DIRITTO_INTERNAZIONALE__riassunti

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DOMANDA GENERALE: JUS COGENS

Con la nozione di jus cogens nell’ambito del diritto internazionale, ci si riferisce, generalmente, ad un INSIEME DI NORME FONDAMENTALI, FORMATESI IN VIA CONSUETUDINARIA, ALLE QUALI, alla fine degli anni ’60, SI E’ DECISO DI ATTRIBUIRE (o RICONOSCERE) NATURA INDEROGABILE E DUNQUE UNA, conseguente, POSIZIONE GERARCHICAMENTE SUPERIORE RISPETTO ALLE ALTRE NORME INTERNAZIONALI; si pensi ad es. alle norme sull’autodeterminazione dei popoli, sul divieto di aggressione, sulla proibizione del genocidio ecc… .

Data la natura consuetudinaria delle norme costituenti lo jus cogens, all’inizio, molti Paesi espressero delle forti perplessità, soprattutto, circa la mancata esistenza di criteri fissi, certi, per qualificare una norma generale consuetudinaria come norma imperativa o di jus cogens. Tuttavia, essendo, il riconoscimento della natura cogente di una norma, frutto dell’orientamento della maggioranza dei membri della comunità internazionale, per uno Stato è difficile opporsi alla formazione di una norma di jus cogens. Per tali ragioni questi Paesi, accettarono di aderire, però, solo a condizione che venisse creato un meccanismo di accertamento giudiziario delle norme appartenenti allo jus cogens. Questo meccanismo fu individuato nella previsione della giurisdizione obbligatoria della CIG (Corte Internazionale di Giustizia) in relazione alle controversie relative alla nullità dei trattati per contrasto con norme di jus cogens.

Una prima disciplina dello jus cogens, è contenuta nella Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969. L’art.53 della CdV, infatti, dispone che “nel caso in cui emerga una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale, ogni trattato esistente che è in contrasto con tale norma, diviene nullo e si estingue”. Infine, l’art. 66, in relazione alla giurisdizione obbligatoria della CIG prevede la possibilità di ricorso unilaterale alla CIG con riferimento a controversie relative alla determinazione del contenuto dello jus cogens (anche se, con riferimento a quest’ultima disposizione, occorre tener presente, che, come detto prima, la natura cogente di una norma dipende dal volere della maggioranza e pertanto, nonostante la previsione dell’art.66 CdV , può risultare alquanto difficoltoso x un singolo Stato opporsi a tale volere). Le disposizioni sullo jus cogens contenute nella Convenzione di Vienna, tuttavia, sono soggette a ad un’importante limitazione, esse infatti possono essere invocate solo da Stati che, contemporaneamente, fanno parte della Convenzione di Vienna e del Trattato di cui si vuole dichiarare la nullità. Quindi, in pratica, da un lato vi sono delle norme che sono considerate inderogabili; dall’altro questa “inderogabilità” può essere fatta valere solo in determinate circostanze.

Questo limite, oggi, è stato parzialmente superato. Ciò si deve alla nascita di una norma consuetudinaria di contenuto corrispondente all’art.53 della Convenzione di Vienna, In pratica, adesso vi è una norma consuetudinaria che prevede la nullità di trattati in contrasto con una norma cogente. Tale norma, data la sua natura, a differenza dell’art 53, può dunque essere fatta valere nei confronti di quegli Stati che non hanno ratificato della Convenzione, sempre ammesso che sia parte contraente del trattato di cui si dichiara la contrarietà ad una norma cogente.

In ogni caso, si tratta di una disposizione, che non sempre trova concreta attuazione, in quanto, seppur vero è che ogni Stato, parte di un trattato, può invocare la nullità del trattato per contrasto con una norma cogente; è anche vero che gli altri Stati contraenti hanno la possibilità di contestare la pretesa di nullità e rifiutarsi di avviare negoziati ecc… Lo Stato, a quel punto, non potrà far nulla per ottenere la dichiarazione di nullità; solo nel caso in cui l’attuazione del trattato comporti una violazione di una norma imperativa, questo Stato potrà far valere tutte le conseguenze previste dal regime aggravato di responsabilità.

Riguardo, poi, gli effetti dello jus cogen, possiamo dire che l’effetto tipico è quello della nullità “ab initio” dei trattati ad esso contrari. Altri effetti sono: la nullità di norme non

imperative in contrasto con norme di carattere cogente; la nullità, per contrasto con norme di jus cogens, delle eventuali riserve previste in trattati multilaterali; il riconoscimento, ad uno Stato, dell’autorizzazione a non adempiere agli obblighi convenzionali di estradizione, in caso di violazione di una norma imperativa; il venir meno dell’immunità dalla giurisdizione estera qualora si presuma la violazione di una norma cogente; l’obbligo di rispettare le norme imperative in materia di riconoscimento di Stati. Infine, altri effetti dello jus cogens possono essere: quello di prevedere la giurisdizione penale universale per le violazioni di norme imperative; e quello di fungere da deterrente per dissuadere Stati o soggetti dalla violazione di norme cogenti.

DOMANDA GENERALE: SOGGETIVITA’ DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI, PRESUPPOSTI E CONSEGUENZE

Con la creazione della SdN (Società delle Nazioni), gli Stati per la prima volta diedero vita ad un ente a vocazione universale con competenze generali.

Vista la natura e le competenze ad essa assegnate, iniziò a porsi la questione del riconoscimento di soggettività internazionale alle organizzazioni internazionali.

Tale questione, si è risolta in senso positivo ed oggi, in linea generale, gli Stati possono creare, attraverso un apposito strumento internazionale, enti autonomi e indipendenti, dotati di soggettività internazionale propria, distinta da quella degli Stati che gli hanno dato vita.

Tuttavia, non a tutte le organizzazioni internazionali può essere riconosciuta la soggettività internazionale. Il riconoscimento di soggettività, si basa infatti, su 2 presupposti: in primo luogo, l’attribuzione ad esso, da parte degli Stati membri, di competenze necessarie allo svolgimento effettivo delle funzioni conferitegli; in secondo luogo, occorre che l’organizzazione venga messa nelle condizioni di agire, ed agisca, come ente autonomo ed indipendente dagli Stati membri. Dunque, le organizzazioni prive di questi presupposti, devono considerarsi prive di personalità giuridica internazionale.

Il riconoscimento della soggettività internazionale, implica delle conseguenze.

Innanzitutto, l’attribuzione delle attività svolte all’organizzazione stessa, e non agli Stati membri, in quanto ente autonomo; pertanto, sarà l’organizzazione stessa a rispondere, eventualmente, delle attività svolte. In secondo luogo, il riconoscimento di soggettività comporta l’idoneità, delle organizzazioni internazionali, ad essere destinatarie di alcune norme consuetudinarie.

Ad esse, infatti, è riconosciuto: il potere di stipulare trattati internazionali riguardanti le materie di competenza dell’organizzazione; il diritto di pretendere l’immunità dalla giurisdizione statale per le attività poste in essere dall’organizzazione; il diritto alla protezione dei propri funzionari, da parte degli Stati in cui tali funzionari operano; il diritto di avanzare pretese a livello internazionale, al fine di ottenere la riparazione per i danni causati dagli Stati membri o dagli Stati terzi ai beni dell’organizzazione o ai suoi agenti ecc…

DOMANDA GENERALE: CONSEGUENZE DELL’ILLECITO INTERNAZIONALE

Alla commissione di un illecito internazionale, seguono, ovviamente, delle conseguenze. Secondo l’opinione più diffusa, le conseguenze discendenti dalla commissione di un illecito internazionale si concretano nella nascita di un nuovo rapporto giuridico fra lo Stato offensore e lo Stato leso; e, il contenuto di tale rapporto giuridico definisce il regime di responsabilità internazionale, ossia l’insieme degli obblighi che sorgono in

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capo allo Stato offensore, e il complesso di diritti, facoltà e obblighi spettanti allo Stato leso.

Gli obblighi spettanti allo Stato autore dell’illecito sono diversi. In primo luogo, vi è l’obbligo di cessare il comportamento illecito, se questo ha carattere continuo, e quello di fornire garanzia, allo Stato leso, di non reiterazione dell’illecito. In secondo luogo, lo Stato deve provvedere alla piena riparazione per i danni causati dall’illecito, attraverso la restituzione in forma specifica (restitutio in integrum) in caso di danni materiali, e soddisfazione, in caso di danni morali.

Quindi, in caso di danno materiale, lo Stato responsabile deve provvedere alla restituzione in forma specifica, ossia al ripristino della situazione esistente prima della commissione dell’illecito, sempre ke quest’ultima non sia materialmente impossibile; e/o non comporti un onere eccessivo rispetto al vantaggio che deriverebbe dalla restituzione in luogo al risarcimento. Ove la restituzione in forma specifica non fosse possibile, o fosse possibile solo parzialmente, lo Stato responsabile deve provvedere alla riparazione per equivalenza, ossia deve provvedere al risarcimento del danno pari alla misura in cui non è stata possibile la riparazione attraverso la restituzione. In caso di danno morale, invece, lo Stato autore dell’illecito ha l’obbligo di fornire la c.d. soddisfazione, che può consistere nella presentazione di scuse, nel pagamento di una simbolica somma di denaro ecc..

Per quanto riguarda, invece, lo Stato leso, quest’ultimo è titolare dei diritti corrispondenti agli obblighi dello Stato responsabile. Oltre ad essere titolare di diritti, lo Stato leso ha anche degli obblighi, come l’obbligo di notificare le sue pretese nei confronti dello Stato responsabile, oppure, l’obbligo di prediligere, per la risoluzione di una controversia, l’impiego di mezzi di risoluzione pacifici, e quindi di ricorrere a contromisure solo nei casi limite in cui lo Stato responsabile dovesse rifiutare qualsiasi mezzo pacifico di risoluzione.

DOMANDA GENERALE: BREVI CENNI SULLA SOVRANITA’ E LA SUA INFLUENZA NEL SISTEMA DELLE FONTI

La sovranità consiste nel diritto di esercitare il potere dello Stato su un territorio, in via esclusiva ed originaria. Il riconoscimento della sovranità, comporta l’INDIPENDENZA degli Stati nelle relazioni internazionali e soprattutto nei rapporti cn gli altri Stati.

La sovranità, comprende ampi poteri e diritti: il potere di imperio sugli individui ed i beni situati sul territorio dello Stato; il potere di utilizzare e disporre liberamente del proprio territorio; il diritto, di ogni Stato, di darsi l’organizzazione interna e la forma di governo che preferiscono.

Il diritto internazionale pone una tutela agli Stati e alla loro sovranità attraverso un sistema di fonti normative. Nell’ambito di queste ricordiamo, ad es., la norma che obbliga gli Stati ad astenersi dallo svolgere funzioni pubbliche nel territorio altrui senza il consenso dello Stato territoriale, e che attribuisce allo Stato territoriale il corrispondente diritto di escludere gli altri Stati dall’esercizio della sovranità nel proprio territorio, ossia il c.d. jus excludendi alios. Un’altra norma, è ad es., quella che attribuisce ad ogni Stato il diritto di esigere, dagli altri Stati, l’immunità dalla giurisdizione civile per gli atti compiuti quale ente sovrano, e l’immunità dalla giurisdizione esecutiva, o il diritto di pretendere l’immunità, degli organi dello Stato, dalla giurisdizione civile e penale per le attività compiute a titolo ufficiale, fatta salva la commissione di un crimine internazionale. Altra norma ancora, è quella che impedisce agli altri Stati di ingerirsi negli affari interni ed esterni di un altro Stato, ossia il c.d. principio di non ingerenza; oppure ancora, anche il principio dell’uguaglianza giuridica degli Stati, in forza del quale nessun membro della comunità internazionale può essere posto in posizione di svantaggio o vantaggio rispetto agli altri Stati, eventuali diseguaglianze giuridiche possono risultare solo da circostanze di fatto, o essere accettate, in piena libertà, dallo Stato interessato.

DOMANDA GENERALE: LA PRODUZIONE DI NORME DI ADATTAMENTO MEDIANTE RINVIO

Per quanto riguarda l’adattamento del diritto interno di uno Stato al diritto internazionale, gli Stati, in linea di massima, adoperano 2 meccanismi principali: 1) il meccanismo di adattamento automatico permanente; 2)il meccanismo di adattamento ad hoc.

1) Il meccanismo di adattamento automatico permanente, si realizza quando una norma interna provvede, in modo permanente, alla incorporazione automatica delle norme internazionali nel diritto interno, senza che vi sia necessità di un ulteriore intervento del legislatore. Questo meccanismo consente, dunque, al sistema giuridico interno di modificarsi e conformarsi in maniera continua ed automatica alle regole internazionali.

2) Il meccanismo di adattamento ad hoc, si realizza, invece, quando le norme di diritto internazionale diventano applicabili nell’ordinamento giuridico interno solo a seguito dell’emanazione di una specifica normativa interna.

Possiamo distinguere: adattamento normativo ad hoc, il quale consiste nell’emanazione di un apposito atto legislativo volto a riformulare integralmente il contenuto delle norme internazionali; e adattamento automatico ad hoc, il quale si realizza attraverso l’emanazione di u atto legislativo cn il quale si richiede l’applicazione automatica della norma internazionale, nell’ordinamento statale, senza quindi riformularla, ma semplicemente rinviando ad essa. In pratica, di volta in volta, verrà emanato un atto legislativo interno che nn riformula la norma internazionale, ma che ne prevede l’applicazione in quanto ne fa espresso rinvio.

Nell’ordinamento giuridico italiano, il meccanismo di adattamento automatico ad hoc (o mediante rinvio) viene impiegato per l’attuazione dei trattati internazionali. Di volta in volta, dunque, si richiede l’emanazione di un apposito atto normativo (legge cost, ordinaria o atto regolamentare), il quale contiene il c.d. ordine di esecuzione del trattato che si intende recepire. Per i trattati rientranti nelle categorie dell’art. 80 cost., l’ordine di esecuzione è solitamente contenuto nella legge parlamentare di autorizzazione alla ratifica. L’applicazione del meccanismo di adattamento automatico ad hoc non pone problemi per quei trattati che sono self-executing mentre per quelli non self-executing la piena attuazione del trattato nell’ordinamento interno, necessita dell’emanazione di apposite norme nazionali che integrino le norme di adattamento.

DOMANDA GENERALE: COMPETENZA A STIPULARE E PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DEI TRATTATI

Il diritto internazionale lascia libero ogni Stato di determinare gli organi competenti a stipulare i trattati.

L’ordinamento italiano si limita a disciplinare espressamente solo il caso dei trattati stipulati in forma solenne stabilendo che il capo dello Stato ha competenza di ratificare i trattati internazionali (ved art 87 Cost.) previa autorizzazione alla ratifica da parte delle Camere per le categorie contemplate nell’art 80 Cost. Spetta, tuttavia, all’esecutivo, la decisione, rispetto all’opportunità sia di avviare la negoziazione, sia sia di concludere i trattati; quindi, in pratica, la ratifica presidenziale è un atto che comunque presuppone una specifica iniziativa da parte dell’Esecutivo. Quindi, possiamo concludere che, nel caso di trattati in forma solenne la competenza a stipulare spetta all’Esecutivo, che avvia la negoziazione del trattato, e al Capo dello Stato che deve procedere alla ratifica (art. 87 Cost). La ratifica consiste nella manifestazione, in forma solenne, della volontà dello Stato di essere vincolato sul piano internazionale da un trattato ed è generalmente affidata al Capo dello Stato in quanto il diritto internazionale tende, generalmente, a riconoscere ai capi di Stato il ruolo di organo

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principale nell’ambito delle relazioni internazionali. Nella competenza a stipulare i trattati in forma solenne acquista un ruolo anche il Parlamento, ruolo delimitato dall’art. 80 Cost. il quale prevede che la ratifica di alcuni tipi di trattati venga autorizzata con legge dal Parlamento. Quindi, in pratica, il ruolo del Parlamento è ristretto alle 5 categorie di trattati contemplate dall art 80 cost.

La previsione dell’art 87 cost, che affida al PdR il compito di ratificare i trattati, non chiarisce però se l’ordinamento giuridico italiano consenta o meno la stipulazione di trattati in forma semplificata, ossia di quei trattati per cui non è richiesto l’atto di ratifica del PdR. Al riguardo si è, comunque, affermato che al PdR spetta ratificare i trattati previsti dall’art 80 cost, ma anche quelli per cui gli Stati abbiano disposto la stipulazione in forma solenne; mentre, tutti gli altri possono essere stipulati in forma semplificata e quindi restano di esclusiva competenza dell’Esecutivo.

Con la riforma del titolo V, si è riconosciuta alle Regioni competenza a stipulare accordi internazionali riguardanti materie di propria competenza legislativa. L’esercizio di questa competenza è però subordinato ad alcuni adempimenti procedurali. Occorre infatti che la regione, o la provincia autonoma, dia tempestiva comunicazione delle trattative al ministero degli affari esteri a alla presidenza del consiglio dei ministri, che, a loro volta, ne danno comunicazione ai ministri competenti. L’iter procedurale previsto, è necessario per il conferimento alla regione, o provincia autonoma, dei pieni poteri affinchè la stipulazione sia legittima, in caso contrario gli atti sono nulli.

Per quanto concerne l’iter di formazione, sia per i trattati in forma semplificata, sia per i trattati in forma solenne, ha inizio cn i negoziati, condotti dai rappresentanti degli Stati, cui sono stati conferiti i pieni poteri di intrattenere trattative. Nel corso dei negoziati, le parti dovranno cercare un accordo sulla disciplina giuridica che dovrà costituire il testo del trattato.

Nel caso in cui i negoziati vadano a buon fine, si passa all’adozione del testo, che deve avvenire all’unanimità, salvo casi particolari. E infine, all’adozione del testo segue la firma dei rappresentanti plenipotenziari. Se si tratta di trattati in forma semplificata la firma è sufficiente a rendere lo Stato giuridicamente vincolato; nel caso in cui, tuttavia, si tratti di trattati in forma solenne alla firma deve seguire la ratifica (eventualmente autorizzata dalle Camere nelle ipotesi dell’art 80 cost) del PdR, senza la quale il trattato non sarà vincolante. Inoltre, alla ratifica deve anche seguire l’entrata in vigore del trattato, che nel caso di trattati in forma semplificata avviene non appena si appone la firma.

DOMANDA GENERALE: LA RILEVAZIONE DELLE NORME CONSUETUDINARIE DA PARTE DEL GIUDICE NAZIONALE

L’opera di rilevazione delle norme consuetudinarie richiede che vengano presi in considerazione diversi elementi, quali ad es. la giurisprudenza internazionale e nazionale, i trattati stipulati in una certa materia, i documenti diplomatici degli Stati ecc… In particolare, però, occorre l’individuazione dei due elementi costitutivi della consuetudine, ossia la prassi statale e l’opinio juris, elementi l’uno dipendente dall’altro. La pressi statale, infatti, costituisce prova dell’esistenza dell’opinio juris; e quest’ultima, a sua volta, indica quali sono gli elementi della prassi che possono essere presi in considerazione ai fini della dimostrazione dell’esistenza della norma consuetudinaria.

DOMANDA GENERALE: TEORIA DELLO OBIETTORE PERSISTENTE E FORMAZIONE DELLA NORMA CONSUETUDINARIA

La teoria dell’obiettore persistente consiste nella possibilità che uno Stato si sottragga all’applicabilità di una norma consuetudinaria solo per essersi persistentemente e inequivocabilmente opposto alla sua formazione. Tale teoria nasce come conseguenza logica della concezione, un tempo prevalente, della consuetudine come accordo tacito tra gli

Stati (concezione volontaristica della consuetudine). Secondo questa impostazione, infatti, le norme consuetudinarie avrebbero portata universale, solo nella misura in cui fossero “volute” da tutti gli Stati, pertanto quegli Stati che dimostrassero di non aver “voluto” la formazione della norma potrebbero rifiutarsi di rispettarla.

Questa teoria, è da considerarsi oramai superata, in quanto la concezione volontaristica della consuetudine è stata soppiantata dall’idea che la consuetudine non necessiti, per la sua formazione, del sostegno di tutti i membri della comunità internazionale; ma è sufficiente che un certo comportamento sia diffuso tra la maggioranza dei soggetti internazionali (usus), unitamente alla convinzione di questi ultimi, che tale comportamento sia giuridicamente obbligatorio (opinio juris ac necessitatis).

Oggi, la teoria prevalente circa la formazione della consuetudine è quella secondo la quale il processo di formazione richiede l’individuazione di due elementi, quello oggettivo, ossia l’esistenza di una prassi generalizzata e diffusa (usus), e quello soggettivo, ossia la convinzione, da parte degli Stati, che quella prassi corrisponda a diritto o sia dettata da necessita sociali (opinio juris ac necessitatis)

Circa l’elemento oggettivo la CIG ha precisato che la prassi internazionale che può dar luogo alla formazione di norme consuetudinarie deve comprendere quella degli stati che potranno essere particolarmente interessati, e che essa deve essere sufficientemente diffusa e uniforme. Circa l’elemento psicologico, si è detto che, in un primo momento, esso consiste nella convinzione della doverosità di una certa prassi, in un secondo momento, però, quando la prassi inizia a consolidarsi, si giunge alla convinzione che quella prassi rifletta il diritto esistente e sia dunque giuridicamente vincolante. È quello il momento in cui si forma la norma consuetudinaria, momento difficile da cogliere.

In quest’ottica assume rilevanza il fattore tempo, in quanto, per coloro che concepiscono la consuetudine come un fenomeno di produzione giuridica spontaneo e inconsapevole, la formazione delle regole consuetudinarie richiede necessariamente il trascorrere di un certo lasso di tempo; fattore del tutto irrilevante per chi sostiene la teoria volontaristica della consuetudine.

DOMANDA GENERALE: IL PRINCIPIO DI NON INGERENZA NEGLI AFFARI INTERNI

Il principio di non ingerenza negli affari interni è un principio di diritto internazionale che impedisce agli Stati di ingerirsi negli affari interni o esterni di un altro Stato. In forza di questo principio, inoltre, gli Stati debbono sempre astenersi dall’incitare, organizzare o appoggiare ufficialmente l’organizzazione sul proprio territorio di attività pregiudizievoli a Stati esteri.

È da dire che, fino a quando il diritto internazionale lasciava gli Stati liberi di ricorrere liberamente alla forza armata nelle relazioni internazionali, il principio di non ingerenza offriva una tutela molto precaria. Attualmente, però, tale principio ha acquisito maggiore efficacia sia per l’affermazione del divieto della minaccia e dell’uso della forza; sia per la tendenza, sempre più accentuata, alla cooperazione internazionale, che ha favorito il diffondersi di organizzazioni intergovernative e nuove opportunità “di intromissione” negli interessi degli Stati che hanno reso necessaria la definizione di settori in cui debba essere esclusa ogni interferenza esterna; e, infine, ha contribuito anche il diffondersi della dottrina dei diritti umani, che ha comportato la possibilità per gli Stati e gli individui di esercitare pressioni sulle autorità Statali responsabili di violazioni dei diritti umani, affinchè essi si conformino agli standard internazionali in materia.

DOMANDA GENERALE: LE RISERVE AI TRATTATI INTERNAZIONALI

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Secondo l’art. 2 della Convenzione di Vienna del 1969, le riserve ai trattati sono delle dichiarazioni unilaterali, formulate da uno Stato che intenda divenire parte di un trattato multilaterale, attraverso le quali si vuole escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo stesso Stato. Le riserve, dunque, possono essere di due tipi: eccettuative, quando uno Stato mira ad escludere l’applicazione, nei suoi confronti, di determinate clausole; interpretative, quando lo Stato mira ad modificarne l’effetto giuridico.

Le riserve, se ammissibili, modificano la disciplina giuridica contenuta nel testo del trattato nei rapporti reciproci tra lo Stato che ha effettuato la riserva e tutti gli altri Stati contraenti. Nel diritto internazionale tradizionale, valeva il principio dell’integrità dei trattati, in forza del quale, per essere ammissibili, le riserve dovevano essere accettate da tutte le parti contraenti. A seguito dell’evoluzione e dell’ampliamento della comunità internazionale, il principio di integrità dei trattati ha progressivamente lasciato il posto a quello dell’universalità dei trattati, in forza del quale, per essere ammissibili, le riserve non devono essere incompatibili con l’oggetto o lo scopo del trattato. Secondo la CIG, infatti, l’ammissibilità di una riserva, va valutata in relazione a diversi fattori, quali appunto lo scopo del trattato, la maggioranza utilizzata per la sua adozione, l’oggetto di esso ecc… quindi, in pratica, la facoltà di uno Stato di formulare riserve incontra un limite nell’oggetto e nello scopo del trattato stesso. Qualora uno degli Stati contraenti ritenga che la riserva apposta da uno degli Stati sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato può sollevare un’obiezione al riguardo, e in questo caso, il trattato non entrerà in vigore fra lo Stato che ha formulato la riserva e quello che ha opposto l’obiezione. Il trattato, invece, entrerà in vigore fra lo Stato che ha formulato la riserva e tutti quelli che l’hanno accettata.

Secondo quanto previsto dalla Convenzione di Vienna, uno Stato ha la possibilità di formulare riserve quando esse non siano espressamente vietate dal trattato e quando non siano incompatibili con l’oggetto e lo scopo dello stesso. Per quanto riguarda, invece, l’accettazione della riserva, da parte degli altri contraenti, essa non è necessaria qualora la riserva è espressamente autorizzata dal trattato; viceversa, è sempre necessaria, se così risulta dal numero limitato di partecipanti o dall’oggetto e/o dallo scopo del trattato. Inoltre, qualora uno Stato sollevi un’obiezione ad una riserva, tale obiezione non è da sola sufficiente a impedire l’entrata in vigore del trattato fra lo Stato che ha formulato la riserva e quello che vi si è opposto. Affinché ciò avvenga, infatti, occorre che lo Stato che effettua l’obiezione dimostri chiaramente l’intenzione di voler impedire l’entrata in vigore del trattato nei confronti dello Stato che ha formulato la riserva. Nel caso in cui lo Stato che effettua l’obiezione manifesti l’intenzione di impedire l’entrata in vigore del trattato, se si tratta di riserve eccettuative, l’obiezione produce come effetto l’entrata in vigore del trattato con l’esclusione di quelle clausole modificate; se si tratta di riserve interpretative, il trattato non entrerà in vigore fra chi ha posto la riserva e chi l’obiezione. Naturalmente, in entrambi i casi, il trattato (comprese le riserve) si applica nella sua interezza fra lo Stato che ha formulato la riserva e quelli che l’hanno accettata.

DOMANDA GENERALE: LA CODIFICAZIONE DELLE NORME CONSUETUDINARIE

In generale, per codificazione, si intende quell’insieme di azioni e procedimenti il cui scopo è l’elaborazione di norme giuridiche vincolanti. Possiamo distinguere poi, la codificazione intesa in senso stretto, il cui obiettivo è la semplice formulazione e sistemazione in forma scritta delle norme consuetudinarie operanti nella società internazionale; mentre in senso più ampio, per codificazione si intende quel procedimento di sistemazione in forma scritta delle regole consuetudinarie, colmando però eventuali lacune ed eliminando eventuali contraddizioni.

Per quanto riguarda la codificazione, nell’ambito dei settori “tradizionali” (diritto del mare, diritto dei trattati ecc…) la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha

elaborato progetti di Convenzione che hanno portato all’adozione di convenzioni di codificazione.

Le convenzioni di codificazione possono avere tre effetti sul diritto internazionale consuetudinario. In primo luogo, un effetto dichiarativo, ossia volto a contenere norme che si limitano a trascrivere le norme consuetudinarie esistenti. In secondo luogo, un effetto di cristallizzazione, nel caso di un processo di codificazione volto a portare a compimento la formazione di una norma consuetudinaria. In terzo luogo, l’effetto di creare una nuova norma consuetudinaria, corrispondente alla norma inserita nella convenzione di codificazione. In questo caso, in pratica, la convenzione di codificazione propone alla comunità internazionale una soluzione normativa che, successivamente, si trasforma in regola di natura consuetudinaria.

La codificazione, può avvenire anche attraverso risoluzioni di organi di organizzazioni internazionali a vocazione universale, in particolare l’Assemblea Generale. Sui rapporti tra risoluzioni a carattere normativo e norme consuetudinarie si è, di recente, soffermata la CIG. Secondo quest’ultima, le risoluzioni a carattere normativo possono costituire prova dell’esistenza di una norma consuetudinaria, oppure possono indicare l’esistenza di un’opinio juris degli Stati. Tra l’altro, tali risoluzioni, possono produrre i medesimi effetti delle convenzioni di codificazione ossia effetti dichiarativi, di cristallizzazione o di creazione di nuove norme consuetudinarie.

DOMANDA GENERALE: CAUSE DI ESCLUSIONE DALLA RESPONSABILITA’ OER ILLECITO INTERNAZIONALE

Il diritto internazionale consuetudinario prevede 6 cause di esclusione dell’illecito: il consenso, la legittima difesa, le contromisure, la forza maggiore, l’estremo pericolo e lo stato di necessità.

Il consenso, prestato da uno Stato, esclude l’illiceità dell’atto compituto da un altro Stato a condizione che sia stato prestato validamente, che sia stato chiaramente accertato e non solo presunto, che promani dagli organi dello Stato competenti ad impegnare lo Stato a livello internazionale e, infine, che sia antecedente alla commissione dell’atto. Naturalmente, l’illiceità dell’atto è esclusa solo nella misura in cui siano stati rispettati i limiti posti dallo Stato che ha prestato il consenso. Le contromisure, fanno parte delle misure di autotutela che uno Stato può attuare per reagire alla commissione, presunta, di un atto illecito da parte di un altro Stato. Esse consistono nella violazione di un diritto soggettivo, nei confronti dello Stato che ha commesso un illecito internazionale, e opera come causa di esclusione dalla responsabilità di chi ricorre a contromisure solo nel caso in cui vengano rispettate talune condizioni. La legittima difesa, come le contromisure, fa parte delle misure di autotutela, ma a differenza di esse è consentita solo come reazione ad un attacco armato. La forza maggiore si realizza con il verificarsi di una forza irresistibile o di un evento imprevisto, al di fuori del controllo dello Stato, che rende materialmente impossibile, nelle circostanze del caso, l’adempimento dell’obbligo giuridico. Essa opera come causa di esclusione della responsabilità salvo che la situazione di forza maggiore è causata dalla condotta dello Stato che la invoca, o che quest’ultimo si sia assunto il rischio circa il verificarsi di tale situazione di forza maggiore. L’estremo pericolo è una situazione in cui l’autore dell’atto, non ha altro modo ragionevole, in una situazione di estremo pericolo, di salvare la propria vita o quella delle persone affidate alle sue cure. Esso opera come causa di esclusione della responsabilità salvo che la situazione di pericolo è stata causata dallo Stato che la invoca, oppure se l’atto in questione, poteva creare un pericolo maggiore di quello che si intendeva evitare. Infine, lo stato di necessità è una situazione in cui è in pericolo lo Stato nel suo complesso. Lo stato di necessità, esclude l’illecito, solo nel caso in cui la condotta, altrimenti illecita, costituisce l’unico modo per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave ed imminente e, sempre che non danneggi seriamente un interesse essenziale degli Stati tutelati dall’obbligo violato o della comunità internazionale nel suo complesso.

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DOMANDA GENERALE: CAUSE DI ESTINZIONE E SOSPENSIONE DEI TRATTATI

Le cause di estinzione e sospensione dei trattati sono elencate nella Convenzione di Vienna del 1969.

Anzitutto vi è l’inadempimento del trattato, che può operare sia come causa di estinzione che come causa di sospensione. Esso si verifica quando vi sia il ripudio del trattato, non autorizzato dalla Convenzione di Vienna; la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell’oggetto o dello scopo del trattato. Nel caso di trattati bilaterali, la violazione sostanziale del trattato può essere invocata sia come causa di estinzione che come causa di sospensione. Riguardo i trattati multilaterali, invece, la scelta fra estinzione e sospensione è lasciata alla comune volontà delle parti del trattato, che possono decidere, unanimemente, di far valere l’estinzione o la sospensione nei confronti di tutti o solo di chi ha realizzato la violazione.

In secondo luogo, per porre fine ad un trattato, può essere invocato il cambiamento radicale delle circostanze esistenti al momento della stipulazione, ma solo nelle ipotesi in cui il cambiamento non fosse stato previsto dalle parti al momento della stipulazione del trattato; l’esistenza di quelle circostanze costituisse una condizione essenziale per l’esistenza del trattato; il cambiamento abbia l’effetto di cambiare radicalmente la portata degli obblighi che devono essere adempiuti in base al trattato.

In terzo luogo, opera come causa di estinzione di un trattato, l’emergere di una norma imperativa in conflitto con il trattato.

Infine, vi sono quelle cause che operano in base alle disposizioni del trattato o alla comune volontà delle parti; e l’impossibilità sopravvenuta della esecuzione.

Occorre poi tener presente che le cause di estinzione e sospensione non operano automaticamente, ma devono essere invocate dalla parte che intenda avvalersene.

DOMANDA GENERALE: LE CONTROMISURE

Le contromisure costituiscono uno strumento di autotutela riconosciuto agli Stati che hanno subito una qualche lesione da parte di altri Stati. Esse consistono una reazione, da parte di uno Stato leso, ad un illecito altrui e possono colpire solo lo Stato autore dell’illecito. In pratica, in seguito alla commissione di un illecito internazionale, viene riconosciuta, allo Stato leso, la possibilità di commettere, a sua volta, un illecito nei confronti dello Stato offensore, ponendo così in essere contromisure.

Presupposto necessario, pertanto, per la legittimità del ricorso a contromisure è la previa commissione di un atto illecito da parte dello Stato contro cui le contromisure sono state adottate.

Circa lo scopo delle contromisure, la dottrina non è unanime. Da un lato, c’è chi afferma che la finalità delle contromisure è solo quella di ottenere la cessazione dell’illecito e la riparazione; dall’altro, c’è chi sostiene che le contromisure costituiscano un mezzo per infliggere una punizione allo Stato autore dell’illecito. La CDI ha accolto la prima soluzione, e ha aggiunto che le contromisure debbano avere natura necessariamente provvisoria, reversibile, e debbano essere proporzionale all’offesa. Ovviamente, la valutazione di proporzionalità risulta abbastanza complicata, pertanto non è richiesta una proporzionalità in senso stretto, bensì l’assenza di un’eccessiva sproporzione.

Lo Stato che ha subito l’illecito non può ricorrere immediatamente alle contromisure. Esso infatti deve innanzitutto invitare lo Stato responsabile a cessare il comportamento illecito e a provvedere alla riparazione. Solo quando, il presunto autore dell’illecito rifiuta di intraprendere negoziati, e intenzionalmente o in malafede impedisce l’operare di altri meccanismi di soluzione disponibili, lo Stato leso può ritenere in buona fede che non vi è altra procedura disponibile e quindi ricorrere a contromisure. Questi adempimenti preventivi, non trovano applicazione in relazione ad eventuali contromisure urgenti.

Il ricorso a contromisure è comunque soggetto a dei limiti. In primo luogo, alcuni trattati, implicitamente o esplicitamente, vietano il ricorso a contromisure. In secondo luogo, esse non possono consistere in violazioni di alcuni obblighi che proteggono valori fondamentali per la comunità internazionale nel suo complesso, ad es. non possono consistere nella minaccia o nell’uso della forza. In terzo luogo, le contromisure non possono consistere nella violazione di obblighi in materia di diritti umani e diritto internazionale umanitario. E, infine, le contromisure non possono consistere nella violazione di obblighi discendenti da regole imperative di diritto internazionale, ossia di obblighi derivanti da norme di jus cogens. Il progetto in articoli della CDI, prevede inoltre che lo Stato che adotta contromisure deve rispettare i propri obblighi in materia di procedure di soluzione delle controversie applicabili nei rapporti con lo Stato offensore; e in materia di inviolabilità degli agenti diplomatici o consolari, nonché delle sedi, degli archivi e dei documenti diplomatici e consolari.

In conclusione possiamo affermare che lo Stato leso che abbia adottato legittimamente contromisure, è obbligato a sospenderle se l’atto illecito è cessato e la controversia è stata sottoposta ad una procedura di regolamento arbitrale o giudiziale (sempre che lo Stato responsabile si sottoponga a tale procedura in buona fede).