, inutile, ahimè, se non volevo adoprarla come avrei dovuto, se l'adopravo appena appena per impedire che colei mi sfuggisse completamente di mano! Perchè volevo che fosse mia, a ogni costo, se ero convinto che non mi amava?... Perchè?... E che amavo in costei, che cosa? La sua bellezza, il suo fascino, oppure la mia opera d'arte, di cui ella era la riproduzione vivente, quella maledetta Ofelia sognata, idolatrata due anni con la gran passione dell'artista per la propria creatura?... E se non voleva affatto saperne di me, perchè non tentò mai una rottura? Era facile svincolarsi dalla promessa; accade quasi ogni giorno che due innamorati la rompano anche nel momento di legarsi per sempre. Non volle. Perchè? Che maturava nel suo interno?... Qualcosa di orrendo! Non è più sospetto, è certezza. Mi avvidi che cedeva più frequentemente la sua mano all'uomo che odiavo; si susurravano parole, si facevano cenni che non potevano essere innocenti, indifferenti, se soltanto il mio occhio vigile riusciva a sorprenderli... Eppure non credevo ai miei occhi! E cercavo di scusarla, quantunque la mia gelosia mi suggerisse talvolta di slanciarmi addosso a colui, e strozzarglielo ai piedi, davanti a tutti; me ne sentivo la forza... Così lo avessi fatto! Avessi almeno mostrato di volerlo fare!... No: soffrivo e tacevo... L'amavo tanto! tanto! Che spregevole miseria l'amore!...

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Quella sera, sentendo fare da colui, dall'odiato, la proposta d'una gita di piacere a Porto d'Anzio, compresi subito che erano d'intesa, Anna e lui. La madre non disse nè sì, nè no. Mi domandò: — Verrete anche voi? — Risposi: — Non posso. — E non era vero; chi me lo impediva? Che affari mi trattenevano a Roma quel giorno? Anna si ostinò a voler andare. — Allegra compagnia — diceva. — Un divertimento, prima di relegarsi nella solitudine della campagna, dove era stabilito che la famiglia avrebbe passato i mesi di settembre e di ottobre. — Andremo anche senza di te, se tu non vuoi venire! — Ella mi disse così, e con tale durezza di voce che mi parve una pugnalata. Allora io la presi per le mani e la trassi in disparte, presso la finestra, nascondendoci tra le tende; a due promessi sposi era permesso far questo. La luna piena inondava la finestra. — Guardami negli occhi! — le dissi, tenendola ferma per le mani. Allora ella si dibattè un pochino: — No! No! — Ma in breve istante era sotto il mio fascino. Stavo per commettere la viltà evitata tante volte; una sola domanda, e avrei saputo il malvagio segreto di quel cuore!... Le rilasciai le mani; dissi anch'io: — No! No! — Aspirai fortemente, per distrurre la suggestione; e appena la vidi libera, cosciente, con voce turbata dalla commozione le domandai: — Vuoi proprio andare? — Sì! — rispose. — Anche se io non volessi? — Sì! — replicò, agitandomi in faccia il viso corrucciato e dispettoso. E mi lasciò là. La mia grave viltà è stata quella di accompagnarmi alla comitiva, di portar meco il costume rosso da bagno che m'aveva servito l'anno precedente a Livorno.... Ah! il segreto che non avevo voluto strapparle la sera avanti presso la finestra, lo intravidi lungo il viaggio, nel vagone; lo intravidi dalle sue risate più argentine e più sonore che mai; dalle sue maniere con quell'altro che le soffiava nell'orecchio chi sa che cosa, reso più ardito dalla gaiezza della gita... Ella era seduta fra quei due. Io non esistevo per lei; si scorgeva benissimo, anche dalle rapide fredde occhiate che mi rivolgeva nell'angolo dov'ero rincantucciato presso la sua mamma, che mi parlava di lei, la scusava, la difendeva. Mi dava sempre torto quella mamma! Io udivo poco; capivo pochissimo... Il cuore mi scoppiava... Eppure fui più vile, vestendo il mio costume da bagno, soffrendo gli epigrammi di quei due intorno alla stranezza dei ricami di quel costume, bizzarria di artista non di cattivo gusto certamente. Anna era incantevole in gonnellino e pantaloncini di raso di lana, orlati di bianco. I suoi piedini parevano rose fresche tra lo sparato delle pantofole di corda. Il mare la inebbriava; le sue narici si dilatavano, annusando la salsa frescura che invadeva la spiaggia sotto il sole scintillante di quella bella giornata, fra il chiasso e il formicolìo dei bagnanti... Sa? Mentre stavo per stenderle la mano e condurla in mezzo all'acqua che irrompeva spumeggiante, l'altro, colui che odiavo, fu più lesto di me; la prese sotto braccio, trascinandola via fra le ondate, finchè la terra non venne meno sotto i loro piedi, finchè egli non potè farla ballonzolare a fior d'acqua come un corpo morto, in balìa dei cavalloni succedentisi e incalzantisi... Oh!... quasi fosse stata cosa sua! quasi fosse stato lui l'amato, colui

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che doveva sposarla fra due mesi, al ritorno della villeggiatura!... Ed ella gli si abbandonava come a padrone, senza farmi un cenno, assorta nella voluttà dell'acqua marina che l'avvolgeva, la sballottava, le disfaceva i capelli d'oro... Dalla spiaggia, io vedevo ogni cosa, udivo tutto: le risate, le strida di gioia e di finto terrore... Poi, la sorella, la cugina, tre amiche e quell'altro che la faceva sempre ridere, si accostarono a loro, formarono un gran circolo, che di tanto in tanto rompevano per abbandonarsi, ognuno per proprio conto, all'urto dei cavalloni da cui venivano sommersi e spinti l'uno contro all'altro... Già mi accennavano con mani grondanti, mi chiamavano, mi garrivano come pauroso del mare, vedendomi rimaner fermo su la spiaggia, dove le ondate giungevano a lambirmi i piedi nudi... Non sentivo più nulla; vedevo soltanto lei e lui... che si baciavano, abbracciati fra il cavallone che li avvolgeva!... Sì! Sì!... Li ho visti con quest'occhi... due volte... perchè l'ondata li scoprì quando non se l'attendevano! Sì!... Sì!... Egli ritto in piedi, lei galleggiante, con le braccia al collo di colui!... Sì! Sì!... Mario Procci s'arrestò. Tremava; premeva le mani su gli occhi, quasi per non vedere. Ma quando già sembrava esaurito di forze, scattò dalla seggiola, stese un braccio additando con l'indice della mano il punto che certamente egli vedeva davanti a sè come nel giorno fatale, e con voce rauca, repressa, quasi feroce, riprese: — Vidi... e fui abbagliato dal lampo della terribile idea.... — Infame, muori! — dissi da me, con tremendo sforzo di volontà... E proiettavo laggiù, lontano, la forza che doveva fiaccarla. — Muori, infame! In quel punto avevano riannodato il circolo... Oh!... Sentivo scoppiare da tutto il corpo una violentissima corrente, quasi la mia essenza vitale si riversasse fuori dai mille pori della pelle, sospinta dalla volontà, proiettile omicida di nuovo genere... E nello stesso tempo, rivedevo il mio quadro: Ofelia che affonda lentamente nella riviera tranquilla; Ofelia coronata di fiori, ancora sorretta a fior d'acqua da le vesti che le si gonfiano attorno... E vedevo pure Anna. La vidi sbalordire, smarrirsi, venir meno, affondarsi e sparire fra l'ondata che avvolse tutti in quel momento... Gli urli, le grida di soccorso, il tumulto dei bagnanti su per la spiaggia, l'affollarsi della gente atterrita, il pronto slanciarsi di alcuni marinai alla ricerca della scomparsa, mi fecero subito capire che tutto era finito.... Avevo voluto che Anna annegasse ... ed era annegata! Mario Procci si rovesciò sulla seggiola quasi svenuto. Il delegato premè rapidamente il bottone del campanello, balzando dalla poltrona per impedire che colui cascasse a terra. — Un medico! — gridò, sentendo aprir l'uscio. E sorreggendo il pittore, brontolava: — Maledetti scienziati! Non sanno che inventare per disperazione della polizia. Mancava proprio la suggestione!

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/ Amleto '43

(Mono lo go in quattro quadri e un epilogo)

Nell'ottobre del '43 non si parlava di teatro della crudeltà, ma i tempi erano abbastanza crudeli. Scrissi allora questo piccolo Hamlet.

I

Sono stanco d'essere stanco Su me nuvola bassa e amara Ma sbagliando niente s'impara.

Il piacere. è nel transito, come scrisse il N alano. Muoio ogni sabato sera e risuscito puntualmente il

[lunedì: Ma nessun Gesù mi ama veramente.

Il tempo, il cielo, la noia! ,Ed io, . Colpa della mia nota indecisione Lascio passare il tempo,: il cielo, la noia. Ma che sarà ,del mio genio

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Se cercherò di mettervi un po' d'ordine? Ah, un segnalibro! Un tagliacarte! Una pistola scari

1 (Sia detto in confidenza: ho in tasca il biglietto pe e~. isole Maladive & Laccadive. Ma il vapore non pr e

. . h. d · 1 . b arte mai. Potrei c te ere 1 r1m orso, se volessi, ma 00

è un azzardo? E se il vapore partisse domattina?~

II

Il castello d'Elsinore è mal riscaldato. Mi annoio... Ahhhh ! ! Ma non c'è sbadiglio tanto usato, Che non sia buono ancora una volta. Miasmi salgono dalle cucine. Ed io non credo, Anzi mi rifiuto di credere, A questa storia di fantasmi.

Ma dev' esser vera.

Insomma, venga il regno tuo, o padre!

Come gli attori recitano male! E come la realtà Mi spaventa poco se la confronto Con la mia· insonne immaginazione! . Ascoltami Orazio amico mio: tu non sai

' ' Quanto ti ami! Posso giacere tra le tue gambe? (Sì, sono anche un po' anormale, Quel tanto · che basta per ... )

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(Entra Ofelia.) Quanto a te, Ofelia, ti detesto. Vorresti fare di me un principe ereditario, un tagliana-- [stri, un giramondo, un rubacuori!

Tu ignori eh' io sono un Prometeo Senza fegato e senza avvoltoio. (Ofelia impazzisce.) Come? Di già impazzita? Ofelia! Tu anneghi in un bicchier cl' acqua!

III

Ciambellano, fate entrare tutti. Buongiorno Polonio e tu caro Laerte; Buongiorno signor zio, buongiorno amici. Sedetevi prego in ordit]e alfabetico. Tu qua, madre diletta. Un bacio? Grazie. Un altro ancora? La platea ha i suoi · sacri diritti. Signore e signori vi ho convocati Per rivelarvi la verità Circa la morte del buon re mio padre.

Io l'ho ucciso. Io, io! Silenzio! Vorreste voi defraudarmi di un delitto Che fui compete filosoficamente? Io ho ucciso mio padre. Inorridite? E non m'ha egli un tempo Orbato di quelle probabilità, concessemi dal Destino, Di nascere in una forma più compiuta e sensibile?

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Io ho ucciso mio padre, Che osò determinarmi, fare di me un attore, Di me, che nell'estroso deposito dell'imprevisto Brillavo di luce tanto incerta e squisita.

E l'ho ucciso. Non piangere ora madre diletta. Se annullai mio padre fu soltanto per mutarlo, In una forma vivamente indefinita. (Entra il Fantasma.) Vedete? Il suo fantasma! Si può chied~re di più all'irrazionale?

Ed ora a me l'elmo, la corazza, i cosciali, A me, vivide fiamme di Vulcano E crudi ferri di Marte! A me, ombre della malvagità e nero coraggio della

A me, pensieri sfiatati, rigurgiti letterari Aride filosofie e orologi fermi del castello! Su, mettiamo tutto a sacco, a rivolta, a terrore!

E voi, critici, non vi muovete, o sparo! (Spara.) ·

Che orribile vista! . (Ma è una strage legale. Ora si resp1ra meglio. Non posso che .approvarmi.

[follia!

In me un uomo e un ,artista sono in eterna lotta.)

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IV

Eccomi ricaduto in apatica meditazione. Spesso mi domando se val meglio soffrire O far soffrire il prossimo. Questo è il problema. Dal Cielo non aspetto risposta. Egregio Vescoyo, voi mi chiedete sempre se credo in

. [Dio. Ebbene sì ci credo. Ma è Dio che non crede in me E mi abbandona. Siamo maturi per la Riforma. Ah, queste crisi di coscienza.

Orazio, dove sei? Stammi vicino, La notte è nostra, ormai. Vedi già l'orizzonte che si tinge di scarlatto, Tiepido e grato interno di una conchiglia abitata.

E voi musici, suonate-sino all'alba:

'

Vivaldi, Byrd, Couperin. E quella canzone che dice: Some of these days. (Entra di nuovo il Fantasma.)

-O Cielo! Il fantasma! O Nemesi implacata! Padre, il tempo di riflettere! Vi prego, vi supplico! Insomma... Indietro o sparo! (Spara.)

EPILOGO

Due volte parricida. Questo vuol dire un sorpassare

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Le proprie stesse intenzioni, un fare lo sgambetto Alla fatalità.

J?ue volte perdono vi chieggo o padre, Dal profondo.

Ma quale diavolo farà il coperchio A una pentola tanto sconnessa?

E io sono stanco d'essere stanco E su me nuvola amara incombe.

Orazio, prima che il sole tramonti Fuggire? Dove? Laggiù tra le tombe ...

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Francesco Guccini, Ophelia, in Due anni dopo, EMI, 1970 Quando la sera colora di stanco dorato tramonto le torri di guardia, la piccola Ophelia vestita di bianco va incontro alla notte dolcissima e scalza, nelle sue mani ghirlande di fiori e nei suoi capelli riflessi di sogni, nei suoi pensieri mille colori di vita e di morte, di veglia e di sonno. Ophelia, che cosa senti quando la voce dagli spalti ti annuncia che è l'ora già e il giorno piano muore. Ophelia che vedi dentro al verde dell'acqua del fossato, nei guizzi che la trota fa cambiando di colore? Perché hai indossato la veste più pura, perché hai disciolto i tuoi biondi capelli? Corri allo sposo, hai forse paura che li trovasse non lunghi, non belli? Quali parole son sulle tue labbra, chi fu il poeta o quale poesia? Lo sa il falcone nei suoi larghi cerchi o lo sa sol la tua dolce pazzia? Ophelia, la seta e le ombre nere ti avvolgono leggere, ma dormi ormai e sentirai cadenze di liuto… Ophelia non puoi sapere quante vicende ha visto il mondo, ma forse sai e lo dirai con magiche parole… Ophelia le tue parole al vento si perdono nel tempo, ma chi vorrà le troverà in tintinnii corrosi… Ophelia, lalalalalalala… Fabrizio De André, Francesco De Gregori Via della Povertà, in F. De André, Canzoni Produttori Associati, 1974. Il Salone di bellezza in fondo al vicolo è affollatissimo di marinai prova a chiedere a uno che ore sono e ti risponderà "non l'ho saputo mai". Le cartoline dell'impiccagione sono in vendita a cento lire l'una il commissario cieco dietro la stazione per un indizio ti legge la sfortuna e le forze dell'ordine irrequiete cercano qualcosa che non va mentre io e la mia signora ci affacciamo stasera su via della Povertà. Cenerentola sembra così facile ogni volta che sorride ti cattura ricorda proprio Bette Davis con le mani appoggiate alla cintura. Arriva Romeo trafelato e le grida "il mio amore sei tu" ma qualcuno gli dice di andar via e di non riprovarci più e l'unico suono che rimane quando l'ambulanza se ne va è Cenerentola che spazza la strada in via della Povertà. Mentre l'alba sta uccidendo la luna e le stelle si son quasi nascoste

la signora che legge la fortuna se n'è andata in compagnia dell'oste. Ad eccezione di Abele e di Caino tutti quanti sono andati a far l'amore aspettando che venga la pioggia ad annacquare la gioia ed il dolore e il Buon Samaritano sta affilando la sua pietà se ne andrà al Carnevale stasera in via della Povertà. I tre Re Magi sono disperati Gesù Bambino è diventato vecchio e Mister Hyde piange sconcertato vedendo Jeckyll che ride nello specchio. Ofelia è dietro la finestra mai nessuno le ha detto che è bella a soli ventidue anni è già una vecchia zitella la sua morte sarà molto romantica trasformandosi in oro se ne andrà per adesso cammina avanti e indietro in via della Povertà. Einstein travestito da ubriacone ha nascosto i suoi appunti in un baule è passato di qui un'ora fa diretto verso l'ultima Thule, sembrava così timido e impaurito quando ha chiesto di fermarsi un po' qui ma poi ha cominciato a fumare

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e a recitare l'A B C ed a vederlo tu non lo diresti mai ma era famoso qualche tempo fa per suonare il violino elettrico in via della Povertà. Ci si prepara per la grande festa c'è qualcuno che comincia ad aver sete il fantasma dell'opera si è vestito in abiti da prete sta ingozzando a viva forza Casanova per punirlo della sua sensualità lo ucciderà parlandogli d'amore dopo averlo avvelenato di pietà e mentre il fantasma grida tre ragazze si son spogliate già Casanova sta per essere violentato in via della Povertà. E bravo Nettuno mattacchione il Titanic sta affondando nell'aurora nelle scialuppe i posti letto sono tutti occupati e il capitano grida "ce ne stanno ancora", e Ezra Pound e Thomas Eliot fanno a pugni nella torre di comando i suonatori di calipso ridono di loro mentre il cielo si sta allontanando e affacciati alle loro finestre nel mare tutti pescano mimose e lillà e nessuno deve più preoccuparsi

di via della Povertà. A mezzanotte in punto i poliziotti fanno il loro solito lavoro metton le manette intorno ai polsi a quelli che ne sanno più di loro, i prigionieri vengon trascinati su un calvario improvvisato lì vicino e il caporale Adolfo li ha avvisati che passeranno tutti dal camino e il vento ride forte e nessuno riuscirà a ingannare il suo destino in via della Povertà. La tua lettera l'ho avuta proprio ieri mi racconti tutto quel che fai ma non essere ridicola non chiedermi "come stai", questa gente di cui mi vai parlando è gente come tutti noi non mi sembra che siano mostri non mi sembra che siano eroi e non mandarmi ancora tue notizie nessuno ti risponderà se insisti a spedirmi le tue lettere da via della Povertà.

Sergio Endrigo, Ofelia, in Sarebbe bello Vanilla-Fonit Cetra, 1977. Ora dormi In fondo all'acqua I tuoi capelli Come alghe La farfalla di una sera Un bambino addormentato Il tuo viso Sta sognando Il tuo corpo Così bello Come piume di un uccello L'acqua scura porta via Mentre l'onda ti accompagna Forse sogni di esser viva Troppo grande fu il dolore Per il tuo cuore indifeso Una storia Fuori moda Di chi muore Per amore Versi tristi di poeti Riscoperti in libreria

Come un fiore Sei caduta Senza luce I tuoi vent'anni Ora un fiore ti accompagna Lungo il fiume senza fine Il silenzio sta coprendo Le chitarre e le risate E non senti più la voce Di un ragazzo che ti chiama Ora dormi In fondo all'acqua I tuoi capelli Come alghe La farfalla di una sera Un bambino addormentato Il silenzio sta coprendo Le chitarre e le risate E non senti più la voce Di un ragazzo che ti chiama

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Sergio Cammariere, Sergio Secondiano Sacchi Il principe Amleto, in Sergio Cammariere Sony Music Entertainment Italy, 2012. Questi miei versi riveleranno poco ma non su tutto ho pieni poteri fui concepito nel fuoco del peccato dentro al vagito di una prima notte Diritto al trono, senza muovere un dito sono salito, ero un designato sapevo già che, tanto, tutto quanto avrebbe poi seguito la mia volontà Senza pensare tanto alle parole gettavo frasi al vento, leggero come un forte capo, un condottiero mi seguivano i rampolli di corte Ma solo con le labbra sorridevo io nascondevo il segreto dello sguardo che si fa inquieto, che si fa beffardo fu il buffone Yorik che me lo insegnò Ma rifiutavo di dividere gli onori il privilegio, la gloria e ogni omaggio cambiò la storia quando morì il mio paggio e fu il disagio che diventò dolore Odiai la caccia e tutto il suo furore tenevo il cavallo lontano dalla preda nell'urna del fiume io di notte quel lerciume diurno lavavo in me

Mi allontanai dagli intrighi di famiglia estraneo dalla gente e dal mio evo in mezzo ai libri io mi sotterravo ma al pensiero sempre arriva una smentita. Nella mia vita si spezzò ogni filo discese il gelo con gli amici di un tempo e l'essere o non essere fu tormento il dubbio attento che risposte non ha Ma sempre frange il mare dell'avverso con la fionda vi si lancia pietre e semi poi sulla sponda noi si setaccia l'onda per vagliare una vana risposta Ma l'appello degli avi rimbombava e a quell'invito io prestai ascolto i pensieri più gravi mi spingevano in alto le ali della carne mi han trascinato giù E come tutti ho sparso sangue e lutti e alla vendetta non seppi dar rinuncia Ofelia, non mi volevo putrefatto ma col delitto mi sono decomposto Io, Amleto, la violenza disprezzavo sulla corona danese ci sputavo ma ai loro occhi fu solo per il trono che uccisi per diventare re. Il genio che si frange è simile al delirio la morte guarda di sbieco ogni parto ogni parte ci porta all'insidiosa risposta senza trovare il quesito pertinente.

Claudio Maria Pegorari, Ofelia, 4 testi per un’installazione a Calvisano (Brescia), 1999 I. Qui Profonda solitudine silenzio ininterrotto. Silenzio… Silenzio Sogni sempre infranti. Macchiata illusione, ferita… luce sanguinante come pioggia tropicale non mi dà tregua: appiccicosa sulla pelle e sudore sporco che bussa alla fragile porta del mio amore innocente. II. Vìola Ogni tanto la portano via vengono a prenderla, a condurla con sé. Non importa che sogni lei stesse per fare non importano i giochi interrotti per sempre.

Troppe dita e mani sente graffiarle l’anima… macigni, corpi enormi ormai nella certezza di un assenso dovuto, un finale sicuro.

Nessun volto a dare forza, nessun colore o suono, ad una ribellione neppure ipotizzata. Si aggrappa alla speranza di colpe da espiare… Fuori della stanza prosegue la sua giostra l’aria sorride di spettri e di bambini e di un buon motivo per continuare.

Riprende a palpitare il suo cuore ferito. Di nuovo sente il sangue tornarle nelle vene. …Acqua rituale di lago tracimato che spalma gli scarti delle vite altrui… Lento fiume di gocce già passate, di fango che scorre e tempus fugit irreparabile.

III. Ofelia È come un sogno questo mio vivere ai piedi dell’inferno…

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Atroce sogno nero in fondo alla cisterna. E vedo volti in controluce ballare in superficie e se qualcuno sputa s’increspano le onde e rido io, nel fondo guardandomi le mani. Tutto attutito sui tetti, come neve. Forse domani cade, la neve, su quest’acqua: la guarderò da sotto posarsi, per poi spegnersi, aggiungersi alle altre per diventare acqua.

IV. Afasia Sogno di arrivare Non è finito il tempo corro a restar fermo. Ti fecero promesse nel grembo di tua madre che vanno mantenute! Lacerante, l’impotenza… Non guardare riprendi il vecchio sogno tocca la mia mano…

Lino Angiuli, Elsinore/Helsingør, in Idem, Diana Battaggia (a cura di), Luoghi d’Europa, La Vita Felice, Milano 2015, pp. 96-97.

Ventre pieno di lampadine e aringhe il bastimento oscilla da una parte all'altra per fare il buco dentro il nord della notte lentolento come una limaccia poi finalmente sfruscia il mattino quando si sbircia un grande castello ubriaco di nebbia

eccolo là eccolo là lo vedi? ih! sì! lo vedo e vedo che mi viene addosso è proprio là dove il cuore bambinello andò a uccidere padre e fratello un giorno per insaccarsi in capo una corona di rovi e scapparsene con i seni della mamma in mano

eccolo là eccolo là lo vedi? ih! sì! lo vedo e mi vedo là che sbatto il capo da una costa all'altra come ’sto bastimento per potermi buscare uno sgocciolo di requie e sgamare il vento che mi spinge da dietro il centrone che in sogno mi comanda a bacchetta

benvenuti a Kronborg benvenuti a casa.

in lingua valenzanese e danese

Vénda chiène de lambadine e renghë

u bbasteménde ammocche da na vanne all’alde pe ffà u bbuche jind’ o nord de la nótte lìendelìende còume a nna malombre po fìnalménde sfrusce la matine acquanne se smicce nu sórte de castìedde mbrejache de negghie

der er han der her han se det? ih! séine! u vegghe e vegghë ca me véne ngùedde iè próbbié ddà addò u còure palangrìedde scî ad accite attane e fratë na déi pe nzaccarse ngape na cròune de scrâsce e scapparasinne che le menne de la mamme mmane

der er han der er han se det? ih! séine! u vegghe e me vegghë ddà ca sbatteche la cape da nu cóst’o u ualde com’a stu bbasteménde pe petermë abbesquà nu squicce de régghie e sgamà u vìende ca me spenge da dréite u cendròune ca nzùenne me chemmanne a bbacchétte

velkommen til Kronborg velkommen hjem.

Angiuli Lino, Amleto innamorato in Addizioni, Aragno, Torino 2020. Unguentami tutto con l’arte del polpastrello ma fallo per favore dall’alluce alla luce mentre raccogli una nuvola dopo l’altra tra pollice e indice e dolcedolce l’accompagni nel luogo immenso del balletto universale una la impasti con la saliva medicamentosa per farla scivolare in bocca come un’ostia

questa e altre meraviglie combinano le dita quando riescono a germogliare dalla terra quando scrivono l’aria con aggraziate scie quando sanno misurare metraggi di cielo e avvolgerli intorno al pollice bambino il dito che sa fingere di starsene in disparte però il segreto dei segreti sta nell’indice a seconda di come ti sa fissare negli occhi può accenderli di fuoco o cecarli entrambi con l’interruttore ben avvitato al fegato perciò tu unguentami sanosano amoremio affonda le tue dita nei paraggi del colon vi troverai la strada che mi conduce a te senza bisogno di un qualsivoglia perché.

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Davide Rondoni, Ghertruda, la mamma di A. in Idem, Cinque donne e un’onda Ianieri, Pescara 2015, pp. 53-101. (Entra lei, G. Niente sul palco. Solo alle sue spalle una luce che viene come attraverso una vetrata. Da cui arriveranno talvolta, confusi, rumori di bicchieri, forse qualche lieve vociare, cristalleria, motivetti musicali danzanti. Lei avanza in una veste semplice, ma con un lieve strappo nella cerniera sulle spalle, o una sfilacciatura nel fianco, o l’orlo calpestato e sporco. Qualcosa, insomma, di consumato in una veste del resto bella. Così come è bella lei, se pur un poco in disordine. Nel rossetto. nella capigliatura.) I Adesso torno in scena io. Sollevandomi da quella stupidissima morte. Dove sono le fenici azzurre le fiamme dolci e ritorte la resina, le capre folli, magiche, i cani dal lungo pelo e occhi di diaspro, le cavalle con le gemme scure sulle fronti, le artiche creature tra il buio e la luce dei ghiacci morti? Sono l’unico spettro qui? Ne siete sicuri, nessun altro è uscito dai suoi marci e sfondati ripari? Nessun animale fantastico? Me li raffiguravo, ero bambina, la mia dura madrina li disegnava nell’aria, sull’erba. Coperta di brina. Più nessun abbraccio forte. Questo sì mi pesa della mia condizione di morte. Il nulla della mia assassina. Siamo in tanti, ci si rivede… Ci sfioriamo. Il bicchiere in mano dietro, là la grande vetrata. Lo sapevo che la coppa era avvelenata. Quando lui l’ha offerta a mio figlio ed è restata sospesa

io lo potevo immaginare e forse sì, ma non ricordo bene l’ho immaginato. Ma ho bevuto. Essere pronti è tutto… E io no, non lo sapevo e però sì, oscuramente, lo sapevo. II Ho bevuta quella coppa. Il prevedibile veleno. A una regina vien forse sete d’improvviso durante il duello in cui suo figlio rischia d’essere ucciso? Pensate: perché allora di bere hai deciso? Speravo la si facesse finita con quella messinscena patetica, malandata. Con tutta ’sta sfasciata vicenda di fantasmi rancorosi, d’amanti lividi, di figli lamentosi… Speravo che la mia regale caduta, la regina, io che cade avvelenata potesse arginare la tragedia, sì, perché il compito regale era non dico, no fare felici ma insomma regalare almeno un poco di quiete a mio figlio all’amante, al regno, agli amici… Era quel che desideravo con superiore impazienza. La regina non deve comunicare felicità ? O una sua parvenza? E far sostare almeno o deviare la nera commedia che vedevo arrivare giù, giù su Elsinore sulla Danimarca e su tutto l’intero mondo a rompere tutto, a tutto come mi pare stia facendo la generale vischiosa tragedia rovistare tutti i cuori, le facce, anche i vostri visi qui e fuori nelle lampeggianti città che là come pianti luccicano in fondo alle valli nella notte, i visi stampati coi loro

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sorrisi sulle réclame, replicati nei miliardi di video che squittiscono al vuoto, e i vagoni a mezz’aria nelle sopraelevate saettanti o più lenti nei cunicoli i volti dietro le nubi riflesse sui cristalli ai piani altissimi o giù agli incroci trafficati, gremiti, urlanti… Volevo buttando il mio corpo morto immoto sulla scena fermare lo scempio che stava abbassando la sua ala e che ora vedo è così calata, bruciando con il suo acido nero colato passando sulle danimarche segrete dei cuori, le anime di ghiaccio e di mare sperdute così ora, in questo empio desolato abitare – vedevo la tragedia arrivare, da tanto la presentivo. Veniva sulle nostre torri, e sugli sfasciati tuguri del popolo, veniva, è, guardala, venuta sugli eleganti camminamenti sui ponti di vetro e luce trasparenti e nei reticoli oscuri di banche baracche e sulle ovunque favelas. Volevo fermarla prima, oh sì, rovina, prima che toccasse i corpi, sì il corpo di lui, mio bellissimo figlio e degli altri che, lo dico, lo sapete, avrei tutti baciati, carezzati e anche spogliati e tutti sbavati, onorati con la mia regale devozione e seduzione… Se non la felicità o la quiete, volevo fermare quel che vedevo arrivare e avrebbe trascinato pure lui il mio figliolo. Ma la tragedia non si poteva fermare. Non si può. La rovina che era stata messa in moto qua, insomma là, nella Danimarca che sembra così remota della nostra mente e del nostro volere e che sarebbe venuta giù per le mura, nelle stanze dietro le tende, sulle prime senza farsi vedere e nelle mezze parole e poi giù di seguito dai palchi finti degli attori di passaggio

e poi giù anche da questo palco o rimessaggio di vecchi arnesi di teatro o suo rimasuglio, rovina rovinante giù per i gradini, per le poltrone addosso a tutte le persone là, ecco – la vedo uscire, rovina, imbroglio dei cuori rovesciare le danimarche fuori e le interiori, via gli animali fantastici dell’amore, della gioia messi in fuga, sollevare i boschi e abbattere gli spalti dei castelli le cucine mezzo apparecchiate, le lampade negli uffici accese che lasciate, toccare l’abitacolo dove l’uomo fermo in auto all’arrivo sotto casa sosta muto in silenzio senza sapere perché, le carte dopo la riunione rovina inafferrabile e lebbra o invisibile leucemia, rovina rovinante che lascia intatte le figure ma le mangia dentro, tronchi cavi, gusci da buttar via effigi vuote, anime, anime rifatte, anima anoressia. Non sentite schianti? Oh gentiluomini, gentildonne seduti in questo teatro, o sala da ballo o cavea, qui accomodati o forse sperduti, non la sentite? non vi arrivano qui le vampate? Io sì le sento… Nella lievissima variazione nella luce, un fremito soltanto, di quelli che si alzano i musi un istante ed invece è già tutta venuta una radiazione, un’ombra che traversa un momento lo sguardo la totale, la sottile brutale perversione… III Fu, è, sarà rovina della finzione profonda. Rovina della bugia midollare. Non di quella molecolare, diffusa quasi come una allegra canzone. Non la bugia innocua. Acqua di parole. Risistemazione continua del mondo. No, la lebbrosa,

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la rovinosa intendo menzogna midollare: di voler essere regali a costo dell’usurpazione. Usurpare, per poter regnare. Questa la colpa originale? Io, io no, io volevo essere regina dare un po’ di felicità o almeno quiete, o chissà… ma non sapevo… No, non sapevo l’unica cosa che voi forse sapete e che avrei dovuto sapere. Che non volli pensare. E nemmeno, sciagurata, immaginare… Io non ho usurpato un bel niente! O piuttosto, se mi volete accusare in questo teatro così pazzo, ho usurpato un po’ di amore nel letto, un po’ di calore, un po’ di… Non lo dico, no. Niente rima. Oh sì, invece: ho usurpato un po’ di cazzo. Ma non ho mai usurpato la corona. Sapevo tutto, fui la più chiara la più lucida nel lutto. Ma non sapevo, non potevo sapere che l’uomo che cingevo che mi coccolavo come una seconda gioventù aveva saputo bruciare il cervello del mio legittimo marito per rubargli la corona, la veste e anche il vestito pur se più basso porta giù il cavallo tra le gambe come un rapper di Harlem, così più giovane, sventato… Ero cieca? non l’ho mai sospettato… Ero felice che lui per me avesse lasciato l’infelice harem di donne che s’era trascinato nel suo passato girovagare… Da qui venne la tragedia, da quel punto della sua omicida usurpazione. Venne la rovina e continua a venire… Una Danimarca di fantasmi. Guarda lì, là fuori, passeggiano tra video giganti, lungo le ferrovie… tra i miasmi

che come stormi escono e vanno su giù dalle acciaierie… Quando vidi che la rovina s’era definitivamente divincolata rotto i lacci dove pensavamo tutti segretamente d’averla serrata allora sì, ho bevuto. Facciamo finire ’sta scenata. Un figlio che finge d’esser demente un secondo marito che finge d’esser innocente un primo marito che addirittura il fantasma si mette a fare. Sempre stato prepotente… M’ero proprio stufata, pensavo che se non la ingollavo anch’io quella perla, quella aranciata o cosa era non ricordo più – si beve così tanto di là o dove è la morte, dietro la vetrata – non ce la finivamo, no. Pensavo così. Ero scema? Sventata? Non ho fermato un bel niente di tutta ’sta nera scenata. Di sembrare tutti qualcosa che non s’era. Di avere tutti la natura di sembrare fatti d’un’altra natura. Finché non apparve quel che “passa la natura”… Il vero teatro. Del male. Io, mio Dio, se ci penso ero l’unica fessa, sincera scema ma leale dicevo quel che mi pareva quel che mi premeva. Non fui la gran moralista, non feci mai la lista dei mali altrui. Sapevo i miei. Ma almeno non fingevo di non averli. Dicevo: figlio mio, non m’accusare – per l’aver cercato io un po’ di calore e di regalità non mi vuoi più amare ? Sono la tua mamma.

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Non ho che te, non conta il resto… In mezzo al totale infingimento, fantasmamento, raggiramento. Io come una bimba dicevo: è per me che lui soffre, il mio Amletuzzo, perché vede me sposa d’altro uomo, così presto. Lo dissi subito mi pareva chiaro: è così, è questo. Chiamai il male con il suo nome. M’illusi così di poterlo fermare, come se bastasse nominare… Non si rassegnava lui a perdere il padre come tutti perdere lo devono, secondo quel che disse, gran vaccata, la testa del mio nuovo marito e montone incoronata. Abituarsi a perdere il padre… Il nuovo re mise questa condizione. Abituarsi alla orfanità! Questa perversione! Che oscenità... Per esser grandi, diceva, e meritare il regno. Sembravano parole dignitose, pensose. No, erano schifose. Ora lo so, non era compassione. Ma calcolo, era l’indegno invito di chi non vuol perdere la corona. Io bevvi, fu l’unico gesto in cui fui padrona… Ma di che padrona… Venne, doveva venir giù la gran commedia di inganni e bisbiglio, e scendere a diventar tragedia di annegamenti d’ofelie e visibilio, dure irripetibili contumelie, la canea bazar immenso di teatranti. Di sangue, amore e vizio e potere fiacca spiattellata purea. Una storia tutto sommato modesta trascinata a diventar totale tragedia. – E ora tutti noi di là a quella oscura, luminosa, vuota festa. Scusate il mio affanno. Sono dovuta uscire di corsa. Se non decidevo di colpo, se non me ne venivo via così com’ero senza nemmeno

passare dalla parrucchiera. È giorno? è sera? di là non c’è mai luce vera… IV Pazienza. Vedrete che il mio affannoso fastidioso respiro se ne rientra tra breve nel petto come una colomba nel nido. Me lo diceva sempre il mio amante sopra me nudo dopo avermi lasciato sperduta, ansante: rientra il respiro come una colomba nel tuo petto. Ma ora non so, anche se qui è un po’ come là sul letto, l’espormi defunta e spettinata. La morte m’ha tutta denudata. E di là, oh sì la musica la serata sempre mesta e danzante ma è così grande il buio su di me, grave favo ronzante, enorme nudo amante… Ci ha trascinato lui tutti qui. I suoi sguardi sottili, vaghi di acqua di capelvenere. Il mio piccolo figlio. Mio cuore in cenere. V Di là passiamo molto tempo in chat. Nomi fantasiosi, carini, ci chiamiamo amici ora che amicizia è morta e noi ci diciamo tutto, ci diciamo niente… Fantasmi, gente, in quella festa non festante, allegria tutta cadente – Sono venuta qui aprendo con un tocco di dita le porte del salone di fantasmi. Ballano in tanti qua, dietro le vetrate. Non li sentite ? Oh che musica disperata…

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Ma se l’angelo posa il suo occhio ubriaco dal divanetto dove se ne sta seduto con la vodka nella mano che ormai non la regge allora è legge che tu possa uscire, e di qua dove passate il tempo tra amore e vituperio venire… Chi sono ? Niente, un fantasma. Come siete quasi voi. Forse solo un leggero asma. Ma mica come quello. No, dico, mica come quel che venne sul bastione o dove, nel bosco, come un cinghiale, un porco a guastare la mente, e poi giù anche il corpo, le braccia, il viso bellissimo del mio Amleto… Amletino. Ma se a causa sua fosti uccisa! Voi pensate. Quasi, o no, non pensatelo, no, quasi fosse lui, il mio assassino. Lui, il mio Amletino…Voi che non sapete niente. Lui fu il regista così innocente della generale disfatta. Delicato principe della malefatta. Lui fece una apertura della scena sulla vita, finalmente. Distrusse il teatro. Indecente. E la corte, la nostra legittima dolorissima e però, insisto, legittima, per quanto schifosissima e marcissima ma oh, legittima mia corona e corte consegnò interamente lui, l’Amleto Amletino alla morte. Noi ci amammo. Rovinosamente. Può darsi amore tra madre e figlio diversamente ? Ditemelo, se lo sapete, fatemelo vedere… Ascoltate le mie parole. Il mio respiro… Quello che mi mancò a sentire le sue offese… O figlio spampanatissimo giglio

quanto hai sputato sentenziato sei venuto a dirmi, ti sei presentato a dirmi (morte o qualcosa se c’è d’ulteriore, oblio che ingoia e cancella ogni dolore, doppia morte, niente d’ogni pena ogni gioia, ora coprimi gli occhi della memoria non voglio rivederlo, basta, fu così duro, ancora questa storia, è veleno nelle mie orecchie udirlo il mio figlio, il mio bambino): sii casta, madre, stanotte non chiavarlo e domani ancora, tra le lenzuola non darti più alla sua nefasta foia… E aggiunse – mi aveva mozzato il respiro – come se non potesse dirmi di più guardandosi come un gangster in giro: recitala almeno se non hai virtù. Perché svergognarmi così, eh peggio neanche che m’avessi tutta denudata, tu figlio mettersi a parlare con me della mia come la chiamasti chia… a me tua madre, come a una chiunque, un’introiata da tenere a freno, ridotta in un baleno a meno, mille mille volte meno della serva dell’oste, dall’altre servette che ti facevi, le tue parole così ferree toste. Doveva esser questo, così alto il costo della regalità? Resa peste, vana… D’esser fin qui trattata come una puttana dal mio proprio figlio, denudata, sfregiata dal suo artiglio. Regina così dal proprio frutto del ventre

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umiliata… VI Cosa ne sai, cosa ne puoi sapere cosa è per tua madre godere? Non vuoi più vedere questo spettacolo, ti dà fastidio? Lo allontani, cosa mandi via con le mani astute della pazzia? Ch’io non sia la statua di sale di dolore vedovile, che non sia restata tutta sbigottita nel funesto evento del castello e che poco dopo la tumulazione mi sia data a quel che chiamavi incesto, non capisci, figlio mio di bellissime rose mio cesto? Era solo real politik e di qui, tra le cosce, consolazione? Povero figlio scemo. Ed esatto. Poteva andar tutto bene. E tu essere re. E invece fu solo rovine. VII Ma basta lamentarmi! Sono un fantasma diverso mica come quel perverso che se ne uscì di là dal salone delle feste per venire qua, là sugli spalti, ad ammorbare con la sua cornutissima peste l’anima, la mente o come si chiama la lamina sottile d’oro del mio figliolo bello, figlio gentile. Non sono come quel che s’è disturbato, ha lasciato di là dalle vetrate sabbiose del mai – nel nulla a cui ci connettiamo wi-fi – il party devastante estremo di musica che mai tace per venire qua, a soffiare sulla brace del povero cervello, e sì del cuore o come si può chiamare forse cincia, forse

colibrì o come dire quella cosa lì che comincia nel petto dei ragazzi e sente i primi tremori i primi assoluti dolori… Venne qui a infangare, a importare, a sputtanare sì esattamente, fantasma sputtanatore, pettegolo padre padrone finanche dietro la vetrata, a immischiarsi, a farsi gli affari nostri, fantasma peggiore, vendicatore. Voleva ancora essere re, anche da sepolto. Stronzo, anche da morto. Se n’è, per così dire, un pochettino risorto per venir qui sull’asse malferma ancora della vita e della scena a versare lui sì, ora che ci penso, il veleno nell’orecchio del mio piccolo giglio, del mio sperdutissimo figlio. Fantasma diseducatore. Oppositore di figli al genitore. E di più, vita contro la genitrice ritorta. Fantasma di luce corruttrice. Troia morta. Carcassa verminosa. Lo vedo di là, dove la festa tutta rósa dai vermi prosegue, danzante cadente. Quando mi ha vista arrivare s’è stretto nella giubba coi bottoni d’oro. Non ha avuto nemmeno il decoro di venirmi a salutare. Sono stata sua moglie, cazzo! E invece se ne stava là, con una figa da strapazzo a vederle crollare il sorriso… Come se avessi colpa di qualcosa. Lui che mi ha fatto ammazzare per mano di suo fratello dal veleno destinato a mio figlio. Cerchio maledetto e vorticoso d’odio esatto e macchinoso. Il suo odio, fu il più tremendo consiglio. Di là, mi ha guardata entrare, poteva alzarsi

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ma l’estraneità eterna ho veduto nel suo sguardo passare. E per l’eterno nei secoli fissarsi. VIII Scusate, scusate. Mi son fatta prendere dall’entusiasmo. E ancora da una vena di imperdonabile lamento. Per fortuna questo spasmo del respiro non mi permette di continuare troppo a lungo a querelare… Trovate queste scarpe un poco volgari ? Riuscite forse a immaginare cosa vuol dire per una donna non potere più guardandosi provare un po’ di piacere ? Cosa ho fatto per finire così ? Ditemi voi qui, che la mia storia sapete o forse non sapete pur avendo di Amleto vedute recitare in molte modi le gesta ? Che cosa vi resta di me ? Cosa ho voluto di così male… Sono solo la donna che volle essere regale. Me lo dovete ancora rimproverare, anche adesso che sono qui, senza nessuna collana, nessuna scena addosso nessun altro attore, né copione, regista… e con il niente di respiro colomba che mi infesta e non torna a nessun nido mi batte pazza le ali sul petto, la sua nuda feroce la beccuta testa ? Me lo dovete rimproverare anche adesso che non più uno straccetto da mettermi addosso e ho le calze, oh Dio, le calze vecchie, rotte si vedono anche adesso qui dove mi pare sempre notte ? Cosa ho voluto di così male ?

Non dovevo desiderare d’essere la donna che rimane regina? Dovevo far la vedova del regno e tenere solo stretta in pugno le foglie morte della pena… E vederti crescere, smilzo Amleto, che poi eri già cresciuto ma così assente che fu quasi naturale dare al tuo zio il regno… Lo si sarebbe dato a un qualsiasi altro parente. Te ne importava solo del teatro. Neanche d’Ofelia ti fregava niente. Non la portasti mai a ballare, solo lettere lacrimose teatrali. E lasciasti che la sua verginità si perdesse nella via delle acque. Volevano tutti sapere se l’avevi in qualche modo succhiata. Ma lei si lasciò solo risucchiare dal dolore. Sì, lei sì. Fu l’unica davvero a soffrire. Come fan le ragazze poverine prima di diventare – se ci riescono – come noi, regine. Inscenasti il dolore, Amletaccio mio, sempre da solo sulle pallide ali della tua recitazione. Ah, maschiaccio in combutta con l’altro quel fantasma là che rutta, ride senza espressione sul viso che ha spenti nella vendetta tutti i sorrisi e non si diverte più. Più morto di prima, stramorta faina. E tu, figlio, femminuccia mia, mai una passione, se non contro di me. E contro il tuo nuovo re. Che diceva di volerti così bene… di non capire le tue pene… Ma su, in fondo non aveva torto in quel suo parlare obliquo, finto di pietà ma ricco di senso politico e di realtà… Dovevo aspettare

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che ti sbollisse dal petto tutto il dolore di non avere più un padre ? Secoli, millenni… Dovevo invecchiare aspettando che guarissi dal lutto da cui non si può guarire? No, avevo in pegno la regalità! Alla mia età non volevo fare la regina madre che già dal nome sembra una elegante rincoglionita una torta, una crostata, un pupazzo una tovaglia ricamata una regina di ’sto… IX A qualcuno dei presenti forse dan fastidio le parole volgari… Ne ho addosso migliaia. Come farfalle finalmente liberate dalle carceri del dialetto dalla linguistica regale. Ma starò attenta, me ne staccherò dalla veste e dalla lingua solo qualcuna, colorata, necessaria, come aria… X Ho voluto essere la regina ancora per un po’. Che male c’è ? La regina che regnava, che scendeva le scale e facevano ala. Anzi: ero io che scendendo creavo la scala E che feci diventare re lui l’uomo, l’omaccio, il presuntuoso caprone che mai sarebbe stato re se non gli davo da leccare il mio tallone… Baciando le mie spalle deserte ebbe il regno fino alle deserte coste di Skane e sbavando sul mio ventre ebbe le distese lontane del Sund e portandomi al piacere ebbe tra i ghiacchi le fumanti foreste nere. Non vi vedete voi come me? Signore

assidue o mai frequentatrici del teatro, e assidue di letti sfatti lavatrici, che vi concedete o vi siete concesse a impiegati, funzionari, a qualche bacio sbavante di assicuratori o di notai, a qualche foia di professori, non vi vedete voi come me regine e produttrici di re, di tutti questi patetici tenerissimi re. Non è così? Non vi vedete in me rappresentate ? Prima uno poi l’altro. Re, grazie a me. Conosciuta, eccome, da uno e da due insieme e poi in successione eppure di nessuno e da nessuno in possessione. Ero io chiudendo gli occhi a renderli re. La lussuria non è che un vecchio giocattolo a confronto del gusto di poter regalare la corona a un cucciolo cresciuto d’uomo. Farlo sentire re, tuo padrone, ma grazie a te… Non vi scoprite in questi lineamenti? Nei miei medesimi brancolamenti? O non c’è più niente oramai di regale in voi. Parificate, schiave di cazzi impiegatizi (ci stava, dài) nessuno mai, traversando una sala vi porta reggendo delicatamente la mano sulla mano in mezzo ad un’ala di folla, non vedete le spalle più rigide inchinarsi al vostro passaggio né quelle di donne più giovani più belle di voi, che vorrebbero avere il coraggio di fissarvi in viso esibendo la loro superiorità, e sbranarvi con lo sguardo, no ecco qua, anche loro doversi inchinare, bellissime spalle curve, e teste, oh le pettinature… E uomini

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dalle facce dure calare in ombra scegliere di baciare il silenzio trattenere tutte le offese, le ire sul nome mio, tutti i “bastarda!” soffiati a occhi stretti, i “puttana!” i “vacca maledetta”o i “bugiarda”. Ho voluto soltanto rimanere regina, cosa c’è che vi sembra di male ? E: siete sicuri che non vi riguarda? Fate tutti gli Amletini, i poveri orfanelli, ripetete come ritornelli i vostri piccoli dolori… Ma io so che in cuore covate i miei stessi furori. La regalità, signori, dov’è la vostra la regalità… XI L’ho voluto contro l’assedio del tempo, sentendo il desiderio di Claudio raggiungermi su per le scale già quando il mio marito maledetto fantasma imputridito come un bel giorno sulla Danimarca regnava. L’ho voluto contro il tempo che mi sputava le mosche in faccia. Sono restata regina facendomi colare un altro seme tra le gambe, e a costo di qualsiasi offesa dietro la nuca. Perché poi la nuca di notte me l’afferrava il re, o cosa è questo uomo che rendo io quel che è, e sapeva come prendermi, mi porgeva delicatamente la mano di giorno tra le ali di folla, e la notte tra le ali delle nubi e delle stelle mi spingeva fortemente contro la parete del letto e m’inchiavava al mio nome che gridava: regina, regina, regina! Poi anche lui, il re mio desiderio, si inchinava come un cane, faceva la sua festa qua tra le mie gambe… Per alzarsi poi anche lui ansante e aver la mia corona sulla testa.

Non vi sentite rappresentate? Non vi dice di voi niente questa mia storia da niente? Tacete? nelle vostre ombre tacete? sparite negli ori scuri del teatro o forse risentite vi stringete nei vostri abbracci di poltroncine in abbonamento o d’una sera strappata alle cucine o le belle di tv seratine? Io le conosco le donne, voi signore, signorine… Eppure, Ofelia, oh oh oh oh Ofelia… Magari pensate a lei ? Mi opponete lei, la annegata di pianto? Ricordatevi! Io fui la prima a lacrimare sul suo destino, sul suo visino sommerso piano dalle acque per il suo pazzo suicidio o meglio abbandono musicale alle onde. Io l’amavo. Ben più di voi. E anche se il mio schiattare fu meno poetico del suo, io, io sola davvero la seguii, fui la prima a seguirla, la seconda Ofelia… La vedo ancora, quella ragazzina. Andava bene per il mio Amletino. E se quello spettro che di là parla a voce alta, rutta, tocca il culo alle cameriere se ne fosse stato dove i morti devono stare ad ascoltare la chitarra di Santana ta-ta-ta-tata-tatatà! Suonata da angeli mulatti o Michael Jackson paralizzato che canta su una sedia, lei, Ofelia, a quest’ora sarebbe non nel fiume, ma in metropolitana, forse con un libro in mano o la borsa sulle gambe tornerebbe dall’ufficio stanca, l’i-pod e l’aria lontana dal suo marito un po’ pazzo forse in periferia a Milano, un amore strano la farebbe sorridere ai finestrini ma così piano che nessuno lo potrebbe vedere, da Turro o Cascina Gobba verrebbe una delle mille sere quando spera che lui torni a casa e poter baciare la rosa del suo respiro.

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E invece è annegata come un gattino, e l’aspetta nessuno il mio Amletino niente casa, niente rosa tutta bruciata questa famiglia questa cosa tutta sotterrata stirpe presuntuosa, ridotta a fanghiglia tutti di là dove va la buia festa e i due re se ne stanno come due fessi senza più rancori, sperduti si scambiano commenti sulle commesse… Lo ricordate ? Io feci il lamento di dolore che ancora ammalia di lei, la gattina nell’acqua, il vestito gonfio di fiori e che piombo diventa il lamento di Ofelia la povera Ofelia – diranno sempre: la povera Ofelia che era una brava ragazza ma forse un po’ debole di costituzione: ammattì in mezzo agli ammattimenti, agli infingimenti per la morte, quella sì, reale anche se parve di topo dietro la tenda, pure questa contraffazione le fece così male, era una ragazzina… Come quelle che ora i fiori annodano ai pali, ai cancelli per le strade nelle scuole se muore un ragazzo, se la morte improvvisa appare nel mondo, nel suo tetro finto girotondo, un gesto lieve, un nodo di fiori una maglietta, i soprannomi nella scritta, tipo Giusy o Magic o i nomi di ragazzo solito e così di povera stella individuale, Luca forse o Mattia anche a lei non venne da pregare a nessun altare, si fece lei corona di fiori e pianto e via via, via, pianto fino al mare… A lei fece così male in mezzo alle finzioni la così banale morte reale.

XII Dimmi bambina fu così che diventasti tu la vera la unica regina ? Niente gattino, niente metropolitana alle sette niente sue dolci tettine per il mio Amletino che se ne sta di là dalla vetrata e mi guarda mi guarda e non si avvicina, ci guardiamo per tutta la eterna settimana, ogni sera ogni mattina e non sappiamo cosa dire. È così bello ma non ci riesce proprio di parlare. Lui mi guarda e io lo riguardo, il mio figlio bello che per fortuna non ho visto morire perché non avrei saputo come fare lo guardo, ci guardiamo come quando le mamme vedono il figlio cenare, o entrare e non dire niente, ti porto qualcosa da bere ? Figlio che mi cresci eternamente sempre davanti come a tutte la madri i figli crescendo da silenzio a silenzio dai primi balbettii a pochi saluti, figlio che ti alzi come una condanna una presenza che sempre sempre azzanna il cuore, affanna la mente, figlio, che ti alzi come un grande tiglio di fronte alla diminuzione di roseto della madre – portami con te vorremmo gridare sempre, ogni volta per dove te ne vai, fino nella morte… Noi che diminuiamo, diminuiamo così tanto roseto chinato, affranto e non ti possiamo mai trattenere mai riparare.

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Io non volevo tutta questa ingiustizia per te! Stavo costruendo il riparo. Io regina, tu erede. Ma quel lurido baro che volle affacciarsi allo spalto risalendo dal buissimo salto nella morte che ora, solo ora ho saputo cosa è – oh musica! strafattissima musica… – per spinta così cortese del mio secondo consorte, fu lui a toglierti con la sua cinica sete di vendetta ogni mia protezione. Fantasma prepotente. Intrigante. Il fantasma diede corpo ai tuoi fantasmi. O figlio non era meglio se non vedevi ? Avrebbe funzionato tutto, ci si arrangiava. Per il bene della Danimarca, e del casato. Invece venne la rovina. E io ne fui, sì, io la povera regina. XIII Una donna fredda. Venivo da nord. Il freddo me lo porto come un male nel sangue. Bisonti dal lungo pelo fermi nella neve. Scheletri di larghi uccelli in volo catturati nelle pietre emerse. Reticoli ghiacciati di rami. Il silenzio compatto del bianco. E il male riconosco dal freddo. Arriva sempre. Da pack anteriori e perenni, da quali nevai che mi entrarono dagli occhi nei miei primi anni, io non so. Ma arriva sempre. E sempre io lo combatto. Con il fuoco dell’unica cosa che mi ha incendiato con le uniche fiamme, braci che mi hanno fatto indubitabilmente bene: loro, i perdutissimi baci e l’arco dei fianchi quando accolgono il re.

Quando mi faccio trono per il mio uomo. Quando mi faccio sala delle armi per la sua battaglia e bosco per la sua caccia, quando lo vedo stremato, acceso in faccia, quando divengo sala del fuoco per il suo grido quando mi faccio scalinata atrio e navata e poi altare e poi sì quando mi faccio dio e sì, lo dico, quando mi faccio flagellazione e poi croce per il suo respiro e sua morte e sua negli occhi che si rischiarano nelle costole che dopo il tumulto rallentano sì, sua resurrezione… Non conosco altro modo per sciogliere il gelido nodo che mi porto nelle vertebre. E che sempre lì ritorna, male vertebrale dai remoti nevai alla medesima mandorla precisa dolce serpe di mia schiena recisa… Come se sapesse sempre dove colpirmi. Dio o chi, che cosa ha la mira esatta come lui. XIV Dovevo portarmi dietro il bicchiere. Sono così lunghe queste sere di mia confessione continua ai vostri occhi inquirenti o come i miei, così poco innocenti… E ora, che giovane più non sono non dovrei difendermi ? Avevo la vita davanti, Amleto amletìn sgambettava andava in bici con le rotelline, era un amore sulla ghiaia del castello. C’erano le petunie. O le vedo solo ora in sogno le petunie, forse mai avute in quel castello…

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Ma com’era tutto bello, il figlio, il mio re e marito, il modo con cui l’ho riverito e lui mi portava la mano. Perché la portava anche lui, che per prima mi ebbe regina, facendosi lui re. Amletìn non sapeva nulla della vita si sbucciava le dita cadendo dalla bici con quegli occhioni restava a contemplare la ferita. L’ha sempre fatto poi, di guardare così attonito il male della vita. Ma povero fiorellino, povero mio assassino, che ne sapeva che doveva venirgli così addosso così diventare da sbucciatura fosso da taglino che si soffia sulle dita quella fauce di tenebra infinita chi gli succhiò lo sguardo, poi la mente, le mani… Oh quel fantasma e i suoi propositi insani la sua vendetta da fratello morto. Io non so, io non c’ero non so chi ha versato il veleno nell’orecchio del mio primo re e marito. Io confesso, e ho sempre mantenuto in tutte le versioni poliziesche e teatrali, in tutte le confessioni rese sotto il faro del brigadiere o nelle sere nebbiose percorrendo le statali o sulle assi sperdute davanti a un raro pubblico di teatro o che cosa è questo darmi in pasto da secoli a lui, al fantasma e a mio figlio e a tutte le cattiverie su di me… Non so chi è stato. Forse fui io la più ingannata È solo che io volli restare regina volli fermar la rovina mentre tutte accettano di diventare supine, schiave o anche solo delicati oh, quanto delicati e onorati

soprammobili. Io sapevo cosa era essere regina. La morte del re portava giù anche me, mi rimetteva in piazza, sarei diventata folle, fin da ragazza avevo saputo cosa è la regalità e le tre uniche facoltà del potere femminile: succhiare o farsi succhiare, piangere e far piangere, gridare e far gridare… Volli un altro potere. Quello che nessuno mi dà. Decidere io chi fosse il re. XV Fui onesta. E depravata. Fantastica. E rovinata. Irreprensibile. E immorale. Sono la fiamma madre. La madre del personaggio centrale. Sono quella madre. Quella donna. La mater. Che voleva evitare la rovina. Mi sentite? Resto regina o regale fantasma nel niente universale. Davvero mi riconoscete?

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