LA DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO NELLE deontologia nelle... · 2018. 5. 3. · LA DEONTOLOGIA...
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UNIONE INDUSTRIALE
Torino, 29 maggio 2013
LA DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO NELLE
PROCEDURE CONCORSUALI
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Il tema che mi è stato assegnato è di grande
complessità perché, in sostanza, finisce per coniugare gli
imperativi deontologici che sono comuni a tutti gli avvocati
agli aspetti propri delle procedure concorsuali che, anche se il
legislatore ci dice che ormai appartengono sempre più alla
sfera privatistica ed alla volontà dei creditori, di fatto invece
sono ancora connotati da una forte componente pubblicistica
rappresentata dall’impulso e dal controllo del Tribunale.
Ed io credo che sia giusto così, che comunque sia,
connessa alla tutela monetaria rappresentata dal maggior
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realizzo possibile nell’interesse di chi vanta un credito nei
confronti della procedura, permanga un “interesse
pubblico” in senso stretto che ne rappresenterà un coté
insopprimibile: ma che, certamente, complicherà non poco le
cose, spariglierà non poco le carte dell’avvocato
particolarmente sotto il profilo della sua indipendenza (vera
colonna non solo del nostro impianto deontologico, ma del
nostro stesso essere “liberi” professionisti).
Ho osservato tante volte come le obbligazioni
deontologiche altro non siano se non il contraltare, l’altra
faccia della medaglia dei nostri diritti: ad esempio, la
nostra obbligazione al segreto corrisponde all’insopprimibile
diritto a che nessuno venga a mettere il naso nelle nostre
pratiche, il diritto al compenso non potrà mai prevalere sulle
ragioni del mandato (e vi farò poi un caso lampante) e così
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via, in altre parole i nostri doveri etici non possono mai subire
alterazioni o sconti (ad esempio in funzione di chi assistiamo)
perché essi corrispondono al nostro diritto di svolgere il
servizio nell’unica forma utile per il nostro assistito e cioè in
forma libera ed indipendente: se tale non sarà il nostro lavoro,
esso risulterà del tutto inutile e potrà tranquillamente essere
spazzato via dall’erogazione di un servizio qualunque, dalle
regole del mercato, con tutti i guasti che ciò comporterà per la
corretta tutela dei diritti.
Ma non vorrei annoiarvi troppo con tante
considerazioni di ordine generale (come ben sapete si dice
che chi troppo la deontologia insegna poco la pratica!), ma
vorrei ancora richiamare la vostra attenzione su un punto
determinante per correttamente affrontare il nostro tema e
cioè che nella deontologia il rispetto delle nostre regole
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non soltanto deve sussistere, ma deve apparire. E’ inutile
che l’avvocato rispetti il nostro codice morale se tale rispetto
non sarà percepibile all’esterno, nella comune considerazione
dei cittadini, di tutti coloro che saranno a contatto con il
nostro lavoro: io potrò sentirmi, ed essere effettivamente
indipendente nei miei giudizi e nel mio operare, ma il rispetto
di tali regole risulterà del tutto inutile se la lettura esterna di
tale mio operare in favore di una procedura concorsuale verrà
letta come tale non essere dalla comunità interessata dal
nostro lavoro. Ed allora risulterà del tutto evidente che gli
aspetti di pura forma, che in generale rappresentano una
percentuale significativa nel giudizio etico del nostro operare
(posso criticare violentemente tesi avversarie e decisioni
giudiziali, ma se la forma sarà ineccepibile non ne porterò
conseguenza!) non saranno sufficienti se essi interverranno
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disgiunti da considerazioni di “sostanza” in grado di
connotare nei suoi corretti termini deontologici il nostro
operare.
Veniamo, dunque, ad alcuni aspetti pratici, tanto
interessanti quanto delicati.
Rapporti precedenti con la società in procedura.
Ho visto avvocati con grande leggerezza e disinvoltura,
accettare di difendere la procedura dopo essere stati gli
avvocati della società in bonis. Ecco subito un aspetto nel
quale rileva la sostanza e non soltanto la forma: certo, la
procedura è soggetto terzo ed io nel passato ho assistito la
società, che ha una sua personalità giuridica, e non i suoi
amministratori e soci (e poi, molto spesso, questi due ruoli
coincidono) e quindi la forma potrebbe dirsi salva, ma tutto
va a carte e quarantotto se non valutassi con estrema
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delicatezza tutti i profili di sostanza che sono rilevanti.
Primo caso: avevo in corso con la società in bonis
un giudizio nei confronti di un terzo, ad esempio contro un
concorrente, di risarcimento danni per violazione degli
obblighi dell’art. 2598 cod. civ. o nei confronti di un cliente
che aveva contestato vizi nella fornitura o nei confronti di un
licenziatario che non pagava o altro di similare. Ebbene, è la
cosa più normale e funzionale del mondo che il giudizio
prosegua per opera del legale che l’aveva iniziato e non
vedrei difficoltà a che il Curatore conferisca l’incarico
all’avvocato che già bene ha studiato i fatti ed i documenti,
che ha seguito la prima fase del giudizio ecc.
Più complessa la risposta se si tratta di questione
stragiudiziale, ad esempio una cessione di un ramo d’azienda
che l’imprenditore, ancora in bonis, cercava di realizzare per
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portare un po’ di risorse alla società in crisi e che oggi il
curatore ha anch’egli tutto l’interesse di finalizzare: è
evidente che l’avvocato, vuoi per pregresse conoscenze, vuoi
per fresca acquisizione di informazioni, può trovarsi a dover
sottoporre al Curatore ed al Giudice delegato alcuni aspetti
critici caratterizzanti il complesso dei beni in negoziazione
che giustificano, ad esempio, un basso realizzo o la necessità
di una particolare cautela, ma che inevitabilmente si
trasformeranno in elementi probatori di una eventuale azione
di responsabilità (o peggio) nei confronti degli ex
amministratori, che fino a ieri erano, nella sostanza se non
nella forma, i suoi clienti.
Ed eccoci all’ipotesi limite, che pure ho avuto modo
di constatare, sebbene con malessere e delusione: quella
dell’azione di responsabilità conferita all’ex difensore della
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società in bonis.
Voi sapete come nei periodi di crisi all’avvocato si
richieda ogni sorta di parere: sul bilancio (valori di
liquidazione o di continuità), debiti di firma, perdita del
capitale sociale, conservazione del patrimonio, liquidazione o
meno ex 2485 c.c., responsabilità illimitata per le nuove
iniziative con capitale sociale perso, ecc.
E’ evidente che tutto quanto appreso dall’avvocato
nel periodo di crisi, sebbene forse non ancora di insolvenza,
può costituire la base per ricostruire la genesi dell’insolvenza,
per provarne la consapevolezza nell’imprenditore e
nell’imputargli il ritardo nel suo accertamento.
Francamente, mi sembra impossibile che chi ha
assistito nel passato la società possa oggi accettare di agire
contro i suoi amministratori: e non c’entra nulla il termine di
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due anni dell’art. 51 R.D., qui è evidente che l’avvocato
sfrutta, o potrebbe apparire agli occhi di tutti poter sfruttare,
le conoscenze che ha avuto nel corso del pregresso rapporto,
ma poi già esaurito (e magari in malo modo, per aver
dismesso il mandato per non aver visto pagate le sue parcelle
di acconto).
Ed ora vorrei raccontarvi di un caso che mi è stato
esposto alcuni anni orsono da un bravo collega nostro.
L’avvocato aveva assistito per molti mesi una
società in crisi, fornendo un servizio davvero importante e
continuativo. Purtroppo la società non si era salvata ed era
caduta in fallimento; a quel punto il nostro collega, che si era
astenuto dall’emettere parcelle per non pesare ulteriormente
la già difficile situazione della cliente, si è insinuato al
passivo.
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Si trattava naturalmente di cifre significative, perché
significativo era stato il lavoro ed il curatore, pur non
contestando la richiesta aveva chiesto all’avvocato di fornire
tutti i dossier, tutta la documentazione a giustificazione
dell’ammontare degli onorari. Ebbene, il nostro collega si è
reso immediatamente conto che se avesse risposto alle
richieste del curatore, probabilmente gli avrebbe fornito già
confezionata un’azione di responsabilità o peggio. Anche qui,
come potete vedere, il bivio era chiarissimo: se il nostro
collega avesse privilegiato il suo diritto al compenso non si
sarebbe posto alcun problema ed avrebbe fornito al curatore
quanto richiesto; se invece come poi ha effettivamente fatto,
avesse dato voce alla propria coscienza professionale avrebbe
dovuto distinguere da pratica a pratica e rinunciare a quelle
insinuazioni le quali necessariamente avrebbero comportato
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un rischio per quelli che fino a pochi giorni prima erano i suoi
clienti.
Vediamo ora un altro aspetto, anch’esso strettamente
legato all’indipendenza del nostro lavoro.
Succede, naturalmente, che l’avvocato che si occupa
di procedure concorsuali si trovi ad avere una frequentazione
se non quotidiana certo ricorrente con il curatore e con i
Giudici delegati e che giorno dopo giorno si stabiliscano
rapporti non soltanto di stima ma anche di amicizia: e tali
rapporti conducano inevitabilmente a darsi del “tu” anziché il
doveroso “lei” così come il ricorrente rapporto professionale
con reciproca soddisfazione porti Curatori e Giudici Delegati
a riconfermare la loro fiducia in un numero abbastanza
ristretto di colleghi.
Entrambi gli aspetti mi sembrano molto discutibili,
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quando non siano giustificati e giustificabili da effettive
necessità di specializzazione professionale, non diversamente
da come, in un campo diverso, mi mettono sempre in guardia
sotto l’aspetto dell’indipendenza le nomine ad arbitro sempre
dello stesso avvocato per mano dell’avvocato difensore.
Perché? Ma perché mi sembra che l’indipendenza
professionale si affievolisca, talvolta anche
inconsapevolmente l’arbitro sarà portato a sposare e
condividere le tesi dell’avvocato che ripetutamente l’avrà
nominato, così come quelle del Curatore, a subirne
passivamente le sue abitudini eccependo prassi già in passato
sperimentate ma che la nostra indipendenza dovrebbe portarci
ogni volta a mettere in discussione alla luce del caso
concreto.
Il delicato rapporto professionale potrà apparire
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stonato se l’avvocato si troverà a trattare con esagerata
familiarità con il Magistrato e con il Curatore, magari
accennando a pregressi rapporti già risolti in un certo modo o
a già consumate vicende.
L’avvocato dovrà sempre mostrare ed esercitare la
propria indipendenza di giudizio nei confronti della procedura
non certo meno di quanto è tenuto all’indipendenza nei
confronti di qualsivoglia altro cliente, dimenticando che il
Curatore è pubblico ufficiale perché tale qualifica, nella sede
del mandato professionale, non rileva: e se verrà richiesto di
promuovere un’azione di responsabilità che non ritiene
fondata o non ritiene conveniente, se ne dovrà astenere
perchè in troppi casi abbiamo assistito a giudizi promossi
senza la indispensabile “scrematura” delle varie posizioni.
Anche l’indiscriminata ed indifferenziata e solidale
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citazione di amministratori e sindaci, pur nella
consapevolezza di responsabilità ben diversa dall’interno dei
diversi organismi, non mi sembra dimostrare o evidenziare
manifestazioni di indipendenza di giudizio, ma passiva e
supina esecuzione di istruzioni impartite dalla procedura con
un comportamento, non sempre deontologicamente
approvabile sotto il profilo dell’indipendenza.
E ciò sia detto a tacer di talune esorbitanti
quantificazioni del risarcimento, spesso proposte a scopo
intimidatorio, ma che agli occhi dei terzi possono apparire
rispondenti solo agli interessi di parcella dell’avvocato; così
come le transazioni per poche migliaia di euro come
risultato finale di sequestri e citazioni milionarie. Io credo
che non facciamo bella figura, o abbiamo sbagliato prima a
chiedere troppo oppure dopo a transigere per poche lire (ma
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ci saremmo comportati così con un cliente privato?): certo la
nostra indipendenza subisce una bella manata di fuliggine!
Sempre in tale ambito vorrei suggerirvi alcune
riflessioni in tema di rapporto con clienti e sindaci: spesso
accade, nella nostra piccola città, che una controparte della
procedura (sia in merito all’ammissione o per pregressi
rapporti) sia una nostra cliente o che sia stata una nostra
cliente così come accade che alcuni dottori commercialisti,
che magari abbiamo assistito quali curatori di altre procedure
e che ci hanno conferito mandato, siano oggi coinvolti
(sindaci o amministratori) in quella attuale che assistiamo.
Non c’entra niente l’art. 51 C.D., non possiamo fermarci di
fronte alla forma, occorrerà aver rispetto per la sostanza e
giudicare con grande garbo ed attenzione possibili conflitti di
interesse altrimenti la nostra coscienza deontologica non
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dormirà sonni tranquilli.
Vorrei proporvi a questo punto una riflessione,
banale, ma non così insignificante: non possiamo pretendere
di essere l’avvocato per tutto il contenzioso di una
procedura, occorrerà distinguere mandato da mandato,
competenza da competenza, senza timore di rinunciare a
taluni incarichi perché ciò va ad onore della nostra
professionalità e sarà apprezzato da Magistrati e Curatori.
Esiste poi un settore molto delicato che coinvolgerà i
rapporti personali dell’avvocato con i Magistrati della
Sezione fallimentare e con i Curatori: rapporti cioè che
prescindono dal lavoro professionale, ad esempio vacanze
insieme, hobbies in comune, anche attività scientifica in
comune (libri pubblicati a firma congiunta, codici
commentati, articoli a due mani). Lo dico con chiarezza, mi
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sembra un campo minato e da evitare, nell’interesse
dell’immagine di tutti, Magistrati, Curatori ed avvocati.
Anche il coinvolgimento congiunto nei convegni
deve essere valutato con attenzione: nessun problema per
corsi, come questo, istituzionali, organizzati cioè dalle
istituzioni della Magistratura o dagli Ordini professionali; ben
diverse mi paiono le relazioni a pagamento o con benefits di
diversa natura in occasione di iniziative private, perché
l’immagine che riverbera all’esterno non può che essere
diversa.
Vorrei ancora affrontare con voi due aspetti: uno è
legato all’attività scientifica ed ai pareri espressi, qualche
volta pro-veritate, nella pregressa attività professionale e
l’altro è, invece, una bella occhiata critica rivolta a casa
nostra, nei nostri studi.
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Sotto il primo aspetto mi corre obbligo di dirvi che si
tratta di un problema che riguarda quasi sempre i
professori universitari che fanno anche gli avvocati,
piuttosto che questi ultimi.
Mi è successo di incontrare legali del fallimento che
erano saliti in cattedra sostenendo una certa tesi, sulla quale
poi avevano infiorato tutta la loro produzione accademica.
Ebbene, quando per necessità di assistere la procedura si
sono trovati a dover sostenere una tesi opposta, grande è il
loro imbarazzo; ma anche quello dell’avversario perché da un
lato non sapeva se citare la copiosa dottrina elaborata dal suo
interlocutore, con l’evidente conseguenza di porre in serio
imbarazzo quest’ultimo, oppure far finta di niente citando
autori diversi. Nell’un caso come nell’altro, comunque sia, mi
pare che l’indipendenza della professione non farà bella
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figura.
Lo stesso imbarazzo talvolta può accadere per pareri
pro veritate che si siano resi, e questo riguarda molto spesso
anche gli avvocati, anche se è evidente che la possibilità di
diffusione di un parere pro veritate non è in alcun modo
paragonabile alla produzione scientifica e dunque i rischi di
mostrare un palese conflitto molto più limitati.
Il secondo aspetto riguarda invece l’organizzazione
dei nostri studi poichè al giorno d’oggi molti di noi fanno
parte di reti internazionali di studi legali e talvolta i casi di
conflitto possono non apparire a prima vista ma manifestarsi
in seguito quando la procedura che assistiamo si trova ad
aver come controparte, o ipotetica controparte, una società
assistita da uno studio gemellato.
Voi sapete certamente che a livello internazionale si
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afferma l’assenza di conflitto di interessi sulla base di quella
strana teoria del “muro cinese” (chineese wall) che
assicurerebbe l’assenza di travaso di informazione tra gli
studi: ma a me sembra una pazzia e credo che l’astensione sia
d’obbligo.
Ma anche a livello dei nostri studi legali nazionali la
situazione non è meno complessa. Torino, per certi versi, è
ancora un po’ gozzaniana, all’antica e sonnacchiosa (io
stesso ho lavorato per 33 anni nello stesso studio), ma in
piazze non lontane il mercato degli avvocati è frenetico, e il
via vai tra studi assai frequente: e così l’avvocato A che
lavorava per lo studio B che assisteva la società C può oggi
tranquillamente trovarsi dalla parte opposta per aver cambiato
studio e lavorare oggi per chi assiste una procedura e disporre
così di informazioni riservate su C da “vendere” ai nuovi
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colleghi per favorire la loro posizione negoziale o giudiziale.
Magari, nel passato, ha assistito proprio quegli
amministratori che oggi si trovano sottoposti ad azione di
responsabilità, magari li ha assistiti in vicende personali che
nulla hanno a che fare con quelle della società poi caduta in
procedura, ma non è chi non veda come il sospetto che possa
passare al collega di studio legale del fallimento alcune
notizie riservate sul patrimonio degli amministratori sia
davvero serio e che certamente poi questi ultimi soggetti
saranno certamente sospettosi sulla “tenuta” del suo segreto
ex art. 37 del C.D.
Io credo che a ben vedere ci sia una domanda
determinante quando assistiamo una procedura e cioè quella
di capire effettivamente chi sia il nostro cliente per capire di
conseguenza quelli che devono essere gli interessi da noi
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tutelati. Sarà cliente il Giudice delegato? Il Curatore? Oppure
i creditori?
Secondo l’apparente nuova impostazione del diritto
fallimentare mi pare che a questi ultimi dovrebbe spettare la
palma delle nostre preferenze, ma io sono sicuro che la
questione non è così facilmente risolvibile. Pensate ad
esempio al caso in cui un avvocato penalista assista il
fallimento come parte civile in un processo che riguardi i
reati fallimentari e gli imputati offrano una somma a
transazione per liberarsi della presenza della parte civile nel
processo. La somma, magari, non è particolarmente
significativa ma probabilmente ai creditori farebbe gola
incassare tale importo, mentre agli occhi del giudice delegato
e del curatore l’offerta appare del tutto inadeguata e gli stessi
sono portatori di un interesse “punitivo” nei confronti degli
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ex amministratori.
Quando il nostro avvocato si trova a dover esprimere
il proprio parere in merito alla proposta transattiva è evidente
che la considerazione in merito a quelli che sono gli interessi
dell’effettivo mandante sarà determinante ed è dunque
ipotizzabile un conflitto di interessi, se così possiamo
chiamarlo, persino all’interno dei soggetti che tuteliamo (al di
là del fatto che il mandato formalmente sia stato sottoscritto
dal curatore, con l’autorizzazione del Giudice).
Bene, credo di avervi annoiati abbastanza.
Come ho cercato di spiegarvi, volendo tirare le fila
del mio discorso, mi pare che la materia del diritto
fallimentare finisca per aggiungere ancora complicazione al
campo già non facile del diritto commerciale e come,
dunque, occorra con grande attenzione fare riferimento alla
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sostanza più che alla forma, vagliando con grande
attenzione le circostanze nelle quali ci troviamo.
La sostanza ci consentirà di capire se possiamo
assistere la procedura quando già avevamo espletato il
nostro mandato in favore della società o degli
amministratori, ci fornirà ragguagli in merito alla necessaria
indipendenza che dobbiamo conservare nei confronti dei
curatori e dei giudici delegati, ma soprattutto sarà il nostro
riferimento per esplorare quel delicatissimo e minato campo
dei rapporti anche personali con i professionisti incaricati
della procedura ed ancor più con l’autorità giudiziaria.
Sarà la sostanza, in definitiva, ad essere la bussola
per capire quale sia la lettura che i terzi possono dare della
nostra attività poiché io credo che a mostrare scrupoli
deontologici finiamo per fare bella figura e per conquistarci
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la stima dei colleghi (ma anche quella dei curatori e dei
magistrati); insomma, talvolta conviene esagerare nelle
preoccupazioni legate alla nostra indipendenza perché ciò può
rappresentare una scelta non solo di vocazione, ma anche di
convenienza.
Certo molto spesso assistiamo a nomine ricorrenti
degli stessi professionisti siano essi curatori (ma il caso di
avvocati curatori come vi dicevo è assai contenuto) siano essi
legali del fallimento: il giudizio dei terzi sarà determinato dal
ponderare le esigenze di professionalità da un lato e
l’opportunità di allargare le occasioni di lavoro e i
professionisti coinvolti dall’altro lato, nell’evidente necessità
di trasparenza degli incarichi e di indipendenza del nostro
operare.
Grazie dell’attenzione
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