diritto PENALE rassegna di parte speciale - Corso Lexfor - Alta … n. 8... · 2015-05-13 · 2...
Transcript of diritto PENALE rassegna di parte speciale - Corso Lexfor - Alta … n. 8... · 2015-05-13 · 2...
2
DIRITTO PENALE
Parte speciale*
I. DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO
Cass., sez. VI, 27 giugno 2014, n. 28009, sui parametri interpretativi in merito alle condotte di
attentato ed alla finalità di terrorismo.
II. DELITTI CONTRO LA P.A.
Cass., sez. un., 2 maggio 2013, n. 19054, sulla qualificazione dell’utilizzo del telefono d'ufficio
per fini personali in termini di peculato d’uso.
Cass., sez. un., 14 marzo 2014, n. 12228, sul rapporto tra reato di concussione e fattispecie di
induzione indebita (sub art. 319 quater c.p.), sulla condotta di costrizione nella concussione,
sulla distinzione tra induzione indebita e fattispecie corruttive, sulla distinzione tra istigazione
alla corruzione e tentativo di induzione indebita.
Cass., sez. VI, 28 febbraio 2014, n. 9883, sull’applicabilità della più grave fattispecie di cui
all’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. nell’ipotesi di sistematico ricorso, da parte del pubblico
ufficiale, ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili "ex
post". Sui rapporti tra gli artt. 318 e 319 c.p., dopo l’intervento della legge n. 190 del 2012, v.
anche: Cass., sez. VI, 17 novembre 2014, n. 47271; Id., 26 novembre 2014, n. 49226.
Cass., sez. VI, 18 settembre 2014, n. 38357, su abuso d’ufficio e violazione dell’art. 97 Cost.
(cfr. anche Cass., sez. VI, 26 giugno 2013, n. 34086; Id., 30 gennaio 2013, n. 12370).
Cass., sez. VI, 14 gennaio 2014, n. 1247, sulla possibilità di far rientrare la condotta di
“distrazione” nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p.
Cass., sez. VI, 28 novembre 2014, n. 51688, sui rapporti tra il reato di traffico di influenze
illecite e il millantato credito.
Cass., sez. VI, 21 luglio 2014, n. 32237, sull’ambito applicativo dell’art. 353 c.p. che incrimina
la turbata libertà degli incanti (nel caso di specie, l'amministrazione, dopo aver avviato un
procedimento di gara, si è orientata formalmente per la conclusione di un accordo sostitutivo del
provvedimento finale), nonché sul concetto di “altra utilità” nel reato di concussione.
III. DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA
Cass., sez. VI, 1 agosto 2014, n. 34173, sul dolo nel reato di calunnia.
Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 51824, sulla configurabilità del reato di cui all’art. 377
c.p. nel caso di offerta o promessa di denaro al consulente tecnico del P.M. non ancora citato
come testimone. Sulla questione era già intervenuta Cass., sez. un., ord., 23 ottobre 2013, n.
43384, che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, decisa con la pronuncia
Corte cost., 11 giugno 2014, n. 163.
* Nelle cartelle allegate sono inseriti i testi delle sentenze indicate in grassetto.
3
IV. DELITTI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO
Cass., sez. un., 13 giugno 2014, n. 25191, sui rapporti tra associazione mafiosa e riciclaggio
(sui rapporti tra riciclaggio e reati presupposto, da ultimo, Cass., sez. II, 4 marzo 2015, n. 9392).
Cass., sez. II, ord., 16 aprile 2015, n. 15807, ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della
questione se, ai fini della configurabilità della natura mafiosa, sia sufficiente il semplice
collegamento con l’associazione principale, oppure la suddetta diramazione debba esteriorizzare
in loco gli elementi previsti dall’art. 416-bis, comma 3, c.p. Detta questione si colloca nel più
ampio dibattito in ordine alla questione se sia sufficiente che l’associazione si ponga quale fine
l’esercizio del metodo mafioso (per un accertamento solo potenziale della forza di intimidazione
cfr., tra le altre, Cass., sez. V, 26 giugno 2013, n. 28091; Id., 5 giugno 2013, n. 35999) ovvero
se sia necessaria l’effettiva attuazione dello stesso (tra le altre, Cass., sez. V, 27 marzo 2014, n.
14582).
Cass., sez. un., 23 aprile 2013, n. 18374, sull’applicabilità anche alla fattispecie associativa
delle aggravanti previste per i delitti-scopo, con particolare riguardo all’aggravante speciale
della transnazionalità ex art. 4 legge n. 146/2006 (da ultimo, cfr. anche Cass., sez. III, 20
gennaio 2015, n. 2458).
Cass, sez. VI, 28 agosto 2014, n. 36382 e Cass., sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374, sul reato
di scambio elettorale politico-mafioso dopo la riscrittura dell’art. 416-ter c.p. intervenuta con la
legge 17 aprile 2014, n. 62.
V. DELITTI CONTRO L’INCOLUMITÀ PUBBLICA
Cass., sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941, sul reato di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p.,
in particolare sull’individuazione del momento consumativo (caso Eternit).
VI. DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
Cass., sez. II, 4 febbraio 2014, n. 5546, sull’esclusione dell’assorbimento tra il reato di falso
ideologico in atto pubblico e quello di abuso d'ufficio (tra le pronunce di segno contrario cfr.
Cass., sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1417).
VII. DELITTI CONTRO LA PERSONA
Cass., sez. un., 14 aprile 2014, n. 16207, sul reato di prostituzione minorile di cui all’art. 600-
bis, c.p., in particolare sul concetto di induzione alla prostituzione (da ultimo, cfr. Cass., sez. III,
12 marzo 2015, n. 10487; Id., 17 febbraio 2015, n. 6821).
Cass., sez. III, 1 dicembre 2014, n. 49990, sul reato di violenza sessuale, in particolare
sull’interpretazione dell’espressione “abuso di autorità” di cui all’art. 609-bis c.p.
Cass., sez. III, 30 luglio 2013, n. 32928, su violenza sessuale di gruppo e concorso di persone
(in tema cfr. anche Cass., sez. III, 17 aprile 2014, n. 17004; Id., 18 luglio 2014, n. 31842).
Sul reato di atti persecutori:
- Cass., sez. III, 14 novembre 2013, n. 45648, con particolare riferimento all’ipotesi di
reciproci comportamenti molesti e sui rapporti con il reato di violenza sessuale (sul reato di
cui all’art. 612-bis c.p., cfr. anche Cass., sez. V, 19 maggio 2014, n. 20531; Id., sez. III, 11
febbraio 2014, n. 6384);
4
- Cass., sez. V, 16 gennaio 2015, n. 2283 (in senso conforme, cfr. Cass., sez. V, 25 maggio
2011, n. 20895) e Cass., sez. III, 13 giugno 2013, n. 25889 (in senso conforme, cfr. Cass.,
sez. III, 18 novembre 2013, n. 46179) sui rapporti tra il reato di atti persecutori e quello di
violenza privata (secondo la prima pronuncia le due fattispecie possono concorrere, mentre
la seconda rileva la specialità del reato di cui all’art. 610 rispetto all’art. 612-bis).
VIII. DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO
Cass., sez. un., 16 dicembre 2014, n. 52117, sul momento consumativo nel furto nei
supermercati.
Cass., sez. un., 18 luglio 2013 n. 40354, sull’aggravante del mezzo fraudolento nel delitto di
furto di cui all’art. 625, n. 2, c.p.
Cass., sez. II, 19 dicembre 2013, n. 51433, sui rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario
delle proprie ragioni con violenza alle persone, in particolare sul criterio discretivo fondato
sull’elemento soggettivo (per l’adesione al diverso orientamento che valorizza il profilo della
condotta cfr. Cass., sez. V, 6 marzo 2013, n. 19230).
Cass., sez. II, 16 dicembre 2014, n. 51121, sul criterio distintivo tra l’ipotesi aggravata di
truffa, di cui all’art. 640, comma 2, n. 2, c.p. (prospettazione di un pericolo immaginario) e il
reato di estorsione integrata dalla minaccia di un male, individuato dal solo mezzo utilizzato
(ossia gli artifizi e raggiri), non anche dagli effetti sortiti sulla volontà della vittima. Sulla
questione, da ultimo, Cass., sez. II, 19 febbraio 2015, n. 7662, secondo cui il discrimen è
individuato dal diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e dalla sua incidenza nella sfera
soggettiva del soggetto passivo.
Cass., sez. II, 7 maggio 2014, n. 18778, in tema di usura, in particolare sulla c.d. usura in
concreto.
Cass., sez. un., 12 febbraio 2014, n. 6773, chiamate a pronunciarsi sulla questione se, ai fini
dell'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, c.p., debba
riconoscersi natura pubblica o privata ad una società per azioni partecipata da un ente pubblico e
concessionaria di opera pubblica (le Sezioni Unite, sebbene abbiano emesso una pronuncia di
rito - con la declaratoria di inammissibilità del ricorso - hanno comunque fornito indicazioni in
ordine alla individuazione della natura pubblica di un ente).
Cass., sez. II, 16 ottobre 2014, n. 43341, sulla questione se l’esclusione della causa di non
punibilità per i delitti contro il patrimonio in danno di congiunti, prevista dal terzo comma
dell’art. 649 c.p. con riguardo ai delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 c.p., operi anche per
la fattispecie tentata.
IX. LEGISLAZIONE PENALE SPECIALE
IX. 1. REATI TRIBUTARI
Cass., sez. V, 24 febbraio 2014, n. 8797 e Cass., sez. III, 3 aprile 2014, n. 15186, in tema di
rilevanza penale dell’abuso del diritto in materia tributaria.
IX.2. STUPEFACENTI
Cass., sez. un., 10 giugno 2013, n. 25401, sull’uso di gruppo di sostanze stupefacenti
Tra le diverse le questioni conseguenti alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014:
5
a) Cass., sez. III, 22 dicembre 2014, n. 53157, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se
l'aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i delitti previsti dall'art. 73 D.P.R. n.
309 del 1990 in relazione alle "droghe leggere", quando gli stessi costituiscono reati-
satellite, debba essere oggetto di specifica rivalutazione alla luce della più favorevole
cornice edittale applicabile per tali violazioni in conseguenza della reviviscenza della
precedente disciplina determinatasi per effetto della citata sentenza della Corte
Costituzionale.
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione nell’udienza del 26 febbraio
2015. Secondo le informazioni provvisorie diffuse dal servizio novità della
Cassazione la risposta è stata affermativa.
b) Cass., sez. IV, 1 dicembre 2014, n. 50055, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se,
a seguito della dichiarazione d'incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies-ter, della legge n.
49 del 2006, pronunciata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 32 del 2014, debbano
ritenersi penalmente rilevanti le condotte che, poste in essere a partire dall'entrata in vigore
di detta legge e fino all'entrata in vigore del decreto-legge n. 36 del 2014, abbiano avuto ad
oggetto sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle solo successivamente all'entrata in vigore
del D.P.R. n. 309 del 1990 nel testo novellato dalla richiamata legge n. 49 del 2006.
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione nell’udienza del 26 febbraio
2015. Secondo le informazioni provvisorie diffuse dal servizio novità della
Cassazione la risposta è stata negativa. La Corte ha altresì chiarito che i medicinali
(come il nandrolone, oggetto della fattispecie in esame) compresi nella Tabella V
introdotta dalla novella del 2014 sono sanzionati ai sensi dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del
1990 in quanto contengano i principi attivi di cui alle Tabelle da I a IV.
c) Cass., sez. VII, 8 gennaio 2015, n. 671, ha rimesso alle Sezioni Unite due questioni:
- se il trattamento sanzionatorio più favorevole, fatto rivivere dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 32 del 2014, possa trovare applicazione nei giudizi in corso
anche nel caso in cui sul trattamento sanzionatorio si sia formato un giudicato
parziale, e cioè quando il giudizio di legittimità sia stato proposto per motivi in alcun
modo riconducibili al trattamento sanzionatorio;
- se debba considerarsi pena illegale la sanzione che il giudice abbia fissato
utilizzando come parametri edittali i valori successivamente caducati, ma
individuando in concreto una misura compatibile anche con i limiti di legge da
considerarsi attualmente vigenti.
7
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio - Presidente -
Dott. CHIEFFI Severo - Consigliere -
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. VECCHIO Massimo - rel. Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Consigliere -
Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di
Brescia;
nel procedimento nei confronti di:
1. C.J., nata a (OMISSIS);
2. P.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/02/2013 del Tribunale di Bergamo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Massimo Vecchio;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott.
DESTRO Carlo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza deliberata l'11 febbraio 2013 e depositata il 25 febbraio 2013, il Tribunale di
Bergamo, in composizione monocratica, giudicando col rito abbreviato, instaurato in esito alla
convalida dell'arresto e alla presentazione per il giudizio direttissimo, ha condannato, nel concorso
della attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità (reputata equivalente alla aggravante
dell'uso della violenza sulle cose e alla recidiva), nonchè della diminuente del rito, alla pena della
reclusione in tre mesi e della multa in cento Euro C.J. e P.G., dichiarati responsabili del furto
tentato, commesso, in concorso tra loro, a danno del centro commerciale (OMISSIS), così
riqualificata la originaria imputazione di furto consumato.
Il Tribunale ha accertato che i giudicabili, entrambi confessi, avevano prelevato dai banchi di
esposizione del supermercato tre flaconi di profumo, caffè e biscotti; avevano lacerato le
confezioni, rimuovendo la "placchette antitaccheggio"; avevano occultato la refurtiva, celandola
dentro una borsa e sotto gli indumenti; avevano, quindi, superato la cassa, senza pagare la merce
nascosta, ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato); ed erano usciti dal centro commerciale.
All'esterno del fabbricato l'addetto alla sicurezza, F.M., il quale si era avveduto in precedenza della
azione furtiva, era alfine intervenuto, promovendo l'intervento della polizia giudiziaria che aveva
tratto in arresto i due imputati.
2. Con riferimento a quanto serba rilievo nella sede del presente scrutinio di legittimità, sul punto
della definizione giuridica del fatto, il Tribunale ha motivato che la concorsuale condotta delittuosa
8
doveva essere derubricata nella ipotesi del tentativo, in quanto tutta la azione si era "svolta sotto gli
occhi dell'addetto alla sicurezza il quale aveva monitorato ogni spostamento" dei due imputati e
aveva deciso "di bloccarli alla rectius: dopo la barriera delle casse, anzichè durante la sottrazione,
per mere ragioni di opportunità".
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte territoriale ha proposto ricorso
immediato per cassazione con atto recante la data del 27 marzo 2013, dichiarando promiscuamente
di denunziare, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), inosservanza o erronea
applicazione della legge penale, in relazione all'art. 56 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione.
Il ricorrente deduce, anche con richiamo di pertinenti arresti della Corte di cassazione: il giudice a
quo ha trascurato di dare conto delle supposte ragioni di opportunità che avrebbero indotto l'addetto
alla vigilanza a non intervenire prima che i giudicabili superassero le casse; per vero è "solo al
momento in cui gli imputati alla cassa non hanno pagato" la merce, prelevata e occultata, che "è
scattata ... la possibilità di contestare con certezza il furto"; un intervento prematuro non avrebbe
consentito di stabilire se la condotta fosse stata realmente preordinata al furto, in quanto "molte
volte" accade che i clienti dei supermercati aprano le confezioni dei prodotti o, addirittura, li
consumino, "prima di raggiungere le casse e che, poi, li paghino regolarmente"; nella specie, colla
materiale apprensione, la refurtiva è "uscita dalla disponibilità della persona offesa ... al momento
del passaggio alla barriera delle casse" in mancanza del pagamento della merce; la circostanza che
l'addetto alla vigilanza avesse notato la azione dei prevenuti, già prima che costoro avessero
raggiunto la cassa, "non trasforma il furto consumato in furto tentato", in quanto "i responsabili
sono stati colti in un momento successivo alla realizzazione del fatto reato", in una area "diversa da
quella dove era stata perpetrata la sottrazione della merce" e in una "fase temporale" distinta e
posteriore; peraltro, anche accedendo all'indirizzo minoritario della giurisprudenza di legittimità,
secondo il quale ostano alla consumazione del reato la concomitante osservazione del personale
addetto alla sorveglianza e la possibilità di interrompere l'azione furtiva rilevata, nella specie
neppure emerge che il controllo fosse stato "così pregnante, capillare e diffuso da consentire di
interrompere l'azione criminosa in qualsiasi momento".
4. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 30 aprile 2014 l'ha
rimesso alle Sezioni Unite a norma dell'art. 618 c.p.p..
La ordinanza ha rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione, oggetto del ricorso,
della qualificazione giuridica della condotta furtiva consistente nel prelievo di merce dai banchi di
un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all'atto del passaggio davanti al
cassiere, quando tutta la azione delittuosa si è svolta sotto il controllo costante del personale addetto
alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il soggetto attivo ha superato la barriera delle casse.
4.1. Secondo un primo orientamento, invocato dal Procuratore generale ricorrente e che è stato, da
ultimo ribadito con sentenza Sez. 5, n. 20838 del 07/02/2013, Fornella, Rv. 256499, la condotta in
parola integra gli estremi del delitto di furto consumato, nulla rilevando, al riguardo, "la circostanza
che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della
sorveglianza" (così ex plurimis Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, Marin, Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242
del 13/07/2010, Nasi, Rv. 248650;
Sez. 5, n. 27631 del 08/06/2010, Piccolo, Rv. 248388; Sez. 5, n. 23020 del 09/05/2008, Rissotto,
Rv. 240493).
9
L'indirizzo in parola sostiene che il soggetto attivo del reato nel preciso momento nel quale supera
la cassa, senza mostrare (nè pagare) la refurtiva celata, perfeziona la sottrazione del bene del quale,
solo allora, "consegue istantaneamente il possesso illegittimo ... indipendentemente dal
monitoraggio svolto dal personale del supermercato". Mentre, nulla rileva che fino a quell'istante il
cliente, autorizzato ad apprendere dal banco di esposizione e a portare con sè la merce prelevata,
"non la lasci in vista, avendola riposta nelle tasche dell'abito o in un qualsiasi contenitore".
4.2. Secondo l'orientamento opposto, pur citato dal ricorrente, la concomitante "sorveglianza
continua dell'azione criminosa" da parte del soggetto passivo o dei suoi dipendenti impedisce la
consumazione del reato di furto, in quanto la refurtiva, appresa e occultata permane nella "sfera di
vigilanza e di controllo diretto dell'offeso, il quale può in ogni momento interrompere" la condotta
delittuosa (così Sez. 5, n. 11592 del 28/01/2010, Finizio, Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del
06/05/2010, Lazaar, Rv. 247410; Sez. 4, n. 38534 del 22/09/2010, Bonora, Rv. 248863; Sez. 5, n.
7042 del 20/12/2010, dep. 2011, D'Aniello, Rv. 249835; e, in tema di rapina impropria, Sez. 2, n.
8445 del 05/02/2013, Niang, n.m.).
4.3. In conclusione, sulla base del rilevato contrasto, la Sezione rimettente ha sottoposto la
questione della consumazione del delitto di furto, in costanza del concomitante monitoraggio ad
opera degli addetti alla sorveglianza, della condotta dell'agente, il quale, appresa la merce in
esposizione, abbia superato la barriera della cassa, occultando quanto sottratto prima di essere
bloccato dal personale di vigilanza.
5. Con decreto del 30 maggio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
penali e ne ha fissato la trattazione per la odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite, siccome formulata dalla Sezione rimettente,
si sostanzia nel quesito seguente: "Se la condotta di sottrazione di merce all'interno di un
supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come
furto consumato o tentato allorchè l'autore sia fermato dopo il superamento della barriera delle
casse con la merce sottratta".
2. Deve essere esaminata in limine la questione preliminare, in rito, della esperibilità del ricorso
immediato per cassazione proposto dal Pubblico ministero e, conseguentemente, della competenza
di questa Corte di legittimità a conoscere la impugnazione, laddove il ricorrente ha denunziato
(congiuntamente alla erronea applicazione della legge penale) la mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma
1, lett. e).
2.1. L'art. 569 c.p.p., comma 3, stabilisce: "La disposizione del comma 1 recante la previsione della
proposizione diretta del ricorso per cassazione avverso le sentenze di primo grado appellabili non si
applica nei casi previsti dell'art. 606, comma 1, lett. d) ed e). In tali casi il ricorso eventualmente
proposto si converte in appello".
La norma comporta che col ricorso c.d. per saltum non possono farsi valere i motivi previsti dalle
citate lettere dell'art. 606 c.p.p..
10
2.2. Nella specie, tuttavia, la questione deve essere risolta in senso positivo. E' pur vero che il
Pubblico ministero ricorrente ha dichiarato di dedurre vizi di motivazione, ma la relativa denunzia
deve considerarsi tanquam non esset e affatto irrilevante, ai fini della qualificazione del ricorso,
perchè è assorbita dalla concorrente denunzia della erronea applicazione della legge penale.
Giova, in proposito, ricordare che in materia di questioni di diritto circa la interpretazione della
legge, non è consentita la deduzione di (ritenuti) vizi di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), in quanto la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della
motivazione sono configurabili "soltanto con riguardo ad elementi di fatto che il giudice abbia
trascurato o di cui abbia dato una valutazione illogica o contraddittoria, e non con riguardo" alle
questioni di diritto nè alle "argomentazioni giuridiche delle parti". Se, infatti, le questioni e le
argomentazioni in parola sono fondate, "il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o
meno) da luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge", mentre, se "sono
infondate, il fatto che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità
della pronuncia giudiziale" (Sez. 1, n. 4931 del 17/12/1991, dep. 1992, Parente, Rv. 188913; Sez. 5,
n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993; Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, P.C. in proc.
Haggag, Rv. 242634; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123).
3. Superata la questione preliminare in rito, lo scrutinio del quesito di diritto proposto involge,
innanzi tutto, l'analisi dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità (invocato dal ricorrente)
nel senso della ritenuta consumazione del furto, nelle circostanze indicate, a dispetto della
concomitante vigilanza del soggetto passivo del reato (o di suoi addetti) e dell'immediato recupero
della refurtiva.
3.1. Oltre alle sentenze Rissotto, Piccolo, Nasi, Marin e Fornella, citate nella ordinanza di
rimessione, la tesi della consumazione è stata affermata da pronunce della Cassazione sia risalenti
nel tempo, che recentissime: tra le altre, Sez. 2, n. 938 del 24/05/1966, Delfino, Rv. 102532; Sez. 2,
n. 2088 del 18/06/1973, dep. 1974, Mucci, Rv. 126456; Sez. 4, n. 7235 del 16/01/2004, Coniglio,
Rv.
227347; Sez. 2, n. 48206 del 12/01/2011, Pezzuolo; Sez. 5, n. 25555 del 15/06/2012, Magliulo,
n.m.; Sez. 5, n. 41327 del 10/07/2013, Caci, Rv. 257944; Sez. 5, n. 8395 del 2/10/2013, dep. 2014,
La Cognata, n.m.; Sez. 5, n. 1701 del 23/10/2013, dep. 2014, Nichiforenco, Rv. 258671; Sez. 7, n.
6832 del 20/11/2013, dep. 2014, Pulsoni, n.m.; Sez. 5 n. 677 del 21/11/2013, dep. 2014, Flauto,
n.m.;
Sez. 4, n. 8079 del 12/12/2013, dep. 2014, Molinari, n.m.; Sez. 4, n. 7062 del 09/01/2014,
Bergantino, Rv. 259263.
Nell'ambito di tale indirizzo talune pronunce hanno ravvisato la consumazione del furto ancor prima
del superamento della barriera delle casse, allorchè l'agente, prelevata la mercè dal banco, "l'abbia
nascosta sulla propria persona oppure in una borsa o, comunque, l'abbia occultata" (Sez. 2, Delfino,
Rv. 102532, cit.), sulla base della considerazione che la condotta in parola "oltre alla amotio ...
determina l'impossessamento della res (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi) e,
dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico gli elementi costitutivi del delitto di
furto" (Sez. 5, Marin, Rv. 249842, cit.).
Altre sentenze hanno distinto: per un verso hanno ammesso la possibilità del tentativo (praticamente
esclusa dalle decisioni testè citate in considerazione della immediatezza della consumazione),
11
circoscrivendo la relativa ipotesi al caso dell'intervento della persona offesa o dei suoi incaricati, là
dove costoro, avendo sorvegliato tutte le fasi della azione furtiva, la interrompano prima che
l'agente abbia oltrepassato la barriera delle casse; per altro verso hanno ribadito che, in ogni caso,
"il momento consumativo" del reato si realizza indefettibilmente quando il soggetto attivo sia
passato davanti all'addetto alla cassa senza pagare, a prescindere dal concomitante monitoraggio
della condotta delittuosa (Sez. 4, Coniglio, cit., richiamata, tra altre, da Sez. 4, Molinari, cit.).
3.2. La tesi della consumazione è, in generale, sostenuta dalla duplice affermazione: a) del
perfezionamento della condotta tipizzata dello impossessamento della refurtiva, per effetto del
prelievo della mercè, senza il successivo pagamento dovuto all'atto del passaggio davanti alla cassa;
b) della irrilevanza della circostanza che "il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del
personale del supermercato incaricato della sorveglianza" (così, da ultimo, Sez. 4, Bergantino, cit.).
La citata sentenza Sez. 5, n. 25555 del 2012, Magliulo, ha offerto un contributo di
approfondimento, postulando essere condizione "necessaria e sufficiente perchè il ... reato possa
dirsi consumato che la persona offesa sia stata privata della detenzione e, per ciò, stesso sia stata
posta nella condizione di doversi attivare, se vuole recuperala, nei confronti del soggetto che l'ha
acquisita" e, in proposito, argomentando che l'agente, tosto che abbia "oltrepassato la barriera delle
casse senza pagare la merce", consegue "da quel momento la detenzione esclusiva e illecita" della
refurtiva, "mentre, in precedenza, salvo il caso dell'occultamento, detta detenzione non poteva dirsi,
nè esclusiva, nè illecita".
La sentenza n. 8395 del 2013, La Cognata, cit., ha negato che il concomitante "controllo" dello
sviluppo della azione delittuosa da parte del personale del personale di vigilanza impedisca la
consumazione del furto, motivando: la circostanza è "del tutto estranea all'operato dell'agente"; la
sorveglianza non ha impedito la violazione della norma; il recupero della refurtiva, in seguito
all'eventuale intervento degli addetti alla sorveglianza, si colloca "nella fase post delictum".
4. Anche il contrario orientamento trova ancoraggio (oltre che nelle più recenti sentenze Finizio,
Lazaar, Bonora, D'Aniello e Niang, menzionate nella ordinanza di rimessione) in altre pronunce di
legittimità, scandite nell'ampio arco temporale durante il quale si è protratto il contrasto di
giurisprudenza: Sez. 5, n. 398 del 27/10/1992, dep. 1993, De Simone, Rv. 193177; Sez. 5, n. 11947
del 30 ottobre 1992, Di Chiara, Rv. 192608; Sez. 5, n. 837 del 03/11/1992, dep. 1993, Zizzo, Rv.
193486; Sez. 5, n. 3642 del 21 gennaio 1999, Imbrogno, Rv. 213315; nonchè (non massimate sul
punto in esame) Sez. 4, n. 31461 del 03/07/2002, Carbone; Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006,
Giordano.
L'indirizzo si fonda sulla considerazione che la concomitante osservazione da parte della persona
offesa, ovvero del dipendente personale di sorveglianza, dell'avviata azione delittuosa (al pari dei
controlli strumentali mediante apparati elettronici di rilevazione automatica del movimento della
merce, scilicet: sensori, placche antitaccheggio) e la correlata e immanente possibilità di intervento
nella immediatezza, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del reato, per non
essersi perfezionata la fattispecie tipizzata - dell'impossessamento, mediante sottrazione, della cosa
altrui - in quanto l'agente non ha conseguito l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non
ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo, la cui "signoria sulla
cosa" non è stata eliminata.
In proposito la sentenza n. 31461 del 2002, Carbone, cit., distingue, opportunamente, "l'intervento
in re ipsa" a difesa della detenzione esercitato dalla persona offesa, dai dipendenti della stessa
12
addetti alla vigilanza (o, quale atto dovuto, dalle forze dell'ordine) dall'intervento (meramente
eventuale) dispiegato da un terzo estraneo (a tutela dell'altrui possesso); ed esclude che quest'ultimo
tipo di intervento, connotato da accidentalità e "aleatorietà", sia di ostacolo al riconoscimento della
consumazione del reato, in quanto il recupero della refurtiva a opera del terzo estraneo presuppone
la intervenuta perdita della signoria sulla cosa da parte del derubato.
Incisivamente la sentenza n. 8445 del 2013, Niang, cit., ha argomentato a sostegno
dell'orientamento in esame che è da "ritenersi preferibile la tesi che tende a privilegiare un
connotato di "effettività" che deve caratterizzare l'impossessamento quale momento consumativo
del delitto di furto, rispetto al semplice momento sottrattivo, con la conseguenza che l'autonoma
disponibilità del bene potrà dirsi realizzata solo ove sia stata correlativamente rescissa la altrettanto
autonoma signoria che sul bene esercitava il detentore".
5. Le Sezioni Unite ritengono di dover comporre il contrasto giurisprudenziale mediante la
riaffermazione di tale secondo orientamento, nel senso della qualificazione giuridica della condotta
in esame in termini di furto tentato.
La soluzione si colloca, peraltro, in linea di continuità col dictum della sentenza Sez. U, n. 34952
del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153.
Nel risolvere positivamente la questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria
(anche) in difetto della materiale sottrazione del bene all'impossessamento del quale l'azione
delittuosa era finalizzata, la citata sentenza ha argomentato, proprio con espresso riferimento al
furto: "finchè la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore" e "questi è ancora in
grado di recuperala" tanto fa "degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo".
5.1. La quaestio iuris in esame involge il più ampio tema della definizione giuridica della azione di
impossessamento della cosa altrui, tipizzata dalla norma incriminatrice.
5.2. L'art. 624, primo comma, cod. pen. contempla la condotta di chi "si impossessa della cosa
mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trame profitto per se o per altri".
La formulazione normativa riecheggia e riproduce nel nucleo essenziale la previsione dell'art. 402,
comma 1, del codice Zanardelli del 1889, salvo che per la significativa sostituzione dell'inciso
modale del predicato verbale, contenuto nella previgente disposizione, che recitava "togliendola dal
luogo in cui si trova", avendo in tali termini il legislatore del 1989 recepito la teoria della amotio,
eletta dalla dottrina dell'epoca per denotare l'impossessamento mediante, appunto, l'adozione del
criterio c.d.
spaziale.
La norma vigente ha espunto siffatto criterio introducendo quello personale o funzionale della
sottrazione.
Sicchè la descrizione della condotta delittuosa risulta scandita dal sintagma impossessamento-
sottrazione.
5.3. L'analisi della dottrina in punto di definizione e di rapporto reciproco dei due segmenti della
condotta delittuosa, sinergicamente configurati nel costrutto sintattico della norma incriminatrice,
13
caratterizzato dalla adozione del verbo "sottrarre" nella subordinata, non ha, per vero, approdato a
condivise conclusioni, ora accentuandosi la distinzione cronologica e logica dei momenti della
sottrazione e dell'impossessamento, ora controvertendosi in ordine alla relativa sequenza, ora
enfatizzando la pregnanza dell'uno piuttosto che dell'altro.
Nel caso in esame le difficoltà sono acuite da due ordini di fattori: a) la sovrapposizione, rilevata in
talune delle sentenze citate, dei piani affatto diversi della qualificazione della condotta e della prova
del reato e, segnatamente, dell'elemento psicologico;
b) la relazione di tipo prenegoziale, presupposta dalla condotta delittuosa, che lega l'agente al
soggetto passivo, offerente in vendita della mercè esposta, e che abilita il primo al prelievo dei beni
dai banchi di esposizione.
In tale prospettiva la condotta dell'agente il quale oltrepassi la cassa, senza pagare la merce
prelevata, rende difficilmente contestabile l'intento furtivo, ma lascia impregiudicata la questione se
la circostanza comporti di per sè sola la consumazione del reato, quando l'azione delittuosa sia stata
rilevata nel suo divenire dalla persona offesa, o dagli addetti alla vigilanza, i quali, nella
immediatezza intervengano a difesa della proprietà della mercè prelevata.
5.4. Decisiva è, al riguardo, la premessa che in difetto del perfezionamento del possesso della
refurtiva in capo all'agente è, comunque, certamente da escludere che il reato possa ritenersi
consumato.
La considerazione assorbe la disamina del controverso rapporto tra la sottrazione e
l'impossessamento.
Orbene, appare difficilmente confutabile - e il dato deve ritenersi acquisito per generale consenso e
in carenza di veruna apprezzabile obiezione - che l'impossessamento del soggetto attivo del delitto
di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed
effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente.
Sicchè, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona
offesa e dall'intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente
appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza
dell'impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa
nell'ambito del tentativo.
La conclusione riceve conforto dalla considerazione dell'oggetto giuridico del reato alla luce del
principio di offensività.
In tale prospettiva, di recente valorizzata quale canone ermeneutico di ricostruzione dei "singoli tipi
di reato" da Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, il fondamento della giustapposizione tra il
delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella
compromissione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice.
Affatto coerente risulta, pertanto, l'aggancio della consumazione del furto alla completa rescissione
(anche se istantanea) della "signoria che sul bene esercitava il detentore", come esattamente
individuato dalla citata sentenza n. 8445 del 2013, Niang. Mentre, di converso, se lo sviluppo
dell'azione delittuosa non abbia comportato ancora la uscita del bene dalla sfera di vigilanza e di
14
controllo dell'offeso, è per vero confacente, alla stregua del parametro della offensività, la
qualificazione della condotta in termini di tentativo.
6. La conclusione raggiunta resiste alle obiezioni espresse nelle sentenze che si sono uniformate al
contrario indirizzo.
6.1. Sono ricorrenti nelle pronunce in parola i riferimenti alla amotio della refurtiva da parte
dell'agente.
La teoria della amotio, in linea generale, appare anacronistica in quanto non è confortata
dall'addentellato normativo, in precedenza offerto dell'art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del
1889.
Inoltre, con specifico riferimento al caso in esame, il criterio spaziale dello spostamento della cosa
"dal luogo in cui si trova" non è certamente applicabile alla apprensione della mercè dal banco di
esposizione del negozio in quanto il sistema di vendita selfservice abilita l'avventore al prelievo.
6.2. L'argomento che la sorveglianza dell'offeso non ha impedito la violazione della norma penale
non è nè concludente, nè oltretutto pertinente.
Ciò che è in discussione non è la sussistenza della attività delittuosa, bensì la relativa definizione
giuridica.
6.3. Neppure appare calzante, per confutare la qualificazione della condotta de qua in termini di
tentativo, la obiezione che la concomitante sorveglianza della persona offesa e la correlata
possibilità di intervento immediato, a tutela della detenzione, costituiscano "circostanza del tutto
estranea all'operato dell'agente": per vero il delitto tentato si caratterizza per la mancata
verificazione dell'evento dovuta a cause indipendenti dalla volontà dell'agente (Sez. U, n. 7523 del
21/05/1983, Andreis, Rv.
160247; Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153), ricorrendo altrimenti la ipotesi
alternativa della desistenza prevista dall'art. 56 c.p., comma 3.
6.4. Gli ulteriori argomenti (non privi di suggestione) in ordine al rilievo della attivazione della
persona offesa per il recupero della refurtiva e in ordine alla collocazione della relativa attività
"nella fase post delictum" devono essere disattesi per la petizione di principio che sottendono:
assumono a premessa la tesi da dimostrare della consumazione del furto colla intervenuta perdita
del bene da parte del soggetto passivo; mentre si tratta della difesa della detenzione esercitata
dall'offeso in continenti e resa possibile dalla perdurante presenza della res nella sfera di vigilanza e
di controllo del detentore.
7. Le considerazioni che precedono consentono di formulare il seguente principio di diritto: "il
monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta
osservazione della persona offesa (o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell'ordine
presenti in loco,), sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della
merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la
consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l'agente non ha
conseguito, neppure momentaneamente, l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non
ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo".
15
8. In conclusione, alla stregua del principio di diritto enunciato, il ricorso risulta infondato, sicchè
esso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 17 aprile 2014.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2014
16
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente -
Dott. SIRENA Pietro Antonio - Consigliere -
Dott. SIOTTO Maria Cristina - Consigliere -
Dott. CORTESE Arturo - Consigliere -
Dott. FIALE Aldo - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. FUMO Maurizio - Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Mar - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.M., nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 05/04/2012 dalla Corte di appello
dell'Aquila;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Rocco Marco Blaiotta;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato Generale Dott.
DESTRO Carlo, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio;
udito il difensore, avv. Roberto De Angelis, che ha concluso
chiedendo l'annullamento senza rinvio.
RITENUTO IN FATTO
1. A seguito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Sulmona ha affermato la responsabilità di S.M.
in ordine al reato di furto aggravato di cui all'art. 624 c.p., e art. 625 c.p., comma 1, n. 2.
La sentenza è stata confermata dalla Corte di appello dell'Aquila.
Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, l'imputata sottraeva dagli scaffali di un grande
magazzino denominato Oviesse alcuni capi d'abbigliamento per bambini ed un top da donna privi di
placche antitaccheggio, li occultava in una grande borsa che appariva piena, passava la cassa senza
pagare, usciva dall'esercizio e veniva fermata dai Carabinieri cui era nota per precedenti, analoghi
illeciti.
Nell'occultamento della merce è stata ravvisata l'aggravante dell'uso di mezzo fraudolento di cui al
richiamato art. 625. Si è ritenuto che tale condotta, improntata ad astuzia e scaltrezza, abbia
costituito un espediente utile per eludere i controlli visivi del personale e superare le casse senza
essere fermata.
2. Ricorre per cassazione l'imputata deducendo tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si prospetta la mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della
motivazione con riguardo alla ritenuta esistenza della circostanza dell'uso del mezzo fraudolento. Si
argomenta che l'aggravante in questione richiede un comportamento ingegnoso, un sotterfugio o un
17
particolare accorgimento che abbia consentito all'autore del reato di eludere o superare gli ostacoli
materiali o personali volti ad impedire la sottrazione del bene. La ratio della detta circostanza va
ricercata nell'intenzione del legislatore di colpire con una sanzione più grave l'agente che,
mostrando particolari capacità criminose, riveli una spiccata pericolosità sociale.
Tale situazione non si configura nel caso specifico. L'imputata non ha rimosso le placche
antitaccheggio in quanto gli abitini rubati ne erano privi, ed ha potuto facilmente raggiungere
l'uscita dell'esercizio. Inoltre, il mero occultamento della cosa sottratta, non rappresentando un
elemento in più rispetto all'attività necessaria per operare la sottrazione, non configura l'aggravante
in questione, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
2.2. Con il secondo motivo si deduce che, esclusa la detta aggravante, il reato è perseguibile a
querela, che nella specie è irrituale. Il documento è stato redatto dalla responsabile del
supermercato, senza affermare nè allegare la qualifica di legale rappresentante dell'esercizio.
Neppure è stata prospettata la veste di institore, cui in alcune pronunzie di legittimità si attribuisce
rilievo ai fini della legittimazione a proporre querela.
2.3. Con il terzo motivo si lamenta vizio della motivazione per ciò che attiene al diniego delle
attenuanti generiche. La Corte di appello ha omesso di prendere in esame la peculiare situazione
soggettiva dell'imputata prospettata dalla difesa. La ricorrente era incinta e si è limitata a sottrarre
alcuni vestitini per bambini, e non articoli voluttuari; ed è ben probabile che la gravidanza abbia
procurato quantomeno un soggettivo perturbamento. Il giudice di merito, a fronte di tali deduzioni,
si è limitato ad evocare le precedenti condanne per reati analoghi.
2.4. Ha fatto seguito la presentazione di due memorie con le quali sono state ribadite le
prospettazioni difensive.
3. La Quarta sezione penale cui il ricorso è stato assegnato lo ha rimesso alle Sezioni Unite, avendo
riscontato contrasti giurisprudenziali in ordine ai temi oggetto dei primi due motivi di ricorso.
Quanto all'aggravante, si premette che, per costante giurisprudenza di legittimità, l'espressione
"mezzo fraudolento" fa riferimento ad ogni attività insidiosa, improntata ad astuzia o scaltrezza che
soverchi o sorprenda la contraria volontà del detentore della cosa ed abbia la meglio rispetto alle
cautele predisposte dal soggetto passivo a difesa del bene.
Si aggiunge che, valorizzando tale connotato della circostanza, un primo indirizzo giurisprudenziale
ritiene che l'aggravante in questione debba necessariamente costituire un elemento in più rispetto
all'attività materiale per operare la sottrazione e l'impossessamento. Ne discende che, nell'ambito
considerato, afferente alla vendita con il sistema del cosiddetto self service, l'impossessamento della
merce esposta nei banchi di vendita si realizza con il fatto stesso dell'occultamento. Tale
nascondimento non costituisce un mezzo fraudolento, cioè un insidioso accorgimento, bensì il modo
più semplice per la consumazione del reato. L'occultamento, insomma, rappresenta un momento
necessario per la commissione dell'illecito e nulla aggiunge alla fattispecie di base: senza di esso la
perpetrazione del furto sarebbe impossibile.
L'opposto orientamento giurisprudenziale, prosegue l'ordinanza di rimessione, ravvisa astuzia e
scaltrezza nell'occultamento della merce esposta e ritiene, in conseguenza, che tale condotta integri
l'aggravante. Si rammenta che tale orientamento è stato proposto anche in relazione al
nascondimento della merce sulla persona, o in contenitori appositamente attrezzati.
18
4. La sezione rimettente scorge confligenti indirizzi della giurisprudenza pure in relazione
all'individuazione dei soggetti legittimati a proporre la querela; questione la cui rilevanza è
evidentemente connessa alla pregiudiziale risoluzione del dubbio sull'esistenza dell'aggravante e,
conseguentemente, sulla procedibilità a querela.
L'ordinanza rammenta che, come dedotto dalla stessa ricorrente, la querela è stata proposta da
persona che si è presentata come responsabile del supermercato; e pone in luce che, secondo un
primo indirizzo interpretativo, la legittimazione spetta al direttore di un esercizio commerciale, nella
veste di persona offesa: tale qualifica, infatti, va attribuita non solo al titolare di diritti reali, ma
anche ai soggetti responsabili dei beni posti in vendita e della loro custodia.
Secondo altro indirizzo, invece, tale legittimazione del direttore dell'esercizio non sussiste, a meno
che egli provi la qualità di legale rappresentante della società, con il potere di spenderne il nome sul
piano processuale. La veste di direttore dell'esercizio non attribuisce automaticamente la qualifica di
institore; ed il potere di proporre querela va conferito dallo statuto o da altro atto negoziale.
5. Il Primo Presidente, con decreto del 2 aprile 2013, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissando per la trattazione l'odierna udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La prima questione problematica prospettata è "se, con riferimento al reato di furto, il mero
occultamento all'interno di una borsa o sulla persona della merce sottratta dagli scaffali di un
esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza
aggravante dell'uso di mezzo fraudolento prevista dall'art. 625 c.p., comma 1, n. 2".
2. Al riguardo, nella variegata giurisprudenza di questa Corte, si scorgono differenti orientamenti.
2.1. Un primo indirizzo esclude l'esistenza dell'aggravante. In una recente sentenza (Sez. 6, n.
40283 del 27/09/2012, Diaji, Rv. 253776) relativa ad un caso in cui le scarpe sottratte erano state
deposte nella borsa, si rimarca che la circostanza di cui si discute delinea un tratto specializzante
della condotta rispetto all'ordinarietà. Il semplice occultamento della refurtiva rientra nelle modalità
ordinarie del furto. Invece l'aggravante del mezzo fraudolento ricorre quando la condotta "presenti
una significativa ed oggettiva maggior gravità dell'ipotesi ordinaria in ragione delle modalità con le
quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene sottratto". Tale condotta
deve consistere in una modalità peculiare, o nell'utilizzazione di un particolare strumento che
consenta, oltre al mero occultamento, l'elusione del controllo sui beni esposti per la vendita. Ciò
accade, ad esempio, quando il reo predisponga mezzi particolari per superare i normali controlli,
come una borsa con doppio fondo, indumenti realizzati appositamente per agevolare l'occultamento
della merce rubata, attrezzi per rimuovere o schermare le targhe antitaccheggio o per rendere
comunque seriamente difficoltoso l'accertamento della sottrazione. Nello stesso senso, da ultimo,
Sez. 4, n. 10134 del 19/01/2006, Baratto, Rv. 233716.
In altra sentenza relativa ad un caso in cui la merce era stata occultata nella tasca del giaccone
indossato, si è ribadito che l'aggravante riguarda condotte caratterizzate da straordinarietà,
improntate a scaltrezza, astuzia ed idonee ad eludere le cautele adottate dal proprietario: un
elemento in più rispetto all'attività necessaria per operare la sottrazione. Nel caso esaminato tale
situazione non si verificava, posto che la sottrazione era stata realizzata con il mezzo più semplice
(Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano, Rv. 234516).
19
In un caso in cui parte della merce prelevata dagli scaffali era stata nascosta in una borsa e non
dichiarata alla cassa, si è esclusa l'aggravante posto che, se il cliente non nascondesse subito in
qualche modo la merce sottratta, la consumazione stessa del furto sarebbe impossibile, poichè il
personale sarebbe senz'altro in grado di accorgersi dell'asportazione: l'occultamento è il mezzo
necessario e non può quindi rappresentare il quid pluris che concreta l'uso di mezzo fraudolento
(Sez. 2, n. 291 del 08/03/1967, Castaidi, Rv. 105432).
In consonanza con tale indirizzo, in altre pronunzie si pone in luce la differenza tra il mero
occultamento e l'adozione di più insidiose misure per soverchiare le difese apprestate dal
possessore.
In un caso in cui le cose sottratte erano state nascoste in un'apposita panciera (Sez. 5, n. 11143 del
06/10/2005, Battisti, Rv.
233886), si è considerato che l'imputata non si era limitata ad impossessarsi della merce esposta,
nascondendola e sottraendola al controllo degli addetti del supermercato, ma aveva operato con una
maggiore astuzia, avvalendosi di tale apprestamento per superare gli accorgimenti approntati dal
soggetto passivo a tutela delle proprie cose e, quindi, utilizzando un mezzo fraudolento.
L'uso di mezzo fraudolento è stato ravvisato anche nell'uso di pantaloni elasticizzati indossati sotto
l'abito per favorire il nascondimento di quanto sottratto (Sez. 5, n. 15265 del 23/03/2005, Lamberti,
Rv. 232142). Si è considerato che si è in presenza di accorgimento malizioso che, pur posto in
essere dopo la sottrazione, in quanto finalizzato alla definitiva e piena disponibilità della cosa,
configura l'aggravante quale espressione di maggiore criminosità desunta dalla dimostrata capacità
di superare con la frode la custodia apprestata dall'avente diritto e tale, pertanto, da giustificare una
più severa risposta sanzionatoria.
2.2. Altro contrapposto orientamento ravvisa l'aggravante in caso di occultamento di merce sulla
persona (Sez. 5, n. 10997 del 13/12/2006, Rada, Rv. 236516); o sotto l'abbigliamento (Sez. 2, n.
1862 del 21/10/1983, Salines, Rv. 162897). Si argomenta che un comportamento siffatto è
improntato ad astuzia e scaltrezza ed è diretto ad eludere e vanificare le cautele e gli ordinari
accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa dei propri beni.
Anche l'occultamento sotto il cappotto di una giacca sottratta ha dato luogo alla configurazione
della circostanza (Sez. 4, n. 13871 del 06/02/2009, Tundo, Rv. 243203). Secondo il giudice di
merito, tale nascondimento di per sè, non configurava l'aggravante in questione, non trattandosi di
attività idonea a sorprendere o soverchiare con insidia ed astuzia la contraria volontà del detentore
La Corte di cassazione, invece, ha annullato con rinvio la pronunzia, affermando che l'aggravante è
da ravvisare in ogni caso di comportamento con frode idoneo a superare la custodia apprestata
dall'avente diritto sui suoi beni. In tale nozione rientra ogni operazione improntata ad astuzia o
scaltrezza, diretta ad eludere le cautele ed a frustare gli accorgimenti predisposti dal soggetto
passivo a difesa delle proprie cose, e cioè gli impedimenti che si frappongono tra l'agente e la cosa
oggetto della sottrazione.
3. Le Sezioni unite ritengono che il primo indirizzo giurisprudenziale colga nel segno.
La questione prospettata pone un problema interpretativo che riguarda la determinazione
dell'espressione "si vale di qualsiasi mezzo fraudolento" che compare nell'art. 625 c.p..
20
Il lessico della legislazione penale, per la sua spiccata vocazione generalizzante, mostra
frequentemente l'uso di termini vaghi, elastici come "violenza", "minaccia", "osceno", "onore". Il
loro significato deve essere definito, concretizzato dall'interprete al fine di conferire, per quanto
possibile, reale valore alla legalità penale.
L'espressione di cui ci si occupa è per l'appunto vaga, ma nell'elaborazione giurisprudenziale di cui
si è sopra dato sommariamente conto e negli studi dottrinali si rinvengono chiarificazioni
sostanzialmente consonanti. Si parla di stratagemma diretto ad aggirare, annullare, gli ostacoli che
si frappongono tra l'agente e la cosa; di operazione straordinaria, improntata ad astuzia e scaltrezza;
di escogitazione che sorprenda o soverchi, con l'insidia, la contraria volontà del detentore, violando
le difese apprestate dalla vittima; di insidia che eluda, sovrasti o elimini la normale vigilanza e
custodia delle cose.
Tali definizioni spiegano bene la ratio della circostanza: le cose altrui vengono aggredite con misure
di affinata efficacia che rendono più grave il fatto e mostrano altresì maggiore intensità del dolo, più
intensa risoluzione criminosa e maggiore pericolosità sociale.
Si tratta di chiarificazioni che, se aiutano a cogliere il nucleo antigiuridico dell'aggravante, non
risolvono i casi dubbi che si rinvengono solitamente nell'area grigia posta ai margini di quasi tutte le
figure giuridiche.
L'inefficienza delle evocate definizioni nelle situazioni controverse, sfumate, che non mostrano
macroscopicamente i tipici tratti di studiata, fraudolenta aggressività propri dell'aggravante, è
testimoniata dal fatto che le medesime definizioni finiscono col dare copertura argomentativa a
soluzioni antitetiche sul piano applicativo.
La ragione principale di tale insuccesso è costituita dal fatto che le chiose alla legge fanno uso di
termini non meno vaghi di quelli utilizzati dal codice: sinonimi che risultano tautologici piuttosto
che esplicativi.
L'analisi razionale della disposizione acquista qualche maggiore concretezza proprio attraverso il
riferimento alle specifiche modalità dell'azione, alle tipologie dell'aggressione del bene.
Definita la fenomenologia, si tratta di comprendere se essa presenti intensità sufficiente a
giustificarne la collocazione entro la fattispecie aggravante; se essa presenti il grado di disvalore
che, nell'ottica della legge, giustifica la maggiore gravità del fatto e l'incremento della sanzione che
ne deriva. Si tratta, in breve, di interpretare la disposizione aggravante al fine di definirne il
contenuto offensivo tipico.
4. E' dunque chiamato in causa, sia pure in peculiare guisa, il principio di offensività. Il tema ha
straordinaria ampiezza e deve essere qui accennato solo per il decisivo rilievo che assume
nell'interpretazione della fattispecie aggravata di cui ci si occupa.
La riflessione scientifica sui fondamenti della penalità ha rimarcato l'esigenza che il fatto di reato
esprima oltre ad un dato naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso come
concreta offesa all'interesse delle vita tutelato dalla norma incriminatrice.
La tesi ha dapprima trovato fondamento normativo nell'art. 49 c.p., nel quale si è ritenuto di
individuare un'ipotesi tipica di divergenza tra conformità allo schema descrittivo e realizzazione
21
dell'offesa: un comportamento perfettamente corrispondente alla norma incriminatrice risulta per
qualunque motivo posto in essere in circostanze tali da rendere impossibile la realizzazione
dell'evento che costituisce il contenuto del reato. In breve il fatto, oltre a possedere i connotati
formali tipici, deve anche presentarsi in concreto carico del significato in forza del quale è assunto
come fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche.
La portata di tale concezione realistica del reato, basata sull'idea di offensività in concreto, è stata
persuasivamente ridimensionata sulla base della considerazione che se l'interesse tutelato deve
essere dedotto dall'intera struttura della fattispecie, riesce difficile immaginare un fatto conforme ad
essa e non lesivo, sicchè l'inoffensività di un singolo elemento è in realtà l'inoffensività di un
requisito del tipo.
Il principio di offensività ha trovato la più alta e compiuta espressione con la sua
costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme: l'art. 27, comma
3, (l'equilibrio tra le funzioni retribuiva e rieducativa della pena rappresenta una saldatura tra il
momento garantista o liberale della retribuzione per il reato necessariamente lesivo e le aperture
sociali e solidaristiche della rieducazione); l'art. 25, comma 2 (la locuzione "fatto", che esclude la
visione dell'illecito come mera disobbedienza); l'art. 27, comma primo (il divieto di
strumentalizzazione dell'uomo a fini di politica criminale).
Nel segno dell'offensività, il legislatore è vincolato ad elevare a reati solo fatti che siano
concretamente offensivi di entità reali.
L'interprete delle norme penali ha l'obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica,
rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi, offensivi in misura apprezzabile.
Insomma, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica
dei fatti che renda visibile, senza scarti di sorta, la specifiche offesa già contenuta nel tipo legale del
fatto. E' dunque sul piano ermeneutico che, come è stato suggestivamente considerato in dottrina,
viene superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato dovranno essere ricostruiti
in conformità al principio di offensività, sicchè tra i molteplici significati eventualmente compatibili
con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l'aiuto del criterio del bene giuridico,
considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell'interesse
protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli
elementi fattuali dotati di tipicità.
5. Tale ordine concettuale ha altissime potenzialità, ancora non compiutamente espresse,
nell'orientare l'interpretazione delle espressioni legali che individuano i tratti essenziali del reato; in
modo che la severità della legge penale si limiti a mostrarsi, sensatamente ed equamente, solo di
fronte a fatti gravidi di reale disvalore.
Si tratta di approccio che può essere trasposto, pur con ogni cautela e con le dovute precisazioni,
anche nell'ambito degli elementi accidentali del reato costituiti dalle circostanze aggravanti.
Attraverso esse il legislatore attribuisce rilievo ad elementi che accrescono il disvalore della
fattispecie e giustificano un trattamento sanzionatorio più severo. Le valutazioni che attengono a tali
scelte normative sono le più disparate ed attengono solitamente alla gravità delle conseguenze del
reato, alle peculiarità della condotta, alle connotazioni dell'atteggiamento interiore.
Tali elementi, dunque, pur non concorrendo all'individuazione dell'offesa tipica, rilevano ai fini
della definizione del grado di disvalore del fatto. Pure per essi si pone, dunque, un problema
22
interpretativo volto a cogliere nel lessico legale una portata che esprima fenomenologie
significative, che giustifichino l'accresciuta severità sanzionatoria. Si tratta di assicurare che
l'incremento di pena sia proporzionato al grado dell'offesa o, in una prospettiva più ampia
conformata sulle peculiarità della fattispecie aggravata, alle modalità dell'aggressione del bene
protetto o all'intensità dell'atteggiamento interiore. Una lettura di tale genere dovrà considerare i
tratti, le finalità dell'aggravante e la portata del relativo trattamento sanzionatorio.
Si tratta di considerazioni che si attagliano particolarmente alla fenomenologia di cui ci si occupa,
giacchè l'aggravante afferisce alla condotta inerente al momento della sottrazione che, come si avrà
modo di esporre più diffusamente nel prosieguo, costituisce il cuore della fattispecie e ne
contrassegna significativamente il disvalore tipico.
6. Venendo alla specifica aggravante in esame, occorre brevemente rammentare che per tradizione
risalente sino alla codificazione preunitaria il furto è stato disciplinato non con una accurata
descrizione della fattispecie, bensì attraverso l'individuazione di numerose tipologie tipiche
costituenti circostanze aggravanti. Uno stile esasperatamente casistico che si rinviene pure nel
codice Zanardelli, ove compaiono ben venti categorie che racchiudono innumerevoli situazioni
aggravanti, afferenti prevalentemente all'oggetto della sottrazione od alle modalità della condotta.
Esse determinavano l'incremento della pena massima da tre a sei o ad otto anni a seconda che si
fosse in presenza di una o più circostanze.
Il codice vigente ha sostanzialmente rispettato tale tecnica normativa. E' stata proposta una
definizione alquanto elaborata della fattispecie e sono state al contempo tratteggiate otto categorie
aggravanti che riconducono a più affinata generalizzazione alcune delle situazioni previste dalla
precedente legislazione. Tale generalizzazione ha condotto all'individuazione dell'aggravante della
violenza o della frode.
Come è ben noto, tale modello casistito è accompagnato da uno speciale rigore sanzionatorio che a
molti pare eccessivo, anche in considerazione del mutamento della gerarchia di valori determinato
dalla Costituzione. Infatti, la pena massima ascende da tre a sei o a dieci anni a seconda che si sia in
presenza di una o più aggravanti.
E d'altra parte, la varietà delle situazioni aggravanti rende difficile la perpetrazione del furto
semplice.
Tradizionalmente il furto con frode, definito nei termini esplicativi di cui si è dato sopra conto,
viene riferito a tipiche, ricorrenti situazioni come l'uso di chiavi false o grimaldelli, la scalata
dell'edificio, l'uso di carte bancomat false e simili. Meno classificabile e più raro l'uso di raggiri o
artifizi volti ad ingannare la vittima in modo che sia favorita l'acquisizione della cosa.
Si richiede, in breve, una condotta caratterizzata da marcata, insidiosa efficienza offensiva, che
sorprende la contraria volontà del detentore, vanifica le difese che questi ha apprestato a difesa della
cosa ed agevola la spoliazione della vittima.
Due gli elementi di valutazione che si traggono da tale analisi della fattispecie. Da un lato l'istanza
di speciale funzionalità aggressiva della condotta, attuata con artata predisposizione di mezzi o con
ingannevole messa in scena. Dall'altro, la speciale gravità delle conseguenze sanzionatorie che da
tale predisposizione derivano.
23
Coniugando tali coordinate, ne discende pianamente che un'interpretazione dell'idea di frode, con
riferimento alla fattispecie di furto, deve tendere ad individuarvi condotte che concretino
l'aggressione del bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata allo speciale rigore
sanzionatorio.
Tale interpretazione è ispirata al principio di offensività definito nei termini sopra esposti, afferente
cioè non al nucleo offensivo del reato ma alle modalità offensive, aggressive, della condotta. Essa
aiuta ad orientarsi nella già evocata area grigia posta ai margini della fattispecie aggravante. La
condotta di spoliazione può rivelare diversi gradi di accuratezza nel contrastare le difese della
vittima. Allora, alla luce delle considerazioni generali qui prospettate, la frode si riferisce non a
qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento, ma richiede qualcosa in più: un'astuta,
ingegnosa e magari sofisticata predisposizione.
Entro questo ordine di idee traspare che il mero nascondimento nelle tasche, in borsa, sulla persona
di merce prelevata dai banchi di vendita costituisce un mero accorgimento, banale ed ordinario in
tale genere di illeciti; privo dei connotati di studiata, rimarchevole efficienza aggressiva che
caratterizza l'aggravante. Per contro, uno sguardo ai casi proposti dalla prassi, consente di
individuare condotte che presentano i tratti di scaltrezza, ingegnosità che connotano e delimitano la
fattispecie. Ad essi occorre riferirsi, sia pure solo esemplificativamente, per sottrarre, per quanto
possibile, l'argomentazione all'astrattezza. E' allora sufficiente richiamare i casi del doppio fondo o
della panciera per occultare abilmente la merce, o di accorgimenti per schermare le placche
antitaccheggio.
Coglie dunque nel segno l'evocata giurisprudenza quando individua nella condotta fraudolenta un
tratto specializzante rispetto alle modalità ordinarie, costituito da significativamente maggiore
gravità a causa delle peculiari modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal
possessore del bene. Non meno puntuale appare la sottolineatura della straordinarietà dell'azione,
improntata a scaltrezza, astuzia.
Meno persuasivo appare il richiamo all'essenzialità dell'accorgimento ai fini della sottrazione. La
considerazione, generalmente parlando, può avere qualche significato nell'ambito della peculiare
fenomenologia di cui ci si occupa, nella quale emerge un tratto ineliminabile di affidamento al
cliente, che limita l'efficienza delle difese, come testimoniato dalla grandissima rilevanza
complessiva delle sottrazioni negli esercizi a self service. Si vuoi dire che, essendo solitamente
limitate le difese e forte l'affidamento, è difficile (sempre in linea generale) che la condotta furtiva
abbisogni delle ingegnose predisposizioni che danno luogo alla condotta fraudolenta tipica
dell'aggravante. Si tratta, tuttavia, di un rilievo di sfondo che non può obliterare la considerazione
delle peculiarità di ciascuna fenomenologia e di ciascun caso concreto. L'argomento, in ogni caso,
risulterebbe erroneo e fuorviante ove venisse utilizzato in contesti caratterizzati da affinate difese
antifurto che rendessero necessarie condotte di sottrazione violente o fraudolente. In tali casi
l'essenzialità di tali condotte non farebbe certamente venire meno l'aggravante.
7. Da quanto esposto discende il seguente principio di diritto:
"L'aggravante dell'uso di mezzo fraudolento di cui all'art. 625 c.p., comma 1, n. 2, delinea una
condotta, posta in essere nel corso dell'iter criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e
caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del
detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa,
rimarcata efficienza offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o nella borsa di
24
merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinano accorgimento
che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene".
8. Da quanto precede traspare con evidenza che il comportamento della S., consistito nel mero
nascondimento della merce in una borsa, non concreta la frode tipica. L'aggravante deve essere
quindi esclusa e la pronunzia va per tale parte annullata.
9. L'esclusione dell'aggravante rende attuale l'altra questione problematica rimessa a queste Sezioni
unite. Il quesito è "se, con riferimento al reato di furto, abbia la veste di persona offesa - e sia
conseguentemente legittimato a proporre la querela - il responsabile dell'esercizio commerciale nel
quale è avvenuta la sottrazione che non abbia la qualità di legale rappresentante dell'ente
proprietario o non sia munito di formale investitura al riguardo".
9.1. Un primo indirizzo giurisprudenziale ritiene esplicitamente od implicitamente che persona
offesa dal reato sia il proprietario o il titolare di altro diritto reale sul bene sottratto; e ne deduce che
il direttore di un esercizio commerciale che non ne sia pure proprietario non è legittimato a proporre
la querela. Tale figura non riveste neppure necessariamente la veste di institore, dovendosi
verificare quali poteri l'imprenditore gli abbia attribuito (Sez. 4, n. 44842 del 27/10/2010, Febbi,
Rv. 249068; Sez. 2, n. 37214 del 19/10/ 2006, Tinnirello, Rv. 235105; Sez. 4, n. 1537 del 15/02/
2005, Gaffi, Rv. 231547).
Altra giurisprudenza, invece, ritiene la legittimazione in questione in capo all'institore, che
conferisce il potere di compiere tutti gli atti inerenti all'esercizio dell'impresa (Sez. 2, n. 1206 del
09/12/2008, Gulino, Rv. 242714).
9.2. L'opposto orientamento della giurisprudenza assume, per contro, che il responsabile
dell'esercizio commerciale è legittimato alla querela non in virtù di investitura formale o implicita
da parte del proprietario, bensì nella veste di persona offesa (Sez. 6, n. 1037 del 15/06/2012,
Vignoli, Rv. 253888; Sez. 4, n. 41592 del 16/11/2010, Cacciari, Rv. 249416 ; Sez. 4, n. 37932 del
08/09/2010, Klimczuck, Rv. 248451; Sez. 5, n. 34009 del 16/06/2010, Labardi, Rv. 248411;
Sez. 5, n. 26220 del 18/03/2009, Kalandadze, Rv. 244090).
Tale impostazione è stata recentemente tematizzata in modo assai puntuale (Sez. 4, Cacciari, cit.).
Si è considerato che l'incriminazione di furto tutela il possesso di cose mobili. Evocando risalente
ma mai confutata giurisprudenza (Sez. 2, n. 181 del 08/02,1965, Mele, Rv. 99522), si è aggiunto
che il possesso, peraltro, non va inteso nell'accezione civilistica, ma "in senso più ampio e
comprensivo della detenzione a qualsiasi titolo, esplicantesi al di fuori della diretta vigilanza del
possessore (in senso civilistico) e di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore".
Richiamando opinioni dottrinali, si è assunto che la norma protegge la detenzione delle cose come
mera relazione di fatto, qualunque sia la sua origine. Tale relazione, non coincidente con i concetti
civilistici di detenzione e di possesso, rileva anche se costituitasi senza titolo o in modo clandestino,
con la conseguenza che pure il ladro potrebbe divenire soggetto passivo del reato. Se ne desume che
il possessore nell'accezione penalistica è persona offesa e titolare del diritto di querela. Tale veste si
configura in capo al responsabile di un esercizio commerciale, avendo costui dovere di custodia
della merce. Per contro, conclude la pronunzia, la qualità di persona offesa difetta nel proprietario,
che è non detentore danneggiato dal reato".
25
In termini coincidenti si è da ultimo ribadito che il possesso tutelabile a garanzia degli interessi
della collettività ha un'accezione più ampia di quella civilistica includendo non soltanto il possesso
qualificato animo domini ma qualsiasi potere di fatto che venga esercitato in modo autonomo e
indipendente dalla proprietà del bene. Tale potere si configura in capo al diretto dell'esercizio che è
custode e possessore dei beni e della merce; ed il furto vulnera gli effetti del suo potere di vigilanza
e di custodia (Sez. 6, Vignoli, cit.).
10. La soluzione interpretativa proposta da tale ultimo indirizzo è nel suo nucleo corretta.
Posto che la legittimazione alla proposizione della querela è dalla legge attribuita alla persona
offesa, occorre individuare l'interesse protetto dalla norma incriminatrice ed il soggetto che ne è
titolare.
Il tema agita ab immemorabile la dottrina e la giurisprudenza; e permangono incertezze e contrasti,
gravidi di implicazioni applicative.
Nella fattispecie di furto si riscontra una situazione per certi versi paradossale. L'incriminazione
affonda profondamente nei primordi del diritto punitivo e costituisce una costante degli ordinamenti
giuridici. Il suo contenuto essenziale si propone con intuitiva evidenza, tanto che nel passato il
codificatore si è astenuto da una definizione formale. Ciò nonostante risulta difficile definirne
razionalmente i tratti e rimangono aperte questioni di non poco conto, che trovano il loro più
cospicuo nucleo problematico proprio attorno al tema del bene giuridico, di cui occorre qui
occuparsi.
Sebbene le incertezze siano molte, la lunga, tormentata riflessione giuridica ha indicato alcune
direttrici consolidate. Ispirandosi ad esse è possibile tracciare brevemente il metodo dell'indagine.
L'intestazione del Titolo XIII, dedicato ai reati contro il patrimonio, costituisce solo una vaga
etichetta di genere che non influenza la lettura delle diverse incriminazioni. L'individuazione del
bene giuridico protetto da ciascuna fattispecie va compiuta cogliendone le peculiarità alla stregua
del dettato normativo, ed assicurando al contempo la coerenza del sistema di protezione, nonchè
una salda linea di confine tra i diversi illeciti che compongono la categoria dei reati contro il
patrimonio. Si tratta di compiere un'indagine scevra da apriorismi ed attenta da un lato alla
fenomenologia, agli interessi della vita che si trovano dietro le disposizioni; e dall'altro ai tratti
significativi della concreta disciplina legale, tentando di evitare incoerenze sistematiche e di
assicurare, soprattutto, la sensatezza delle soluzioni interpretative alla luce dei loro risultati
applicativi.
Orbene, guardando al carattere costante, universale, remotissimo del reato di furto, traspare che
l'incriminazione trova la sua più profonda giustificazione in una primordiale istanza di protezione
della vitale relazione tra l'uomo ed i beni.
La spoliazione che caratterizza l'illecito mina alla radice tale relazione e minaccia al contempo le
basi della pacifica, civile convivenza. E' un atto antisociale che vulnera l'interesse pubblico alla
difesa della relazione possessoria e giustifica la punizione.
Sebbene la figura giuridica assuma storicamente diverso peso a seconda delle differenti gerarchie di
valori, tale nucleo costituisce una costante. Come è stato efficacemente affermato, il furto è
innanzitutto sottrazione, una condotta che, tuttavia, incide su una sfera di interessi complessi,
26
talvolta difficili da dipanare. Come pure è stato considerato, il furto è un fatto antisociale che si
concreta nella sottrazione, ancor prima che nell'inflizione di un danno patrimoniale.
Tale essenziale aspetto aggressivo, di indubbia rilevanza pubblicistica, si trova ben espresso nella
definizione legale che, come è stato da più parti convincentemente considerato, trova il suo cuore
nella descrizione della condotta di sottrazione della cosa mobile altrui a chi la detiene. Diversi sono
i tratti significativi del reato: la sottrazione, l'impossessamento, il fine di profitto, l'altruità della
cosa, la detenzione da parte della vittima. Ma la spoliazione, sebbene non esprima il momento
consumativo, che si compie con l'acquisizione di un autonomo possesso al di fuori della sfera di
vigilanza della vittima, tratteggia il momento aggressivo, il culmine della trasgressione e del
perturbamento socialmente e giuridicamente rilevante: esprime l'archetipo della condotta di
fattispecie.
Tale constatazione orienta l'individuazione dell'interesse della vita oggetto di protezione e del
soggetto che ne è riconosciuto titolare entro la trama della fattispecie. Il tema è fortemente legato
all'individuazione della vittima dell'aggressione, che il legislatore denomina detentore. Esso si
colloca nel più generale ambito che attiene al significato, in ambito penale, di termini civilistici. Al
riguardo il lungo lavorio teorico ha prodotto risultati largamente condivisi che qui è sufficiente
tratteggiare sinteticamente:
nell'ambito dei reati contro il patrimonio le categorie civilistiche non possono essere
pedissequamente riproposte. Il particolare, l'utilizzazione nel significato civilistico dei termini
"detenzione" e "possesso" implicherebbe rilevanti vuoti di tutela e difficoltà nella definizione della
linea di confine tra i diversi reati e particolarmente tra furto ed appropriazione indebita. Tali termini
vanno dunque modellati sulle esigenze dogmatiche del diritto penale.
L'istanza di autonomia, unita all'indicata individuazione del nucleo aggressivo della fattispecie nella
sottrazione al detentore, accredita il diffuso, condiviso indirizzo teorico che coglie l'interesse
protetto in una qualificata relazione di fatto con il bene e, conseguentemente, designa come soggetto
passivo del reato la persona che tale relazione intrattiene. La relazione di fatto tra l'uomo ed il bene
è il valore che il reato aggredisce e la legge penale sanziona.
E' conforto a tale opinamento l'insistenza, nei lavori preparatori, sullo scopo di protezione del
possesso di fatto separato dalla proprietà, della detenzione come potere connotato dal minimo degli
attributi del possesso; accompagnata dalla precisazione che non è escluso che il delitto possa
consumarsi merce la sottrazione della cosa alla persona che giuridicamente possiede.
I tratti di tale essenziale detenzione qualificata, usualmente denominata "possesso penalistico",
devono essere meglio definiti.
Come si è accennato, la definizione civilistica di detenzione non trova spazio nell'ambito di cui ci si
occupa: essa condurrebbe sul piano applicativo alla incongrua configurazione del reato di furto, e
non di appropriazione indebita, in tutti i casi in cui il detentore nomine alieno (il locatario, il
comodatario ecc.) apprenda il bene.
Tale soggetto, invece si può trovare già con la cosa in una relazione diretta, significativa, qualificata
appunto, con la conseguenza, che nella sua azione non è possibile riconoscere il tratto tipico del
furto, costituito appunto dalla sottrazione ad altri che intrattiene col bene una propria relazione
fattuale. Tale relazione di detenzione qualificata, dunque è condizione negativa del furto. Essa, per
27
contro, ben si addice alla figura dell'appropriazione indebita e ne costituisce condizione positiva. La
stesso ordine di idee può essere espresso affermando che solo quando si concreta la descritta
materiale azione di sottrazione al detentore qualificato si configura il reato di furto. Insomma, la
nozione di detenzione qualificata è funzionale alla condotta di sottrazione, ne individua il bersaglio.
Quando ci si sofferma a cogliere il tratto essenziale della figura di cui ci si occupa (il possesso
penalistico) vi si scorge una relazione di fatto autonoma, una signoria di fatto che consente di fruire
e disporre della cosa in modo indipendente, al di fuori della sfera di vigilanza e controllo di una
persona che abbia su di essa un potere giuridico maggiore. Tale autonomia può essere definita in
termini negativi: non vi è signoria di fatto del dominus, nè altrui custodia o vigilanza. Entro tale
ordine concettuale, conviene ripeterlo, si usano in una peculiare accezione penalistica i termini
possesso e possessore.
Tale soluzione interpretativa, come si è accennato, consente di definire con sufficiente chiarezza la
linea di confine tra furto ed appropriazione indebita. La detenzione qualificata non rende
ipotizzabile la sottrazione da parte dello stesso detentore che, invece, ben può rendersi protagonista
di atti di appropriazione indebita.
Il possesso penalistico di cui si parla non è necessariamente caratterizzato da immediatezza, a
differenza di quello civilistico che, come è noto, può configurarsi anche per mezzo di altra persona.
Esso, peraltro, non implica necessariamente una relazione fisica con il bene. E' concepibile pure il
possesso a distanza, quando vi sia possibilità di ripristinare ad libitum il contatto materiale; o anche
solo virtuale, quando vi sia effettiva possibilità di signoreggiare la cosa. Per ripetere un antico ed
efficace esempio, il possessore della valigia rimane tale anche se essa è nelle mani del portabagagli
che è, invece, mero detentore.
L'indicata interpretazione della fattispecie attribuisce rilievo anche alla relazione possessoria non
sorretta da base giuridica, clandestina o addirittura illecita, con la conseguenza che costituisce furto
pure la sottrazione della refurtiva al ladro. Tale soluzione, come si è visto, è accreditata anche dalla
giurisprudenza di questa Corte e trova tradizionale, razionale giustificazione nella considerazione
che la spoliazione in danno del ladro, riguardata nell'ottica pubblicistica del diritto penale, non
rende meno aggressiva e biasimevole la condotta e giustifica la reazione punitiva.
Per quel che qui maggiormente interessa, la qualificata relazione di fatto di cui si parla può
assumere diverse sfumature, che comprendono senz'altro il potere di custodire, gestire, alienare il
bene. Essa, dunque, si attaglia senz'altro alla figura del responsabile dell'esercizio commerciale che,
conseguentemente, vede vulnerati i propri poteri sul bene; ed è perciò persona offesa, legittimata
alla proposizione della querela.
11. Le conclusioni cui si è sin qui giunti non esauriscono in tema di cui ci si occupa. Occorre infatti
chiedersi se l'indagine fecalizzata sulla già descritta lesione della qualificata relazione di fatto tra la
vittima e il bene esaurisca la disamina dei tratti tipici della fattispecie. La domanda non è puramente
teorica: si tratta di comprendere se, oltre al detentore qualificato, altri soggetti possano veder lesi
interessi istituzionalmente protetti dalla norma incriminatrice e siano quindi legittimati alla
proposizione della querela.
A tale riguardo occorre rammentare che una scuola di pensiero opposta a quella sin qui prospettata
coglie nel furto la lesione di situazioni giuridiche e non meramente fattuali, solitamente individuate
nella proprietà e nei diritti reali e di obbligazione caratterizzati, rispetto al bene, dal potere di
28
disporne, usarlo, goderlo. Tali diritti, si assume, costituiscono il vero, primario oggetto giuridico
della fattispecie. Si argomenta che il furto aggredisce necessariamente i poteri fondamentali
esercitabili sulla cosa e cioè la disponibilità ed il godimento.
Tale indirizzo coglie senza dubbio un non trascurabile lato della fattispecie e trova sostegno in
diversi argomenti. Gli stessi codificatori, pur ponendo insistentemente l'accento sul furto come
aggressione ad una relazione di fatto socialmente importante, non erano inconsapevoli dell'intreccio
di situazioni che si possono riscontrare nella realtà. Si è perciò chiarito, come si è già accennato, che
evocando il detentore si è inteso fare riferimento alla persona che abbia sulla cosa il minimo degli
attributi del possesso e cioè il potere di fatto su di essa, e non si è escluso che il delitto possa
consumarsi anche con la sottrazione al soggetto che possiede. Si è aggiunto che, ove la tutela
giuridica è stabilita per i casi nei quali concorra un minimo di condizioni di fatto, deve ritenersi che
la stessa sia estensibile a tutte le ipotesi nelle quali si verifichino condizioni che sono al di là di quel
minimo.
E' chiara, in tale approccio, la sottolineatura della istituzionale rilevanza di situazioni giuridiche,
come il possesso in senso civilistico, che possono non implicare pure la ridetta relazione fattuale di
detenzione qualificata. Tale rilevanza traspare maggiormente se si considera che situazioni
giuridiche e situazioni fattuali possono essere separate, ripartite in varie guise, generando incertezze
applicative ed al contempo teoriche difficoltà nella configurazione unitaria della fattispecie.
Emerge, insomma, che al furto non è estraneo il tema della lesione di situazioni giuridiche oltre che
meramente fattuali: esse assumono formale evidenza quando, nella fattispecie concreta, sono
distinte dalle relazioni di mero fatto.
Tale ordine di idee trova conforto nella definizione legale, che fa leva sull'altruità del bene sottratto.
Non è mancato chi ha attribuito a tale requisito di fattispecie un ruolo minore e quasi superfluo.
Certamente l'evocazione dell'altruità del bene vale ad escludere la rilevanza penale della sottrazione
della res propria.
Tale soluzione di un tema classicamente controverso trova peraltro conforto anche nell'art. 627 c.p.
che punisce la sottrazione di cosa comune con una pena più lieve di quella prevista per il reato di
furto di cui all'art. 624 c.p.; e sarebbe irrazionale punire con la più severa sanzione prevista da tale
ultima fattispecie una condotta sicuramente meno grave, costituita dalla sottrazione compiuta da chi
ha la piena proprietà della cosa.
Tuttavia ciò non basta. L'altruità, come è stato da più parti ritenuto, pone in luce un importante
profilo di fattispecie costituito dall'aggressione alle situazioni giuridiche che sono alle spalle del
potere concreto sulle cose, cioè delle relazioni fattuali cui si è sopra ripetutamente fatto cenno.
Tale linea interpretativa trova sostegno nelle situazioni nelle quali si mostrano, anche in modo
conclamato, i tratti della fenomenologia di spoliazione che caratterizza la fattispecie; e tuttavia
manca in capo ad alcuno la signoria di fatto sulla cosa. Si fa riferimento, ad esempio, allo
sciacallaggio, alla sottrazione dei beni del defunto.
Qui, come è chiaro, manca in radice un soggetto che intrattenga con il bene la relazione di
qualificata detenzione tipica del furto; e tuttavia il metro della sensatezza, alimentato dalla realistica
considerazione del mondo della vita, induce a scorgere, ed anche in forma marcata, l'offensività
tipica della fattispecie.
29
A tale riguardo è interessante osservare che il codice Zanardelli aveva disciplinato tale situazione
affermando che "il delitto si commette anche sopra le cose di una eredità non ancora accettata" (art.
402). Orbene, comunque si voglia configurare la relazione tra l'erede ed il bene ereditario, si tratta
certamente di relazione giuridica e per nulla necessariamente fattuale. D'altra parte, il silenzio del
codice Rocco sul punto non è certo espressione di benevolenza nei confronti dello sciacallo, bensì
del sicuro convincimento che la fattispecie protegga non solo relazioni fattuali ma anche relazioni
giuridiche, postulate dal requisito di fattispecie costituito, appunto, dall'altruità della cosa.
Una situazione non molto dissimile si configura in casi come quello in esame. Si sono esposte le
ragioni che consentono di attribuire al direttore dell'esercizio commerciale la veste di persona
offesa, per via del pregiudizio socialmente protetto che questi subisce per effetto della sottrazione
del bene che gli è affidato. Orbene, in tale situazione il proprietario è al contempo offeso nel proprio
rilevante interesse giuridico inerente alla disposizione ed alla fruizione della cosa. Non sarebbe
sensato pensare che tale situazione giuridica non sia oggetto di diretta, primaria protezione
nell'ambito della fattispecie penale; che essa cioè non esprima la lesione del bene giuridico, oltre
che un danno materiale. D'altra parte, comunque si vogliano vedere le cose, la situazione del
proprietario (o, se si vuole, del possessore iure civili) non è riconducibile in alcuna guisa alla ridetta
detenzione qualificata del direttore dell'esercizio.
Da quanto esposto si trae una conclusione univoca. La fattispecie protegge ad un tempo la
detenzione qualificata, nonchè la proprietà e le altre situazioni giuridiche cui si è già ripetutamente
fatto cenno. Tale duplicità viene in evidenza, per quel che qui interessa, quando situazioni
giuridiche soggettive e situazioni fattuali fanno capo a diverse persone. In tal caso, la lesione del
bene giuridico è duplice: proprietario e possessore in senso penalistico sono persone offese e
legittimate a proporre querela.
La distinzione in questione non è per nulla formale: come si è ripetutamente esposto, vi sono
situazioni nelle quali gli interessi e le relazioni che si trovano nella multiforme fenomenologia sono
scomposti e si configurano in capo a diversi soggetti. In conseguenza disconoscere la posizione di
uno dei soggetti lesi, non riconoscergli la legittimazione a promuovere la protezione penale,
risulterebbe riduttivo e privo di giustificazione razionale.
Anche dal punto di vista dogmatico non si scorgono ragioni che impediscano di delineare plurime
lesioni del bene giuridico e diversi soggetti titolari dell'interesse protetto. E' ben vero che nella
configurazione qui prospettata nè la situazione giuridica nè quella fattuale concretano
immancabilmente il bene giuridico protetto.
Tuttavia ciò che interessa è che ambedue rechino senza incertezze i segni dell'offesa tipica. Nulla, in
sostanza, si oppone a considerare le dette situazioni come distinte configurazioni dell'unitario genus
costituito dal bene giuridico di fattispecie.
12. Da quanto esposto si trae il seguente principio di diritto:
"Il bene giuridico protetto dal reato di furto è costituito non solo dalla proprietà e dai diritti reali e
personali di godimento, ma anche dal possesso, inteso nella peculiare accezione propria della
fattispecie, costituito da una detenzione qualificata, cioè da una autonoma relazione di fatto con la
cosa, che implica il potere di utilizzarla, gestirla o disporne. Tale relazione di fatto con il bene non
ne richiede necessariamente la diretta, fisica disponibilità e si può configurare anche in assenza di
un titolo giuridico, nonchè quando si costituisce in modo clandestino o illecito. Ne discende che, in
30
caso di furto di una cosa esistente in un esercizio commerciale, persona offesa legittimata alla
proposizione della querela è anche il responsabile dell'esercizio stesso, quando abbia l'autonomo
potere di custodire, gestire, alienare la merce".
13. Alla luce di tale enunciazione è senz'altro rituale la querela proposta dalla responsabile del
grande magazzino Oviesse, afferente alla sottrazione di merce esposta per la vendita. Il pertinente
motivo di ricorso è dunque infondato e va rigettato.
14. E' pure infondato l'ultimo motivo di ricorso. La sentenza impugnata considera che l'imputata è
gravata da recidiva reiterata, specifica, infraquinquennale; nè si scorgono ragioni concrete che
possano giustificare la concessione delle attenuanti generiche. La pena, d'altra parte, è stata
determinata in misura poco superiore al minimo ed è perciò del tutto congrua.
In tale argomentato apprezzamento non si scorgono vizi logici o giuridici, essendosi attribuito
preminente rilievo al negativo profilo di personalità, ed essendosi altresì esclusa la necessità di
diminuire la pena per adeguarla al fatto. Tale valutazione di merito non può essere rivisitata nella
presente sede di legittimità.
15. L'esclusione dell'aggravante di cui al ridetto art. 625 c.p., comma 1, n. 2, impone l'annullamento
della pronunzia limitatamente a tale punto, con rinvio alla Corte di appello di Perugia per la
rideterminazione della pena. Il ricorso deve essere per il resto rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all'art. 625 c.p.,
comma 1, n. 2, che esclude, e rinvia alla Corte di appello di Perugia per la rideterminazione della
pena.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, il 18 luglio 2013.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2013
31
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETTI Ciro - Presidente -
Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
Dott. RAGO Geppino - rel. Consigliere -
Dott. VERGA Giovanna - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1. F.I. nato il (OMISSIS);
2. PUBBLICO MINISTERO presso il Tribunale di Messina;
avverso l'ordinanza del 30/07/2013 del Tribunale del Riesame di
Messina;
Visti gli atti, l'ordinanza ed i ricorsi;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAGO Geppino;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. RIELLO Luigi che
ha concluso per l'inammissibilità del ricorso del F. e per
l'annullamento con rinvio limitatamente al ricorso del Pubblico
Ministero;
udito il difensore avv.to STROSCIO Salvatore che ha concluso per
l'accoglimento del ricorso e il rigetto del ricorso del Pubblico
Ministero.
FATTO
1. Con ordinanza del 30/07/2013, il Tribunale del Riesame di Messina sostituiva la misura della
custodia cautelare in carcere - disposta dal giudice per le indagini preliminari del tribunale della
medesima città con ordinanza del 11/07/20013 - con quella degli arresti domiciliari nei confronti di
F.I. indagato del reato di estorsione perchè, con violenza e minaccia consistite nel cospargere di
benzina un'autovettura di proprietà di L.E. e nel fargli trovare vicino una bottiglia contenente
liquido infiammabile, costringeva quest'ultimo a pagargli delle spettanze lavorative arretrate ed a
sottoscrivere un verbale con i sindacati per la concessione della cassa integrazione.
Il Tribunale, in punto di fatto, ha accertato che la pretesa del F. era legittima - tant'è che, dopo l'atto
intimidatorio, il L. rassicurò "il F. circa la spettanza del credito e la concreta prospettiva di
recuperarlo in tempi brevi" - sicchè "attesa la sussistenza di un titolo legittimo sottostante ...", pur
ritenendo corretta la qualificazione giuridica, ha sostituito la misura cautelare in carcere con quella
meno afflittiva degli arresti domiciliari.
Il Tribunale ha ritenuto fondata l'ipotesi accusatoria sulla base di quella giurisprudenza secondo la
quale integra il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrano delle proprie ragioni (art. 393
c.p.) la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là
di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione
dell'altrui volontà assume ex se i caratteri del'ingiustizia, trasformandosi in condotta estorsiva (Cass.
6556/2012).
32
2. Avverso la suddetta ordinanza, hanno proposto ricorso per cassazione sia il F. che il Pubblico
Ministero.
3. Il F., a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione
dell'art. 649 c.p.p., in quanto il Pubblico Ministero aveva emesso, nei suoi confronti, decreto con il
quale aveva disposto il giudizio per il reato di minacce, ossia quello stesso comportamento per il
quale era indagato per il reato di estorsione e per il quale era stata chiesta la misura della custodia
cautelare.
Il ricorrente, quindi, conclude rilevando che "Tuttavia, se sussistevano per quel fatto esigenze
cautelari dovevano sussistere fin dalla data in cui si procedeva per le minacce perchè trattavasi dello
stesso indagato, della identica persona offesa e dello stesso fatto, anche se diversamente qualificato
così come prevede l'art. 649 c.p.p. e se non esistevano esigenze cautelari alla data in cui creava il
decreto con il quale veniva disposto il giudizio per le minacce non potevano esistere alla data i cui
per gli stessi fatti lo stesso Pubblico Ministero riteneva di dover agire per estorsione".
4. Il PUBBLICO MINISTERO, a sua volta, pur non contestando la legittimità della pretesa
creditoria del F., ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la gravità della condotta
criminosa posta in essere dall'indagato avrebbe dovuto indurre il Tribunale a confermare la misura
della custodia cautelare in carcere "non potendosi reputare assolutamente idonea a salvaguardare le
gravi esigenze cautelari riconosciute (...) la misura degli arresti domiciliari, del tutto inidonea a
prevenire il pericolo di reiterazione della condotta criminosa ed anche quello di un eventuale
inquinamento probatorio (...)".
DIRITTO
1. Ricorso F.;
L'unica doglianza dedotta dall'indagato è infondata per la semplice ragione che la dedotta violazione
dell'art. 649 c.p.p., è rimasta priva del minimo riscontro probatorio sicchè, anche in considerazione
del fatto che nell'ordinanza impugnata non si trova alcun cenno alla questione sollevata dal
ricorrente, la censura non può che essere disattesa non essendo stata messa questa Corte neppure
nella possibilità di scrutinarla.
2. RICORSO PUBBLICO MINISTERO;
2.1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
2.2. Come si è illustrato nella presente parte narrativa (supra 1), è pacifico che l'atto intimidatorio
posto in essere dal F. fu dettato da una legittima pretesa creditoria (compensi lavorativi) che costui
vantava nei confronti del L. ma che questi, pur non contestandola, non adempiva nonostante le
reiterate richieste: cfr pag. 2 ordinanza impugnata in cui vengono riportati stralci di intercettazioni
di conversazioni.
Il ricorrente ha, però, chiesto l'annullamento dell'ordinanza perchè, a suo avviso, la condotta
criminosa tenuta dal F. era stata così grave che l'unica misura idonea ed adeguata non poteva che
essere la custodia cautelare in carcere.
33
Per dare soluzione al quesito posto dal ricorrente, occorre preliminarmente verificare - anche
d'ufficio ex art. 609 c.p.p., - se la fattispecie in esame sia qualificabile come estorsione - così come
ritenuto dal Pubblico Ministero e, poi, dal giudice per le indagini preliminari e dallo stesso
Tribunale - oppure come esercizio arbitrario delle proprie ragioni: la questione è rilevante perchè
l'estorsione costituisce valido titolo detentivo al contrario dell'esercizio arbitrario delle proprie
ragioni per il quale la legge non consente alcuna misura cautelare.
Come si è detto nella presente parte narrativa (supra 1), il delitto di estorsione è stato ravvisato nel
fatto che il F. fece valere la sua legittima pretesa creditoria nei confronti del L., ponendo in essere
un atto che, secondo i giudici di merito, ebbe una tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni
ragionevole intento di far valere il preteso diritto.
La questione che, quindi, pone il presente procedimento può essere enunciata nei seguenti termini:
"se e in che limiti la gravità della minaccia o della violenza, posta in essere da chi faccia valere una
legittima pretesa deducibile davanti al giudice, costituisca elemento del reato di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni" 2.3. Il reato dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni era variamente
previsto da diversi codici preunitari.
L'art. 146 del Cod. Toscano stabiliva che "Chiunque senza violenza si fa ragione da sè medesimo è
punito (...) ma dove il delitto di ragione illecitamente fattasi sia stato commesso con violenza si
punisce secondo la regola dell'art. 361" ossia come il reato di violenza privata punito con il carcere
fino a due anni;
anche l'art. 116 del Regolamento sui delitti e sulle pene del 20/09/1852 in vigore nello Stato
Pontificio, inserito nel Titolo 4^ denominato "della violenza privata" stabiliva che "è violenza
privata, quando, senza l'uso d'armi apparenti o nascoste, alcuno di propria autorità: 1) occupa le
cose del suo debitore per assicurarsi del pagamento del credito, o dell'adempimento di una
obbligazione qualunque; (...)";
l'art. 286 del Codice Sardo disponeva che "chiunque con violenze verso le persone, ed al solo
oggetto di esercitare un preteso diritto, costringe taluno a pagare un debito, o ad eseguire
un'obbligazione qualunque, o turba l'altrui possesso, demolisce fabbricati, devia acque, abbatte
alberi, siepi vie o ripari stabili sarà punito (....)" con pene che variavano da un minimo di tre mesi di
carcere ad un massimo di dieci anni di relegazione a seconda che "la violenza sarà eseguita senza
percossa o ferita e senza armi", con armi "ma senza percosse nè ferite, ovvero se siano intervenute
percosse o ferite ma senz'armi" ovvero "se la violenza sarà fatta con armi ed accompagnata da
percossa o ferita": la norma faceva salve "in tutti i casi le maggiori pene pei reati per sè stessi più
gravi". Infine, la pena, ex art. 288, era diminuita "provandosi dal reo che il denaro estorto gli fosse
dovuto di ragione, o che egli fosse in diritto di ottenere l'esecuzione dell'obbligazione od il possesso
...".
L'art. 168 del Codice delle Due Sicilie, disponeva che "chiunque senza oggetto di furto o di recar
danno per ingiuria, ma solamente per l'esercizio di un preteso diritto obblighi altri al pagamento di
un debito o alla soddisfazione di una obbligazione qualunque, o disturbi un altrui possesso,
demolisca fabbricati, devii acque e simili, è punito col primo al secondo grado di prigionia; salve le
pene maggiori in caso di un reato per sè stesso maggiore".
Nel Codice Penale per gli Stati di Parma e Piacenza del 1820, il reato di esercizio arbitrario, era
disciplinato negli artt. 522 - 523 - 524 che così disponevano:
34
Art 522: Chiunque abbia usato violenza al debitore per costringerlo all'esecuzione di una
obbligazione qualunque sebben legittima, se la violenza sia fatta con armi, ed accompagnata da
percossa o ferita, sarà punito colla reclusione, salva la maggior pena che meritar potesse di per sè
sola la percossa o ferita".
Art. 523: "Se nella violenza di cui nell'articolo precedente non sia intervenuta, nè percossa, nè
ferimento, il colpevole incorrerà la pena di prigionia.
Se la violenza siasi fatta senza percossa o ferimento, e senz'armi, la pena sarà quella della prigionia
non maggiore di un mese, oppur anche d'una multa non maggiore di 300 lire".
524: "Chi senz'animo di commetter furto, o di recar danno per ingiuria, ma per esercitare un preteso
diritto, turba l'altrui possesso qualunque con violenza o minacce, o demolisce fabbricati, devia
acque, abbatte alberi, siepi, ripari e cose simili, è punito per questi soli fatti con prigionia non
maggiore di un anno: potranno anche i tribunali applicare una multa soltanto, la quale però non sarà
mai minore di 100 lire".
La suddetta normativa, fu ripresa, negli stessi termini dagli artt. 231, 232 e 233 del Codice
Criminale e di procedura criminale per gli Stati Estensi del 1855.
Nel primo codice postunitario, introdotto nel 1889, il reato di esercizio arbitrario delle proprie
ragioni, fu inserito nel capo 8 (intitolato "Dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni") del Titolo
4^ ("Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia") agli artt. 235 e 236.
L'art. 235 così disponeva: "Chiunque, al solo fine di esercitare un preteso diritto, nei casi in cui
potrebbe ricorrere all'Autorità, si fa ragione da sè medesimo, usando violenza sulle cose, è punito
con la multa sino a lire cinquecento.
Se il colpevole faccia uso di minaccia o di violenza contro le persone, ancorchè non usi violenze
sulle cose, è punito con la detenzione sino ad un anno o col confino sino a due anni, e con la multa
sino a lire mille.
Se la violenza sia commessa con armi, o sia accompagnata da lesione personale, purchè non
produca un effetto più grave di quello preveduto nell'ultimo capoverso dell'art. 372 il quale
disponeva che:
"se il fatto non produca malattia o incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, o se l'una o
l'altra non duri più di dieci giorni", la detenzione non può essere inferiore ad un mese, nè il confino
a tre mesi, nè la multa a lire trecento.
Se il fatto non sia accompagnato da altro delitto per cui si debba procedere d'ufficio, non si procede
che a querela di parte".
L'art. 236 completava la normativa disponendo che: "quando il colpevole del delitto preveduto nel
precedente articolo provi la sussistenza del diritto, la pena è diminuita di un terzo".
Nella Relazione al codice, l'allora Guardasigilli Zanardelli, al 87^, così scriveva: "Il carattere
specifico della ragion fattasi, che la distingue da altri delitti, nei quali la materialità del fatto può
essere identica, ma è diversa l'obiettività, consiste nel motivo che informa il fatto stesso, cioè il fine
35
di esercitare un diritto (....) era sembrato a molti pericoloso ed eccessivo costituire a delitto il farsi
ragione da sè senza usare alcun atto di violenza, o sulle persone o sulle cose (...) ed io accettai
perciò volentieri la proposta (...) "preteso diritto", appunto perchè il diritto può sussistere e può
anche non sussistere, come spiega l'articolo seguente ndr: art. 236 (...) nel secondo capoverso
occorreva chiarir bene che l'effetto della lesione persona conseguente alla violenza costituisce
un'aggravante della ragion fattasi e si compenetra in essa, finchè si tratti di lesione lievissima;
poichè nel caso di una lesione più grave, si deve considerar questa come un delitto distinto, da
trattarsi con le norme del concorso (...)".
Quindi, fin dal Cod. Zanardelli, fu chiaro che, per la configurabilità del reato di esercizio arbitrario
occorreva che l'agente lo avesse commesso con minaccia o violenza e che questa, ove avesse
cagionato una lesione lievissima, fungeva da semplice aggravante, contrariamente a quanto era
stabilito nell'art. 523 c.p., degli Stati di Parma e Piacenza (e nell'art. 233 del Codice Estense),
nell'art. 146 del Cod. Toscano, nell'art. 168 del Cod. delle Due Sicilie e nell'art. 116 del Reg.
Pontificio che punivano l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni anche se commesso senza
violenza o comunque con una violenza esercitata senza percosse e che non avesse provocato lesioni
di alcun genere.
Nel codice del 1930, l'art. 235 del cod. Zanardelli, venne sdoppiato e rimodulato negli attuali art.
392 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose) e art. 393 c.p. (esercizio
arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone): nella stessa Relazione al codice, il
Guardasigilli Rocco dedicò alle suddette norme "brevissimi chiarimenti essendo non molte le
differenze tra il Codice vigente e il Progetto, in ordine ai reati" in esame.
2.4. La ratio legis del reato dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni - sconosciuto nel diritto
romano e in altri ordinamenti giuridici (come ad es. nel regno Lombardo Veneto in cui vigeva il c.p.
del 1852 per l'Impero d'Austria) e criticato anche da una parte della stessa dottrina italiana che
riteneva che dovesse essere punita solo la violenza adoperata dall'agente - può essere rinvenuta
nella circostanza secondo la quale, una volta che lo Stato accentrò in sè tutte le funzioni pubbliche,
ed, in primis, quelle dell'Amministrazione della Giustizia, sembrò non più concepibile che il
cittadino, per quanto vantante una pretesa giuridicamente fondata e, quindi, tutelabile davanti
all'Autorità Giudiziaria, la potesse far valere da sè in modo arbitrario e con l'uso della forza.
Infatti, il ricorso alla violenza, sebbene giustificato da una giusta pretesa, potrebbe scatenare
conflitti fra i litiganti con conseguente attentato all'autorità costituita che, unico soggetto avente il
monopolio della forza, non può consentire che i cives ad arma ruant.
Il reato, infatti, in tutti i codici in cui era previsto, non a caso, si trovava inserito nella sezione
dedicata ai delitti contro l'Amministrazione della Giustizia, e la pena per la violazione in essa
prevista, non era (e non è) particolarmente severa proprio perchè ciò che s'intendeva (e s'intende)
punire non è tanto il conseguimento arbitrario di ciò che è dovuto, quanto il comportamento di
sfiducia nei confronti dell'Autorità Statale e le possibili conseguenze sull'ordine pubblico derivanti
dalle liti che potrebbero innescarsi a causa dal comportamento arbitrario dell'avente diritto.
Gli elementi che caratterizzano il suddetto reato sono i seguenti: a) la pretesa giuridica di far valere
un diritto soggettivo; b) l'opposizione del terzo che, a torto o ragione, contesti la suddetta pretesa; c)
la possibilità di ricorrere al giudice; d) il ricorso arbitrario alla forza - nella forma della violenza o
minaccia - diretta ad ottenere dal terzo quanto da questi pretesamente dovuto;
36
e) il dolo, ossia la volontà diretta ad esercitare quella pretesa.
La dottrina e la giurisprudenza hanno ampiamente esaminato nei vari aspetti ognuno di questi
elementi e non è questa certo la sede per tornare ad analizzarli: infatti, nella fattispecie in esame, gli
elementi costitutivi del reato elencati sub a, b, c, e, sono pacifici ed indiscussi sicchè sarebbe del
tutto ultroneo indugiare, in modo accademico, su di essi.
Quello che, invece, è controverso e che ha dato luogo al presente procedimento è l'elemento sub d)
ossia la forma della violenza o minaccia posta in essere dal ricorrente nei confronti del proprio
debitore: infatti, nonostante fossero pacifici tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie, il
ricorrente è stato attinto da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere perchè è stato ritenuto che
la minaccia adoperata ("cospargere di benzina un'autovettura di proprietà di L.E. e nel fargli trovare
vicino una bottiglia contenente liquido infiammabile") configuri il reato di estorsione sulla base del
principio giurisprudenziale secondo il quale "integra il delitto di estorsione, e non quello di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che esprime tale forza intimidatoria
da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio, preteso diritto, sicchè la
coartazione dell'altrui volontà deve ritenersi assuma "ex se" i caratteri dell'ingiustizia": ex plurimis
Cass. 19230/2013 Rv.
256249.
2.5. Uno degli elementi costituitivi del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è
costituito dalla violenza o minaccia.
Il suddetto requisito è previsto, però, anche dall'art. 629 c.p., sicchè, potendo le azioni materiali
previste dalle suddette norme coincidere, si è posto il problema di identificare la linea di confine fra
i due reati: sia la dottrina che la giurisprudenza hanno da sempre ritenuto che l'esercizio arbitrario
delle proprie ragioni con violenza alla persona e l'estorsione si distinguono non per la materialità del
fatto, che può essere identico, ma per l'elemento intenzionale: nell'estorsione l'agente mira a
conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto;
nell'esercizio arbitrario, invece l'agente è animato dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella
ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile.
Questo principio di diritto si trova affermato fin dagli anni trenta del secolo scorso ed è stato
ripetuto in modo tralaticio per decenni: ex plurimis Cass. 17/07/1936, Rainieri; Cass. 13/03/1953,
Centofanti; Cass. 1596/1966 riv 103557; Cass. 409/1971 riv 120790;
Cass. 7940/1986 riv 173481; Cass. 6445/1989 riv 171179; Cass. 12329/2010 riv 247228; Cass.
22935/2012 riv 2531992.
Sennonchè, nell'ultimo decennio, pur non smentendosi la suddetta affermazione, si è incominciato
ad affermare il principio secondo il quale "nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la
minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta
dell'agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongono come
elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite
di violenza": Cass. 10336/2003 riv 228156.
37
Successivamente, si specificò che "quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza
intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far
valere un diritto, allora la coartazione dell'altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che
assume ex se i caratteri dell'ingiustizia.
In determinate circostanze e situazioni, pertanto, anche la minaccia dall'esercizio di un diritto, in sè
non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che
fanno sfociare l'azione in mera condotta estorsiva" Cass. 47972/2004 riv 230709; Cass. 28/11/2007
n 766; Cass. 27/06/2007 n 35610, Della Rocca; Cass. 27/06/2007 n 35613, Guarino; Cass.
15/02/2007 n 14440, Mezzanzanica; Cass. 29/10/2008 n 42317, Smaldore;
Cass. 02/12/2009 n 49564; Cass. 28539/2010 riv 247882; Cass. 41365/2010 riv 248736; Cass.
32721/2010 riv 248169 che, in motivazione, ribadì il concetto secondo il quale "non è certo la
semplice intenzione di far valere un proprio diritto a far trasmigrare il fatto dalla figura della
estorsione a quella dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Poichè elemento essenziale di
entrambe i reati è dato dalla violenza o dalla minaccia, il problema, nel caso di soggetto che vanti
un proprio diritto che sia possibile far valere davanti alla autorità giudiziaria, è quello di verificare,
ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione il grado di gravità
della condotta violenta o minacciosa. Si rimane indubbiamente nell'ambito della estorsione ove
venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine ovvero se si eserciti una
minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima"; Cass. 01/02/2012 n 6556, Buschini
secondo la quale "si rimane indubbiamente nell'ambito della estorsione ove venga esercitata una
violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine, ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci
possibilità' di scelta alla vittima"; Cass. 19230/2013 riv 256249.
Come si può, quindi, notare, il suddetto principio di diritto ruota, sostanzialmente, intorno alla
seguente affermazione: la minaccia e la violenza, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie
ragioni, sono finalizzate a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongono
come elementi accidentali: di conseguenza, non possono mai consistere in manifestazioni
sproporzionate e gratuite di violenza, perchè, in caso contrario, l'esercizio di un diritto, in sè non
ingiusto, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che
fanno sfociare l'azione in mera condotta estorsiva tale da non lasciare alla vittima alcuna possibilità
di scelta.
In tale ottica, pertanto, il comportamento dell'agente è stato qualificato come estorsivo nell'ipotesi in
cui: effettuò minacce di morte e violenze fisiche (Cass. 6556/2012; Cass. 41365/2010);
minacciò azioni ritorsive (Cass. 19230/2013); minacciò con armi o con esplosivo (Cass.
35610/2007); colpì la persona offesa con pugni, calci ed una sedia di legno (Cass. 47972/2004);
spense sul collo della vittima una sigaretta (Cass. 10336/2003); provocò lesioni personali con uno
strumento, bisturi, di insita pericolosità (Cass. 14440/2007); effettuò un attentato incendiario (Cass.
49564/2009);
non fu, invece, ritenuta estorsiva la minaccia esercitata con il mezzo del telefono, in modo
tracotante e volgare ma non tale da porre la vittima in condizione di assoluta coartazione (Cass.
32721/2010).
Peraltro, va osservato che, da una lettura delle motivazioni delle suddette sentenze si evince che, in
pratica, in tutti i casi in cui si è affermato il principio di diritto in esame, il soggetto agente non
38
poteva comunque far valere il preteso diritto davanti all'autorità giudiziaria, proprio perchè, per un
verso o per un altro, si trattava di un diritto non azionabile: il che significa che il principio di diritto
di cui si discute è sempre stato adoperato come rafforzativo - e, quindi, non come unica ed esclusiva
ratio decidendi - dell'infondatezza del ricorso proposto dall'imputato (cfr infra 2.8.).
Ciononostante, è indubbio che il principio di diritto è stato affermato e con esso occorre misurarsi,
in quanto, il caso in esame rappresenta un esempio di scuola in cui, da una parte, non è in
discussione il buon diritto del ricorrente ad ottenere il dovuto dal proprio debitore e, dall'altra, che,
per raggiungere il suo scopo, è ricorso a mezzi che, secondo la giurisprudenza in esame, possono
essere considerati sproporzionati rispetto al fine.
Questa Corte ritiene di dover disattendere la suddetta giurisprudenza -dovendosi ribadire, quindi, il
tradizionale indirizzo - per le ragioni di seguito indicate.
2.6. L'analisi storica del reato in esame (supra 2.3.), ha, innanzitutto, evidenziato che, a fronte dei
Codici delle Due Sicilie, del Cod. Toscano, del Codice degli Stati di Parma e Piacenza, del Codice
Estense e del Reg. Pontificio che punivano chiunque si facesse ragione da sè medesimo anche senza
adoperare minacce o violenze, il Codice Sardo, al contrario, prevedeva come elemento costitutivo
della fattispecie proprio la violenza. A seconda poi, che la violenza fosse stata esercitata con armi o
con "percosse" e fossero state provocate "ferite", la pena era variamente aggravata: in altri termini e,
"salve le maggiori pene pei reati per sè stessi più gravi", la violenza era un elemento costitutivo del
reato solo quando non sfociava in percosse o ferite o non fosse stata esercitata con armi perchè, in
questi casi, le suddette circostanze fungevano da aggravanti.
Il Cod. Zanardelli, si ispirò, a quest'ultima normativa perchè, da una parte, stabilì che la violenza
fosse elemento costitutivo del reato e, dall'altra, che la violenza, ove commessa con le armi o
"accompagnata da lesione personale" costituisse un'aggravante:
peraltro, il rinvio all'ultimo capoverso dell'art. 372, rendeva palese che, quando la violenza fosse
trasmodata da lesione lievissima a una lesione più grave, si doveva "considerare questa come un
delitto distinto, da trattarsi con le norme del concorso" (cfr Relazione cit.).
La suddetta normativa, è stata, poi, in pratica recepita, con poche modifiche, dall'attuale codice.
Alla stregua del predetto excursus storico e della ratio legis si può quindi, affermare che, in realtà, è
stato lo stesso legislatore che si è posto il problema dell"'intensità" della violenza o della minaccia
ed ha, insindacabilmente, stabilito che ove la violenza (o la minaccia) trasmodino da una semplice
percossa, l'agente è penalmente perseguibile per il reato di esercizio arbitrario e, in concorso, con
gli altri reati che abbia commesso (lesioni, omicidio, sequestro di persona, danneggiamento ecc(...));
Ciò che, infatti, il legislatore ha inteso sanzionare è il farsi giustizia da sè, con violenza o minaccia,
senza ricorrere all'Autorità giudiziaria e non tanto la modalità con la quale l'agente persegue il suo
scopo (2.4): è in tale ottica che si spiega il motivo per cui, la pena prevista per il reato in esame è
relativamente modesta rispetto a quella stabilita per il reato di estorsione nonostante l'elemento
materiale del fatto sia, nei due reati, oggettivamente simile e sovrapponibile; per il legislatore,
invero, ciò che rileva è il diverso disvalore che sta alla base del comportamento (rectius: intenzione)
dell'agente, perchè una cosa è che la violenza o minaccia - qualunque sia la forma e la intensità -
venga esercitata per un preteso diritto, altra e ben diversa cosa è che quella stessa violenza o
minaccia sia esercitata per procurarsi un ingiusto profitto.
39
2.7. Un riscontro testuale a quanto appena detto, lo si rinviene nell'art. 393 c.p., comma 3, che
prevede un aumento di pena "se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi":
orbene, nonostante sia del tutto evidente che la minaccia o violenza commessa con le armi
costituisca, sicuramente, una delle più gravi ed invasive forme di coartazione della volontà altrui, il
legislatore ha previsto, in continuità con la tradizione storica, solo un aggravamento di pena e non il
diverso reato di estorsione.
Non solo, ma se si analizza la giurisprudenza di questa Corte, ci si avvede che è stato sempre
affermato il seguente principio "il reato di sequestro di persona può concorrere con quello di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando l'agente sia mosso dal fine di esercitare un preteso
diritto e commetta il primo per eseguire il secondo": ex plurimis Cass. 9731/2009 rv. 243020; Cass.
38438/2001 rv. 219977; Cass. 6677/1987 rv. 178535. Anche in tal caso, nonostante sia esercitata
una gravissima forma di violenza (privazione della libertà), la giurisprudenza di questa Corte non ha
mai avuti dubbi nel ritenere che l'agente debba essere ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt.
393 e 605 c.p., e non già del più grave reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui
all'art. 630 c.p..
L'art. 393 c.p., comma 3, conferma, quindi, che è stato già il legislatore, nella sua insindacabile
sovranità, a stabilire, a monte, che nella sola ipotesi dell'uso delle armi, la minaccia e la violenza,
nonostante siano, di per sè, gravi e cioè di maggiore intensità, il reato resta sempre quello di
esercizio arbitrario dovendosi solo aumentare la pena e che solo nella suddetta ipotesi il reato resta
aggravato, al contrario di quanto espressamente previsto nelle ipotesi di cui agli artt. 336 e 338, art.
377, comma 4 - art. 610, comma 2 - art. 611, comma 2 - art. 612, comma 2 in cui la gravità della
minaccia o della violenza è ampliata con il richiamo a tutte le ipotesi previste dall'art. 339 c.p., e
non solo all'uso delle armi.
Ed ancora, l'art. 581 c.p., comma 2, stabilisce che la disposizione sulle percosse "non si applica
quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di
un altro reato": il che è proprio quello che è previsto nell'art. 393 c.p., nel senso che la semplice
percossa non è punibile restando assorbita nella violenza e che quando la violenza trasmoda in altri
reati (lesioni, omicidio, sequestro di persona ecc...), l'agente risponderà, in concorso con il reato di
cui all'art. 393 c.p., degli altri ed eventuali reati commessi contro la persona della parte offesa,
come, è scritto, peraltro, expressis verbis, fin dalla Relazione al codice Zanardelli.
Quanto appena illustrato, quindi, rende evidente - anche a livello di interpretazione sistematica -
che, poichè negli artt. 392 e 393 c.p., i sostantivi "violenza e minaccia" sono adoperati (così come
nell'art. 629 c.p.) sic et simpliciter senza alcuna altra aggettivazione, non è consentito all'interprete,
in ossequio al principio cardine di legalità, procedere ad un'interpretazione in malam partem della
suddetta normativa e cioè ritenere che ogniqualvolta l'agente abbia posto in essere minacce e
violenze particolarmente gravi, il suddetto comportamento trasmodi nel reato di estorsione.
2.8. La tesi qui confutata, non spiega per quali ragioni manifestazioni sproporzionate e gratuite di
violenza possano far diventare l'azione di natura estorsiva e, quindi, immutare la natura stessa del
reato e cioè per quali ragioni il dolo specifico di cui all'art. 393 c.p., si tramuti nel dolo generico di
cui all'art. 629 c.p.: sul punto, la suddetta tesi si limita a sostenere che l'azione diventa estorsiva: a)
quando è tale da non lasciare alla vittima alcuna possibilità di scelta; b) quando denota una prava
volontà ricattatoria.
40
Ora, sul primo argomento (sub a), si deve osservare che, in realtà, per consolidata giurisprudenza di
questa Corte, anche il reato di estorsione non annulla la possibilità di scelta della vittima, tant'è che,
tradizionalmente, proprio al fine di distinguere il reato di estorsione da quello di rapina si è
sostenuto che "l'elemento di discrimine tra i due reati, di estorsione e rapina, è costituito dall'area di
libertà concessa alla persona offesa;
sussiste il delitto di estorsione quando la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia,
non sia completamente esclusa, ma, residuando la possibilità di scelta fra l'accettare le richieste
dell'agente o subire il male minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata in
maniera più o meno grave dal timore di subire il pregiudizio prospettato; se la minaccia, viceversa,
si dovesse risolvere in un costringimento psichico assoluto, cioè nell'annullamento di qualsiasi
possibilità di scelta, ed il risultato dell'agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si
configurerebbe infatti un vero e proprio "impossessamento" e, conseguentemente, il diverso reato di
rapina": ex plurimis Cass. 47972/2004 cit., in motivazione; Cass. 4308/1995 rv. 203773.
Quanto al secondo argomento (sub b), si può essere anche d'accordo ove con la locuzione "volontà
ricattatoria" si voglia intendere che l'agente con il proprio comportamento minatorio o violento
intenda perseguire un fine ulteriore e diverso rispetto alla semplice conseguimento della pretesa
legittima.
Infatti, è indubbio che la sproporzione della violenza e/o minaccia costituisce, spesso, un grave
indizio della volontà ricattatoria dell'agente e cioè del fatto che costui, in realtà, intende perseguire
un fine ulteriore e diverso da quello del semplice soddisfacimento di una legittima pretesa: invero, è
ragionevole ritenere che, nei criteri della valutazione della prova, si tenga conto anche della
condotta tenuta dall'agente al fine di valutare la fondatezza della tesi difensiva.
Spetta, pertanto, al giudice di merito, nell'ambito della usuale dialettica processuale, accertare quale
sia stata la finalità perseguita dall'agente, fermo restando che il dato oggettivo e materiale dal quale
non può prescindersi e dal quale occorre partire prima di ogni altra indagine sull'elemento
psicologico consiste nell'accertare: a) se l'agente vanti un preteso diritto; b) se il suddetto diritto sia
tutelabile davanti all'autorità giudiziaria. E' ovvio, infatti, che se si accerta l'insussistenza di uno di
questi due elementi, ogni ulteriore indagine sull'elemento psicologico, diventa del tutto ultroneo.
E', proprio in tale prospettiva, che, a ben vedere, si trova la chiave interpretativa che ha dato origine
al filone giurisprudenziale dal quale si dissente.
Infatti, ove si abbia cura di leggere per esteso le sentenze che hanno affermato il suddetto principio,
non si tarda ad avvedersi che, in tutte le fattispecie esaminate, l'imputato, non solo non vantava
alcun diritto tutelabile davanti all'autorità giudiziaria, ma aveva posto in essere nei confronti della
parte offesa minacce o violenza per ottenere vantaggi non dovuti: in altri termini, il preteso diritto -
non essendo tutelabile con il ricorso al giudice - era solo un modo surrettizio per compiere una vera
e propria azione estorsiva.
E così: - in Cass. 6556/2012, fu ritenuto il delitto di estorsione commesso dall'imputato ai danni
dell'ex moglie, costretta con minacce di morte e violenze fisiche a sottoscrivere una scrittura privata
con cui rinunciava sostanzialmente alla propria quota, sulla proprietà della casa coniugale: la Corte,
in motivazione scrive che "nel caso di specie, non risulta affatto, data la cointestazione
dell'appartamento, che il V. potesse vantare un diritto di proprietà esclusiva";
41
- in Cass. 19230/2013, la fattispecie era costituita da un imputato che voleva costringere il titolare
del pontile per la custodia ed il rimessaggio a mettere in mare un'imbarcazione, benchè non avesse
pagato e avesse chiaramente dato manifestazione di non voler pagare quanto sicuramente dovuto a
titolo di compenso per la custodia, il rimessaggio e le riparazioni eseguite sul gommone;
- in Cass. 10336/2003 e Cass. 35610/2007, l'imputato pretendeva la restituzione di una somma di
gran lunga superiore rispetto al credito vantato;
- in Cass. 47972/2004 - Cass. 766/2007 - Cass. 35613/2007 - Cass. 49564/2009 - Cass. 28539/2010
- Cass. 41365/2010 si trattava di una riscossione di crediti da parte di terzi;
- in Cass. 42317/2008 l'accordo relativo alla cessione di un negozio giuridico non fu ritenuto
provato;
- in Cass. 14440/2007 si discuteva del pagamento di una fornitura di cocaina.
2.9. Si possono, a questo punto, tirare le fila di tutto quanto finora si è detto.
La ratio legis (p. 2.4.), l'interpretazione storica (p. 2.6.), nonchè quella letterale e sistematica (p.
2.7.), portano a disattendere il principio di diritto sulla base del quale, prima il giudice per le
indagini preliminari e, poi, il Tribunale del Riesame, hanno ritenuto che, nella fattispecie in esame,
il comportamento tenuto dall'indagato F., sia qualificabile come estorsione e non come esercizio
arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., alla stregua dei seguenti principi:
- l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e l'estorsione si distinguono
non per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l'elemento intenzionale:
nell'estorsione, l'agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende
non gli è dovuto; nell'esercizio arbitrario, invece, l'agente è animato dal fine di esercitare un suo
preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o
contestabile;
- di conseguenza, deve affermarsi che l'intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia non è
un elemento del fatto idoneo ad influire sulla qualificazione giuridica del reato (esercizio arbitrario
delle proprie ragioni - estorsione), atteso che, ove la minaccia o la violenza siano commesse con le
armi, il reato diventa aggravato ex art. 393, comma 3 o art. 629 c.p., art. 628 comma 3 n. 1, e, se la
violenza o la minaccia ledano altri beni giuridici, fanno scattare a carico dell'agente ulteriori reati in
concorso (lesioni, omicidio, sequestro di persona ecc.) - Pertanto, ove la violenza e/o a minaccia,
anche se particolarmente intense o gravi, siano effettuate al solo fine di esercitare un preteso diritto
pur potendo, l'agente ricorrere al giudice, non è mai configurabile il diverso delitto di estorsione che
ha presupposti giuridici completamente diversi;
- tuttavia, ove la violenza e/o la minaccia, indipendentemente dalla intonata con la quale siano
adoperate dall'agente, siano esercitate al fine di far valere un preteso diritto per il quale, però, non si
può ricorrere al giudice, il suddetto comportamento va qualificato come estorsione ma non perchè
l'agente eserciti una violenza o minaccia particolarmente grave ma perchè il suo preteso diritto non
è tutelatole davanti all'autorità giudiziaria, sicchè, venendo a mancare uno dei requisiti materiali del
reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il fatto diventa qualificabile come estorsione.
42
PQM P.Q.M.
Qualificato il fatto ai sensi dell'art. 393 c.p., annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nonchè
l'ordinanza di custodia cautelare disposta dal giudice per le indagini per le indagini preliminari del
Tribunale di Messina in data 11/07/2013 ed ordina l'immediata scarcerazione di F.I. se non detenuto
per altra causa;
Rigetta il ricorso del Pubblico Ministero e manda la Cancelleria per gli adempimenti di rito ex art.
626 c.p.p..
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2013
43
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENTILE Mario - Presidente -
Dott. CASUCCI Giuliano - Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
Dott. RAGO Geppino - rel. Consigliere -
Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.C.D. nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 05/12/2013 della Corte di Appello di Milano;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Alfredo Viola che
ha concluso per il rigetto.
FATTO
1. Con sentenza del 05/12/2014, la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza pronunciata
in data 06/02/2013 dal giudice dell'udienza preliminare del tribunale della medesima città nella
parte in cui aveva ritenuto D.C.D. (in concorso con G.C. non ricorrente) colpevole dei seguenti
reati: "Capo A) art. 110 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, in rel. art. 628 c.p., comma 3, n. 61, n. 5,
perchè, presentandosi a I.F. come agenti di polizia in borghese dopo averlo inseguito e fermato con
la minaccia di elevare verbale di contravvenzione per un importo di 1.300,00 Euro, lo costringevano
a consegnare loro la somma di Euro 500,00 prelevati da uno sportello bancomat, procurandosi cosi
un ingiusto profitto con altrui danno. Fatto commesso in (OMISSIS). Capo B) artt. 110 e 347 c.p.,
art. 61 c.p., n. 2, perchè in concorso tra loro usurpavano la posizione pubblica di agente di polizia,
mostrando un distintivo e presentandosi a I. F. come Polizia Antidroga. Fatto commesso in
(OMISSIS)".
Il fatto veniva ricostruito dalla Corte territoriale nei seguenti termini: "Il procedimento trae origine
dalla denuncia sporta in data (OMISSIS) da I.F. il quale dichiarava che la notte del (OMISSIS)
mentre era alla guida della propria autovettura veniva inseguito da un una Ford Focus da cui
scendeva un uomo che gli mostrava un distintivo, e si qualificava come appartenente alla Polizia
Antidroga e gli contestava tre violazioni del codice della strada a suo dire memorizzate in una
memory card che gli esibiva, comportanti sanzioni pecuniarie per Euro 1.300,00 ed il ritiro della
patente ed il sequestro del mezzo. Nel medesimo contesto il secondo uomo rimaneva a bordo della
Focus, dalla quale proveniva il cicalio tipico delle trasmissioni via radio. Quindi il sedicente agente
operante prospettava al I. la possibilità di annullare la sanzione, stracciando la memory card, in
cambio di Euro 250,00 per lui e per il collega. Visto che lo I. non aveva contanti, gli stessi falsi
poliziotti lo accompagnavano ad uno sportello bancomat per ritirare la cifra pattuita, quindi
intascato il contante accartocciavano e gettavano in un cestino la memory card. Una volta giunto a
casa la parte lesa decideva di tornare sul posto per recuperare la memory card e quindi constatava
che il presunto cicalio della polizia sentito nella Ford Focus non era altro che una mera
registrazione. A seguito delle indagini degli organi di Polizia gli operanti individuavano i due
44
presunti agenti negli odierni imputati che di seguito venivano con certezza riconosciuti dalla parte
lesa.
Nel corso del giudizio immediato il G., pur cercando di sminuire le proprie responsabilità e senza
fare il nome del complice, nella sostanza ammetteva l'incontro con lo I., l'inseguimento, la
qualificazione come agente di polizia e la circostanza di aver giocato sull'equivoco nato fino al
ricevimento della somma di 500,00 Euro".
2. Avverso la suddetta sentenza, l'imputato, in proprio, ha proposto ricorso per cassazione
deducendo i seguenti motivi:
2.1. illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto che il complice
del G. fosse esso ricorrente. La Corte territoriale, infatti, non aveva risposto alle molteplici
osservazioni indicate nell'atto di appello con le quale si erano analiticamente criticate tutte le
contraddizioni in cui era incorso il primo giudice. Non poteva essere ritenuto un valido elemento di
prova il riconoscimento fotografico effettuato dalla parte offesa in quanto era stato effettuato con un
margine di incertezza atteso che aveva affermato che esso ricorrente "era comunque dimagrito
rispetto alla fotografia mostratagli". Privo di valenza, poi, doveva ritenersi il riconoscimento
dell'autovettura Ford Focus con la quale la parte offesa era stata fermata trattandosi di un modello
abbastanza comune e, quindi, non individualizzante.
2.2. errata qualificazione giuridica del fatto: sostiene il ricorrente che, nel fatto addebitatogli,
sarebbe configurabile, al più, il reato di truffa aggravata e non quello di estorsione come ritenuto
peraltro da una parte della giurisprudenza di legittimità;
2.3. violazione dell'art. 61 c.p., n. 5, per avere la Corte omesso di motivare sulla sussistenza
dell'aggravante del tempo di notte;
2.4. violazione dell'art. 62 bis c.p., per non avere la Corte concesso le suddette attenuanti nonostante
ne sussistessero i presupposti (incensuratezza e corretto comportamento processuale).
DIRITTO
1. illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità: il ricorrente sostiene di non aver
partecipato all'azione delittuosa.
Sennonchè, la sua responsabilità è stata affermata da entrambi i giudici di merito (cfr pag. 7
sentenza impugnata) sulla base del suo certo riconoscimento fotografico avvenuto ad opera della
parte offesa.
Il ricorrente sostiene che il suddetto riconoscimento sarebbe inattendibile solo perchè la parte offesa
aveva dichiarato che, rispetto alla foto segnaletica, esso imputato risultava più magro:
ma, si tratta di un circostanza che, lungi dal minare l'attendibilità del riconoscimento, al contrario,
paradossalmente, la rafforza perchè è indice del fatto che la parte offesa aveva avuto modo di
vedere molto bene il complice del G. (reo confesso) tanto da notare che il medesimo era più magro
di quanto risultasse in foto.
45
A tale riconoscimento, va aggiunto che la parte offesa aveva dichiarato che i due imputati si
trovavano a bordo di una Ford Focus verde scuro con i cerchi in lega, ossia la stessa auto a bordo
della quale i due erano stati visti insieme a seguito di un controllo effettuato dalle Forze dell'Ordine
(cfr pag. 3 ricorso).
Il compendio probatorio, quindi, può ritenersi ampiamente sufficiente a far ritenere incensurabile la
conclusione alla quale entrambi i giudici di merito sono pervenuti.
Infatti, le censure dedotte vanno ritenute null'altro che un tentativo di introdurre in questa sede di
legittimità una nuova ed alternativa valutazione di quegli stessi elementi fattuali ampiamente presi
in esame da entrambi i giudici di merito: il che rende la doglianza manifestamente infondata.
2. errata qualificazione giuridica del fatto: la censura è fondata per le ragioni di seguito indicate.
La Corte territoriale, ha respinto la medesima doglianza con la seguente testuale motivazione: "Per
quanto riguarda il capo A), va escluso possa parlarsi di truffa in luogo di estorsione, in quanto la
consegna del denaro da parte della vittima, come ben veniva già illustrato in primo grado, non
derivava da un mero inganno realizzato dai finti poliziotti, ma dalla minaccia posta in essere dagli
stessi di sottoposizione a una grave sanzione amministrativa. Valga solo, per quanto riguarda il
criterio distintivo tra il reato di estorsione e il reato di truffa aggravata, riportare l'insegnamento
costante della Corte di legittimità secondo cui la differenza risiede nelle modalità in cui viene
prospettato alla vittima il danno e, nel caso, gli agenti certamente conseguivano l'ingiusto profitto
attraverso un atteggiamento di palese minaccia con la prospettazione del danno certo e reale
costituito dalla sanzione pecuniari".
L'art. 640 c.p., comma 2, n. 2, prevede l'aggravamento della pena "se il fatto è commesso
ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l'erroneo convincimento di
dovere eseguire un ordine dell'autorità".
Poichè la prospettazione di un pericolo - sebbene immaginario - determina nella vittima una forma
di coartazione della volontà, si è posto il problema di identificare gli elementi che consentano di
differenziare la truffa aggravata dall'estorsione.
Il suddetto problema era già presente all'attenzione del legislatore: infatti, al 750 vol V, parte II
della Relazione sui Libri II e III del Progetto dei Lavori preparatori del cod. pen. e del cod. proc.
pen. si legge: "Si è domandato da alcuno perchè è stato considerato come un ipotesi di truffa il fatto
di chi, con un artificio o raggiro, tende ad ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo
immaginario o l'erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell'Autorità, sembrando che
tale fatto debba piuttosto costituire delitto di estorsione. L'osservazione non tiene presente che il
Progetto si riferisce all'uso di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione
della volontà ma una induzione in errore, e perciò la definizione giuridica del fatto non può essere
che quella di truffa".
La ratio legis va, quindi, individuata nel fatto che il legislatore, nella sua insindacabilità, ha ritenuto
che quella determinata modalità di raggiro o artifizio, fosse particolarmente pericolosa ed insidiosa
e che, pertanto, meritasse di essere qualificata come una aggravante.
In altri termini, mentre il legislatore, per la truffa semplice di cui all'art. 640 c.p., comma 1, si è
limitato ad enunciare come elemento oggettivo del reato, "gli artifizi o raggiri", lasciando
46
all'interprete di stabilire, di volta in volta, se un determinato comportamento sia qualificabile come
artifizio o raggiro, al contrario, ha tipizzato una particolare categoria di artifizi e raggiri, stabilendo
che, appunto, quando l'agente, induce taluno in errore procurando a sè o ad altri un ingiusto profitto
con altrui danno, mediante artifizi o raggiri consistenti nell'ingenerare nella persona offesa il timore
di un pericolo immaginario, questa ipotesi dev'essere considerata aggravata.
La peculiarità dell'ipotesi in esame consiste, quindi, nella circostanza che ingenerare nella persona
offesa il timore di un pericolo immaginario, costituisce il particolare mezzo (rectius:
artifizio o raggiro) grazie al quale l'agente induce in errore la parte offesa.
I chiarimenti offerti dallo stesso Guardasigilli, non hanno però dissipato tutti i dubbi
sull'individuazione della linea di demarcazione fra truffa aggravata e estorsione.
Infatti, nell'ambito della giurisprudenza di questa stessa Corte di legittimità, si registrano due
opinioni.
2.1. Secondo una prima tesi, "uno dei criteri distintivi tra l'estorsione e la truffa per ingenerato
timore è da ravvisare nella particolare posizione dell'agente nei rapporti con lo stato d'animo del
soggetto passivo. Nella estorsione, infatti, l'agente incute direttamente od indirettamente, il timore
di un danno che fa apparire certo in caso di rifiuto e proveniente da lui (o da persona a lui legata da
un rapporto qualsiasi), di guisa che l'adesione della vittima è il frutto di una determinazione per
volontà coartata;
l'attuazione del male minacciato deve presentarsi in forma di possibilità concreta dipendente dalla
volontà dell'agente o di persona legata allo stesso. Nella truffa vessatoria, invece, il danno è
prospettato solo in termini di eventualità obiettiva e giammai derivante in modo diretto od indiretto
dalla volontà dell'agente, di guisa che l'offeso agisce non perchè coartato, ma tratto in inganno,
anche se il timore contribuisce ad ingenerare l'errore nel processo formativo della volontà": ex
plurimis Cass. 5244/1975 riv 133309;
Cass. 11622/1982 riv 156497; Cass. 710/1986 riv 174914; Cass. 5845/1995 riv 201333; Cass.
4180/2000 riv 215705; Cass. 29704/2003 riv 226057; Cass. 35346/2010 riv 248402; Cass.
36906/2011 riv 251149.
La suddetta opinione, quindi, individua i seguenti criteri differenziali:
a) lo stato d'animo del soggetto passivo, il quale, nell'estorsione agisce con la volontà coartata,
mentre nella truffa vessatoria agisce perchè tratto in inganno, sia pure attraverso l'eccitazione di un
timore: Cass. 5244/1975 RV 133309;
b) la realizzazione del danno minacciato: infatti, si ha estorsione, quando il danno viene minacciato
come una possibilità concreta, che dipende direttamente o indirettamente dallo stesso agente, il
quale si mostra in grado di determinare, o meno, la situazione prospettata, mentre si ha truffa per
ingenerato timore, quando il male rappresentato non dipende, neppure in parte dall'agente, il quale
resta del tutto estraneo all'evento, artatamente rappresentato, sì che il soggetto passivo si determina
all'azione versando in stato di errore: Cass. Sez. 1^, 6693/1979 RV 142629; Sez. 2^, 1616/1987 RV
175101; 5838/1995 RV 201514; 7889/1996 RV 205606.
47
In altri termini, la tesi illustrata, pone il baricentro del criterio distintivo fra i due reati, sul diverso
modo di atteggiarsi della condotta lesiva e sulla sua incidenza nella sfera soggettiva del soggetto
passivo: ricorre la truffa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non
proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta in modo che l'offeso non è coartato
nella sua volontà, ma si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perchè
tratto in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l'estorsione se il
male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, onde l'offeso è posto nella
ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso profitto o di subire il male minacciato.
Si tratta, quindi, di una tesi che, da una parte, guarda alle modalità della condotta lesiva
(nell'estorsione, il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri; nella
truffa, il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente
direttamente o indirettamente da chi lo prospetta), dall'altra, all'atteggiamento psicologico della
vittima (nell'estorsione, l'offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il
preteso profitto o di subire il male minacciato; nella truffa, l'offeso non è coartato nella sua volontà,
ma si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perchè tratto in errore
dalla esposizione di un pericolo inesistente).
Questa tesi, poi, comporta due corollari:
a) l'indagine va effettuata ex ante e cioè al momento della consumazione del reato;
b) del sintagma "pericolo immaginario" è data un'interpretazione restrittiva. Si è, infatti, affermato
che "Il significato proprio dell'aggettivo immaginario indica tutto ciò che è effetto
dell'immaginazione, ossia che esiste soltanto nell'immaginazione e non ha alcun fondamento nella
realtà. Di conseguenza, nell'estorsione l'agente rappresenta un pericolo dato come reale e da lui
dipendente; nella truffa vessatoria l'agente crea un pericolo immaginario, costruito come fatto a sè
stante separato dalle determinazioni del truffatore, tale che un comune discernimento potrebbe
essere in grado di individuare come non reale. In genere, ma non necessariamente, il pericolo
immaginario è correlato a forze occulte o a credenze superstiziose": Cass. 4180/2000 riv 215705 (in
motivazione).
Sulla base di questa interpretazione, pertanto, si è, sostenuto che "Integra il reato di truffa aggravata
il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago, chiromante, occultista o guaritore,
ingeneri nelle persone offese la convinzione dell'esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui
loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici
da lui praticati, le induca in errore, così procurandosi l'ingiusto profitto consistente
nell'incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime":
Cass. 5265/1996 riv 205106; Cass. 1862/2005 riv 233361; Cass. 1910/2004 riv 230694; Cass.
26107/2003 riv 225872; Cass. 42445/2012 riv 253647.
Al contrario, integra il reato di estorsione, a nulla rilevando che la minaccia, se credibile, non sia
concretamente attuabile:
- la richiesta di una somma di danaro per la restituzione di un motociclo rubato formulata da un
soggetto che aveva tratto in inganno il derubato falsamente affermando di avere la disponibilità del
mezzo: Cass. 7889/1996 riv 205606;
48
- il caso in cui l'agente, falsamente qualificandosi come vigile urbano, si era fatto corrispondere una
somma di denaro dal proprietario di un immobile minacciando di sospendere l'esecuzione dei lavori
di ristrutturazione che ivi si svolgevano: Cass. 4180/2000 riv. 215705;
- il caso in cui gli imputati si fecero consegnare varie somme da due extracomunitari, con la
minaccia di sottoporli, simulando la qualità di agenti della P.S., a controlli amministrativi e di
verificare l'addotta provenienza delittuosa del denaro posseduto dai predetti:
Cass. 35346/2010 riv 248402;
- la condotta di colui che con l'esibizione di un (falso) tesserino USL costringa due ristoratori ad
acquistare merce onde scongiurare future ispezioni, in quanto il male ingiusto è prospettato tramite
una minaccia e non attraverso un inganno: Cass. 36906/2011 riv 251149.
2.2. La seconda tesi, invece, giunge, in fattispecie simili, ad opposta conclusione ritenendo che il
criterio distintivo fra i due reati debba essere di natura oggettiva in quanto ciò che rileva è solo il
mezzo utilizzato (ossia gli artifizi e raggiri) e non gli effetti che i medesimi hanno sulla volontà
della vittima.
Si è, infatti, sostenuto che "mentre gli elementi caratterizzanti la condotta estorsiva sono la violenza
e la minaccia, quelli qualificanti il comportamento truffaldino - anche nell'ipotesi aggravata della
prospettazione del "pericolo immaginario" - sono, pur sempre, gli artifizi e raggiri: in quest'ultima
ipotesi infatti la minaccia, poichè riguarda un male non reale, ma immaginario, assume i contorni
dell'inganno perchè contribuisce alla induzione in errore della parte offesa del reato attraverso la
prospettazione del falso pericolo": nella specie, è stato ritenuto configurabile il reato di truffa nel
fatto di un soggetto che, spacciandosi per ufficiale della guardia di finanza, aveva richiesto ed
ottenuto una somma di danaro per non procedere ad una verifica fiscale: Cass. 8456/1995 riv
202347; Cass. 8974/1996 riv 206281 secondo la quale il ventilato asporto dei beni mobili
dall'abitazione prospettato da soggetti falsamente qualificatisi come ufficiali giudiziari, in quanto
deve escludersi il carattere "immaginario" del male così minacciato, risultando il predetto asporto
consentito dalla normativa di cui agli artt. 520 e 521 cod. proc. civ., i quali espressamente
prevedono che ai fini della conservazione delle cose pignorate l'ufficiale giudiziario autorizza il
custode a trasportarle altrove; Cass. 28390/2013 riv 256459 secondo la quale "integra gli estremi
del delitto di truffa, e non di estorsione, la condotta di chi, al fine di procurarsi un ingiusto profitto,
rappresenti falsamente alla vittima un pericolo immaginario proveniente da terzi, in sè non ingiusto
ma anzi astrattamente legittimo (nella specie, la possibile revoca della pensione da parte dell'INPS
ed il mancato pagamento degli arretrati), e si offra di adoperarsi per evitargli tale conseguenza in
cambio di denaro".
2.3. Questa Corte ritiene di aderire a quest'ultimo orientamento per le ragioni di seguito indicate.
Il punto di partenza non può che essere l'esegesi della norma.
Ora, in ordine al significato da attribuire al sintagma "pericolo immaginario", si può pienamente
concordare con quanto si è sostenuto nella giurisprudenza di questa Corte e cioè che la nozione di
"pericolo immaginario" corrisponde a quella di "pericolo inesistente" (Cass. 8974/1996 cit.), ovvero
a tutto ciò che è effetto dell'immaginazione, ossia che esiste soltanto nell'immaginazione e non ha
alcun fondamento nella realtà (Cass. 4180/2000 cit.).
49
La norma, però, qui si arresta e non dice - neppure per implicito - quello che le si vuoi far dire e
cioè che la configurabilità del reato dipende dall'atteggiamento psicologico della vittima e che, per
essere la truffa aggravata il danno prospettato non deve mai provenire direttamente o indirettamente
dall'imputato.
In realtà, a ben vedere, questa concezione soggettiva e psicologica, non solo urta contro la lapidaria
ed asettica formulazione della norma, ma anche contro la ratio legis ben evidenziata dal
Guardasigilli che, a fronte delle medesime obiezioni, si limitò a rilevare che la differenza fra il reato
di truffa aggravata e l'estorsione consisteva in un dato puramente oggettivo e cioè "nell'uso di
artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione della volontà ma una induzione
in errore".
In secondo luogo, è proprio sul piano fattuale, che la tesi qui non condivisa, mostra tutti i suoi limiti
rendendo inafferrabile, in concreto, la differenza fra i due reati.
Infatti, se è vero - come pure sostiene la tesi contraria - che il "pericolo immaginario" è sia il
pericolo oggettivamente inesistente sia quello frutto della mera immaginazione, è allora evidente
che tale indagine non può essere effettuata ex ante (ossia dal punto di vista della parte offesa nel
momento in cui resta vittima del reato) per la semplice ed ovvia ragione che, nel momento in cui il
reato si consuma, la vittima in tanto è indotta in errore in quanto, per effetto di quella particolare
forma di raggiro o artifizio prevista dall'art. 640 c.p., comma 2, n. 2, crede effettivamente e
realmente che l'agente (direttamente o indirettamente non importa) sia in grado di realizzare il
pericolo (immaginario) prospettatole perchè, se così non fosse (e cioè se si accorgesse che il
pericolo è, appunto "immaginario" o inesistente in quanto l'agente non è in grado di realizzarlo), è
chiaro che non cadrebbe nella rete truffaldina tesagli dall'agente.
E' evidente, allora, che l'indagine sul "pericolo immaginario" va condotta ex post, sia perchè non vi
è motivo di discostarsi dall'insegnamento tradizionale secondo il quale l'induzione in errore va
giudicata ex post (in terminis Cass. 26107/2003 riv 225872, in motivazione), sia perchè questo è il
solo metodo che consente, in modo oggettivo, di valutare se il fatto addebitato all'imputato sia
sussumibile nell'ambito della truffa aggravata ovvero dell'estorsione secondo il tradizionale criterio
distintivo dei raggiri o artifizi (truffa) o della violenza o minaccia (estorsione).
In altri termini, l'atteggiamento psicologico della vittima a fronte del "pericolo immaginario" (che
può essere indotto anche con minacce) prospettato dall'agente, è identico sia che si tratti di
estorsione che di truffa aggravata proprio perchè, per la vittima, la minaccia prospettatagli
dall'agente è come se fosse reale ed attuabile da parte dello stesso agente direttamente o
indirettamente:
la volontà della vittima, cioè, ove valutata ex ante, risulta sempre, per assioma, coartata perchè si
trova di fronte ad una minaccia che egli crede seria proprio perchè, è perfettamente identica sia che
si tratti di estorsione che di truffa.
La vittima, invero, proprio a causa del raggiro, pensa di trovarsi di fronte ad una richiesta estorsiva
essendole del tutto indifferente che il male minacciato (rectius: il pericolo immaginario) sia
attuabile dall'agente direttamente o indirettamente: la truffa, infatti, consiste proprio nella
simulazione, da parte dell'agente, di un'estorsione.
50
Solo successivamente, con valutazione ex post, invece, si può verificare se la minaccia era
immaginaria (inesistente) in quanto l'agente, nè direttamente nè indirettamente, era in grado di
realizzarla, ovvero, era reale perchè l'agente, ove la vittima non avesse ceduto alla richiesta
minatoria, era in grado - direttamente o indirettamente - di attuarla.
E' chiaro, poi, che seguendo l'avversa tesi, si finirebbe per svuotare, per gran parte, il campo di
applicazione dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 2, che, in pratica, rimarrebbe confinato ai residuali casi
in cui l'agente (mago, fattucchiere e simili) prospetti mali immaginari dipendenti da forze esterne ed
occulte (quindi indipendenti dalla volontà dell'agente) sulle quali egli, dietro compenso, può
intervenire.
Ma la norma non consente una tale soluzione per la semplice ragione che quel tipo particolare di
pericolo immaginario indotto da abili truffatori (maghi, chiromanti et similia) è solo una delle
modalità con le quali può realizzarsi la truffa.
Non senza considerare che il suddetto approdo ermeneutico, non appare coerente con la definizione
che quella stessa giurisprudenza ha dato del sintagma pericolo immaginario ossia pericolo
inesistente ovvero frutto dell'immaginazione, "in genere, ma non necessariamente, correlato a forze
occulte o a credenze superstiziose".
In conclusione, il problema interpretativo che pone la norma in esame, può essere racchiuso nel
seguente quesito: l'agente dev'essere sanzionato per ciò che ha progettato e realizzato (truffa) o per
quello che appare alla vittima (estorsione)? La risposta, ad avviso di questa Corte, non può che
essere nel senso del primo corno del dilemma perchè è l'unica interpretazione che appare conforme
al principio di legalità di cui all'art. 1 cod. pen. a norma del quale l'agente va sanzionato per il reato
che ha commesso (nella specie: la truffa che simula un'estorsione) e non per quello che non ha mai
commesso nè intendeva commettere ma che la parte offesa credeva essere stato perpetrato nei
propri confronti (l'estorsione) e di cui è rimasta vittima.
Pertanto, nel caso di specie, il reato di estorsione va riqualificato come truffa aggravata alla stregua
del seguente principio di diritto:
"il criterio differenziale fra il delitto di truffa aggravato dall'ingenerato timore di un pericolo
immaginario e quello di estorsione, risiede solo ed esclusivamente nell'elemento oggettivo:
si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene indotto nella persona offesa tramite
raggiri o artifizi; si ha estorsione, invece, quando il danno è certo e sicuro ad opera del reo o di altri
ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria.
La vantazione circa la sussistenza del danno immaginario (e, quindi, del reato di truffa aggravata) o
del danno reale (e, quindi, del reato di estorsione) va effettuata ex post e non ex ante essendo
irrilevante ogni valutazione in ordine alla provenienza del danno prospettato ovvero allo stato
soggettivo della persona offesa.
Pertanto, risponde del reato di truffa aggravata e non di estorsione, chi, al fine di procurarsi un
ingiusto profitto, spacciandosi alla parte offesa come un agente di polizia in borghese ed esibendo
un falso distintivo, dopo averla inseguita e fermata con la minaccia di elevare verbale di
contravvenzione per un importo di 1.300,00 Euro, lo induce a consegnargli la minor somma di Euro
500,00".
51
3. violazione dell'art. 61 c.p., n. 5: la censura è fondata in quanto, a fronte di uno specifico motivo
di appello (cfr pag. 10 ss dell'atto di appello) la Corte ha omesso ogni motivazione.
4. violazione dell'art. 62 bis c.p., la censura deve ritenersi assorbita. Infatti, la Corte territoriale, nel
giudizio di rinvio, anche alla stregua della diversa qualificazione giuridica del fatto, rivaluterà la
richiesta di concessione della suddetta attenuante.
5. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla qualificazione giuridica del
fatto e alla sussistenza o meno dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 5: resta ferma, invece, la
penale responsabilità per il reato di cui al capo sub b).
Di conseguenza, in sede di rinvio, la Corte territoriale - valutata nuovamente la richiesta di
applicazione delle attenuanti generiche, e verificata la configurabilità o meno dell'aggravante di cui
all'art. 61 c.p., n. 5, - provvederà alla sola rideterminazione della pena per i reati di cui all'art. 640
c.p., comma 2, n. 2 (capo sub a, così come riqualificato) e art. 347 c.p., art. 61 c.p., n. 2 (capo sub b)
la cui penale responsabilità, in capo al ricorrente, deve ritenersi definitivamente accertata.
P.Q.M.
Qualificato il reato di cui al capo sub a) dell'imputazione come truffa aggravata ex art. 640 c.p.,
comma 2, n. 2, annulla la sentenza impugnata limitatamente all'omessa motivazione sull'aggravante
di cui all'art. 61 c.p., n. 5, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo
giudizio sul predetto punto e per la rideterminazione della pena RIGETTA nel resto.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2014
52
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASUCCI Giuliano - Presidente -
Dott. FIANDANESE Franco - Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
Dott. LOMBARDO Luigi - rel. Consigliere -
Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
L.N. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 6223/2013 CORTE APPELLO di MILANO, del
03/07/2014;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/01/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUIGI GIOVANNI LOMBARDO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Pinelli Mario, che
ha concluso per annullamento senza rinvio per prescrizione
relativamente al capo 7); rigetto nel resto e rideterminazione della
pena;
udito il difensore avv. Angeletti R., che chiede l'accoglimento del
ricorso.
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
1. L.N. ricorre per cassazione - a mezzo del suo difensore - avverso la sentenza della Corte di
Appello di Milano del 3.7.2014, che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Monza, ha
riqualificato come truffe le estorsioni contestatele ai capi 1), 2) e 5) della rubrica; l'ha prosciolta dal
reato di cui al capo 5) perchè estinto per prescrizione; ha confermato il giudizio di responsabilità
della stessa per l'estorsione di cui al capo 6) e per la truffa di cui al capo 7), rideterminando la pena.
2. Propone diversi motivi di ricorso.
2.1. Col primo motivo di ricorso, deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge, nonchè
il vizio della motivazione della sentenza impugnata con riferimento al decreto col quale il G.I.P. ha
dichiarato l'irreperibilità dell'imputata in funzione del giudizio dinanzi al Tribunale. Secondo la
ricorrente, il G.I.P. non avrebbe potuto dichiarare l'irreperibilità dell'imputata senza disporre nuove
ricerche in (OMISSIS), luogo indicato dalla sorella della stessa come quello in cui essa dimorava;
ne sarebbe derivata la nullità del decreto di irreperibilità, con la conseguente nullità della sentenza.
La censura è manifestamente infondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte suprema, ai fini dell'emissione del decreto di
irreperibilità, le ricerche vanno eseguite cumulativamente, e non alternativamente, in tutti i luoghi
indicati dall'art. 159 c.p.p., diversamente derivandone la nullità assoluta del decreto di irreperibilità
medesimo e delle conseguenti notificazioni, ove attinenti alla citazione dell'imputato (in tal senso,
ex plurimis, Sez. 3, n. 9244 del 21/01/2010 Rv. 246234; Sez. 1, n. 5479 del 10/01/2006 Rv.
53
235098). Tuttavia, l'obbligo di effettuare nuove ricerche nei luoghi indicati dall'art. 159 c.p.p.,
comma 1 è condizionato all'oggettiva praticabilità degli accertamenti (ossia alla conoscenza del
luogo di nascita, di ultima residenza e di abituale esercizio dell'attività lavorativa dell'imputato), che
rappresenta il limite logico di ogni garanzia processuale (Sez. 3, n. 17458 del 19/04/2012 Rv.
252626; Sez. 2, n. 45896 del 17/11/2011 Rv. 251359; Sez. 1, n. 4742 del 12/12/2013 Rv.
258142).
Nel caso di specie, i giudici di merito si sono attenuti a tali principi. Infatti, come spiegato dalla
Corte territoriale, il G.I.P. ha disposto ricerche in tutti i luoghi di cui all'art. 159 c.p.p. e,
specificamente, a (OMISSIS), senza che i militari delegati siano riusciti a rintracciare la L..
Il fatto che la sorella abbia affermato che l'imputata si sarebbe trovata in (OMISSIS), senza tuttavia
fornire alcun dato utile a rintracciarla, non comportava l'obbligo di ulteriori ricerche in Milano,
giacchè l'indicazione in questione era assolutamente generica, non essendo stati indicati - come si
specifica nella nota della Stazione Carabinieri di Colonna del 10.12.2009 - nè un indirizzo nè un
numero telefonico.
In questo senso, esattamente i giudici di merito hanno ritenuto che ulteriori accertamenti non
fossero oggettivamente praticabili.
D'altra parte, l'imputata, dopo il giudizio di primo grado, ha avuto la possibilità di proporre - come
ha proposto - appello avverso la sentenza del Tribunale e di partecipare al giudizio di secondo
grado;
giudizio di merito, quest'ultimo, a cognizione piena, nel quale ha avuto ampiamente la possibilità di
difendersi a mezzo del proprio difensore di fiducia.
2.2. Col secondo motivo di ricorso, deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge,
nonchè il vizio della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta sussistenza
della estorsione in danno di V.M. di cui al capo 6) della rubrica. Deduce, in particolare, che il fatto
contestato andrebbe qualificato come truffa, e non come estorsione, in quanto l'imputata avrebbe
prospettato alla V. solo un male possibile e non proveniente da essa (le malattie dei familiari), ciò
che escluderebbe la sussistenza di condotta estorsiva; peraltro, la V. non ebbe a consegnare
all'imputata la somma di 7000 Euro richiesta, ma si limitò a prometterne la consegna solo dopo che
la figlia fosse guarita.
Anche questa doglianza è manifestamente infondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di
estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel
diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della
vittima: ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e
comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la
persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto
dell'agente, perchè tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura
l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, essendo in
tal caso la persona offesa posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso
profitto o di subire il male minacciato. (Sez. 2, n. 21537 del 06/05/2008 Rv.
54
240108; Sez. 2, n. 35346 del 30/06/2010 Rv. 248402; Sez. 6, n. 29704 del 10/04/2003 Rv. 226057).
I giudici di merito hanno fatto corretta applicazione di tale principio.
La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto che la minaccia posta in essere dalla L. è consistita non nel
fatto di prospettare alla p.o. - come pretende la ricorrente - l'insorgere o il permanere di malattie, ma
nel fatto di prospettare alla V. che avrebbe potuto segnalare telefonicamente al marito della stessa
V. che quest'ultima aveva un amante. Il male ingiusto prospettato alla vittima era dunque
dipendente dall'azione del soggetto agente, ciò che esclude la sussistenza della truffa. Quanto alla
consumazione del delitto, esente da vizi logici e giuridici è il ragionamento della Corte territoriale,
secondo cui - in correlazione con la minaccia dell'imputata di segnalare al marito della V. che
quest'ultima aveva un amante - vi fu la consegna degli orecchini dalla p.o. alla imputata, con
conseguente consumazione del reato.
2.3. Col terzo motivo di ricorso, deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge, nonchè
il vizio della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla valutazione delle
dichiarazioni rese dalla teste S. relativamente al capo 7) di imputazione. Deduce, in particolare, che
la Corte territoriale avrebbe errato nel dare credito alla individuazione fotografica effettuata dalla S.
nel corso delle indagini piuttosto che prendere atto del fatto che la stessa non aveva riconosciuto
l'imputata nel corso del dibattimento; in tal guisa, i giudici avrebbero violato il disposto dell'art. 500
c.p.p., comma 4 privilegiando la dichiarazione resa nel corso delle indagini, piuttosto che quella
resa in dibattimento, senza che ricorressero le condizioni (violenza, minaccia offerta o promessa di
denaro o di altra utilità rivolte al teste) cui la citata disposizione subordina la prevalenza della
dichiarazione resa nel corso delle indagini.
Anche questa censura è manifestamente infondata.
Non ricorrono le condizioni per l'applicazione dell'art. 500 c.p.p., comma 4, invocata dal ricorrente,
trattandosi di norma che presuppone il contrasto tra le dichiarazioni rese nel corso delle indagini
preliminari e quelle rese in dibattimento, contrasto che - nella specie - non ricorre.
E invero, nel caso di specie, come sottolineato dalla Corte territoriale, la teste S., nel corso delle
dichiarazioni rese in dibattimento, ha confermato di avere riconosciuto nella foto sottopostagli dalla
polizia giudiziaria la persona dell'imputata; e ha confermato il verbale di individuazione fotografica
allora sottoscritto, dal quale risultava il riconoscimento della L. avvenne con assoluta certezza.
Vi è pertanto conformità tra le dichiarazioni rese dalla teste nel corso delle indagini preliminari e
quelle rese in dibattimento.
Il fatto che poi in dibattimento la S. non abbia rinnovato il riconoscimento non priva di valore
probatorio la conferma dell'iniziale individuazione fotografica.
Sul punto, va richiamata il principio dettato da questa Corte, secondo cui, in tema di ricognizione
personale, il giudice può ritenere maggiormente attendibile l'esito positivo dell'individuazione
effettuata dalla persona offesa nel corso delle indagini preliminari, in prossimità temporale rispetto
al fatto, rispetto a quello incerto della ricognizione effettuata in dibattimento, valorizzando, a
fondamento del proprio convincimento, il decorso del tempo (Sez. 4, n. 15215 del 22/01/2008 Rv.
240054;
55
Sez. 2, n. 50954 del 03/12/2013 Rv. 257985).
Va ricordato, peraltro, che il riconoscimento fotografico operato in sede di indagini di polizia
giudiziaria, pur non essendo regolato dal codice di rito, costituisce un accertamento di fatto
utilizzabile in giudizio in base ai principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero
convincimento del giudice; la certezza della prova non discende dal riconoscimento come strumento
probatorio, ma dall'attendibilità accordata alla deposizione di chi si dica certo dell'individuazione
(Cass., Sez. 2, n. 17336 del 29/03/2011 Rv.
250081; Sez. 6, n. 25721 del 18/04/2003 Rv. 225574; Sez. 5, n. 22612 del 10/02/2009 Rv. 244197).
2.4. Col quarto motivo di ricorso, deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge, nonchè
il vizio della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla entità della pena irrogata e
al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La censura è inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la graduazione della pena rientra nella discrezionalità
del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne
discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova
valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di
ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 Rv.
259142). Avendo la Corte territoriale motivato in modo non illogico, richiamando i precedenti
penali, la pervicacia dell'imputata nel commettere plurime condotte truffaldine e la gravità dei fatti
commessi, la graduazione delle pena è incensurabile in sede di legittimità.
Quanto poi al diniego delle circostanze attenuanti generiche, va ricordato che esso è oggetto di un
giudizio di fatto, insindacabile in cassazione, ove motivato in modo congruo e non contraddittorio
(Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008 Rv. 242419; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011 Rv. 249163); questa
stessa Corte ha peraltro statuito che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti
generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o
sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a
quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale
valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244).
Alla stregua dei dati sopra richiamati e considerati dalla Corte di merito ai fini del diniego delle
attenuanti generiche, la motivazione sul punto risulta esente da errori logici e giuridici e, perciò,
incensurabile in sede di legittimità.
3. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali e - considerati i profili di colpa - della sanzione pecuniaria
determinata equitativamente come in dispositivo.
L'inammissibilità del ricorso preclude il rilievo della eventuale prescrizione maturata
successivamente alla sentenza impugnata (cfr.
Cass., Sez. Un., n. 23428 del 22/03/2005 Rv. 231164; Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000 Rv. 217266).
56
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Penale, il 27 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2015
57
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Antonio - Presidente -
Dott. IANNELLI Enzo - Consigliere -
Dott. IASILLO Adriano - Consigliere -
Dott. RAGO Geppino - Consigliere -
Dott. BELTRANI Sergio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siena nei
confronti di:
M.G., nato a (OMISSIS);
V.A., nato a
(OMISSIS);
B.G.L., nato a (OMISSIS);
S.S., nato in (OMISSIS);
R.R., nato a (OMISSIS);
indagati;
nonchè di:
NOMURA INTERNATIONAL PLC;
soggetto civilmente obbligato al pagamento della pena pecuniaria
avverso l'ordinanza emessa in data 26 aprile 2013 dal Tribunale di
Siena quale giudice del riesame;
Letti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Sergio Beltrani;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale PRATOLA Gianluigi, che ha concluso chiedendo dichiararsi
l'inammissibilità del ricorso;
udito per R.R. l'avv. MARKUS WERNER WIGET, che ha
concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso;
udito per S.S. l'avv. GUGLIELMO GIORDANENGO, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per NOMURA INTERNATIONAL PLC l'avv. GUIDO CARLO ALLEVA, che ha
concluso riportandosi alla memoria depositata e chiedendo dichiararsi
l'inammissibilità del ricorso;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale del riesame di Siena ha rigettato l'appello
proposto dal P.M. c/o Tribunale di Siena contro il provvedimento con il quale in data 26 aprile 2013
il GIP dello stesso Tribunale non aveva convalidato il decreto di sequestro preventivo d'urgenza
emesso dal P.M. procedente in data 15 aprile 2013, ed aveva rigettato la richiesta di emissione del
decreto di sequestro preventivo depositata in data 17 aprile 2013.
58
1.1. Nell'atto di appello proposto ex art. 322 bis c.p.p., il P.M. territoriale aveva espressamente
escluso dal devolutum i cespiti immobiliari e le liquidità degli indagati B., M. e V. (cfr. f. 12
dell'ordinanza impugnata).
L'appello cautelare del P.M. riguardava, pertanto, unicamente:
- le imputazioni di usura e truffa, che il P.M. aveva contestato agli indagati alternativamente;
- le sole utilità che NOMURA INTERNATIONAL PLC "illegittimamente avrebbe ricavato (e
continuerebbe a ricavare) dalla contrattazione, oltre che le fonti di produzione di tali sproporzionati
vantaggi".
2. Contro tale provvedimento, il P.M. presso il Tribunale di Siena ha proposto ricorso per
cassazione.
2.1. Premesso di voler richiamare integralmente il decreto di sequestro preventivo di urgenza
emesso dal proprio ufficio in data 15 marzo 2013 e l'atto di appello cautelare reale, "alle cui
argomentazioni in fatto ed in diritto si fa integrale rinvio", nonchè un riepilogo di decisioni
giurisprudenziali inerenti al problema dei limiti del sindacato di legittimità in materia di misure
cautelari reali, il P.M. ricorrente ha dedotto i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente
necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
I - (in ordine all'imputazione di truffa pluriaggravata in concorso, mediante induzione in errore)
violazione di legge;
II/III/IV - (in ordine all'imputazione di usura ex art. 644 c.p., comma 3, ultima parte) violazione e
falsa applicazione degli artt. 321 e 322 bis c.p.p. e art. 125 c.p.p., comma 3; nullità ex art. 606
c.p.p., comma 1; violazione e falsa applicazione dell'art. 644 c.p., comma 3, e L. n. 108 del 1996,
art. 2.
Ha concluso chiedendo l'annullamento dell'ordinanza impugnata con ogni conseguente statuizione.
3. Sono state depositate memorie:
- in data 18 marzo 2014 per conto di NOMURA INTERNATIONAL PLC (premesso un riepilogo
delle complesse vicende de quibus, è stata formulata richiesta di declaratoria di inammissibilità del
ricorso del P.M., in primis evocando il limite del sindacato di legittimità in materia di cautele reali,
ex art. 325 c.p.p., consentito unicamente per violazione di legge, non essendo sindacabile la
motivazione del provvedimento impugnato, poichè essa non risulta nè carente, nè meramente
apparente; è stata comunque dedotta la manifesta infondatezza di tutti i motivi del ricorso del P.M.,
sia inerenti alla truffa che all'usura; a fondamento di entrambe le prospettazioni sono state poste
copiose argomentazioni, elaborate in 53 pagine);
- in data 19 marzo 2014 per conto di R.R. (anche questa memoria contiene una dettagliata
esposizione di copiose argomentazioni, elaborate in 46 pagine, a sostegno della tesi della integrale
inammissibilità del ricorso, per le plurime cause dettagliatamente indicate).
59
4. All'odierna udienza camerale, dopo il controllo della regolarità degli avvisi di rito, le parti
presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio,
ha deciso come da dispositivo in atti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato limitatamente all'imputazione di truffa, ed infondato quanto a quella di usura.
1. Deve premettersi che il ricorso per cassazione redatto interamente con la tecnica del rinvio per
relationem ad uno o più atti distinti sarebbe inammissibile, in quanto privo del requisito della
specificità.
L'atto di ricorso deve, infatti, essere autosufficiente, e cioè contenere la precisa indicazione dei
punti del provvedimento impugnato censurati, e delle questioni di fatto e di diritto da sottoporre al
giudice del gravame, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si
assumono irrisolte o mal risolte, e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità (Sez. 5^, sentenza
n. 116 del 19 gennaio 1995, CED Cass. n. 200661;
Sez. 6^, sentenza n. 21858 del 19 dicembre 2006, dep. 5 giugno 2007, CED Cass. n. 236689; Sez.
6^, sentenza n. 43207 del 12 novembre 2010, CED Cass. n. 248823; Sez. 1^, sentenza n. 32993 del
22 marzo 2013, CED Cass. n. 256996).
1.1. Deve, peraltro, rilevarsi che, nel caso di specie, il P.M. ricorrente, pur avendo
inammissibilmente premesso di voler richiamare integralmente il decreto di sequestro preventivo di
urgenza emesso dal proprio ufficio in data 15 marzo 2013 e l'atto di appello cautelare reale, "alle cui
argomentazioni in fatto ed in diritto si fa integrale rinvio", ha poi dettagliatamente indicato in
ricorso i punti del provvedimento impugnato censurati, e le questioni di fatto e di diritto che
intendeva sottoporre a questa Corte Suprema, in tal modo consentendo l'autonoma individuazione
delle questioni che si assumevano irrisolte o mal risolte, e sulle quali si sollecitava il sindacato di
legittimità.
2. Questa Corte Suprema ha, inoltre, già chiarito che, in tema di riesame delle misure cautelari reali,
nella nozione di "violazione di legge" (per la quale soltanto può essere proposto ricorso per
cassazione a norma dell'art. 325 c.p.p., comma 1) rientrano la mancanza assoluta di motivazione o
la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise
norme processuali, non anche l'illogicità manifesta e la contraddittorietà, le quali possono
denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso di
cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), (così Sez. un., sentenza n. 5876 del 28 gennaio 2004, P.c.
Ferazzi in proc. Bevilacqua, CED Cass. n. 226710 ss.; conforme, da ultimo, Sez. 5^, sentenza n.
35532 del 25 giugno 2010, CED Cass. n. 248129, per la quale, in tema di riesame delle misure
cautelari, il ricorso per cassazione per violazione di legge, a norma dell'art. 325 c.p.p., comma 1,
può essere proposto solo per mancanza fisica della motivazione o per la presenza di motivazione
apparente, ma non per mero vizio logico della stessa).
I FATTI OGGETTO DI INDAGINE. 3. Per un completo riepilogo delle vicende, estremamente
complesse ed articolare, oggetto di indagine non può che farsi rinvio ai diffusi capi di imputazione
provvisori (ff. 2-9 del ricorso), che si dilungano in ben otto fitte pagine per descriverle.
60
In questa sede appare sufficiente, in estrema sintesi, ricordare, ripercorrendo i tratti salienti della
ricostruzione "storica" operata dal Tribunale nel provvedimento impugnato (cui è legittimo fare
riferimento, in difetto - in parte qua - di apprezzabili contestazioni e/o documentati travisamenti),
che:
A) - nel 2005 il MONTE DEI PASCHI DI SIENA aveva acquistato da NOMURA
INTERNATIONAL PLC le cc.dd. notes ALEXANDRIA, strumento finanziario derivato,
complesso, altamente aleatorio e speculativo, che nel corso del tempo si era drasticamente
deprezzato, producendo perdite approssimativamente stimabili in circa 220 milioni di Euro;
B) - nel 2009, i due istituti avevano portato a compimento una ancor più complessa negoziazione,
avente ad oggetto BTP in scadenza nel 2034, realizzata "mediante un groviglio di operazioni e
strumenti derivati, tra loro collegati" (f. 2), ricostruita in dettaglio a f. 3 ss., e considerata dal
Tribunale "talmente complicata e di estesa esecuzione, da richiedere una serie di garanzie e
controgaranzie" (f.
6), anche questa volta altamente aleatoria e speculativa, ed anche questa volta rivelatasi - come si
vedrà, quantomeno allo stato - particolarmente onerosa (immotivatamente e rovinosamente
svantaggiosa, a parere del pubblico ministero) per il MONTE DEI PASCHI DI SIENA;
C) - il rinvenimento, in data 10 ottobre 2012, nei locali del MONTE DEI PASCHI DI SIENA di un
mandate agreement datato 31 luglio 2009 (non esibito agli ispettori della BANCA D'ITALIA
responsabili degli accertamenti condotti sul comparto finanza di MPS nel 2010 e nel 2011: cfr.
comunicazione n. 0059210/13 del 18 gennaio 2013), intercorso tra i vertici dei due istituti, rivelava
il collegamento tra la complessiva costruzione negoziale avviata nello stesso anno con oggetto BTP
a scadenza 2034 e la ristrutturazione delle notes emesse attraverso il veicolo ALEXANDRIA,
legittimando l'ipotesi che l'operazione avente ad oggetto i BTP 2034 fosse finalizzata "a spalmare
nel tempo le passività di ALEXANDRIA, e a camuffare tali perdite nelle pieghe di bilancio" del
MONTE DEI PASCHI DI SIENA (f.
1).
3.1. Secondo l'ipotesi accusatoria, lo scopo perseguito dagli odierni indagati attraverso l'operazione
posta in essere nel 2009 sarebbe stato, quindi, quello di "nascondere" le perdite riportate per effetto
del negativo andamento delle notes ALEXANDRIA, compensando NOMURA INTERNATIONAL
PLC (che accettava di farsi carico della resa negativa delle predette notes, pari, come anticipato, a
circa 220 milioni di Euro) attraverso la stipula - nell'ambito del nuovo strumento derivato - di
clausole aleatorie nettamente ed ingiustificatamente sbilanciate in suo favore.
La stipula del complesso strumento derivato avente ad oggetto i BTP 2034, collegata all'esigenza di
ristrutturazione delle notes ALEXANDRIA, sarebbe stata quindi ispirata "dall'intento di operare
una cosmesi bilancistica, che eviti l'evidenza di una grave perdita gestionale, comunque dilazionata
nel tempo, assicurando ai vertici MPS il mantenimento dei vantaggi e delle posizioni di privilegio
fino ad allora godute".
Il Tribunale ricorda, in proposito, che (f. 10 s.) "nell'aprile 2009 M. fu rieletto Presidente per un
ulteriore triennio", ed inoltre, che occorreva "rappresentare bilanci in salute per distribuire dividendi
agli azionisti, pagare cedole agli obbligazionisti, in particolare quelli del fresh (emessi ai fini
dell'aumento di capitale nel quadro dell'acquisto di ANTONVENETA), fra i quali figurava la
61
FONDAZIONE MPS, azionista storico di controllo, per garantirsi bonus e preservare la posizione
di potere e prestigio in seno a MPS", concludendo che "evidentemente l'emersione di perdite sulle
notes ALEXANDRIA avrebbe posto M. e V. in posizione problematica", e che (f. 11) si sarebbe
dovuto "rilevare a bilancio una perdita netta di 220 milioni correlata alla svalutazione di
ALEXANDRIA, che avrebbe portato a modificare in modo radicale il risultato di esercizio, il quale,
al lordo degli effetti economici prodotti dall'operazione, sarebbe stato negativo di 103 milioni
sull'individuale e di 48 milioni sul consolidato".
3.2. Il P.M. risulta, invero, procedere (cfr. provvedimento di non convalida e di rigetto della
richiesta di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. del Tribunale di Siena in data 26 aprile 2013)
anche nei confronti dei soli B., M. e V.:
- per il reato di concorso in ostacolo aggravato all'esercizio delle funzioni delle pubbliche autorità di
vigilanza (capo B - art. 110 c.p. - art. 61 c.p., n. 2 - art. 2638 c.c., commi 1 e 3);
- per il reato di concorso in infedeltà patrimoniale aggravata (capo C - art. 110 c.p. - art. 81 c.p.,
comma 2, - art. 61 c.p., n. 2 - art. 2634 c.c., comma 1);
- per il reato di concorso in false comunicazioni sociali aggravate (capo D - art. 110 c.p. - art. 81
c.p., comma 2, - art. 61 c.p., n. 2 - art. 2622 c.c., commi 1 e 3).
Ed è appena il caso di ricordare che integra il reato di false comunicazioni sociali ex art. 2622 c.c.
l'omessa registrazione contabile di operazioni finanziarie ad oggetto la stipulazione di contratti
derivati ad alto rischio che si rifletta sulla veridicità del bilancio di una società quotata,
determinando un deprezzamento delle azioni dei soci al momento in cui la relativa notizia venga
divulgata a seguito degli accertamenti compiuti in proposito dalle autorità di controllo (Sez. 5^,
sentenza n. 14759 del 2 dicembre 2011, dep. 17 aprile 2012, CED Cass. n. 252301).
La richiesta cautelare reale in esame non riguarda, peraltro, tali fattispecie, nè coinvolge attualmente
il patrimonio personale dei tre indagati intranei ad MPS, avendo il P.M., nell'atto di appello
proposto ex art. 322 bis c.p.p., espressamente escluso dal devolutum i cespiti immobiliari e le
liquidità degli indagati B., M. e V. (cfr. f. 12 dell'ordinanza impugnata), con opzione naturalmente
in questa sede insindacabile.
L'USURA. 4. Ciò premesso, osserva il collegio che il ricorso, per quanto riguarda l'imputazione
alternativa di usura ex art. 644 c.p., commi 1 e 3, secondo periodo - art. 5 c.p., n. 1, è infondato.
5. Con riguardo a detta imputazione, il P.M. ricorrente lamenta in primo luogo che il Tribunale del
riesame non si sarebbe limitato ad una mera valutazione del fumus commissi delicti, avendo operato
un sindacato valutativo ben più approfondito, sulla base di parametri propri del giudizio
dibattimentale più che del subprocedimento cautelare, pervenendo ad un conclusivo giudizio sulla
infondatezza dell'addebito di usura senz'altro esorbitante rispetto alla più ristretta valutazione che si
imponeva ad cautelam.
5.1. La doglianza è manifestamente infondata.
5.2. La dedotta violazione di legge evoca una sorta di "eccesso di potere" in cui i giudici del riesame
sarebbero incorsi nel determinare i confini del loro sindacato sul decreto di sequestro preventivo,
62
fuoriuscendo dall'alveo di un mero riscontro circa la sussistenza del fumus, per giungere, invece, ad
un giudizio "di merito" che avrebbe finito per snaturare il controllo del riesame.
L'assunto, fondato su una serie di massime giurisprudenziali tralatiziamente riportate, non appare
pertinente al caso di specie - nel quale, come si vedrà, i giudici a quibus hanno fatto buon governo
dei poteri di sindacato loro devoluti -, e risulta inoltre palesemente incongruo, giacchè confonde il
presupposto "minimo", che deve integrare la base fattuale necessaria e sufficiente per poter disporre
la misura cautelare reale, rispetto al reale ambito del controllo giurisdizionale devoluto in sede di
gravame all'organo giurisdizionale.
La "sufficienza" del requisito del mero fumus commissi delicti "si raccorda, concettualmente, al
fatto che l'adozione della misura può presentarsi - e di regola, anzi, si presenta - allo stesso esordio
della indagine, allorchè tutti gli accertamenti ancora devono essere compiuti: e quindi, la base
fattuale su cui la misura stessa deve sostenersi, ben può essere rappresentata dalla configurabilità di
un reato di cui ancora possono risultare nebulose tutte le interferenze in ordine alle varie
responsabilità soggettive. Da qui, dunque, la certa non riferibilita al tema delle cautele reali del
presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, che, invece, caratterizza (per evidenti esigenze di
garanzia, postulate come indispensabili dal nuovo codice, a differenza di quanto prevedeva il codice
Rocco) le misure cautelari personale".
Peraltro, "la "base" probatoria su cui si sostanzia il provvedimento di sequestro è "flessibile" in
ragione dei diversi stadi di accertamento dei fatti: se a legittimare la misura è "sufficiente" il fumus,
ciò non toglie che la relativa sussistenza può formare oggetto di scrutini "contenutisticamente"
differenziati a seconda del materiale che il pubblico ministero ritiene di devolvere al giudice
chiamato ad adottare la misura e, poi, a scrutinare la legittimità del provvedimento in sede di
impugnazione" (Sez. 2^, sentenza n. 47421 del 16 dicembre 2011).
Nel caso in cui gli elementi prodotti dal pubblico ministero documentino la "sussistenza" del reato
in termini congrui, potrà dirsi raggiunto il (necessario e sufficiente) fumus e, quindi, integrato il
presupposto "minimo" per l'adozione della misura cautelare reale; tuttavia, nei casi in cui - come
accaduto nel caso di specie - il materiale di indagine permetta al giudice di rilevare l'insussistenza di
uno o più degli elementi essenziali per configurare la fattispecie di reato configurata ad cautelam,
non può certo pretendersi che il giudice, cui il tema sia stato devoluto, sia obbligato a "degradare" il
proprio potere di sindacato, limitandosi ad un accertamento "più superficiale", sul rilievo che,
altrimenti, il controllo proprio del subprocedimento cautelare risulterebbe snaturato.
In presenza di compiute indagini che abbiano consentito - come nella specie - l'acquisizione di
articolate risultanze, dalle quali possa prima facie emergere il fumus di un determinato reato, ma
anche, all'esito di una più penetrante disamina, la sua non configurabilità, sarebbe abnorme il
comportamento del giudice che limiti la propria disamina all'apparente configurabilità del fumus,
rinunciando ad operare il più penetrante sindacato che pure gli elementi acquisiti gli
consentirebbero, poichè l'esercizio della giurisdizione cautelare è sempre finalizzato
all'anticipazione degli effetti del futuro giudizio di merito, che in questo caso risulterebbero in
contrasto rispetto agli effetti della misura cautelare in ipotesi disposta.
Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto: "Ai fini dell'adozione di un
provvedimento di sequestro preventivo è sufficiente il mero "fumus commissi delicti", perchè
l'adozione della misura può intervenire nella fase iniziale dell'indagine preliminare, allorchè tutti gli
accertamenti ancora devono essere compiuti. Tuttavia, in ragione della flessibilità della base
63
probatoria su cui si sostanzia il provvedimento di sequestro in relazione ai diversi stadi di
accertamento dei fatti, la sussistenza del "fumus" può formare oggetto di scrutini
contenutisticamente differenziati, a seconda del materiale posto dal P.M. a sostegno della richiesta
di emissione della misura, non potendo pretendersi che - in siffatta evenienza - il giudice sia
obbligato a degradare il proprio potere di sindacato, limitandosi ad un accertamento più
superficiale, sul rilievo che, altrimenti, il controllo proprio del subprocedimento cautelare
risulterebbe snaturato".
5.3. Nulla di tutto ciò è avvenuto con riguardo alla vicenda in esame, posto che il provvedimento
impugnato, in termini assolutamente immuni da censure, ha evidenziato le ragioni per le quali, in
relazione alla stipula dei contratti su derivati oggetto di contestazione, non è configurabile - come si
vedrà - l'ipotizzata fattispecie di usura, limitandosi a valorizzare, per intero, il cospicuo materiale
istruttorio prodotto dal P.M., puntualmente (come inevitabile) analizzato.
6. Con riguardo alla medesima imputazione, il P.M. ricorrente lamenta, inoltre, quanto segue:
- il Tribunale del riesame avrebbe ammesso (f. 22) che la fattispecie di cui all'art. 644 c.p., comma
3, ultima parte, potrebbe astrattamente attagliarsi ad ipotesi di esecuzione di complessi meccanismi
finanziari anche tra banche, ma ciononostante non avrebbe poi indicato compiutamente le ragioni
per le quali ha conclusivamente ritenuto mancante il fumus della predetta fattispecie di reato;
- l'ipotizzata fattispecie di usura sarebbe configurabile anche in presenza di un contratto
civilisticamente lecito, e non potrebbe, pertanto, assumere alcun rilievo il fatto che le pattuizioni
intercorse tra il MONTE DEI PASCHI DI SIENA e NOMURA INTERNATIONAL PLC
consistessero in meccanismi finanziari di per sè legittimi e diffusi nella prassi bancaria: la verifica
della legittimità civilistica del sinallagma e degli strumenti negoziali accessori impiegati sarebbe,
pertanto, penalmente irrilevante;
- non sarebbe condivisibile la ritenuta non configurabilità del reato in difetto di un valido tertium
comparationis (f. 33 del ricorso), che ha, al contrario, decisivamente condizionato il conclusivo
giudizio espresso dal Tribunale quanto alla non configurabilità dell'ipotizzata usura in concreto;
- analoghe censure andrebbero mosse alla valutazione inerente al requisito della "sproporzione" tra
le reciproche obbligazioni.
In conclusione, a parere del P.M., potrebbe "tranquillamente affermarsi che l'impugnata ordinanza
merita di essere cassata per violazione dell'art. 644 c.p., comma 3 nella parte in cui non valuta, al
fine di verificare la sproporzione tra le prestazioni corrispettive, tutte le componenti negoziali della
complessa operazione economica posta in essere tra BMPS e NOMURA. Il dettato normativo,
indipendentemente dalla complessità degli schemi negoziali adottati dai contraenti, invero esige che
il giudice prima di emettere un giudizio di usurarietà (e in sede di procedimento cautelare reale una
prognosi sul fumus commissi delicti debba considerare tutte le prestazioni e le controprestazioni in
giuoco, compresi gli altri vantaggi o compensi, e solo successivamente, dopo averne analizzate le
ricadute economico-patrimoniali, potrà valutare se sia stato consumato il delitto, ovvero nell'ipotesi
in discorso se ve ne sia il fumus").
6.1. Tali doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente, attenendo tutte alla
configurabilità della materialità del reato di cui all'art. 644 c.p., commi 1 e 3, secondo periodo - art.
5 c.p., n. 1 - (usura in concreto), risultano, nel complesso, infondate.
64
6.2. L'art. 644 c.p. (usura) costituisce norma a più fattispecie, incriminando le seguenti distinte
condotte:
- "farsi dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sè o per altri, in corrispettivo di denaro c.d.
usura pecuniaria o di altra utilità c.d. usura reale, interessi o altri vantaggi usurari" (art. 644, comma
1: c.d. prestazione usuraria);
- "procurare a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sè o ad altri,
per la mediazione, un compenso usurario" (art. 644, comma 2: c.d. mediazione usuraria).
Il delitto di usura inteso in senso lato (ovvero comprensivo di entrambe le predette fattispecie), si
configura come reato a schema duplice, poichè integrato da distinte condotte (destinate
strutturalmente l'una - dazione - ad assorbire l'altra - promessa -, con l'esecuzione della pattuizione
usuraria), aventi in comune l'induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi od altri
vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali l'una
è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l'altra dalla sola accettazione del sinallagma
ad esso preordinato.
Con riguardo alla cd. prestazione usuraria (art. 644 c.p., comma 1), il limite oltre il quale gli
interessi sono sempre considerati usurari è stabilito dalla legge (art. 644 c.p., comma 3, prima
parte), ed è pari al tasso medio relativo alla categoria di operazioni in cui il credito di volta in volta
accordato è ricompreso, aumentato della metà (c.d. tasso-soglia: la L. n. 108 del 1996, all'art. 2
indica analiticamente il procedimento per la determinazione dei tassi-soglia, affidando al Ministro
del Tesoro solo il limitato ruolo di "fotografare", secondo rigorosi criteri tecnici, l'andamento dei
tassi finanziari).
Il legislatore ha precisato che, per la determinazione del tasso di interesse usurario, "si tiene conto
delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse,
collegate alla erogazione del credito" (art. 644 c.p., comma 4).
6.3. La fattispecie di usura sin qui descritta è la c.d. usura presunta: per la sua integrazione è
sufficiente la pattuizione di un tasso di interessi che ecceda il limite consentito, ovvero il tasso-
soglia, anche in difetto della prova che il soggetto attivo abbia approfittato di uno stato di difficoltà
della vittima (la dottrina ha bene osservato, in relazione a tale fattispecie, che "si può anche ritenere
che il legislatore presuma in maniera assoluta che il soggetto attivo profitti della condizione di
bisogno e di difficoltà della vittima").
6.4. Tuttavia sono espressamente considerati usurari anche "gli interessi, anche se inferiori a tale
limite ovvero al c.d. tasso- soglia, e gli altri vantaggi o compensi che avuto riguardo alle concrete
modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari risultano comunque
sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di mediazione,
quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria" (art.
644 c.p., comma 3, secondo periodo).
Mosso dalla evidente finalità di "colmare possibili vuoti di tutela" (in relazione a casi nei quali la
vittima, in stato di difficoltà, sia stata costretta ad accettare prestiti a tasso di interesse di poco
inferiore a quello che per legge è usurario) il legislatore ha, pertanto, previsto, accanto alla usura
presunta, una (distinta ed autonoma) fattispecie di cd. usura in concreto, collegata a quella presunta
da un implicito nesso di sussidiarietà (essendo la cd.
65
usura in concreto configurarle solo ove non sia configurabile quella presunta).
6.5. Perchè sia integrata la c.d. usura in concreto (ipotizzata dal P.M. territoriale ricorrente,
alternativamente alla truffa, nell'ambito del presente procedimento, e relativamente alla quale non
risultano decisioni edite di questa Corte Suprema, che, pertanto, sembrerebbe chiamata ad
occuparsene per la prima volta), occorre che:
- il soggetto passivo versi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria;
- gli interessi pattuiti (pur se inferiori al tasso-soglia usurario ex lege) ed i vantaggi e i compensi
risultino, avuto riguardo alle "concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni
similari", comunque "sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero
all'opera di mediazione".
Trattasi di elementi il cui accertamento in concreto (diversamente dai casi di usura cd. presunta) è
rimesso alla discrezionalità del giudice.
6.5.1. La condizione di "difficoltà economica" si distingue da quella di "difficoltà finanziaria" in
quanto:
- la prima consiste in una carenza, anche solo momentanea, di liquidità, a fronte di una condizione
patrimoniale di base nel complesso sana;
- la seconda investe, più in generale, l'insieme delle attività patrimoniali del soggetto passivo, ed è
caratterizzata da una complessiva carenza di risorse e di beni.
6.5.2. Pur essendo innegabile che le "difficoltà economiche o finanziarie" costituiscano concetto
affine allo "stato di bisogno" (art. 644 c.p., comma 5, n. 3), nondimeno è evidente l'intenzione del
legislatore di attribuire ad essi significati differenti: a ciò induce già il dato letterale, ovvero la
diversa terminologia adoperata nel medesimo contesto (le distinte nozioni sono, infatti, evocate
dalla stessa norma, l'art. 644 c.p.), che rivela, a parere del collegio, la trasparente intenzione del
Legislatore di fare riferimento a situazioni diverse, poichè, in caso contrario, sarebbe davvero
incomprensibile l'impiego, in una stessa norma, di distinti termini per indicare il medesimo
concetto.
Alle medesime conclusioni induce la considerazione della diversa natura giuridica a ciascuno
riconosciuta (le "difficoltà economiche o finanziarie" contribuiscono a integrare la materialità della
c.d.
usura in concreto; lo "stato di bisogno" costituisce oggi mera circostanza aggravante).
La dicotomia era già esistente in passato, vigenti il vecchio testo dell'art. 644 c.p. (che richiedeva la
sussistenza dello stato di bisogno della vittima ai fini dell'integrazione dell'elemento materiale del
reato di usura) e l'abrogato art. 644 bis c.p. (c.d.
usura impropria, che richiedeva, quale elemento costitutivo, l'approfittamento delle condizioni di
difficoltà economica o finanziaria della vittima).
66
In questa sede, appare sufficiente precisare unicamente che la condizione di difficoltà economica o
finanziaria consiste in una situazione meno grave (tale da privare la vittima di una piena libertà
contrattuale, ma in astratto reversibile) del vero e proprio stato di bisogno (al contrario, consistente
in uno stato di necessità tendenzialmente irreversibile, non tale da annientare in modo assoluto
qualunque libertà di scelta, ma che comunque, comportando un impellente assillo, compromette
fortemente la libertà contrattuale del soggetto, inducendolo a ricorrere al credito a condizioni
sfavorevoli).
6.5.3. Deve, inoltre, ritenersi che la situazione di "difficoltà economica o finanziaria" vada valutata
in senso (non meramente soggettivo, ovvero sulla base delle valutazioni personali della vittima,
opinabili e di difficile accertamento ex post, bensì) oggettivo, ovvero valorizzando parametri
desunti dal mercato.
A ciò induce la necessità, sempre cogente per l'interprete, di ridurre i già ampi margini di
indeterminatezza della fattispecie.
6.6. Per quanto riguarda l'elemento psicologico, l'usura è un delitto a dolo generico, nel cui "fuoco"
rientrano la coscienza e volontà di concludere un contratto sinallagmatico con interessi, vantaggi o
compensi usurari.
Con specifico riferimento alla c.d. usura in concreto, il dolo include anche la consapevolezza della
condizione di difficoltà economica o finanziaria del soggetto passivo e la sproporzione degli
interessi, vantaggi o compensi pattuiti rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero
all'opera di mediazione.
6.7. Vanno, conclusivamente sul punto, affermati i seguenti principi di diritto:
"Ai fini dell'integrazione dell'elemento materiale della c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1
e 3, seconda parte) occorre che il soggetto passivo versi in condizioni di difficoltà economica o
finanziaria e che gli interessi (pur inferiori al tasso-soglia usurario ex lege) ed i vantaggi e i
compensi pattuiti, risultino, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato
per operazioni similari, sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero
all'opera di mediazione".
"In tema di c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) la "condizione di
difficoltà economica" della vittima consiste in una carenza, anche solo momentanea, di liquidità, a
fronte di una condizione patrimoniale di base nel complesso sana; la "condizione di difficoltà
finanziaria" investe, invece, più in generale l'insieme delle attività patrimoniali del soggetto passivo,
ed è caratterizzata da una complessiva carenza di risorse e di beni".
"In tema di c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) le "condizioni di
difficoltà economica o finanziaria" della vittima (che integrano la materialità del reato) si
distinguono dallo "stato di bisogno" (che integra la circostanza aggravante di cui all'art. 644 c.p.,
comma 5, n. 3) perchè le prime consistono in una situazione meno grave (tale da privare la vittima
di una piena libertà contrattuale, ma in astratto reversibile) del secondo (al contrario, consistente in
uno stato di necessità tendenzialmente irreversibile, non tale da annientare in modo assoluto
qualunque libertà di scelta, ma che comunque, comportando un impellente assillo, compromette
fortemente la libertà contrattuale del soggetto, inducendolo a ricorrere al credito a condizioni
sfavorevoli)".
67
"In tema di c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) le "condizioni di
difficoltà economica o finanziaria" della vittima (che integrano la materialità del reato) vanno
valutate in senso oggettivo, ovvero valorizzando parametri desunti dal mercato, e non meramente
soggettivo, ovvero sulla base delle valutazioni personali della vittima, opinabili e di difficile
accertamento ex post".
"In tema di cd. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) il dolo generico, oltre
alla coscienza e volontà di concludere un contratto sinallagmatico con interessi, vantaggi o
compensi usurari, include anche la consapevolezza della condizione di difficoltà economica o
finanziaria del soggetto passivo e la sproporzione degli interessi, vantaggi o compensi pattuiti
rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di mediazione".
7. Ciò premesso in diritto, ed evidenziata (come dedotto anche dalle difese nelle memorie in atti) la
parziale intrinseca contraddittorietà delle doglianze del P.M., che lamenta, ad un tempo, un eccesso
ed una carenza motivazionale, deve rilevarsi che risultano del tutto insussistenti le dedotte
violazioni di legge, poichè il Tribunale del riesame ha correttamente identificato - in difetto di una
previa elaborazione giurisprudenziale - gli elementi costitutivi del reato de quo, determinandosi di
conseguenza nella concreta valutazione delle acquisite risultanze istruttorie.
A ben vedere, lo stesso P.M., più che vere e proprie violazioni di legge (neanche compiutamente
indicate, ma più che altro enunciate), lamenta vizi della motivazione che, tuttavia, richiamati i
rilievi di cui al 2 di queste Considerazioni in diritto, appare in parte qua certamente non mancante
nè meramente apparente.
7.1. Il Tribunale (con motivazione esauriente, nel complesso incensurabile in questa sede) ha,
infatti, escluso la configurabilità dell'ipotizzata usura in concreto, ritenendo (f. 2 ss.) che non
sussistesse l'oggettiva evidenza di una sproporzione delle prestazioni corrispettive delle parti, nè
avendo riguardo alle concrete modalità delle intercorse pattuizioni, nè avendo riguardo al tasso
medio praticato con riferimento ad operazioni similari.
7.1.1. Quanto al difetto dell'oggettiva evidenza di una sproporzione delle prestazioni corrispettive
delle parti, avuto riguardo alle concrete modalità delle intercorse pattuizioni, è stata valorizzata la
circostanza fattuale certa che, nell'ambito della successiva operazione di ristrutturazione delle notes
culminata nell'acquisto dei BTP 2034, "realizzato mediante un groviglio di operazioni e strumenti
derivati, tra loro collegati", sia stata ammortizzata dal MONTE DEI PASCHI DI SIENA (la
presunta vittima) la perdita - stimata più o meno in 220 milioni di Euro - correlata al cattivo
rendimento delle ALEXANDRIA notes, il che ha certamente prodotto un rilevante vantaggio in
favore della presunta vittima della configurata usura, e, dal punto di vista contrattuale, doveva
necessariamente avere un costo, più o meno ingente, atteso che la controparte aveva accettato di
assumere il relativo onere.
Osserva, in proposito, il Tribunale, che "il superamento delle passività determinate dalle notes
ALEXANDRIA, attraverso la sostituzione con derivati più sicuri, si è risolto in un beneficio per la
banca. La stessa colossale operazione del BTP 2034 non è altro che un sistema per sostituire a tale
perdita un onere, certamente maggiore in termini quantitativi (proprio perchè occorreva pagare un
costo), ma con il vantaggio della dilazione del tempo" (f. 6).
Inoltre, richiamato (f. 19 s.) il contenuto della Relazione redatta dalla Banca d'Italia a seguito della
disposta ispezione dell'Ispettorato di Vigilanza, si è concluso sul punto che, nel caso di specie,
68
"l'apprezzamento di uno squilibrio tra le prestazioni è difficilmente ancorabile a dati certi ed
oggettivi, e qualunque valutazione sia prospettata, essa presenti notevoli margini di opinabilità".
7.1.2. Nè il requisito della "sproporzione" emergeva avendo riguardo al tasso medio praticato con
riferimento ad operazioni similari.
La sua insussistenza è stata motivatamente argomentata (f. 22 ss.), evidenziando che l'anomalo
obbligo di overcollateralization (15%, rispetto ad una prassi che può arrivare tra il 5 e l'8%) trovava
"un'astratta giustificazione nella circostanza che il rischio sulla garanzia si sommava al "rischio
controparte", in quanto è largamente ipotizzabile che in caso di default del sistema Italia sarebbero
venute meno anche le garanzie offerte da una controparte banca italiana", e valorizzando la
necessità di non analizzare l'operazione riguardante i BTP 2034 nei suoi singoli aspetti (rendimento,
per MPS, dei BTP 2034, nettamente inferiore alla cedola nominale; individuazione di commissioni
occulte), ma tenendo anche conto del vantaggio conseguito per effetto della ristrutturazione delle
notes ALEXANDRIA, in virtù dell'inscindibile collegamento esistente tra le due operazioni
negoziali.
Il Tribunale ha, inoltre, riproposto la considerazione del G.I.P. che, in assenza di elementi obiettivi
per ritenere come indebiti e sproporzionati i vantaggi economici conseguiti da NOMURA
INTERNATIONAL PLC per effetto della complessiva negoziazione conclusa con MPS, aveva
evocato le trattative intercorse con una diversa banca di affari (JP MORGAN), con la quale si era
prospettata una trattativa più o meno analoga a quella in esame ("identico era il costo di
ristrutturazione; uguale sarebbe stato lo strumento utilizzato (Repo a 30 anni) con riconoscimento di
un margine di profitto per il finanziatore JPM; l'affare non andò in porto non già per le inadeguate
condizioni negoziali della transazione, ma perchè la banca americana richiese che i termini
dell'accordo venissero riportati in bilancio, quantomeno in una nota integrativa e sottoposti al
controllo del revisore. Ma ciò, come già sottolineato, non rispondeva ai veri intenti dei vertici MPS,
di occultare le perdite maturate sul veicolo ALEXANDRIA": f. 24).
Ha, infine, rilevato (f. 24 s.) che "nel documento depositato dalla Procura, tratto dal proc. collegato
n. 845/12, trasmesso da BI. D. a B.C. il 17.11.2009, di apparente provenienza Area Bilancio, Area
ARM, Area Finanza, si attesta altresì l'offerta di altra controparte, la NATIXIS, di finanziamento su
titoli italiani a scadenza più breve ad uno spread "ben peggiore del finanziamento ottenuto per 25
anni allo spread di EURIBOR + 59 bps".
Ed ha concluso (f. 25) che "l'unico parametro concreto che gli atti processuali offrono è quello delle
condizioni (analoghe) offerte da altra banca, con l'unica differenza della trasparenza di bilancio, che
però, a parte il fatto di confermare l'intento degli indagati MPS, poco ha a che fare con l'usura".
7.2. Tali considerazioni (f. 21) sono state dal Tribunale motivatamente considerate assorbenti.
7.3. In verità, il G.I.P. (i cui rilievi sono riportati a f. 13 dell'impugnata ordinanza) aveva anche
rilevato "la non apprezzabilita di uno stato di difficoltà finanziaria dell'Istituto vittima della pretesa
usura".
7.3.1. Il Tribunale, pur in difetto di un sistematico riferimento al requisito (avendo, come anticipato,
ritenuto assorbenti i rilievi inerenti al ritenuto difetto dell'oggettiva evidenza di una sproporzione
delle prestazioni corrispettive delle parti, ed all'impossibilità di operare positivamente, ai fini de
quibus, la verifica del requisito della "sproporzione" con riferimento ad operazioni similari), in più
69
punti della motivazione ha, a sua volta, implicitamente mostrato di ritenere insussistente, o
comunque privo di rilievo ai fini de quibus, l'eventuale stato di difficoltà economico-finanziaria del
MONTE DEI PASCHI DI SIENA (in dipendenza della ingente perdita prodotta dalla passata
stipula delle notes ALEXANDRIA), valorizzando piuttosto, quale "motore" della complessa
operazione finanziaria a lungo termine posta in essere, non l'esigenza dei vertici di MPS di ovviare
ad un tale stato di difficoltà, bensì quella di alcuni tra gli indagati di nascondere la predetta perdita
(e con essa la propria avventatezza nella stipula del derivato che detta perdita aveva originato),
nell'imminenza del rinnovo delle cariche sociali.
7.4. Ne consegue che non potrebbe dirsi accertato, pur allo stadio del necessario fumus, che la
complessa operazione avente ad oggetto i BTP 2034 abbia visto, "sulla base di parametri desunti dal
mercato", uno dei contraenti (ovvero, naturalmente, il MONTE DEI PASCHI DI SIENA) agire in
"carenza, anche solo momentanea, di liquidità", ovvero "in complessiva carenza di risorse e di
beni", nè "privato di una piena libertà contrattuale" (cfr. principi di diritto riepilogati nel 6.7. di
queste Considerazioni in diritto).
7.4.1. In considerazione dell'insieme delle ragioni sin qui riepilogate, correttamente il Tribunale ha
ritenuto non configurabile il fumus della ipotizzata usura reale in concreto.
7.4.2. Il ricorso del P.M. è, pertanto, in parte qua, infondato.
LA TRUFFA. 8. Diversamente, con riguardo all'imputazione alternativa di concorso in truffa
pluriaggravata mediante induzione in errore, il ricorso è fondato.
9. Il Tribunale del riesame ha escluso la configurabilita del fumus del predetto reato essenzialmente
per due ragioni, ovvero:
- in difetto della emergenza ex actis delle ipotizzate condotte di induzione in errore e, comunque,
della loro efficacia causale in ordine al danno lamentato;
- in difetto di un danno per MPS. 9.1. In sintesi, il P.M. lamenta che, sul punto, la motivazione del
Tribunale del riesame sia "talmente povera da risultare apparente se non del tutto carente",
ripercorrendola e censurandone la congruità sotto più profili, in particolare lamentando l'omessa
considerazione delle dichiarazioni rese dal teste MO.MA. e la solo parziale valutazione delle
dichiarazioni del teste C.G. (f. 16 del ricorso: trattasi di due alti funzionari del MPS).
E conclude che gli organi interni del MONTE DEI PASCHI DI SIENA non conoscevano la reale
portata dell'operazione, come confermato anche dal conclusivo documento redatto dalla BANCA
D'ITALIA, in particolare con riguardo al collegamento tra le notes ALEXANDRIA e l'operazione
avente ad oggetto i BTP 2034.
IO. La fattispecie tratta al vaglio di questa Corte Suprema integra una ipotesi di cd. truffa
contrattuale.
10.1. Questa Corte Suprema ha già chiarito - per quanto in questa sede rileva - che la c.d. truffa
contrattuale ricorre in tutti i casi nei quali l'agente abbia posto in essere artifici e raggiri al momento
della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto a prestare un
consenso che altrimenti non avrebbe prestato (così, per prima, Sez. 2^, sentenza n. 441 del 16 marzo
1966, CED Cass. n. 102034; in senso conforme, più recentemente, ex multis, Sez. 2^, sentenza n.
70
3538 del 7 novembre 1980, dep. 17 aprile 1981, CED Cass. n. 148455, e Sez. 2^, sentenza n. 47623
del 29 ottobre 2008, CED Cass. n. 242296).
Ed è idoneo ad integrare il delitto di truffa contrattuale anche l'artificio o raggiro avente ad oggetto
aspetti negoziali collaterali, accessori o esecutivi del contratto principale, se la conoscenza degli
stessi avrebbe indotto la persona offesa a non concludere l'affari (Sez. 2^, sentenza n. 34908 del 7
maggio 2013, CED Cass. n. 257103).
La truffa contrattuale è configurabile indipendentemente dallo squilibrio oggettivo nelle rispettive
controprestazioni, poichè l'ingiusto profitto del deceptor ed il correlativo danno del deceptus
consistono essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto (Sez. 2^, sentenza n.
6557 del 13 dicembre 1982, dep. 14 luglio 1983, CED Cass. n. 159923; Sez. 2^, sentenza n. 51760
del 3 settembre 2013, CED Cass. n. 258068): a nulla rileva, quindi, che venga in ipotesi pagato dal
deceptus un giusto corrispettivo in cambio della prestazione truffaldinamente conseguita, posto che
il reato si realizza per il solo fatto che la parte sia addivenuta alla stipulazione del contratto, che
altrimenti non avrebbe stipulato, in ragione degli artifici e dei raggiri posti in essere dall'agente
(Sez. 2^, sentenza n. 12027 del 23 settembre 1997, CED Cass. n. 210456).
10.2. Va, in proposito, ribadito il seguente principio di diritto:
"La c.d. truffa contrattuale - che ricorre in tutti i casi nei quali l'agente abbia posto in essere artifici e
raggiri (aventi ad oggetto anche aspetti negoziali collaterali, accessori od esecutivi del contratto
principale, risultati rilevanti ai fini della prestazione del consenso) al momento della conclusione del
negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto a prestare un consenso che
altrimenti non avrebbe prestato - è configurabile indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle
rispettive controprestazioni, poichè l'ingiusto profitto del deceptor ed il correlativo danno del
deceptus consistono essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto".
11. A parere de Tribunale, "l'interrogativo fondamentale che sta alla base delle valutazioni
necessarie circa il fumus che deve rinvenirsi nell'ipotesi cautelare è se il prezzo pagato da MPS (ove
si ipotizzi) la truffa, rappresenti (...) un danno" (così, inequivocabilmente, a f. 7).
A tale interrogativo ha risposto in senso negativo.
11.1. A sostegno di tale affermazione, il Tribunale ha, in primo luogo, posto il rilievo della asserita
non valutabilità - allo stato - della eventuale sussistenza di profili di danno per il MONTE DEI
PASCHI DI SIENA, in considerazione delle connotazioni strutturali intrinseche del derivato avente
ad oggetto i BTP 2034.
Sono stati, in proposito, adesivamente richiamati i principi affermati da Sez. 2^, sentenza n. 47421
del 16 dicembre 2011 ("qualora l'oggetto materiale del reato sia costituito da titoli di credito, il
momento della sua consumazione è quello della acquisizione da parte dell'autore del reato, della
relativa valuta, attraverso la loro riscossione o utilizzazione, poichè solo per mezzo di queste si
concreta il vantaggio patrimoniale dell'agente e nel contempo diviene definitiva la potenziale
lesione del patrimonio della persona offesa"; per poter stabilire se il derivato ha prodotto effetti a
vantaggio oppure in danno dei singoli contraenti, "occorre procedere ad una disamina a posteriori,
allorchè, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza, visto che, tra l'altro, prima di
tale evento sono previsti meccanismi di aggiustamento destinati proprio ad operare un
bilanciamento fra le posizioni dei contraenti, e non cadere entro meccanismi o clausole vessatorie").
71
E si è, sul punto, concluso che l'esito della complessa operazione sui BTP 2034, avente natura di
strumento derivato altamente aleatorio, potrà essere valutato soltanto alla scadenza, sottolineando
esemplificativamente (f. 15) che già successivamente all'emissione del decreto di sequestro di
urgenza da parte del P.M. la situazione, per effetto dell'andamento dei mercati internazionali, era
parzialmente mutata in favore di MPS. 11.2. Il Tribunale ha, inoltre, più in generale osservato che
nella fattispecie concreta risulterebbero non configurabili veri e propri profili di danno
oggettivamente rilevabile per MPS, dovendo tenersi conto - per valutare la proficuità o meno
dell'intera operazione - anche degli effetti favorevoli immediatamente conseguiti, attraverso la
neutralizzazione di una grave perdita gestionale, con dilazione della - pur gravosissima -
controprestazione nel tempo, in 25 anni.
11.2.1. I rilievi separatamente dedicati alle possibili intenzioni degli indagati intranei ad MPS
potrebbero, peraltro, evocare l'ulteriore illecito, ma pur sempre soggettivamente rilevante, vantaggio
di riuscire a nascondere - proprio in virtù della predetta dilazione - nelle pieghe del bilancio le
nefaste conseguenze della cattiva gestione delle notes ALEXANDRIA, altrimenti prima facie
rilevabile, e proprio nell'imminenza del rinnovo delle cariche societarie.
Ma tutto ciò si risolverebbe a vantaggio dei soli B., M. e V., non certo del MONTE DEI PASCHI
DI SIENA. 11.3. Il Tribunale ha, inoltre, considerato "assodato"> (f. 17) che "in
ambiente MPS fosse noto ed accettato che l'operazione avrebbe avuto un costo, la cui
quantificazione era stata oggetto di ripetuti scambi di opinioni", aggiungendo (f. 25 s.) che "se
anche qualcuno dei funzionari tecnici abbia nutrito qualche dubbio sulla economicità e correttezza
dell'operazione, le eventuali rimostranze non ebbero, e non potevano avere, alcun peso nelle
decisioni assunte".
Ha richiamato, peraltro, le sole dichiarazioni di BI. ("secondo cui pur avendo MO.MA., capo
dell'Area Amministrazione e Bilancio di MPS, assunto un atteggiamento fermo, rappresentando che
a suo parere l'operazione "non doveva essere assolutamente fatta", il Direttore Generale V., come in
altre occasioni, non rispose alle obiezioni tecniche argomentando la sua convinzione circa la bontà
dell'operazione la quale doveva essere realizzata per il "bene della Banca") e di C.G. (capo della
Risk Contrai Unit di MPS), alle cui perplessità lo stesso V. avrebbe risposto che "lui non poteva
perdere tempo ad implementare le formule matematiche del sistema perchè il mercato "scappa" e le
occasioni vanno colte al volo".
Ed ha conclusivamente (f. 26) espresso "forti dubbi sul profilo della induzione in errore, necessaria
ai fini della configurabilità della fattispecie di truffa", affermando che quanto posto a fondamento
dell'impostazione dell'accusa (secondo la quale "almeno tre alti funzionari, MO., BI. e C., non
sapevano che l'operazione ALEXANDRIA del 2005 e poi l'operazione NOMURA erano collegate,
cioè "leggendole" insieme acquisivano un significato ben diverso e quindi proprio per impedire
questa lettura sinottica il Mandate agreement del 31.7.2009 era stati tenuto nascosto") non sarebbe
esatto, perchè "a BI. era stato inviato da B. con una mail del 26.6.2009 il testo della conference call
nel quale si faceva espresso riferimento al Mandate agreement. C. a sua volta sapeva tanto da
dichiarare a s.i.t. di essere stato contrario alla ristrutturazione di ALEXANDRIA proprio perchè
aumentava l'esposizione in BTP per un arco temporale di 30 anni".
12. Può convenirsi, in diritto, con il Tribunale che "ricorrono gli estremi della truffa contrattuale
quando uno dei contraenti tace o dissimula circostanze (...) che, ove conosciute, avrebbero indotto
l'altro contraente ad astenersi dal concludere il contratto" (così testualmente in motivazione - con
72
affermazione di principio in parte non coincidente con la citazione del Tribunale - Sez. 2^, sentenza
n. 47623 del 29 ottobre 2008, non massimata sul punto).
La stessa decisione prosegue, peraltro, aggiungendo, sempre in motivazione, che "Sussistono gli
elementi dell'ingiusto profitto e del danno anche in assenza di squilibrio tra i valori delle
controprestazioni, in quanto ingiusto profitto e danno sono costituiti dal vantaggio e dal pregiudizio
rispettivamente derivanti alle parti dalla stipula del contratto (Cass. 2^ 14.7.83 n. 6557, ud.
13.12.82, Gava). Sussiste il reato di truffa "contrattuale" anche se si sia pagato il giusto
corrispettivo della controprestazione effettivamente fornitagli (nella fattispecie non vi sono stati
indennizzi di sinistri), realizzandosi l'illecito per il solo fatto che si sia addivenuti alla stipulazione
di un contratto che, senza gli artifici e raggiri posti in essere dall'agente, non sarebbe stato stipulato
(Cass. 2^ 23.9.97 n. 12027, depositata il 23.12.97, rv.
210456)".
A tale ultimo principio, che il collegio condivide e ribadisce, il Tribunale, come si vedrà, non si è
correttamente conformato.
12.1. Il Tribunale cita, inoltre, Sez. 2^, sentenza n. 1539 del 15 dicembre 2005 (dep. 16 gennaio
2006) nei seguenti termini: "in tema di truffa dell'amministratore unico di una società per azioni,
l'induzione in errore degli organi societari di controllo deve essere tale da avere impedito il loro
intervento, che altrimenti potrebbe sostanziarsi nella revoca dell'amministratore e dell'atto di
disposizione patrimoniale" (f. 26).
La citata decisione è stata così massimata (CED Cass. n. 232861):
"Integra il delitto di truffa, fuori dall'ipotesi dell'amministratore unico di una società per azioni che
ne sia anche unico azionista, il compimento da parte dell'amministratore di una S.p.A., in accordo
col soggetto estraneo alla società, di un atto di disposizione patrimoniale in danno della società,
seguito dall'induzione in errore degli organi societari di controllo (consiglio di amministrazione,
collegio sindacale, collegio dei revisori e assemblea dei soci), impediti dagli artifici e raggiri nel
loro intervento, che altrimenti potrebbe sostanziarsi nella revoca dell'amministratore e dell'atto di
disposizione patrimoniale.
(Fattispecie in cui l'amministratore delegato di una società di leasing finanziario, in complicità con
il soggetto contraente, ha erogato somme di denaro per l'acquisto di beni da concedere in leasing, e
poi ha indotto in errore gli organi societari con gli artifici e raggiri consistiti nel simulare l'esistenza
dei beni oggetto del contratto di leasing, causando alla società il danno patrimoniale dell'erogazione
di una somma di denaro per l'acquisto di beni appunto inesistenti)".
In motivazione (la sola che in realtà rileva ai fini del riepilogo di un orientamento giurisprudenziale,
assolvendo la massima, anche quella ufficiale, a funzioni meramente strumentali), la citata
decisione osservava quanto segue:
"correttamente il Giudice d'appello ha rilevato che la sentenza di questa Corte, Sez. 2^, n. 13241 del
07/05/1976 dep. 11/12/1976 rv 134922 riguarda solo l'ipotesi in cui l'amministratore unico sia
anche l'unico socio: "l'amministratore unico di una società per azioni che ne sia anche unico
azionista non può rendersi responsabile del reato di truffa in danno della società, in quanto, pur
73
potendo egli disporre solo delle azioni, non avendo la titolarità del patrimonio sociale, che spettano
pur sempre solo alla società, quale soggetto dotato di personalità giuridica propria e distinta da
quella del socio; manca, però la possibilità stessa dell'induzione in errore degli organi sociali, data
la identificazione di questi nella persona dell'agente". Fuori da tale ipotesi, quand'anche l'atto di
disposizione patrimoniale sia posto in essere dall'amministratore di una società che sia anche
complice del reato, è configurabile il delitto di truffa in quanto sono ingannati gli organi della
società. Infatti per conseguire il suo effetto e quindi compiutamente integrare il danno alla società,
l'atto di disposizione patrimoniale soggiace al controllo degli organi societari (consiglio di
amministrazione, collegio sindacale, collegio dei revisori e assemblea dei soci). In assenza di artifizi
o raggiri gli organi societari potrebbero intervenire, revocando l'amministratore e l'atto di
disposizione patrimoniale".
12.1.1. Il principio, che va, a sua volta, condiviso e ribadito, imponeva, pertanto, di verificare (pur
alle stregua del mero fumus, ma tenendo necessariamente conto delle cospicue risultanze istruttorie
sin qui acquisite e poste dal P.M. a fondamento delle richieste di sequestro in esame) se
effettivamente gli indagati avessero mantenuto il silenzio sul collegamento esistente tra le due
vicende negoziali sin qui più volte richiamate, in tal modo condizionando la stipula del derivato sui
BTP 2034 alle già richiamate condizioni, non favorevoli per MPS. 12.2. Ciò premesso, deve
rilevarsi che le censure mosse dal P.M. all'adeguatezza in parte qua dell'impianto motivazionale
dell'impugnata ordinanza colgono nel segno.
12.2.1. Invero, ai fini della valutazione inerente al verificarsi o meno della contestata truffa
contrattuale, perpetrata attraverso induzione in errore, il Tribunale:
A) ha focalizzato le propria attenzione sul momento genetico dell'accordo (in tal senso va
interpretato il rilievo che "eventuali rimostranze non ebbero, e non potevano avere, alcun peso nelle
decisioni assunte"), senza "tener conto di quello che in concreto gli organi interni avrebbero potuto
fare e/o esprimere (e non hanno fatto e/o espresso) se avessero conosciuto la reale portata
dell'operazione e, ragionando in via ipotetica, quali effetti e conseguenze la compiuta informazione
ed adozione dei poteri propri di ciascuna funzione interna della banca avrebbe determinato rispetto
all'evento del reato in parola", poichè "l'attivazione puntuale dei poteri di ciascuna funzione
ingannata avrebbe posto nel nulla ogni possibilità di riuscita dell'operazione, vanificandola" (f. 13 s.
del ricorso);
B) non ha attribuito alcun rilievo al fallimento delle trattative in origine intrattenute con JP
MORGAN, dovuto al rifiuto di quest'ultimo istituto "di far passare il complessivo accordo senza
una sua corretta appostazione in bilancio" (f. 15 del ricorso), ed al fatto che di esso, ed in particolare
delle sue ragioni, non fosse stata data notizia agli organi interni della Banca, deve necessariamente
ritenersi per meglio nascondere l'intenzione di "inquinare" i futuri bilanci di MPS onde occultare le
perdite riportate per effetto delle notes ALEXANDRIA, intenzione poi attuata, a dire del P.M.,
come sembrano testimoniare le separate vicende oggetto di imputazione ai capi B.C.D., e come
sembra in più punti ammettere lo stesso Tribunale, pur non attribuendovi il dovuto rilievo ai fini de
quibus:
se la scelta della controparte con cui concludere l'operazione del 2009 (opportuna per neutralizzare
le perdite conseguite con ALEXANDRIA) era decisivamente condizionata dalla soggettiva
intenzione di B., M. e V. di "nascondere" in bilancio il cattivo esito delle notes ALEXANDRIA
(come visto, JP MORGAN aveva chiesto in proposito precise garanzie di regolarità:
74
per tale ragione la trattativa instaurata inter partes non aveva avuto buon esito), sarebbe stato
fondamentale per gli organi di vigilanza poter essere al corrente di tutti i dettagli dell'operazione (ed
in primis del suo collegamento con le notes ALEXANDRIA), per esercitare i poteri-doveri previste
dalle leggi, attivando tutti gli strumenti utili a tutela della regolarità dei bilanci di MPS;
C) ha male interpretato le dichiarazioni rese dal BI., che, come documenta il P.M. (f. 17 ss. del
ricorso), attraverso la mail erroneamente valorizzata dal Tribunale era stato portato solo a
conoscenza di trattative con NOMURA, ma non del loro specifico contenuto (cfr. f. 18 in nota 24);
(il BI. aveva dichiarato, tra l'altro, quanto segue: "Tra i punti di questa mail preparatoria uno in
particolare sollevò in me alcuni dubbi perchè faceva riferimento "ad operazioni fuori mercato", cioè
non a prezzi di mercato. Per me, fino a quel momento, l'unica operazione fuori mercato era il costo
della ristrutturazione che NOMURA si accollava su ALEXANDRIA, sgravando MPS. Mi venne il
dubbio che le "altre operazioni" potessero nascondere effetti negativi per la banca senese. Non ero
in grado di andare oltre nei miei ragionamenti in quanto la mail non conteneva numeri, ma solo
indicazioni operative generiche. Esposi le mie perplessità a MO.. Mi sembra che lo stesso giorno
della conference call inviai una mail a MO., ricordandogli che dovevo andare alla conference. MO.
mi rispose di andarci tranquillamente, invitandomi, con una eloquente espressione, a "darci
dentro");
ed aveva ricevuto da B. (il quale aveva inteso addirittura minimizzare la situazione negativa
derivante da ALEXANDRIA, cui continuava ad attribuire un valore ben maggiore rispetto al suo
fair value del momento) una presentazione ben diversa dell'operazione;
D) non ha adeguatamente considerato le possibili implicazioni della telefonata intercorsa in call
conference (f. 18 s. del ricorso), la cui trascrizione risulta acquisita agli atti, che, a parere del P.M.,
rivelerebbe l'intervenuto preventivo accordo tra i vertici dei due gruppi, solo in apparenza portatori
di interessi distinti, ma in realtà uniti in danno di MPS;
E) non ha considerato che MO., edotto soltanto da BI. di quel poco che quest'ultimo sapeva, era
stato a sua volta tenuto all'oscuro del contenuto della complessa operazione in fieri, e non si era
opposto alla conclusione di essa avendone compreso struttura e modalità, ma unicamente, e
genericamente, perchè non chiara (f. 19 s. del ricorso del P.M.), e non ha considerato il contenuto
delle dichiarazioni dallo stesso rese (f. 20 in nota 29);
il MO. aveva dichiarato, tra l'altro, quanto segue: "Da come B. aveva illustrato al sottoscritto, a BI.,
a SA. e a C. l'operatività con NOMURA, all'epoca compresi che si stavano portando avanti con la
banca giapponese due operazioni contestuali, ma autonome".
E' appena il caso di ricordare che l'esistenza di un collegamento inscindibile tra la ristrutturazione
delle notes ALEXANDRIA e la stipula del derivato avente ad oggetto i BTP del 2034 era emersa
documentalmente soltanto attraverso il rinvenimento nei locali del MONTE DEI PASCHI DI
SIENA del Mandate agreement datato 31 luglio 2009 (che non era stato esibito agli ispettori della
BANCA D'ITALIA responsabili degli accertamenti condotti sul comparto finanza di MPS nel 2010
e nel 2011: cfr. comunicazione n. 0059210/13 del 18 gennaio 2013);
F) ha male interpretato le dichiarazioni rese da C.G. (f.
75
20 s. del ricorso), il quale aveva unicamente dichiarato "che per lui ALEXANDRIA era solo una
delle operazioni estremamente complesse e rischiose per la banca da lui sottoposte a vaglio critico",
"di non aver mai avuto conoscenza dell'esistenza di un mandate agreement se non in epoca recente",
e di "aver solo immaginato che le operazioni concluse nel 2009 con NOMURA fossero in qualche
modo legate e che il costo della ristrutturazione venisse scaricato sui Repo", ma di non averlo
saputo con certezza;
G) non ha attribuito il giusto rilievo al fatto che la stessa BANCA D'ITALIA, come
documentalmente emergente ex actis, "nel corso dell'ispezione 2011/2012 - pur avendo
approfondito la transazione con NOMURA individuando una contestualità tra l'operazione di Repo
e la ristrutturazione della nota "ALEXANDRIA", parimenti realizzata con NOMURA, non aveva
ritenuto nel contesto di aver acquisito elementi chiari che comprovassero il collegamento negoziale
tra le due operazioni. In particolare, sottolinea l'OdV, che l'indisponibilità degli elementi poi emersi
con il noto mandate agreement non aveva consentito alla Vigilanza di individuare con certezza la
finalità complessiva delle diverse componenti dell'operazione" (f. 23 del ricorso).
12.2.2. La notevole serie di elementi fattuali non considerati e/o, più radicalmente, travisati, inficia
irrimediabilmente la complessiva tenuta dell'impianto argomentativo dell'ordinanza impugnata,
evidenziando certamente il ricorrere di quella speciale situazione di carenza di motivazione che sola
può integrare gli estremi della violazione di legge deducibile ex art. 325 c.p.p. in sede di legittimità.
12.3. Inoltre, alla luce del principio ribadito nel 10.2. di queste Considerazioni in diritto, le
osservazioni del Tribunale quanto alla non rilevabilità di profili di danno attuale per MPS derivanti
dalla stipula del derivato sui BTP 2034 si pongono all'evidenza in violazione dell'art. 640 c.p.,
poichè, come sin qui più volte illustrato, ai fini dell'integrazione della cd. truffa contrattuale, non
occorre valutare se sussista o meno uno squilibrio oggettivo delle rispettive controprestazioni, in
quanto l'ingiusto profitto del deceptor ed il correlativo danno del deceptus consistono
essenzialmente nel fatto costituito, in ipotesi, dalla stipulazione del contratto (in forza del quale
MPS - pur neutralizzando nell'immediato le perdite prodotte dalle notes ALEXANDRIA, assumeva
una ulteriore, svantaggiosa alea, a condizioni non favorevoli secondo l'andamento al momento della
stipula dei mercati finanziari, oltre che l'onere di ingenti provvigioni), alla quale in ipotesi non si
sarebbe addivenuti, disponendo di tutte le informazioni del caso.
Pertanto, ove si accerti il fumus della ipotizzata condotta di induzione (perpetrata essenzialmente
attraverso il silenzio tenuto dagli indagati - o da alcuni soltanto di essi - sul collegamento esistente
tra la ristrutturazione delle notes ALEXANDRIA ed il derivato sui BTP del 2034) e della sua
rilevanza ai fini della conclusione del contratto de quo, privi di rilievo risulterebbero, ai fini della
configurabilità della contestata truffa contrattuale aggravata, i benefici tratti dalla dilazione del
conseguimento delle perdite di ALEXANDRIA (f. 7) e la dedotta mancanza di definitività dei
pretesi effetti sfavorevoli del derivato sui BTP del 2034 (sulla quale il Tribunale si dilunga a f. 15).
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. 13. In conclusione, l'ordinanza impugnata va annullata
limitatamente al delitto di truffa, con rinvio al Tribunale di Siena per nuovo esame sul punto, che
sarà condotto - previa rivalutazione delle risultanze istruttorie (cfr. 12.2 ss. di queste Considerazioni
in diritto) - conformandosi al principio di diritto affermato nel 10.2 di queste Considerazioni in
diritto (cfr. 12.3 di queste Considerazioni in diritto), valutando, in sintesi, se il collegamento tra la
ristrutturazione delle notes ALEXANDRIA e la stipula del complesso derivato sui BTP 2034 (che,
pur dispensando MPS dal conseguimento della perdita provocata dal cattivo andamento delle notes
ALEXANDRIA, lo aveva al tempo stesso gravato di una ulteriore e rovinosa alea) fosse stato
76
limpidamente comunicato, come doveroso, a tutti i soggetti chiamati a pronunciarsi sull'opportunità
o meno della seconda operazione, ed in caso negativo se l'eventuale silenzio abbia decisivamente
condizionato la stipula del derivato sui BTP 2034 (alla quale - in caso contrario - non si sarebbe in
ipotesi addivenuti, onde evitare l'assunzione di un'ulteriore alea con condizioni di partenza
sicuramente svantaggiose).
Sarà anche necessario considerare quanto il silenzio eventualmente serbato dagli indagati intranei
ad MPS sul collegamento sussistente tra le operazioni de quibus - prescindendo dall'interesse di
MPS - sia stato funzionale alla soggettiva esigenza di favorire, in prossimità del rinnovo delle
cariche sociali, l'occultamento del cattivo esito della gestione delle notes ALEXANDRIA nei futuri
bilanci, e se, disponendo delle dovute informazioni, i funzionari in ipotesi illecitamente tenuti
all'oscuro del collegamento de quo avrebbero potuto attivarsi impedendo la stipula del derivato sui
BTP 2034, anche per neutralizzare l'inquinamento dei futuri bilanci (ed evitare un rilevante
pregiudizio per MPS, ed al tempo stesso necessariamente per gli azionisti, i risparmiatori ed, in
ultima istanza, le Istituzioni che, in caso di crisi, sarebbero state inevitabilmente chiamate ad
operare interventi straordinari, gravando, pur indirettamente, sulla collettività).
L'esito di tale valutazione potrà rendere necessario valutare ulteriormente se la truffa contrattuale
ipotizzata dal P.M. (ove ne risulti configurabile il relativo fumus) sia ascrivibile in concorso a tutti
gli indagati (sul presupposto della coscienza e volontà della condotta comune anche ai vertici di
NOMURA INTERNATIONAL PLC) ovvero ai soli indagati intranei a MPS. 13.1. Il complesso
delle considerazioni sin qui svolte evidenzia le ragioni per le quali non possono essere accolte la
contrarie, e pur pregevoli, deduzioni contenute nelle memorie depositate, che non appare necessario
confutare analiticamente.
P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata limitatamente al delitto di truffa e rinvia al Tribunale di Siena per
nuovo esame sul punto.
Rigetta nel resto il ricorso del P.M..
Così deciso in Roma, nell'Udienza camerale, il 25 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2014
77
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente -
Dott. FERRUA Giuliana - Consigliere -
Dott. MILO Nicola - Consigliere -
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. FUMO Maurizio - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
Dott. CASSANO Margherita - Consigliere -
Dott. DIOTALLEVI Giovann - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Imperia;
nel procedimento nei confronti di:
C.B.F. e altri;
avverso la ordinanza del 27/07/2012 del Tribunale di Imperia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Giovanni Diotallevi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Vito D'Ambrosio, che ha concluso chiedendo l'annullamento
dell'ordinanza con rinvio al Tribunale di Imperia;
uditi l'avv. Filippo Dinacci, per la Acquamare s.r.l., l'avv. Paolo
Maria Gemelli, per la Acqua Marcia Turismo Real Estate s.p.a, e
l'avv. Franco Coppi, per C.B.F., i quali
hanno concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ricorso del 21 febbraio 2012 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Imperia
ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza del Tribunale di Imperia in data 27 luglio 2012, con la
quale, sull'appello proposto dal medesimo Pubblico ministero ex art. 322 bis c.p.p., era stata
confermata l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale di rigetto della
richiesta di sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca di alcuni beni immobili
riconducibili all'imputato C.B.F. ed aventi valore corrispondente all'ingiusto profitto dal medesimo
conseguito in conseguenza della realizzazione delle illecite condotte descritte nel capo B) e relative
al reato di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 40c.p., comma 2, art. 61 c.p., nn. 7 e 9, e art. 640 c.p.,
comma 2, n. 1.
La concessione aveva infatti trasferito ad un soggetto privato, la s.p.a. Porto d'Imperia, il diritto-
dovere di costruire l'opera e di goderne lo sfruttamento economico per tutta la durata del
provvedimento, con l'unica pretesa per l'Ente pubblico Comune di percepirne il canone, oltre che di
controllare il corretto uso della stessa opera. Il Comune, come ente pubblico, oltre che il demanio,
doveva ritenersi estraneo ai rapporti economici della s.p.a. con gli altri soggetti coinvolti nella
costruzione dell'opera, potendo intervenire invece nella gestione della s.p.a. nella sua qualità di
78
soggetto privato titolare di un terzo delle azioni. In quest'ottica del tutto privatistica, non rilevava,
secondo il Tribunale, la qualifica della s.p.a. Porto di Imperia.
A fronte di dette argomentazioni, il Pubblico Ministero denuncia l'erronea applicazione della legge
penale, con riferimento, in particolare alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 640 c.p., comma
2, n. 1.
Si rileva al riguardo che il nodo da sciogliere è quello relativo alla natura giuridica di Porto
d'Imperia s.p.a. e si lamenta che il Tribunale non ha affrontato la questione relativa ai criteri da
utilizzare per definire la natura giuridica dell'ente interessato, quello formalistico ovvero quello di
natura sostanziale, con ciò eludendo la specifica richiesta contenuta nell'atto di appello, e
concentrando la sua attenzione sulla sussistenza dei danni subiti dal Comune, di natura indiretta, e
dal demanio (allo stato non quantificabili).
In realtà il thema decidendum, secondo il P.M., riguarda il problema della qualificazione delle truffe
commesse in danno delle società partecipate, in particolare del danno cagionato ad una società
concessionaria e, nello specifico, dell'ingiusto profitto che l'imputato C.B.F., per il tramite delle
società a lui riconducibili, si sarebbe procurato lucrando ai danni della concessionaria Porto
d'Imperia s.p.a., sulla cui natura giuridica dunque si ritiene necessaria una specifica pronunzia con
riferimento alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n 1.
Sotto questo profilo viene sottolineato che con la "concessione" un soggetto formalmente
privatistico assurgerebbe al rango di organo "indiretto" della p.a. la quale attribuisce al medesimo
tutte le proprie connotazioni pubblicistiche; tale fattispecie diverge pertanto da quella delle c.d.
società municipalizzate (derivate da un processo di privatizzazione e prive di concessione)
attraverso le quali l'ente pubblico di riferimento si spoglia di funzioni proprie che finiscono con
l'assumere carattere privato. In questo senso sarebbe inconferente, nel caso di specie, la
giurisprudenza citata dal Tribunale per giustificare la sua decisione. Gli atti posti in essere dal
concessionario in funzione della concessione, e che non avrebbe potuto compiere senza la
concessione, non costituiscono attività di diritto privato, ma conservano la natura di attività di
diritto amministrativo in senso oggettivo, agendo anche, in forza della investitura in pubbliche
funzioni, per attuare i fini propri della p.a..
Richiama infine la pronuncia del Tribunale del riesame di Genova con cui, nel confermare
l'applicazione del provvedimento di custodia cautelare in carcere a carico di C.B.F. e del coimputato
Co.Ca., è stata confermata la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 640, comma secondo, n. 1,
cod. pen..
2. Le difese delle parti private hanno depositato due distinte memorie (in data 9 gennaio 2013 e 16
maggio 2013) sostenendo, con argomentazioni antitetiche a quelle utilizzate dal P.M.,
l'inapplicabilità dell'aggravante dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 1.
Con la memoria del 16 maggio 2013, in particolare, la difesa segnala un contrasto giurisprudenziale
attualmente esistente non solo fra la decisione della Corte di cassazione n. 42408 del 2012 che ha
rigettato il ricorso avverso la citata ordinanza di custodia cautelare e quelle di altre sezioni della
Corte, ma anche in relazione a pronunce consolidate della stessa Seconda Sezione, così allegando
l'ordinanza del 15 marzo 2013 con la quale un diverso collegio della Seconda Sezione aveva
rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla puntualizzazione degli indici di "riconoscibilità
esterna" dei soggetti di diritto pubblico, la cui soluzione non è rinvenibile in un approccio
79
meramente casistico della materia. Il Primo Presidente aveva peraltro restituito gli atti al collegio
remittente per aspetti meramente procedurali, sicchè non venne data risposta al quesito indicato, che
in questa sede è stato riproposto.
3. La difesa degli indagati sostiene poi che il suddetto assunto si fonda sull'isolata sentenza della
Seconda Sezione penale della Corte di cassazione n. 42408 del 2012, emessa nell'ambito del
procedimento incidentale de libertate relativo alla posizione dell'imputato C.B.F., che riconduce la
qualificazione pubblica o privata di una società a partecipazione pubblica all'aspetto funzionale o di
scopo pubblico perseguito, così abbandonando il consolidato criterio per il quale la connotazione
pubblica o privata della società deve essere ricondotta all'aspetto "strutturale" della società
partecipata da un ente pubblico.
La difesa, pertanto, sollecitando la rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa
all'individuazione dei parametri o degli indici necessari a stabilire il carattere privato o meno di una
società di capitali a partecipazione pubblica, rileva l'illegittimità di un'interpretazione estensiva di
norme penali a discapito dell'imputato, ed ha evidenziato che l'adesione all'interpretazione fornita
dalla sentenza della Corte di cassazione n. 42408 del 2012 porrebbe aspetti rilevanti di
costituzionalità in relazione agli artt. 25, secondo comma, 111 e 117 Cost. da sottoporre al vaglio
della stessa Corte Costituzionale.
4. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, ha sottolineato che, secondo la tesi
del P.M., "il soggetto attributario di una concessione pubblica (nella specie Porto d'Imperia s.p.a.)
assume la natura di sostituto della pubblica amministrazione, poichè la concessione si caratterizza,
nella specie, per il trasferimento dall'ente pubblico ad un soggetto privato di poteri pubblici, e ciò
anche quando detta traslazione riguardi beni demaniali, verificandosi pur sempre un passaggio di
situazioni soggettive capaci di determinare atti unilaterali di carattere imperativo", sicchè "con la
concessione un soggetto formalmente privatistico assurgerebbe al rango di organo indiretto della
pubblica amministrazione, la quale attribuisce al medesimo tutte le proprie connotazioni
pubblicistiche".
Sussistendo sul punto un contrasto giurisprudenziale, la Seconda Sezione penale ha quindi rimesso
il ricorso alle Sezioni Unite con ordinanza del 19 giugno 2013.
5. Con decreto in data 19 luglio 2013, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
penali, fissandone la trattazione per l'odierna udienza in camera di consiglio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione sottoposta all'esame della Corte è la seguente: "se, ai fini dell'applicazione della
circostanza aggravante di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, debba riconoscersi natura pubblica o
privata ad una società per azioni partecipata da un ente pubblico e concessionaria di opera
pubblica".
2. Osserva la Corte che il ricorso è inammissibile.
2.1. Ai fini della decisione deve esaminarsi la questione giuridica della configurabilità
dell'aggravante di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, con riferimento alla s.p.a. Porto d'Imperia,
80
tenendo presente, peraltro, che la valutazione della sussistenza dell'aggravante, pur astrattamente
configurabile, non è stata evocata nel caso in esame, in relazione al danno al demanio, in base alla
ritenuta impossibilità di quantificazione dello stesso, come affermato dal Tribunale del riesame; e il
provvedimento, sotto questo profilo, non è stato considerato meritevole di impugnazione da parte
del P.M. ricorrente.
2.2. Secondo la prospettazione dell'Ufficio ricorrente la qualifica di ente pubblico deve essere
attribuita alla società per azioni, in particolare titolare di un provvedimento di concessione da parte
dell'ente territoriale Comune, da cui deriverebbe la sua natura di ente pubblico; ciò comporterebbe
l'attribuzione della qualità di unico soggetto passivo della truffa, aggravata per questo ai sensi
dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, dovendosi ritenere il Comune, in quanto socio della s.p.a. Porto
d'Imperia soltanto danneggiato in via indiretta.
2.3. Ritiene la Corte che, in realtà, per un corretto esame della questione, non si potrebbe
prescindere dal considerare che, nell'ipotesi in cui, come nella fattispecie in esame, la natura
pubblica o privata di un ente non risulti chiaramente dalla legge o non sia convalidata da una lunga
tradizione giuridica, dovrebbe essere risolto preliminarmente il problema degli "indici di
riconoscimento" della natura pubblica di un ente, variamente individuati dalla dottrina e dalla
giurisprudenza. La estrema difficoltà di definire il perimetro concettuale della nozione unitaria di
ente pubblico ha infatti progressivamente comportato un'analisi di carattere casistico per definire
tale categoria. Il problema ha assunto poi una dimensione ancora più rilevante a seguito del
processo di privatizzazione di enti pubblici e la conseguente sempre più accentuata tendenza
legislativa a riconoscere in capo a soggetti, anche a struttura societaria, operanti normalmente iure
privatorum la titolarità o l'esercizio di compiti di spiccata valenza pubblicistica.
Orbene la soluzione di questo problema dovrebbe interessare gli arresti della Corte costituzionale
sul punto, gli indirizzi emersi in sede di normazione - comunitaria, la normazione sulle
"privatizzazioni" di cui alla L. n. 359 del 1998, nonchè la giurisprudenza del Consiglio di Stato e
della Corte dei Conti, oltre che della Corte di cassazione civile e penale, per verificare la possibilità
di superare le distinzioni esistenti nelle singole realtà nazionali, attraverso l'elaborazione di una
nozione di "organismo pubblico", che faccia leva essenzialmente su una concezione sostanzialistica
o funzionale, anche in base agli interventi della Corte di Giustizia, in ipotesi riconducibili alla
questione che qui interessa, sotto il profilo del possesso della personalità giuridica, di diritto
pubblico o privato, della presenza di elementi, alternativi fra loro, che facciano ritenere che le
decisioni dell'ente siano sotto l'influenza determinante di un soggetto pubblico e che l'istituzione
della persona giuridica soddisfi specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non
industriale o commerciale.
In sostanza occorrerebbe avere riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica
amministrazione, caratterizzato dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo
all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che rilevi
nè la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o contratto - nè quella
del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica. Ciò
comporterebbe la necessità di verificare se l'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto
esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico, integri una relazione incentrata
sull'inserimento del soggetto medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico con
l'attribuzione della conseguente responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un
pubblico servizio o di un'opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell'esercizio di
81
funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto
dell'amministrazione, onde egli agirebbe per le finalità proprie di quest'ultima.
In ogni caso dovrebbe essere analizzata anche la questione concernente la compatibilità di tale
operazione ermeneutica con il principio di legalità.
Orbene, se questo è il quadro di riferimento e se a tale quadro fosse riconducibile la fattispecie de
qua, circostanza che allo stato rimane fuori dalla valutazione di questo Collegio,per quanto di
seguito verrà specificato, essendo la ricostruzione operata finalizzata a verificare la correttezza
ultima, sotto il profilo delle norme di riferimento, della configurazione dei motivi di censura
sollevati dal Pubblico Ministero, appare evidente come la prospettazione dell'Ufficio ricorrente
concernente in via esclusiva il mancato riconoscimento della natura sostanzialmente pubblica della
s.p.a. Porto d'Imperia, con la configurazione della consumazione della truffa in suo danno e non al
Comune di Imperia, destinatario di un danno di natura meramente indiretta, in realtà appare
orientata in modo disarmonico, rispetto alla prospettata sostanziale integrazione della società
(formalmente) privata all'interno del comparto pubblico, riconducibile complessivamente all'ente
territoriale, secondo una ricostruzione che configura la società concessionaria come organo indiretto
della p.a..
In sostanza, la scelta di una interpretazione "sostanzialista" quale quella prospettata dall'Ufficio
ricorrente, rispetto a quella "nominalistica", adottata nel provvedimento impugnato, a prescindere,
si ripete, dalla sua condivisione sul piano giuridico, implica che, nel caso di un rapporto strumentale
tra enti, non potrebbe parlarsi di danno all'ente partecipante quale mero effetto riflesso della
partecipazione societaria. L'aggettivo "strumentale" (o indiretto) mette sicuramente in evidenza il
fatto che questi soggetti non sono organi nel senso di titolari di uffici pubblici in quanto non
agiscono in nome della pubblica amministrazione, dalla quale sono state loro trasferite le funzioni
pubbliche, nè si servono di mezzi forniti dalla pubblica amministrazione; il sostantivo "organi"
mette invece in evidenza che anch'essi, come gli organi diretti, svolgono attività di natura
amministrativa, in quanto esercitano pubbliche funzioni. Queste funzioni non potrebbero essere
svolte senza la avvenuta concessione a natura traslativa; ma in presenza di questa le funzioni
potrebbero e dovrebbero essere svolte in modo tale che la concessione operi come investitura del
concessionario ad operare nell'ambito delle funzioni trasferite, con gli stessi poteri e con gli stessi
obblighi che avrebbe un organo diretto della p.a..
2.4. La cesura operata invece con la individuazione del danno diretto nei confronti della sola società
concessionaria rende impossibile affrontare in modo sistematico i termini della questione
presupposta, proprio perchè il perimetro dell'analisi, sia essa funzionale ad una decisione che possa
condividere la tesi "nominalistica" ovvero la tesi "sostanzialista", appare delimitato in modo
parziale ed insufficiente.
2.5. A ciò deve aggiungersi un ulteriore elemento di intrinseca contraddittorietà del ricorso del
P.M., che attinge il limite dell'inammissibilità. Il riferimento, infatti, alla perdita dei diritti demaniali
da parte della s.p.a. Porto d'Imperia, che, in tesi, vengono ritenuti non quantificabili per la truffa
consumata ai danni dello stesso demanio, e che per tale ragione non fanno oggetto del presente
ricorso, vengono al contrario ritenuti fare parte del profitto del comportamento truffaldino
perpetrato, in ipotesi, in danno della stessa s.p.a. e come tali sono stati inclusi tra gli elementi posti a
sostegno della tesi sostenuta dall'Ufficio ricorrente.
82
2.6. Le suesposte considerazioni non rendono possibile, a parere delle Sezioni Unite, entrare nel
merito del quesito di diritto formulato nel caso di specie.
3. Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2014
83
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETTI Ciro - Presidente -
Dott. TADDEI M.B. - Consigliere -
Dott. VERGA Giovanna - Consigliere -
Dott. PELLEGRINO Andr - est. Consigliere -
Dott. CARRELLI P.D.M. Roberto M - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.F., n. ad (OMISSIS);
rappresentata e assistita dall'avv. Carmine Freda, avverso la
sentenza della Corte d'Appello di Napoli, quarta sezione penale, n.
11766/2012 in data 10.04.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Andrea Pellegrino;
sentite le conclusioni del Sostituto procuratore generale Dott.
Alfredo Pompeo Viola che ha chiesto di dichiararsi l'inammissibilità
del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, in data 01.10.2012, S.F.
veniva dichiarata responsabile dei reati di cui agli artt. 56 e 629 c.p., (capo A), art. 61 c.p., n. 2, art.
582 c.p., art. 585 c.p., commi 1 e 2 (capo B), art. 610 c.p. (capo C), art. 61 c.p., n. 2, art. 624 c.p.,
art. 625 c.p., n. 7, (capo D), art. 81 cpv. c.p., artt. 477 e 482 c.p. (capo E), artt. 81 cpv. e 471 c.p.,
(capo F) e condannata alla pena complessiva di anni uno, mesi sei e giorni dieci di reclusione ed
Euro 240,00 di multa.
2. Avverso detta sentenza, nell'interesse della S., veniva proposto gravame avanti alla Corte
d'Appello di Napoli. Con sentenza in data 10.04.2013, la Corte d'Appello di Napoli, rigettando il
gravame, confermava la sentenza di primo grado.
3. Avverso la sentenza di secondo grado, nell'interesse della S., veniva proposto ricorso per
cassazione, lamentandosi:
- errata applicazione della legge penale (primo motivo);
- manifesta illogicità della motivazione (secondo motivo).
Con riferimento al primo motivo, ci si lamenta del fatto che non si fosse tenuto in considerazione
che il reato di tentata estorsione con minaccia in danno del genitore non è punibile a norma dell'art.
649 c.p..
Con riferimento al secondo motivo, si censura la motivazione della sentenza impugnata non avendo
la stessa commesso alcun reato in danno della madre ( L.R.C.) che da anni assiste la ricorrente
nell'estenuante lotta alla tossicodipendenza, tanto più avendo la persona offesa provveduto a
rimettere la querela sporta in danno della figlia: con la conseguenza che, all'esito della richiesta
riqualificazione giuridica dei fatti, andava pronunciata sentenza di non doversi procedere per difetto
di querela ovvero per intervenuta prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
84
4. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, inammissibile.
5. Peraltro, prima di passare alla trattazione dei singoli motivi di doglianza, si rende doveroso
premettere come lo sviluppo argomentativo della motivazione della sentenza impugnata, da
integrarsi con quella di primo grado, risulti fondato su una coerente analisi critica degli elementi di
prova e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare
dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l'attribuzione a detti elementi del requisito della
sufficienza, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità della ricorrente in ordine ai
delitti a lei contestati. La motivazione della sentenza impugnata supera quindi il vaglio di legittimità
demandato a questa Corte, alla quale non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata
valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva "finale" del ricorrente, ad una ricostruzione
dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Di contro, le censure di
merito proposte dal ricorrente si profilano inammissibili posto che, con le stesse, si muovono non
già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma solo sostanziali doglianze in fatto, non
condividendosi dal ricorrente - in ultima analisi - le conclusioni attinte ed anzi proponendosi, di
versioni più persuasive di quelle dispiegate nella sentenza impugnata.
6. Con riferimento al primo motivo di doglianza, si afferma pacificamente in giurisprudenza (cfr.,
Cass., sez. 2, n. 5504 del 22/10/2013, dep. 04/02/2014, Piras, Rv. 258198; Cass., Sez. 2, n. 24643
del 21/03/2012, dep. 21/06/2012, Errini, Rv. 252832; Cass., Sez. 2, n. 12403 del 27/02/2009, dep.
19/03/2009, Freguglia, Rv.
244054) che l'esclusione dell'esimente per i delitti contro il patrimonio in danno di congiunti si
riferisce, nel fare menzione dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di
estorsione, alle sole forme consumate e non anche a quelle tentate.
Della stessa opinione è la dottrina per la quale il tentativo è una fattispecie di reato autonomo
risultante dalla combinazione di una norma principale - fa norma incriminatrice speciale - e di una
norma secondaria - quella sancita dall'art. 56 c.p., che ha efficacia estensiva -, le quali danno vita ad
una nuova figura di reato, pur conservando il medesimo nomen iuris della figura corrispondente di
delitto consumato.
Invero, la qualificazione del delitto tentato quale autonoma fattispecie di reato (rispetto a quello
consumato) non risponde ad esigenze meramente classificatorie, ma produce rilevanti conseguenze
pratiche nei casi in cui l'ordinamento ricolleghi determinati effetti giuridici alla commissione di
reati specificamente indicati mediante l'elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori
precisazioni, dovrà ritenersi che essi si producono esclusivamente per le fattispecie consumate e non
anche per quelle tentate. Il principio va, peraltro, precisato nel senso che, tenendo al tempo stesso
conto dell'autonomia delle ipotesi di delitto tentato, e del principio di tassatività della norma penale,
desumibile, quale corollario del principio di legalità, dall'art. 25 Cost., comma 2 (in applicazione del
quale il legislatore deve esplicitamente stabilire tutto ciò che rientri nella sfera del "penalmente
lecito" e tutto ciò che, al contrario, rientri in quella del "penalmente illecito", con conseguente
divieto di analogia in malam partem in diritto penale, sancito espressamente anche dall'art. 14
preleggi), deve ritenersi che gli effetti giuridici sfavorevoli, previsti con specifico richiamo a
determinate norme incriminatrici, vadano riferiti alla sola ipotesi del reato consumato e non anche
al tentativo, trattandosi di norme - quelle sfavorevoli - di stretta interpretazione, le quali, in difetto
di espressa previsione, non possono essere analogicamente riferite alla figure di delitto tentato (cfr.,
in argomento, anche Cass., Sez. 1, n. 1036 del 15/04/1985, dep. 18/05/1985, Perrotta, Rv. 169309).
Non sarebbe, pertanto, consentito, l'ampliamento per analogia in malam partem del novero dei reati
per i quali la causa di non punibilità di cui all'art. 649 c.p., non opera.
7. Ciò premesso, la possibile esclusione della tentata estorsione dal novero dei reati per i quali opera
la causa di non punibilità in argomento va valutata unicamente con riguardo all'ultima parte dell'art.
649 c.p., comma 3, che esclude la non punibilità di tutti i delitti (compresi quelli tentati) commessi
con "violenza sulle persone".
85
Nel caso di specie, peraltro, la S. è stata riconosciuta colpevole, con riferimento al capo A), di una
tentata estorsione commessa con violenza alle persone (aggressione alla propria madre alla quale
stringeva le mani intorno al collo), senza alcuna (ulteriore e diversa) condotta di minaccia e/o
violenza sulle cose, condotte che - uniche - avrebbero potuto farsi rientrare nell'ambito di
operatività della causa di non punibilità (nel medesimo senso, Cass., Sez. 2, n. 13694 del
15/03/2005, dep. 13/04/2005, Scibile, Rv.
231051; Cass., Sez. 2, n. 18273 del 19/01/2011, dep. 10/05/2011, Frigerio, Rv. 250083): da qui
l'inoperativita nella fattispecie della dedotta causa di non punibilità.
8. Pari manifesta infondatezza involge il secondo motivo di doglianza. Con riferimento ai reati
commessi dalla S. in danno della madre (capi A, B e C, reati commessi in data 6.12.2011) in
relazione ai quali è stata sollevata la censura, la sentenza di secondo grado fornisce adeguata
motivazione in ordine all'affermazione della penale responsabilità della ricorrente.
Invero, si legge in sentenza: "non è... dato sapere quale aspetto soggettivo possa concretamente
valutarsi in questa sede al fine di un positivo riscontro delle prospettazioni difensive, finalizzate
essenzialmente a ricondurre la fattispecie di cui al capo A) ad un semplice litigio tra l'imputata e la
madre (per quanto non possa essere un litigio tra una madre ed una figlia tossicodipendente), uno
dei tanti momenti difficili della vita della S. e della madre, ove si considerino le dichiarazioni,
seppur sofferte, rese da quest'ultima nella pienezza del contraddittorio, puntualmente confermate dal
verbale d'arresto delle prevenuta a cura dell'appuntato Sp., che hanno consentito di riscontrare
adeguatamente l'originaria ipotesi accusatoria. Ed a ritenere, pertanto, accertata oltre ogni dubbio
ragionevole la dinamica del fatto in danno della L.R. che, aggredita con graffi al volto ed al collo, si
vedeva costretta a ricorrere all'intervento dei C.C. di Avellino per sottrarsi alla violenza della figlia
che, anche in presenza di detti verbalizzanti, e dopo aver messo a soqquadro la comune abitazione,
seguitava a chiederle dei soldi per l'acquisto di droga mediante un sintomatico atteggiamento
minaccioso (se non mi dai i soldi ti faccio vedere io che fine fai). Nè, infine, può essere revocata in
dubbio la coscienza e volontà di tale riprovevole condotta sulla scorta degli esiti peritali disposti al
fine di verificare la sussistenza di un eventuale vizio parziale di mente dell'imputata atteso che
costei non è risultata affetta da una cronica intossicazione dovuta all'assunzione di sostanze
stupefacenti, tale da inficiarne e/o da escluderne la capacità d'intendere (e) di volere...".
9. Alla pronuncia consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che,
considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2014
88
CASSAZIONE N. 8797 DEL 2014
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del 26 ottobre 2012,
il GIP presso il Tribunale di Roma sottoponeva al vincolo una serie di beni di proprietà di B. L.,
D.G.A., D.G.P. e D.G. M., per i reati di raccolta abusiva del risparmio, associazione a delinquere
allo scopo di commettere una pluralità di fatti di bancarotta fraudolenta, di false comunicazioni
sociali, di truffa, riciclaggio nonchè di delitti tributari, in relazione al fallimento della società
"DEIULEMAR Compagnia di navigazione" s.p.a., con l'aggravante di aver posto in essere le
attività criminali in più di uno Stato.
2. Propongono ricorso gli indagati B.L., D.G. A., D.G.P. e D.G.M.; la prima con atto autonomo dei
propri difensori, avvocati Alfonso M. Stile e Giro P. Sepe; gli altri tre con unico atto dei propri
difensori, avvocati Alfonso M. Stile e Giro P. Sepe.
Nell'interesse dell'indagata B.L. sono dedotti due motivi:
I) violazione all'art. 606 c.p.p., lett. B, in relazioni art. 1 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, artt. 13,
25, 27 e 111 Cost., con riferimento alla inconfigurabilità del reato di elusione fiscale.
All'indagata è contestato il reato di dichiarazione infedele, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4; a
seguito di una verifica fiscale a carico della società, l'Agenzia delle entrate ha segnalato
un'operazione connaturata da un disegno elusivo, consistito nell'aver ceduto le partecipazioni nella
DEIULEMAR Compagnia di navigazione s.p.a. alla DEIULEMAR Holding s.p.a., mediante
compravendita invece che mediante conferimento di beni in natura, al fine di consentire la
detassazione dei dividendi distribuiti dalla DEIULEMAR Compagnia di navigazione, imputati al
prezzo della compravendita. A giudizio della ricorrente deve escludersi la rilevanza penale della
cosiddetta elusione fiscale, poichè la prova della responsabilità in campo penale si forma in maniera
del tutto diversa rispetto alla formazione della prova dell'evasione tributaria, poichè
l'amministrazione finanziaria può ricorrere a presunzioni, mentre il giudice penale deve motivare in
ordine alle ragioni per le quali i dati della verifica effettuata in sede fiscale sono stati ritenuti
attendibili.
Va poi considerato il dolo specifico, richiesto ai fini della punibilità dei debiti tributari,
incompatibile con la strutturazione psicologica del fenomeno elusivo.
II) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. C, in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 321 e 324
c.p.p.; il Tribunale del riesame non ha preso in esame la nota tecnica redatta dal Dott. N. P.,
mediante la quale si intendeva escludere nell'operazione di cessione delle partecipazioni una
operazione elusiva.
Gli altri indagati affidano il ricorso a due motivi:
I) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. C, relazioni art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 321 e 324 c.p.p., in
relazione alla insistenza del cosiddetto giudicato cautelare. I ricorrenti rappresentano di aver
depositato una memoria difensiva, con la quale si evidenziava l'inconfigurabilità del delitto di truffa
loro ascritto, ma che il Tribunale si è sottratto all'obbligo motivazionale ritenendo la questione
89
preclusa dal cosiddetto giudicato cautelare. Il ricorrente segnala il più recente orientamento della
Suprema Corte, secondo il quale giudicato cautelare copre soltanto il dedotto e non anche il
deducibile, per cui opera esclusivamente rebus sic stantibus; ciò sta a significare che non poteva
ignorare la consulenza tecnica a firma del dottor N..
In ogni caso i fratelli D.G. non sono mai venuti in possesso, nemmeno per il tramite dei trust dei
quali sono disponenti, dei dividendi distribuiti dalla DEIULEMAR Shipping s.p.a..
II) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. B, in relazione agli artt. 1 e 640 c.p., artt. 13, 25, 27 e 111
Cost..
Come recentemente stabilito dalle Sezioni Unite con sentenza 28 ottobre 2010 n. 1235, ricorrente
Giordano, "E' configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di
frode fiscale (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 ed 8) ed il delitto di truffa aggravata ai danni
dello Stato (art. 640 c.p., comma 2, n. 1), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla
evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all'interno del quadro delineato dalla
normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto
all'evasione fiscale, quale l'ottenimento di pubbliche erogazioni.
(La Corte, richiamando il cosiddetto principio di assimilazione sancito dall'art. 325 del T.F.U.E., ha
precisato che le predette fattispecie penali tributarie, repressive anche delle condotte di frode fiscale
in materia di I.V.A., esauriscono la pretesa punitiva dello Stato e dell'Unione Europea perchè
idonee a tutelare anche la componente comunitaria, atteso che la lesione degli interessi finanziari
dell'U.E. si manifesta come lesiva, in via diretta ed indiretta, dei medesimi interessi)".
Ciò impedisce di ascrivere anche il titolo di truffa ai danni dello Stato per quelle condotte che sono
previste e sanzionate dal D.Lgs. n. 74 del 2000.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1 Il primo motivo proposto nell'interesse di B.L., con il quale si contesta la rilevanza penale
dell'elusione fiscale, è infondato.
Il tema è stato ed è tuttora oggetto di attenta riflessione di questa Corte, anche se si è osservato che
"sulla questione della rilevanza penale dell'elusione in materia fiscale non può dirsi che la
giurisprudenza penale della Corte di Cassazione si sia espressa compiutamente" (Sez. 2, n. 7739 del
22/11/2011 - dep. 28/02/2012, Gabbana, in motivazione).
1.2 In senso contrario alla rilevanza penale dei comportamenti elusivi si sono espresse alcune
decisioni, sia pure senza approfondirne le motivazioni; ad es. Sez. 5, n. 23730 del 18/05/2006,
Romanazzi (non massimata sul punto) afferma che, in linea di principio, la violazione delle norme
antielusive non comporta conseguenze di ordine penale; una decisione della Terza Sezione (Sez. 3,
Sentenza n. 14486 del 26/11/2008 - 02/04/200 9, Rusca, Rv.
90
244071), richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia Europea (sentenza 9.3.1999, C-
212/97, Centros), secondo la quale "la scelta della sede di una società di uno Stato membro -
soltanto per usufruire di una normativa più favorevole - non costituisce esercizio abusivo del diritto
di stabilimento di cui agli art. 43 e ss. del Trattato CE", nega valore probatorio alle presunzioni
tributarie, incompatibili con l'accertamento penale, anche se utilizzabili in campo tributario come
strumento di accertamento semplificato nel contrasto all'evasione fiscale.
1.3 Più convincenti risultano però le decisioni favorevoli alla rilevanza penale della condotta
elusiva.
Vengono in rilievo innanzi tutto due decisioni della Terza Sezione.
La prima ha affermato la sussistenza del delitto di dichiarazione infedele, punito dal D.Lgs. 10
marzo 2000, n. 74, art. 4, anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dal
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non
opponibili all'Amministrazione finanziaria, comporti una dichiarazione infedele per la mancata
esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare (Sez. 3, n. 2 6723 del 18/03/2011,
Ledda, Rv. 250958); la seconda ha ammesso la configurabilità dell'omessa dichiarazione (art. 5 del
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) con riferimento ad una società avente residenza fiscale all'estero, ma
che non possedeva un legame con il territorio di quello Stato, essendo priva di un'organizzazione di
uomini e mezzi idonea ad operare in loco in piena autonomia gestionale ed aveva affidato la cura
dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura (Sez. 3, n. 29724 del 26/05/2010, Castagnara,
Rv. 248109).
1.4 Con riferimento al delitto di dichiarazione infedele, contestato all'indagata, particolarmente
convincente è il ragionamento seguito dalla Seconda Sezione (Sez. 2, n. 7739 del 22/11/2011 - dep.
28/02/2012, Gabbana, Rv. 252019) nel ribadire che i reati tributari di dichiarazione infedele o di
omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive ai fini fiscali che siano
strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge, ovverossia
quelle di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e art. 37 bis.
A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva si osserva, in primo luogo, che il D.Lgs. n.
74 del 2000, art. 1, lett. f), fornisce una definizione molto ampia dell'imposta evasa e che il sistema
tributario prevede istanze di interpello preventivo:
l'interpello ordinario previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 11, che si riferisce a "obiettive
condizioni di incertezza sulla corretta applicazione di una norma", peraltro con riferimento a "casi
concreti e personali"; l'interpello antielusivo di cui alla L. 30 dicembre 1991, n. 413; art. 21,
l'interpello disapplicativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8; quello relativo alle
società controllate estere di cui all'art. 167 del T.U.I.R.; quello di ruling internazionale (D.L. n. 269
del 2003, art. 8).
In tale contesto assume particolare rilevanza il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 16, (Adeguamento al
parere del Comitato per l'applicazione delle norme antielusive), il quale dispone che "Non da luogo
a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita
dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 21, commi 9 e 10, si è uniformato ai pareri del Ministero
delle finanze o del Comitato consultivo per l'applicazione delle norme antielusive previsti dalle
medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell'istanza sulla quale si è
formato il silenzio - assenso". Nonostante la relazione al decreto legislativo precisi che tale
91
disposizione non può essere letta come "diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie
lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell'organo consultivo", sembra evidente
che detta disposizione induca proprio a ritenere che l'elusione, fuori dal procedimento di interpello,
possa avere rilevanza penale e ciò è confermato dal contesto in cui è inserito il citato art. 16 che è
quello del Titolo III "Disposizioni comuni" concernenti proprio la materia penale (pene accessorie,
circostanze attenuanti, prescrizione) e, in particolare, subito dopo l'art. 15 che concerne le
"violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie".
D'altro canto, non vi sarebbe necessità di una esimente speciale per la tutela dell'affidamento se
l'elusione fosse irrilevante dal punto di vista penale, mentre nessun elemento nè testuale nè
sistematico consente di ritenere che tale norma si riferisca, come da alcuni ritenuto, a casi di
evasione in senso stretto e non di elusione.
Piuttosto deve osservarsi che il suddetto parere è relativo alla "applicazione, ai casi concreti
rappresentati dal contribuente, delle disposizioni contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600,
art. 37, comma 3, e art. 37 bis", cioè alle specifiche fattispecie elusive dai suddetti articoli previste,
per cui non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella
che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge in altri
termini, nel campo penale non può affermarsi l'esistenza di una regola generale antielusiva, che
prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle Sezioni Unite civili
della Corte Suprema di Cassazione (Sez. U, Sentenza n. 30055 del 23/12/2008, Rv. 605850), mentre
può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale
antielusiva.
1.5 In conclusione deve ritenersi sussistere quel fumus del reato che giustifica la misura cautelare
reale, anche perchè la fattispecie di reato ipotizzata dall'accusa non richiede - come avviene invece
per le altre ipotesi di reato previste dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, precedenti artt. 2 e 3, - una
dichiarazione fraudolenta (mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti
ovvero mediante altri artifici) bensì soltanto che la dichiarazione sia infedele, ossia che, anche senza
l'uso di mezzi fraudolenti, siano indicati nella stessa "elementi attivi per un ammontare inferiore a
quello effettivo od elementi passivi fittizi", quando ricorrano le altre condizioni ivi previste in
relazione all'ammontare dell'imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione. Nel
caso di specie, appunto, il giudice del merito ha motivatamente ritenuto che sussiste il fumus di una
dichiarazione infedele, perchè in essa sono stati esposti elementi attivi per un ammontare inferiore a
quello effettivo, attraverso il meccanismo di "retrocessione dei dividendi" descritto nell'ordinanza
impugnata; tale statuizione, alla luce del tipo di esame sommario che può essere svolto in questa
fase cautelare e fatto salvo ogni opportuno approfondimento che potrà essere eventualmente svolto
nella fase di cognizione piena, merita di essere confermata.
2. Anche il secondo motivo proposto nell'interesse della B. è infondato.
Si contesta l'omessa considerazione della consulenza difensiva redatta dal Dott. N.P., con la quale si
voleva dimostrare l'insussistenza di una operazione elusiva. Orbene, la censura non coglie nel
segno, poichè a pagina 10 dell'ordinanza le deduzioni sono espressamente confutate, individuando i
tre passaggi (iniziale cessione integrale della partecipazione in DEIULEMAR Compagnia di
navigazione" s.p.a., da parte dei soci controllanti, nei confronti della DEIULEMAR Holding s.p.a.,
riconducibile ai medesimi soggetti, realizzando una vendita a se stessi; retrocessione dei dividendi
percepiti dalla DEIULEMAR Compagnia di navigazione" s.p.a. e dalla DEIULEMAR Holding
s.p.a. in favore dei soci controllanti, a seguito della loro imputazione al prezzo dovuto in relazione
92
al contratto di compravendita di azioni; sottrazione dei dividendi all'imposizione diretta, attraverso
l'omessa dichiarazione) dell'operazione elusiva.
3. Uguale sorte merita il primo motivo di ricorso proposto dagli altri indagati, nel quale si contesta
il ricorso alla figura del giudicato cautelare da parte del Tribunale del riesame, poichè, come si è
detto, la consulenza N. non è stata in concreto ignorata.
4. Quanto poi al secondo motivo, relativo alla inconfigurabilità del delitto di truffa in presenza
dell'illecito tributario, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite Giordano, va rilevato che agli
indagati D.G.A., D.G.P. e D.G. M., diversamente che a B.L. (capo O della rubrica), non è contestato
il delitto di infedele dichiarazione, poichè gli indagati non avevano un autonomo obbligo
dichiarativo, sicchè la sottrazione degli utili all'imposizione tributaria, quale risultato
dell'interposizione di una serie di schermi societari, quali fittizi titolari della partecipazione
societaria, ha sostanziato una vera e propria truffa, non un illecito tributario.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato la specialità del delitto di frode fiscale (D.Lgs. 10
marzo 2000, n. 74, artt. 2 ed 8) rispetto a quello di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640,
c.p. comma 2, n. 1), sulla base di un confronto fra le fattispecie astratte e non partendo dalla
condotta in concreto posta in essere, che nel caso di specie è invece inquadrabile ai sensi dell'art.
640 c.p., comma 2.
5. In conclusione il ricorso di ciascuno degli imputati va rigettato;
al rigetto consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2014
93
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TERESI Alfredo - Presidente -
Dott. GRAZIOSI Chiara - rel. Consigliere -
Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -
Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere -
Dott. ANDRONIO Alessandro Mar - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
T.F. N. IL (OMISSIS);
avverso l'ordinanza n. 65/2013 TRIB. LIBERTA' di CAGLIARI, del
13/06/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;
sentite le conclusioni del PG Dott. E. Delehaye rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 13 giugno 2013 il Tribunale di Cagliari ha rigettato la richiesta di riesame
presentata da T.F. - indagato per il reato di cui all'art. 110 c.p., e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, in
relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, per avere immesso in consumo in Italia un velivolo di
produzione statunitense sottraendolo al pagamento dell'Iva all'importazione - avverso decreto di
sequestro preventivo del velivolo emesso dal gip dello stesso Tribunale il 14 maggio 2013.
2. Ha presentato ricorso il T., adducendo quattro motivi.
Il primo motivo denuncia violazione della L. n. 4 del 1929, art. 21, comma 2, in quanto la
competenza territoriale si sarebbe radicata a Padova, anzichè a Cagliari, la stessa imputazione
collocando l'accertamento del preteso reato nell'aprile 2013 quando furono eseguiti a Padova i
relativi primi sequestri.
Il secondo motivo denuncia violazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, e art. 125 c.p.p., comma
3. Sembrerebbe infatti che il Tribunale abbia riqualificato il reato nella fattispecie di cui al D.P.R. n.
633 del 1972, art. 70; se non vi fosse stata riqualificazione, vi sarebbe comunque difetto di
motivazione, in quanto l'Iva non è diritto di confine e non è quindi applicabile il D.P.R. n. 43 del
1973, art. 292, con conseguente mancanza del fumus commissi delicti.
Il terzo motivo denuncia violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 67 e 70, e art. 25 Cost., comma
2, nonchè degli artt. 95, ora 90, del Trattato CEE, con conseguente obbligo di disapplicazione del
D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, nella parte in cui commina per rinvio la sanzione della confisca
D.P.R. n. 43 del 1973, ex art. 301.
Se il Tribunale, a fronte della contestazione provvisoria del reato di "altri casi di contrabbando"
(come esaminato dal motivo precedente), avesse riqualificato il fatto nella fattispecie di cui al
D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, questa peraltro non sarebbe configurabile, non trattandosi di
importazione, bensì di cessione intracomunitaria, essendo stato importato l'aereo in Danimarca. Il
Tribunale avrebbe erroneamente giudicato sussistente una "diretta importazione del bene in Italia
94
dagli Stati Uniti", avvalendosi della categoria dell'abuso del diritto, laddove l'elusione nel settore
penale confligge con i principi di legalità e di tipicità. La giurisprudenza di legittimità ha d'altronde
riconosciuto che scegliere lo Stato nel quale introdurre nella Comunità Europea perchè in esso si
gode di regime fiscale più favorevole costituisce esercizio del diritto di libera circolazione delle
merci. Il ricorrente richiama al riguardo anche la giurisprudenza comunitaria, concludendo per
l'assenza comunque della supposta elusione fiscale, poichè l'Iva all'importazione deve essere versata
anche nella cessione intracomunitaria. Le sanzioni penali compromettenti la libera circolazione
delle merci all'interno della comunità in caso di infrazione dell'Iva, poi, in quanto ritenute di tutela
eccessiva dei prodotti nazionali dalla giurisprudenza comunitaria, devono essere disapplicate dal
giudice interno.
Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 157 e 158 c.p., D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, e
art. 125 c.p.p., comma 3, per avere il Tribunale erroneamente ritenuto non ancora estinto per
prescrizione il reato di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, qualificandolo reato permanente,
laddove trattasi di fattispecie istantanea.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
3.1 Il primo motivo ripropone un'eccezione di incompetenza territoriale già avanzata in sede di
riesame, e fondata sul fatto che l'accertamento del reato sarebbe avvenuto a Padova, lo stesso capo
di incolpazione indicando nell'aprile 2013 la data di accertamento, che coinciderebbe con i primi
sequestri effettuati nel circondario patavino (il 10 aprile a carico del T. e l'11 aprile a carico di un
coindagato). La Guardia di Finanza di Cagliari ha sì svolto un ruolo di coordinamento delle
indagini, ma ad avviso del ricorrente presso i suoi uffici non potrebbero ritenersi avvenute "le
operazioni di concreto accertamento atte a radicare la competenza territoriale per il presente
procedimento penale", non potendosi peraltro ritenere che il luogo di accertamento sia quello in cui
sono concentrati i documenti e gli elementi raccolti, perchè ciò comprometterebbe l'individuazione
del giudice naturale. La pretesa evasione fiscale sarebbe quindi stata consumata e accertata a
Padova (o, in subordine, a Torino).
La questione era stata affrontata dal Tribunale, per cui l'acquisizione da parte della Guardia di
Finanza in Padova e in Torino di documenti posti a sostegno dell'informativa del pubblico ministero
non significa accertamento in tali sedi del reato. La L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 21, u.c., attribuisce
infatti la competenza per i reati finanziari, tra cui è annoverabile l'omesso pagamento dell'Iva
all'importazione, al giudice del luogo dove il reato è stato accertato, che non va identificato,
appunto, come luogo di acquisizione, bensì come luogo in cui "sono stati concentrati" gli elementi
raccolti, "sono state effettuate le verifiche conclusive della loro rilevanza ed infine è stata
riscontrata la sussistenza degli estremi della violazione". La valutazione del Tribunale è
condivisibile, in quanto l'accertamento non può essere identificato già negli atti ad esso prodromici,
bensì si compie laddove tali atti sono inseriti in un coordinato compendio così da poterne vagliare la
effettiva significanza in termini di rilievo penale (sulla necessità che l'accertamento, per radicare la
competenza territoriale ex articolo 21 citato, consista in una constatazione frutto di una verifica
degli organi di controllo v. già Cass. sez. 1^, 17 giugno 2003 n. 29667; conforme da ultimo Cass.
sez. 3^, 9 gennaio 2014, non ancora massimata). Il motivo è pertanto infondato.
3.2.1 Il secondo motivo prende le mosse dal presupposto che "a leggere il provvedimento parrebbe
che il Tribunale abbia ritenuto di poter inquadrare il caso nella disposizione di cui al D.P.R. n. 633
95
del 1972, art. 70" anzichè nel D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292. Per l'ipotesi allora in cui sia stato
applicato quest'ultimo, il secondo motivo confuta la sussistenza della relativa fattispecie criminosa.
Il terzo motivo, invece, interpreta l'ordinanza nel senso della riqualificazione, come davvero
avvenuta, del fatto contestato D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 70, argomentando la non
configurabilità di tale incolpazione. I due motivi devono dunque essere vagliati congiuntamente,
preliminarmente esaminando il contenuto effettivo dell'ordinanza impugnata quanto alla
determinazione della fattispecie criminosa.
Il Tribunale conferma anzitutto che "la scelta dello Stato membro dell'Unione nel quale introdurre il
bene extraEuropeo nella Comunità costituisce esercizio del diritto di libera circolazione delle merci
e dei capitali" ex artt. 23 e 56 Trattato CE "anche laddove ciò comporti il vantaggio di un
trattamento fiscale più favorevole rispetto a quello previsto in altri Stati". Tale premessa,
apparentemente, scioglierebbe ogni questione, ma il Tribunale, subito dopo avere riconosciuto il
diritto, si pone sul piano dell'abuso del diritto stesso, ovvero del suo esercizio con modalità illecite.
Secondo l'ordinanza impugnata, infatti, l'esercizio del diritto di libera circolazione delle merci e dei
capitali sarebbe nel caso in esame "avvenuto oltre i limiti ed in contrasto con gli scopi per i quali è
stato riconosciuto e protetto dall'ordinamento giuridico":
ciò si ricaverebbe dalla presenza delle caratteristiche dell'abuso del diritto come elaborate in
dottrina e in giurisprudenza, e in particolare, dell'elemento intenzionale - rappresentato dal "fine
abusivo esclusivo" -, dell'elemento strutturale - "l'architettura complessiva non lineare delle
operazioni negoziali sottostanti, prive di giustificazione economica diversa dal risparmio del
tributo" - e dell'elemento teleologia) - "il risparmio indebito d'imposta" -. Dopo avere descritto nel
senso fattuale tali elementi, l'ordinanza ne deduce che l'aereo era fin dall'inizio destinato ad essere
importato in Italia, senza che il soggetto che ne avrebbe poi goduto "ne risultasse importatore, nè
intestatario formale, in modo da eludere il pagamento dell'Iva all'importazione e da rendere
problematica la riconducibilità a lui dell'intera operazione", qualificando quindi quest'ultima non
come legittimo esercizio di un diritto, bensì come "una condotta connotata da profili di frode,
intenzionalmente posta in essere al solo scopo di consumare un'evasione fiscale, altrimenti
irrealizzabile, e di dissimulare la realtà dei rapporti giuridici sottostanti". A questo punto, il
Tribunale ha proceduto realmente a una riqualificazione, affermando che "in definitiva, la
fattispecie va ricostruita come una diretta importazione del bene in Italia dagli Stati Uniti con
omesso pagamento dell'Iva all'importazione e, quindi, sussunta nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70",
la cui violazione comporta l'applicazione obbligatoria della confisca D.P.R. n. 43 del 1973, ex art.
301, onde il sequestro è legittimo, in quanto finalizzato a tale confisca obbligatoria. (Si nota peraltro
che anche il pubblico ministero, nel disporre il sequestro preventivo in via d'urgenza in data 7
maggio 2013 - poi convalidato dal gip che ha emesso il 14 maggio 2013 il decreto di sequestro
preventivo - aveva ritenuto sussistente il reato di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, per essere
stato il velivolo immesso in consumo in Italia, deducendone che l'adempimento delle imposte di
consumo, tra cui l'Iva, in Italia avrebbe dovuto avvenire).
3.2.3 Deve anzitutto, allora, valutarsi se l'istituto di sostanza ermeneutica rappresentato dall'abuso
del diritto - utilizzato dal Tribunale per negare nel caso concreto la tutela dell'esercizio del diritto
stesso, e anzi per convertire detto esercizio, oltre che in un inadempimento tributario, in un illecito
penale - sia applicabile nella fattispecie, e prima ancora, in genere, nel settore penale.
96
L'abuso del diritto è uno strumento di concretizzazione, e quindi di circoscrizione della efficacia
della norma che ha natura generale ed astratta, utilizzato sia nel campo processuale sia in quello
sostanziale. Un recente esempio di concretizzazione istruttivo anche per identificare le connotazioni
dell'abuso nel campo sostanziale è costituito, proprio nel processo penale, dalla fattispecie
riscontrata da S.U. 29 settembre 2011 - 10 gennaio 2012 n. 155, per cui l'abuso (in quel caso, del
processo, ma la definizione è valevole, appunto, altresì per l'abuso di un diritto sostanziale) consiste
in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza quando un
diritto è esercitato per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento astrattamente lo riconosce al
titolare, il quale non può in tal caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non
erano in realtà effettivamente perseguiti.
Lo sviamento come contenuto dell'abuso di per sè conduce agevolmente all'elusione: una norma
viene utilizzata per uno scopo diverso da quello in essa insito, sfigurandone la ratio, per stornare
l'applicazione di un'altra norma. Un'ampia giurisprudenza nel settore tributario si è avvalsa di
questo passepartout ermeneutico per contrastare condotte dirette ad inadempiere in questo modo
"mascherato" l'obbligo tributario, individuando nell'articolo 53 Cost. (laddove impone a tutti di
contribuire secondo la propria capacità) un principio generale antielusivo (S.U. civ. 23 dicembre
2008 n. 30057), ed enucleando attività elusive, e dunque non opponibili all'erario, laddove sussista
un uso distorto, anche se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici
idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economicamente
apprezzabili dell'operazione diverse dalla mera aspettativa del "beneficio" tributario (in tal senso da
ultimo Cass. civ. sez. 5^, 5 gennaio 2014 n. 653; tra gli arresti più recenti v. pure Cass. civ. sez. 5^,
30 novembre 2012 n. 21390, per cui in materia tributaria costituisce condotta abusiva l'operazione
economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo elusivo del fisco,
cosicchè il divieto di tali operazioni non opera soltanto se queste possono spiegarsi altrimenti che
con il mero conseguimento di risparmi d'imposta).
Peraltro, tali sviluppi interpretativi si nutrono anche di norme ordinarie specificamente antielusive,
come il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e soprattutto art. 37 bis. Quest'ultima
disposizione, al suo primo comma, fornisce una descrizione definitoria dell'attività elusiva fiscale,
rendendo inopponibili all'amministrazione finanziaria "gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra
loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti
dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzione di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti". E una
siffatta attività è valutata dalla giurisprudenza tributaria come oggettivamente sufficiente per
integrare l'elusione, non occorrendo connotazioni fraudolente in senso proprio (Cass. civ. sez. V, 8
aprile 2009 n. 8487 insegna che la norma antielusiva di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis,
non presuppone un comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato
o deviante - perchè non sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale - di un
legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale proprio
dell'operazione che costituisce il presupposto d'imposta; nello stesso senso, più di recente, Cass. civ.
sez. 5^, 10 giugno 2011 n. 12788).
E' il caso di rammentare, infine, che il contrasto, interpretativo e normativo, attuabile dagli Stati
membri della Comunità Europea, come contro le evasioni fiscali, anche contro le elusioni e le
pratiche abusive che si avvalgono pure del diritto comunitario è incoraggiato quale obiettivo
positivo sia dalla Comunità stessa (cfr. direttiva 2006/112) sia da varie pronunce della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee (v. da ultimo le sentenze 13 febbraio 2014, Maks Pen EOOD, C-
18/13; 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; 29 marzo 2012, 3M Italia S.p.A., C-417/10; 21 febbraio
2008, Part Service Srl. C- 425/06, per cui può essere pratica abusiva quella in cui il perseguimento
97
di un vantaggio finale è lo scopo essenziale dell'operazione, nonostante l'esistenza eventuale di altri
obiettivi economici), a condizione comunque che la normativa interna non ecceda a quanto
necessario per il conseguimento dell'obiettivo suddetto (v.
sentenza 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading Kft, C-563/12).
3.2.4 Occorre a questo punto richiamare la indiscussa indipendenza sistemica tra il settore penale e
quello tributario, potendosi identificare nell'articolo 20 d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 un vero e proprio
principio di reciproca indipendenza tra il procedimento penale e il processo tributario (cfr. da
ultimo, proprio a proposito di una fattispecie elusiva, Cass. sez. 2^, 22 novembre 2011-28 febbraio
2012 n. 7739, in motivazione) che la giurisprudenza ha recepito in modo ormai consolidato,
evidenziando come l'accertamento del reato tributario prescinda da quello del credito erariale,
potendo pervenire anche alla sua contraddizione, non sussistendo alcun vincolo del giudice penale
rispetto all'accertamento tributario, e al contrario spettando esclusivamente al giudice penale anche
di accertare e determinare l'importo della imposta evasa ai fini di valutare la concreta
configurabilità del reato tributario (Cass. sez. 3^, 2 dicembre 2011-14 febbraio 2012 n. 5640; Cass.
sez. 3^, 7 ottobre 2011 n. 36396; Cass. sez. 3^, 28 maggio 2008 n. 21213).
La translatio, pur effettuata, del principio antielusivo dal campo tributario ai reati finanziari e
tributari ha richiesto, allora, un suo ridimensionamento, per depurarlo da un tasso di duttilità che
avrebbe potuto renderlo intollerabilmente amorfo rispetto ai canoni costituzionali penali, vale a dire
confliggente con l'impostazione penale del vincolo della legalità, intesa nel senso di determinatezza
e tassatività, che frena, nell'estrapolazione, dalla congerie delle condotte attuabili, di quelle
penalmente rilevanti, la strutturazione integrativa dell'interprete. Il principio della determinatezza
che governa le potenzialità ermeneutiche con peculiare intensità nel settore penale è infatti
racchiuso nella riserva assoluta di legge che per la fattispecie penale sancisce l'articolo 25, secondo
comma, Cost., ed è diretto ad evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri
manifestato appunto con la riserva assoluta di legge in campo penale, "il giudice assuma un ruolo
creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e illecito", nonchè,
correlativamente, a garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario
della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridiche della sua condotta (così lo
focalizza il giudice delle leggi nella sentenza 327/2008; cfr. pure Corte Cost. 185/1992 e 364/1988).
Rileva ai fini penali, pertanto, una condotta elusiva di imposizione fiscale esclusivamente se si
aggancia ad una norma specifica, che non può essere, per così dire, di gestione ermeneutica, ovvero
una norma "in bianco" da colmare interpretativamente secondo le fattispecie concrete (un esempio
simbolico di norme siffatte nel settore tributario è ravvisabile nella L. n. 212 del 2000, art. 10, il c.d.
Statuto del contribuente, che al primo comma stabilisce che "i rapporti tra contribuente e
amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede"),
bensì una norma che precisamente individui, senza alcuno spazio identificativo rimesso
all'interprete, la condotta criminosa che, sul piano amministrativo tributario, coincide anche con una
condotta elusiva. Se, infatti, in via generale, il rispetto del principio di determinatezza della norma
penale emerge contestualizzando gli elementi costitutivi della fattispecie tra essi reciprocamente e
nella disciplina in cui la fattispecie si inserisce (da ultimo Cass. sez. 1^, 13 luglio 2012 n. 42130 e
Cass. sez. 5^, 13 giugno 2012 n. 36737) così che, come accade per le espressioni sommarie e i
vocaboli polisensi, il ricorso a clausole generali o a concetti elastici non comporta alcun vulnus del
suddetto parametro costituzionale, potendo il giudice esprimere un giudizio di corrispondenza della
fattispecie concreta alla fattispecie astratta in base a un fondamento ermeneutico controllabile (v.
ancora Corte Cost. 327/ 2008, sulla linea di Corte Cost. 5/2004, Corte Cost.
98
34/1995, Corte Cost. 122/1993, Corte Cost. 247/1989, Corte Cost. ord. 395/2005, Corte Cost.
ord.302/2004 e Corte Cost. ord. 80/2004), nell'ipotesi in esame è proprio la contestualizzazione
(comportante il riscontro dell'esistenza del diritto che si prospetta abusato) che introduce in una
tematica ambigua e di problematica comprensione qualora si intenda fondare la fattispecie
criminosa soltanto sull'abuso di un diritto riconosciuto dall'ordinamento, in difetto di norme che
identifichino con esattezza il confine di tale diritto - ovvero il confine tra lecito ed illecito, che non
deve essere individuato, si è visto, dall'interprete ma dal legislatore - determinando dove viene
meno perchè incompatibile, appunto, con una specifica norma, o penale o integrativa del contenuto
della norma penale (sul fatto che la norma penale possa essere integrata da norme extrapenali cfr. da
ultimo Corte Cost. 21/2009). L'abuso di un diritto come fonte di illecito penale, nel caso in esame,
non può quindi fondarsi sulla base di una composizione logica di elementi sistemici effettuata
dall'interprete, bensì occorre che trovi specifico sostegno in una norma penale oppure in una norma
antielusiva tributaria.
Partendo dunque dalla inattribuibilità di valore probatorio della sussistenza di un reato a una
condotta elusiva in campo tributario (in tal senso Cass. sez. 3^, 26 novembre 2008-2 aprile 2009 n.
14486, per cui nei reati finanziari e tributari la figura del c.d. abuso del diritto, qualificata
dall'adozione, allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, di una forma giuridica non corrispondente
alla realtà economica, non ha valore probatorio perchè implica una presunzione incompatibile con
l'accertamento penale, mentre è utilizzabile in sede tributaria come strumento di accertamento
semplificato nel contrasto all'evasione fiscale), si è pervenuto a collocare la condotta di elusione sul
piano della integrazione diretta della fattispecie penale qualora coincida, per la sua conformazione,
o con il contenuto della norma penale in questione o con la violazione di una specifica norma
tributaria antielusiva che consente appunto di identificare la condotta criminosa. Una chiara
giurisprudenza di questa Suprema Corte in tal senso si è sviluppata per le fattispecie di cui al D.Lgs.
n. 74 del 2000, artt. 4 e 5, che si è ritenuto possano essere integrate "anche da comportamenti
elusivi posti in essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi dall'utilizzo in modo distorto di
strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente
apprezzabili che possano giustificare l'operazione, a condizione che sia individuata la norma
antielusiva, specificamente prevista dalla legge, violata" (così da ultimo Cass. sez. 3^, 12 giugno
2013 n. 33187; conforme Cass. sez. 3^, 6 marzo 2013 n. 19100, a proposito del reato di
dichiarazione infedele dei redditi): norme che, in questo caso, sono state ravvisate nel D.P.R. n. 600
del 1973, art. 37, comma 3, e art. 37 bis, (cfr. Cass. sez. 3^, 23 maggio 2013 n. 36894 e Cass. sez.
2^, 22 novembre 2011-28 febbraio 2012 n. 7739).
3.2.5 Quanto sinora osservato significa che, per integrare una fattispecie penale, non è sufficiente
che la condotta posta in essere - la quale formalmente costituisce l'esercizio di un diritto - abbia
(come "motivo" in termini civili, come elemento psicologico intenzionale, in termini penali)
esclusivamente lo scopo di ridurre o risparmiare in ordine ad una debenza tributaria che l'agente
comunque deve assolvere, attraverso tale esclusività scollegandosi dalla ratio normativa, cioè dal
fondamento di tutela di beni/interessi per cui il diritto viene riconosciuto. E ciò comporta che
l'esercizio del diritto a porre in essere una determinata condotta (nel caso di specie, del diritto di
avvalersi della libera circolazione delle merci nell'ambito della Comunità Europea sancito dall'art.
95 del Trattato) non viene circoscritto nel suo ambito d'applicabilità, e anzi tramutato in condotta
penalmente illecita, soltanto se lo scopo per cui l'agente se ne avvale è un proprio vantaggio
tributario.
Acquisire un vantaggio tributario, di per sè, non rende quindi illecita la modalità dell'acquisizione.
Occorre invece un'integrazione normativa, nel senso di una norma specifica che confini lo spazio
99
d'esercizio del diritto in questione e che sia appunto incompatibile con un esercizio finalizzato
esclusivamente al vantaggio fiscale, la quale faccia pertanto venir meno la riconducibilità della
condotta al reale esercizio di un diritto, convertendola in abuso del diritto, cioè in illecito.
Il Tribunale, nel caso di specie, non si è confrontato realmente con questi presupposti normativi,
limitandosi ad una generica considerazione di elementi che ha definito sintomatici dell'abuso di
diritto, quale "il fine abusivo esclusivo" - così identificando tout court, erroneamente per quanto si è
appena rilevato, il fine del vantaggio fiscale in un fine abusivo -, l'aspetto strutturale - che a ben
guardare coincide con il precedente elemento, perchè plasmato dall'unico fine del risparmio del
tributo - e l'aspetto teleologia) - che ancora una volta altro non è che "il risparmio indebito
d'imposta". Detti elementi, come si è ora evidenziato, in realtà sono ipostasi di un unico elemento
che, ad avviso del Tribunale, rende abusivo, nel senso di penalmente rilevante (il Tribunale non
distingue l'elusione tributaria dalle fattispecie penali), l'esercizio del diritto di libera circolazione
delle merci nell'ambito della Comunità Europea: lo scopo di deminutio del debito tributario. Non si
pone il Tribunale il quesito sulle condizioni per cui I1 "esercizio" (in tale eventualità, apparente) di
un diritto possa eventualmente coincidere con un'evasione fiscale penalmente rilevante, nè
considera che, se vi è il diritto di libera circolazione delle merci nella Comunità Europea il suo
esercizio non può logicamente non includere anche la scelta fiscale correlata, in difetto di norme a
ciò ostative che dovrebbero comunque non confliggere con l'articolo 95 del Trattato comunitario (si
ricorda che l'IVA correlata all'importazione di beni da altro Stato membro della comunità Europea -
nel caso di specie, il velivolo è stato importato in Italia dalla Danimarca - è contributo interno come
l'IVA attinente alle cessioni di beni all'interno dello Stato membro, come affermato dalla nota e
ormai risalente sentenza Drexl, cioè la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del
25 febbraio 1988, C-299/86; conforme, più di recente, la sentenza emessa dalla stessa Corte in data
2 agosto 1993, C-276/91, Commissione delle Comunità Europee e. Repubblica francese).
Non sussistono, in effetti, norme che predeterminano che lo Stato in cui viene importato il bene
deve coincidere con quello in cui risiede il soggetto che ne acquisisce poi la reale disponibilità. La
fattispecie, dunque, non ha riscontro in una specifica normativa antielusiva, e pertanto, a fortiori,
non può avere rilievo penale.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha già chiarito, invero, che la scelta di uno Stato
attraverso il quale introdurre il bene nella Comunità Europea, anche se - come contestato nel caso di
specie - è derivata esclusivamente dal fatto che in tale Stato il regime fiscale è più favorevole, non
costituisce abuso ma esercizio del diritto di libera circolazione delle merci di cui all'art. 23 Trattato
CE e dei capitali di cui all'art. 56 Trattato CE (in tal senso la già citata Cass. sez. 3^, 26 novembre
2008-2 aprile 2009 n. 14486, che richiama tra l'altro la sentenza della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee del 9 marzo 1999, Centros Ltd., C-212/97, relativa all'esercizio del diritto di
stabilimento, per cui la scelta di uno Stato membro per costituirvi una società in quanto le sue
norme del diritto societario sono meno severe rispetto a quelle degli altri Stati membri non
costituisce di per sè un abuso del diritto di stabilimento ex art. 43 e ss. Trattato CE, anche se ciò non
toglie allo Stato membro interessato, tra l'altro, il potere di emanare norme antielusive se emerge
trattarsi di scelta fraudolenta per eludere le obbligazioni della società e/o dei soci verso creditori
pubblici o privati stabiliti nel territorio dello Stato membro interessato; sempre a proposito
dell'esercizio del diritto di stabilimento risulta significativa per le questioni in esame altresì la
sentenza 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e a., C-196/04, per cui la mera circostanza che
una società istituisca uno stabilimento secondario - per esempio, una controllata - in uno Stato
membro diverso da quello in cui ha sede non può fondare una presunzione generale di frode fiscale,
nè giustificare una misura che pregiudichi l'esercizio di una libertà fondamentale garantita dal
100
Trattato, pur dovendosi ritenere una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento
giustificata dallo scopo di contrasto contro pratiche abusive allorquando concerne specificamente
costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economiche, finalizzate ad eludere la normale
imposta che avrebbe dovuto essere corrisposta nello Stato interessato, in tal caso trattandosi appunto
di "costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l'imposta nazionale normalmente dovuta").
Non ritiene, poi, questo Collegio di condividere la diversa posizione assunta al riguardo da Cass.
sez. 3^, 9 gennaio 2014 (non ancora massimata). Tale arresto da un lato argomenta sulla questione
di fatto, non presente nell'ordinanza in questa sede oggetto di ricorso, della mancata prova di
iscrizione del velivolo ai pubblici registri e presso l'ente nazionale di volo danesi, e dall'altro, a
parte il profilo dei limiti di detraibilità dell'Iva "assolta a monte", cioè in altro Stato membro della
Comunità Europea, che pure qui non ricorre e sul quale vi è ampia giurisprudenza comunitaria, si
impernia su alcuni elementi tratti dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del
6 novembre 2008, Trespa International BV (C-248/2007) in ordine all'interpretazione del
Regolamento di attuazione del Codice Doganale Comunitario, che attengono, peraltro, all'ipotesi -
qui non emergente come inclusa nel thema decidendum -del trattamento tariffario favorevole
riguardo alla riduzione o la sospensione di dazio in caso di importazione di mercè originaria di
Paesi extracomuni tari per destinazione particolare, per la fruizione della quale l'operatore che
importa o fa importare la merce per immetterla in libera pratica deve ottenere un'autorizzazione
scritta, di cui deve poi, in caso di cessione intracomunitaria della merce, essere in possesso pure il
cessionario (artt. 291 e 297 del Regolamento), fattispecie in cui possono rientrare, ex art. 295 del
Regolamento, gli aeromobili civili. Nello stesso senso della presente decisione si è peraltro posta
anche Cass. sez. 3^, 17 gennaio 2014, n. 13039, ancora non massimata.
Non è, in conclusione, configurabile una sorta di penalmente illecita simulazione complessiva quale
è quella che riscontra il Tribunale laddove afferma che "la fattispecie va ricostruita come una diretta
importazione del bene in Italia dagli Stati Uniti con omesso pagamento dell'Iva all'importazione"
deducendone la qualificazione D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 70, cioè del reato di evasione dell'Iva
all'importazione. Ne discende - assorbendosi così ogni ulteriore questione, incluso l'ultimo motivo
del ricorso - che l'ordinanza, confermando la sottoposizione del velivolo al vincolo, incorre in una
violazione di legge che ne giustifica l'annullamento senza rinvio, nonchè il conseguente
annullamento del provvedimento genetico, con restituzione del velivolo a chi ne abbia diritto.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nonchè il decreto di sequestro preventivo emesso dal
Gip del Tribunale di Cagliari in data 14 maggio 2013 e ordina la restituzione di quanto in sequestro
in favore dell'avente diritto. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 c.p.p..
Così deciso in Roma, il 20 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2014
102
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUPO Ernesto - Presidente -
Dott. SIRENA Pietro Antonio - Consigliere -
Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere -
Dott. FRANCO Amedeo - rel. Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere -
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da
G.C., nata ad (OMISSIS) quale parte
civile in proprio e per conto dei figli minorenni P.A.
R. e P.G.;
nel procedimento nei confronti di:
G.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/06/2011 del Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Avellino;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott.
FEDELI Massimo, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio
del provvedimento impugnato;
udito per l'imputato il difensore d'ufficio avv. Pietro Asta, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Ad G.A. vennero contestati i reati di cui: A) al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1
bis, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, per avere, dopo l'acquisto di eroina in
comune con P.A., proceduto al consumo di gruppo dello stupefacente con il P., in tal modo
detenendo sostanza stupefacente destinata ad un uso non esclusivamente personale (destinata al
consumo comune) e per averla comunque ceduta ai P.; B) all'art. 586 c.p., in relazione all'art. 589
c.p., perchè dal fatto-reato di cui al capo A), era derivata, come conseguenza non voluta, la morte di
P.A., deceduto per edema polmonare acuto conseguente all'assunzione dell'eroina acquistata in
comune con G.A..
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avellino, con sentenza del 28 giugno 2011,
dichiarò non luogo a procedere per i reati di cui ai capi A) e B), perchè il fatto non sussiste,
condividendo l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, anche a seguito delle modifiche
apportate al D.P.R. n. 309 del 1990, dalla legge n. 49 del 2006, l'uso di gruppo di sostanze
stupefacenti non assume rilevanza penale allorquando ricorrano alcune condizioni, che nella specie
erano presenti, sussistendo una comune ed originaria finalità dei due soggetti di acquisto dello
103
stupefacente per destinarlo al proprio fabbisogno personale; la partecipazione di entrambi alla spesa
occorrente; la previsione delle modalità di consumo; la qualità di assuntore in capo all'acquirente e
la cessione della droga direttamente all'altro. Venuta meno la configurabilità del delitto di cui al
capo A), mancava il presupposto del reato di cui all'art. 586 c.p..
2. La parte civile G.C. moglie del P. (costituita anche quale esercente la potestà genitoriale sui due
figli minorenni), propone ricorso per cassazione denunciando inosservanza ed erronea applicazione
della legge penale e deducendo, in particolare, che il c.d. uso di gruppo di sostanze stupefacenti,
nella duplice ipotesi del mandato all'acquisto e dell'acquisto in comune, risulta ora penalmente
sanzionato a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 49 del 2006. Osserva che con l'aggiunta
dell'avverbio "esclusivamente" nel testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), il
legislatore, in coerenza con la ratio legis della riforma diretta a contrastare la diffusione della droga,
ha inteso circoscrivere l'area del penalmente irrilevante a quei limitati casi in cui l'acquisto e la
detenzione sono finalizzati al solo, esclusivo, uso di chi sia trovato in possesso di un minimo
quantitativo di stupefacente. Di conseguenza, si imporrebbe oggi una interpretazione più restrittiva
di quella affermatasi in precedenza, in quanto il c.d. uso di gruppo ontologicamente non può essere
un uso esclusivamente personale. Aggiunge che la tesi dell'irrilevanza penale potrebbe, al più,
valere per l'ipotesi di acquisto e di successivo consumo in comune di sostanze stupefacenti, ma non
anche per quella, ricorrente nella specie, di mandato ad acquistare, che produce un'indebita
diffusione della sostanza stupefacente da chi materialmente acquista la droga a chi si limita ad
assumerla.
3. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza del 16 ottobre 2012, ha
rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione della questione, oggetto di contrasto giurisprudenziale,
relativa alla rilevanza penale del c.d. "uso di gruppo di sostanze stupefacenti" a seguito della
novella legislativa introdotta dalla L. n. 49 del 2006.
L'ordinanza ricorda che la questione era già stata risolta dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4 del
28/05/1997, Iacolare, con l'affermazione del principio che "non sono punibili e rientrano nella sfera
dell'illecito amministrativo di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, l'acquisto e la detenzione
di sostanze stupefacenti destinate all'uso personale che avvengano sin dall'inizio per conto e
nell'interesse anche di soggetti diversi dall'agente, quando è certa fin dall'inizio l'identità dei
medesimi nonchè manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo".
Questa soluzione si fondava sulla omogeneità teleologia della condotta del procacciatore e degli
altri componenti del gruppo, che caratterizza la detenzione nel senso di una comune codetenzione
idonea ad impedire che il primo si ponga in rapporto di estraneità e quindi di diversità rispetto ai
secondi, con conseguente impossibilità di connotare la sua condotta quale cessione.
Il nuovo testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, come modificato dalla L. n. 49 del
2006, però, ora punisce penalmente chi illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che,
sulla base dei parametri indicati, "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale",
mentre il novellato art. 75 sottopone a sanzioni amministrative chi detiene tali sostanze fuori
dall'ipotesi di cui all'art. 73, comma 1 bis, ossia chi le detiene per un uso "esclusivamente
personale". Sono quindi mutate sia la struttura normativa sia quella semantica, perchè, nell'art. 73, è
stato introdotto l'avverbio "esclusivamente" che non esisteva nel previgente art. 75.
L'ordinanza ricorda che alcune decisioni hanno ritenuto che il legislatore ha così inteso reprimere in
modo più severo ogni attività connessa alla circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti
104
e che l'introduzione dell'avverbio "esclusivamente" deve condurre ad un'interpretazione più
restrittiva di quella in precedenza data al sintagma "uso personale", con la conseguenza che la
fattispecie del c.d. uso di gruppo non può più farsi rientrare nell'ipotesi di consumo esclusivamente
personale, stante la quantità e le modalità di presentazione dello stupefacente acquistato.
Altre decisioni hanno invece confermato il precedente indirizzo, ribadendo che il consumo di
gruppo di sostanze stupefacenti, conseguente al mandato all'acquisto collettivo ad uno degli
assuntori e nella certezza originaria dell'identità degli altri, continua a non essere punibile
penalmente. Ciò perchè l'avverbio "esclusivamente" costituisce un'aggiunta ridondante, superflua e
pleonastica. Inoltre, la preliminare adesione dei partecipanti al progetto comune di fare dello
stupefacente un uso esclusivamente personale, esclude che chi acquista su incarico degli altri si
ponga in una posizione di estraneità rispetto ai mandanti.
4. Con decreto in data 12 novembre 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni
Unite penali, fissandone per la trattazione l'odierna udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: "se,
a seguito della novella introdotta dalla L. n. 49 del 2006, il consumo di gruppo di sostanze
stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato all'acquisto o dell'acquisto comune, sia o meno
penalmente rilevante".
2. La questione si risolve, in sostanza, nello stabilire se il precedente diritto vivente, per come
affermato dalla unanime e costante giurisprudenza a seguito della sentenza delle Sezioni Unite ric.
Iacolare del 1997, abbia subito modifiche per effetto delle norme recate dalla L. 21 febbraio 2006,
n. 49. E' quindi necessario richiamare, sìa pur brevemente, l'evoluzione normativa e
giurisprudenziale sul punto.
E' stato esattamente rilevato che la locuzione "consumo o uso di gruppo" è fuorviante, sia perchè
eccessivamente generica e comprensiva di situazioni eterogenee, sia perchè si incentra sul momento
finale del consumo della sostanza stupefacente, mentre l'aspetto rilevante è quello iniziale
dell'acquisto, oltre a quello successivo della detenzione. In realtà, quando si parla di consumo di
gruppo, si fa di solito riferimento a due diverse situazioni: a) a quella in cui due o più soggetti
acquistino congiuntamente sostanza stupefacente per farne uso personale e poi la detengano (in
modo indiviso o meno) in una quantità necessaria a soddisfare il fabbisogno di tutti; b) a quella in
cui un solo soggetto acquisti, a seguito di mandato degli altri, sostanza stupefacente destinata al
consumo personale suo e dei mandanti, fra i quali poi la ripartisca.
Peraltro, come si vedrà, alle due situazioni non può darsi un trattamento differenziato sotto il profilo
qui in esame.
3. Il testo originario del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, prevedeva un reato a condotta
plurima, che puniva chi "senza l'autorizzazione coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende,
offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista,
trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per
qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dagli artt. 75 e 76,
sostanze stupefacenti o psicotrope". Il successivo art. 75, poi, estrapolava tre di queste condotte -
105
l'importazione, l'acquisto e la detenzione della sostanza stupefacente - caratterizzate dalla finalità
specifica dell'agente di farne un uso personale e, nell'ambito delle stesse, operava una distinzione tra
illecito penale e illecito amministrativo sulla base del criterio quantitativo della dose non superiore a
quella media giornaliera.
Nella vigenza di questa disposizione, la giurisprudenza assolutamente prevalente riconosceva la
punibilità di entrambe le ipotesi rientranti nel c.d. uso di gruppo, ritenendo che esso integrasse gli
estremi del concorso nel reato in relazione all'intero quantitativo acquistato da o per il gruppo, e non
invece la detenzione di una quota ideale da parte di ciascun componente del gruppo, e che la
ripartizione dello stupefacente tra i codentori importasse una reciproca cessione di parti del
quantitativo codetenuto, simile ad ogni altra forma di cessione. Ciò in quanto la condotta del
singolo codentore era considerata priva di autonomìa, perchè avente ad oggetto gli obiettivi comuni
perseguiti dagli altri (Sez. 6, n. 900 del 19/09/1992, Tognali, Rv. 192060; Sez. 6, n. 7230 del
22/04/1992, Bolognini, Rv. 190709; Sez. 4, n. 9552 del 04/02/1991, Aloisi, Rv.
188196).
4. Per effetto dell'esito referendario sancito dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (con il quale, tra
l'altro, furono eliminate dall'art. 75 cit., la parole "in dose non superiore a quella media giornaliera")
venne meno questa limitazione quantitativa, sicchè le tre condotte contemplate dall'art. 75, ove
finalizzate all'uso personale, vennero interamente attratte nell'area dell'illecito amministrativo
divenendo estranee a quella del penalmente rilevante.
La Corte costituzionale, con le sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996, sottolineò che
l'intervento popolare aveva comportato anche una parziale modifica della stessa strategia di
contrasto della diffusione della droga, nel senso che era stata isolata la posizione del
tossicodipendente e del tossicofilo rispetto ai veri protagonisti del mercato degli stupefacenti,
rendendo tale soggetto destinatario unicamente di sanzioni amministrative, significative peraltro del
perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti. Ciò non sulla base
della situazione soggettiva dell'agente, ma sulla base oggettiva della condotta e dell'elemento
teleologia) della destinazione dello stupefacente all'uso personale. La Corte precisò che in tal modo
il legislatore aveva tracciato "una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che
l'assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione
penale"; e che in "quest'area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti
essendo di norma la detenzione (spesso l'acquisto, talvolta l'importazione) l'antecedente ultimo
dell'assunzione; ed è l'elemento teleologia) della destinazione della droga all'uso personale ad
assicurare (secondo l'id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza" tra detenzione e
consumo.
4.1. Dopo l'abrogazione referendaria, sulla questione oggi in esame si sviluppò un contrasto
giurisprudenziale simile a quello attuale.
Un primo orientamento sosteneva che l'esito del referendum non aveva avuto alcuna conseguenza
sulla punibilità del c.d. consumo di gruppo. Si osservava - con argomentazioni che non appaiono
dissimili da molte di quelle poste ancora oggi a sostegno della tesi più restrittiva - che l'art. 75,
riferendosi all'"uso personale", lascia ben intendere la volontà di circoscrivere, in modo rigoroso,
l'illecito amministrativo soltanto alla persona del "consumatore", al di fuori di qualunque forma di
rapporto con altro o con altri soggetti, che avesse comunque ad oggetto sostanze stupefacenti (Sez.
6, n. 2441 del 25/05/1994, Corba, Rv. 199566); che l'uso di gruppo implica la cessione sia pur
106
parziale della droga a terzi e quindi esclude almeno in parte l'uso personale (Sez. 4, 18/01/1994,
Trainito, non mass.); che la cessione, anche se conseguente ad un acquisto per uso personale proprio
e del cessionario, rientra comunque nelle ipotesi di reato del procurare o del consegnare droga ad
altri (Sez. 4, 02/10/1996, Granata, non mass.; Sez. 4, Trainito, cit); che ogni situazione di acquisto
comune o di codetenzione determina un vincolo solidale tra i membri del gruppo, con una gestione
di fatto societaria, inerente all'acquisto e all'utilizzazione della sostanza, che esula dalla esclusiva
sfera personale a base dell'ipotesi di illecito amministrativo; ciò perchè il coinvolgimento degli altri
soggetti del gruppo conferisce alla detenzione un carattere ultra-individuale, attraverso una
socializzazione della stessa detenzione e del consumo, tale da dover essere apprezzata penalmente
(Sez. 1, n. 5548 del 06/11/1995, Cavessi, Rv. 202938); che tutt'al più la destinazione all'uso di
gruppo potrebbe far ravvisare l'attenuante del fatto di lieve entità (Sez. 4, n. 6895 del 31/01/1994,
Tofani, Rv. 198665).
4.2. Un opposto, e più consistente, orientamento affermava invece che, in base al testo del D.P.R. n.
309 del 1990, art. 75, quale risultante a seguito dell'abrogazione referendaria, l'acquisto congiunto o
su mandato e la codetenzione di sostanze stupefacenti destinate all'uso personale di ciascuno dei
detentori non erano più previsti dalla legge come reato (Sez. 6, n. 1324 del 04/11/1996, dep.
13/02/1997, Deminicis, Rv. 208182; Sez. 6, n. 20692 del 04/11/1994, dep. 28/02/1995, Bertolani,
Rv. 200552; Sez. 6, n. 1948 del 29/11/1993, Molin, Rv. 197092).
Si osservava che tale codetenzione riguarda una situazione di fatto unitaria, caratterizzata da un
rapporto intimo che si stabilisce e si esaurisce fra i soggetti, codetentori di singole quote ideali, dalla
quale non può derivare a priori un concorso nel reato di detenzione di droga a fine di spaccio, nel
presupposto astratto di una presunta cessione reciproca di quote oppure per effetto di una possibile
disponibilità, da parte di ciascun codetentore, dell'intero quantitativo della sostanza stupefacente;
che, infatti, per aversi concorso occorre una prova certa che, travalicando il fatto unitario e le
ragioni specifiche della codetenzione della sostanza, dimostri, in modo concreto ed inequivoco, che
tale situazione, di per sè neutra, sia finalizzata all'attività di spaccio all'interno del gruppo dei
codetentori oppure nei confronti di terzi (Sez. 6, n. 215 del 30/10/1996, dep. 15/01/1997, Lorè, Rv.
207111; Sez. 4, n. 776 del 27/05/1994, Gomiero, Rv. 199553); che la prova certa della destinazione
allo spaccio non può essere desunta nè dal solo quantitativo della sostanza (la cui rilevanza non è
incompatibile con la destinazione all'uso personale), nè dalla consegna ai componenti del gruppo,
dal momento che fin dall'acquisto ciascuno di essi ottiene il possesso e la disponibilità del
quantitativo secondo la quota di spettanza (Sez. 6, n. 1620 del 18/04/1997, Miccoli, Rv.
208289). In particolare, si affermava che la fattispecie deve qualificarsi fin dall'inizio come acquisto
e possesso per uso personale ad opera dei vari interessati della porzione di sostanza destinata al
proprio consumo, rimanendo irrilevante il successivo atto concreto di divisione (Sez. 4, n. 1990 del
12/01/1996, Villani, Rv. 204461; Sez. 4, n. 6994 del 04/05/1994, Bonsignore, Rv. 198676;), il quale
non costituisce una cessione, ma semplice operazione materiale con cui ciascuno viene in possesso
del quantitativo destinato fin dall'inizio al suo uso personale (Sez. 6, n. 10749 del 05/11/1996,
Consoli, Rv. 206334; Sez. 4, n. 1113 del 23/11/1995, dep. 01/02/1996, Matrone, Rv. 204055; Sez.
4, n. 8938 del 14/07/1995, Residori, Rv. 202926; Sez. 4, n. 6483 del 01/03/1995, Muralo, Rv.
201703); che dunque non è punibile chi acquisti o detenga droga su incarico di altri che intendano
farne uso esclusivamente personale quando il soggetto sia anch'egli uno degli assuntori, poichè la
sua azione è intesa all'utilizzo diretto del gruppo, come longa manus del quale egli agisce (Sez. 6, n.
4658 del 21/03/1997, Franzè, Rv.
107
207486; Sez. 4, n. 199 del 19/12/1996, dep. 15/1/1997, Di Stefano, Rv. 207157). Si precisava,
peraltro, che per configurare questa ipotesi e non una cessione, eventualmente gratuita, a terzi,
occorre che ciascun partecipante al gruppo abbia sin dall'inizio coscienza e volontà di acquistare la
propria parte di sostanza stupefacente per destinarla al suo uso personale (Sez. 6, 09/01/1993, Gradi,
non mass.) e che la stessa sia destinata al consumo esclusivo dei partecipanti (Sez. 4, n. 8013 del
12/07/1996, Del Conte, Rv. 205830).
5. Il contrasto, com'è noto, venne risolto a favore dell'orientamento meno restrittivo da queste
Sezioni Unite con la sentenza n. 4 del 28/05/1997, Iacolare, Rv. 208216, la quale affermò il
principio che non sono punibili, e rientrano pertanto nella sfera dell'illecito amministrativo di cui al
D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate
all'uso personale che avvengano sin dall'inizio per conto e nell'interesse anche di soggetti diversi
dall'agente, quando è certa fin dall'inizio l'identità dei medesimi nonchè manifesta la loro volontà di
procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo.
Le Sezioni Unite, dopo avere richiamato quanto evidenziato dalle sentenze n. 360 del 1995 e n. 296
del 1996 della Corte costituzionale in relazione alla "cintura protettiva" riservata al consumo
personale contro i rischi di sanzione penale, osservarono che non ha rilievo penale il consumo
personale e quanto lo precede immediatamente, sempre che si esaurisca nella sfera personale
dell'assuntore e quindi non riguardi la condotta del trafficante o del cedente. Sennonchè, "anche
nell'ipotesi del gruppo la detenzione comunque costituisce l'antecedente del consumo, ed inerisce al
rapporto tra assuntore e sostanza in vista dell'uso personale, con esclusione dell'intermediazione di
soggetti diversi (Corte Cost. n. 296 del 1996), non potendo essere considerati tali quanti detengono
per se stessi e per colui che sin dall'acquisto ha titolo per conseguire l'utilità relativa alla parte della
sostanza a lui destinata". Ciò sempre che l'acquisto e la detenzione avvengano fin dall'inizio per
conto anche degli altri soggetti di cui sia certa l'identità e manifesta la volontà di procurarsi la
sostanza destinata al consumo personale.
La sentenza evidenziò poi che ciò che consente di considerare l'acquisto e la detenzione da parte di
alcuni come antecedente immediato del consumo degli altri è la presenza di una omogeneità
teleologica nella condotta dei primi rispetto allo scopo degli altri:
"solo questa omogeneità impedisce che il procacciatore si ponga in un rapporto di estraneità e
quindi di diversità rispetto agli altri componenti del gruppo, con conseguente connotazione della sua
condotta quale cessione". Dunque, quando l'acquisto avviene per il consumo di ciascun componente
del "gruppo", e quindi dello stesso procacciatore, sulla base di una comune volontà iniziale,
l'omogeneità teleologica caratterizza necessariamente anche la detenzione quale codetenzione, la
quale, in quanto antecedente immediato del consumo di ciascun soggetto, si presta ad una
immediata "dissoluzione" in autonomi rapporti tra singolo soggetto e sostanza, corrispondenti
all'utilità prò quota che ciascuno sin dall'inizio si riprometteva di conseguire.
Di conseguenza, è irrilevante distinguere tra l'ipotesi di acquisto contestuale da parte di più soggetti,
che insieme detengono e poi suddividono la sostanza, e l'ipotesi in cui un componente di un gruppo
acquisti anche per conto degli altri e poi suddivida la sostanza. Ciò perchè entrambe le ipotesi
"attengono pur sempre ad una codetenzione quale antecedente immediato rispetto al consumo da
parte dei componenti del gruppo; con la sola differenza che nel secondo caso l'acquirente-assuntore
agisce sulla base di un mandato ricevuto dagli altri, con effetti però equivalenti quanto ad acquisto
ed a disponibilità della sostanza (vedi: artt. 1388 e 1706 c.c.)". Poichè quindi chi riceve la sostanza
ne è sostanzialmente già proprietario per averla già acquistata come quota di un quantitativo
108
indiviso, la consegna non costituisce cessione o spaccio, ma mera attività esecutiva della divisione
del quantitativo comune. Qualora invece l'acquirente non sia anche assuntore oppure non abbia
avuto alcun mandato, la sua condotta si pone in rapporto di diversità teleologica rispetto agli altri
soggetti, cosicchè egli assume la qualità di cedente e il suo comportamento rientra nello schema del
traffico di droga.
Le Sezioni Unite osservarono altresì che una diversa interpretazione comporterebbe una illogica
disparità di trattamento perchè lo stesso soggetto rimarrebbe esposto a sanzione amministrativa per
la quota destinata al consumo personale ed a sanzione penale per la parte consegnata agli altri
comproprietari assuntori cui era destinata fin dall'inizio. Sottolinearono infine che l'irrilevanza
penale riguarda una condotta incentrata sul consumo personale ed attinente ai "comportamenti
immediatamente precedenti" e strumentali all'assunzione, e perciò da ritenersi estranea "alla
diffusione della droga ovvero all'incremento ed all'incentivo del mercato relativo, proprio perchè
circoscritta alla persona del consumatore", sicchè non è destinatala di quel giudizio di disvalore
comportante l'applicazione della sanzione penale. Il dato quantitativo può essere assunto quale
indice sintomatico di una destinazione ad un uso, in tutto o in parte, non personale, ma non quale
discrimen dell'ipotesi depenalizzata; il che deve valere non solo nel caso di singolo detentore-
assuntore, ma anche "in caso di codetenzione di sostanza destinata ad uso personale da parte di
ciascuno dei detentori".
La soluzione della sentenza Iacolare è stata poi unanimemente condivisa, diventando così vero e
proprio diritto vivente, dalla giurisprudenza successiva, la quale in sostanza, si è limitata a
precisare, nei singoli casi concreti, gli elementi occorrenti per dare luogo al c.d. consumo di gruppo,
escluso dall'ambito penale.
In particolare, è stato, tra l'altro, ribadito che "se l'acquisto e il consumo rimangono circoscritti
all'interno del gruppo degli assuntori, è irrilevante che la sostanza sia detenuta da uno solo di essi, in
quanto l'intero quantitativo è idealmente divisibile in quote corrispondenti al numero dei menzionati
partecipanti, mentre, in difetto, sussiste il reato di cessione, sia pure gratuita, a terzi di sostanza
stupefacente" (Sez. 4, n. 35682 del 10/07/2007, Di Riso, Rv. 237776); e che il c.d. uso di gruppo è
ravvisabile quando l'acquisto e la detenzione della droga, destinata all'uso personale, avvengano sin
dall'inizio per conto e nell'interesse anche di soggetti di cui fin dall'inizio sia certa l'identità e
manifesta la volontà di procurarsi la sostanza per il proprio consumo (Sez. 6, n. 31456 del
03/06/2004, Altobelli, Rv. 229272), sicchè la consegna delle rispettive quote rappresenta
l'esecuzione di un precedente accordo tra l'agente e gli altri soggetti, che non si pongono quindi in
posizione di estraneità rispetto al cedente, bensì come codetentori fin dall'acquisto, eseguito anche
per loro conto (Sez. 5, n. 31443 del 04/07/2006, Roncucci, Rv. 235213; Sez. 4, n. 34427 del
10/06/2004, Inglese, Rv. 229693; Sez. 4, n. 10745 del 29/11/2000, dep. 16/03/2001, Catania, Rv.
218778; Sez. 6, n. 9075 del 04/06/1999, De Carolis, Rv. 214070). Occorre dunque la prova che la
sostanza sia acquistata da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli altri, in vista
della futura ripartizione, "di talchè possa affermarsi che l'acquirente agisca come longa manus degli
altri e che il successivo frazionamento della sostanza acquisita sia solo una operazione materiale di
divisione" (Sez. 6, n. 37078 del 01/03/2007, Antonini, Rv. 237274; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003,
dep. 06/02/2004, Elia, Rv. 229368).
Si afferma generalmente che l'accordo deve avvenire attraverso una partecipazione di tutti alla
predisposizione dei mezzi finanziari occorrenti (Sez. 4, n. 7939 del 14/01/2009, D'Aniello, Rv.
243870;
109
Sez. 6, n. 37078 del 01/03/2007, Antonini, Rv. 237274; Sez. 4, n. 12001 dell'I 1/05/2000, Acqua,
Rv. 217893). Diverse decisioni hanno peraltro precisato che ciò non richiede anche che la raccolta
del denaro sia antecedente rispetto all'acquisto, dal momento che ciò che rileva è la "dimostrazione
dell'esistenza di un preventivo incarico all'acquisto dato dal gruppo ad uno dei partecipanti, in vista
della futura materiale divisione e apprensione fisica della quota di ognuno, dovendo escludersi sia
l'ulteriore condizione del previo versamento della somma necessaria all'acquisto da parte di tutti, sia
la sussistenza di una precedente intesa in ordine al luogo e ai tempi del successivo consumo" (Sez.
6, n. 28318 del 03/06/2003, Orsini, Rv. 225684); essendo invero necessario che la sostanza sia
destinata al comune consumo personale e non anche alla fruizione contestuale (Sez. 4, n. 37989 del
07/07/2008, Gazzabin, Rv. 242015).
Ciò in quanto il preventivo accordo può anche essere tacito ed implicito, potendosi desumere la
volontà comune da elementi sintomatici altri rispetto alla preventiva raccolta del denaro, "quali il
rapporto di amicizia tra l'acquirente e gli altri consumatori, l'effettiva consumazione della sostanza
da parte di tutti quanti nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, l'unicità della confezione
contenente la sostanza" (Sez. 6, n. 29174 del 10/03/2008, Del Conte, Rv. 240580; Sez. 4, n. 4842
del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Elia, Rv. 229368, cit; Sez. 6, n. 43670 del 18/09/2002, Di
Domenico, Rv. 222811; Sez. 6, n. 9075 del 04/06/1999, De Carolis, Rv. 214070).
Se invece il procacciatore non agisca per conto altrui sulla base di un preventivo accordo, o agisca
su mandato di terzi senza essere a sua volta assuntore, viene allora meno quella omogeneità
teleologia che rende assimilabile la codetenzione per uso di gruppo alla detenzione per uso
personale.
6. Come è noto, la legge 21 febbraio 2006 n. 49, di conversione, con modificazioni, del D.L. 30
dicembre 2005, n. 272 (recante "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le
prossime Olimpiadi invernali, nonchè la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno.
Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi") ha apportato alcune modifiche
al t.u.
sugli stupefacenti di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ed in particolare, per quanto qui interessa,
agli artt. 73 e 75. Il nuovo testo dell'art. 73, comma 1, sanziona ora senz'altro come reato il fatto di
chi, senza autorizzazione, "coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in
vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito,
consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope". E' stato poi introdotto un comma
1 bis, dell'art. 73, il quale, alla lett. a), punisce "chiunque, senza autorizzazione, importa, esporta,
acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:... sostanze stupefacenti o
psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del
Ministro della salute..., ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo
complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono
destinate ad un uso non esclusivamente personale". Il previgente testo dell'art. 73, invece, puniva
tutte le medesime condotte poste in essere al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 75, il quale
configurava come illecito amministrativo la condotta di chi, "per farne uso personale, illecitamente
importa, acquista o comunque detiene" sostanza stupefacente (anche in dose superiore a quella
media giornaliera, per effetto dell'esito del referendum). Il nuovo testo dell'art. 75 ora punisce con la
sanzione amministrativa "chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo
o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 73,
comma 1 bis.
110
Pertanto, attualmente, l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti integrano un illecito
amministrativo quando le stesse, sulla base dei criteri indicati, non "appaiono destinate ad un uso
non esclusivamente personale", dovendo perciò ritenersi destinate ad un uso esclusivamente
personale.
E' opportuno ricordare che, per effetto di tali modifiche, non è stata ripristinata la situazione
antecedente al referendum abrogativo e non è cambiata l'opzione di fondo dell'assetto repressivo
delle attività illecite in materia di stupefacenti, consistente nel rinunciare alla sanzione penale per
contrastare il consumo personale (Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv. 251579). Invero, il
superamento dei limiti quantitativi massimi detenibili, previsti ora dall'art. 73, comma 1 bis, lett. a),
non inverte l'onere della prova a carico dell'imputato, nè introduce una presunzione, assoluta o
relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale, bensì
impone soltanto al giudice un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che dagli altri
parametri normativi si debba escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente personale,
pur in presenza del superamento dei suddetti limiti massimi (Sez. 6, n. 12146 del 12/02/2009,
Delugan, Rv. 242923; Sez. 6, n. 39017 del 18/09/2008, Casadei, Rv. 241405;
Sez. 4, n. 31103 del 16/04/2008, Perna, Rv. 242110; Sez. 6, n. 27330 del 02/04/2008, Sejjal, Rv.
240526; Sez. 6, n. 17899 del 29/01/2008, Cortucci, Rv. 239933).
6.1. A seguito di queste modifiche legislative si sono sviluppati, nella giurisprudenza di questa
Corte, due opposti orientamenti interpretativi.
Un primo orientamento è stato espresso dalla sentenza della Sez. 2, n. 23574 del 06/05/2009,
Mazzuca, Rv. 244859, la quale ritiene che il nuovo testo legislativo avrebbe ora reso penalmente
rilevante il c.d.
consumo di gruppo, sia nell'ipotesi del mandato all'acquisto sia nell'ipotesi dell'acquisto in comune.
Ciò perchè sono mutate sia la struttura normativa della disposizione (in quanto ora l'ambito della
non punibilità penale non è indicato dall'art. 75, ma si desume dal combinato disposto dell'art. 73,
comma 1 bis, e art. 75), sia la struttura semantica della frase, in quanto nell'art. 73, comma 1 bis, è
stato introdotto l'avverbio "esclusivamente" che non esisteva nel previgente art. 75. La sentenza
rileva poi che il legislatore ha inteso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla
circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti, tante che ha equiparato ogni tipo di
sostanza. In particolare, l'introduzione dell'avverbio "esclusivamente" assumerebbe "un significato
particolarmente pregnante proprio sotto il profilo semantico perchè una cosa è l'uso personale di
sostanze stupefacenti, altra e ben diversa cosa è l'uso esclusivamente personale, frase che, proprio in
virtù dell'avverbio, non può che condurre ad un'interpretazione più restrittiva rispetto a quella che,
sotto la previgente normativa, veniva data del sintagma uso personale". Di modo che l'uso di gruppo
non potrebbe più farsi rientrare nell'ipotesi di consumo esclusivamente personale in quanto
presuppone, per assioma, l'acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità o per
modalità di presentazione, appare necessariamente destinato ad un uso non esclusivamente
personale. Inoltre, la ratio legis, che è chiaramente quella di rendere più difficile l'acquisto, la
diffusione ed il consumo della droga, porterebbe a ritenere che l'area di esenzione penale sia stata
circoscritta a quei limitati casi in cui l'acquisto e la detenzione siano finalizzati al solo esclusivo uso
di chi è trovato in possesso di un minimo quantitativo di stupefacente. Gli altri casi, come il
consumo di gruppo, restano esclusi da detta area perchè le modalità di acquisto, non essendo
esclusivamente personali, servono a facilitare il consumo e la diffusione della droga, ossia ciò che la
legge ha inteso vietare. Il baricentro della normativa sarebbe stato perciò spostato dal consumo
111
personale al consumatore, nel senso che sfugge alla sanzione penale solo chi detenga un
quantitativo di stupefacente che appare destinato ad essere consumato solo ed unicamente dallo
stesso possessore.
Questa interpretazione è stata poi seguita da altre sentenze successive, ma senza ulteriori
considerazioni (in ordine di anteriorità temporale: Sez. 3, n. 7971 del 13/01/2011, Tanghetti, Rv.
249326; Sez. 3, n. 26697 del 02/03/2011, Simonetti, non mass.;
Sez. 4, n. 46023 del 07/06/2011, Richelda, Rv. 251734; Sez. 4, n. 6374 del 6/12/2011, dep.
16/2/2012, El Janati, non mass.; Sez. 1, n. 33022 del 10/7/2012, Gallone, non mass.; Sez. 4, n.
49820 del 22/11/2012, Bellelli, non mass.).
E' interessante rilevare che tutte le suddette decisioni hanno anche precisato che la novella
legislativa avrebbe in sostanza introdotto in parte qua una vera e propria nuova incriminazione, e
quindi non si applica alle condotte poste in essere prima della sua entrata in vigore (in questo senso,
anche Sez. 4, n. 37989 del 07/07/2008, Gazzabin, Rv. 242015).
6.2. Il medesimo orientamento è stato ribadito da altra decisione, con un più articolato apparato
motivazionale (Sez. 3, n. 35706 del 20/04/2011, Garofalo, Rv. 251228). In primo luogo, questa
sentenza sostiene che deve farsi ricorso ad una interpretazione letterale secondo la volontà del
legislatore ed osserva che le modifiche introdotte dalla L. n. 49 del 2006, ed in particolare l'aggiunta
dell'avverbio "esclusivamente" all'art. 73, comma 1 bis, sono indice di una ratio legis diretta alla
repressione con maggiore severità degli illeciti connessi allo spaccio ed all'uso di stupefacenti. La
novella, quindi, oltre ad introdurre trattamenti sanzionatori più rigorosi, avrebbe anche voluto
contrastare tutte le forme di diffusione degli stupefacenti, ivi compreso l'acquisto finalizzato all'uso
collettivo. L'introduzione in questo modo di una nuova fattispecie incriminatrice non sarebbe in
contrasto con l'art. 25 Cost., per difetto dei requisiti di determinatezza, perchè è stata tipizzata la
condotta monosoggettiva di acquisto di sostanza stupefacente destinata ad uso "non esclusivamente
personale", sicchè sarebbe evidente la criminalizzazione dei comportamenti aventi per oggetto
sostanza stupefacente destinata all'uso "altrui".
In secondo luogo, viene richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1995, la quale
aveva escluso una irragionevole disparità di trattamento tra la condotta, penalmente rilevante, della
coltivazione finalizzata all'uso personale e le condotte di detenzione e di acquisto orientate al
medesimo fine, per la ragione che queste ultime sono collegate immediatamente e direttamente
all'uso personale, il che giustifica un trattamento meno rigoroso. Questa sentenza offrirebbe dunque
un argomento a favore di una interpretazione restrittiva della locuzione "uso esclusivamente
personale", la quale risponderebbe ad una ratio del tutto speciale e specifica e andrebbe perciò posta
in riferimento solo con il singolo autore della condotta tipica.
In terzo luogo, si osserva che la tesi favorevole all'uso di gruppo presuppone una sorta di mandato
di acquisto collettivo, conferito dagli assuntori dello stupefacente ad un appartenente al gruppo,
anche nel suo interesse. Si tratterebbe tuttavia di un mandato in rem propriam avente oggetto illecito
(la cessione di sostanza stupefacente) e, come tale, affetto da nullità radicale, rilevabile d'ufficio, ed
improduttivo di effetti. A siffatto contratto non potrebbe essere attribuito alcun effetto nemmeno sul
versante penale, tanto meno quello di escludere la rilevanza penale per il fatto commesso dai
partecipi al negozio illecito. Tutt'al più il precedente accordo fra gli appartenenti al gruppo potrebbe
avere rilievo sotto il profilo dell'intensità del dolo o ad altri aspetti ex artt. 62 bis e 133 c.p..
112
In quarto luogo, si sottolinea che il preventivo accordo fra gli assuntori di avvalersi di un solo
intermediario incaricato dell'acquisto, consentirebbe il "frazionamento ideale" dell'intera quantità di
stupefacente, acquistata dal mandante al fine dell'uso collettivo, per il numero di partecipanti
all'accordo criminoso, facendo diventare il mandatario soggetto esponenziale del gruppo e
legittimandolo ad acquistare droga per il consumo personale del gruppo stesso. Ciò però creerebbe
uno sfasamento con l'istituto del concorso di persone nel reato, in quanto, a fronte di possibili
condotte di concorso nell'acquisto e nella detenzione della sostanza, l'accordo criminoso finirebbe
per porre nel nulla sia l'acquisto sia la cessione, soltanto in forza di un successivo consumo
collettivo, facendo assurgere il gruppo al ruolo di soggetto collettivo di un'azione scriminata per tale
ragione, in contrasto con la disciplina del concorso di persone nel reato e delle cause di esclusione
dell'illecito. Inoltre, l'operazione di "frazionamento ideale" della quantità detenuta "risulta
scardinare l'elemento espressamente indicato nella disposizione di legge, laddove il giudice deve
valutare proprio le quantità, le modalità di presentazione, ivi compreso il frazionamento, che è
invece radicato sul piano strettamente materiale dell'esame della res".
6.3. Questa interpretazione restrittiva è stata peraltro oggetto di argomentate critiche da parte di un
opposto orientamento, che ha invece sostenuto la perdurante validità, anche dopo le modifiche
recate dalla L. n. 49 del 2006, della precedente consolidata interpretazione ed ha riaffermato il
principio che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato all'acquisto
collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria dell'identità degli altri non è punibile ai
sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (Sez. 6, n. 8366 del
26/01/2011, D'Agostino, Rv. 249000).
Questa sentenza sottolinea innanzitutto la non decisività del criterio che si fonda sulla ratio della
modifica legislativa, dal momento che l'esame dei lavori preparatori non consente di chiarire
univocamente il contesto che ne ha connotato l'approvazione, emergendo dagli interventi dei
parlamentari due antipodiche interpretazioni sul valore e la portata delle modifiche normative in
discussione. In secondo luogo, la sentenza rileva che la modifica della struttura normativa delle
ipotesi di non punibilità e l'introduzione dell'avverbio "esclusivamente" non possono avere portata
innovativa della fattispecie penale e non sono idonee a far ritenere superato il diritto vivente. Nella
novella, infatti, l'avverbio è stato usato due volte (art. 73, comma 1 bis: "destinate ad un uso non
esclusivamente personale"; e art. 75: richiesta dell'interessato di visione o copia degli atti "che
riguardino esclusivamente la sua persona") ed è evidente che in entrambi i casi tale avverbio, di
modo o qualità, è stato usato con funzione e finalità affermativa rafforzativa e non già innovativa.
Per paralizzare la consolidata interpretazione sull'uso di gruppo non era sufficiente l'inserzione
dell'avverbio, ma era invece essenziale una esplicita e non equivoca indicazione, tanto più
necessaria tenuto conto dell'esito del referendum abrogativo del 1993 e tenuto altresì conto che
l'espressione "non esclusivamente personale" ha il medesimo intercambiabile significato di
"tassativamente personale", risolvendosi così in una aggiunta ridondante, superflua e pleonastica.
Inoltre, l'utilizzo della forma indeterminativa "un uso esclusivamente personale" consente
"inquadramenti nell'area di rilevanza meramente amministrativa delle condotte finalizzate all'uso
esclusivamente personale (anche) di persone diverse". Si verserebbe quindi in un "deficit di
determinatezza e di sicurezza ermeneutica" con violazione del principio costituzionale di
precisione, dal momento che se davvero la finalità fosse stata quella di sanzionare l'uso di gruppo,
in entrambe le variabili, essa è stata male espressa, con la conseguenza che, a fronte di un dubbio
interpretativo, deve prevalere l'opzione più favorevole al reo. In altre parole, la norma non è dotata
di un grado di determinatezza sufficiente ad indicare il diverso preteso percorso interpretativo
mentre una eventuale ipotetica intenzione del legislatore di escludere la legittimità, nei termini
indicati dalle Sezioni Unite, del consumo di gruppo, avrebbe dovuto essere affermata in modo
113
esplicito e in termini percepibili da tutti, e "non certo mediante sintagmi, variamente interpretabili, e
con sequenze lineari (sostantivo - negazione - avverbio - aggettivo) in grado di produrre equivoci ed
incertezze che, come tali, vanno necessariamente valutati pro reo". La sentenza quindi ricorda che
l'adesione preliminare al progetto comune e l'originaria destinazione al consumo esclusivo dei
partecipanti rendono inequivoca l'unicità della condotta ed escludono frammentazioni determinate
da ulteriori passaggi.
L'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" non fa venir meno la validità di questa ricostruzione,
poichè anche il consumo di gruppo, così inteso, è una forma di consumo "esclusivamente
personale". L'avverbio ha pertanto il solo significato di confermare che hanno rilevanza penale le
altre condotte di consumo di gruppo in cui più persone, in assenza di un preventivo mandato,
decidano di consumare droga detenuta da uno di loro, in quanto in tale ipotesi il cedente è
originariamente in posizione di estraneità rispetto agli altri assuntori e, quindi, non si concretizza un
"uso esclusivamente personale".
Questo orientamento è stato successivamente confermato da altre decisioni (Sez. 6, n. 17396 del
27/02/2012, Bove, Rv. 252499; Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv. 251579; Sez. 6, n.
21375 del 27/04/2011, Masucci, Rv. 250064; e altre non massimate) sulla base di analoghe
considerazioni. Alcune di queste sentenze hanno peraltro precisato che l'avverbio "esclusivamente"
non riferisce l'uso personale al solo soggetto che detiene la sostanza, ma ha il significato di
segnalare che la non punibilità penale riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi,
ma ad un utilizzo personale di coloro che intendono farne uso, come appunto gli appartenenti al
gruppo. Pertanto, poichè il consumo di gruppo è caratterizzato da una unitaria e genetica
finalizzazione ad un consumo personale di più soggetti previamente definiti, l'aggiunta dell'avverbio
"esclusivamente" non impedisce di apprezzare tale ipotesi come una forma di consumo
"esclusivamente personale" dell'agente e dei suoi individuati mandanti, come tale priva del carattere
dell'offensività.
7. Ritengono le Sezioni Unite che fra i due contrapposti orientamenti debba senz'altro preferirsi il
secondo, che sostiene che il c.d.
consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nel caso di acquisto in comune sia in quello del
mandato all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nell'originaria conoscenza dell'identità degli
altri, continua a costituire, anche dopo le modifiche apportate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, una
ipotesi di uso esclusivamente personale dei partecipanti al gruppo, e quindi integra l'illecito
amministrativo di cui all'art. 75, e non già il reato di cui all'art. 73, comma 1 bis. Non può infatti
ritenersi che tali modifiche, ed in particolare, per quanto qui interessa, l'equivoca e non risolutiva
aggiunta dell'avverbio "esclusivamente", possano essere intese nel senso che abbiano addirittura
introdotto una nuova fattispecie incriminatrice punendo un fatto in precedenza pacificamente
integrante, secondo il diritto vivente, un illecito amministrativo o abbiano comunque determinato la
necessità del superamento della univoca e consolidata giurisprudenza.
Si è invero già rilevato che tutte le decisioni che seguono l'orientamento più rigoristico, precisano
anche che, in forza dei principi sulla successione di leggi penali di cui all'art. 2 c.p., deve escludersi
la retroattività della norma incriminatrice ricavata dalla riformulazione legislativa, facendo quindi
salva, per i casi anteriori alla sua entrata in vigore, la precedente disciplina. Il presupposto di questo
orientamento è quindi che si tratterebbe della vera e propria introduzione, per effetto delle
modifiche legislative, di una nuova incriminazione di condotte in precedenza penalmente irrilevanti.
114
8. Ciò posto, deve innanzitutto osservarsi come non appaiono decisive tutte quelle argomentazioni
che non si fondano, direttamente o indirettamente, sulle modifiche legislative del 2006, ma
ripropongono in sostanza considerazioni già prospettate precedentemente alla sentenza Iacolare e da
questa ampiamente superate, con motivazioni che non sono incise da tali modifiche e che restano
pienamente condivisibili.
Ciò vale, innanzitutto, per l'argomento della nullità, per illiceità, del c.d. mandato collettivo
all'acquisto, conferito dagli assuntori dello stupefacente ad un appartenente al gruppo, anche nel suo
interesse, il quale, avendo ad oggetto una condotta penalmente rilevante, sarebbe illecito e quindi
nullo, ai sensi dell'art. 1418 c.c., comma 2, e art. 1346 c.c., ed improduttivo di ogni effetto. Con
questo argomento si vuole di nuovo mettere in discussione la tesi, già recepita dalla sentenza
Iacolare, che valuta gli effetti di tale mandato alla stregua degli artt. 1388 e 1706 c.c., concernenti
l'efficacia diretta, nei confronti del rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in nome
e nell'interesse del primo e la rtvendicabilità, da parte del mandatario, delle cose acquistate per suo
conto dal mandante. L'argomento, però, non si basa evidentemente sulle modifiche legislative e
pertanto non può comunque costituire indice della introduzione di una nuova fattispecie
incriminatrice.
Esso, inoltre, appare di per sè non decisivo nemmeno ai soli fini ermeneutici, perchè si svolge
interamente sul piano civilistico e non incide, dal punto di vista penalistico, sulla materialità e
finalità delle condotte considerate. D'altra parte, la stessa sentenza Garofalo, che ha riproposto
l'argomento, pur rigettando qualsiasi interpretazione del mandato all'acquisto di gruppo di sostanza
stupefacente che consenta alle parti di giovarsi degli effetti di un contratto nullo per illiceità
dell'oggetto, alla fine suggerisce di attribuire rilevanza ed effetti all'accordo illecito sotto il profilo
della intensità del dolo e del riconoscimento delle attenuanti generiche o della determinazione della
pena. Il che appunto mostra che, se il mandato all'acquisto è nullo ed inefficace sul piano civilistico,
così come del resto è nullo ed inefficace anche il contratto di vendita dello stupefacente, tuttavia la
presenza di un accordo per un acquisto comune non è indifferente sul piano penale perchè concorre
ad individuare e qualificare la finalità della detenzione della sostanza (comunque illecita,
penalmente o amministrativamente). Quel che rileva, invero, non è se il mandato all'acquisto sia o
meno valido ed efficace civilmente, ma se, qualora l'acquisto e la detenzione avvengano anche su
incarico e per conto di altri soggetti, vi sia o meno una omogeneità teleologica delle condotte fra
mandanti e mandatario e quindi se possa o meno configurarsi la destinazione ad un uso
(esclusivamente) personale dei componenti il gruppo.
8.1. Un secondo argomento proposto dalla sentenza Garofalo - anch'esso peraltro non indotto dalla
modifica legislativa e già avanzato dalla giurisprudenza precedente alla sentenza Iacolare - si basa
su una pretesa contraddittorietà tra la rilevanza data all'acquisto su mandato del gruppo e i principi
che sono alla base del concorso di persone nel reato. Ciò perchè il frazionamento ideale della
quantità di stupefacente, acquistata dal mandante al fine dell'uso collettivo del gruppo, per il
numero dei partecipanti all'accordo illecito, utilizzato quale espediente per ripartire l'intera sostanza
acquistata dal mandante in singole dosi ad uso esclusivamente personale, costituirebbe uno
sfasamento dell'istituto del concorso di persone. In questo caso, invero, la disciplina del concorso di
persone, che consente di attribuire rilevanza penale a condotte che rappresentano anche solo una
frazione del fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice, purchè causalmente orientate alla
commissione del reato, verrebbe invece utilizzata per frazionare il fatto commesso tra i partecipanti
all'accordo criminoso, ma al fine di escluderne la rilevanza penale.
115
E' stato però esattamente osservato che questo argomento è perfettamente speculare alla
interpretazione offerta dalla sentenza D'Agostino del 2011, utilizzando i medesimi argomenti e gli
stessi istituti di riferimento al fine di giungere a conclusioni diametralmente opposte, peraltro già
superate dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare del 1997. Non può quindi essere certamente tale
argomento a far ritenere che la riforma del 2006 abbia introdotto una nuova ipotesi di reato che
attribuisce rilevanza penale a comportamenti prima costituenti solo illeciti amministrativi. D'altra
parte, l'interpretazione che qui si preferisce si fonda sulla qualificazione della attività concorsuale
del mandatario e dei mandanti come penalmente non rilevante appunto in quanto condotta
connotata da una "omogeneità teleologia" che rende la sostanza acquistata dal mandatario come sin
dall'origine codetenuta da tutti i membri del gruppo esclusivamente per il loro rispettivo uso
personale. Inoltre, l'ipotesi che sembrerebbe prospettata dalla sentenza in esame di un concorso di
persone nel reato confligge anche con la costruzione della condotta del mandatario come quella
(monosoggettiva) di colui che procurerebbe ad altri la sostanza, in cui i mandanti svolgerebbero un
ruolo equivalente a quello degli acquirenti, nell'ipotesi di spaccio o cessione.
8.2. Certamente non decisivo è poi l'argomento che si basa sul tenore dei lavori parlamentari relativi
alla legge di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, dai quali si dovrebbe evincere con
chiarezza una volontà del legislatore storico non solo di reprimere con maggiore severità i fenomeni
criminali connessi all'uso di sostanze stupefacenti, ma anche, in particolare, di introdurre la
previsione della illiceità penale del mandato collettivo ad acquistare. L'argomento - a prescindere da
ogni considerazione sulla rilevanza del criterio ermeneutico storico con riferimento a disposizioni
penali - è però di scarso momento sol che si consideri la non usuale velocità di approvazione del
nuovo testo normativo e la notevole ristrettezza della discussione parlamentare, ridotta a soli
diciannove giorni tra l'inizio della discussione in aula al Senato (19 gennaio 2006) e la successiva
approvazione definitiva alla Camera (8 febbraio 2006). Com'è noto, la riformulazione del D.P.R. n.
309 del 1990, fu operata per mezzo di un emendamento governativo al testo del D.L. n. 272 del
2005, introdotto in sede di conversione e sul quale inoltre il Governo pose la fiducia. Ne derivò la
mancanza di un approfondito dibattito parlamentare che possa consentire di trarre argomenti
univoci sull'intenzione del legislatore storico, considerata anche la diversità di vedute emergenti
dalla limitata discussione. In realtà, tenuto anche conto del tipo di procedimento legislativo adottato,
dai lavori parlamentari potrebbe desumersi solo un generico intendimento di natura restrittiva circa
le condotte di spaccio. Sulla specifica ipotesi del c.d. consumo di gruppo si riscontrano però
limitatissimi interventi, in cui o si è ritenuto che questo sarebbe rientrato nell'ambito penale
mediante la previsione di soglie quantitative rigide per la detenzione (v. relazione al disegno di L. n.
2953 e intervento sen. Tredese, seduta Senato 26 gennaio 2006), ovvero si è esplicitamente
affermato che l'illecito amministrativo avrebbe dovuto essere limitato al solo consumo
"individuale", nel quale non rientrerebbe il c.d. consumo di gruppo (v. intervento ministro
Giovanardi nella stessa seduta). Pertanto, se pure può ammettersi che l'intenzione emergente da
questi limitati atti fosse quella di criminalizzare l'acquisto e la detenzione per un uso di gruppo, quel
che rileva in questa sede però è soltanto la circostanza che, indiscutibilmente, questa soggettiva
intenzione di alcuni parlamentari non si è tradotta in una espressa ed oggettivamente univoca norma
di legge, sebbene il consolidato diritto vivente escludesse pacificamente la rilevanza penale della
fattispecie.
D'altra parte, nel testo definitivo approvato della legge di conversione, da un lato, le nuove soglie
quantitative non hanno assunto un carattere rigido ai fini della distinzione tra illecito amministrativo
e illecito penale e, da un altro lato, la disposizione continua a parlare di "uso personale", sia pure
con l'aggiunta dell'avverbio, e non di "uso individuale".
116
Va inoltre osservato che anche la ritenuta generica intenzione dei legislatore di inasprire ed
estendere la reazione punitiva verso quaisiasi condotta legata alle sostanze stupefacenti non è di per
sè trasparente, tenuto conto delle antitetiche disposizioni normative che ne sono scaturite. Ed infatti,
se da un lato sono state modificate le preesistenti cornici edittali previste, rispettivamente, per lo
spaccio di droghe pesanti e di droghe leggere, equiparando le due condotte con la previsione di una
cornice edittale unica ed indifferenziata, dall'altro lato è stata attenuata la risposta punitiva proprio
per le condotte più gravi relative alle c.d. droghe pesanti, riducendo il minimo edittale da otto a sei
anni, in contrasto con una pretesa volontà di generale inasprimento punitivo.
8.3. L'argomento principale su cui si basa l'orientamento restrittivo resta dunque quello letterale,
che muove dalla portata innovativa delle modifiche recate con la L. n. 49 del 2006, e precisamente
dal mutamento della struttura normativa delle ipotesi di non punibilità penale (ora desumibili dal
combinato disposto dei novellati art. 73, comma 1 bis, e art. 75) e soprattutto dall'introduzione, nel
testo della prima disposizione, dell'avverbio "esclusivamente", non presente nella disposizione
precedente. Si sostiene che la locuzione "uso non esclusivamente personale", al posto della
precedente dizione di "uso personale", dovrebbe essere interpretata nel senso che le ipotesi
scriminate penalmente si riducano ora ai soli casi in cui la sostanza detenuta possa ritenersi
destinata all'uso esclusivo, ossia individuale, dell'autore della condotta. In altre parole, all'aggiunta
dell'avverbio "esclusivamente" dovrebbe attribuirsi l'inequivoco significato di far considerare
l'aggettivo "personale" come sinonimo di "individuale" e quindi di restringere i confini del
penalmente irrilevante. Di conseguenza, l'uso di gruppo integrerebbe il reato in quanto presuppone
un acquisto ed una detenzione che, per quantità e modalità di presentazione, appaiono
immancabilmente destinati ad un uso "non individuale", e pertanto "non esclusivamente personale".
L'argomento non è però convincente perchè non può ritenersi che questi semplici ritocchi testuali, e
in particolare la sola aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" per caratterizzare la nozione di uso
personale, siano sufficienti per determinare un allargamento dell'area delle condotte penalmente
rilevanti con la previsione di una nuova ipotesi di reato e, comunque, per fare venir meno il
presupposto su cui si fondava il diritto vivente, ossia che nell'acquisto finalizzato all'uso di gruppo
non si verifica alcun tipo di cessione a terzi, ma una mera divisione interna (di cui la consegna non è
altro che una fase esecutiva), che consente a ciascuno di venire in possesso del solo quantitativo di
reciproca pertinenza fin dall'inizio e già da quel momento destinato al rispettivo uso personale.
Deve quindi convenirsi con l'osservazione che l'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" non ha
affatto, di per sè, un significato particolarmente pregnante sotto il profilo semantico, ma ha, al
contrario, un significato quanto meno non univoco, ben potendo il termine essere inteso in una
accezione che permette di continuare a ricomprendervi la codetenzione per uso di gruppo. Non può
invero ritenersi che l'espressione "uso personale" avrebbe un significato completamente differente
da quella di "uso esclusivamente personale", e in particolare che la semplice aggiunta di questo
avverbio comporterebbe che per "uso personale" dovrebbe ora intendersi una cosa diversa, e
precisamente un "uso individuale". In realtà, l'avverbio oggettivamente ha un significato
rafforzativo e pleonastico, e comunque non è idoneo a mutare addirittura il significato assunto in
quel contesto dall'aggettivo cui accede. Nel precedente testo della disposizione con l'espressione
"uso personale" si sono escluse dall'ambito penale e ricomprese in quello amministrativo le ipotesi
in cui lo stupefacente non è destinato, nemmeno in parte, alla cessione a terzi, ma è finalizzato per
intero al consumo personale. Nel caso di uso di gruppo, secondo il diritto vivente, non è ravvisarle
in realtà una cessione a terzi, neppure parziale, e pertanto non sussiste il reato. L'aggiunta
dell'avverbio "esclusivamente", allora, sembra avere avuto l'oggettivo significato di sottolineare che
per escludere il reato è necessario che la droga sia destinata totalmente, per intero, ossia appunto
117
"esclusivamente", all'uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti terzi estranei
all'acquisto ed alla detenzione. L'avverbio, però, non ha modificato il significato e l'ambito
dell'espressione "cessione a terzi" e pertanto non è univocamente idoneo a modificare l'area di ciò
che non è cessione ma "uso personale" secondo la giurisprudenza unanime, e cioè a fare entrare
nell'area della cessione a terzi, sottraendola da quella dell'uso personale, una fattispecie che, per il
diritto vivente, non è qualificabile come cessione a terzi, bensì, stante l'omogeneità ideologica delle
condotte, come una specie del genere "uso personale", e precisamente un "uso personale di gruppo".
E' dunque condivisibile il rilievo che, qualora il legislatore del 2006 avesse davvero voluto in modo
non equivoco punire penalmente condotte fino ad allora non rientranti nelle ipotesi di "cessione" a
terzi dello stupefacente, avrebbe dovuto introdurre la nuova fattispecie di reato in termini espliciti,
chiari, univoci, eventualmente modificando l'ambito della nozione di "cessione", e non limitarsi
invece all'aggiunta di un avverbio non idoneo a mutare il significato proprio che nella disposizione
aveva ed ha, di per sè, l'aggettivo "personale". L'avverbio, dunque, non connota diversamente l'uso
personale nel senso di riferirlo ora al solo soggetto che detiene la sostanza stupefacente, ma ha il
significato di evidenziare che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata
a terzi ma all'utilizzo personale degli appartenenti al gruppo che la codetengono (Sez. 6, n. 3513 del
12/01/2012, Santini, Rv. 251579).
Ciò, del resto, sembra implicitamente ammesso anche dalla tesi secondo cui l'uso di gruppo sarebbe
ora punibile perchè l'espressione "uso non esclusivamente personale" dovrebbe intendersi nel senso
di "uso non individuale". Con ciò, invero, si finisce per riconoscere, appunto, che se si fosse voluto
introdurre una nuova fattispecie di reato si sarebbe dovuta mutare la disposizione in modo
inequivoco, eventualmente sostituendo quanto meno il termine "personale", e non invece riprodurre
il medesimo aggettivo aggiungendovi un avverbio rafforzativo, non idoneo a mutarne il significato
che pacificamente aveva in quel contesto. Nemmeno può condividersi la tesi secondo cui con
l'aggiunta dell'avverbio il termine "uso personale" andrebbe ora inteso come equipollente di "uso
individuale", perchè con una tale interpretazione si verrebbe in sostanza ad estendere l'ambito di
applicazione di una fattispecie penale ad ipotesi che in essa non erano prima comprese, in contrasto
con i principi di tassatività e di legalità e con il divieto di analogia in malam partem.
D'altra parte, e sotto altro profilo, è stato esattamente osservato che il nuovo avverbio è inserito in
una struttura ellittica ed oggettiva, che non connota soggettivamente l'uso da parte del detentore
bensì oggettivamente la condotta detentiva, sicchè, se si considera l'intera locuzione, ben può
ritenersi che esistano casi di detenzione per uso non esclusivamente personale sia individuale, sia
anche di persone diverse. In altre parole, poichè la disposizione non parla di uso individuale e non
limita la caratteristica denotativa della condotta detentiva all'autore singolo, il sintagma "uso non
esclusivamente personale" non è concettualmente incompatibile con il consumo di gruppo, anche
nella forma specifica del mandato ad acquistare. La locuzione può pertanto essere legittimamente
riferita all'uso collettivo che risulti esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga
detenuta da una singola persona sia destinata ad un uso "esclusivamente personale in comune" da
parte di tutti i componenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata.
Nello stesso senso, si è anche rilevato che il ricorso alla forma indeterminativa "un uso
esclusivamente personale" consente l'inquadramento nell'area di rilevanza meramente
amministrativa della condotta finalizzata alla destinazione esclusivamente personale anche di
soggetti diversi dall'acquirente, e quindi, non strettamente limitata all'azione monosoggettiva, ma
obiettivamente estesa anche alle sostanze destinate al consumo altrui.
118
Non può infine ritenersi che la posizione di una nuova fattispecie penale possa desumersi dal fatto
che il nuovo testo legislativo ha ricostruito l'illecito amministrativo in termini di residualità rispetto
all'area di rilevanza penale, con inversione del rapporto logico precedente, essendo ora la fattispecie
penale descritta in modo positivo e quella amministrativa individuata in via sussidiaria.
Invero, la norma penale continua a punire la destinazione ad un uso non (esclusivamente) personale,
ossia ad un uso non personale neppure in parte, mentre nell'ipotesi in esame la detenzione è
immediatamente collegata all'uso (esclusivamente) personale dei singoli mandatari appartenenti al
gruppo.
8.4. Non è decisivo nemmeno l'assunto che, nel caso di acquisto su mandato del gruppo, il
mandatario sarebbe comunque punibile penalmente perchè la sua condotta integrerebbe comunque
la fattispecie del "procurare ad altri" prevista dall'art. 73, comma 1.
Si tratta peraltro di un vecchio argomento che non trova fondamento nelle modifiche legislative
apportate con la L. n. 49 del 2006, dato che la disposizione già in precedenza puniva la condotta di
chi "procura ad altri". La previsione di questo specifico reato è già stata condivisibilmente ritenuta
irrilevante dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare, che ha, appunto,evidenziato come l'acquisto
su previo mandato dei componenti il gruppo esuli dalla fattispecie del procurare ad altri, stante la
qualificazione della condotta come attività immediatamente prodromica al consumo personale di
gruppo.
Le modifiche legislative non hanno specificamente modificato l'ambito della condotta del procurare
ad altri penalmente rilevante e, di conseguenza, non vi sono motivi per disattendere il precedente
orientamento. Inoltre, si è sempre generalmente ritenuto che l'ipotesi del procurare si riferisce
precipuamente alla attività di intermediazione di chi mette in collegamento lo spacciatore con
l'acquirente (cfr. Sez. 6, n. 37177 del 08/07/2008, Mosca, Rv.
241205; Sez. 4, n. 4458 del 02/12/2005, dep. 03/02/2006, Chimienti, Rv. 233240), ossia ad una
condotta diversa da chi acquista per il consumo comune proprio e di altri, su mandato di costoro.
Del resto, se il c.d. uso di gruppo avesse rilevanza penale, esso rientrerebbe nell'ambito della
cessione a terzi o del concorso nella detenzione a fine di spaccio, senza necessità di ricorrere alla
figura del procacciare ad altri.
8.5. Parimenti non condivisibile è l'assunto secondo cui, poichè sarebbe pacifica l'intenzione del
legislatore del 2006 di sanzionare penalmente tutte le condotte dirette alla propalazione della droga
a terzi, di conseguenza anche l'ipotesi del mandato ad acquistare per uso collettivo di gruppo
integrerebbe ora il reato, perchè anche con questa condotta si finisce col realizzare una diffusione a
terzi della sostanza stupefacente. Con ciò però si esprime una valutazione di politica criminale,
irrilevante ai fini di una esegesi corretta e costituzionalmente orientata del quadro normativo penale.
Per il resto, può rinviarsi a quanto si è dianzi osservato sulla circostanza che la volontà obiettiva del
legislatore è stata tutt'altro che univoca ed evidente e che comunque non è stata idonea ad introdurre
una nuova fattispecie penale non essendosi manifestata con la posizione di una chiara e specifica
nuova norma incriminatrice. Si è già ricordato, del resto, che la sentenza Iacolare aveva evidenziato
come la condotta rientrante nel c.d.
consumo di gruppo, essendo incentrata sul consumo personale dei componenti e circoscritta alle
persone dei consumatori, è estranea alla diffusione della droga ed all'incremento del relativo
119
mercato, e quindi non può essere oggetto del medesimo giudizio di disvalore riconosciuto allo
spaccio.
8.6. Un ulteriore argomento, utilizzato dalla sentenza Garofalo, fa richiamo alla sentenza n. 360 del
1995 della Corte costituzionale, la quale aveva escluso una irragionevole disparità di trattamento
nell'attribuzione di rilevanza penale alla sola coltivazione di sostanza stupefacente finalizzata all'uso
personale e non anche alla detenzione ed all'acquisto orientati al medesimo fine. Ciò perchè non
può provarsi che il raccolto sia destinato all'uso personale del soggetto attivo e, comunque, perchè
la coltivazione non è condotta necessariamente prodromica all'uso personale, penalmente
irrilevante, il che spiega l'attribuzione alla stessa della medesima offensività del c.d. spaccio, mentre
le condotte di acquisto e di detenzione sono collegate immediatamente e direttamente all'uso
personale, il che giustifica un trattamento meno rigoroso. Questa pronuncia, secondo la sentenza
Garofalo, affermerebbe implicitamente che dovrebbe attribuirsi rilevanza penale a qualsiasi forma
di diffusione di sostanze stupefacenti, con la conseguenza che la nozione di uso personale dovrebbe
essere interpretata come frutto di una norma eccezionale e specifica, e come tale insuscettibile di
applicazione analogica e di interpretazione estensiva.
Questo argomento - anch'esso peraltro estraneo alle modifiche apportate dalla legge n. 49 del 2006 -
era stato però già superato dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare ed è comunque non decisivo.
Invero, dalle sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996 della Corte costituzionale non si desume
che la norma che esclude la rilevanza penale dell'uso personale dovrebbe essere qualificata come
norma eccezionale. Inoltre, l'ipotesi del c.d. uso di gruppo non può equipararsi a quella della
coltivazione, esaminata dalle sentenze costituzionali, dal momento che l'acquisto e la detenzione al
fine del c.d. consumo di gruppo costituiscono condotte necessariamente ed immediatamente
prodromiche all'uso personale dei soggetti mandatari.
In ogni modo - a parte l'irrilevanza di generiche finalità repressive non tradottesi in puntuali norme
incriminatrici - si è appena ricordato come, secondo la sentenza Iacolare, la presenza di una
omogeneità teleologia delle condotte porta ad escludere che questa specifica ipotesi contribuisca ad
incentivare immediatamente la diffusione dell'uso di droghe negli stessi termini della coltivazione o
dello spaccio.
9. Deve al contrario osservarsi che la considerazione di norme e principi costituzionali offre invece
più di un argomento in favore della tesi che qui si segue della non incidenza delle modifiche
normative del 2006 sulla perdurante esclusione dall'ambito penale di entrambe le ipotesi che si
fanno rientrare nella nozione di consumo di gruppo.
In primo luogo, invero, la sentenza delle Sezioni Unite Iacolare del 1997, le cui conclusioni
vengono qui pienamente condivise e confermate, si era fondata, come dianzi ricordato, proprio sulle
valutazioni ed i principi espressi dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 360 del 1995 e n. 296
del 1996, con le quali si era appunto definito l'ambito delle condotte non rilevanti penalmente e si
era precisato che nell'area della "cintura protettiva" riservata al consumo personale rientrano anche i
comportamenti immediatamente precedenti dell'acquisto e della detenzione. Dal che poi si è
logicamente desunto che anche nell'ipotesi di consumo di gruppo, l'acquisto e la detenzione
finalizzati a tale consumo costituiscono antecedenti immediati e necessari del consumo stesso, e
quindi ineriscono al rapporto del singolo assuntore con la sostanza per l'uso personale, con
esclusione della intermediazione di terzi. Tali considerazioni, relative alla protezione del consumo
personale e dei comportamenti "immediatamente" propedeutici allo stesso, non possono ritenersi
120
superate dalle modifiche normative del 2006, non potendo incidere sotto questo profilo la
previsione di limiti massimi tabellari non aventi natura rigida.
In secondo luogo, l'interpretazione restrittiva delle modifiche portate dalla L. n. 49 del 2006 - ed in
particolare dell'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" e della diversa struttura normativa dei casi
di non punibilità penale - nel senso di escludere che con esse si sia prevista la configurabilità come
reato delle ipotesi rientranti nel c.d. consumo di gruppo, prima pacificamente costituenti illeciti
amministrativi, è l'interpretazione che - stante l'indiscutibile significato quanto meno equivoco delle
espressioni utilizzate - appare più conforme al principio costituzionale di precisione della norma
penale, ed anche ai principi di tassatività, di legalità e di riserva di legge, evitando che sia in
definitiva rimessa al giudice l'enucleazione della norma incriminatrice. E può inoltre ricordarsi che
la Corte costituzionale, già con la sentenza n. 364 del 1988, aveva evidenziato come il principio di
legalità dei reati e delle pene (art. 25 Cost., comma 2) e quello di previa pubblicazione della legge
(art. 73 Cost., comma 3), richiedono che la formulazione, la struttura ed i contenuti delle norme
penali siano tali da rendere le stesse precise, chiare e contenenti riconoscibili direttive di
comportamento. A questi principi non sembra invero corrispondente una interpretazione che
desuma una nuova fattispecie incriminatrice unicamente dall'aggiunta dell'avverbio
"esclusivamente" o da una generica volontà restrittiva del legislatore non esplicitatasi in specifiche
norme punitive.
In terzo luogo, va ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 22 del 2012 (v. anche ord.
n. 34 del 2013), ha evidenziato come "l'esclusione della possibilità di inserire nella legge di
conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all'oggetto e alle finalità del testo
originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo
stesso art. 77 Cost., comma 2, che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge,
formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione,
caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario" (punto 4.2),
anche sotto il profilo della particolare rapidità e della necessaria accelerazione dei tempi del
procedimento. La Corte costituzionale ha riconosciuto che le Camere ben possono, "nell'esercizio
della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che
valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari
difformi nei merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità",
ma ha specificato che "l'innesto nell'iter di conversione dell'ordinaria funzione legislativa può
certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il
legame essenziale tra decretazione d'urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene
interrotto, la violazione dell'art. 77 Cost., comma 2, non deriva dalla mancanza dei presupposti di
necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte (...) ma per l'uso improprio, da parte del
Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo
scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge".
In sostanza, secondo questa sentenza costituzionale, le norme inserite nel decreto-legge nel corso
del procedimento di conversione che siano "del tutto estranee alla materia e alle finalità del
medesimo", sono costituzionalmente illegittime, per violazione dell'art. 77 Cost., comma 2.
Ora, se fosse esatta l'interpretazione che qui non si condivide, si avrebbe che con la legge di
conversione n. 49 del 2006 sarebbe stata inserita nei testo del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, una
nuova norma penale (che trasforma da illeciti amministrativi a illeciti penali le condotte di acquisto
e detenzione di sostanze stupefacenti finalizzate al c.d. uso collettivo o di gruppo), la quale però
potrebbe apparire estranea alla materia e alle finalità del testo originario del medesimo decreto
121
legge, che aveva ad oggetto "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le
prossime Olimpiadi invernali, nonchè la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno.
Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi"; che nel preambolo individuava a
propria giustificazione "la straordinaria necessità ed urgenza di prevenire e contrastare il crimine
organizzato ed il terrorismo interno ed internazionale, anche per le esigenze connesse allo
svolgimento delle prossime Olimpiadi invernali, nonchè di assicurare la funzionalità
dell'Amministrazione dell'interno e di garantire l'efficacia dei programmi terapeutici di recupero per
le tossicodipendenze anche in caso di recidiva"; e che conteneva solo due disposizioni sul recupero
di tossicodipendenti recidivi.
Ne deriva che l'interpretazione che qui è stata adottata, nel senso di escludere che con l'aggiunta
dell'avverbio "esclusivamente" sia stata introdotta una nuova fattispecie incriminatrice, appare
anche quella più corrispondente allo speciale procedimento legislativo prescelto.
10. Deve pertanto concludersi nel senso che le modifiche portate dalla Legge di conversione n. 49
del 2006, al testo del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75, non abbiano inciso sulla correttezza e
validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4 del 1997, Iacolare, in
relazione al c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, in quanto non hanno nè introdotto una
nuova norma penale incriminatrice di questa ipotesi nè determinato una restrizione, rispetto a quella
previgente, dell'area dei comportamenti rientranti nell'"uso personale", trasferendo nell'area
dell'illecito penale le condotte qualificate come finalizzate al consumo personale dei componenti il
gruppo.
Va pertanto confermata la ricostruzione del sistema sanzionatolo su cui si fonda la sentenza Iacolare
e va riaffermato, pur a seguito delle modifiche normative portate dalla L. n. 49 del 2006 al D.P.R. n.
309 del 1990, artt. 73 e 75, che non sono punibili penalmente, e rientrano pertanto nella sfera
dell'illecito amministrativo di cui all'art. 75, l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti
destinate all'uso personale che avvengano sin dall'inizio anche per conto di soggetti diversi
dall'agente, quando è certa fin dall'inizio l'identità dei medesimi nonchè manifesta la loro volontà di
procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo.
Ciò in sostanza perchè l'omogeneità teleologia della condotta dell'acquirente rispetto allo scopo
degli altri componenti del gruppo caratterizza la detenzione quale codetenzione ed impedisce che il
primo si ponga in rapporto di estraneità e quindi di diversità rispetto ai secondi, con conseguente
impossibilità di connotare la sua condotta quale cessione.
Vanno evidentemente confermate le condizioni enucleate dalla sentenza Iacolare ed occorrenti per
dare luogo ad una ipotesi di consumo di gruppo, dal momento che qualora l'acquirente non sia
anche uno degli assuntori oppure abbia effettuato l'acquisto senza averne ricevuto mandato dagli
altri, non sarebbe ravvisabile una omogeneità teleologia tra le condotte e la consegna della droga
sarebbe qualificabile come cessione, sia pure gratuita, o spaccio. Occorre quindi, in sostanza, che
l'acquirente sia uno degli assuntori; che l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri
componenti il gruppo, al cui uso personale la sostanza è destinata; che quindi sia certa sin dall'inizio
l'identità di questi altri soggetti i quali abbiano in un qualunque modo manifestato la volontà sia di
procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi sia di concorrere ai mezzi finanziari
occorrenti all'acquisto. Ricorre invece una normale ipotesi di cessione qualora tutte queste
condizioni non si verifichino, come nel caso in cui il soggetto abbia ceduto per il consumo in
comune sostanza di cui era autonomamente in possesso per averla acquistata senza alcun mandato
122
degli altri, ovvero abbia acquistato su mandato di terzi ma senza essere a sua volta assuntore,
ovvero abbia ceduto parte della droga a soggetti estranei al gruppo dei mandanti.
11. Appare opportuno anche precisare che le ragioni che inducono a preferire questa interpretazione
riguardano entrambe le situazioni che si fanno rientrare nel c.d. consumo di gruppo, e cioè sia
l'ipotesi di acquisto congiunto sia quella di acquisto da parte solo di uno (o alcuni) dei futuri
consumatori su mandato degli altri. Del resto già la sentenza Iacolare aveva evidenziato come
entrambi i casi attengano pur sempre ad una codetenzione quale antecedente immediato rispetto al
consumo da parte dei componenti il gruppo.
Non è quindi condivisibile la tesi che propone una soluzione di compromesso, differenziando le due
ipotesi e limitando l'illecito amministrativo al solo caso in cui i soggetti acquistino congiuntamente
e materialmente la droga. Questa differenziazione potrebbe anzi, nei diversi casi concreti, dar luogo
ad incertezze nell'individuazione del confine tra illecito penale ed amministrativo e comunque
determinare irragionevoli disparità di trattamento.
12. In conclusione, va ritenuta corretta l'interpretazione in base alla quale il giudice del merito ha
dichiarato non luogo a procedere per insussistenza del fatto non essendo ravvisabile nella specie una
condotta di cessione a terzi, mentre, per le ragioni indicate, non può condividersi l'opposta tesi della
punibilità del c.d. consumo di gruppo sostenuta dalla ricorrente. Il giudice ha altresì accertato, con
adeguata motivazione, la presenza (del resto non contestata con il ricorso) delle condizioni
occorrenti per escludere la punibilità.
Il ricorso deve dunque essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento
delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2013
123
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio F. - Presidente -
Dott. DI NICOLA Vito - Consigliere -
Dott. GRAZIOSI Chiara - rel. Consigliere -
Dott. ACETO Aldo - Consigliere -
Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.E.M. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 59/2013 CORTE APPELLO di BOLOGNA, del
24/05/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 02/12/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fimiani Pasquale,
che ha concluso per annullamento con rinvio limitatamente al
trattamento sanzionatorio. Inammissibilità del ricorso nel resto;
Udito il difensore Avv. Pallacani Maria Letizia di Piacenza.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24 maggio 2013 la Corte d'appello di Bologna, in parziale riforma di sentenza
del G.u.p. del Tribunale di Piacenza emessa l'11 luglio 2012 - che aveva condannato S.E.M. alla
pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione e Euro 24.000 di multa per reati di cui al D.P.R. n.
309 del 1990, art. 73, (per avere detenuto e ceduto stupefacenti di tipo cocaina in (OMISSIS) in
zone limitrofe in data anteriore e prossima al 15 ottobre 2010: capo 3), al D.P.R. n. 309 del 1990,
art. 73, (per avere detenuto e ceduto sostanze stupefacenti di tipo hashish e cocaina in (OMISSIS) e
zone limitrofe in data anteriore e prossima al 15 ottobre 2010: capo 4), agli artt. 81 cpv. e 110 c.p., e
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per avere in concorso con altro soggetto e in esecuzione del
medesimo disegno criminoso ceduto hashish e cocaina in Piacenza il 15 ottobre 2010 e in data
anteriore e prossima: capo 5), agli artt. 81 cpv. e 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per
avere in concorso con altro soggetto e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ceduto
cocaina in Piacenza in data anteriore e prossima al 18 ottobre 2010: capo 6), al D.P.R. n. 309 del
1990, artt. 81 cpv. e 73, (per avere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ceduto cocaina
in provincia di Piacenza in data anteriore e prossima al 18 ottobre 2010: capo 7), al D.P.R. n. 309
del 1990, art. 73, (per avere ceduto hashish in Piacenza il 14 e 15 gennaio 2011: capo 32), al D.P.R.
n. 309 del 1990, art. 73, (per avere ceduto hashish in Piacenza in data anteriore e prossima al 15
novembre 2010: capo 33), all'art. 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per avere in concorso
con altro soggetto ceduto hashish a (OMISSIS) e a (OMISSIS) il 16 gennaio 2011: capo 34), all'art.
110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per avere ceduto in concorso con altro soggetto hashish
in Piacenza il 17 febbraio 2010: capo 35), agli artt. 81 cpv. e 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art.
73, (per avere, in concorso con altri soggetti e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso,
ceduto cocaina in Piacenza dal febbraio al marzo 2011: capo 39), al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
(per avere ceduto hashish in provincia di Piacenza fino al 28 febbraio 2011: capo 40), all'art. 81
cpv. c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per avere in esecuzione di un medesimo disegno
124
criminoso ceduto in più occasioni cocaina a un soggetto albanese non identificato, in provincia di
Piacenza anteriormente al 25 marzo 2011: capo 41), all'art. 81 cpv. c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990,
art. 73, (per avere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso in più occasioni ceduto a tale
N.F. cocaina e hashish in Piacenza e provincia in data anteriore e prossima al 10 marzo 2011: capo
42), al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per avere offerto in vendita al suddetto - che anticipava Euro
350 - cocaina e hashish in Piacenza l'11 marzo 2011: capo 43), all'art. 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, (per avere in concorso con altri soggetti ceduti hashish e cocaina in Piacenza nelle
date sopra riportate: capo 44), all'art. 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (per avere in
concorso con altri soggetti acquistato e trasportato cocaina, in Milano, Lodi e Piacenza l'11 marzo
2011: capo 45); il tutto contestato con recidiva specifica, reiterata, infraquinquennale -, ha assolto
l'imputato dai reati di cui ai capi 33 e 41 perchè il fatto non sussiste, riqualificato il reato di cui al
capo 40 in offerta in vendita, dichiarato assorbito il reato di cui al capo 42 in quello di cui al capo
44 e rideterminato la pena in cinque anni di reclusione e Euro 22.000 di multa.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di cinque motivi.
Il primo motivo denuncia vizio motivazionale in ordine alla responsabilità dell'imputato per i reati
di cui ai capi 4,3, 5 e 7;
il secondo motivo denuncia violazione di legge e mancanza di motivazione quanto ai reati di cui ai
capi 3, 4, 5, 6 e 7 che consisterebbero, come era stato addotto in appello, in un unitario fatto
criminoso; il terzo motivo denuncia violazione di legge penale e vizio motivazionale in ordine al
reato di cui ai capo 40 per cui sarebbe stata erronea la riqualificazione, dovendosi invece assolvere;
il quarto motivo denuncia violazione della legge penale e vizio motivazionale in ordine alla
responsabilità dell'imputato per il reato di cui al capo 43; il quinto motivo denuncia violazione di
legge penale e vizio motivazionale nella determinazione della pena per non essere stata concessa
l'attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e per essere stata riconosciuta
l'aggravante della recidiva ex art. 99 c.p..
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il quinto motivo del ricorso in esame denuncia violazione della legge penale e vizio
motivazionale nella determinazione della pena in concreto applicata, adduce doglianze che
incidono, come esplicita la rubrica del motivo, sulla "determinazione della pena in concreto
applicata", la quale è stata stabilita nel modo seguente:
considerato il reato più grave quello di cui al capo 4 e individuando per esso la pena base di anni sei
e Euro 27.000 di multa - che espressamente viene qualificata "minimo edittale" -, tutti gli altri reati
vengono ad esso avvinti da continuazione con un aumento di mesi 1 e giorni 15 di reclusione
nonchè Euro 500 di multa per ciascuno, così pervenendo a sette anni e sei mesi di reclusione e Euro
33.000 di multa che, applicata la diminuente del rito, diventano cinque anni di reclusione e Euro
22.000 di multa.
4. Le ormai ben note modifiche dell'assetto normativo penale in tema di stupefacenti rispetto
all'epoca in cui il giudice di merito ha, come appena esposto, determinato la pena conducono a
valutare, d'ufficio, la legalità, allo stato attuale, della pena irrogata all'imputato come rideterminata
dal giudice d'appello.
Se, invero, non incide nel caso concreto la riforma del quinto comma del D.P.R. n. 309 del 1990,
art. 73, avendo il giudice di merito accertato la natura non lieve dei reati commessi, diverso è il
discorso per quanto concerne l'intervento della Corte Costituzionale che con la nota sentenza n. 32
del 2014 ha reintrodotto un discrimen tra le tipologie di sostanze stupefacenti, un distinto disvalore
oggettivo cui si connette un diverso trattamento sanzionatorio, ora notevolmente più favorevole per
le droghe leggere rispetto all'epoca in cui è stata pronunciata la sentenza in esame.
In caso di nullità della sentenza impugnata sopravvenuta in forza di dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una norma relativa al trattamento sanzionatorio, il giudice di legittimità deve
125
procedere al rilievo d'ufficio, come è stato specificamente riconosciuto dalla giurisprudenza
nettamente prevalente di questa Suprema Corte, anche a proposito proprio della sentenza n. 32/2014
della Corte Costituzionale (in tal senso Cass. sez. 6^, 5 marzo 2014 n. 13878; ritengono sussistente
l'obbligo di rilievo ufficioso pure in ipotesi di ricorso inammissibile Cass. sez. 6^, 6 marzo 2014 n.
12727, Cass. sez. 4^, 12 marzo 2014 n. 16245, Cass. sez. 4^, 15 maggio 2014 n. 22293, Cass. sez.
4^, 2 luglio 2014 n. 41820 e, in motivazione, le recentissime Cass. sez. 4^, 9 ottobre 2014 n. 47329
e Cass. sez. 4^, 16 ottobre 2014 n. 46395, nonchè, in ipotesi di inammissibilità per manifesta
infondatezza, Cass. sez. 4^, 15 maggio 2014 n. 25216; esclude invece la rilevabilità d'ufficio in caso
di inammissibilità per tardività Cass. sez. 4^, 6 maggio 2014 n. 24638; atrofizzano l'ufficiosità - non
condivisibilmente, dato che attraverso questa si tutela, in ultima analisi, la legalità costituzionale -
esigendo che i motivi originari del ricorso abbiano investito il giudice di legittimità della verifica
motivazionale in tema di definizione della pena Cass. sez. 4^, 12 marzo 2014 n. 24606, Cass. sez.
6^, 20 marzo 2014 n. 15157 e Cass. sez. 6^ 26 marzo 2014 n. 14995; cfr. pure, per diversa
fattispecie, ancora tra i più recenti arresti, Cass. sez. 6^, 16 maggio 2013 n. 21982; ad abundantiam
si rimarca comunque che il ricorso in questa sede esaminato non è inammissibile, bensì meritevole
di rigetto, e ha polarizzato l'ultimo motivo sul trattamento sanzionatorio, anche in termini
motivazionali).
Nel caso di specie, alcuni dei capi d'imputazione contestano come unitari fatti delittuosi che, nella
reviviscenza della c.d. L. Jervolino-Vassalli, più non lo sono, in quanto le relative condotte
riguardano sia droghe pesanti (cocaina) sia droghe leggere (hashish).
Si tratta dei capi 4 - che, ai fini del vincolo di continuazione, è stato identificato come il reato più
grave -, 5, 43 e 44. La sopravvenuta nullità della sentenza in termini di trattamento sanzionatorio
avrebbe pertanto un effetto di reformatio in pejus perchè comporterebbe lo sdoppiamento di questi
capi d'imputazione.
In particolare, il capo 4, una volta sezionato in una duplice fattispecie, giungerebbe ad una pena
detentiva indubbiamente superiore a quella per esso determinata secondo la normativa
costituzionalmente illegittima, che individua come pena base sei anni di reclusione e Euro 27.000 di
multa, laddove per la estrapolata fattispecie esclusivamente di droga pesante la pena minima
dovrebbe essere di otto anni di reclusione e Euro 25.822 di multa.
Non è pertanto riconducibile alla reviviscente disciplina il trattamento sanzionatorio dei capi
d'imputazione suddetti e, per quanto appena osservato, conseguentemente neppure la sanzione
inflitta al reato più grave ex art. 81 c.p., commi 1 e 2.
Non può, peraltro, omettersi di considerare l'incidenza della reviviscenza suddetta sui capi
d'imputazione riguardanti esclusivamente droghe leggere, cioè i capi 32, 34, 35 e 40. Va premesso
che nella sentenza impugnata la pena per ciascuno dei reati satellite è stata determinata,
uniformemente, in un mese e quindici giorni di reclusione e Euro 500 di multa. Si pongono allora
due quesiti.
Il primo quesito concerne la legalità attuale della pena comminata per ciascuno dei reati satellite
senza alcuna distinzione tra quelli attinenti esclusivamente a droghe pesanti (riguardano unicamente
cocaina i capi 6, 7, 39 e 45) e quelli attinenti esclusivamente a droghe leggere. Il secondo quesito
concerne l'incidenza della sopravvenuta reviviscenza del trattamento sanzionatorio relativo ai reati
meno gravi sulla determinazione della pena complessiva in caso di continuazione, pur avendo
quest'ultima preso le mosse come pena base entro la forbice edittale. Forbice edittale che,
ovviamente, deve essere individuata in relazione a quello che è stato considerato il reato più grave
della sequenza continuativa, aumentata sino al triplo.
Riflettendo su tali profili si perviene alle aree giurisprudenziali allo stato più incerte in punto di
trattamento sanzionatorio nei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, dopo la reviviscenza
della L. Jervolino-Vassalli e - fattispecie non certo identica, essendo la perfetta proiezione
retroattiva degli effetti riservata alla dichiarazione di illegittimità (cfr. da ultimo S.U. 29 maggio
126
2014 n.42858) ma non priva comunque, per quanto è qui in esame, di significative affinità - dopo la
novellazione del quinto comma dell'articolo.
5. Sotto un primo aspetto, sussiste difformità in ordine alla legalità della pena come persistente
dopo l'intervento della Corte Costituzionale anche nei reati relativi a droghe leggere nel caso in cui
la pena concretamente determinata vigendo la c.d. L. Fini- Giovanardi si collochi ancora, da un
punto di vista meramente aritmetico, nella forbice edittale ritornata ora in vigore. E alquanto
analogo è appunto il dubbio, in rapporto non alla reviviscenza bensì alla successione delle leggi,
relativamente alla novellazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.
5.1 Un orientamento ritiene che la compatibilità aritmetica sia sufficiente per qualificare tuttora
legale la sanzione anteriormente inflitta, mentre un altro orientamento reputa necessario verificare
nuovamente il valore dosimetrico del reato in rapporto ai mutati, e più favorevoli, minimo e
massimo edittali, anche se ciò può - seppure, logicamente, in termini di probabilità assai limitati -
comportare eventualmente una conferma, da parte del giudice di merito, della pena originariamente
irrogata.
Nel primo senso, qualificabile restrittivo delle conseguenze del riassetto normativo sugli
stupefacenti e, in proporzionalità inversa, estensivo del concetto di pena legale al punto di creare
una sorta di ultrattività, si è collocata anzitutto, tra le pronunce masssimate, a proposito del fatto di
lieve entità, Cass. sez. 3^, 25 febbraio 2014 n. 11110, che in motivazione, dato atto che "la sanzione
prevista dal nuovo reato autonomo è senza dubbio più favorevole per l'imputato", che "la natura di
reato autonomo sottrae poi oggi la norma al bilanciamento con eventuali circostanze aggravanti" e
che essa "punirà in maniera indifferenziata, sia per le droghe leggere che per quelle pesanti, i fatti di
lieve entità si pone il problema del rapporto intertemporale, cioè se possa considerarsi legale la pena
inflitta dal giudice del merito che, quando ha pronunciato la propria sentenza, aveva come
riferimento il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, nel testo previgente, nel seguente modo
risolvendolo nel senso della permanenza della pena adottata prima della lex mitior. "E' fuori
discussione che, ancorchè i fatti siano accaduti sotto la legge previgente, trovi applicazione ai sensi
dell'art. 2 c.p., comma 4, per il principio del favor rei, la più favorevole legge sopravvenuta. Ritiene
tuttavia il Collegio che, a fronte di un'immutata previsione del fatto-reato sanzionato, un problema
di successione di leggi penali nel tempo - e di necessità di ricalcolare una pena divenuta illegale,
con conseguente annullamento del provvedimento impugnato - si ponga soltanto nel caso in cui il
giudice del merito sia partito da una pena base, oggi non più contemplata, superiore a cinque anni di
reclusione. Oppure quando, considerata l'ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5,
circostanza attenuante, ne abbia eliso la portata bilanciandola, in quanto ritenuta minusvalente o
equivalente, rispetto a circostanze aggravanti. Una conclusione in tal senso è conforme alla pacifica
giurisprudenza di questa Corte di legittimità formatasi in materia di ius superveniens per i reati
attribuiti alla cognizione del giudice di pace commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 274
del 2000, che ha affermato che, sulla base della disciplina transitoria ivi prevista, andavano
applicate le nuove sanzioni indicate dal D.Lgs. 274 cit., art. 52, in quanto più favorevoli ai sensi
dell'art. 2 c.p., comma 3. In quel caso la pena applicata dal giudice sotto la legge previgente venne
considerata illegale in quanto non più prevista dalla normativa disciplinante il reato per il quale si
procedeva...Caso analogo è stato quello in cui questa Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di
patteggiamento impugnata con la quale la pena era stata concordata anche tenendo conto della
contestata aggravante di cui all'art. 69 c.p., comma 1, n. 11 bis, dichiarata incostituzionale in epoca
successiva alla pattuizione della pena (sez. 6, n. 4836 del 17.11.2010, Nasri, rv.
248533...Orbene, non pare esservi dubbio alcuno che non si debba rideterminare la pena - e che in
caso di patteggiamento ci si trovi di fronte ad un accordo ancora pienamente valido - quando,
ritenuto il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, si sia rimasti significativamente in prossimità
del minimo edittale, rimasto immutato. Qualche dubbio potrebbe sussistere nei soli casi in cui il
giudice (in proprio o ratificando una pena da applicare sottopostagli) sia partito da una pena base
127
assai vicina ai cinque anni, attuale massimo edittale. Si può ritenere in quel caso, infatti, tenendo
conto anche del caso concreto, che la pena non possa dirsi più attuale in peius per l'imputato,
perchè, quando è stata irrogata, la stessa non costituiva, come oggi, il massimo edittale.
La valutazione andrà, però, operata in concreto, caso per caso, tenendo conto di tutti gli elementi
valutati dal giudice del merito nella dosimetria della pena". (Conforme Cass. sez. 3^, 19 marzo
2014 n. 16699).
Cass. sez. 6^, 4 marzo 2014 n. 13895, anch'essa la fattispecie attenuata del comma 5, ma in
un'ipotesi di patteggiamento, motiva - premettendo che per annullare l'accordo rileva solo la
"illegalità della pena, come risultante dal calcolo posto a base del patto"- nel senso che "del tutto
infondata è la richiesta proposta con la memoria difensiva, di rideterminazione in questa sede della
sanzione, per effetto della sopraggiunta modifica normativa del dettato di cui al cit. D.P.R., art. 73,
comma 5, contenuta nel D.L. n. 146 del 2013, convertito con L. 21 febbraio 2014, n. 10" in quanto
"la determinazione della pena base intervenuta con la novella richiamata non ha prodotto mutamenti
sulla pena minima, suscettibili di incidere sulle modalità di calcolo in concreto, e conseguentemente
tale situazione giuridica non può essere posta a base di una richiesta di annullamento dell'accordo,
poichè non produce illegalità della sanzione".
Susseguono Cass. sez. 6^, 12 marzo 2014 n. 25807 (che, in una fattispecie dell'art. 73, comma 5,
giudica sufficiente l'avere raggiunto "un risultato finale che evidentemente si pone entro i limiti
della forbice edittale, anche in relazione agli effetti della modifica normativa" di cui alla L. n. 10 del
2014, "con l'esclusione di ogni possibile profilo di illegalità della pena"), Cass. i sez. 3^, 3 aprile
2014 n. 26474 (motivata nel senso che la pena anteriormente inflitta dal giudice di merito "non
possa considerarsi illegale; il giudice, infatti, ha assunto quale pena base il minimo della pena
prevista per il reato de quo prima dell'intervento della Corte costituzionale (anni 6 di reclusione ed
Euro 27.000,00); a seguito della reviviscenza del trattamento sanzionatorio previsto prima delle
modifiche apportate dalla c.d. legge Fini - Giovanardi, la pena individuata dal giudice può
considerarsi come legale (per le sostanze stupefacenti contemplate nelle tabelle 2 e 4, infatti, la pena
è da 2 a 6 anni di reclusione e della multa da Euro 5.164,00 ad Euro 77.468,00)"), Cass. sez. 3^, 30
aprile 2014 n. 27066 (per cui, tenuto conto della pena edittale prevista dall'art. 73, comma 5, nella
versione vigente all'epoca della pronuncia stessa "non eccede i limiti legali" il trattamento
sanzionatorio che era stato inflitto agli imputati) e Cass. sez. 3^, 16 maggio 2014 n. 27427 (che
qualifica legale nonostante lo jus superveniens la pena anteriormente irrogata nella misura di due
anni e sei mesi di reclusione ed Euro 10.000 di multa).
Da ultimo, Cass. sez. 3^, 12 giugno 2014 n. 27957, in una ipotesi riconducibile al D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, comma 1, in motivazione così giustifica il suo assunto: "In punto di quantificazione
della pena il Collegio, pur consapevole che la pena base applicata costituisse all'epoca dei fatti il
minimo della pena di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ed oggi, dopo la sentenza della Corte
Costituzionale n. 32/2014 e la conseguente reviviscenza per le droghe c.d. leggere del D.P.R. n. 309
del 1990, art. 73, comma 4, nel testo della c.d. Legge Iervolino-Vassalli, costituisce il massimo,
ritiene che i giudici di merito, investiti della valutazione della pena, abbiano fatto una valutazione di
adeguatezza della stessa che tiene conto dell'entità dello stupefacente sequestrato (da cui potevano
ricavarsi 5787 dosi)".
5.2 Nel secondo orientamento, che intensifica il principio della legalità della pena, si riscontra
anzitutto Cass. sez. 4^, 12 marzo 2014 n. 24606, che, in una ipotesi di reato D.P.R. n. 309 del 1990,
ex art. 73, comma 1, attinente a droga leggera, afferma la necessità di "rivalutazione dosimetrica
della pena, in quanto se questa è stata inflitta discostandosi dal minimo edittale l'entità di tale
minimo costituisce un parametro necessario e determinante per quantificare lo scostamento. In altri
termini, la sopravvenienza della disciplina con un trattamento : sanzionatorio più favorevole,
caratterizzato appunto da un abbassamento del minimo edittale, rilevante sia come pena minima
128
irrogabile sia come parametro per la determinazione di pena che da esso si discosti, impone la piena
rivalutazione di merito della pena applicata in precedenza".
Cass. sez. III, 25 marzo 2014 n.36340, poi, in motivazione, dato atto che dalla dichiarata
illegittimità costituzionale consegue "la disapplicazione, nei processi in corso delle norme
dichiarate incostituzionali, riguardando situazioni anteriori alla decisione della Consulta, opera ex
tunc sulla base di una sorta di retroattività degli effetti della pronuncia d'incostituzionalità, come se
le norme annullate non fossero mai venute alla luce" e che nel caso in esame la pena base scelta
"corrisponde al massimo di quella legalmente applicabile a seguito dell'intervento demolitorio della
Corte costituzionale, pur corrispondendo al minimo edittale della pena ratione temporis applicata",
osserva che "sebbene il trattamento del caso specifico rientri nella forbice edittale di cui alla
restaurata disposizione... tuttavia la declaratoria di incostituzionalità ha determinato un
abbassamento, per le droghe leggere, della pena edittale sia minima che massima, sia detentiva che
pecuniaria, e ciò comporta l'assoluta necessità di una rimodulazione del trattamento sanzionatorio
complessivo nella considerazione che il giudice nel determinare la pena, normalmente valuta, con
riferimento alla congruità in concreto della sanzione irrogata, sia il limite minimo che quello
massimo, avendo come riferimento, per la commisurazione, la pena in astratto stabilita, con la
conseguenza che, mutato il parametro di riferimento, il giudice del merito deve inderogabilmente
esercitare il potere discrezionale conferitogli dagli artt. 132 e 133 cod. pen." tenuto conto che la
discrezionalità giudiziale in materia di commisurazione della pena è "una discrezionalità c.d.
guidata, ossia vincolata, non già assolutamente libera e affrancata da specifici parametri di
riferimento" e che quindi "quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha
il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale", per cui "anche se la
pena base, determinata nel provvedimento impugnato, sia ricompresa tra il limite minimo e quello
massimo previsti dalla disposizione di legge applicata e da quella più favorevole da applicare" a
seguito dell'annullamento dovrà il "giudice del rinvio stabilire se, in conseguenza del trattamento
più favorevole sopravvenuto, la sanzione in concreto irrogata sia o meno congrua in relazione ai
parametri fissati nell'art. 133 cod. pen. e rispettosa dei principi fissati nell'art. 27 Cost., comma 3".
Procedono sulla stessa linea, quindi, Cass. sez. 3^, 3 aprile 2014 n. 21259 (che, in una ipotesi di
patteggiamento per il reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 1, - che prendeva le mosse da
una pena base di sei anni di reclusione e Euro 26.000 di multa per pervenire a due anni e dieci mesi
di reclusione e Euro 9000 di multa - osserva in motivazione che "il reato non può che considerarsi,
quanto alla sua configurazione normativa, in modo globale, tenendo in conto tutto quel che è
necessario normativamente per conformarlo e perseguirlo" per cui "logicamente il fondamentale
parametro ermeneutico del favor rei non può confinarsi al precetto, ma deve estendersi anche
all'aspetto sanzionatorio", pervenendo in sostanza a escludere il rilievo della "assenza, nella
pronuncia impugnata, di violazione dei limiti edittali imposti dalla normativa ripristinata"), Cass.
sez. 4^, 14 maggio 2014 n. 21085 (che in un caso ex art. 444 c.p.p., ritiene illegale la pena applicata
"avendo il giudice a quo recepito l'accordo delle parti formatosi..sui termini edittali sensibilmente
più severi sanciti dalla legge dichiarata incostituzionale"), Cass. sez. 3^, 22 maggio 2014 n. 26346
(ancora per una ipotesi di patteggiamento per il reato ex articolo 73 comma 1 d.p.r.309/1990), Cass.
sez. 4^, 1 luglio 2014 n. 34274 (che in un caso ex art. 73, comma 5, ritiene illegale la pena
patteggiata in quanto determinata assumendo la pena base di anni tre e mesi sei di reclusione ed
Euro 7.500 di multa), Cass. sez. 4^, 17 giugno 2014 n. 30475 (che, trattando due ipotesi D.P.R. n.
309 del 1990, ex art. 73, comma 5, - in una la pena base era stata determinata in un anno di
reclusione e Euro 3000 di multa pervenendo poi a sei mesi di reclusione e Euro 1800 di multa,
nell'altra la pena base era stata determinata in tre anni e sei mesi di reclusione e Euro 3000 di multa
pervenendo a tre anni di reclusione e Euro 2600 di multa - ha ritenuto illegale la pena base in
entrambi i casi).
129
Cass. sez. 4^, 2 luglio 2014 n. 41820, poi, ancora in un caso patteggiato di cui all'art. 73, comma 5,
afferma che - essendo stata la pena base determinata in due anni e un mese di reclusione e Euro
5000 di multa - la pena applicata "deve essere ritenuta non più conforme al quadro normativo,
scaturendo dall'individuazione della pena da applicare nell'ambito di una cornice edittale
significativamente diversa da quella attualmente vigente"; e, richiamati alcuni dei sopra citati arresti
prospettanti un altro concetto di legalità della pena (Cass. sez. 3^, 3 aprile 2014 n. 26474, Cass. sez.
3^, 25 febbraio 2014 n. 11110 e Cass. sez. 6^, 4 marzo 2014 n. 13895), giustifica la sua differente
impostazione adducendo che detta giurisprudenza "mostra di aver ritenuto in una prima fase che
l'accordo concluso tra le parti e ratificato dal giudice in epoca precedente alla modifica normativa
non implica l'applicazione di una pena illegale qualora quest'ultima sia stata comminata in misura
prossima al minimo edittale" e ciò quando "tale minimo era rimasto normativamente imputato
rispetto all'assetto previgente", e che, però, "a seguito della riconduzione del minimo edittale alla
pena di mesi sei di reclusione (oltre la multa)" ulteriori arresti di legittimità "hanno posto l'accento
sulla natura di norma più favorevole della disposizione", con l'effetto di "travolgimento del patto",
in quanto non rispettoso della regola di cui all'art. 2 c.p., comma 4.
Adottano la stessa impostazione pure Cass. sez. 4^, 25 settembre 2014 n. 44181 (che in un caso
analogo a quello di Cass. sez. 4^, 2 luglio 2014 n.41820 conformemente afferma che "dato il più
favorevole trattamento sanzionatorio previsto, dopo la L. n. 79 del 2014...
quanto al minimo edittale, la valutazione operata dal giudice nell'apprezzare la congruità della pena
concordata dalle parti non è più conferente"), Cass. sez. 4^, 9 ottobre 2014 n. 47329 (per cui, in un
caso di patteggiamento per fattispecie di cui al quinto comma dell'articolo 73 sussiste illegalità della
pena in quanto la nuova normativa ha introdotto una "pena edittale evidentemente più favorevole
rispetto a quella che deve presumersi sia stata applicata dalla Corte territoriale" - quest'ultima aveva
posto come pena base tre anni e nove mesi di reclusione e Euro 3000 di multa, conducendola poi a
una pena finale di un anno e dieci mesi di reclusione e Euro 1400 di multa -) e Cass. sez. 4^, 16
ottobre 2014 n. 46395 (ancora in un caso analogo, secondo la quale ora la cornice edittale "prevede
limiti di pena sensibilmente inferiori rispetto a quelli ai quali hanno fatto riferimento le parti nel
concludere l'accordo poi ratificato dal giudice" - si trattava di una pena base di tre anni di reclusione
oltre la multa, in sede finale divenuta un anno e quattro mesi oltre la multa - per cui "la pena
concordata si colloca, per effetto delle sopravvenute modifiche normative, in una diversa fascia del
trattamento sanzionatorio relativo al reato in addebito" e non più congrua).
6.1 Questo contrasto consistente in una diversa concezione dell'incidenza della forbice edittale sulla
legalità della pena concorre, come già più sopra accennato, a originare (dal momento che, su un
piano meramente aritmetico, in relazione agli aumenti per continuazione non è intervenuta alcuna
novità) l'ulteriore contrasto, che si intende proporre al vaglio delle Sezioni Unite, attinente agli
effetti del restyling normativo dei reati in materia di sostanze stupefacenti nel caso in cui questi
costituiscano reati satellite nell'ambito di una fattispecie di continuazione, ponendosi infatti il
quesito se la forbice edittale dei reati satellite abbia incidenza per determinare l'aumento di
continuazione identificando il calibro di disvalore del reato satellite, oppure se debba valutarsi
esclusivamente la forbice edittale del reato più grave, visto il dettato letterale dell'art. 81 c.p.,
comma 1, (che prevede l'aumento sino al triplo della "pena che dovrebbe infliggersi per la
violazione più grave") e in considerazione di una consolidata giurisprudenza nomofilattica che tale
aspetto ha pienamente valorizzato.
L'orientamento più tradizionale nel contrasto che si verrà a esporre si avvince infatti alla
giurisprudenza discendendente da S.U. 27 marzo 1992 n. 4901, che, dovendo risolvere la questione
dell'aumento sulla pena del reato base nel caso in cui il reato satellite non ne condivide la specie di
pena, ha affermato che, se vi è appunto continuazione, il trattamento sanzionatorio originariamente
previsto per i reati satellite non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena
130
prevista per la violazione più grave, senza che incida la "qualità" della pena prevista per i reati
satellite.
Plurimi posteriori arresti hanno ribadito questo insegnamento, evidenziando che il trattamento
sanzionatorio ex articolo 81 cpv.
c.p. disancora i reati satellite dalle rispettive specifiche pene edittali, e si aggancia al criterio
dell'aumento fino al triplo della pena prevista per la violazione più grave, in tal senso costituendo
per essi un "nuovo principio di legalità" (così Cass. sez. 1^, 23 giugno 1992 n. 2957) e
confermando, con riferimento però alla "qualità", ovvero alla "specie e natura diversa" delle
sanzioni originarie dei reati satellite, che l'originario trattamento sanzionatorio di questi non ha più
efficacia nell'ipotesi di continuazione (v. p.es. Cass. sez. 1^, 12 luglio 1994 n. 10333; Cass. sez. 1^,
26 febbraio 1997 n. 1663; Cass. sez. 6^, 12 giugno 1997 n. 11462; S.U. 26 novembre 1997-3
febbraio 1998 n. 15; Cass. sez. 1^, 6 luglio 2000 n. 4862; Cass. sez. 1^, 25 febbraio 2003 n. 32277;
Cass. sez. 1^, 4 giugno 2004 n. 28514; Cass. sez. 1^, 2 aprile 1009 n. 15986).
6.2 Su questa linea, in riferimento specifico ai reati in materia di stupefacenti, si sono quindi
collocate alcune recenti pronunce.
Cass. sez. 6^, 6 marzo 2014 n. 12727 è tra esse quella che più approfonditamente ha esaminato la
questione, ed è stata quindi la radice delle conformi sentenze successive. Secondo tale arresto,
allora, in riferimento a reati D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, con funzione satellitare rispetto a un
reato più grave (nel caso in esame, si trattava di un reato associativo), rimane comunque valida "la
considerazione unitaria del reato continuato agli effetti della determinazione della pena secondo la
quale, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente
previsto per i reati satelliti non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena
prevista". Viene richiamata l'antecedente - già citata - giurisprudenza, per sostenere che, individuata
la violazione più grave, i reati satellite perdonò la loro autonomia sanzionatoria e il relativo
trattamento sanzionatorio "confluisce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti", in
quanto costituisce pena legale "non solo quella stabilita dalle singole fattispecie incriminataci, ma
anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio quali sono,
appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato". Perciò, nonostante nel caso considerato
l'unitario aumento per la continuazione "sia stato frazionato in relazione ai singoli reati", ciò non
scioglie "l'unitarietà dell'incremento stabilito per la continuazione mantenendo la sua completa
autonomia rispetto alla pena edittale" dei reati satelliti. A ciò si aggiunge, sempre secondo questa
pronuncia, l'avere la sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale fatto venir meno il trattamento
sanzionatorio uniformante per ogni tipo di stupefacente per violazione dell'art. 77 Cost., comma 2,
"cosicchè non può ascriversi neanche sotto tale aspetto assiologico alla recentissima decisione
costituzionale una incidenza sulla dosimetria della pena in tema di continuazione" per i reati in
materia di stupefacenti, onde la determinazione dell'incremento continuativo "non ha ragione di
essere riesaminata".
Cass. sez. 6^, 12 marzo 2014 n. 25807 ritiene, poi, che quanto alla legalità della pena nessun rilievo
può assumere "l'applicazione dell'aumento di un mese per la continuazione interna, dovendosi
escludere il riesame della determinazione del relativo incremento, la cui unitarietà non può essere
sciolta poichè nell'istituto della continuazione i meno gravi episodi criminosi perdono la loro
autonomia sanzionatorio e la dosimetria del relativo trattamento confluisce nella pena unica irrogata
per tutte le fattispecie concorrenti", richiamando Cass. sez. 6^, 6 marzo 2014 n. 12727; a questa si
connette pure Cass. sez. 6^, 25 marzo 2014 n. 21608, escludendo appunto "l'esigenza di una
rimodulazione della pena, in relazione alla scissione delle previsioni edittali tra droghe pesanti e
droghe leggere...dato che...un dovere di rideterminazione della pena, con distinzione tra tali due
diverse tipologie di sostanze stupefacenti, non opera quando i fatti siano avvinti dalla
continuazione, perchè, una volta individuata la violazione più grave, i reati meno gravi perdono la
131
loro autonomia sanzionatoria, dovendosi dunque applicare un'unica pena per tutte le fattispecie
concorrenti".
Nella medesima ottica, Cass. sez. 3^, 30 aprile 2014 n. 27066, quanto alla determinazione degli
aumenti al reato più grave, afferma che al riguardo "non hanno inciso nè le modifiche normative nè
la declaratoria di incostituzionalità...sulla legalità della pena" in quanto "una volta ritenuta la
continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati satelliti
non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più
grave, senza che rilevino i limiti legali della pena prevista per i singoli reati satelliti".
6.3 L'impostazione incentrata in tale risoluto modo sul reato più grave, nel senso di svuotare di ogni
caratteristica realmente incidente il trattamento sanzionatorio il reato satellite, è stata espressamente
messa in dubbio da altri recenti arresti, sempre in relazione ai reati in materia di stupefacenti.
Cass. sez. 4^, 28 febbraio 2014 n. 25211, a proposito di reati in materia di stupefacente (cinque, di
cui due attinenti a cocaina, marijuana e hashish e tre ad hashish) avvinti da continuazione con il più
grave reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, con un aumento di quattro anni di reclusione
complessivo, richiamato l'intervento della Corte Costituzionale (sentenza n.32/2014) che ha
recuperato un trattamento sanzionatorio largamente differenziato per i reati concernenti le "droghe
leggere" rispetto a quelli concernenti "droghe pesanti", premesso che dunque per questi ultimi non
sorge problema, per gli altri invece si pone la questione della incidenza sugli aumenti alla pena del
reato più grave. Per "verificare l'applicabilità del mutamento del trattamento sanzionatorio... per la
reviviscenza di una legge anteriore più favorevole, anche all'istituto della continuazione" ritiene di
dover richiamare la giurisprudenza di legittimità relativa "all'entrata in vigore proprio della legge
Fini-Giovanardi che, con riferimento al minimo edittale previsto dalle ipotesi delittuose di cui al
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, avente ad oggetto le c.d. droghe pesanti, aveva apportato un
abbassamento di due anni (da otto a sei anni di reclusione)", in particolare rievocando un arresto
(Cass. sez. 4^, 21 aprile 2006 n. 22824) per cui non era applicabile nel giudizio di legittimità la
legge penale più favorevole poichè nel reato continuato, ai fini del computo della pena, non assume
concreta rilevanza quella stabilita per i reati satellite, essendo per questi l'aumento di pena
determinato solo in relazione alla pena del reato più grave e sulla base di una valutazione di equità,
che tiene conto della gravità del reato secondo i parametri ex art. 133 c.p., e non necessita di
apposita motivazione: da tale principio la sentenza in esame decide di discostarsi, "non perchè si
metta in discussione la correttezza dell'interpretazione" dell'art. 81 cpv.
c.p., quanto alla riferibilità per l'aumento a titolo di continuazione alla pena fissata per il reato
ritenuto più grave, bensì riguardo alla "valutazione di equità" che "non può prescindere,
nell'attribuire al fatto considerato nel suo complesso una maggiore o minore gravità, dalla gravità
dei reati satellite desunta oggettivamente dalla pena per essi prevista. E', dunque, ineccepibile che è
la pena della violazione, ritenuta più grave, come recita la norma, ad essere aumentata, ma è
altrettanto certo che tale aumento, attesa una forbice molto ampia fino al triplo, non può non
considerare la minore o maggiore gravità dei reati ritenuti in continuazione, per attribuire maggiore
o minore gravità al reato continuato, con conseguente congruo aumento della pena base". Va quindi
effettuata tale verifica, dal momento che, con il ripristino della distinzione tra droghe pesanti e
droghe leggere, in ipotesi di contestazione di più episodi di detenzione a fine di spaccio dei diversi
tipi di droga, devono "diversificarsi i corrispondenti aumenti di pena" a titolo di continuazione. Un
aumento minimo "legittimamente potrebbe condurre ad una valutazione di congruità di quella
quantificazione, in quanto ritenuta adeguata al caso e che sarebbe stata tale anche con riferimento al
precedente minimo edittale", non potendo il giudice di legittimità appropriarsi la valutazione
discrezionale della quantificazione della pena rimessa al giudice di merito; ma ciò non toglie che,
"in presenza di un aumento cospicuo titolo di continuazione, vada rivisto il trattamento
sanzionatorio, almeno con riferimento al diverso minimo edittale, più favorevole, per i reati in
continuazione".
132
Esigono poi la verifica degli aumenti per la continuazione in ipotesi di reati satellite attinenti a
droghe leggere con riferimento ai ripristinati minimi edittali pure Cass. sez. 4^, 2 marzo 2014 n.
16245 e Cass. sez. 4^, 12 marzo 2014 n. 24606, ma approfondisce di nuovo la questione Cass. sez.
4^, 25 marzo 2014 n. 22257, che, in ipotesi di reati ex articolo 73 d.p.r. 309/1990 avvinti dalla
continuazione, previo riferimento al principio di legalità della pena, giunge ritenere che "per almeno
una frazione...della risposta sanzionatorio-rieducativa, costituita della pena in concreto inflitta" la
lex mitior impone (non l'obbligo del giudice di rinvio a ridurre la pena, bensì) la rivalutazione, per
cui "non può essere elusa, quale che ne sia il risultato, la necessità di riponderare il punto
concernente la determinazione della pena... avuto riguardo all'aumento per la continuazione".
Richiamati arresti difformi per cui "nel reato continuato, ai fini del computo della pena, non assume
concreta rilevanza la pena stabilita per i reati-satellite, essendo l'aumento di pena per questi
determinato solo in relazione alla pena del reato più grave e sulla base di una valutazione di equità"
non necessitante apposita motivazione, la sentenza in esame afferma che detto orientamento, non
condiviso, "sconta il pedaggio genetico di aver posto a fondamento del ragionamento" S.U. 27
marzo 1992 n. 4901, che risolveva la questione del computo della pena nel reato continuato in
relazione ai reati satellite sanzionati con pena qualitativamente diversa, nel senso che, "una volta
ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i
reati satelliti non esplichi più alcuna efficacia proprio per la ragione che, individuata la violazione
più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, disciplinata e sanzionata diversamente
mediante le regole dettate all'uopo dal legislatore", il che farebbe "perdere notevole consistenza alla
pretesa violazione del principio di legalità, dovendosi ogni norma incriminatrice leggere, per quanto
riguarda l'aspetto punitivo, come se essa contenesse un'eccezione derogativa della sanzione per il
caso che la violazione contemplata vada a comporre un reato continuato". Ma ciò non avrebbe
incidenza, trattandosi di considerazioni aventi "altro scopo rispetto a quello qui al vaglio", cioè
affermare che la continuazione non incide sulla qualità della pena prevista per i reati accessori: "qui
il fulcro del ragionamento, invece, investe territorio logico-argomentativo affatto diverso,
occorrendo chiedersi (e al quesito il Collegio assegna risposta affermativa) se il vaglio in concreto
del disvalore penale del fatto, al quale non può dirsi estraneo il trattamento penale edittale riservato
dalla legge, finalizzato a quantificare l'aumento a titolo di continuazione, debba tener conto del
mutato o più favorevole giudizio di rimproverabilità, scaturito da legge successiva o...dalla
reviviscenza di norma più favorevole, quale conseguenza del giudizio caducatolo della Corte
Costituzionale", Successivamente Cass. sez. 4^, 2 aprile 2014 n. 19267, in una ipotesi di
continuazione con reati satellite D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, relativi a droghe leggere per
ciascuno dei quali era stato assegnato un aumento di un mese e quindici giorni alla pena base per il
più grave reato associativo, ritiene che la cornice edittale di riferimento per i reati satellite ha subito
un mutamento tale che "non possa non attribuirsi rilievo sia pure ai limitati fini... della
commisurazione dell'aumento di pena per la continuazione..., quanto meno nel senso di richiedere
un rinnovato esercizio del potere discrezionale" del giudice di merito entro i limiti e secondo i
parametri ex art. 81 c.p.. Richiamato un contrario precedente (Cass. sez. 4^, 21 aprile 2006 n.
22824), la sentenza osserva che il mutamento della forbice edittale è ben più netto di quello ivi
considerato "e tale con ogni evidenza da ridimensionare parecchio non solo il trattamento
sanzionatorio in astratto previsto per tali fattispecie ma con esso, inevitabilmente, anche lo stesso
loro disvalore su penale". Invero, "se è indubitabile che per effetto del cumulo giuridico cui il reato
continuato è assoggettato, secondo il meccanismo sanzionatorio previsto per il concorso formale...,
una volta individuata la violazione più grave i reati meno gravi perdono la loro autonomia
sanzionatoria e il relativo trattamento sanzionatorio confluisce nella pena unica irrogata per tutti i
reati concorrenti", non può "nemmeno dubitarsi che ai fini della determinazione della complessiva
pena unica...resti comunque necessaria, ai sensi dell'art. 133 c.p., la ponderazione della gravità non
unicamente del reato base ma anche degli altri reati unificati dal vincolo della continuazione";
133
ponderazione che, "ancorchè per implicito,...non può non ritenersi condizionata dal diverso quadro
normativo di riferimento", che all'epoca della determinazione degli aumenti per i reati satellite
"esprimeva per tali fattispecie un giudizio di (dis)valore nettamente più grave e deteriore". Se resta
dunque ovviamente escluso che ciò "possa avere diretta incidenza sul meccanismo di calcolo della
pena (se non nei limiti di cui all'art. 81 c.p., comma 3, trattandosi pur sempre di calibrare solo un
aumento, per ciascuno dei reati satellite, della pena stabilita per la violazione più grave), occorre
tuttavia che ne risultino, sia pure per implicito, considerate le eventuali refluenze sul giudizio di
disvalore della fattispecie ai fini della complessiva ponderazione della pena unitaria secondo il
meccanismo del cumulo giuridico, richiedendo questa ai sensi dell'art. 133 c.p., la considerazione
della gravità del reato che, in ipotesi di reato continuato, è parametro da riferire necessariamente
non solo al reato più grave, ma anche ai reati satellite". Si esprime pertanto un "consapevole
dissenso" da un contrario arresto sulla medesima tematica.
Cass. sez. 4^, 27 maggio 2014 n.36244 è particolarmente apprezzabile sotto l'aspetto sistemico, per
l'inquadramento nei principi basilari dell'ordinamento, anche sovranazionali, e per il richiamo di
giurisprudenza particolarmente significativa (cui ora può aggiungersi S.U. 29 maggio 2014 n.
42858). La pronuncia, dato atto che occorre rispettare i "principi relativi alla successione di leggi
nel tempo dettati dall'art. 25 Cost., art. 7, par. 1, Convenzione Europea sui diritti dell'Uomo e art. 2
c.p. occorrendo, in particolare, tenere presente l'interpretazione della Corte EDU del predetto art. 7,
par. 1, della citata Convenzione Europea, secondo cui il medesimo è comprensivo anche del diritto
dell'imputato di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede
una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza (sentenza Scoppola C/Italia; Corte cost.
210/2013)" e che si è "altresì ritenuto che, a seguito di declaratoria di incostituzionalità di norma
concernente la determinazione della pena, anche in caso di sentenza passata in giudicato è possibile
rimodulare il trattamento sanzionatorio ad opera del giudice dell'esecuzione (sez. 1, n. 977 del 2011,
Rv. 252062: conf., Sez. 1, n. 19361 del 24/02/2012 Cc. - dep. 22/05/2012 - Rv. 253338; si veda
anche Sez. Un. n. 18821 del 24/10/2013 Cc. - dep. 07/05/2014 - imp. Ercolano)", per cui "Il
concreto effetto del recente intervento della Corte Costituzionale può, in estrema sintesi, così
riassumersi: nel caso di reati (commessi nell'arco temporale caratterizzato dalla vigenza della L. n.
49 del 2006) concernenti le droghe pesanti, dovrà essere applicata la norma dichiarata
incostituzionale (ossia l'art. 73 comma 1, nella formulazione della Legge del 2006, c.d. Fini-
Giovanardi) in quanto la stessa prevedeva una pena (reclusione da 6 a 20 anni) inferiore nel minimo
a quella (reclusione da 8 a 20 anni) della precedente Legge del 1990, c.d. Iervolino-Vassalli, ed era
pertanto più favorevole per l'imputato; nel caso di reati concernenti le droghe leggere deve invece
essere applicata la Legge Iervolino-Vassalli in quanto la pena per tali ipotesi prevista (reclusione da
2 a 6 anni) è inferiore a quella (reclusione da 6 a 20 anni) stabilita dalla Legge del 2006", annulla la
sentenza di merito disponendo che "Il giudice del rinvio procederà a nuova valutazione ai fini della
determinazione degli aumenti di pena applicati - a titolo di continuazione con il reato associativo -
per tali reati, con riferimento ai limiti edittali previsti per le droghe leggere dal D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, nella formulazione precedente alle modifiche apportate con le disposizioni ritenute
incostituzionali", a nulla rilevando "che per detti reati-fine sia stato ritenuto sussistente il vincolo
della continuazione con il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74" dovendosi ritenere, come
già affermato (si richiamano Cass. sez. 4^, 28 febbraio 2014 n. 25211 e Cass. sez. 4^, 12 marzo
2014 n. 16245), "la necessità, in caso di più episodi di detenzione a fine di spaccio di tali diversi tipi
di stupefacente, già ritenuti in continuazione, di diversificare i corrispondenti aumenti di pena".
Cass. sez. 4^, 17 giugno 2014 n. 30475, a fronte di aumenti per la continuazione relativi a reati
satellite in materia di droghe leggere, li ha definiti sanzione "illegale" (in un caso consistita in tre
mesi di reclusione e in un altro in un anno). Richiamati vari precedenti di questa Suprema Corte
relativi al reato continuato, "con particolare riguardo al tema del rapporto tra determinazione della
pena per il reato continuato e sanzione edittale prevista per i singoli reati uniti dal vincolo della
134
continuazione" - nel senso che per la individuazione della violazione più grave il giudice deve
riferirsi alla pena edittale prevista per ciascun reato e individuare la violazione punita più
severamente dalla legge in rapporto alle circostanze in cui la fattispecie si è manifestata, la pena
base non può essere inferiore a quella prevista come minimo per uno qualsiasi dei reati unificati ed
è comunque quella prevista per la violazione più grave -, la pronuncia osserva che "l'ulteriore
sviluppo di tali principi è che, se per la individuazione del reato più grave deve certamente farsi
riferimento alla pena edittale, ciò nondimeno anche la sanzione edittale prevista in relazione a
ciascun reato-satellite può assumere rilevanza ai fini della determinazione della pena da applicare in
aumento in ragione dei principi generali, ai quali la disciplina del reato continuato non deroga,
enunciati, in tema di applicazione della pena, dagli artt. 132 e 133 c.p.", onde non potrebbe
escludersi "anche l'illegalità della pena irrogata in aumento per i reati-satellite, ancorchè in virtù del
cumulo giuridico la pena per il reato satellite venga a trasformarsi in una porzione omogenea della
pena aumentata per il reato più grave, posto che nelle sentenze di merito non è stato specificato il
quadro edittale di riferimento per la determinazione degli aumenti di pena".
Prosegue sulla stessa linea, pur prospettando uno stemperamento delle contrapposte tesi, Cass. sez.
4^, 1 luglio 2014 n. 44791, che prende atto dell'insorgenza di contrasto nella giurisprudenza di
questa Suprema Corte, sussistendo un orientamento per cui "la necessità di dare applicazione alla
lex mitior non si riflette nell'annullamento della sentenza impugnata allorquando i reati per i quali
non è stata applicata la norma più favorevole all'imputato costituiscono reati- satellite" perchè questi
nella continuazione non hanno autonomia sanzionatoria, "senza che rilevino i limiti legali della
pena prevista per i singoli reati satelliti", e un diverso orientamento che "afferma l'opposto
principio, rilevando che i mutati e più favorevoli limiti edittali impongono una nuova valutazione in
ordine alla pena da irrogare e, nel giudizio di legittimità, l'annullamento con rinvio della sentenza
impugnata, fermo restando che, all'esito della rinnovata disamina, il giudice può ritenere la sanzione
precedentemente inflitta equamente commisurata al caso concreto".
Rileva allora l'arresto in esame che "la tesi della assoluta autonomia sanzionatoria del reato
continuato, che sarebbe dimostrata dal fatto che perde di rilievo la cornice edittale del reato satellite,
appare non persuasiva ove intesa in termini radicali; ed altrettanto deve dirsi per la tesi antagonista".
Ma in effetti la pronuncia aderisce a quest'ultima, in primo luogo osservando che "l'entità della pena
da infliggere per il reato satellite risente delle circostanze eventualmente accessorie a tale reato"
poichè la giurisprudenza di legittimità insegna che nel reato continuato le circostanze si valutano
riguardo a ciascuna violazione e non in relazione al complesso, per cui "la circostanza aggravante o
diminuente ha effetto sulla pena, solo se si riferisce alla violazione più grave, mentre ha effetto sulla
misura dell'aumento (derivante dalla continuazione) allorquando venga riconosciuta in relazione ad
altro illecito". In secondo luogo, la sentenza rimarca che anche la determinazione della pena per il
reato satellite "non è indifferente alla cornice edittale...perchè il giudice non è in condizione di
apprezzare la gravità del fatto a prescindere dalla scala valoriale espressa dalle pene definite dal
legislatore". In terzo luogo, viene rilevato che "non deve essere considerata la sola entità della pena,
potendo venire in gioco la stessa composizione dell'addebito. Si pensi all'ipotesi in cui il reato base
sia rappresentato dalla detenzione di sostanze stupefacenti di diversa specie; la reviviscenza della
legge c.d. Jervolino-Vassalli comporta la riconsiderazione della fattispecie, risultando una pluralità
di reati (in rapporto all'appartenenza delle sostanze alle coppie Tabelle 1^ - 3^ o Tabelle 2^ - 4^)
laddove si riteneva esistente una unicità di illecito". Conclude quindi l'arresto affermando il
principio che in tema di stupefacenti la continuazione tra i reati "può determinare l'annullamento
della sentenza impugnata qualora sia possibile ritenere che la pena infinta possa essere
rideterminata dal giudice del rinvio per effetto dell'applicazione del principio di prevalenza della
legge penale più favorevole al reo".
7. In conclusione, ritiene questo Collegio che sia insorto un contrasto nella giurisprudenza di
legittimità e che questo debba essere devoluto, per la sua soluzione, alle Sezioni Unite.
135
Occorrerebbe, invero, chiarire se la giurisprudenza formatasi in ordine alla necessità di identificare
la tipologia di pena da infliggere al reato satellite - che rimane indiscutibilmente quella prevista per
il reato più grave - sia sufficiente a dirimere anche le modalità di determinazione della quantità
dell'aumento da praticare. Si pone infatti il quesito se, anche in fattispecie come quella in esame - in
cui non si tratta (soltanto) di successione di legge penale, bensì, essendo un caso investito dalla
sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, della reviviscenza di una normativa, vale a dire
della necessità di rimuovere pienamente e realmente ogni effetto di un trattamento sanzionatorio
costituzionalmente illegittimo (non apparendo condivisibile, si nota per inciso, ritenere che l'aver il
giudice delle leggi caducato la uniformante impostazione della legge Fini-Giovanardi per contrasto
con l'art. 77 Cost., comma 2, venga a costituire una sorta di incostituzionalità "minore" che non
inficia di per sè il trattamento sanzionatorio uniformante, come argomentato dall'arresto capostipite
e principale che esclude l'incidenza della sentenza n. 32 sulla tematica in questione) -, sia sufficiente
determinare l'aumento in modo equitativo e genericamente correlato ai parametri di cui agli artt.
132 e 133 c.p., ovvero se sia invece necessario approfondire la modalità della determinazione
dell'aumento stesso. In particolare, se siano da considerare a priori le caratteristiche del fatto reato
secondo gli artt. 132 e 133 c.p., per poi individuarne equitativamente la pena "satellite" da
aggiungere alla pena base, oppure se, per calibrare il reato satellite nella sua offensività e nelle
correlate colpevolezza e capacità a delinquere di chi l'ha commesso, incida l'originario trattamento
sanzionatorio, come indice di disvalore della pena legale originaria individuata, in caso di
autonomia, per tale fattispecie criminosa dal legislatore. E qualora dovesse tenersi in conto la pena
legale originaria (costituiscono, si nota per inciso, tracce favorevoli al suo rilievo nei commi terzo e
quarto dell'articolo 81 c.p.), occorrerebbe altresì chiarire il concetto di pena legale: se questa, cioè,
attinge la sua legalità da un rapporto astratto con la forbice edittale allo stato vigente, che la rende a
essa (sempre che sia motivata adeguatamente e comunque in proporzione alla severità)
numericamente compatibile (analogamente all'insegnamento della nota giurisprudenza sulla
legittimità della pena finale indipendentemente dalle modalità erronee del percorso per
raggiungerla: cfr. da ultimo Cass. sez. VI, 15 luglio 2014 n.32242; Cass. sez. 6^, 7 maggio 2013 n.
20275; Cass. sez. II, 19 febbraio 2013 n. 22136; Cass. sez. II, 19 febbraio 2013 n.12991) ovvero se
trattasi di un rapporto concreto, che relativizza alla cornice edittale la pena determinata e ne impone
quindi una rivisitazione se la cornice viene a mutare.
In conclusione, per le ragioni sopra esposte questo Collegio rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
P.Q.M.
Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2014
136
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente -
Dott. ROMIS Vincenzo - rel. Consigliere -
Dott. CIAMPI Francesco Maria - Consigliere -
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere -
Dott. DELL'UTRI Marco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.C.S. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 254/2013 CORTE APPELLO di ANCONA, del
04/06/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/10/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Oscar Cedrangolo,
che ha concluso per rigetto motivi principali, rimesso alle sezioni
unite per la questione oggetto di motivi nuovi;
Udito il difensore Avvocato Rocco Alessandro il quale ha concluso per
l'accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Pesaro in composizione collegiale, con sentenza in data 13.12.2012, affermava la
penale responsabilità di D.C. S. in ordine ai seguenti reati: A) delitto di cui all'art. 81 c.p., comma 2,
e L. n. 376 del 2000, art. 9, comma 7, (ritenuti in esso assorbiti i reati di cui all'art. 81 c.p., comma
2, art. 648 c.p., e art. 81 c.p., comma 2, art. 348 c.p., contestati ai capi b ed e dell'originaria
imputazione ); B) del delitto di cui all'art. 81 c.p., comma 2, e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
commi 1 e 1 bis, lett. b); C) del delitto di cui all'art. 81 c.p., comma 2, e D.P.R. n. 309 del 1990, art.
70; D) del reato di cui all'art. 81 c.p., comma 2, D.Lgs. n. 219 del 2006, art. 6, e art. 147, comma 2;
reati commessi tutti a (OMISSIS): concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla
contestata recidiva, ed unificati tutti i reati nel vincolo della continuazione, il Tribunale condannava
quindi il D.C. alla pena di anni sei e mesi sei di reclusione ed Euro 30.000 di multa, all'interdizione
legale dai PP. UU., all'interdizione legale durante la pena, alla confisca dei veicoli in sequestro, alla
confisca dei documenti in sequestro e, D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 sexies, alla confisca dei beni
immobili oggetto di sequestro preventivo disposto con decreto del GIP Tribunale Pesaro del
26.1.2012, quali elencati in dispositivo.
2. Proponeva rituale impugnazione l'imputato e la Corte d'Appello di Ancona, con la sentenza
indicata in epigrafe, in parziale riforma dell'impugnata decisione, assolveva il D.C. dal delitto di cui
al capo d) per insussistenza del fatto e, ritenendo avvinti dalla continuazione tutti i reati per i quali
era intervenuta condanna, rideterminava la pena in complessivi anni sei e mesi sei di reclusione ed
Euro 28.500,00 di multa, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
3. In risposta alle deduzioni dell'appellante, la Corte distrettuale, per la parte che in questa sede
rileva, dava conto del proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: 1)
quanto al reato sub a), non vi era stata contestazione da parte dell'appellante circa l'affermazione di
137
colpevolezza essendo stata sollecitata in proposito solo un riduzione della pena nel minimo edittale;
2) eccezion fatta per le censure concernenti l'affermazione di colpevolezza per il reato sub d), da
ritenersi fondate, quanto alle restanti ipotesi di reato la responsabilità dell'imputato appariva
riconosciuta ed affermata dal giudice di prime cure sulla base di valutazioni congrue, logiche ed
aderenti al materiale istruttorie raccolto, onde non poteva che richiamarsi integralmente la
motivazione della gravata sentenza, dovendo peraltro sottolinearsi che la materiale sussistenza di
tutte le condotte illecite in contestazione e la loro ascrivibilità, anche soggettiva, all'imputato - da
ultimo reo confesso - non era stata messa in dubbio neppure dalla difesa; 3) il D.C. - già condannato
in data 18.6.1996 per abusivo esercizio (continuato) di una professione, violazione della normativa
comunitaria in materia di specialità medicinali e del T.U. Leggi doganali, in data 12.2.2003 per
abusivo esercizio (continuato) di una professione e in data 28.6.2010 per associazione per
delinquere, violazione della disciplina in materia di doping, importazione di sostanze suscettibili di
impiego per la produzione di stupefacenti, ricettazione ed altro - nel 2011 (a meno di un anno di
distanza dall'irrevocabilità dell'ultima delle sentenze citate) era stato sorpreso non già ad iniziare,
ma mentre gestiva un ben avviato (e lucroso) traffico di sostanze, per quantitativi assolutamente
rilevanti, dello stesso genere di quelle che avevano caratterizzato la sua precedente delittuosa
attività, 4) quanto al delitto di cui al capo c), la contestazione mossa dal P.M. si riferiva alla sola
violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. b), avuto riguardo a sostanza
stupefacente (il N.) "elencata nella tab. II sez. A" dell'art. 14, per cui non venivano in rilievo la
tabella 1 e le argomentazioni svolte in sede di impugnazione circa l'inserimento della suddetta
sostanza in tale tabella (ad opera del D.M. Salute 11 giugno 2010); 5) quanto poi all'inclusione nella
sezione a) della tabella II, vi era da rilevare che il D.M. citato faceva riferimento ai risultati degli
studi e della relazione predisposta dall'apposita Commissione per la vigilanza e per il controllo sui
doping e per la tutela della salute nelle attività sportive che aveva riscontrato la sussistenza dei
requisiti per l'inserimento della sostanza in questione ed al parere espresso al riguardo dal Consiglio
Superiore di sanità: il fatto che nel provvedimento ministeriale, nella parte in cui risultava
richiamata la citata relazione scientifica, non fosse stato ripetuto l'aggettivo "grave" quanto al grado
di dipendenza fisica e/o psichica che il prodotto potrebbe indurre (aggettivo, comunque, riportato
tre righe sopra) appariva solo un deficit e/o una scelta lessicale che di per sè non provava che i
risultati delle ricerche scientifiche effettuate e poste a base del provvedimento adottato dal Ministro
della Salute non fossero state dimostrative in tal senso; 6) risultava fondato, invece, il motivo di
appello sviluppato con riferimento al capo d) d'imputazione, poichè, contrariamente a quanto
ritenuto dallo stesso imputato (che aveva ammesso in sede di interrogatorio di avere acquistato
dell'efedrina in polvere) le analisi effettuate dall'istituto Superiore di Sanità avevano verificato che
la sostanza polverosa recante la scritta "efedrina" che era stata rinvenuta in possesso dell'imputato in
realtà era difenidramina, un farmaco antistaminico che nulla ha a che vedere con l'efedrina, per cui
il D.C. era stato evidentemente "truffato" dal rivenditore clandestino cui si era rivolto; 7) quanto,
infine, alla contravvenzione contestata sub g), il medicinale denominato Kamagra che era stato
commercializzato dall'imputato (il quale aveva ammesso in sede di interrogatorio di averne vendute
alcune confezioni), come confermato in dibattimento dal teste S., non era provvisto
dell'autorizzazione dell'Agenzia Italiana del Farmaco e, quindi, non poteva essere distribuito sul
suolo nazionale, pur non rientrando tra le sostanze di cui al capo a) dell'imputazione; 8) circa il
trattamento sanzionarono, le doglianze in tema di recidiva risultavano inammissibili e, comunque,
infondate;
nè sussistevano, in ogni caso (anche a voler ritenere la recidiva solo specifica e non reiterata), le
condizioni per concedere le attenuanti generiche prevalenti, in quanto dal punto di vista oggettivo i
fatti di reato erano molteplici ed obbiettivamente di elevata gravità e, dal punto di vista soggettivo, a
fronte della propensione a delinquere dimostrata dal reo, era stata valorizzata (e poteva valorizzarsi)
138
solo la sua confessione: confessione che, tuttavia, era avvenuta solo a fronte di un arresto in
flagranza e non era stata da subito ampia, sincera e tale da arrecare un fattivo contributo alle
indagini; 9) in punto di quantificazione della pena, oltre alla dimostrata "caratura" criminale del
soggetto, andavano richiamati tutti gli altri elementi di giudizio già evidenziati nella sentenza di
primo grado, per cui, pur dovendosi applicare la riduzione di pena di cui al comma 1 bis, lett. b), in
relazione al più grave delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (riduzione che si reputava
equo effettuare nella misura minima indicata dalla legge, tenuto conto del carattere non episodico
della condotta illecita in esame e di tutti gli altri elementi già evidenziati in tema di negazione
dell'attenuante del fatto di lieve entità), appariva comunque equa una pena-base prossima a quella
indicata nella sentenza impugnata, non determinando il disposto proscioglimento in relazione alla
detenzione delle compresse di efedrina una modifica sostanziale dell'impianto accusatorio tale da
incidere in maniera sensibile sulla gravità - obbiettiva e soggettiva - dei fatti accertati; di tal che,
partendo dalla pena di anni cinque di reclusione ed Euro 18.000 di multa (muovendo da anni sette e
mesi sei di reclusione ed Euro 24.000,00 di multa, con riduzione per la succitata attenuante) andava
operato l'aumento per la continuazione interna ad anni cinque e mesi sei di reclusione ed Euro
20.000,00 di multa, nonchè l'ulteriore aumento di mesi sette di reclusione ed Euro 8.000,00 di multa
per il delitto contestato sub a) e di mesi uno di reclusione ed Euro 500,00 di multa per la
contravvenzione contestata sub g), raggiungendosi così la pena finale di anni sei e mesi due di
reclusione ed Euro 28.500,00 di multa; 10) passando, infine, ai provvedimenti di confisca, i
commessi reati consentivano l'applicazione della misura ablativa ai sensi del D.L. n. 306 del 1992,
art. 12 sexies, non essendo la stessa ancorata allo specifico fatto illecito addebitato ma bensì basata
sulla presunzione legislativa dell'esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati ed i
beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e che risultino di valore
sproporzionato rispetto al suo reddito o alla sua attività economica, per cui il nesso pertinenziale
andrebbe individuato non tra i beni ed il fatto reato sub iudice, ma con la categoria di reato che
diventa indice sintomatico di allarme sociale e di presunzione - relativa - di illecita accumulazione,
non essendo, di conseguenza, stabilite neppure limitazioni temporali per la verifica di detta
sproporzione reddituale e/o patrimoniale; rileverebbe, quindi, la categoria dell'illecito o degli illeciti
che sono stati commessi e non il singolo episodio per cui non poteva considerarsi fondato
l'argomento difensivo secondo il quale, siccome la detenzione del nandrolone era stata incriminata
(anche) ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, solo dal 24.6.2010, per i fatti pregressi non
avrebbe potuto trovare applicazione la sanzione ablativa, dovendo, invece, aversi riguardo alla
tipologia del commesso reato, tipologia che nel caso di specie si identificava nella violazione
dell'art. 73 del D.P.R. n. 309/90 che era sicuramente prevista come reato anche ai tempi in cui
l'imputato aveva acquisito i beni oggetto di confisca; rilevava inoltre anche la fattispecie di cui
all'art. 648 c.p., (che pure consente l'applicazione della misura de qua), in quanto la relativa
condotta illecita (continuata) oggetto di puntuale contestazione non era stata ritenuta insussistente,
ma solo assorbita nella più ampia fattispecie di reato di cui al L. n. 376 del 2000, art. 9, avendo il
primo giudice ritenuto che la commercializzazione dei prodotti di provenienza delittuosa descritti al
capo a) dell'imputazione presupponesse la loro previa necessaria ricezione a fini di profitto (a fini di
profitto perchè destinati alla successiva cessione a titolo oneroso); l'imputato, per anni (almeno per
tutti gli anni per i quali erano intervenute varie sentenze di condanna) aveva commesso la stessa
tipologia di reati, e non era stato dimostrato lo svolgimento - da parte sua e/o dei suoi familiari
conviventi - di alcuna altra attività lecita produttiva di reddito (come esplicitato dal primo giudice
sulla base delle risultanze istruttorie, nel vagliare la situazione reddituale dell'imputato e dei suoi
familiari), con la sola esclusione delle modestissime somme provenienti da lavoro dipendente
dichiarate da D.C.M. (15.000 Euro in dieci anni) e degli irrisori importi dichiarati dagli altri soggetti
interessati dalle indagini; prive di qualsiasi fondamento oggettivo, credibile e logico, risultavano le
prospettazioni difensive circa il patrimonio immobiliare aggredito dapprima dalla misura cautelare
139
reale e poi da quella ablativa: era sufficiente considerare che sin dalla prima vendita del bene sito in
p.zza (OMISSIS) - ricevuto in eredità dal D. C. - questi non avrebbe potuto investire i relativi
proventi se non avesse parallelamente svolto illecite attività che, con qualche interruzione, erano
state portate avanti nell'ampio arco temporale di ben ventanni (risalendo i primi fatti illeciti al
1991), trattandosi di una somma (di 122.500.000 lire) che sarebbe bastata solo a mantenere se stesso
ed il proprio nucleo familiare per uno o due anni, per cui se egli aveva potuto investire questi soldi
in un altro immobile, e così via, era dovuto solo al fatto che il suo elevato tenore di vita (macchine
di grossa cilindrata, viaggi all'estero, casa di abitazione in via (OMISSIS) costituita da villa su due
livelli con parco, piscina, dependance e autorimessa, ecc.) era stato assicurato da fonti derivanti da
attività illecite; doveva disattendersi la richiesta di restituzione dell'autovettura Mercedes SW tg.
(OMISSIS), trattandosi di un bene che risultava essere stato continuativamente utilizzato
dall'imputato per portare avanti la propria illecita attività (bisognava por mente al decreto di
sequestro preventivo in data 27.9.2011 del GIP del Tribunale di Pesaro in cui risultavano citati tutti
i servizi di osservazione e controllo di interesse e gli incontri in cui, proprio a bordo del veicolo
citato, erano state concordate le cessioni di prodotti vietati, oltre ai viaggi a (OMISSIS) compiuti
allo stesso scopo ovvero per recarsi ad un incontro con D.N. - soggetto coinvolto anch'egli nei
traffici in relazione ai quali si è proceduto - intorno all'11-12 agosto 2011; nel corso dell'istruttoria
dibattimentale erano poi emersi ulteriori elementi, significativi in tal senso, dal contenuto delle
intercettazioni ambientali e dalla deposizione del teste S., il quale ultimo aveva riferito di altre
circostanze in cui il D.C. si era servito dell'auto in questione; si trattava pertanto di un bene che era
stato usato in maniera stabile a fini criminosi e che ben avrebbe potuto essere riutilizzato ad
analoghi scopi se restituito nella disponibilità dell'imputato.
4. Ha proposto ricorso per cassazione il D.C., per mezzo del difensore, deducendo censure che
possono così riassumersi: PRIMO MOTIVO - nullità della sentenza di primo e secondo grado per
violazione dell'art. 179 c.p.p., art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), art. 33 septies c.p.p., perchè,
instauratosi il giudizio con il rito immediato, e quindi senza udienza preliminare, dinanzi al giudice
monocratico, questi - rilevata la competenza per materia del giudice collegiale - ha disposto la
trasmissione degli atti direttamente al Tribunale in composizione collegiale e non al P.M., così
violando le norme concernenti l'iniziativa del P.M. nell'esercizio dell'azione penale e privando
l'imputato della possibilità di accedere al rito abbreviato dinanzi al GIP; SECONDO MOTIVO -
illegittimità, e conseguente dovere del giudice di disapplicazione, del decreto del Ministro della
Salute in data 11 giugno 2010, per genericità nell'indicazione delle caratteristiche del nandrolone
quanto all'efficacia drogante della sostanza: non sarebbero stati rispettati i criteri indicati nel D.P.R.
n. 309 del 1990, art. 14, per l'inserzione del nandrolone in una delle tabelle introdotte in sede di
conversione in L. n. 49 del 2006, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272; il D.C. avrebbe dovuto quindi
essere assolto dal reato sub c) in ordine alla cessione o comunque detenzione di medicinali
contenenti nandrolone, trattandosi di fatto configurabile come violazione ricompresa nella L. n. 376
del 2000, art. 9, comma 7, e contestata al D.C. al capo a) dell'imputazione (in proposito viene
richiamata la sentenza di questa Corte, Sez. 2, 20 marzo 2002, n.11277); TERZO MOTIVO - dalla
prospettata illegittimità del Decreto del Ministero della Salute dell'11 giugno 2010, dovrebbe
scaturire, come conseguenza, la revoca del sequestro preventivo, e della confisca disposta ai sensi
del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, convertito nella L. n. 356 del 1992, degli immobili intestati
al D. C. ed ai congiunti, ed oggetto di provvedimento ablativo;
QUARTO MOTIVO - erronea applicazione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, convertito in L.
n. 356 del 1992, per assenza del nesso pertinenziale, quale presupposto applicativo della confisca,
tra i beni confiscati (acquistati prima del 24/6/2010) e la categoria di reato D.P.R. n. 309 del 1990,
ex art. 73, comma 1 bis, lett. b), per effetto dell'inserzione del nandrolone nella tabella II sez. A
140
dell'art. 14 del D.P.R. citato; viene evocata la sentenza n. 18/1996 della Corte Costituzionale con
riferimento ad una interpretazione costituzionalmente orientata del D.L. n. 306 del 1992, art. 12
sexies, (convertito in L. n. 356 del 1992); irrilevanza dell'assorbimento del reato di cui all'art. 648
c.p. - dai giudici di merito ritenuto ulteriore reato cui ricollegare il sequestro e la confisca L. n. 356
del 1992, ex art. 12 sexies, - nel reato previsto dalla L. 14 dicembre 2000, n. 376, art. 9, comma 7,
stante il principio di specialità; QUINTO MOTIVO - vizio di motivazione in ordine al ritenuto
mancato assolvimento da parte dell'imputato dell'onere di spiegazione della derivazione dei beni da
attività consentite dall'ordinamento ed erroneità della confisca generale del patrimonio del D.C.
anzichè limitata allo "scompenso"; i giudici del merito avrebbero del tutto trascurato, e comunque
erroneamente interpretato, le allegazioni difensive, anche documentali, sintetizzate in tre fasi
temporali; SESTO MOTIVO - violazione del principio del divieto di reformatio in pejus: la Corte
d'Appello, pur in presenza dell'impugnazione del solo imputato, avrebbe violato il principio del
divieto della reformatio in pejus avendo considerato quale pena base l'identica pena stabilita dal
primo giudice, nonostante l'intervenuta assoluzione dal reato di cui al capo D) - concernente
l'efedrina - che il Tribunale aveva individuato quale reato più grave; analoga violazione vi sarebbe
stata per la determinazione dell'aumento di pena per continuazione interna: il Tribunale aveva
operato gli aumenti in continuazione per i singoli reati-satellite e non globalmente, e quindi la Corte
territoriale - intervenuta l'assoluzione per il reato sub D) di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 70,
comma 4, - non avrebbe potuto "ritenere la sussistenza della configurazione continuata della singola
fattispecie, continuazione interna che non apparteneva più al processo" (così testualmente a pag. 33
del ricorso); SETTIMO MOTIVO - vengono prospettati profili di incostituzionalità della L. n. 49
del 2006, laddove è stata eliminata, ai fini sanzionatori, la differenza tra droghe leggere e droghe
pesanti, e sottolineata la rilevanza della questione; il ricorrente si sofferma sulle argomentazioni di
cui alla sentenza della Terza Sezione Penale di questa Corte con la quale appunto fu sollevata
questione di costituzionalità nei termini indicati dal ricorrente stesso questione risolta poi dalla
Corte Costituziona con la nota sentenza n. 32 del 2014 con la quale è stata dichiarata la illegittimità
costituzionale del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito nella L. n. 49 del 2006;
OTTAVO MOTIVO (quale censura subordinata rispetto a quella oggetto del quarto motivo di
ricorso) - viene sollevata questione di costituzionalità del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies,
(convertito in L. n. 356 del 1992), con riferimento alla natura penale della misura ablatoria, in
relazione al principio della presunzione di innocenza.
5. Con motivi nuovi depositati il 30 settembre 2014, il difensore del ricorrente - muovendo dal
dictum di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 12 febbraio 2014, depositata il 25
febbraio 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 5 marzo 2014, con cui è stata dichiarata
l'illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4 bis e 4 vicies - ter, convertito,
con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 - ha prospettato la configurabilità di un'ipotesi di
abolitio criminis in relazione ai fatti addebitati al D.C. come commessi fino al 22 agosto 2011 ed
allo stesso contestati al capo e) d'imputazione quale violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
comma 1 e comma 1 bis (questo introdotto con la L. n. 49 del 2006, art. 4 bis).
5.1. Sostiene il ricorrente che ci si troverebbe in presenza ".....oltrechè di una declaratoria di
incostituzionalità della norma incriminatrice (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, di cui alle modifiche
della L. Fini-Giovanardi n. 49 del 2006, art. 4 bis), di una vera e propria abolitio criminis per effetto
della caducazione dell'intero sistema tabellare delle sostanze stupefacenti e psicotrope L. n. 49 del
2006, ex art. 4 vicies ter, - con applicazione del sistema tabellare precedente alla novella del 2006 -
atteso che il prevenuto deve rispondere del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. b),
avuto riguardo alla sostanza stupefacente nandrolone, sostanza inserita nella tabella II sez. A del
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, (di cui appunto alla legge Fini- Giovanardi), con D.M. salute del 11
141
giugno 2010, di aggiornamento del sistema tabellare caducato per effetto della sentenza del Giudice
delle L. n. 32 del 2014" (così testualmente a pag. 1 dei motivi nuovi). A sostegno di tale assunto, il
ricorrente osserva ancora che:
a) a seguito della citata declaratoria di incostituzionalità, il legislatore ha emanato un decreto legge
(D.L. 20 marzo 2014, n. 36) al fine di reinserire nelle tabelle le nuove sostanze già introdotte nelle
tabelle della legge "Fini-Giovcanardi" ad opera della L. n. 49 del 2006, e dei decreti ministeriali
successivi; b) tale intervento sarebbe stato deciso dal governo per assicurare solo per il futuro la
rilevanza penale di condotte aventi ad oggetto dette sostanze (tra cui il nandrolone), ma non con
effetto retroattivo rispetto alle condotte compiute sino al 20 marzo 2014 (data del decreto legge
citato), a ciò ostando il principio costituzionale di irretroattività della legge penale di cui all'art. 25
Cost., comma 2, e come desumibile anche dal Preambolo al D.M. n. 36 del 2014; c) la volontà del
legislatore di operare solo per il futuro risulterebbe evidente dalla modifica apportata in sede di
conversione del decreto legge alla norma transitoria ex art. 2, primo comma, del decreto legge,
laddove la formulazione "a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto legge
continuano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati sino alla data di pubblicazione della
sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 12 febbraio 2014" è stata modificata nel senso che il
verbo "continuano" è stato sostituito con "riprendono": ciò troverebbe conferma nel parere del
comitato per la legislazione (allegato ai motivi nuovi) che aveva rappresentato l'opportunità di tale
modifica, "...sotto il profilo della chiarezza e della proprietà della formulazione ....... nel
presupposto che l'intento perseguito con l'art. 2 sia quello di agire esclusivamente PRO FUTURO
......" (pag. 7 dei motivi nuovi); d) la sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014 avrebbe
prodotto una serie di abolitiones criminis rispetto a tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la
prima volta nelle tabelle dal 2006 ad oggi; e) nei confronti del Di Costanzo sarebbe quindi venuta
meno la punibilità in relazione alla condotta allo stesso contestata fino al 22 agosto 2011; f)
l'avvenuta depenalizzazione - sia pure per il breve periodo tra la pubblicazione della sentenza della
Corte Costituzione e l'entrata in vigore del decreto legge n. 36/2014 - dovrebbe comportare il
proscioglimento dell'imputato a nulla rilevando la ripenalizzazione del fatto intervenuta
successivamente. Osserva infine il ricorrente che la doglianza così formulata rivestirebbe carattere
preliminare ed assorbente rispetto ai motivi di ricorso dal n. 2 al n. 8, escluso il motivo n. 1
concernente eccezione di nullità procedurale.
5.2. Con i motivi nuovi, sono state poi formulate anche ulteriori argomentazioni a corredo dei
motivi dedotti con il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con i motivi nuovi - ritualmente e tempestivamente presentati - il ricorrente pone la questione
della rilevanza penale, o meno, di tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la prima volta nelle
tabelle allegate al D.P.R. n. 309 del 1990, dal 27 febbraio 2006 e commessi entro la data (21 marzo
2014) dell'entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36.
2. La Corte costituzionale ha chiaramente affermato, nella parte motiva della sentenza n. 32/2014,
l'avvenuta reviviscenza (tra l'altro) del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, e delle relative tabelle, "in
quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le
disposizioni impugnate".
Per espressa indicazione della Consulta, hanno dunque ripreso vigore sia le norme incriminatrici
contenute nell'originario art. 73 citato (e connotate dall'assai diversa entità della risposta
142
sanzionatoria stabilita nei commi primo e quarto, a seconda che l'oggetto della condotta sia
costituito, rispettivamente, da "droghe pesanti" ovvero da "droghe leggere"), sia le sei tabelle
vigenti prima dell'entrata in vigore della legge c.d. "Fini-Giovanardi" (nelle tabelle 1^ e 3^,
richiamate dal comma primo dell'art. 73, erano incluse le sostanze ritenute in grado di produrre
effetti sul sistema nervoso centrale e di determinare dipendenza psico-fisica nell'assuntore; nelle
tabelle 2^ e 4^, richiamate dall'art. 73, comma 4, erano elencate le sostanze connotate da un grado
inferiore di dipendenza nonchè i prodotti di corrente impiego terapeutico contenenti sostanze
classificate nelle tabelle 1^ e 3^, e perciò idonee a creare problemi di dipendenza;
nelle tabelle 5^ e 6^, erano invece inseriti preparati e prodotti medicinali che, pur contenendo
sostanze ad effetto stupefacente, erano sottoposti a disciplina e controlli meno rigorosi).
3. Il Governo, prendendo atto delle conseguenze dell'intervento della Corte Costituzionale, è
intervenuto, come sopra accennato, con il D.L. 20 marzo 2014, n. 36, (in Gazzetta Ufficiale - serie
generale - n. 67 del 21 marzo 2014) reintroducendo quattro tabelle, e ridistribuendo tra esse le
sostanze che, sulla base della L. n. 49 del 2006, erano raggruppate nelle due tabelle caducate dalla
sentenza della Corte costituzionale, "in modo che per ciascuna sostanza venga fatto salvo il regime
sanzionatorio di cui alle disposizioni originarie del testo unico, ripristinate dalla più volte richiamata
sentenza" (così testualmente a pag. 5 della Relazione di accompagnamento al disegno di legge di
conversione). Tale risultato è stato raggiunto sia attraverso le opportune modifiche alle disposizioni
contenute negli artt. 13 e 14, del testo unico concernenti, rispettivamente, il numero delle tabelle e
la loro formale allegazione al testo unico, nonchè i criteri di inclusione delle sostanze all'interno
delle tabelle medesime, sia attraverso la predisposizione delle nuove tabelle e la loro formale
allegazione al testo unico (esattamente come era avvenuto con le due tabelle introdotte dalla L. n.
49 del 2006 (legge "Fini-Giovanardi").
3.1. Le quattro tabelle vigenti prima della legge "Fini-Giovanardi", e tornate in vigore dopo la
sentenza de qua, contenevano sia le sostanze inserite sin dall'entrata in vigore del testo unico, sia
quelle che erano state man mano incluse attraverso i procedimenti di revisione ed aggiornamento di
cui agli artt. 2 e 13 del testo unico, adottati fino al 27 febbraio 2006 (data di entrata in vigore delle
norme di cui alla L. n. 49 del 2006, poi dichiarate incostituzionali). Le tabelle in questione non
contenevano (nè avrebbero potuto contenere) le numerosissime sostanze che, dopo l'entrata in
vigore della legge "Fini-Giovanardi", erano state inserite nella tabella 1^ in forza dei ventidue
provvedimenti di aggiornamento adottati fino al 5 marzo 2014, data di pubblicazione della sentenza
della Corte costituzionale. Donde la necessità avvertita dal Governo di ripristinare l'inclusione, tra
le sostanze sottoposte al controllo del Ministero della salute, con il connesso regime giuridico, di
circa 500 sostanze tabellarmente classificate a decorrere dal 27 febbraio 2006 - ivi compreso il
nandrolone, che nella specie rileva - coinvolte dalla caducazione operata dalla sentenza della Corte
costituzionale.
Dal susseguirsi degli eventi quali sopra sinteticamente ricordati, scaturiscono all'evidenza delicate
implicazioni in ordine alla rilevanza penale delle condotte, poste in essere prima dell'entrata in
vigore del decreto L. n. 36 del 2014, aventi ad oggetto le 500 sostanze classificate a decorrere dal
27 febbraio 2006: e ciò, alla luce del pacifico principio enunciato nella giurisprudenza di questa
Corte, più volte ribadito, secondo cui "non trova applicazione la normativa in materia di
stupefacenti ove le condotte abbiano ad oggetto sostanze droganti non incluse nel catalogo di legge,
perchè la nozione di sostanza stupefacente ha natura legale, nel senso che sono soggette alla
normativa che ne vieta la circolazione solo le sostanze indicate nelle tabelle allegate al T.U. sugli
stupefacenti" (in termini, Sez. 4^, 14 aprile 2011, n. 27771, Rv. 250693; in senso conforme, "ex
143
plurimis": Sez. 3^, 13 gennaio 2011, n. 7974, Ndreu e altri; Sez. 4^, 18 aprile 2005, n. 20907,
Hassan; Sez. 6^, 23 giugno 2003, n. 34072, Hassan Osman).
4. Sulla problematica così emersa - vale a dire la permanente rilevanza penale, o meno, di condotte
poste in essere dall'entrata in vigore della L. n. 49 del 2006, e fino all'entrata in vigore del decreto L.
n. 36 del 2014, aventi ad oggetto sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle dal 27 febbraio
2006 - non si registrano ancora interventi di questa Corte. Per quanto risulta allo stato, esiste un
precedente (Quarta Sez., n. 19297/14, cc. 2 aprile 2014 - dep. 9 maggio 2014 - ric. De Lellis) -
relativo alla sostanza nandrolone, per fatto commesso prima della sentenza n. 32/2014 della Corte
Costituzionale - che tuttavia non fornisce utili elementi in relazione alla questione qui in esame,
trattandosi di decisione di un ricorso avverso provvedimento cautelare reale emesso non solo per la
violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ma anche per il reato di cui alla L. n. 376 del 2000,
art. 9, che, dunque, ex se era sufficiente a legittimare la misura cautelare: peraltro, nella circostanza
non era stata sollevata la quaestio iuris all'esame di questo Collegio.
La questione è stata affrontata da alcune Procure della Repubblica - con soluzioni difformi - ed è
stata oggetto di interventi di esponenti della dottrina, che hanno espresso opinioni non concordi, di
cui appresso si dirà.
4.1. La tesi dell'abolitio criminis è stata sostenuta dal Procuratore della Repubblica di Busto Arsizio
nella richiesta di revoca formulata in data 7 aprile 2014, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., in relazione ad
una sentenza di patteggiamento emessa per il delitto di illecita importazione di Catha Edulis
essiccata.
Tale impostazione risulta condivisa da un esponente della dottrina secondo il quale "la sentenza
della Corte Costituzionale ha prodotto, irrimediabilmente, una serie di abolitiones criminis rispetto a
tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle dal 2006. Con tutti i
conseguenti effetti sui processi in corso, nonchè sulle sentenze già passate in giudicato, che
andrebbero revocate in forza dell'applicazione dell'art. 673 c.p.p..
Ad avviso dell'Autore, l'avvenuto reinserimento delle 500 sostanze nelle quattro tabelle avrebbe
assicurato rilevanza penale solo alle condotte poste in essere successivamente all'entrata in vigore
del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, "ma certo non potrà produrre effetto retroattivo rispetto alle condotte
compiute sino al 20 marzo 2014, a ciò ostando il principio costituzionale di irretroattività della
legge penale di cui all'art. 25 Cost., comma 2. Decisivo è, infatti, che tali condotte siano state
compiute in un'epoca nella quale le sostanze cui si riferivano non erano ancora state validamente
inserite nelle tabelle previste dal t.u.: e tanto basta per escluderne in radice la rilevanza penale".
Proseguendo secondo la linea interpretativa così privilegiata, l'Autore continua precisando che
nessuna rilevanza potrebbe attribuirsi al fatto che l'art. 2 del decreto legge, nell'originaria
formulazione, si era proposto di garantire la continuità degli effetti degli atti amministrativi adottati
prima della sentenza della Corte costituzionale (prevedendosi che tali atti, dall'entrata in vigore del
decreto legge, "continuano" a produrre effetti); anzi, l'intento sarebbe stato proprio quello di voler
sottolineare - tenuto conto della formulazione della legge di conversione (la quale ha modificato
l'art. 2 sostituendo il verbo "continuano" con "riprendono") - che proprio l'intervento sull'art. 2 ha
avuto la funzione di "fugare in radice il dubbio che il legislatore intendesse introdurre una disciplina
con efficacia retroattiva, volta ad evitare l'effetto di frattura della continuità normativa prodottasi
nella rilevanza penale delle sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle dalla stessa L. n. 49
del 2006, ovvero dagli atti amministrativi emanati sulla base della normativa modificata, appunto,
nel 2006".
144
Come evidenziato anche dal ricorrente, fu il Comitato per la Legislazione, con il parere formulato ai
fini della conversione in legge del decreto, a suggerire di sostituire al verbo "continuano" il verbo
"riprendono", richiamando il principio della irretroattività della legge penale (art. 25 Cost., comma
2), e rilevando che l'espressione "continuano" avrebbe potuto indurre a pensare che l'intento fosse
quello di salvaguardare anche il periodo antecedente:
sia quello compreso tra l'acquisto di efficacia della sentenza della Corte Costituzionale (6 marzo
2014) e l'entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36), sia quello intercorso tra la data di
efficacia di ciascun atto amministrativo e l'entrata in vigore del detto decreto- legge.
4.2. Viceversa, la Procura della Repubblica di Lanciano ha optato per una prospettiva ermeneutica
del tutto diversa muovendo dall'invito, rivolto al giudice dalla Corte costituzionale, ad individuare
"quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perchè divenute prive del
loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad
avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter". E' stata
quindi sostenuta, su tali presupposti, la possibilità di far salva la classificazione delle "nuove"
sostanze, avvenuta durante la vigenza della legge "Fini-Giovanardi" attraverso decreti emanati
all'esito di un procedimento, quale quello previsto dagli artt. 2 e 13 del testo unico delle leggi in
materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, che risultava non modificato sostanzialmente da detta
legge: secondo tale impostazione, gli evocati decreti ministeriali di aggiornamento non
presupporrebbero necessariamente la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, nel senso che una
parziale modifica del procedimento, come quella introdotta dalla legge "Fini-Giovanardi", non
dovrebbe considerarsi idonea a far perdere validità ai decreti stessi, anche in considerazione del
fatto che i criteri di classificazione di cui all'art. 14, novellato dall'art. 4 vicies ter, erano
sostanzialmente coincidenti con quelli fissati nel testo previgente: in una evidente ottica di favor rei,
si è proposto di ritenere che tali "nuove" sostanze siano classificabili tra le "droghe leggere".
4.2.1. Un esponente della dottrina ha tuttavia obiettato che una siffatta impostazione privilegerebbe
"approcci sostanzialistici" laddove la Consulta sembra invece aver privilegiato un criterio
orientativo decisamente formale, per l'individuazione delle conseguenze derivanti in concreto dalla
declaratoria di illegittimità costituzionale per il vizio procedurale riscontrato:
dunque, secondo tale opinione, dalla "detabellizzazione" delle sostanze di ultima generazione,
determinata dalla sentenza della Corte costituzionale, dovrebbe conseguire una vera e propria
abolitio criminis.
4.3. Rispetto alle opinioni della dottrina fin qui illustrate, si pone su diversa posizione altro Autore
il quale, per contrastare la tesi interpretativa dell'abolitio criminis, valorizza la originaria
formulazione del D.L. n. 36 del 2014, art. 2, (in cui si prevedeva, come accennato, che, dall'entrata
in vigore del decreto legge, gli atti amministrativi adottati prima della sentenza della Consulta
"continuano" a produrre effetti).
Secondo tale opinione, l'art. 2 citato - per ciò che riguarda i decreti ministeriali che avevano
aggiornato la tabella I nel vigore della "Fini-Giovanardi", includendovi le 500 sostanze "nuove" -
avrebbe derogato "non al principio di irretroattività e all'assoluto dovere che grava sul giudice
penale di applicare le nuove incriminazioni per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore della
legge", bensì solo "al principio della retroattività degli effetti delle sentenze di incostituzionalità di
una norma penale per i processi pendenti e finanche oltre il giudicato di condanna (efficacia
iperretroattiva sancita dalla L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4)". La questione che dovrebbe porsi,
145
in tale prospettiva, sarebbe quindi quella dell'ammissibilità di una "eccezione legislativa" al
principio della retroattività degli effetti pro reo di una declaratoria di illegittimità costituzionale,
qualora si renda necessario operare un bilanciamento con altri principi e valori di rango
costituzionale. Ad avviso dell'Autore, la risposta dovrebbe essere positiva, nonostante i riferimenti
costituzionali della retroattività della lex mitior non siano oggi più limitati ai soli principi "interni"
(eguaglianza, ragionevolezza delle scelte legislative, proporzione tra disvalore della condotta e
sanzione), essendosi aggiunto, dopo la sentenza Scoppola c. Italia della Corte di Strasburgo, anche
l'art. 7 CEDU in relazione all'art. 117 Cost..
Secondo l'Autore, nonostante tale nuovo inquadramento "convenzionale", il principio di retroattività
della lex mitior non avrebbe comunque assunto le connotazioni assolute e inderogabili proprie del
principio di irretroattività della legge sfavorevole:
residuerebbe pertanto uno spazio per il legislatore per limitare o derogare alla retroattività della lex
mitior, laddove - come nella specie - si renda necessario un bilanciamento ragionevole di interessi
di rilevanza costituzionale in collisione. L'Autore sottolinea che il legislatore avrebbe inserito nel
D.L. n. 36 del 2014, art. 2, una vera e propria disposizione transitoria, ed osserva che "l'idea che il
legislatore abbia appositamente posto il menzionato D.L. n. 36 del 2014, art. 2, a garanzia della
persistenza dell'efficacia degli atti amministrativi adottati sino alla sentenza della Corte
costituzionale, sembra compatibile anche con il cambiamento di verbo in sede di conversione: il
passaggio, cioè, da "continuano" a "riprendono" a produrre effetti i previgenti provvedimenti
dell'amministrazione"; pervenendo quindi alla conclusione nel senso che un'interpretazione che
postulasse la ripresa dell'efficacia degli atti amministrativi i quali hanno inserito dal 27 febbraio
2006 al 12 febbraio 2014 (data della sentenza n. 32 della Corte Costituzionale) le nuove droghe, non
avrebbe senso, avendo il legislatore con il D.L. n. 36 del 2014, autonomamente e per il futuro
inserito quelle sostanze cancellate dalla decisione della Corte Costituzionale.
5. Ci si trova dunque in presenza di due diverse opzioni interpretative, a fronte delle quali - avuto
riguardo alla indiscutibile rilevanza della questione stessa, per le significative conseguenze che
deriverebbero seguendo l'una o l'altra delle possibili scelte ermeneutiche, e tenuto conto della
mancanza allo stato di qualsiasi punto di riferimento riscontrabile nella giurisprudenza di questa
Corte - il Collegio ravvisa l'opportunità di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite penali sotto il
profilo, appunto, della novità e rilevanza della questione, ed anche al fine di prevenire eventuali
contrasti nell'ambito della giurisprudenza di legittimità.
6. Un'ultima osservazione si impone per dovere di completezza espositiva.
Il primo motivo del ricorso del D.C. concerne una questione procedurale che, in quanto tale,
dovrebbe essere vagliata e risolta prima di passare all'esame delle ulteriori doglianze (diverse da
eccezioni in rito). Si ritiene tuttavia di dover demandare al Supremo Collegio di questa Corte anche
l'esame di detta questione non potendo attribuirsi alla sua soluzione efficacia dirimente rispetto al
tema controverso, posto che: a) in caso di ritenuta infondatezza dell'eccezione, si passerebbe
conseguentemente alla valutazione delle altre doglianze; b) in caso di ritenuta fondatezza della
eccezione, pur in presenza di una nullità, dovrebbe comunque trovare immediata applicazione - ove
si propendesse per la tesi dell'abolitio criminis - la disposizione di cui al primo comma dell'art. 129
c.p.p..
P.Q.M.