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DISPENSA DI ORDINAMENTO E DEONTOLOGIA FORENSI ANNO ACCADEMICO 2016/2017 A cura dell’Avvocato Erika Trio

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DISPENSA DI

ORDINAMENTO E DEONTOLOGIA FORENSI

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

A cura dell’Avvocato Erika Trio

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INDICE:

1) Cenni storici sulla figura dell’avvocato dal diritto romano ai nostri giorni

2) L’accesso alla professione forense e il tirocinio professionale

2.1) La pratica presso gli uffici giudiziari

3) L’esame di stato

4) Gli albi professionali

5) L’attività professionale forense

6) La formazione continua e le specializzazioni

7) Gli organi dell’avvocatura

8) Il conferimento dell’incarico professionale e il sistema dei parametri forensi

9) La deontologia forense e le sue fonti

9.1) Esame dei principi generali di cui al Titolo I del codice deontologico

9.2) Breve esame del Titolo II (i rapporti con il cliente e la parte assistita)

9.3) Breve esame del Titolo III (i rapporti con i colleghi)

9.4) Breve esame del Titolo IV (i doveri dell’avvocato nel processo)

9.5) Breve esame del Titolo V (i rapporti con i terzi e le controparti)

9.6) Breve esame del Titolo VI (i rapporti con le Istituzioni forensi)

9.7) Le sanzioni disciplinari e il procedimento disciplinare

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1) Cenni storici sulla figura dell’avvocato dal diritto romano ai nostri giorni:

L’analisi storica della figura dell’avvocato assume un rilievo fondamentale, poiché alcune delle

caratteristiche della professione forense e degli organi dell’ordinamento forense, emerse in periodo

romano (in particolare, sotto l’impero), sono state tramandate nel corso del tempo fino ai nostri giorni.

Ecco quindi che molteplici disposizioni della nuova legge professionale forense del 31.12.2012 n. 247

(d’ora in poi LPF) sono l’espressione d’istituti e prassi emerse molti secoli prima, di cui occorre dare

conto.

L’etimologia del termine avvocato deriva dal latino “ad auxilium vocatus” che significa colui che è

chiamato in aiuto. L’avvocato, infatti, era un oratore che era chiamato in aiuto per soccorrere una o

più persone e difenderle, in ragione della propria cultura e della posizione di spicco nella società.

In origine, pertanto, l’avvocato non era un tecnico del diritto, ma semplicemente un difensore.

In tal senso, la figura dell’avvocato doveva essere distinta da un’altra figura affine, quella del c.d.

procuratore, che non era un difensore, bensì un rappresentante della parte in giudizio.

La distinzione tra avvocato e procuratore risale al diritto romano ed è rimasta nell’ordinamento forense

fino al 1997, anno in cui è stato abolito l’albo dei procuratori.

Esiste, peraltro, una traccia della diversità di tale funzione che si riscontra nel codice di procedura civile.

Infatti, gli artt. 82 e 83 c.p.c. prevedono che il procuratore rappresenti la parte con la procura alle liti,

mentre l’art. 87 c.p.c. dispone che l’avvocato abbia la funzione di assistenza.

Nel diritto romano antico, l’avvocato era un nobile che difendeva e assisteva i plebei, ma non svolgeva

un’attività professionale in senso stretto, né riceveva un compenso per l’attività svolta.

Nel corso del tempo, la figura dell’avvocato subì un processo di tecnicizzazione e iniziò ad evolversi fino

a diventare un c.d. giureconsulto, ossia un esperto di diritto e di prassi giudiziaria, che frequentava

abitualmente e professionalmente il foro.

Di conseguenza, in età repubblicana, iniziò a svilupparsi l’usanza, sentita come un dovere morale, di

ringraziare il giureconsulto per l’attività svolta, mediante la corresponsione di un honos, poi chiamato

honorarium, ossia di un omaggio o di un dono in segno di stima e riconoscenza per l’attività svolta a

propria difesa.

Il termine onorario, che nel linguaggio comune è il compenso per chi esercita una un’arte o una

professione liberale, risente della sua origine romanistica, in quanto presuppone sempre l’idea di un atto

di gratitudine nei confronti di chi ha svolto un’attività di pregio intellettuale.

Sotto l’impero, ormai l’avvocato era diventato un esperto di diritto la cui attività venne regolamentata da

regole scritte:

anzitutto, l’avvocato doveva possedere requisiti di moralità, cultura e censo;

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allo scopo di esercitare un controllo sull’attività forense, sotto l’impero, nacque il c.d. consortium

advocatorum, che raccoglieva e registrava gli avvocati di un determinato foro. In sostanza, il

consortium advocatorum era in nuce il consiglio dell’ordine degli avvocati di un foro.

Successivamente, l’iscrizione al consortium, subordinata a requisiti specifici di preparazione

culturale, onorabilità, moralità, censo ed anche residenza, divenne condizione necessaria per

l’esercizio dell’attività professionale.

l’attività forense doveva essere esercitata con stabilità e continuità. A tal proposito, occorre

considerare che l’art. 21 della nuova LPF, innovando rispetto alla precedente legge professionale,

prevede come condizione di permanenza dell’iscrizione all’albo proprio l’esercizio effettivo,

continuativo, abituale e prevalente della professione.

Nel medioevo, in particolare nel c.d. alto medioevo, la figura dell’avvocato, tipica dell’epoca romana,

s’imbarbarì fino a scomparire del tutto. La giustizia era esercitata in nome di Dio dinanzi al popolo:

l’imputato veniva sottoposto a prove fisiche dolorose o ad un duello, il cui superamento avrebbe provato

la sua innocenza (si trattava della c.d. ordalia o duello di Dio).

Nel basso medioevo e, successivamente, nel rinascimento, riemerse la figura dell’avvocato così come

nata nel periodo romano, connotata da un’alta specializzazione e dalla distinzione dall’attività di

procuratore.

Per poter esercitare l’attività forense occorreva frequentare una università nella quale si studiavano i testi

della Compilazione Giustinianea e talvolta anche i Commentari di Bartolo da Sassoferrato.

Nell’età dei Comuni, caratterizzata dalle corporazioni di arti e mestieri, nacquero delle corporazioni per

tutti coloro che erano esperti di diritto; in particolare, sorse una corporazione (più nobile) per gli avvocati

e i giudici ed una, considerata più pratica, per i procuratori e i notai.

Gli statuti comunali prevedevano che l’ammissione a tali corporazioni fosse subordinata al possesso di

determinati requisiti di carattere culturale, sociale e talvolta economico, esattamente come avveniva in

epoca romana per l’iscrizione al consortium advocatorum.

Nel Seicento e nel Settecento la professione dell’avvocato subì un lento processo di decadimento

culturale e morale sino a diventare un’attività esercitata, sostanzialmente, non sulla scorta di requisiti di

professionalità e moralità, bensì di condizioni economiche e sociali.

La classe forense venne fortemente attaccata nel periodo della rivoluzione francese perché espressione

dell’ancien régime e Napoleone stesso non nascose mai la sua bassa considerazione per l’avvocatura,

tant’è vero che con un apposito decreto nel 1801 sottopose l’ordine degli avvocati al controllo del

Ministero della Giustizia e del Procuratore generale. Nel breve periodo del governo napoleonico anche

l’avvocatura italiana fu soggetta a tale regime.

Dopo l’unità d’Italia, la prima legge organica sulla professione forense fu la legge n. 1938 del 1874 che,

tra l’altro, riaffermò alcuni caratteri dell’avvocatura, già presenti in epoca romana.

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A tal proposito, detta legge prevedeva:

la distinzione tra avvocati e procuratori;

la necessità dell’iscrizione ad un albo degli avvocati di un determinato luogo come condizione

necessaria per l’esercizio dell’attività forense;

la necessità di una preparazione culturale ad hoc mediante il conseguimento della laurea in

giurisprudenza e il superamento di un esame teorico-pratico per poter esercitare l’attività forense;

la necessità di requisiti di onorabilità e moralità e non più di censo.

Il compenso, chiamato onorario, secondo la tradizione romanistica, veniva inteso più che come

retribuzione in senso stretto come atto di riconoscenza per l’attività svolta dall’avvocato (successivamente

fu istituito un tariffario civile per l’attività forense).

Presso ogni tribunale vennero istituiti un collegio di avvocati, costituito da tutti coloro che erano iscritti

all’albo e un consiglio dell’ordine, eletto da tutti i componenti del collegio in adunanza generale.

Nel frattempo, furono create delle linee guida per una deontologia forense, cioè per il rispetto di una serie

di regole di comportamento che l’avvocato era tenuto ad osservare (ad esempio: il dovere di segretezza

professionale, il dovere di colleganza, di curare gli interessi del cliente, di opporsi alle liti temerarie etc).

La successiva modifica si colloca nel 1933-1934, allorché venne pubblicato il R.d.l. 27.11.1933 n. 1578,

convertito nella legge professionale forense 22.01.1934 n. 36 e il relativo decreto attuativo (R.d.

22.01.1934 n. 37) che, nonostante i molteplici tentativi di riforma, sono rimasti in vigore fino al 2

febbraio 2013, data in cui è entrata in vigore la nuova LPF 31.12.2012 n. 247.

Attualmente, pertanto, nell’ambito dell’ordinamento forense, che è il complesso delle norme che

regolano la professione dell’avvocato, occupa una posizione fondamentale la legge professionale forense

n. 247/2012 in vigore dal 2 febbraio 2013.

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2) L’accesso alla professione forense e il tirocinio professionale:

Fonte attuale: Titolo IV (Accesso alla professione forense), Capo I (tirocinio professionale) artt. dal

40 al 45 LPF, D.M. 17 marzo 2016 n. 70 (Regolamento per la pratica forense)

L’ordinamento forense prevede, per l’esercizio della professione forense, la necessità di un’adeguata

preparazione tecnica, derivante dall’espletamento di un tirocinio professionale e dal superamento di un

esame ad hoc.

Tradizionalmente, il tirocinio professionale (o pratica forense) si svolge dopo la laurea in giurisprudenza

(anche se di recente è stata prevista la possibilità di anticipare 6 mesi di pratica prima della laurea),

attraverso la frequentazione di uno studio legale, certificata mediante l’iscrizione del tirocinante nel c.d.

registro speciale dei praticanti, tenuto presso il Consiglio dell’ordine degli avvocati di appartenenza.

Negli ultimi anni, però, la disciplina del tirocinio forense è stata oggetto di una serie d’interventi

legislativi che ha creato non pochi problemi applicativi e di coordinamento.

Anzitutto, nell’agosto del 2011, il legislatore con il D.L. 13.8.2011 n. 138 (c.d. manovra economica di

ferragosto) ha introdotto una riforma completa delle professioni regolamentate, riducendo la durata di

tutti i tirocini professionali a 3 anni e, poi, a 18 mesi.

Successivamente, l’art. 9 comma 5 del D.L. n. 24.01.2012 n. 1 (c.d. decreto legge Cresci-Italia), ha

previsto la possibilità di effettuare i primi sei mesi dei tirocini professionali in concomitanza del corso

di studio universitario per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o

specialistica.

Tale innovazione è stata subordinata alla stipulazione di convenzioni-quadro tra i Consigli nazionali

degli ordini e il Ministro dell’istruzione, università e ricerca.

Analoghe convezioni possono essere stipulate tra i Consigli nazionali degli ordini e il Ministro per la

pubblica amministrazione e l’innovazione tecnologica per lo svolgimento del tirocinio presso pubbliche

amministrazioni, all’esito del corso di laurea.

Per dare attuazione ai principi della riforma delle professioni introdotta nel biennio 2011-2012, è stato

adottato il d.p.r. 7.08.2012 n. 137 (Regolamento recante la disciplina degli ordini professionali) che

agli artt. 6 e 10 (quest’ultimo dedicato specificamente alla pratica forense) disciplina espressamente la

pratica professionale.

Queste ultime disposizioni sono state in gran parte recepite e superate dalla LPF il cui Capo I del Titolo

IV artt. 40-45 è dedicato proprio al tirocinio della professione forense.

In sintesi, le novità introdotte dalla LPF del 2012, rispetto alla previgente legge professionale, sono:

la riduzione della pratica forense (oggi denominata tirocinio professionale) presso uno studio

professionale o organo equiparato da 2 anni a d un anno e mezzo, ex art. 41 comma 5 della LPF;

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la facoltà di anticipare 6 mesi di tirocinio professionale, prima della laurea, per gli studenti iscritti

all’ultimo anno della facoltà di giurisprudenza, secondo apposite convenzioni che verranno

stipulate tra i consigli dell’ordine degli avvocati e le università, ex artt. 40 e 41.6 lett. d) LPF;

l’introduzione del limite di 3 praticanti per ogni avvocato (salvo apposita autorizzazione del

consiglio dell’ordine); si tratta di una disposizione volta al fine di evitare tirocini di comodo, e

quindi di assicurare l’effettività e la serietà della pratica forense;

la facoltà di effettuare, per non più di 6 mesi, il tirocinio in un altro Paese dell’UE presso

professionisti legali con titolo equivalente a quello di avvocato abilitato all’esercizio della

professione, ex art. 41.6 lett. c) LPF.

la facoltà di effettuare il tirocinio oltre che presso un avvocato con anzianità d’iscrizione all’albo

non inferiore a 5 anni o presso l’Avvocatura di Stato o l’ufficio legale di un ente pubblico (ipotesi

già previste dalla previgente disciplina) anche presso un ufficio giudiziario per non più di 12

mesi (in quanto sei mesi di tirocinio devono essere svolti obbligatoriamente presso un avvocato

iscritto all’ordine o presso l’Avvocatura di Stato ex art. 41 comma 7 LPF).

***

L’art. 41.1 LPF è la norma fondamentale che descrive, in via generale, gli obiettivi del tirocinio

professionale, che consiste nell’addestramento, a contenuto teorico-pratico del tirocinante, finalizzato a

far conseguire allo stesso le capacità necessarie per l’esercizio della professione, per la gestione di uno

studio legale e per l’acquisizione dei principi e delle regole deontologiche.

Tradizionalmente, le principali attività svolte dal tirocinante, durante la pratica in uno studio legale sono:

a) l’assistenza alle udienze;

b) la redazione di atti difensivi e pareri legali;

c) il compimento di attività stragiudiziale consistente, in sostanza, nella consulenza legale o nella

redazione di contratti;

d) la risoluzione di questioni di particolare interesse giuridico attraverso lo studio della

giurisprudenza (di legittimità e di merito) e della dottrina.

Lo svolgimento di tali attività è documentato nel c.d. libretto della pratica forense (di cui ogni

praticante è dotato quando inizia la pratica legale) introdotto dal d.p.r. 10.4.1990 n. 101 (regolamento per

la pratica forense) ormai sostituito dal nuovo “Regolamento recante la disciplina per lo svolgimento

per l’accesso alla professione forense ai sensi dell’articolo 41 comma 13 della legge 31 dicembre 2012,

n. 247”, adottato con decreto ministeriale 17 marzo 2016 n. 70.

Ciascun praticante deve annotare sul proprio libretto le udienze alle quali ha assistito (almeno 20 udienze

per semestre, escluse quelle di mero rinvio), gli atti giudiziali o stragiudiziali più rilevanti alla cui

redazione ha partecipato e le questioni giuridiche di maggiore interesse alla cui trattazione ha

collaborato.

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Il libretto della pratica deve essere esibito periodicamente al Consiglio dell’ordine, con l’attestazione da

parte del dominus della veridicità delle indicazioni in esso contenute.

Ogni Consiglio dell’ordine esercita, secondo modalità rimesse alla propria discrezionalità, un controllo

sull’effettività della pratica e sulla veridicità delle indicazioni in esso contenute, con conseguente

esposizione a responsabilità disciplinare dell’avvocato e del praticante che dichiarino il falso.

La LPF consente di svolgere il tirocinio formativo contestualmente ad un’attività di lavoro subordinato

pubblico e privato, purché con modalità e orari che consentano l’effettivo svolgimento della pratica e in

assenza di conflitti di interesse (si rinvia alle incompatibilità di cui all’art. 18 della LPF).

E’ rimesso al Consiglio dell’Ordine di appartenenza la verifica della compatibilità tra l’attività lavorativa

e la pratica, con possibilità di diniego di iscrizione o di cancellazione dal registro dei praticanti.

Il tirocinio prevede la formazione del praticante a cura del dominus (il proprio avvocato di riferimento) e

attraverso la frequenza di corsi di formazione professionale tenuti dagli ordini e dalle associazioni

forensi, ex art. 43 LPF. E’ prevista una durata minima dei corsi di formazione di 160 ore per l’intero

periodo (18 mesi) con delle verifiche intermedie e finali, affidate ad una commissione di avvocati,

magistrati e docenti universitari. Si attende il regolamento attuativo del Ministero della Giustizia, sentito

il CNF, che disciplini le modalità e le condizioni per l’istituzione di tali corsi di formazione.

Questione tuttora molto dibattuta è quella relativa al compenso del praticante.

Con la manovra finanziaria di ferragosto 2012, si è cercato d’introdurre la corresponsione di un equo

compenso di natura indennitaria ai praticanti, ma la LPF non ha recepito tale disposizione.

L’art. 41 LPF prevede infatti solo la possibilità che il dominus possa riconoscere al proprio tirocinante,

con apposito contratto, dopo 6 mesi di pratica, una indennità o un compenso per l’attività svolta nello

studio in proporzione all’effettivo apporto professionale dato. In sostanza, pertanto, la norma rinvia ad

una fase negoziale e alla relazione fiduciaria, in concreto instauratasi tra le parti, la regolamentazione del

compenso al tirocinante.

Occorre ricordare che è comunque sempre dovuto al praticante il rimborso delle spese sostenute per conto

dello studio presso il quale svolge il tirocinio.

Il comma 12 dell’articolo 41 della LPF prevede che, decorsi 6 mesi (prima della novella erano 12 mesi)

di pratica, certificata dall’iscrizione nel registro dei praticanti, effettuata dopo la laurea magistrale, il

praticante possa conseguire l’abilitazione al patrocinio sostitutivo dell’avvocato, mediante richiesta al

consiglio dell’ordine, cui conseguirà dopo opportune verifiche, l’autorizzazione del medesimo e un

giuramento solenne del praticante dinanzi a quest’ultimo.

La novella del 2012 ha mutato il regime dell’abilitazione al patrocinio in quanto, dalla lettera dell’art. 41

LPF, risulta che il praticante non possa gestire cause in proprio, né essere inserito nel mandato

professionale, potendo assumere le vesti di mero sostituto di udienza del proprio dominus (modifica

questa oggetto di ampie critiche da parte della giovane avvocatura).

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Attraverso il patrocinio sostitutivo, il tirocinante acquista una limitata capacità professionale e sostitutiva

del proprio dominus dell’attività procuratoria in udienza.

A tal proposito, sussistono delle differenze tra l’ambito civile e l’ambito penale per quel che concerne i

limiti delle materie oggetto del praticantato sostitutivo. Precisamente, in ambito penale, il praticante

abilitato può esercitare attività sostitutiva per il dominus nei procedimenti davanti al Giudice di Pace, in

quelli per reati contravvenzionali ed in quelli che rientravano nella competenza del pretore, ossia, in linea

generale, i reati puniti nel massimo edittale fino a 4 anni e quelli di cui all'art. 550 c.p.p. (casi di citazione

diretta a giudizio)

Pertanto, sotto tale profilo, non vi sono novità rispetto alla normativa previgente.

In ambito civile, invece, la legge n. 247/2012 si limita a far riferimento ai procedimenti pendenti di fronte

al Giudice di Pace ed al Tribunale in composizione monocratica.

Ciò conduce a ritenere (ed è questa una delle maggiori novità) che non vi sia più il limite di valore delle

controversie in ambito civile, con la conseguenza che il praticante abilitato potrà svolgere la sua attività

sostitutiva in tutte le cause dinanzi ai suddetti organi, anche in cause di valore indeterminabile. Restano

escluse, invece, le cause dinanzi alle Corti di Appello e alla Corte di Cassazione.

Invece, la previgente normativa sul patrocinio (Legge 16/12/1999 n. 47, così come modificato dal D.L. n.

82 del 07/04/2000, pubblicato sulla G.U. n. 83 dell'8.04.2000, all'art. 7.1) prevedeva che "I praticanti

avvocati, dopo il conseguimento dell'abilitazione al patrocinio, possono esercitare l'attività professionale

ai sensi dell'art. 8 del regio decreto-legge 22 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni,

dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 e successive modificazioni, nelle cause di competenza del giudice di

pace e dinanzi al tribunale in composizione monocratica, limitatamente:

a. negli affari civili:

alle cause, anche se relative a beni immobili, di valore non superiore a lire cinquanta

milioni;

1. alle cause per le azioni possessorie, salvo il disposto dell'art. 704 del codice di procedura

civile, e per le denunce di nuova opera e di danno temuto, salvo il disposto dell'art. 688,

secondo comma, del codice di procedura civile (ossia domanda possessoria proposta in un

giudizio petitorio e domanda di denuncia di nuova opera o di danno temuto proposte

quando la causa è già pendente nel merito);

2. alle cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e a quelle di

affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie;

b. negli affari penali, alle cause per i reati previsti dall'articolo 550 del codice di procedura penale

"(casi di citazione diretta a giudizio).

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L’abilitazione al patrocinio sostitutivo ha una durata massima di 5 anni (mentre prima della riforma la

durata era di 6 anni) entro i quali il praticante deve conseguire il titolo di avvocato, superando l’esame di

Stato. Il praticante abilitato è iscritto in un apposito elenco contenuto nell’albo degli avvocati.

In attuazione del comma 13 dell’articolo 41 della LPF, il Ministro della giustizia, ha adottato la normativa

di dettaglio sulla pratica forense, con il D.M. 17 marzo 2016 n. 70, recante il Regolamento per la

disciplina per lo svolgimento del tirocinio per l’accesso alla professione forense, entrato in vigore il 3

giugno 2016.

Tale regolamento (che si compone di soli 9 articoli) disciplina i tirocini professionali che hanno preso

avvio dal 3 giugno 2016, mentre per i tirocini già in essere a tale data, continuerà ad applicarsi la

disciplina previgente, ferma restando la riduzione della durata della pratica a 18 mesi e della facoltà del

praticante di avvalersi delle modalità alternative di svolgimento del tirocinio (ossia presso gli uffici

giudiziari, presso l’Avvocatura dello Stato, presso l’ufficio legale di un ente pubblico, in altro Paese

dell’UE).

Di conseguenza, ad esempio, secondo il Regolamento della pratica forense approvato dal Consiglio

dell’Ordine di Bergamo con delibera del 20.12.2016, il praticante iscritto al Registro Speciale prima della

data del 3 giugno 2016, potrà ottenere l’abilitazione al patrocinio decorso un anno dall’inizio della

pratica, secondo la previgente disciplina, mentre il praticante iscritto dopo tale data potrà chiedere di

essere abilitato al patrocinio sostitutivo del proprio dominus secondo il nuovo regolamento del 2016.

Terminato il tirocinio forense, il Consiglio dell’Ordine rilascia un certificato di compiuta pratica,

necessario per poter poi accedere all’esame di abilitazione.

Il luogo di svolgimento della pratica forense rileva ai fini della determinazione della sede di Corte

d’appello in cui dovrà sostenere l’esame di avvocato.

Infatti, ai sensi dell’art. 45 comma 3 LPF il praticante è ammesso a svolgere l’esame di Stato nella sede di

Corte d’appello nel cui distretto ha svolto il maggior periodo di tirocinio. Se ha svolto il tirocinio, per

eguali periodi, in diversi distretti, allora la sede d’esame corrisponderà al luogo di svolgimento del primo

periodo di tirocinio ex art. 45 u.c. LPF.

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2.1) La pratica presso gli uffici giudiziari:

Fonti: art. 41 comma 6 lettera b) LPF, art. 44 LPF, D.M. 17 marzo 2016 n. 58 “Regolamento

recante la disciplina dell’attività di praticantato del praticante avvocato presso gli uffici giudiziari”,

art. 73 del D.L. n. 69/2013 (c.d. Decreto del fare)

La disciplina della pratica presso gli uffici giudiziari è stata oggetto di una serie di interventi legislativi

non sempre coordinati tra loro.

Anzitutto, il legislatore con l’art. 37 commi 4 e 5 del decreto legge 6.7.2011 n. 98 convertito in legge

15.7.2011 n. 111 ha introdotto la possibilità per i capi degli uffici giudiziari di stipulare apposite

convenzioni con le università, con le scuole di specializzazione delle professioni legali e con gli ordini

degli avvocati, al fine di consentire agli studenti più meritevoli di svolgere presso gli uffici giudiziari il

primo anno di corso di dottorato di ricerca (che ha durata triennale), della scuola di specializzazione delle

professioni legali (che ha durata biennale) o della pratica forense per l’ammissione all’esame di

avvocato.

Già dal 2011, pertanto, è stata introdotta la possibilità di effettuare un anno di pratica forense presso gli

uffici giudiziari, subordinandone però l’applicazione alla stipulazione di accordi (convenzioni) tra i

tribunali e gli ordini forensi.

Successivamente, l’articolo 41 comma 6 lettera b) della LPF ha previsto espressamente la facoltà per il

praticante di effettuare la pratica oltre che presso l’Avvocatura dello Stato o presso l’ufficio legale di un

ente pubblico, anche presso un ufficio giudiziario, con il limite temporale di 12 mesi.

Il successivo articolo 44 della LPF ha demandato ad un regolamento del Ministero della Giustizia, da

adottarsi entro un anno dalla entrata in vigore della legge professionale forense, la regolamentazione del

praticantato presso gli uffici giudiziari.

Occorre fare presente, però, che tale regolamento è stato adottato solo nel marzo del 2016 (D.M. 17

marzo 2016 n. 58) sicché, medio tempore, il legislatore nel 2013 con il decreto del fare (decreto legge

21.06.2013 n. 69) è intervenuto con un’altra disciplina sul tema in questione, rivolta ai candidati

particolarmente meritevoli di cui occorre dare atto per completezza espositiva.

Detta normativa è stata nuovamente modificata nel 2014 dagli artt. 50 e 50 bis del D.L. 24.06.2014 n. 90

che ha introdotto, tra l’altro, l’ufficio per il processo, composto dal personale di cancelleria e da coloro

che svolgono presso gli uffici giudiziari tirocini formativi e professionali.

L’art. 73 del D.L. n. 69/2013 ha previsto un tirocinio formativo per giovani laureati in possesso di

determinati requisiti soggettivi quali: la laurea in giurisprudenza almeno quadriennale, l’età che deve

essere inferiore ad anni 30 (disposizione elevata dalla legge di conversione rispetto all’età di 28 anni che

era prevista originariamente dal decreto), non avere riportato condanne penali per delitti non colposi o a

pena detentiva per contravvenzioni e non essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza;

avere riportato una media di almeno 27/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto

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processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e

diritto amministrativo, ovvero avere un punteggio di laurea non inferiore a 105/110 (requisito modificato

in sede di conversione del decreto che in origine stabiliva che il voto di laurea, non inferiore a 102/110,

non dovesse essere alternativo bensì cumulativo con il requisito della media di 27/30 degli esami di cui

sopra ).

Quando non è possibile avviare al periodo di formazione tutti gli aspiranti muniti dei requisiti, si

riconosce preferenza, nell’ordine: alla media degli esami indicati sopra, al voto di laurea, alla minore età

anagrafica e, infine, ai corsi di perfezionamento in materie giuridiche successivi alla laurea.

Lo stage formativo, completamente gratuito e della durata di 18 mesi (non ripetibili) può svolgersi

presso le Corti d’appello, che fin d’ora sono sempre state estranee a qualsiasi attività formativa post

lauream, i tribunali ordinari, gli uffici e i tribunali di sorveglianza, i tribunali per i minorenni, il Consiglio

di Stato, sia nelle sezioni giurisdizionali che in quelle consultive, i Tribunali amministrativi regionali.

L’unico settore parzialmente escluso dai tirocini formativi è quello penale, in quanto gli stages possono

svolgersi esclusivamente presso il giudice del dibattimento, mentre sono esclusi gli uffici GIP e GUP, per

garantire maggiori esigenze di privacy e segretezza.

Peraltro, la novella prevede espressamente in capo agli stagisti obblighi di riservatezza e riserbo sui dati,

le informazioni e le notizie acquisite nel corso degli stages.

La domanda: trascorsi 30 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto n. 69/2013,

gli aspiranti tirocinanti devono proporre la relativa domanda al capo dell’ufficio giudiziario presso il

quale desiderano svolgere lo stage, allegando la documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti

soggettivi e indicando eventualmente una preferenza per il settore (penale, civile, minorile o di

sorveglianza) dove preferirebbero svolgere il periodo formativo.

E’ stata invece eliminata in sede di conversione la possibilità degli aspiranti di indicare nominativamente

la preferenza per uno o più magistrati dell’ufficio, incaricati della trattazione di specifiche materie.

Gli ammessi al tirocinio sono affidati ad un magistrato che abbia dato la propria disponibilità a svolgere

tale attività o eventualmente ad un altro magistrato incaricato dall’ufficio, qualora il primo sia trasferito

ad altro ufficio o ad altro incarico presso il medesimo ufficio.

L’attività di magistrato formatore non dà diritto ad alcun compenso aggiuntivo, ma è rilevante ai fini della

valutazione di professionalità e ai fini del conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi di merito.

Il tirocinio in concreto: i tirocinanti affiancano il magistrato nel compimento delle attività ordinarie,

hanno accesso ai fascicoli processuali, partecipano alle udienze del processo, anche non pubbliche e

dinanzi al collegio, nonché alle camere di consiglio, salvo che il giudice ritenga di non ammetterli; non

possono avere accesso ai fascicoli relativi ai procedimenti rispetto ai quali versano in conflitto di interessi

per conto proprio o di terzi, ivi compresi i fascicoli relativi ai procedimenti trattati dall’avvocato presso il

quale svolgono il tirocinio.

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Il tirocinio, infatti, può essere svolto contestualmente ad altre attività, compreso il dottorato di ricerca, la

pratica per l’accesso alla professione di avvocato o di notaio e la frequenza dei corsi delle scuole di

specializzazione per le professioni legali, purché con modalità compatibili con il conseguimento di

un’adeguata formazione. Il contestuale svolgimento del tirocinio per l’accesso alla professione forense

non impedisce all’avvocato presso il quale il tirocinio si svolge di esercitare l’attività professionale

innanzi al magistrato formatore.

E’ però previsto che i tirocinanti non possano esercitare attività professionale innanzi all’ufficio ove lo

stesso si svolge, né possono rappresentare o difendere, anche nelle fasi o nei gradi successivi della causa,

le parti dei procedimenti che si sono svolti dinanzi al magistrato formatore o assumere da costoro

qualsiasi incarico professionale.

Una delle disposizioni più problematiche è quella prevista dal comma 13 dell’art. 73, laddove dispone

che il tirocinio di 18 mesi presso gli uffici giudiziari valga un anno di pratica professionale per

l’accesso alle professioni di avvocato e notaio.

Si tratta di una previsione certamente disincentivante per i giovani perché 6 mesi di tirocinio presso gli

uffici non varranno ai fini della pratica professionale. Pertanto, gli aspiranti avvocati dovranno comunque

svolgere ulteriori 6 mesi di pratica presso un ufficio legale per potere accedere all’esame di abilitazione.

L’esito positivo del tirocinio costituisce titolo di preferenza a parità di merito, a norma dell’articolo 5 del

d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, nei concorsi indetti dall’amministrazione della giustizia,

dall’amministrazione della giustizia amministrativa e dall’Avvocatura dello Stato, per la nomina a giudice

onorario di tribunale e a vice procuratore onorario e per i concorsi indetti da altre amministrazioni dello

Stato.

L’art. 50 del D.L. 24.06.2014 n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza

amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari) ha previsto, tra l’altro, che il superamento del

tirocinio costituisca titolo per l’accesso al concorso di magistratura ordinaria, come il conseguimento del

diploma delle scuole di specializzazione, il titolo di avvocato e di dottore di ricerca.

Infine, la novella ha fatta salva espressamente la permanente validità delle convenzioni stipulate in

precedenza ai sensi dell’art. 37 del decreto legge n. 98/2011 tra gli uffici giudiziari, da una parte, e le

università, gli ordini degli avvocati e le scuole di specializzazione, dall’altro, anche se sussistono

molteplici dubbi interpretativi.

***

Come sopra accennato, l’attività di praticantato presso gli uffici giudiziari è stata disciplinata da un

apposito regolamento che il Ministero della Giustizia avrebbe dovuto emanare entro un anno dall’entrata

in vigore della LPF e che invece è stato adottato solamente nel marzo 2016.

In assenza di tale regolamento, medio tempore, i capi di alcuni uffici giudiziari hanno stipulato apposite

Convenzioni con gli ordini degli avvocati territorialmente competenti, proprio al fine di consentire ai

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laureati che ne abbiano fatto richiesta, lo svolgimento della pratica forense presso gli uffici giudiziari,

secondo quanto già previsto dall’art. 37 commi 4 e 5 del decreto legge 6.7.2011 n. 98, convertito in legge

15.7.2011 n. 111.

Finalmente, in data 2 maggio 2016, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.M. 17 marzo 2016 n. 58

“Regolamento recante la disciplina dell’attività di praticantato del praticante avvocato presso gli

uffici giudiziari”.

Trattasi di un regolamento ministeriale dal contenuto poco innovativo e piuttosto snello, che condensa in

8 articoli la disciplina della pratica presso gli uffici giudiziari, prevedendo:

quanto ai requisiti per lo svolgimento del tirocinio: l’iscrizione nel registro dei praticanti avvocati,

il previo svolgimento dei 6 mesi di pratica professionale presso un avvocato, secondo il disposto

di cui all’art. 41 comma 7 della LPF, il possesso di requisiti di onorabilità (qualora non sia

possibile ammettere al tirocinio presso l’ufficio giudiziario tutti i praticanti avvocati che hanno

proposto domanda, si riconosce preferenza, nell’ordine, alla media degli esami di diritto

costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto

processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo; al punteggio di laurea e alla minore

età anagrafica; nonché ai corsi di perfezionamento in materie giuridiche successivi alla laurea);

una durata massima del praticantato di 12 mesi;

un massimo di 2 praticanti per magistrato;

quanto agli uffici giudiziari, l’attività di praticantato può essere svolta presso la Corte di

Cassazione (e la Procura Generale presso la stessa), le Procure Generali presso le Corti di Appello,

i Tribunali ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, i Tribunali per i Minorenni, la Corte dei Conti e la

Procura presso la medesima, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei Conti, le Procure

presso la Corte dei Conti, le Commissioni tributarie, il Consiglio di Stato e i Tribunali

amministrativi regionali;

quanto all’attività di praticantato: il praticante assiste e coadiuva il magistrato affidatario sotto la

sua guida e controllo; provvede allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale

dottrinale, alla predisposizione delle minute dei provvedimenti; assiste alle udienze e alle camere

di consiglio, salvo che il magistrato ritenga di non ammetterlo.

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3) L’esame di stato:

Fonte attuale: Titolo IV, Capo II LPF, artt. da 46 a 49.

La disciplina dell’esame di Stato è stata parzialmente modificata dalla nuova LPF.

Parte dell’avvocatura ritiene insoddisfacente la novella legislativa, ritenendo necessario, visto il numero

smisurato degli avvocati in Italia, introdurre criteri di selezione per l’accesso alla facoltà di

giurisprudenza e nel corso della pratica forense, piuttosto che al termine del percorso formativo.

La disciplina delle modalità di organizzazione ed esecuzione dell’esame è la seguente:

anzitutto, viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica un bando di esame del

Ministero della Giustizia, almeno 90 giorni prima della data dell’esame che, normalmente si tiene

a metà dicembre. Il bando contiene l’indicazione delle modalità e dei giorni di svolgimento

dell’esame e del termine per presentare le relative domande di ammissione;

le domande di ammissione all’esame dei candidati vanno presentate presso la segreteria della

Corte d’appello nel cui distretto si è svolta la pratica forense;

il Ministero della Giustizia provvede dopo la pubblicazione del bando a nominare, con decreto, la

Commissione centrale di esame che ha sede presso il Ministero ed una o più sottocommissioni per

ogni sede di Corte d’appello;

le commissioni sono costituite da 5 membri effettivi e 5 supplenti dei quali 3 effettivi (e 3

supplenti) sono avvocati designati tra gli iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle

giurisdizioni superiori, uno effettivo (ed uno supplente) tra i magistrati in pensione, un effettivo

(ed un supplente) sono professori universitari o ricercatori confermati in materie giuridiche.

Cosa è cambiato con la novella del 2012-2013?

Prima i magistrati membri dovevano essere in servizio (e non in pensione) e dovevano avere la

qualifica non inferiore a magistrato di Corte d’appello.

Occorre segnalare, però, che detta novità avrebbe dovuto entrare in vigore dal 2017, in quanto

l’art. 48 della LPF, così come modificato dal decreto Mille proroghe 2014, aveva previsto che per

i primi 4 anni dall’entrata in vigore della legge, la disciplina dell’esame di abilitazione sarebbe

stata regolata secondo le norme previgenti.

Il legislatore, però, con il c.d. Decreto Mille proroghe del 2016 (decreto legge 20 dicembre 2016

n. 244 convertito in legge 27 febbraio 2017 n. 19), modificando l’articolo 49 della LPF, ha

ulteriormente rinviato l’entrata in vigore della riforma dell’esame di abilitazione al 2018.

Lo svolgimento dell’esame, ex art. 46 LPF:

Si articola in 3 prove scritte ed una prova orale, senza alcuna sostanziale novità.

Le prove scritte, che sono preparate dal Ministero di Giustizia, hanno per oggetto:

a) la redazione di un parere motivato di diritto civile a scelta tra 2 questioni;

b) la redazione di un parere motivato di diritto penale a scelta tra 2 questioni;

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c) la redazione di un atto difensivo in una materia a scelta del candidato tra il diritto privato,

il diritto penale e il diritto amministrativo.

I temi sono uguali per tutta Italia e vengono trasmessi in busta sigillata dal Ministero della

Giustizia al presidente di ciascuna commissione esaminatrice.

La LPF ha modificato parzialmente le modalità di svolgimento dell’esame scritto, in quanto fino

all’anno 2017 sarà consentito, come fin d’ora, l’uso di codici commentati con annotazioni

giurisprudenziali.

Dall’anno 2018 (la LPF aveva previsto che tali novità sarebbero divenute efficaci dal 2015, ma il

c.d. “decreto Mille proroghe 2014” ha posticipato tale efficacia al 2017 e, successivamente, il

“decreto Mille proroghe 2016” ha ulteriormente posticipato tale efficacia al 2018), invece, i

candidati potranno utilizzare esclusivamente codici senza commenti e citazioni

giurisprudenziali. Tale novità risponde alla ratio di evitare il livellamento e l’omogeneizzazione

degli elaborati scritti, derivante dalla riproduzione nelle prove delle medesime massime

giurisprudenziali contenute nei codici commentati.

Supererà l’esame scritto, secondo la nuova disciplina della LPF, il candidato che avrà riportato

nelle 3 prove un punteggio di almeno 90 punti e un punteggio non inferiore a 30 punti in ciascuna

prova. La disciplina in vigore fino al 2017 appare meno severa, in quanto per superare l’esame

scritto occorre che il candidato riporti almeno 90 punti complessivi ed un punteggio non inferiore

a 30 punti per almeno 2 prove su 3.

Gli scritti sono corretti dalle sottocommissioni istituite presso una delle sedi di Corte d’appello

che vengono deputate alla correzione, mediante un sorteggio effettuato dal Ministero della

Giustizia.

L’art. 46 comma 5 LPF prevede che la commissione annoti le osservazioni positive e negative

nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso

con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti. La novità è di rilevo, in

quanto rende l’operato della commissione esaminatrice maggiormente coerente con i principi di

trasparenza e pubblicità, nonché con il generale obbligo di motivazione del provvedimento

amministrativo.

Peraltro, l’art. art. 46 commi 8,9 e 10 LPF ha introdotto norme molto severe a garanzia della regolarità

dell’esame scritto:

i candidati non possono portare con sé testi o scritti, anche informatici, né ogni sorta di

strumenti di telecomunicazione, pena l’immediata espulsione dall’esame;

qualora siano fatti pervenire, nell’aula ove si svolgono le prove, scritti o appunti di

qualunque genere, con qualsiasi mezzo, il candidato che li riceve e non ne fa immediata

denuncia alla commissione è escluso immediatamente dall’esame;

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chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati prima o durante la

prove d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto non costituisca un

più grave reato, con la reclusione da 1 a 3 anni;

il candidato che sia colpevole di tali fatti è denunciato al consiglio distrettuale di disciplina

del distretto competente per il luogo d’iscrizione al registro dei praticanti per i

provvedimenti disciplinari di sua competenza.

La ratio della novella è quella di colpire le frequentissime irregolarità che caratterizzano lo svolgimento

degli esami scritti con disposizioni che prevedono un trattamento punitivo differenziato a seconda della

gravità della condotta. Infatti, il candidato che sia trovato con scritti di varia natura (bigliettini, libri etc) o

con cellulari è escluso dalla prova e potrà essere sanzionato disciplinarmente dall’ordine di appartenenza.

Invece, il soggetto terzo che procuri illecitamente al candidato scritti relativi alla prova d’esame (ad

esempio la soluzione del quesito con l’eventuale giurisprudenza allegata) è punito con la pena della

reclusione. Nulla è previsto invece per la condotta d’imitazione per copia degli elaborati altrui. Nel

silenzio della legge, qualche commentatore ha ritenuto che tale condotta determini solo una censura di

merito. Al contrario, non è escluso che la commissione d’esame decida di segnalare il fatto all’autorità

giudiziaria affinché adotti i provvedimenti più opportuni.

La prova orale:

La prova orale, invece, si svolge nella sede di Corte d’appello dove si è svolta la prova scritta e che

corrisponde alla sede della Corte d’appello nel cui distretto si è svolta la pratica forense.

Con questa modalità, pertanto, si assicura la massima imparzialità nei giudizi, atteso che i componenti

delle commissioni che correggono gli scritti e i componenti delle commissioni che interrogano agli orali

provengono da regioni diverse.

La prova orale fino al 2017 verterà su 6 materie di cui quelle obbligatorie sono: ordinamento e

deontologia forensi e una materia di diritto processuale penale o civile.

Le restanti 4 materie sono scelte dal candidato tra 12 materie, che sono: diritto civile, diritto

costituzionale, diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto penale, diritto amministrativo, diritto

tributario, diritto ecclesiastico, diritto comunitario, diritto internazionale privato, procedura civile e

procedura penale.

Dal 2018 invece saranno obbligatorie (oltre ad ordinamento e deontologia forensi) anche le seguenti

materie: diritto civile, diritto penale, procedura civile e procedura penale.

Le altre 2 materie saranno scelte dal candidato tra: diritto costituzionale, diritto amministrativo, diritto del

lavoro, diritto commerciale, diritto comunitario ed internazionale privato, diritto tributario, diritto

ecclesiastico, ordinamento giudiziario e penitenziario.

Si tratta di una modifica volta evidentemente ad innalzare il livello medio di conoscenze giuridico-

tecniche della categoria.

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Per effetto della novella legislativa, a partire dal 2018, supererà la prova orale, il candidato che otterrà

almeno 30 punti per ciascuna materia.

In attuazione dell’art. 46 della LPF, di recente, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7.4.2016 il

decreto del Ministero della Giustizia n. 48 del 25 febbraio 2016, recante il Regolamento per lo

svolgimento dell’esame di Stato relativo all’esercizio della professione forense.

Tale decreto ha introdotto importanti novità per i futuri candidati:

1. quanto all’accesso, potranno partecipare all’esame i praticanti che avranno compiuto la fase di

tirocinio entro il giorno 10 del mese di novembre, anche se non ancora in possesso del certificato

di compiuta pratica, che dovrà essere presentato comunque non oltre i 20 giorni precedenti l’inizio

delle prove scritte;

2. i temi d’esame (protetti da un meccanismo di crittografia a chiavi asimmetriche) saranno

inviati via Pec dal Ministero della Giustizia al presidente della commissione distrettuale in

un arco temporale compreso tra le 2 ore e i sessanta minuti precedenti l’ora fissata per l’inizio di

ciascuna prova scritta. Peraltro, il file contenente la chiave di decrittazione sarà inserito dal

Ministero in un’area riservata del proprio sito internet, nel lasso temporale compreso tra i 60

minuti e i trenta minuti precedenti l’ora fissata per l’inizio di ciascuna prova. Inoltre, all’ora

fissata per l’inizio di ciascuna prova scritta, la commissione procederà alla decrittazione del tema

inviato via Pec e redigerà un verbale in cui darà atto dell’avvenuta decrittazione;

3. per quel che concerne lo svolgimento delle prove scritte, il candidato potrà portare con sé

esclusivamente testi di legge (senza alcun commento giurisprudenziale) stampati e pubblicati a

cura di un editore, compreso l’Istituto Poligrafico e la Zecca dello Stato; inoltre, mentre nella

formulazione originaria dello schema di decreto (nonostante il parere contrario del CNF) era stato

introdotto come parametro di correzione delle prove scritte la conoscenza da parte del candidato

degli orientamenti giurisprudenziali, nella formulazione definitiva del decreto, il legislatore ha

previsto che il candidato accenni agli orientamenti giurisprudenziali che concorrono a

delineare la struttura essenziale degli istituti giuridici sottesi. Trattasi di una formulazione

opaca, mediana tra l’orientamento del ministero e quello (negativo) del CNF che, molto

probabilmente, sarà fonte di molteplici ricorsi;

4. nonostante il parere contrario del Consiglio di Stato, che ha reputato eccessivamente restrittiva

tale previsione, è stato confermato quanto previsto nello schema di decreto in ordine al divieto di

rientro nei locali d’esame per i commissari ed i segretari che si allontanino nel corso delle prime 3

ore dalla dettatura;

5. quanto alla prova orale, nonostante il parere contrario del C.N.F., lo schema di D.M. ha

confermato la scelta della istituzione di un data base unico nazionale (alimentato dalle

commissioni e sottocommissioni distrettuali) dal quale i candidati dovranno estrarre le domande a

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cui saranno sottoposti dai commissari. La ratio di tale novità è di arginare le disparità di

trattamento tra i candidati delle diverse aree geografiche italiane. Il data base e il programma

informatico di estrazione devono essere realizzati entro un anno dalla pubblicazione del decreto 48

del 2016. Tuttavia, è previsto un regime transitorio di svolgimento dell’esame orale finché il

sistema informatico basato sul data base non sarà attuato. Pertanto, a decorrere dalla sessione di

esame del 2017 e sino alla pubblicazione del decreto che attesta la piena operatività del data base

saranno le commissioni e le sottocommissioni distrettuali a predisporre per ogni seduta di esame

un congruo numero di domande, tra le quali il candidato estrarrà manualmente quelle sulle quali

deve rispondere.

Tuttavia, occorre ricordare nuovamente che per effetto del Decreto Mille Proroghe 2016 le

modalità di attuazione dell’esame di abilitazione forense rimarranno invariate fino al 2018.

Superato l’esame, il candidato ha titolo per l’iscrizione all’albo degli avvocati, che deve essere preceduta

da un giuramento solenne di esercitare la professione con lealtà onore e diligenza.

A tal proposito, l’art. 8 LPF ha sostituito il giuramento in udienza pubblica con il c.d. impegno solenne

dinanzi al consiglio dell’ordine in seduta pubblica. La norma è d’immediata applicazione.

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4) Gli albi professionali:

L’attività dell’avvocato, essendo diretta a garantire l’effettività del diritto alla difesa, ex art. 24 Cost., è

un’attività di rilievo fondamentale nell’ambito della società.

Dal punto di vista giuridico, l’attività professionale forense rappresenta una tipica professione

intellettuale, soggetta quindi alla disciplina del lavoro autonomo e, segnatamente, alla disciplina di cui

agli artt. 2229 e ss. del codice civile, intitolato proprio alle professioni intellettuali.

In particolare, l’art. 2229 c.c. richiede come condizione per l’esercizio di una professione intellettuale

l’iscrizione in appositi albi o elenchi.

Nello stesso senso, l’art. 2 comma 3 della LPF prevede come condizione per l’esercizio della

professione di avvocato l’iscrizione ad un albo circondariale che è subordinata al possesso dei seguenti

requisiti, ai sensi degli artt. 2 e 17 della LPF:

1. il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza;

2. il superamento dell’esame di avvocato. In via alternativa, possono essere iscritti anche coloro che

abbiano svolto le funzioni di magistrato ordinario, militare, amministrativo o contabile o di

avvocato dello Stato e abbiano cessato tali funzioni senza essere incorsi in provvedimenti

disciplinari, ex art. 2 comma 3 LPF. Si tratta di una disposizione, già prevista secondo la

precedente legge professionale, fortemente criticata dall’avvocatura perché non sussiste la

condizione di reciprocità del passaggio inverso dall’avvocatura alla magistratura, alla quale si

accede solo per concorso pubblico. Al fine di garantire sia l’autonomia e l’indipendenza

dell’avvocato, ex magistrato, sia la terzietà del giudice, ex collega dell’avvocato, l’art. 2 LPF

prevede che l’iscritto all’albo, nei 2 anni successivi, non possa esercitare la professione nei

circondari nei quali ha svolto le proprie funzioni negli ultimi 4 anni antecedenti alla cessazione.

Anche i professori universitari di ruolo dopo 5 anni d’insegnamento in materie giuridiche possono

essere iscritti all’albo forense;

3. la cittadinanza italiana o di uno Stato dell’UE;

4. il pieno possesso dei diritti civili;

5. una condotta irreprensibile secondo la deontologia forense: è un obbligo che riguarda anche la vita

extraprofessionale dell’avvocato e sul quale il consiglio dell’ordine esercita un controllo;

6. non essere sottoposto a misure detentive, cautelari o interdittive;

7. non aver riportato condanne per delitti molto gravi (falsa testimonianza, falsa perizia, frode

processuale, patrocinio o consulenza infedele, associazione per delinquere etc);

8. l’avere il domicilio professionale nel circondario del Tribunale ove ha sede il Consiglio

dell’ordine;

9. l’assenza di cause d’incompatibilità come previste dall’art. 18 LPF:

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La ratio della norma è quella di garantire autonomia, indipendenza, assenza d’interferenze e

conflitti d’interesse nell’esercizio dell’attività del professionista.

La nuova LPF non ha modificato l’impianto tradizionale delle cause d’incompatibilità,

disciplinate dall’art. 18, che sono:

l’esercizio di un’attività commerciale svolta in proprio o in nome altrui, anche se è

consentito svolgere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali (es:

curatore fallimentare) o relative alla crisi d’impresa;

l’esercizio di attività di lavoro autonomo svolta continuativamente e professionalmente,

escluse quelle di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale;

l’esercizio di qualsiasi attività di lavoro subordinato pubblica o privata anche se con orario

di lavoro limitato;

l’esercizio della qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società

di persone aventi quale finalità l’esercizio di attività d’impresa commerciale o l’esercizio

d’incarichi gestionali in società di capitali.

incompatibilità c.d. funzionali, connesse cioè ad una determinata carica istituzionale, che

vengono meno con la cessazione della stessa o in presenza di determinate condizioni. In tal

senso, l’art. 20 della LPF dispone che l’avvocato eletto Presidente della Repubblica, del

Senato, della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri, ministro,

viceministro, sottosegretario di Stato, membro del CSM o della Corte Costituzionale etc

sia sospeso dall’esercizio della professione fino alla cessazione dalla carica.

Peraltro, occorre ricordare tra le ipotesi di incompatibilità funzionali che l’avvocato può

esercitare le funzioni di g.o.t. (giudice onorario del tribunale) e v.p.o.(viceprocuratore

onorario) ma solo in un circondario di Tribunale differente da quello nel quale svolge la

professione forense;

L’art. 19 LPF indica alcune categorie professionali per le quali vengono meno le cause

d’incompatibilità, tra le quali, la professione d’insegnante o di ricercatore in materie giuridiche

universitarie, nelle scuole superiori, nelle istituzioni e negli enti di ricerca pubblici.

I docenti e i ricercatori universitari a tempo pieno devono essere iscritti nell’elenco speciale, annesso

all’albo ordinario degli avvocati.

L’avvocato non può iscriversi in un qualsiasi albo professionale, in quanto l’art. 7 LPF dispone

l’iscrizione nell’albo del circondario del tribunale dove il professionista ha il proprio domicilio

professionale che, di regola, coincide con il luogo in cui svolge la professione in modo prevalente.

Presso ogni ordine è tenuto un apposito elenco degli avvocati iscritti con i relativi domicili professionali e

gli indirizzi di posta elettronica. E’ comunque possibile stabilire anche degli uffici al di fuori del

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circondario del tribunale dove si ha il domicilio professionale, dandone immediata comunicazione scritta

sia all’ordine d’iscrizione, sia all’ordine del luogo dove si trova l’ufficio.

Nell’ambito dell’albo esistono degli elenchi speciali che riguardano, in particolare, gli avvocati

dipendenti di enti pubblici, i docenti universitari e ricercatori universitari a tempo pieno.

E’ previsto inoltre l’elenco degli avvocati specialisti, degli avvocati sospesi dall’esercizio della

professione per qualsiasi causa, degli avvocati cancellati per mancanza dell’esercizio effettivo,

continuativo e abituale della professione, l’elenco dei praticanti abilitati al patrocinio, il registro dei

praticanti e la sezione speciale degli avvocati stabiliti.

La permanenza dell’iscrizione all’albo, ex art. 21 LPF, è subordinata all’esercizio effettivo, continuativo,

abituale e prevalente della professione, salve le eccezioni per i primi anni di attività.

Al consiglio dell’ordine di appartenenza è affidata la funzione di compiere ogni 3 anni le verifiche

necessarie, anche mediante richiesta di informazioni all’ente previdenziale. La mancanza di effettività,

continuità, abitualità e prevalenza dell’esercizio professionale comporta, se non sussistono giustificati

motivi, la cancellazione dall’albo. E’ prevista una procedura in contraddittorio con l’avvocato interessato,

che potrà difendersi presentando una memoria scritta.

Sono state introdotte delle eccezioni al dovere di esercizio continuativo della professione per le donne in

maternità e nei primi 2 anni di vita del bambino, per gli avvocati affetti da gravi malattie che abbiano

ridotto fortemente la capacità lavorativa, per gli avvocati che svolgono attività di assistenza continuativa

di prossimi congiunti o del coniuge affetto da malattia che non sia più autosufficiente.

Oltre all’albo ordinario esiste un albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori,

cioè per il patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione, al Consiglio di Stato, alla Corte dei Conti in sede

giurisdizionale, al Tribunale supremo militare, al Tribunale superiore delle acque pubbliche.

Prima della novella del 2012 si diventava cassazionista automaticamente per anzianità, dopo 12 anni di

iscrizione ad un albo circondariale o dopo 5 anni d’iscrizione e il superamento del relativo esame.

La LPF prevede invece che il titolo de quo non si acquisisca più per anzianità.

In punto, rimane la facoltà di sottoporsi all’esame specifico dopo 5 anni di anzianità ed è introdotta la

possibilità, dopo 8 anni di professione, di frequentare la Scuola Superiore dell’Avvocatura, (istituita

con regolamento del CNF del 16 luglio 2014 n. 5) al termine della quale sarà rilasciato un apposito

certificato di idoneità.

La LPF prevede, però, un regime transitorio che consente di estendere l’iscrizione all’albo speciale agli

avvocati che matureranno i requisiti previsti dalla previgente normativa (12 anni di anzianità) entro un

triennio dall’entrata in vigore della stessa legge.

Detta facoltà è stata ulteriormente prorogata dal legislatore con un emendamento al decreto “Mille

proroghe 2016” e successivamente, con un ulteriore emendamento al decreto “Mille proroghe 2017”

pertanto, chi ha maturato i requisiti di anzianità a partire dal 2 febbraio 2013 sino al 2 febbraio

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2018 (come chiarito anche dal Consiglio Nazionale Forense) potrà presentare direttamente domanda di

iscrizione all'albo speciale dei patrocinatori davanti alle giurisdizioni superiori senza necessità di

sostenere nessun corso o esame.

Occorre, però, ricordare che detto regolamento è stato impugnato dinanzi al Giudice amministrativo (Tar

Lazio) dalle associazione di categoria degli avvocati.

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5) L’attività professionale forense:

L’attività dell’avvocato ha un rilievo fondamentale nella società, in quanto è diretta ad assicurare

l’effettività del diritto alla difesa, come riconosciuto e garantito dall’art. 24 Cost.

E’ proprio in ragione della primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti protetti e soprattutto della

specificità della funzione difensiva, ex art. 1 comma 2 LPF, che gli avvocati, a differenza degli altri

professionisti, hanno una propria legge professionale autonoma. Per vero, anche la categoria professionale

dei medici è dotata di una propria legge professionale, in quanto, come quella forense, è diretta a tutelare

un diritto di rilievo fondamentale nella società.

L’attività dell’avvocato, proprio perché diretta ad assicurare l’effettività del diritto alla difesa, deve essere

esercitata in libertà, autonomia e indipendenza, come prevede espressamente l’art. 2 comma1 LPF.

La necessità di autonomia e indipendenza dell’avvocato da qualsiasi influenza e condizionamento esterno

è così rilevante da essere ripetuta da molteplici disposizioni della LPF (ad esempio, dagli artt. 1, 2, 3).

Ai sensi dell’art. 21 della LPF, l’avvocato ha l’obbligo di esercitare la propria attività professionale in

modo effettivo, continuativo, abituale e permenente, salve le eccezioni previste nei primi anni di

professione o in casi particolari quali, a titolo di esempio, la maternità nei primi 2 anni dalla nascita del

bambino, gravi malattie che abbiano ridotto grandemente la possibilità di lavoro ed anche nel caso in cui

l’avvocato svolga attività di assistenza continua di prossimi congiunti (o del coniuge) affetti da grave

malattia.

Proprio in attuazione dell’art. 21 della LPF, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7.4.2016 il

decreto n. 47 del 25 febbraio 2016 “Regolamento recante disposizioni per l’accertamento

dell’esercizio della professione forense”, con l’obiettivo di “migliorare il funzionamento concorrenziale

del mercato e la competitività del sistema economico del Paese, estromettendo dal mercato dei servizi gli

avvocati che eserciteranno l’attività in modo sporadico e non adeguatamente organizzato e, in definitiva,

senza un sufficiente livello di professionalità”.

A tal proposito, il Consiglio dell’Ordine circondariale, ogni 3 anni a decorrere dalla entrata in vigore del

regolamento n. 47, ha il compito di verificare la sussistenza dell’esercizio della professione in modo

effettivo, continuativo, abituale e prevalente. Detta verifica non verrà, però, svolta per il primo

quinquennio d’iscrizione.

I requisiti la cui sussistenza il COA dovrà verificare sono: la titolarità di una partita IVA attiva (in proprio

o della società o associazione professionale di cui l’avvocato fa parte); l’utilizzo di locali e di almeno una

utenza telefonica entrambi destinati all’esercizio della professione, anche in forma societaria o associativa

con altri colleghi o presso altri colleghi o, infine, in condivisione con altri avvocati; la titolarità di una

PEC comunicata al COA; la titolarità di una polizza assicurativa per responsabilità professionale;

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l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento professionale; la trattazione di almeno 5 affari per ciascun

anno, anche se l’incarico è stato conferito ad altro professionista.

La documentazione comprovante il possesso di tali requisiti (che devono sussistere congiuntamente) può

essere presentata mediante dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dichiarazioni sostitutive dell’atto di

notorietà.

Peraltro, entro 6 mesi dall’entrata in vigore del regolamento in esame, sono stabilite le modalità per

effettuare annualmente controlli a campione sulle dichiarazioni presentate.

La sanzione prevista dall’art. 21 della legge n. 247/2012 in caso di mancanza del requisito di effettività,

continuità abitualità e prevalenza dell’esercizio della professione, in assenza di giustificati motivi, è la

cancellazione dall’albo.

Tradizionalmente, l’avvocato può esercitare attività di tipo giudiziale o stragiudiziale.

La prima è l’attività inerente ad un procedimento giudiziario penale, civile, amministrativo o tributario.

L’art. 2 comma 5 LPF disciplina sommariamente l’attività giudiziale, prevedendo, in particolare, che la

rappresentanza, l’assistenza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle

procedure arbitrali rituali siano attività di esclusiva competenza della professione forense.

L’attività stragiudiziale, invece, consiste essenzialmente nella redazione di contratti e nella consulenza,

ossia nella redazione di pareri legali su una determinata questione giuridica.

La precedente legge professionale non prevedeva alcun riconoscimento dell’attività stragiudiziale

dell’avvocato, a differenza del codice deontologico che riserva l’attività stragiudiziale agli avvocati.

L’art. 2.6 LPF, invece, riconosce la competenza degli avvocati nell’ambito dell’attività di consulenza e

di assistenza legale stragiudiziale, ove però connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo

continuativo, sistematico e organizzato.

La formulazione della norma risulta oscura e ambigua perché, da un lato, non prevede espressamente una

riserva esclusiva agli avvocati per l’esercizio di attività stragiudiziale (come invece rivendicata dalla

classe forense) e, dall’altro, poiché riconosce la competenza degli avvocati sull’attività stragiudiziale

solamente laddove sia connessa ad un processo, cioè all’attività giudiziale.

Ai sensi dell’art. 14 LPF, l’avvocato ha piena facoltà di accettare o rifiutare il mandato professionale e di

recedere dallo stesso, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi al cliente. Il mandato professionale

si perfeziona con l’accettazione da parte dell’avvocato. L’incarico è assolutamente personale anche

quando l’avvocato faccia parte di un’associazione di avvocati. Con l’accettazione dell’incarico,

l’avvocato si assume la responsabilità personale illimitata per l’attività svolta.

Tale norma ha carattere innovativo rispetto al previgente articolo 11 della legge professionale forense del

1934 che disponeva, invece, che il procuratore non potesse rifiutare senza giustificato motivo il suo

ufficio. In realtà, tale disposizione era svuotata di contenuto perché, nell’applicazione giurisprudenziale,

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moltissimi erano i giustificati motivi di rifiuto dell’incarico professionale (l’incompetenza in quel settore

specifico, l’eccessivo carico di lavoro…).

L’art. 14 LPF introduce alcune novità anche con riferimento alla disciplina della sostituzione in

udienza, prevedendo la facoltà dell’avvocato di farsi sostituire da un collega con un incarico anche

verbale (prima della novella, invece, la delega doveva essere scritta); occorre invece la delega scritta

qualora l’avvocato si faccia sostituire da un praticante abilitato al patrocinio.

Il regime della sostituzione in udienza non determina una traslazione della responsabilità professionale

sull’avvocato che effettua la sostituzione, rimanendo personalmente responsabile verso i clienti

l’avvocato a cui è stato dato il mandato. E’ infatti solo con questi che si è instaurato il rapporto

professionale d’opera intellettuale, su base fiduciaria.

Ulteriore novità introdotta dalla LPF riguarda la facoltà per gli avvocati di esercitare la professione non

individualmente, bensì in un’associazione forense, ex art. 4 LPF.

E’ anche possibile che la professione forense sia esercitata da un avvocato che partecipa ad associazioni

costituite fra altri liberi professionisti, ad esempio commercialisti, consulenti del lavoro etc., in modo da

assicurare al cliente prestazioni di carattere multidisciplinare.

A tal proposito, il 16 marzo scorso è entrato in vigore il D.M. 4.02.2016 n. 23 “Regolamento recante

norme di attuazione dell’art. 4 comma 2 della legge n. 247/2012” che consente agli avvocati di

svolgere la professione in forma associativa con altri professionisti, quali gli iscritti ai seguenti ordini e

collegi professionali: agronomi, dottori forestali, architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori,

assistenti sociali, attuari, biologi, chimici, dottori commercialisti ed esperti contabili, geologi, ingegneri,

tecnologi ed alimentari, consulenti del lavoro, medici chirurghi ed odontoiatri, medici veterinari,

psicologi, spedizionieri doganali, periti agrari, agrotecnici, periti industriali e geometri.

Lo scopo della Novella di attuazione dell’art. 4 della legge n. 247/2012 è quello di creare sinergie e di

assicurare ai clienti prestazioni di servizi caratterizzate dalla multidisciplinarità, in un’ottica di

promozione della concorrenza nel mercato.

Allo stato, però, la legge professionale forense prevede che l’avvocato possa essere iscritto ad una sola

associazione professionale, ma il D.D.L. sulla concorrenza, ancora in corso di approvazione, prevede la

cancellazione di detto limite.

Rimane, invece, inalterato il limite relativo al mandato professionale, che deve essere conferito

all’avvocato in via personale e non all’associazione stessa.

E’ stata poi conferita una delega al Governo per la disciplina dell’esercizio della professione forense

anche in forma societaria.

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6) La formazione continua e le specializzazioni:

L’avvocato è soggetto al dovere di un costante aggiornamento professionale, secondo quanto previsto

dall’art. 15 del codice deontologico (art. 13 del precedente codice) e dall’art. 11 della LPF. Tale norma

prevede espressamente che sia dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione

professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore

esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia.

L’avvocato realizza la propria formazione permanente con lo studio individuale e la partecipazione ad

iniziative culturali in campo giuridico e forense.

Per dare attuazione all’obbligo formativo, nel 2007, il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha adottato un

regolamento sulla formazione continua degli avvocati, che prevede il dovere dell’avvocato di

partecipare ad eventi formativi, quali master, seminari, convegni, giornate di studio accreditati, dal CNF e

dall’ordine di appartenenza.

E’ stata introdotta l’unità di misura del c.d. credito formativo che viene attribuito per ogni ora di corso,

per un massimo di 24 crediti per evento formativo. L’avvocato è obbligato a maturare un certo numero di

crediti per anno ed anche un ammontare di crediti per ogni triennio che sono ridotti per il primo triennio

d’iscrizione all’albo.

La competenza per il riconoscimento dei crediti formativi è dei Consigli dell’ordine di appartenenza e del

CNF.

Sono inoltre previsti, all’art. 11 comma 2 LPF, degli esoneri per determinate categorie di avvocati quali:

i professori e i ricercatori universitari in materie giuridiche, gli avvocati sospesi dall’esercizio della

professione, in quanto esercitano le cariche previste dall’art. 20 comma 1 LPF (Presidente della

Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio, ministro, viceministro, giudice della Corte

costituzionale o del CSM…), i membri degli organi con funzioni legislative e i componenti del

Parlamento europeo, gli avvocati che abbiano 25 anni di iscrizione all’albo o dopo il compimento del

sessantesimo anno di età.

La legge forense ha innovato rispetto alla precedente disciplina, prevedendo l’esonero dall’obbligo

formativo per l’anzianità e per coloro che fanno parte di assemblee legislative. Parte dell’avvocatura ha

espresso critiche nei confronti di tali previsioni, ritenendo che né l’anzianità, né l’esercizio di funzioni

legislative possano costituire eccezioni ad un obbligo di preminente interesse generale, che è diretto a

garantire, in sostanza, l’effettività del diritto alla difesa, ex art. 24 Cost.

Senonché, l’attuale sistema dei crediti formativi, così come introdotto nel 2007, è stato parzialmente

modificato da un nuovo regolamento adottato dal CNF in adempimento dell’ art. 11 comma 3 LPF.

In attuazione di tale disposizione, in data 16 luglio 2014, il CNF ha adottato il nuovo Regolamento sulla

formazione continua (Reg. n. 6/2014) che sostituisce il previgente Regolamento del 2007,

mantenendo il sistema dei crediti formativi.

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In base all’articolo 12 del Regolamento in oggetto, l’obbligo formativo inizia a decorrere dal primo

gennaio successivo alla data di iscrizione all’albo, elenco o registro.

Il periodo di valutazione ha durata triennale e l’iscritto deve conseguire nell’arco del triennio formativo

almeno 60 crediti formativi di cui n. 9 crediti nelle materie obbligatorie di ordinamento e previdenza

forensi e deontologia ed etica professionale.

L’iscritto è anche tenuto a maturare un numero minimo di 15 crediti per anno, di cui 3 crediti formativi

nelle materie obbligatorie di cui sopra. E’ consentita una compensazione di 5 crediti formativi per anno

maturati nell’ambito dello stesso triennio formativo, salvo che per le materie obbligatorie di deontologia

ed etica professionale.

E’ possibile anche effettuare corsi a distanza o e-learning nella misura massima del 40% del totale dei

crediti da conseguire nel triennio.

Ai sensi dell’art. 13 del Regolamento de quo, il Consiglio dell’ordine di appartenenza valuta anche la

possibilità di attribuire crediti formativi in caso di partecipazione a commissioni di studio, gruppi di

lavoro o commissioni consiliari, ministeriali o nazionali, partecipazione a commissioni di esami di

abilitazione, contratti di insegnamento in materie giuridiche presso istituti universitari, pubblicazioni in

materie giuridiche su riviste specializzate, anche online a rilevanza nazionale, pubblicazioni di libri,

saggi, monografie su argomenti giuridici o attinenti la professione, svolgimento di relazioni o lezioni

presso le scuole di specializzazione per le professioni legali o scuole forensi, attività seminariali di studio

autorizzate dai COA o dal CNF, attività di studio volte alla preparazione di relazioni o materiale didattico

per attività di aggiornamento o formazione.

Costituisce una novità assoluta, introdotta dalla LPF, il riconoscimento delle specializzazioni

dell’avvocato in determinati settori del diritto (ad esempio: avvocato specializzato in diritto di famiglia e

divorzi, avvocato amministrativista, penalista, giuslavorista etc).

In passato, il CNF aveva tentato d’introdurre la figura dell’avvocato specializzato, nonostante l’assenza di

un’espressa previsione di legge, ma il Tar Lazio con una sentenza del giugno del 2011 aveva osservato

che il CNF non aveva tale potere. Di conseguenza, è intervenuto il legislatore con la LPF del 2012 a

colmare il vuoto normativo.

L’art. 9 della LPF prevede, infatti, la possibilità per gli avvocati di ottenere il titolo di

specializzazione, secondo le modalità che verranno stabilite in un apposito regolamento che verrà

emanato dal Ministero della Giustizia, previo parere del CNF.

Il legislatore ha introdotto un percorso formativo modellato sulla falsariga di quello previsto per

conseguire il patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori.

Esiste, infatti, un percorso più lungo, che consente di acquisire il titolo di avvocato specialista per

anzianità (occorrono almeno 8 anni d’iscrizione all’albo) qualora si dimostri di avere esercitato in modo

assiduo, prevalente e continuativo l’attività professionale in un settore di specializzazione negli ultimi 5

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anni (a tal fine, è necessario avere acquisito almeno 15 incarichi professionali all’anno nell’area di

specializzazione scelta) ed un percorso più breve (biennale), che implica la partecipazione impegnativi

percorsi formativi, organizzati con apposite convenzioni stipulate dal CNF e dagli ordini locali con le

università (trattasi di corsi di specializzazione almeno biennali della durata non inferiore a 200 ore,

didattica frontale di almeno 100 ore, obbligo di frequenza minima dell’80%, una prova scritta ed una

prova orale al termine del corso).

L’attribuzione della qualifica di avvocato specialista, ex art. 9 comma 7 LPF, non determina la nascita di

attività riservate solamente alla categoria specializzata, quindi la libertà di concorrenza non verrà

pregiudicata dalla novella.

Il CNF ha il compito di attribuire e revocare il titolo di avvocato specializzato, ex art. 9 LPF.

Recentemente (il 12 agosto 2015), in attuazione dell’art. 9 della LPF, il Ministero della Giustizia ha

adottato il Regolamento n. 144/2015 sul conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato

specialista.

Le nuove disposizioni individuano ben 18 aree di specializzazione (diritto delle relazioni familiari, delle

persone e dei minori; diritto agrario; diritti reali, di proprietà, delle locazioni e del condominio; diritto

dell'ambiente; diritto industriale e delle proprietà intellettuali; diritto commerciale, della concorrenza e

societario; diritto successorio; diritto dell'esecuzione forzata; diritto fallimentare e delle procedure

concorsuali; diritto bancario e finanziario; diritto tributario, fiscale e doganale; diritto della navigazione e

dei trasporti; diritto del lavoro, sindacale, della previdenza e dell'assistenza sociale; diritto dell'Unione

europea; diritto internazionale; diritto penale; diritto amministrativo; diritto dell'informatica).

Per il conseguimento del titolo di specialista, l'avvocato deve presentare domanda al consiglio dell'ordine

di appartenenza che, verificata la regolarità, la trasmetterà al Consiglio nazionale Forense; l'art. 6 del

regolamento stabilisce, altresì, alcuni presupposti per la presentazione della domanda, tra i quali:

assenza nei tre anni precedenti di sanzioni disciplinari definitive, diverse dall'avvertimento,

conseguente ad un comportamento realizzato in violazione del dovere di competenza o di

aggiornamento professionale;

assenza, nei due anni precedenti, di revoca di un precedente titolo di specialista.

L'avvocato specialista, ogni tre anni dall'iscrizione nell'elenco, dichiara e documenta al consiglio

dell'ordine d'appartenenza l'adempimento degli obblighi di formazione permanente nel settore di

specializzazione. Il titolo di avvocato specialista è revocato dal Consiglio nazionale forense, a seguito di

comunicazione del Consiglio dell'Ordine, nei seguenti casi:

a) irrogazione di sanzione disciplinare definitiva, diversa dall'avvertimento, conseguente ad un

comportamento realizzato in violazione del dovere di competenza o di aggiornamento

professionale;

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b) mancato adempimento degli obblighi di formazione continua ovvero dell'obbligo di deposito nei

termini della dichiarazione e della documentazione.

Il Consiglio nazionale forense, di propria iniziativa o su segnalazione del consiglio dell'ordine o di terzi

può dar corso al procedimento per la revoca del titolo di avvocato specialista nei casi di grave e

comprovata carenza delle specifiche competenze del settore di specializzazione. Prima di provvedere alla

revoca del titolo il Consiglio nazionale forense deve sentire l'interessato. La revoca del titolo e'

comunicata al consiglio dell'ordine per la cancellazione dall'elenco di cui all'articolo 5 ed ha effetto dalla

notificazione del relativo provvedimento all'interessato a cura del medesimo consiglio dell'ordine.

Fermo quanto previsto dall'articolo 6, comma 2, lettera c), la revoca del titolo non impedisce di

conseguirlo nuovamente.

Occorre segnalare, però, che il Regolamento in esame è stato impugnato da alcuni Consigli degli ordini e

da organismi dell’avvocatura dinanzi al Tar Lazio che, con le sentenze n. 4424-4426-4428/2016 del 14

aprile 2016, ha annullato in parte qua gli articoli 3 e 6 comma 4 del regolamento n. 144/2015 sulle

specializzazioni forensi.

In particolare, il Tar ha determinato la cancellazione dell’elenco delle 18 materie specialistiche di cui

all’art. 3, rilevando la mancanza di un principio logico che abbia presieduto alla scelta di dette materie,

non essendo stato rispettato né un criterio codicistico, né un criterio di riferimento alle competenze degli

organi giurisdizionali, né infine un criterio di coincidenza con possibili insegnamenti universitari, più

numerosi di quelli individuati dal decreto.

Vista l’irragionevolezza della norma, il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di rendere il mercato delle

prestazioni legali più leggibile per i consumatori, pertanto, il Tar ha disposto il suo annullamento.

Al contempo, è stato censurato anche l’art. 4 del regolamento che prevede l’attribuzione al CNF del

potere di effettuare un colloquio agli avvocati che intendano ottenere il titolo di specializzazione per

precedente esperienza professionale.

Detta disposizione avrebbe, secondo i giudici amministrativi, un contenuto eccessivamente generico con

l’attribuzione di una latissima discrezionalità operativa al CNF, foriera di distorsioni applicative e in

contraddizione con la ratio del regolamento stesso.

Le sentenze del Tar Lazio sono state impugnate al Consiglio di Stato, il quale ha disposto al prossimo 9

novembre 2017 l’udienza per la discussione nel merito dell’appello presentato dal Ministero della

Giustizia.

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7) Gli organi dell’avvocatura:

L’esercizio di una professione intellettuale richiede l’iscrizione ad un albo o elenco e l’accertamento di

specifici requisiti da parte di determinati organi, secondo quanto previsto dall’art. 2229 c.c.

La necessità dell’iscrizione all’albo degli avvocati come condizione indispensabile per l’esercizio

dell’attività forense risale già all’epoca della Roma imperiale e si consolida nel corso del tempo, fino ad

essere espressamente prevista nella LPF.

L’insieme degli avvocati iscritti ad un albo circondariale costituisce un ordine territoriale (rectius

circondariale), in quanto gli iscritti formano un vero e proprio ordinamento forense di quel circondario di

tribunale.

L’insieme degli iscritti negli albi di tutta Italia costituisce l’ordine forense, ex art. 24 LPF.

La nascita degli ordini ha dato vita alla formazione di appositi organi, deputati alla tenuta e

all’aggiornamento degli albi, nonché all’esercizio di un’attività di controllo, che sono i consigli degli

ordini locali, che hanno sede presso ogni circondario di tribunale (attualmente sussistono 166

circondari e quindi 166 consigli).

A livello nazionale, esiste invece il consiglio nazionale forense, con sede a Roma, presso il Ministero

della Giustizia.

I vari consigli degli ordini e il consiglio nazionale forense (CNF) sono gli organi dell’avvocatura, che ne

hanno la rappresentanza a livello locale o nazionale e che promuovono i rapporti con le istituzioni e le

pubbliche amministrazioni.

Tutti i soggetti iscritti ad un albo hanno il diritto di eleggere i componenti del proprio consiglio

dell’ordine, con voto segreto, secondo apposita procedura prevista dall’art. 28 LPF. Possono candidarsi

tutti gli appartenenti all’albo, purché non abbiano riportato nei 5 anni antecedenti una sanzione

disciplinare più grave del mero avvertimento, ai sensi dell’art. 27 comma 4 LPF.

Il consiglio ha sede presso il tribunale e dura in carica un quadriennio.

L’art. 29 LPF contiene un elenco delle principali funzioni del consiglio, che sono:

la tenuta degli albi, elenchi e registri;

l’approvazione di regolamenti interni;

il controllo sul tirocinio forense;

l’organizzazione di scuole forensi, la tenuta del registro dei praticanti, il rilascio del certificato di

compiuta pratica e l’annotazione dei praticanti abilitati al patrocinio;

l’organizzazione di eventi formativi, di corsi per l’acquisizione del titolo di avvocato specialista;

il controllo sulla condotta deontologica degli iscritti e l’elezione dei membri del consiglio

distrettuale di disciplina (la nascita di tale organo è una novità introdotta dalla LPF);

il controllo sulla continuità, effettività, abitualità, prevalenza dell’attività professionale;

il rilascio dei pareri per la liquidazione delle parcelle degli avvocati iscritti;

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l’intervento nelle contestazioni insorte tra gli avvocati iscritti o tra costoro ed i clienti;

la costituzione di organismi di conciliazione e di camere arbitrali etc.

Ciascun ordine circondariale elegge il proprio presidente, con funzioni rappresentative, un segretario e un

tesoriere. Nei consigli di grandi dimensioni è anche possibile l’elezione di un vicepresidente.

Sono organi degli ordini circondariali e distrettuali, ex art. 26 LPF, oltre al consiglio, al presidente, al

tesoriere e al segretario, l’assemblea degli iscritti e il collegio di revisori, nominato da Presidente del

Tribunale, con funzioni di controllo della regolarità nella gestione patrimoniale.

L’assemblea, costituita da tutti gli avvocati iscritti all’albo ed in elenchi speciali, è l’organo deliberativo

dell’ordine degli avvocati. Essa elegge i componenti del consiglio, approva i bilanci ed esprime il proprio

parere su argomenti sottoposti alla sua attenzione dal consiglio.

Il consiglio nazionale forense è l’organo istituzionale di rappresentanza dell’avvocatura a livello

nazionale, con sede a Roma, presso il Ministero di giustizia.

E’ eletto ogni 4 anni tra gli avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni

superiori, da ciascun distretto di corte d’appello. Il numero dei candidati che ogni distretto può eleggere

varia a seconda delle dimensioni dello stesso.

I consiglieri nominano al proprio interno il presidente, 2 vicepresidenti, il segretario ed il tesoriere, che

formano il consiglio di presidenza.

Tra i compiti e le funzioni assegnate al CNF, ex art. 35 LPF, occorre ricordare:

la funzione di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura a livello nazionale;

l’adozione di regolamenti interni per il proprio funzionamento ed eventualmente anche per quello

degli ordini circondariali;

l’emanazione del codice deontologico;

la tenuta e l’aggiornamento dell’albo degli avvocati patrocinanti davanti alle giurisdizioni

superiori;

l’informazione sulla propria attività e su argomenti d’interesse per l’avvocatura (esiste, ad

esempio, una apposita newsletter cui gli avvocati possono accedere);

la funzione di coordinamento e d’indirizzo dei vari consigli dell’ordine;

l’esercizio della funzione giurisdizionale sui reclami avverso i provvedimenti disciplinari e in

materia di tenuta di albi, registri, elenchi e rilascio del certificato di compiuta pratica. Inoltre, si

pronuncia sui ricorsi relativi alle elezioni dei consigli dell’ordine e risolve i conflitti di

competenza tra ordini circondariali;

esercita funzioni disciplinari nei confronti dei propri componenti;

la funzione di proporre ogni 2 anni al Ministero di giustizia i parametri per i compensi

professionali;

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l’espressione di pareri su proposte e disegni di legge che interessino la professione forense e

l’amministrazione della giustizia…

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8) Il conferimento dell’incarico professionale e il sistema dei parametri forensi:

L’art. 13 della LPF disciplina, per un verso, il conferimento dell’incarico professionale e, per altro verso,

il compenso degli avvocati.

Il primo comma dell’art. 13 prevede espressamente la facoltà per gli avvocati di espletare incarichi

professionali in proprio favore. Ciò significa che l’avvocato può difendersi da sé, non solo in materia

civile, come era già previsto dall’art. 86 del codice di procedura civile, ma anche in ambito

amministrativo e penale.

Occorre rilevare però che la prassi di difendersi da sé, risalente già all’epoca romana, non sempre è

strategicamente vincente, in quanto può implicare una perdita di lucidità e una certa partecipazione

emotiva nella difesa.

L’art. 13 prosegue consentendo, peraltro, che l’incarico professionale sia svolto gratuitamente. La norma

non innova rispetto al passato, posto che l’esercizio gratuito della professione forense, nei confronti di

singoli, ma più spesso di associazioni, onlus etc, (quindi spinto da ragioni etico-morali) è sempre stato

ammesso. La ratio è quindi quella di fugare presunzioni di onerosità dell’attività forense, che di solito è a

carattere oneroso, ma può anche essere esercitata a titolo gratuito.

L’art. 13 commi 2-10 è dedicato alla disciplina del compenso professionale, la quale è stata al centro di

un profondo dibattito e di una serie di riforme legislative succedutesi a partire dal 2006.

Occorre quindi esaminare brevemente il percorso di tali riforme, nella materia dei compensi professionali

forensi, fino all’approvazione della LPF e del recente decreto ministeriale relativo all’adozione dei nuovi

parametri professionali (D.M. n. 55 del 2014 in vigore dal 3 aprile 2014).

Per esaminare il percorso evolutivo in tale materia occorre muovere prima dalla disciplina generale

codicistica.

Anzitutto, occorre ricordare che l’art. 2233 del c.c. prevede il principio della libera determinazione del

compenso dovuto al professionista intellettuale. Solo se il compenso non è concordato tra le parti, lo

stesso è determinato secondo le tariffe o gli usi. In mancanza, è determinato dal giudice con il previo

parere dell’associazione professionale cui il professionista appartiene.

La norma prosegue, prevedendo il principio di adeguatezza del compenso professionale all’importanza

dell’opera e al decoro della professione.

Il codice civile pertanto detta i criteri generali per la determinazione del compenso di tutti i professionisti

intellettuali, compreso l’avvocato.

Nella prassi, però, in mancanza di uno specifico accordo tra l’avvocato e il cliente, il compenso veniva

calcolato sulla base delle c.d. tariffe forensi, deliberate dal Consiglio nazionale forense ogni 2 anni e

approvate con decreto del Ministero della Giustizia (in realtà il termine biennale non è quasi mai stato

rispettato) .

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Nell’ambito delle tariffe si distinguevano (oltre alle spese vive) 2 differenti voci: i diritti e gli onorari.

I diritti erano i compensi dovuti per l’attività materiale svolta dal procuratore (ad es. iscrizione a ruolo,

ritiro ed esame dei provvedimenti, citazione dei testi), mentre gli onorari erano i compensi per l’attività

intellettuale svolta dall’avvocato (dall’honorarium romano), calcolati in relazione al valore della

controversia, tra un minimo ed un massimo, oltre i quali non si poteva andare.

Nel processo civile, il difensore al momento del passaggio in decisione della causa deve unire al proprio

fascicolo di parte la nota spese, indicando, secondo quanto era previsto dall’art. 75 Disp. Att. c.p.c.,

onorari e spese, con riferimento all’articolo della tariffa.

In sostanza, pertanto, il sistema delle tariffe costituiva la base per la liquidazione delle spese di lite di

soccombenza.

Tale sistema è stato modificato nel 2006 dal d.l. 4.07.2006 n. 223 (c.d. decreto Bersani), nel 2012-2013,

(per effetto del d.l. 24.01 2012 n. 1 e dalla nuova LPF) e infine nel 2014, grazie all’adozione dei nuovi

parametri professionali.

Più precisamente, legislatore è intervenuto nel 2006, con il c.d. decreto Bersani, abolendo i minimi

tariffari. Si è ritenuto, infatti, che l’imposizione di tariffe minime obbligatorie fosse una previsione

contraria al principio della libertà di concorrenza nel mercato, imposto peraltro dalla osservanza degli

obblighi comunitari.

Successivamente, per effetto dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012, tutto il sistema delle tariffe professionali

regolamentate è stato abolito, con la conseguente abrogazione implicita di quella parte delle norme

vigenti che, per i compensi del professionista, rinviano alle tariffe (quindi anche dell’art. 2233 cod. civ.).

Con l’abolizione del tariffario forense si è quindi aperto il problema relativo alle modalità di liquidazione

delle spese di lite da parte dei giudici. A tal proposito, il comma 2 dell’art. 9 del d.l. n. 1/2012 prevedeva

che, nel caso di liquidazione di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista fosse

determinato secondo i parametri stabiliti con decreto del Ministro di giustizia, che non fu adottato fino al

20 luglio 2012 (d.m. 20.07.2012 n. 140). Si pose quindi, medio tempore, il problema della disciplina

intertemporale applicabile; la tesi che è prevalsa nelle aule di tribunale, anche sulla base di una espressa

indicazione del Ministro della Giustizia Severino, è stata quella di continuare ad applicare le vecchie

tariffe forensi in via consuetudinaria, fino all’approvazione del decreto ministeriale.

Il 20 luglio 2012, il Ministero della Giustizia ha finalmente adottato il regolamento recante la

determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le

professioni regolamentate, ai sensi dell’art. 9 del D.L. 1/2012.

I criteri previsti nel d.m. n. 140/2012 sono stati aspramente contestati dagli organi dell’avvocatura, in

quanto eccessivamente restrittivi. Di conseguenza, il CNF ha presentato una nuova bozza di modifica dei

parametri, approvata dal Ministero della Giustizia e confluita nel nuovo d.m. n. 55 del

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2014"Determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi

dell'art. 13 comma 6 della legge 31 dicembre 2012 n. 247" entrato in vigore il 3 aprile 2014.

Il decreto ministeriale si compone di una parte normativa e di una parte parametrica, la quale è costituita

da 25 tabelle per il civile, ripartite a seconda del tipo specifico di procedimento (di cognizione, dinanzi al

giudice di pace, di volontaria giurisdizione, del lavoro, per la convalida locatizia etc.) e di una tabella per

l’attività stragiudiziale, di una tabella per il settore penale (nella quale è stata inserita la voce delle

indagini preliminari), e di una tabella per il diritto amministrativo.

Ogni tabella, a sua volta, è suddivisa nelle 4 fasi principali del procedimento: fase di studio della causa,

fase introduttiva, istruttoria e di trattazione, fase decisionale e, ove presente, fase esecutiva. Gli scaglioni

di valore, diversamente dal d.m. del 2012 corrispondono a quelli previsti dal ministero della giustizia per

la determinazione del contributo unificato, con una evidente razionalizzazione per gli operatori.

Il decreto, nel suo insieme, è ispirato a canoni di trasparenza, chiarezza e prevedibilità nella valutazione

dei costi della prestazione professionale, a garanzia del cittadino e di tutti gli operatori economici.

In linea con quanto previsto dall’art. 13 della LPF, i nuovi parametri sono applicabili dai giudici in caso

di liquidazione giudiziale del compenso, ma anche da tutti gli avvocati, in assenza di una

predeterminazione convenzionale del compenso con il cliente.

Il d.m. prevede aumenti significativi dei parametri rispetto al precedente decreto del 2012, in particolare, i

valori medi sono stati aumentati del 50%. Il giudice potrà discostarsi da tali valori medi, innalzandoli fino

all’80% e riducendoli fino al 50%, solamente motivando tale discostamento.

E’stato reintrodotto il rimborso delle spese forfettarie, che era stato espunto dal d.m. n. 140/2012, fissato

nella percentuale fissa del 15% per evitare discrepanze sul territorio nazionale. Al contempo, se in una

causa, l’avvocato assiste più soggetti, il compenso può essere aumentato del 20%, fino ad un massimo di

10 soggetti e del 5% per ogni soggetto oltre i primi dieci, fino ad un massimo di venti. Quando l’avvocato

assiste entrambi i coniugi in un procedimento di separazione consensuale o nel divorzio congiunto, è

prevista una maggiorazione del 20%.

Infine, è stata introdotta un’indennità di trasferta, con una disposizione innovativa rispetto al precedente

sistema.

Anche l’art. 13 della LPF fa riferimento ai parametri ministeriali come criterio generale per la

determinazione dell’onorario dell’avvocato, laddove non siano previste altre forme di accordi retributivi

con il cliente.

Gli stessi parametri sono peraltro utilizzati per la liquidazione giudiziale delle spese di lite e quando la

prestazione è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge (ad es il gratuito

patrocinio).

Il comma 3 dell’articolo in esame fa un elencazione delle modalità di compenso ammesse: il compenso a

tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base

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all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per

l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non

soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.

Negli ultimi anni, si è discusso sull’opportunità dell’obbligatorietà (o meno) che il compenso del

professionista sia fissato in un preventivo scritto, dato al cliente. Alla fine, dopo diverse proposte

legislative, è prevalsa la tesi di compromesso, secondo quanto disposto dall’art. 13 LPF. Tale norma

prevede infatti che, di regola, il compenso debba essere pattuito per iscritto e che il preventivo debba

essere fatto per iscritto solo qualora il cliente lo richieda espressamente.

In generale, il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il

livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal

momento del conferimento alla conclusione dell’incarico; l’avvocato, a richiesta del cliente, è altresì

tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura

del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale.

Il comma 4 dell’art. 13 è una norma di fondamentale importanza, in quanto reintroduce il divieto di

patto di quota lite, che in origine era previsto dall’art. 2233 u.c. c.c., successivamente abrogato dal

decreto Bersani nel 2006.

L’art. 13 comma 4 prevede espressamente il divieto dei patti con i quali l’avvocato percepisca come

compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa,

ossia il c.d. patto di quota lite.

Il patto di quota lite, risalente all’epoca di Giustiniano, è vietato da tutti gli ordinamenti giuridici

dell’Europa continentale (compreso l’ordinamento inglese di common law) per diversi motivi. Anzitutto,

tale pattuizione implica un interesse personale dell’avvocato nella causa che può essere pregiudizievole

per il diritto alla difesa; inoltre può cagionare l’insorgere di veri e propri comportamenti depredatori del

legale nei confronti del cliente. Ed infatti, il patto in questione, espone la parte al rischio di un

ingiustificato arricchimento del professionista che ottenga come compenso per la propria prestazione una

quota della res litigiosa di valore superiore rispetto all’attività lavorativa espletata.

Di fatto, la novella del 2012, pur vietando in linea di principio il patto de quo, ha dato vita a molteplici

dubbi interpretativi. In particolare, non si comprende quale sia la differenza tra il compenso in percentuale

al valore dell’affare o al beneficio ottenuto dal cliente, ammesso al comma 2 dell’art. 13 e il patto di quota

lite, vietato dal comma seguente, quando l’oggetto della lite sia proprio una somma di denaro (ad esempio

per mancato pagamento di una prestazione o un risarcimento del danno).

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9) La deontologia forense e le sue fonti

La deontologia forense, è la “scienza del dovere” dell’avvocato, ossia l’insieme delle regole di

comportamento che l’avvocato e il praticante sono tenuti ad osservare.

Si tratta di regole nate dalla prassi professionale, che nel corso del tempo sono state codificate in

norme giuridiche, la cui violazione espone a responsabilità disciplinare.

La nuova LPF prevede espressamente, all’art. 2 comma 4, la soggezione dell’avvocato alla legge e

alle regole deontologiche.

L’ordinamento deontologico è un ordinamento aperto, soggetto a continui cambiamenti, in quanto

risente della mutevolezza delle prassi professionali e dei rapporti sociali, che sono in continua

evoluzione, ne consegue che la deontologia forense è soggetta ad un processo di espansione al di là

dei propri confini più tradizionali.

Si pensi, a titolo di esempio, alle regole deontologiche nell’ambito delle ADR e, in particolar modo,

nelle procedure di mediazione, negoziazione e arbitrato.

Le fonti principali della deontologia forense sono:

a) Il codice deontologico degli avvocati, approvato dal CNF nella seduta del 31 gennaio 2014,

secondo quanto previsto dalla LPF. Il precedente codice fu adottato dal CNF nel 1997 e

modificato da ultimo nel 2008.

b) Il codice deontologico degli avvocati europei approvato con delibera del Consiglio degli

ordini forensi d’Europa nel 1988 e modificato il 19.05.2006. L’esigenza di creare un codice

degli avvocati europei è nata per effetto dell’intensificarsi delle attività professionali forensi a

livello europeo.

c) Alcune norme del codice di procedura civile e, segnatamente, quelle di cui agli artt. 88, 89 e

92 c.p.c.

d) Alcuni articoli della nuova legge professionale forense e, in particolare, gli articoli 3 e 6.

e) Norme specifiche in tema di ADR e negoziazione assistita, in particolare in ambito familiare.

Occorre esaminare brevemente gli articoli del c.p.c. e della nuova LPF per passare, successivamente,

all’analisi del codice deontologico forense.

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L’art. 88 c.p.c. prevede l’obbligo per gli avvocati di comportarsi con lealtà e probità; in caso di

violazione di tale dovere giuridico da parte dell’avvocato, il giudice deve riferirne alle autorità che

esercitano il potere disciplinare su di essi, segnalando il fatto al Consiglio dell’ordine degli avvocati.

Un’altra norma che prescrive doveri deontologici all’avvocato è rappresentata dall’art. 89 c.p.c. che vieta

l’uso di espressioni sconvenienti od offensive negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al

giudice. Questi può ordinare che siano cancellate le espressioni sconvenienti od offensive e può altresì

assegnare un risarcimento del danno, anche non patrimoniale, alla persona offesa quando tali espressioni

non riguardino l’oggetto della causa.

Passando all’esame della LPF, occorre anzitutto fare riferimento all’art. 3 rubricato “doveri e

deontologia”. I primi 2 commi di tale norma stabiliscono i principi sui quali si deve fondare l’attività

dell’avvocato: autonomia, indipendenza, lealtà, probità (principi già richiamati dall’art. 88 c.p.c.), dignità,

decoro, diligenza e competenza.

I commi 3 e 4, invece, rinviano espressamente al codice deontologico, emanato dal CNF, ai sensi degli

artt. 35 comma I, lettera d) e 65 comma 5 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Il fatto

che la nuova LPF riconosca espressamente il codice deontologico è la testimonianza del carattere

normativo dello stesso. Si tratta di una novità perché, in passato, la natura normativa del codice

deontologico non aveva un fondamento legislativo, ma era riconosciuta esclusivamente a livello

giurisprudenziale.

Il codice stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare in via generale e,

specificamente, nei rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e professionisti.

Il codice contiene norme deontologiche di carattere generale la cui violazione non dà luogo ad alcun

provvedimento disciplinare e norme, poste a tutela dell’interesse pubblico al corretto esercizio della

professione, la cui trasgressione è fonte di responsabilità disciplinare.

Queste ultime norme devono essere caratterizzate dal principio della tipizzazione della condotta e devono

contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile (previsione che ricalca la struttura delle norme

incriminatrici del diritto penale).

Infine, il comma 4 dell’art. 3 stabilisce i principi di pubblicità e accessibilità del codice deontologico,

secondo quanto previsto da un apposito decreto del Ministero della Giustizia.

L’art. 6 della LPF stabilisce uno dei principali doveri deontologici dell’avvocato: il dovere di

segretezza professionale, previsto anche dall’art. 13 del nuovo codice deontologico forense.

Il dovere di segretezza professionale è un aspetto fondamentale del rapporto fiduciario che s’instaura con

il cliente, e serve proprio a garantirne la difesa.

A tal fine, l’avvocato è soggetto al segreto professionale verso terzi, nell’interesse del cliente, ed è

obbligato altresì a tenere il massimo riserbo su tutti i fatti e le circostanze apprese nell’attività di

rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e

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assistenza stragiudiziale. Al dovere di segretezza sono tenuti anche i praticanti, i dipendenti e tutti i

collaboratori anche occasionali dell’avvocato, che quindi è tenuto ad adoperarsi affinché non vi siano

fughe di notizie dallo studio. La violazione del dovere in esame da parte dell’avvocato è sanzionata in via

disciplinare; invece la violazione di tale dovere da parte dei collaboratori dello stesso dà diritto allo

scioglimento immediato, per giusta causa, del rapporto di dipendenza o collaborazione professionale.

La tutela della segretezza professionale è garantita anche penalmente, atteso che la rivelazione di segreto

professionale costituisce un reato punibile a querela della persona offesa, ex art. 622 c.p.

In armonia con tale disposizione, l’art. 6 comma 3 LPF esclude, salve eccezioni previste dalla legge,

l’obbligo per gli avvocati e i suoi dipendenti e collaboratori di deporre in giudizio su circostanze sulle

quali siano venuti a conoscenza in ragione dell’attività professionale, di dipendenza o collaborazione

esercitata.

La facoltà di astensione dalla testimonianza per l’avvocato è prevista anche dall’art. 200 c.p.p., a

norma del quale gli avvocati non possono essere obbligati a deporre su quanto abbiano conosciuto per

ragione del proprio ministero ufficio o professione, salvi casi eccezionali in cui abbiano l’obbligo di

riferirne all’autorità giudiziaria. Il comma 2 prevede tuttavia che il giudice, qualora abbia motivo di

dubitare che la dichiarazione resa per esimersi dal deporre sia infondata, provveda agli accertamenti

necessari e nel caso ordini al testimone di deporre.

Nel processo civile, la medesima facoltà di astensione dalla testimonianza è prevista dall’art. 249 c.p.c.

che rinvia all’art. 200 c.p.p.

Vi sono delle ipotesi eccezionali nelle quali viene meno il dovere di segretezza, ai sensi dell’art. 28 del

codice deontologico, ossia quando la divulgazione di quanto appreso sia necessaria:

a) per lo svolgimento dell’attività di difesa;

b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità;

c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita (ad esempio

il mancato pagamento della parcella);

d) nell’ambito di una procedura disciplinare.

In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato.

Infine, costituisce una deroga al dovere di segretezza la normativa antiriciclaggio, di origine comunitaria,

in virtù della quale il professionista è tenuto a segnalare all’autorità competente le operazioni sospette dei

propri clienti.

Nonostante alcune regole di natura deontologica contenute nel codice di procedura civile, la principale

fonte della deontologia forense è certamente il codice deontologico approvato dal CNF nel lontano 1997 e

modificato da ultimo nel 2008. La LPF prevede espressamente che entro un anno dalla sua entrata in

vigore, il CNF emanerà un nuovo codice deontologico e che le norme contenute nel previgente codice

siano pertanto abrogate.

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Il CNF, nella seduta del 31 gennaio 2014, ha approvato il nuovo codice deontologico, che è stato

presentato ai Presidenti degli ordini il 19 febbraio 2014 ed è entrato in vigore 60 giorni dopo la sua

pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, avvenuta in data 16 ottobre 2014.

Il codice deontologico è un regolamento interno alla categoria, che ha forza vincolante per tutti gli

avvocati e i praticanti e nella gerarchia delle fonti del diritto è una fonte secondaria di produzione.

Il nuovo codice si compone di 73 articoli raccolti in sette titoli:

il primo (artt. 1-22) individua i principi generali;

il secondo (artt. 23-37) è riservato ai rapporti con il cliente e la parte assistita;

il terzo (artt. 38-45) si occupa dei rapporti tra colleghi;

il quarto (artt. 46-62) attiene ai doveri dell’avvocato nel processo;

il quinto (artt. 63-68) concerne i rapporti con terzi e controparti;

il sesto (artt. 69-72) concerne i rapporti con le Istituzioni forensi;

il settimo (art. 73) contiene la disposizione finale, secondo la quale il codice entra in vigore

decorsi 60 giorni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Il codice precedente, invece, era costituito da 60 articoli, suddivisi in 5 titoli, oltre al preambolo, che

enunciava i valori sui quali si fonda l’attività dell’avvocato. I 5 titoli del codice erano:

titolo I: principi generali (doveri di lealtà, verità, diligenza, difesa, segretezza, indipendenza,

competenza, aggiornamento professionale …);

titolo II: rapporti con i colleghi;

titolo III: rapporti con la parte assistita;

titolo IV: rapporti con la controparte, i magistrati ed i terzi;

titolo V: art. 60: norma di chiusura.

Appare rilevante l’inversione, rispetto all’attuale codice, tra il titolo II (Rapporti con i colleghi) ed il III

(Rapporti con il cliente e la parte assistita) nel senso di dare precedenza a quest’ultimo, per sottolineare

la vocazione pubblicistica dell’attività dell’avvocato, come spiegato dal CNF, in quanto diretta a garantire

il diritto alla difesa ex art. 24 Cost.

Sono inoltre stati introdotti due nuovi titoli dedicati ai Doveri dell’avvocato nel processo e ai Rapporti

con le istituzioni forensi. Il primo titolo riunisce tutte quelle previsioni deontologiche che attengono alla

tipicità della funzione difensiva e che erano disseminate in diverse parti del vecchio codice. Il secondo

invece rafforza la responsabilità disciplinare dell’avvocato, in relazione ai rapporti istituzionali.

Tra le altre novità di struttura si segnala un impianto più moderno, che tiene conto non solo della

giurisprudenza che si è formata in materia deontologica dal 1997 ad oggi, ma anche delle previsioni

disciplinari sparse in diversi testi legislativi.

Gli obiettivi del nuovo codice deontologico sono:

tutelare l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione;

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sottolineare lo specifico ruolo dell’avvocato nella tutela del diritto costituzionale di difesa;

valorizzare la funzione sociale della difesa;

tutelare l’autonomia e l’indipendenza dell’ Avvocato;

garantire il principio di legalità;

Le principali novità sono:

la tendenziale tipizzazione delle condotte che integrano illecito disciplinare. Il codice previgente,

invece, conteneva solo delle esemplificazioni di comportamenti non corretti, senza una vera e

propria lista di illeciti e senza collegarli a specifiche sanzioni;

la predeterminazione della sanzione specifica per ogni tipo di illecito disciplinare con meccanismi

di aggravamento e attenuazione;

la revisione delle condotte rilevanti tenendo conto della giurisprudenza (ad esempio in tema di

pubblicità informativa si registrano numerose pronunce, anche a Sezioni Unite, della Corte di

Cassazione).

Il nuovo codice deontologico promuove la correttezza dei comportamenti degli avvocati fuori e dentro il

processo, tutelando l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione.

Inoltre, il codice è innovativo rispetto al precedente, in quanto assicura agli avvocati la conoscibilità

preventiva delle condotte tendenzialmente rilevanti disciplinarmente e le sanzioni collegate.

Queste garanzie sono la conseguenza del principio di tendenziale tipizzazione degli illeciti disciplinari

e della previsione di sanzioni, che caratterizzano il nuovo codice deontologico, in armonia con quanto

previsto dalla LPF del 2012.

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43

9.1) Breve esame dei principi generali di cui al Titolo I del codice deontologico

L’avvocato (art. 1)

L’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando,

nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio.

L’avvocato, nell’esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità delle leggi ai principi della

Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché, di

quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a tutela e

nell’interesse della parte assistita.

Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela dell'affidamento della collettività e

della clientela, della correttezza dei comportamenti, della qualità ed efficacia della prestazione

professionale.

Si tratta di una norma completamente nuova, assente nel codice precedente, come anche le norme

contenute negli artt. 2 e 3.

Norme deontologiche e ambito di applicazione (art. 2)

Le norme deontologiche si applicano a tutti gli avvocati nella loro attività professionale, nei reciproci

rapporti e in quelli con i terzi (ad esempio nei rapporti con i CTU, con i magistrati, con i mediatori, con

gli arbitri etc.); si applicano anche ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la

reputazione personale o l’immagine della professione forense.

I praticanti sono soggetti ai doveri e alle norme deontologiche degli avvocati e al potere disciplinare degli

Organi forensi.

Attività all’estero e attività in Italia dello straniero (art. 3)

Nell’esercizio di attività professionale all’estero l’avvocato italiano deve rispettare le norme

deontologiche interne, nonché quelle del Paese in cui viene svolta l’attività.

L’avvocato straniero, nell’esercizio dell’attività professionale in Italia, è tenuto al rispetto delle norme

deontologiche italiane.

Tale norma ricalca la formulazione del previgente codice, se non per il comma 2 laddove introduce una

disciplina ad hoc nel caso di conflitti fra le due normative applicabili, prevedendo che prevalga quella

del Paese ospitante, purché non confliggente con l’interesse pubblico al corretto esercizio dell’attività

professionale.

Dovere di evidenziare incompatibilità (art. 6)

L’avvocato deve dichiarare, immediatamente al momento dell’iscrizione all’albo o quando insorgono, le

eventuali cause d’incompatibilità, pena l’esposizione a responsabilità disciplinare.

Doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le Istituzioni forensi (art. 19):

anche il dovere di lealtà compare nella formula del giuramento, così come anche nell’art. 88 c.p.c.

(dovere di lealtà e probità cui sono soggetti le parti e i loro difensori).

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La norma è stata riformulata rispetto al vecchio art. 6 in quanto i doveri in esame sono stati circoscritti ai

rapporti con i colleghi e le istituzioni forensi.

Doveri di probità, dignità e decoro e indipendenza (art. 9)

Si tratta di doveri di carattere generale, la cui importanza emerge anche in considerazione del fatto che

sono presenti nella formula di rito del giuramento iniziale che, ormai, non si tiene più in udienza pubblica,

bensì davanti al Consiglio dell’ordine. Moltissime infrazioni disciplinari sono riconducibili alla

trasgressione di tali doveri generali. Rispetto al previgente art. 5 occorre segnalare l’ingresso del requisito

dell’indipendenza che nel precedente codice invece era contenuta nell’art. 10. L’avvocato deve essere

indipendente da qualsiasi influenza e, in particolare, dal potere politico, da organizzazioni commerciali e

dallo stesso cliente e ciò risponde all’esigenza di una maggiore garanzia del diritto alla difesa

dell’assistito.

Dovere di fedeltà (art. 10)

Consiste nel rispetto della posizione del proprio assistito e nel dovere di non arrecargli alcun pregiudizio.

Nella nuova formulazione della norma viene dato risalto al rilievo costituzionale e sociale dell’attività di

difesa dell’avvocato, rispetto al vecchio art. 7.

Dovere di diligenza (art. 12):

la diligenza è un criterio generale previsto dal codice civile per valutare molteplici condotte, come quelle

del debitore e del professionista ex art. 1176 c.c., del conduttore ex art. 1587 c.c., del mandatario ex art.

1710 c.c. etc. Anche l’avvocato, quale professionista, è tenuto al dovere di diligenza che, in sostanza, è

l’insieme delle cautele che deve osservare per svolgere correttamente la propria attività e la cui mancanza

può dar luogo a responsabilità professionale.

Dovere di segretezza e riservatezza (art. 13):

si veda il paragrafo precedente.

Dovere di competenza e aggiornamento professionale e di formazione continua (artt. 14 e 15):

è dovere dell’avvocato assumere la difesa solo nell’ambito delle materie di cui è competente, dovendo al

contrario rifiutare l’incarico. L’accettazione di un determinato incarico professionale fa sempre presumere

la competenza a svolgere lo stesso. Al fine di garantire la qualità delle prestazioni professionali e

competenze, l’avvocato è tenuto all’obbligo di aggiornamento professionale, anche in considerazione dei

continui mutamenti legislativi e giurisprudenziali.

Dovere di adempimento previdenziale e fiscale (art. 16):

gli avvocati sono tenuti ad una serie di adempimenti fiscali e previdenziali nei confronti della c.d. Cassa

forense. In caso d’infedele o ritardata comunicazione degli obblighi in questione sono previste sanzioni

disciplinari.

Informazione sull’esercizio professionale (artt. 17):

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L’art. 17 del codice deontologico consente l’esercizio di pubblicità c.d. informativa dell’avvocato. Si

tratta di una disposizione che nella previgente formulazione è stata modificata diverse volte.

In origine, esisteva il generale divieto per gli avvocati di farsi pubblicità, atteso che la professione forense

non ha natura commerciale e che si è sempre ritenuto che l’attività pubblicitaria contrastasse con il decoro

e la dignità professionali.

Successivamente, si è sviluppato un dibattito in merito alla possibilità di consentire agli avvocati di farsi

pubblicità, in un’ottica di promozione della concorrenza nel mercato, così giungendo con il decreto n.

223/2006 (decreto Bersani) al riconoscimento del diritto degli avvocati di pubblicizzare esclusivamente le

proprie specializzazioni professionali e i propri titoli, sempre però secondo criteri di trasparenza e

veridicità.

L’art. 10 della nuova LPF, che ha una formulazione speculare a quella dell’art. 17 del Codice

deontologico, segue la ratio della novella del 2006, consentendo all’avvocato di fare della pubblicità,

chiamata appunto informativa, sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e la struttura dello

studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli professionali e scientifici posseduti.

Lo scopo della norma è quindi quello di consentire la diffusione d’informative utili ai possibili clienti,

evitando però la mera pubblicità commerciale, ritenuta tradizionalmente offensiva del decoro

professionale.

Il comma 2 dell’art. 10 vieta invece la c.d. pubblicità comparativa in ambito forense, nonché le pubblicità

ingannevoli, denigratorie, suggestive ed equivoche.

La violazione di tali disposizioni fa sorgere la responsabilità disciplinare per l’avvocato.

L’art. 10 tace sulla pubblicità relativa ai prezzi e costi della prestazione professionale, che era stata

ammessa dal decreto Bersani, nell’ottica di favorire la concorrenza nel mercato. Rimane quindi aperta la

questione dell’ammissibilità di tale forma di pubblicità, anche se, alla luce della recente giurisprudenza e

delle pronunce del CNF, sembra che sia ammissibile, purché improntata a canoni di decoro professionale

e veridicità.

Sul tema specifico sono intervenute, con la sentenza 10.08.2012 n. 14368, le SU della Corte di

Cassazione che hanno confermato la decisione con la quale il CNF aveva sanzionato alcuni avvocati per

avere aperto uno studio sulla pubblica via, con la suggestiva insegna “L’angolo dei diritti”, reclamizzando

le proprie tariffe a forfait mediante adesivi, senza indicazione alcuna dell’importanza e della durata della

pratica. La decisione del CNF di sanzionare il comportamento degli avvocati, in quanto lesivo della

dignità e del decoro professionali, è stata ritenuta dalle SU ragionevole e quindi insindacabile.

L’art. 35 (Dovere di corretta informazione) del codice completa la disciplina sulla pubblicità

informativa prevedendo che: “l’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale deve

rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso

riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.

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L’avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti né equivoche, ingannevoli,

denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività

professionale.

L’avvocato, nel fornire informazioni, deve in ogni caso indicare il titolo professionale, la denominazione

dello studio e l’Ordine di appartenenza.

L’avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo se sia o sia stato docente universitario di

materie giuridiche; specificando in ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento”.

L’iscritto nel registro dei praticanti può usare esclusivamente e per esteso il titolo di “praticante

avvocato”, con l’eventuale indicazione di “abilitato al patrocinio” qualora abbia conseguito tale

abilitazione.

Non è consentita l’indicazione di nominativi di professionisti e di terzi non organicamente o direttamente

collegati con lo studio dell’avvocato.

L’avvocato non può utilizzare nell’informazione il nome di professionista defunto, che abbia fatto parte

dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento,

ovvero non vi sia il consenso unanime degli eredi.

Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti

assistite, ancorché questi vi consentano.

Oggetto di particolare dibattito è stato il tema della pubblicità informativa su internet, che deve essere

improntata ai criteri di dignità e decoro della professione, pena l’applicazione della sanzione disciplinare

della censura.

A tal proposito, il comma 9 dell’art. 35, nella sua formulazione originaria, prevedeva la facoltà da parte

dell’avvocato “di utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza

reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati

alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del

contenuto del sito stesso”.

Inoltre, il successivo comma 10, disponeva che: “l’avvocato è responsabile del contenuto e della

sicurezza del proprio sito, che non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante

l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito.” (ad esempio

banners o links a siti commerciali).

L’articolo 35 è stato oggetto di un aspro scontro tra l’Antitrust (Autorità Garante della concorrenza e del

Mercato) e il CNF, con riferimento al tema della liceità dell’utilizzo da parte degli avvocati di piattaforme

digitali pubblicitarie (come nel noto caso della piattaforma denominata Amica Card).

A tal proposito, il CNF, con una interpretazione formale della norma in questione, ha sanzionato gli

avvocati che avevano utilizzato piattaforme digitali pubblicitarie perché lesive del decoro della

professione e soprattutto del divieto di accaparramento di clientela ex art. 37 del codice deontologico.

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L’Antitrust, con due decisioni (l’una dell’ottobre 2014, l’altra del giugno 2015), ha condannato il CNF,

ritenendo lesivo della concorrenza il parere n. 48/2012 emesso dallo stesso con riguardo proprio al

divieto di utilizzazione di piattaforme pubblicitarie (quali Amica Card).

In punto, l’Authorithy, ha affermato che, con il citato parere, il CNF aveva introdotto una restrizione della

concorrenza tra i professionisti, impedendo loro di utilizzare piattaforme digitali che costituiscono un

mezzo idoneo per fornire agli avvocati nuove opportunità professionali, offrendo una maggiore capacità

di attrattiva della clientela rispetto alle tradizionali forme di comunicazione pubblicitaria.

Nello stesso provvedimento dell’ottobre 2014, l’Autorità ha criticato aspramente la distinzione, fatta

propria dal CNF, tra pubblicità su siti internet con nomi di dominio propri (ritenuta dal Consiglio

nazionale legittima) e pubblicità su siti messi a disposizione di terzi, che per il CNF è vietata, in quanto

lesiva dell’art. 35 comma 9 del vigente codice deontologico.

Nonostante l’invito dell’Antitrust a revocare detto parere e a non porre in essere, in futuro, comportamenti

analoghi a quelli oggetto dell’infrazione accertata, il CNF non si è adeguato, perpetrando un illecito

anticoncorrenziale, in quanto non ha consentito agli avvocati di farsi pubblicità come tutti gli altri

imprenditori. A tal proposito, secondo la consolidata giurisprudenza comunitaria e nazionale, i

professionisti, ai fini dell’applicazione delle norme in materia di concorrenza, sono equiparabili alle

imprese, sicché una disparità di trattamento rispetto a queste ultime non sarebbe ragionevolmente

giustificabile.

La decisione dell’Authority è da considerarsi senz’altro espressione di quella visione europeistica che

ritiene la supremazia del mercato e della concorrenza sulle regole poste a tutela del decoro e della dignità

della professione forense, così come originariamente intesa.

Successivamente, il CNF ha impugnato la decisione dell’Antitrust al Tar Lazio, che ha ridotto la sanzione

inizialmente inflitta di euro 912.000,00 alla metà circa.

Di recente, però, il Consiglio di Stato, con la sentenza del 22.3.2016 n. 1164, ha riconfermato la multa

quasi milionaria per il CNF.

Nel frattempo, il CNF, ha deciso di adeguarsi all’orientamento dell’Antitrust, modificando l’art. 35 del

codice deontologico con l’abrogazione dei commi 9 e 10 e aprendo alla pubblicità per gli avvocati “quale

che sia il mezzo utilizzato per rendere le informazioni”, quindi anche con piattaforme digitali o con siti

web con reindirizzamento, purché siano rispettati i doveri di verità, correttezza, trasparenza e decoro.

L’abrogazione del comma 10 dovrebbe avere fugato ogni dubbio sulla liceità dell’inserimento di link o

banners pubblicitari ad operatori commerciali (come ad esempio nel caso dell’avvocato chiamato a

partecipare e/o ad organizzare convegni sponsorizzati da soggetti esercenti attività commerciale che a loro

volta siano richiamati con link o banner nel sito dell’avvocato organizzatore e nel programma

dell’evento).

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Tuttavia, resta comunque il dubbio se detta prassi possa considerarsi rispettosa del decoro e della dignità

professionali, circostanza questa che dovrà essere accertata alla luce delle specificità del caso concreto.

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9.2) Breve esame del Titolo II (i rapporti con il cliente e la parte assistita):

Il titolo II è dedicato ai rapporti con il cliente e la parte assistita, che devono fondarsi essenzialmente su 2

principi: la fiducia e l’autonomia. La fiducia implica lealtà e chiarezza tra cliente e avvocato, mentre

l’autonomia richiede che l’avvocato difenda gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile,

sempre però nel rispetto della legge e dei doveri deontologici.

L’avvocato non può assecondare eventuali ordini del cliente o richieste di procedere ad iniziative

giudiziarie fallimentari, illecite o pretestuose, al contrario deve consigliare il cliente in totale autonomia,

in modo da garantire la massima difesa dei suoi interessi. Qualora il difensore consigli azioni contro gli

interessi della parte potrà essere accusato di patrocinio infedele.

Se non vi è coincidenza di vedute tra le scelte professionali dell’avvocato e il cliente, è sempre possibile

rinunciare al mandato o revocarlo.

Rispetto all’abrogato codice viene meglio definito, all’art. 23 (rubricato conferimento dell’incarico), il

momento della nascita del rapporto professionale, con gli obblighi informativi che ne conseguono

(prevedibile durata della causa, gli oneri conseguenti, il preventivo scritto se richiesto dal cliente, gli

estremi della polizza assicurativa dell’avvocato, la possibilità di avvalersi della mediazione), e della libera

pattuizione del compenso, secondo quanto già previsto dalla LPF. L'avvocato non deve consigliare azioni

inutilmente gravose e deve emettere documento fiscale ad ogni versamento ricevuto.

L’avvocato, ai sensi dell’art. 24 è sempre obbligato ad astenersi dal prestare attività professionale quando

questa determini un conflitto con gli interessi del proprio assistito o interferisca con lo svolgimento di un

altro incarico professionale. La ratio della norma è quella di evitare che l’avvocato non garantisca una

adeguata difesa del proprio cliente, in ragione di un conflitto d’interessi che deve essere attuale e concreto

e non meramente potenziale e virtuale.

L’art. 25, dedicato agli accordi sul compenso professionale, ribadisce i principi già espressi dall’art. 13

della LPF (possibilità di tariffazione a tempo, forfettaria, a percentuale sul valore dell’affare, divieto di

patto di quota lite).

L’art. 26 è dedicato all’inadempimento al mandato professionale, fonte di responsabilità disciplinare

quando l’inadempimento derivi da particolare negligenza e trascuratezza. La casistica è ampia: mancata

assunzione d’iniziative, prescrizione di diritti cagionata dall’omissione di azioni giudiziarie per inattività,

negligenze varie nell’esercizio dell’attività professionale etc.

Anche il difensore d’ufficio è tenuto a comportarsi con diligenza e sollecitudine, in base all’art. 26

comma 4. Ove questi sia impedito a partecipare a singole attività processuali deve darne tempestiva e

motivata comunicazione all’autorità procedente o incaricare della difesa un collega, il quale, ove accetti, è

considerato responsabile dell’adempimento dell’incarico.

L’avvocato è tenuto ad osservare specifici obblighi d’informazione, ex art. 27. In particolare, è obbligato

ad informare il cliente circa le caratteristiche e l’importanza della controversia, la durata presumibile del

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processo, nonché i presumibili costi. Spesso la mancanza d’informazione nasconde delle lacune nello

svolgimento dell’attività difensiva.

E’ dovere fondamentale dell’avvocato quello di mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività

prestata, e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle

delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato ex art. 28.

L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso,

rinunciato o non accettato.

Inoltre, l’avvocato deve adoperarsi affinché il rispetto del segreto professionale e del massimo riserbo sia

osservato anche da dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori, anche occasionali, in relazione a fatti

e circostanze apprese nella loro qualità o per effetto dell’attività svolta.

L’art. 29 disciplina il pagamento dell’avvocato che, deve sempre essere ispirato ai canoni di

proporzionalità e adeguatezza all’attività esercitata. In base al codice deontologico, l’avvocato può

sempre richiedere, durante lo svolgimento del rapporto professionale, la corresponsione di anticipi per il

pagamento delle spese processuali e acconti sulle prestazioni professionali. Sarà onere dell’avvocato

tenere la contabilità delle spese sostenute e degli acconti ricevuti. E’ vietato chiedere compensi

manifestamente sproporzionati all’attività svolta.

L’avvocato può agire giudizialmente nei confronti del cliente per il mancato pagamento delle proprie

prestazioni professionali, previa rinuncia al mandato.

L’avvocato è anche tenuto a gestire correttamente il denaro ricevuto dal proprio assistito e a renderne

conto. Costituisce un’infrazione disciplinare il trattenimento, oltre il tempo strettamente necessario, di

somme ricevute per conto della parte assistita.

L’avvocato è inoltre obbligato a restituire alla parte assistita, senza ritardo, tutta la documentazione

ricevuta per l’espletamento del mandato, qualora questa ne faccia richiesta, cioè (in sostanza) quando

abbia nominato un nuovo legale.

Il difensore, d’altra parte, ha diritto di trattenere copia della documentazione, anche senza il consenso del

cliente, ad esempio quando ciò sia necessario per la liquidazione del proprio compenso.

Infine, l’art. 36 disciplina il divieto di accaparramento di clientela (art. 19 precedente codice): è

ritenuta lesiva del decoro e della dignità professionale la condotta dell’avvocato che ha il fine immediato

e diretto di acquistare clientela. La casistica è ampia: avvocati che distribuiscono volantini nelle carceri,

negli ospedali, alle vittime d’incidenti stradali etc.

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9.3) Breve esame del Titolo III (i rapporti con i colleghi):

Il Titolo II del vecchio codice diventa il Titolo III del nuovo, in modo da attribuire un rilievo preminente

ai rapporti con la parte assistita, oggi confluiti nel Titolo II. La ratio della diversa collocazione risiede

nella esigenza di sottolineare la funzione sociale e il rilievo costituzionale dell’attività dell’avvocato,

diretta a garantire il diritto alla difesa.

Il titolo III del codice disciplina i rapporti tra colleghi, che devono essere ispirati ai doveri di correttezza

e lealtà, sia nell’ambito dell’attività giudiziale, sia in generale.

Il dovere di colleganza si piega dinanzi al dovere di difesa del proprio cliente, nel senso che l’avvocato

non può mai subordinare gli interessi della parte ad un atteggiamento benevolo verso il collega.

E’ espressione del dovere di colleganza in esame la previsione dell’art. 38 (art. 22 del previgente codice),

che dispone l’obbligo dell’avvocato che voglia promuovere un giudizio nei confronti del collega di

dargliene preventiva notizia.

E’ inoltre vietato registrare le conversazioni telefoniche con i colleghi o riportare in atti processuali o

riferire in giudizio il contenuto di colloqui intercorsi con i colleghi.

Gli 39 e 40 (articoli 25 e 26 del precedente codice) disciplinano i rapporti con i collaboratori di studio e

con i praticanti, prevedendo, tra l’altro, il diritto dei collaboratori e dei praticanti (per questi ultimi, solo

dopo il primo semestre di pratica) ad una compenso proporzionale all’apporto professionale fornito allo

studio.

Con riferimento ai praticanti, inoltre, l’art. 40 prevede che l’avvocato sia tenuto ad assicurare l’effettività

e la proficuità della pratica forense al fine di consentire un’adeguata formazione.

L’art. 41 detta una disciplina specifica dei rapporti tra l’avvocato e la controparte assistita da un collega,

dettando un divieto generale per l’avvocato di mettersi in contatto diretto con la controparte, bypassando

l’avvocato che la assiste.

L’art. 42 (art. 29 del codice previgente) invece riguarda le notizie sui colleghi, prevedendo il divieto per

l’avvocato di esprimere apprezzamenti denigratori sull’attività del collega. Inoltre, è vietata la esibizione

in giudizio di documenti che riguardino la posizione personale del collega o l’utilizzazione strumentale di

notizie relative alla sua persona, salvo che ciò sia attinente alla controversia specifica (ad esempio in una

causa di divorzio).

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9.4) Breve esame del Titolo IV (doveri dell’avvocato nel processo):

Si tratta di un titolo nuovo la cui introduzione risponde ad una esigenza di sistematizzazione di norme

sparse in diversi ambiti. Tra le novità più salienti si segnala l’introduzione dell’art. 56, dedicato

all’ascolto del minore e la facoltà dell’avvocato di effettuare notifiche in proprio, ex art. 58.

In base all’art. 46 (dovere di difesa nel processo e rapporto di colleganza), l’avvocato, nell’attività

giudiziale, deve ispirare la propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per

quanto possibile, il rapporto di colleganza.

L’avvocato deve rispettare la puntualità sia in sede di udienza che in ogni altra occasione di incontro con

colleghi; la ripetuta violazione del divieto costituisce illecito disciplinare.

L’avvocato deve opporsi alle istanze irrituali o ingiustificate che, formulate nel processo dalle controparti,

comportino pregiudizio per la parte assistita.

Il difensore nominato di fiducia deve comunicare tempestivamente al collega, già nominato d’ufficio,

l’incarico ricevuto e, senza pregiudizio per il diritto di difesa, deve sollecitare la parte a provvedere al

pagamento di quanto dovuto al difensore d’ufficio per l’attività svolta.

L’avvocato, nell’interesse della parte assistita e nel rispetto della legge, collabora con i difensori delle

altre parti, anche scambiando informazioni, atti e documenti.

L’avvocato, nei casi di difesa congiunta, deve consultare il codifensore su ogni scelta processuale e

informarlo del contenuto dei colloqui con il comune assistito, al fine della effettiva condivisione della

difesa.

Ai sensi dell’art. 47, l’avvocato deve dare tempestive istruzioni al collega corrispondente e questi, del

pari, è tenuto a dare al collega sollecite e dettagliate informazioni sull’attività svolta e da svolgere.

L’elezione di domicilio presso un collega deve essergli preventivamente comunicata e da questi essere

consentita.

L’art. 48 prevede il generale divieto di produrre la corrispondenza riservata e comunque che contenga

proposte transattive. La ratio è quella di evitare la produzione in giudizio di corrispondenza nella quale

vengano ammessi fatti che possano pregiudicare il diritto alla difesa del proprio assistito e l’eventuale

buon esito della causa.

E’ invece producibile in giudizio la corrispondenza tra colleghi quando sia stato perfezionato un accordo

o che assicuri l’adempimento delle prestazioni richieste, in quanto ormai l’accordo transattivo è stato

raggiunto.

L’art. 50 prevede il dovere di verità che nel previgente codice, invece, era collocato nei principi generali.

In attuazione di tale dovere, l’avvocato non può introdurre nel procedimento prove o elementi di prova,

dichiarazioni o documenti che sappia essere falsi, non deve utilizzare nel procedimento prove o elementi

di prova, dichiarazioni o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda

essere falsi. Qualora egli apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove o

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elementi di prova, dichiarazioni o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli e

deve rinunciare al mandato. L’obbligo di rinuncia al mandato non sussiste se produzione o introduzione

avvengano ad opera di parte diversa dal proprio assistito.

Inoltre, è vietato al difensore impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti

in giudizio.

L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di

cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del

magistrato.

Normalmente, l’avvocato deve astenersi dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone,

su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti, perché è tenuto

all’obbligo di segretezza.

Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il

mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo.

E’ previsto dall’art. 52 del codice il divieto di uso di espressioni sconvenienti ed offensive negli atti

giudiziali e nell’esercizio dell’attività professionale , in analogia con quanto disposto dall’art. 89 c.p.c.

Gli artt. 53, 54 e 55 disciplinano i rapporti con i magistrati, gli arbitri, i conciliatori, i mediatori, i periti, i

consulenti tecnici, i testimoni e le persone informate sui fatti.

L’art. 53 regola i rapporti con i magistrati, che devono essere improntati alla dignità e al rispetto che si

convengono alle reciproche funzioni. Occorre mantenere un comportamento rispettoso, evitando

interventi confidenziali o eccessivamente diretti. L’avvocato non può approfittare di eventuali rapporti di

amicizia, familiarità o confidenza per ottenere favori o preferenze dai magistrati. Salvo casi particolari,

l’avvocato non può discutere nel giudizio civile in corso con il giudice del processo, senza la presenza del

legale avversario, perché verrebbe frustrato il principio del contraddittorio.

Qualora l’avvocato svolga le funzioni di magistrato onorario, deve attenersi agli obblighi inerenti le

funzioni giudiziarie svolte.

Anche i rapporti con gli arbitri, i consulenti tecnici (CTU e consulenti di parte), i periti, i mediatori etc

devono essere improntati a canoni di correttezza e lealtà, nel rispetto delle reciproche funzioni, ex art. 54.

Con riferimento ai rapporti con i testimoni, l’avvocato deve assumere, per quanto possibile, una posizione

di neutralità. L’art. 55 prevede, infatti, che l’avvocato debba evitare di intrattenersi con i testimoni sulle

circostanze oggetto del procedimento, con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni

compiacenti.

Le ultime disposizioni riguardano il rispetto del calendario del processo civile, la cui violazione è fonte

d’illecito disciplinare e l’astensione dalle udienze, qualora sia proclamata dagli organi forensi.

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A tal fine, l’avvocato che eserciti il proprio diritto di non aderire alla astensione deve informare con

congruo anticipo gli altri difensori costituiti. Inoltre, è fatto divieto di aderire o dissociarsi dalla

proclamata astensione a seconda delle proprie contingenti convenienze.

L’avvocato che aderisca all’astensione non può dissociarsene con riferimento a singole giornate o a

proprie specifiche attività né può aderirvi parzialmente, in certi giorni o per particolari proprie attività

professionali.

Conclude il titolo l’art. 62, dedicato all’avvocato che svolga l’attività di mediatore.

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9.5) Breve esame del Titolo V (i rapporti con i terzi e controparti):

Il titolo V regola i rapporti dell’avvocato con la controparte e i terzi.

L’art. 63 prevede che l’avvocato, anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero, debba comportarsi, nei

rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento

dei terzi. Inoltre, l’avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso anche nei confronti dei

propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali venga in contatto

nell’esercizio della professione.

La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare

dell’avvertimento.

L’art. 64 prevede l’obbligo deontologico dell’avvocato di adempimento delle obbligazioni assunte nei

confronti dei terzi. Il mancato assolvimento delle pretese creditorie, infatti mina la fiducia nella serietà e

affidabilità del difensore e può creare discredito a tutta la classe forense, qualora raggiunga proporzioni di

una certa entità.

L’art. 65 riguarda la minaccia di azioni alla controparte: è consentito comunicare alla controparte che

l’inadempimento di determinate prestazioni sarà seguito da eventuali azioni giudiziarie, istanze

fallimentari, denunce o altre sanzioni. E’ invece assolutamente vietato minacciare la controparte di dare

inizio ad azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie ovvero di aggravare senza motivo la posizione

debitoria della controparte con onerose o plurime iniziative giudiziali, ex art. 66.

E’ vietato, ad esempio, moltiplicare le iniziative giudiziarie fondate su un’unica obbligazione fonte del

credito, qualora non rispondano ad alcun interesse del creditore e quindi abbiano come finalità precipua

quella di arrecare un danno al debitore (è il caso dell’avvocato che proponga contro lo stesso soggetto,

molteplici ricorsi per decreto ingiuntivo, basati tutti su uno stesso debito, al posto che un unico ricorso per

decreto ingiuntivo di valore corrispondente al credito, con un’inutile e dannosa duplicazione di spese per

il debitore).

Proseguendo nell’esame del titolo V, l’art. 67 dispone che il compenso professionale debba normalmente

essere pagato dal proprio assistito e non dalla controparte, salvo che questa abbia perso la lite

(soccombenza) o che vi sia stata una transazione nel corso del giudizio o che vi sia stata una specifica

pattuizione tra le parti.

Il codice deontologico, all’art. 68, vieta normalmente l’assunzione d’incarichi professionali contro ex

clienti, visto il rapporto di fiducia esistito. D’altra parte, è possibile l’assunzione di tali incarichi qualora

sussistano determinate condizioni: quando siano trascorsi almeno 2 anni dalla cessazione del precedente

rapporto e quando l’oggetto dell’incarico sia del tutto estraneo a quello svolto in precedenza. E’

comunque vietato all’avvocato utilizzare notizie in precedenza acquisite.

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9.6) Titolo VI: rapporti con le istituzioni forensi:

Occorre solo segnalare che si tratta di un titolo nuovo rispetto alla precedente formulazione del codice

deontologico, che contiene solo 3 norme dedicate ai rapporti con le istituzioni forensi, con il consiglio

dell’ordine, improntati a doveri di correttezza e collaborazione.

L’ultima norma, invece, disciplina il comportamento dell’avvocato esaminatore in sede di esame di

abilitazione, sanzionandone le condotte volte ad aiutare i candidati.

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9.7) Le sanzioni disciplinari e il procedimento disciplinare:

Il procedimento disciplinare è il procedimento diretto alla repressione degli illeciti deontologici. La LPF

ha modificato e alleggerito la struttura del procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati.

La novità di maggior rilievo consiste nella sottrazione al Consiglio dell’ordine di appartenenza della

funzione di giudice di primo grado del procedimento. Era, infatti, anomalo che un avvocato fosse

giudicato dai colleghi appartenenti allo stesso circondario di Tribunale.

L’art. 50 della LPF attribuisce ora a delle corti disciplinari chiamate consigli distrettuali di disciplina la

funzione di collegi giudicanti di primo grado. Si tratta di organi autonomi, eletti sulla scorta del principio

democratico, in base ad un regolamento che il CNF dovrà approvare. A garanzia della terzietà dei

componenti dei consigli, il comma 3 dell’art. 50 prevede che i membri appartenenti all’ordine a cui è

iscritto il professionista nei confronti del quale si procede non possono fare parte delle sezioni giudicanti

dei consigli distrettuali di disciplina.

La ratio della novella è quindi quella di creare una giustizia disciplinare più efficace, autonoma e

imparziale rispetto al passato.

La struttura del procedimento disciplinare prevede differenti fasi.

a) FASE INTRODUTTIVA:

Quando è presentato un esposto o una denuncia ad un consiglio dell’ordine o vi è comunque una

notizia di un illecito disciplinare, il consiglio dell’ordine deve darne immediata notizia all’iscritto,

invitandolo a presentare sue deduzioni entro 20 giorni e quindi deve trasmettere immediatamente

gli atti al consiglio distrettuale di disciplina competente per la fase successiva.

L’art. 51 comma 2 disciplina la competenza del consiglio distrettuale, prevedendo che sia

competente il consiglio distrettuale di disciplina del distretto in cui è iscritto l’avvocato oppure del

distretto nel cui territorio è stato compiuto il fatto oggetto d’indagine o di giudizio disciplinare.

L’autorità giudiziaria ha un ruolo non indifferente nel procedimento disciplinare, infatti, è tenuta a

dare notizia al consiglio dell’ordine competente quando nei confronti di un iscritto sia esercitata

l’azione penale oppure sia disposta l’applicazione di misure cautelari o di sicurezza, siano

effettuate perquisizioni o sequestri o siano emesse sentenze che definiscono il grado di giudizio.

Il procedimento penale e il procedimento disciplinare eventualmente aperto sono autonomi l’uno

dall’altro, anche se riguardano i medesimi fatti.

E’ possibile che il procedimento disciplinare rimanga sospeso, per un massimo di 2 anni, qualora

agli effetti della decisione sia necessario acquisire atti e notizie dal procedimento penale.

Qualora dai fatti oggetto del procedimento disciplinare emergano gli estremi di un reato

procedibile d’ufficio, occorre darne notizia all’autorità giudiziaria.

Normalmente l’azione disciplinare si prescrive nel termine di 6 anni dal fatto.

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b) FASE ISTRUTTORIA PRE-PROCEDIMENTALE:

Dopo avere ricevuti gli atti dal consiglio dell’ordine, il presidente del consiglio distrettuale di

disciplina provvede, senza ritardo, all’iscrizione in apposito registro degli atti relativi ad un

possibile procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato.

L’art. 58 comma 1 prevede che il presidente proceda ad un vaglio sommario di ammissibilità della

domanda, infatti, egli deve chiedere al consiglio l’archiviazione senza formalità in caso di

manifesta infondatezza.

Se il consiglio distrettuale non accoglie la richiesta di archiviazione del presidente e, in ogni altro

caso, il presidente designa la commissione che deve giudicare e procede alla nomina del

consigliere istruttore. Costui deve essere scelto tra i consiglieri iscritti in un altro ordine rispetto a

quello di appartenenza dell’incolpato, a garanzia di terzietà e indipendenza.

Il consigliere istruttore è il soggetto responsabile della fase istruttoria pre-procedimentale.

Egli deve, anzitutto, comunicare all’avvocato l’avvio di tale fase, fornendogli ogni elemento utile

e invitandolo a formulare per iscritto le proprie osservazioni entro 30 giorni dal ricevimento della

comunicazione .

Inoltre, il consigliere istruttore è competente ad eseguire ogni accertamento di natura istruttoria

entro il termine di 6 mesi dall’iscrizione della notizia dell’illecito disciplinare nel registro ad hoc.

Conclusa la fase istruttoria, il consigliere propone al consiglio distrettuale la richiesta di

archiviazione o di approvazione del capo d’incolpazione.

c) FASE DECISORIA:

Il consiglio distrettuale di disciplina delibera senza la presenza del consigliere istruttore, che non

può mai far parte del collegio giudicante.

La decisione può consistere, ai sensi dell’art. 52 LPF, nel proscioglimento con la formula: «non

esservi luogo a provvedimento disciplinare» oppure nel il richiamo verbale che non ha valore di

sanzione disciplinare, solo nei casi d’infrazioni lievi e scusabili o nell’irrogazione delle seguenti

sanzioni disciplinari: avvertimento, censura, sospensione dell’esercizio della professione da 2

mesi a 5 anni, radiazione dall’albo.

d) FASE D’IMPUGNAZIONE DINANZI AL CNF E ALLE SU DI CASSAZIONE:

Avverso le decisioni del consiglio distrettuale di disciplina è ammesso ricorso entro 30 giorni dal

deposito della sentenza, proponibile avanti la sezione disciplinare del CNF.

Contro le decisioni del CNF è, infine, ammesso ricorso alle Sezioni Unite di Cassazione per

incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, ex art. 36 LPF.

L’art. 53 LPF disciplina le sanzioni disciplinari irrogabili nei confronti dell’avvocato che sono:

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a) l’avvertimento: consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme alla

legge e alle norme deontologiche, con l’invito ad astenersi dal compiere ulteriori infrazioni;

b) la censura: consiste in un biasimo formale, che si applica quando la gravità dell’infrazione, il

grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto

inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione;

c) la sospensione: consiste nell’esclusione temporanea dall’esercizio della professione (o del

praticantato) che si applica in caso di comportamenti e responsabilità gravi o quando non

sussistono i presupposti per irrogare la sola censura;

d) la radiazione dall’albo: consiste nell’esclusione definitiva dall’albo elenco o registro e impedisce

l’iscrizione a qualsiasi albo, elenco o registro. Si tratta della sanzione più grave irrogabile per

motivi molto gravi, che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo.