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1 DIRITTO penale Cedu e diritto penale; Riserva di legge e fonti; tassatività e precisione; efficacia della legge penale nel tempo A cura di Roberto Garofoli

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DIRITTO penale

Cedu e diritto penale; Riserva di legge e fonti;

tassatività e precisione; efficacia della legge

penale nel tempo

A cura di

Roberto Garofoli

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Cedu e diritto penale; riserva di legge e fonti;

tassatività e precisione; efficacia della legge

penale nel tempo.

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Indice

1. Cedu e diritto penale

1.1 Confisca urbanistica

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 20 gennaio 2009 - Ricorso n.

75909/01 - Sud Fondi srl ed altri c. Italia

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 29 ottobre 2013 - Ricorso n.Ricorso

n. 17475/09 - Varvara c. Italia

1.2 Cedu e margine di apprezzamento del giudice nazionale

Cass. Pen. Sez III, 20 maggio 2014, n. 20636

All. 1

1.3 Cedu, nozione di pena e sanzioni formalmente amministrative

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 marzo 2014 - Ricorso n. 18640/10

- Grande Stevens e altri c. Italia

2. Riserva di legge e fonti

2.1 Decreti legge e diritto penale

Corte Cost., 25 febbraio 2014, n. 32

2.2 Decreti legislativi e diritto penale

Corte Cost. 23 gennaio 2014, n. 5

3. Tassatività e precisione

3.1 Principio di precisione e stalking

Corte Cost., 11 giugno 2014, n. 172

3.2 Principio di precisione e riscritto reato di scambio elettorale politico- mafioso

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Cass. Pen., 28 agosto 2014, n. 36382

Cass. Pen., 9 settembre 2014, n. 37374

3.3 Analogia, reati tributari e abuso del diritto

Cass. Pen., 3 aprile 2014, n. 15186

3.4 Interpretazione estensiva, stato di necessità e crisi di liquidità

Cass. Pen, 4 aprile 2014, n. 15416

Cass. Pen., 5 giugno 2014, n. 23532

4. Efficacia della legge penale nel tempo

4.1 Giudicato e illegittimità costituzionale o europea di norma penale non

incriminatrice

Cass. Sez. Unite, 7 maggio 2014, n. 18821

All. 2

Cass. Pen., Sezioni Unite, 14 ottobre 2014, n. 42858

All. 3

4.2 Successione tra illecito penale e illecito amministrativo

Cass. Pen., 17 settembre 2014, n. 38080

All. 4

4.3 Successione e nuovo reato di scambio elettorale politico- mafioso

Cass. Pen., 28 agosto 2014, n. 36382

4.4 Nuova concussione e profili successori

Cass. Pen. Sezioni Unite, 14 marzo 2014, n. 12228

All. 5

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Selezione giurisprudenziale

1. Cedu e diritto penale

1.1 Confisca urbanistica

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 20 gennaio 2009 - Ricorso n.

75909/01 - Sud Fondi srl ed altri c. Italia

IN DIRITTO

I. SULLE ECCEZIONI PRELIMINARI DEL GOVERNO

67. (omissis)

II. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE

84. Le ricorrenti denunciano l’illegalità della confisca che ha colpito i loro beni in quanto questa sanzione sarebbe

stata inflitta in un caso non previsto dalla legge. Esse sostengono che vi è stata una violazione dell’articolo 7 della

Convenzione, che recita:

«1. Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non

costituiva reato secondo il diritto nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave

di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di un’azione o di

un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto

riconosciuti dalle nazioni civili.»

A. Sull’applicabilità dell’articolo 7 della Convenzione

85. La Corte ricorda che, nella sua decisione del 30 agosto 2007, ha ritenuto che la confisca controversa si

traduca una pena e, pertanto, trova applicazione l’articolo 7 della Convenzione.

B. Sull’osservanza dell’articolo 7 della Convenzione

1. Argomenti delle ricorrenti

86. Le ricorrenti sostengono che il carattere abusivo della lottizzazione non era «previsto dalla legge». I loro

dubbi circa l’accessibilità e la prevedibilità delle disposizioni applicabili sarebbero confermati dalla

sentenza della Corte di cassazione, che ha constatato che gli imputati si erano trovati in una situazione di

«ignoranza inevitabile»; questi ultimi sono stati assolti per l’«errore scusabile» commesso nell’interpretazione del

diritto applicabile, tenuto conto della legislazione regionale oscura, dell’ottenimento dei permessi di costruire,

delle assicurazioni ricevute da parte delle autorità locali per quanto riguarda la regolarità dei loro progetti e

dell’inerzia delle autorità competenti in materia di tutela paesaggistica fino al 1997. Sulla questione di sapere se,

una volta accordati tutti i permessi di costruire, una lottizzazione potesse o meno essere definita abusiva, la

giurisprudenza ha inoltre avuto molte esitazioni che sono state risolte solo l’8 febbraio 2002 dalle Sezioni Unite

della Corte di cassazione. Ciò dimostra dunque che fino al 2001 vi era incertezza, e che il fatto di avere definito

abusiva la lottizzazione delle ricorrenti prima della decisione delle Sezioni Unite costituisce un’interpretazione

non letterale, estensiva, e dunque imprevedibile e incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione.

87. Le ricorrenti sostengono poi che in ogni caso non vi era illegalità materiale nella fattispecie, poiché le

lottizzazioni non si scontravano con limitazioni imposte sui loro terreni. Su questo punto fanno riferimento alla

sentenza della corte d’appello di Bari, che non aveva constatato alcuna illegalità materiale, considerando che non

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vi erano divieti di costruire sui terreni in questione. Inoltre, il fatto che il ministero dei beni culturali abbia

adottato un decreto il 30 giugno 1999 sottoponendo i terreni in questione a dei vincoli dimostrerebbe che,

anteriormente, su detti terreni non gravava alcun vincolo. Infine, il piano «urbanistico territoriale tematico»,

adottato il 15 dicembre 2000 con decisione del consiglio regionale della Regione Puglia no 1748, confermerebbe

che non vi era alcun divieto di costruire.

88. Per quanto concerne la legalità della sanzione loro inflitta, le ricorrenti sostengono che, per essere legale,

una pena deve essere prevedibile, ossia deve essere possibile prevedere ragionevolmente al momento della

commissione del reato le conseguenze che ne derivano a livello della sanzione, sia per quanto riguarda il tipo di

sanzione che la misura della stessa. Inoltre, per essere compatibile con l’articolo 7 della Convenzione, una pena

deve essere riconducibile ad un comportamento biasimevole. Le ricorrenti ritengono che nessuna di tali

condizioni sia stata soddisfatta.

89. Nel momento in cui sono stati rilasciati i permessi di costruire e all’epoca della costruzione degli edifici, era

impossibile per le ricorrenti prevedere l’applicazione della confisca. Infatti, poiché la legge no 47 del 1985 non

prevede in maniera esplicita la possibilità di confiscare i beni di terzi in caso di assoluzione degli imputati, la

confisca inflitta nella fattispecie sarebbe «non prevista dalla legge». Per infliggere la confisca, le giurisdizioni

nazionali hanno dato un’interpretazione non letterale dell’articolo 19 della legge no 47/1985 e ciò è arbitrario in

quanto si è in ambito penale e l’interpretazione per analogia a pregiudizio dell’interessato non può essere

utilizzata. Inoltre, una tale interpretazione è contraria all’articolo 240 del codice penale, che stabilisce il regime

generale delle confische.

90. Anche a voler supporre che l’interpretazione che ha portato a confiscare i beni di una persona assolta possa

essere definita un’interpretazione letterale, resta comunque da dimostrare che il carattere abusivo della

lottizzazione era effettivamente previsto dalla legge. Su questo punto le ricorrenti ricordano che il carattere

abusivo della lottizzazione in questione era tutt’altro che palese, essendo stata pronunciata un’assoluzione perché

la legislazione era talmente complessa che l’ignoranza della legge era inevitabile e scusabile.

91. Le ricorrenti osservano poi che la sanzione non è riconducibile ad un comportamento biasimevole, visto che

la confisca è stata disposta nei confronti di esse, che sono dei «terzi» rispetto agli imputati, e tenuto conto

soprattutto dell’assoluzione di questi ultimi e delle motivazioni della stessa. A questo riguardo le ricorrenti

invocano il principio della «responsabilità penale personale» previsto dalla Costituzione, secondo il quale è vietato

rispondere penalmente del fatto commesso da altri. Questo principio costituisce solo un aspetto complementare

del divieto dell’analogia in malam partem e dell’obbligo di elencare in maniera limitativa i casi ai quali si applica

una sanzione penale (principio di tassatività).

92. Le ricorrenti ricordano infine che, fino al 1990, la confisca era stata classificata dalle giurisdizioni nazionali tra

le sanzioni penali. Per questo, essa poteva colpire unicamente i beni dell’imputato (Corte di Cassazione, Sezione

3, 16 novembre 1995, Befana; 24 febbraio 1999, Iacoangeli). È solo a partire dal 1990 che la giurisprudenza si è

evoluta nel senso di considerare la confisca come una sanzione amministrativa, che in quanto tale può essere

inflitta indipendentemente dalla condanna penale e anche nei confronti di terzi. Secondo le ricorrenti, questo

cambiamento radicale della giurisprudenza ha avuto luogo solo per permettere la confisca dei beni di terzi in caso

di assoluzione degli imputati, come nella fattispecie.

93. Infine, le ricorrenti osservano che lo Stato sostiene dinanzi alla Corte una tesi diversa rispetto a quella

sostenuta a livello nazionale dagli avvocati che hanno assunto la difesa della Regione Puglia e dell’Automobile

Club Italiano, che ha contestato la legalità della confisca nei loro confronti in quanto inflitta a soggetti estranei al

procedimento penale.

94. In conclusione, la confisca della presente causa è contraria al divieto della responsabilità penale per fatto

commesso da altri ed è pertanto arbitraria.

95. Per di più, le ricorrenti ricordano la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo la quale una confisca

può riguardare i beni dei terzi estranei al reato solo «quando a questi ultimi si può attribuire un quid senza il quale

il reato non sarebbe avvenuto o non sarebbe stato agevolato». Le incorrenti invocano poi il principio secondo il

quale una persona giuridica non può essere penalmente responsabile (societas delinquere non potest).

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2. Argomenti del Governo

(omissis)

3. Valutazione della Corte

a) Richiamo dei principi pertinenti applicabili

105. La garanzia che sancisce l’articolo 7, elemento essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto

fondamentale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l’articolo 15 non autorizza

alcuna deroga allo stesso in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico. Come deriva dal suo oggetto e

dal suo scopo, esso deve essere interpretato e applicato in modo da assicurare una protezione effettiva contro

le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (sentenze S.W. e C.R. c. Regno Unito del 22 novembre

1995, serie A nn. 335-B e 335-C, p. 41, § 34, e p. 68, § 32, rispettivamente).

106. L’articolo 7 § 1 sancisce in particolare il principio di legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla

poena sine lege). Se vieta principalmente di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in

precedenza, non costituivano dei reati, esso impone altresì di non applicare la legge penale in maniera estensiva a

pregiudizio dell’imputato, ad esempio per analogia (v., tra le altre, Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96,

32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000 VII).

107. Ne consegue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa

condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della

disposizione pertinente, e se necessario con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali,

quali atti e omissioni implicano la sua responsabilità penale.

108. La nozione di «diritto» («law») utilizzata nell’articolo 7 corrisponde a quella di «legge» che compare in altri

articoli della Convenzione; essa comprende il diritto di origine sia legislativa che giurisprudenziale e implica delle

condizioni qualitative, tra le quali quelle dell’accessibilità e della prevedibilità (Cantoni c. Francia, 15 novembre

1996, § 29, Raccolta 1996 V; S.W. c. Regno Unito, § 35, 22 novembre 1995; Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio

1993, §§ 40-41, serie A no 260 A). Per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione legale, in qualsiasi

sistema giuridico, ivi compreso il diritto penale, esiste immancabilmente un elemento di interpretazione

giudiziaria. Bisognerà sempre chiarire i punti oscuri ed adattarsi ai cambiamenti di situazione. Del resto, è

solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto

fonte di diritto, contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale (Kruslin c. Francia, 24

aprile 1990, § 29, serie A no 176 A). Non si può interpretare l’articolo 7 della Convenzione nel senso che esso

vieta di chiarire gradualmente le norme in materia di responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria

da una causa all’altra, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente

prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 50, CEDU 2001

II).

109. La portata della nozione di prevedibilità dipende in gran parte dal contenuto del testo in questione,

dall’ambito che esso ricopre nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge

non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello

ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto. Questo

vale in particolare per i professionisti, abituati a dover dimostrare una grande prudenza nell’esercizio del loro

mestiere. Da essi ci si può pertanto aspettare che valutino con particolare attenzione i rischi che quest’ultimo

comporta (Pessino c. Francia, n° 40403/02, § 33, 10 ottobre 2006).

110. La Corte ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che

ha dato luogo al procedimento e alla condanna, esistesse una disposizione legale che rendeva l’atto punibile, e

che la pena imposta non abbia ecceduto i limiti fissati da tale disposizione (Murphy c. Regno Unito, ricorso no

4681/70, decisione della Commissione del 3 e 4 ottobre 1972, Raccolta delle decisioni 43; Coëme e altri, sentenza

già cit., § 145).

b) L’applicazione di questi principi nella presente causa

111. Nelle loro voluminose osservazioni, le parti hanno proceduto ad uno scambio di argomenti riguardanti la

«prevedibilità» del carattere abusivo della lottizzazione in questione, nonché la prevedibilità della confisca rispetto

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all’evoluzione della giurisprudenza delle corti nazionali. La Corte non ritiene di dover fornire un resoconto

dettagliato delle decisioni citate nella presente sentenza, poiché non ha il compito di giudicare il carattere

imprevedibile del reato in abstracto. In effetti, essa si baserà sulle conclusioni della Corte di cassazione che, nella

presente causa, ha pronunciato un’assoluzione nei confronti dei rappresentanti delle società ricorrenti, accusati di

lottizzazione abusiva.

112. Secondo l’Alta giurisdizione nazionale, gli imputati hanno commesso un errore inevitabile e scusabile

nell’interpretazione delle norme violate; la legge regionale applicabile, unita alla legge nazionale, era «oscura e mal

formulata»; la sua interferenza con la legge nazionale in materia aveva prodotto una giurisprudenza

contraddittoria; i responsabili del comune di Bari avevano autorizzato la lottizzazione e rassicurato le ricorrenti

quanto alla sua regolarità; a tutto ciò si era aggiunta l’inerzia delle autorità incaricate della tutela dell’ambiente. La

presunzione di conoscenza della legge (articolo 5 del codice penale) non era più valida e, conformemente alla

sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale (paragrafo 56 e) supra) e alla sentenza delle Sezioni Unite

della stessa Corte di Cassazione n. 8154 del 18 luglio 1994, l'elemento morale del reato (articoli 42 e seguenti del

codice penale) doveva essere escluso poiché, prima ancora di poter esaminare se sussistesse dolo o colpa per

negligenza o imprudenza, bisognava escludere la «coscienza e volontà» di violare la legge penale. In questo

contesto, nel contempo legale e fattuale, l’errore degli imputati sulla legalità della lottizzazione, secondo la Corte

di cassazione, era inevitabile.

113. Non spetta alla Corte concludere diversamente, e ancora meno fare delle ipotesi sui motivi che hanno spinto

l’amministrazione comunale di Bari a gestire in questo modo una questione così importante e sui motivi per cui

la Procura di Bari non ha condotto un’inchiesta efficace al riguardo (paragrafo 37 supra).

114. Si deve dunque riconoscere che le condizioni di accessibilità e prevedibilità della legge, nelle

circostanze specifiche della presente causa, non sono soddisfatte. In altri termini, dal momento che la

base giuridica del reato non rispondeva ai criteri di chiarezza, accessibilità e prevedibilità, era

impossibile prevedere che sarebbe stata inflitta una sanzione. Ciò vale sia per le società ricorrenti, che

hanno realizzato la lottizzazione abusiva, che per i rappresentanti delle stesse, imputati nell’ambito del processo

penale.

115. Un ordine di idee complementare merita di essere sviluppato. A livello interno la definizione di

«amministrativa» (paragrafi 65-66) data alla confisca controversa permette di sottrarre la sanzione in questione ai

principi costituzionali che regolano la materia penale. L’articolo 27/1 della Costituzione prevede che la

«responsabilità penale è personale» e l’interpretazione giurisprudenziale che ne viene data precisa che un

elemento morale è sempre necessario. Inoltre l’articolo 27/3 della Costituzione («Le pene .... devono tendere alla

rieducazione del condannato») si applicherebbe difficilmente a una persona condannata senza che possa essere

chiamata in causa la sua responsabilità penale.

116. Per quanto riguarda la Convenzione, l’articolo 7 non menziona espressamente il legame morale esistente tra

l’elemento materiale del reato e la persona che ne viene considerata l’autore. Tuttavia, la logica della pena e della

punizione, così come la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «persona

colpevole» (nella versione francese) vanno nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire,

un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella

condotta dell’autore materiale del reato. In caso contrario, la pena non sarebbe giustificata. Sarebbe del resto

incoerente, da una parte, esigere una base legale accessibile e prevedibile e, dall’altra, permettere che si consideri

una persona come «colpevole» e «punirla» quando essa non era in grado di conoscere la legge penale, a causa di

un errore insormontabile che non può assolutamente essere imputato a colui o colei che né è vittima.

117. Sotto il profilo dell’articolo 7, per i motivi sopra trattati, un quadro legislativo che non permette ad un

imputato di conoscere il senso e la portata della legge penale è lacunoso non solo rispetto alle condizioni generali

di «qualità» della «legge» ma anche rispetto alle esigenze specifiche della legalità penale.

118. Per tutti questi motivi, di conseguenza, la confisca in questione non era prevista dalla legge ai sensi

dell’articolo 7 della Convenzione. Essa si traduce perciò in una sanzione arbitraria. Pertanto, vi è stata violazione

dell’articolo 7 della Convenzione.

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(omissis)

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 29 ottobre 2013 - Ricorso n.Ricorso

n. 17475/09 - Varvara c. Italia

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A. Principi generali di diritto penale

25. a) L’articolo 27 comma 1 della Costituzione italiana prevede che «la responsabilità penale è personale». La

Corte costituzionale ha più volte affermato che non può esserci responsabilità oggettiva in materia penale (si

veda, fra altre, Corte costituzionale, sentenza n. 1 del 10 gennaio 1997, e infra, «altri casi di confisca». L’articolo

27 comma 3 della Costituzione prevede che «le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato».

b) L’articolo 25 della Costituzione, ai commi secondo e terzo, prevede che «nessuno può essere punito se non in

forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» e che «nessuno può essere sottoposto a

misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».

c) L’articolo 1 del codice penale prevede che «nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente

preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite». L’articolo 199 del codice penale,

riguardante le misure di sicurezza, prevede che nessuno possa essere sottoposto a misure di sicurezza che non

siano stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.

d) L’articolo 42, 1° comma, del codice penale prevede che «nessuno può essere punito per una azione od

omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà». La stessa regola è

stabilita dall’articolo 3 della legge n. 689 del 25 novembre 1989 per quanto riguarda i reati amministrativi.

e) L’articolo 5 del codice penale prevede che «Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge

penale». La Corte costituzionale (sentenza n. 364 del 1988) ha dichiarato che questo principio non si applica

quando si tratta di errore inevitabile, di modo che questo articolo deve ormai essere letto come segue:

«L’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti di ignoranza inevitabile». La Corte costituzionale ha

indicato come possibile origine dell’inevitabilità oggettiva dell’errore sulla legge penale «l’assoluta oscurità del

testo legislativo», le «assicurazioni erronee» di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da

realizzare, lo stato «gravemente caotico» della giurisprudenza.

B. La confisca

1. La confisca prevista dal codice penale

26. Ai sensi dell’articolo 240 del codice penale :

«1° comma: In caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a

commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.

2° comma: É sempre ordinata la confisca:

1. delle cose che costituiscono il prezzo del reato;

2. delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto o la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se

non è stata pronunciata condanna.

3° comma: Le disposizioni della prima parte e del n. 1 del capoverso precedente non si applicano se la cosa

appartiene a persona estranea al reato.

4° comma: La disposizione del n. 2 non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato e la

fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione

amministrativa. »

27. In quanto misura di sicurezza, la confisca rientra nella previsione dell’articolo 199 del codice penale ai sensi

del quale «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e

fuori dei casi dalla legge stessa preveduti».

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2. Altri casi di confisca / La giurisprudenza della Corte costituzionale

(omissis)

3. La confisca del caso di specie (articolo 19 della legge n. 47 del 28 febbraio 1985)

30. L’articolo 19 della legge n. 47 del 28 febbraio 1985 prevede la confisca delle opere abusive e dei terreni

abusivamente lottizzati quando la sentenza definitiva del giudice penale accerta che vi è stata lottizzazione

abusiva. La sentenza penale è immediatamente trascritta nei registri immobiliari.

4. L’articolo 20 della legge n. 47 del 28 febbraio 1985

31. Questa norma prevede sanzioni definite «penali» fra le quali non figura la confisca.

In caso di lottizzazione abusiva - così come viene definita dall’articolo 18 di questa stessa legge - le sanzioni

previste sono l’arresto fino a due anni e l’ammenda fino a 100 milioni di lire italiane (circa 51.646 euro).

5. L’articolo 44 del Testo Unico in materia edilizia (DPR n. 380 del 2001)

32. Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001 («Testo unico delle disposizioni

legislative e regolamentari in materia edilizia») ha codificato le norme esistenti soprattutto in materia di diritto a

costruire. Al momento della codifica, gli articoli 19 e 20 della legge n. 47 del 1985 di cui sopra sono confluiti in

un’unica norma, ossia l’articolo 44 del testo unico, così intitolato:

«Art. 44 (L) – Sanzioni penali

(...)

2. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei

terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. »

6. La giurisprudenza relativa alla confisca per lottizzazione abusiva

33. In un primo tempo i giudici nazionali avevano qualificato la confisca applicabile in caso di lottizzazione

abusiva come sanzione penale. Pertanto essa poteva essere applicata soltanto ai beni dell’imputato riconosciuto

colpevole del delitto di lottizzazione illegale, conformemente all’articolo 240 del codice penale (Corte di

cassazione, Sez. 3, 18 ottobre 1988, Brunotti; 8 maggio 1991, Ligresti; Sezioni Unite, 3 febbraio 1990, Cancilleri).

34. Con sentenza del 12 novembre 1990, la terza sezione della Corte di cassazione (causa Licastro) dichiarò che

la confisca era una sanzione amministrativa e obbligatoria, indipendente dalla condanna in ambito penale.

Essa poteva dunque essere ordinata nei confronti di terzi in quanto all’origine della confisca vi è una situazione

(una costruzione, una lottizzazione) che deve essere materialmente abusiva, indipendentemente dall’elemento

morale. Di conseguenza, la confisca può essere ordinata quando l’autore è assolto in mancanza l’elemento morale

perché il fatto non costituisce reato e non può essere ordinata se l’autore è assolto in ragione della non materialità

dei fatti perché il fatto non sussiste.

35. Questa giurisprudenza fu largamente seguita (Corte di cassazione, Sez. 3, sentenza del 16 novembre 1995,

Besana; 25 giugno 1999, Negro; 15 maggio 1997 n. 331, Sucato; 23 dicembre 1997 n. 3900, Farano; n. 777 del 6

maggio 1999, Iacoangeli). Con l’ordinanza n. 187 del 1998, la Corte costituzionale ha riconosciuto la natura

amministrativa della confisca.

Pur essendo considerata dalla giurisprudenza sanzione amministrativa, la confisca non può essere annullata da un

giudice amministrativo, in quanto la competenza in materia spetta unicamente al giudice penale (Corte di

cassazione, sez. 3, sentenza 10 novembre 1995, Zandomenighi).

La confisca di beni si giustifica in quanto questi ultimi sono «gli oggetti materiali del reato» In quanto tali, i terreni

non sono «pericolosi», ma lo diventano quando mettono in pericolo il potere decisionale che è riservato

all’autorità amministrativa (Corte di cassazione, Sez. 3, n. 1298/2000, Petrachi e altri).

Se l’amministrazione regolarizza ex post la lottizzazione, la confisca deve essere revocata (Corte di cassazione,

sentenza del 14 dicembre 2000 n. 12999, Lanza, 21 gennaio 2002, n. 1966, Venuti).

Lo scopo della confisca è quello di rendere indisponibile una cosa di cui si presume nota la pericolosità: i terreni

oggetto di lottizzazione abusiva e le opere abusivamente costruite. Si evita così di immettere sul mercato

immobiliare questo tipo di immobili. Quanto ai terreni si evita di commettere ulteriori reati e non si lascia spazio

a eventuali pressioni sugli amministratori locali affinché regolarizzino la situazione (Corte di cassazione, Sez. 3, 8

febbraio 2002, Montalto).

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11

C. Il diritto interno pertinente successivo alla sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio

2009

1. La Corte costituzionale

36. Il 9 aprile 2008, nell’ambito di un processo penale che non riguarda il ricorrente, la corte d’appello di Bari -

basandosi sulla decisione sulla ricevibilità nella causa Sud Fondi (Sud Fondi srl e altri c. Italia (dec.), n. 75909/01,

30 agosto 2007) – aveva investito la Corte costituzionale della questione sulla legalità della confisca che era stata

inflitta automaticamente, anche a prescindere dall’accertamento della responsabilità penale.

Con la sentenza n. 239 del 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità

costituzionale. Nella parte finale del suo ragionamento ha fatto osservare che quando vi è un apparente contrasto

fra disposizioni legislative interne e una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di

Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via

interpretativa. Spetta pertanto al giudice nazionale interpretare la norma interna compatibilmente con la norma

internazionale, entro i limiti nei quali ciò è permesso dai testi delle norme e, qualora ciò non sia possibile, il

giudice nazionale può investire la Corte costituzionale delle relative questioni di legittimità costituzionale.

2. La Corte di cassazione

37. La Corte di cassazione ha ribadito la sua tesi secondo la quale la confisca in esame è una sanzione di natura

amministrativa. Ne deriva che l’applicazione della sanzione è autorizzata anche quando il procedimento penale

per lottizzazione abusiva non si conclude con la condanna dell’accusato (Sez. 3, sentenze n. 36844 del 9 luglio

2009 e n. 397153 del 6 ottobre 2010).

38. Quando il reato di lottizzazione abusiva si estingue per prescrizione in data antecedente all’esercizio

dell’azione penale, il giudice che pronuncia il non luogo a procedere non può disporre la confisca oggetto di

controversia. Quando la prescrizione interviene dopo l’esercizio dell’azione penale, il giudice che pronuncia il

non luogo a procedere può disporre la confisca oggetto di controversia (Sez. 3, sentenza n. 5857 del 2011).

39. Anche se interviene la prescrizione, il giudice può assolvere l’imputato nel merito se dagli atti risulta evidente

che l’imputato non ha commesso il fatto, che il fatto non sussiste, che il fatto non costituisce reato o che non è

previsto dalla legge come reato (articolo 129 comma 2 del codice di procedura penale).

3. La legge n. 102 del 2009

40. (omissis)

D. Le decisioni al termine di un procedimento penale

41. La prescrizione è una delle cause per le quali un procedimento può concludersi con un non luogo a

procedere. Quando si dichiara non doversi procedere per prescrizione, il reato si estingue e, di conseguenza, non

è possibile applicare la pena (Corte costituzionale n. 85 del 2008).

42. Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione nel merito quando è provata l’innocenza dell’imputato, quando

vi è insufficienza di prove o se le prove sono contraddittorie (articolo 530 del codice di procedura penale).

Tuttavia, quando interviene la prescrizione, l’articolo 129 comma 2 permette al giudice di assolvere nel merito

l’imputato soltanto se dagli atti risulta evidente che l’imputato non ha commesso il fatto, che il fatto non sussiste,

che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato (si veda anche il paragrafo 39 supra)

43. Il giudice pronuncia sentenza di condanna soltanto se l’imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni

ragionevole dubbio (articolo 533 del codice di procedura penale) e può quindi applicare la pena.

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE

44. Il ricorrente denuncia l’illegalità della confisca che ha colpito i suoi beni, in quanto questa sanzione sarebbe

stata inflitta senza una sentenza di condanna, e invoca l’articolo 7 della Convenzione, che recita:

«1. Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa,

non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più

grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato.

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2. Il presente articolo non vieterà il giudizio o la punizione di una persona colpevole di una azione od omissione

che, al momento in cui è stata commessa, era ritenuta crimine secondo i principi generali del diritto riconosciuto

dalle nazioni civili.»

A. Sulla ricevibilità

45. (omissis)

B. Sul merito

1. Argomenti del ricorrente

46. Il ricorrente lamenta di essere stato oggetto di una sanzione penale che è stata applicata nonostante l’assenza

di una condanna, e osserva che in diritto italiano l’azione penale non può essere avviata quando un reato è estinto

per prescrizione. Nel caso di specie, secondo il ricorrente già nell’agosto 2001 il reato era prescritto. Tuttavia,

l’azione penale è stata proseguita fino al 2008 al solo scopo di poter infliggere una pena.

Il ricorrente fa inoltre notare la discrepanza fra le seguenti situazioni. Normalmente, il giudice deve assolvere

l’imputato ogni volta che le prove risultino insufficienti ovvero quando vi siano prove contraddittorie (articolo

530 CPP) o quando l’imputato non può essere ritenuto colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio (articolo 533

CPP). Tuttavia, se il reato è estinto per prescrizione, il giudice può assolvere nel merito soltanto se risulta

evidente che l’imputato non ha commesso i fatti o che i fatti non sussistono o che i fatti non costituiscono reato

o che non è previsto dalla legge come reato (articolo 129, comma 2 CPP). Vi è quindi inversione dell’onere della

prova, dal momento che il ricorrente ha dovuto cercare di dimostrare la prova della sua innocenza, e questa

situazione non è compatibile con le garanzie del processo equo e con la Convenzione.

47. Tra l’altro, il ricorrente ricorda che il piano di lottizzazione è stato autorizzato dal comune di Cassano delle

Murge; che ha edificato in conformità ai permessi a costruire che gli sono stati rilasciati; che ha ricevuto

l’assicurazione che il suo progetto era conforme alle norme applicabili. Secondo il ricorrente, il comportamento

delle autorità, che hanno inizialmente autorizzato e perfino incoraggiato il progetto di costruzione e che,

successivamente, hanno cambiato radicalmente atteggiamento dopo aver permesso la realizzazione dei lavori, è

decisamente criticabile. Infine, il ricorrente precisa che il fatto che i suoi vicini abbiano rinunciato al piano di

lottizzazione non ha rapporto alcuno con la conformità o meno del progetto stesso al diritto nazionale.

2. Argomenti del Governo

48. Il Governo osserva anzitutto che in seguito alla constatazione di violazione rilevata nella sentenza Sud Fondi

(Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009), la Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 24

luglio 2009) ha dichiarato che la legge nazionale deve essere interpretata in conformità alla Convenzione e che,

secondo i principi affermati nella sentenza Sud Fondi, «la confisca non può derivare automaticamente da

un’urbanizzazione abusiva, senza tener conto della responsabilità dei fatti».

Inoltre, la legge n. 102 del 3 agosto 2009 ha disposto la revoca della confisca e dei criteri di indennizzo per coloro

che abbiano subito una confisca ingiustificata dal punto di vista della Convenzione.

49. Il Governo osserva poi che, nel diritto italiano, la confisca controversa è sempre considerata dalle autorità

giudiziarie come una sanzione amministrativa, e pertanto il fatto di ordinarla nel caso di specie è compatibile con

l’articolo 7 della Convenzione.

A differenza della causa Sud Fondi, nel caso di specie il ricorrente non è stato assolto nel merito ma ha

beneficiato di un non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Secondo il Governo, il ricorrente avrebbe

potuto rinunciare all’applicazione della prescrizione e chiedere al giudice di decidere ai sensi dell’articolo 129

comma 2 del codice di procedura penale. In ogni caso, il Governo, facendo riferimento alla giurisprudenza della

Corte di cassazione (sentenza n. 5857 del 16 febbraio 2011), fa osservare che nel caso di specie la prescrizione

non era intervenuta prima dell’avvio dell’azione penale, il che depone a favore della legalità della sanzione

ordinata.

Le opere realizzate contravvenivano obiettivamente a delle norme di legge; sussisteva quindi il reato di

urbanizzazione abusiva in quanto il progetto di lottizzazione era abusivo. Secondo il Governo, il ricorrente

conosceva l’esistenza dei vincoli paesaggistici. I vicini del ricorrente si sarebbero dissociati dal progetto per non

essere coinvolti in una speculazione immobiliare. L’articolo 7 della Convenzione non è stato violato in quanto le

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norme applicabili erano accessibili e prevedibili. Comportandosi nel modo in cui si è comportato, il ricorrente

sapeva di rischiare la confisca dei beni, che quindi era una conseguenza prevedibile.

50. Nel caso in cui la Corte dovesse concludere per una violazione della Convenzione, il Governo chiede di

tener conto di queste tesi ai fini dell’equa soddisfazione.

3. Valutazione della Corte

a) Applicabilità dell’articolo 7 della Convenzione

51. La Corte ricorda che, nella causa Sud Fondi (Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, decisione sopra citata), ha

affermato che la confisca controversa si traduce in una pena, e, pertanto, trova applicazione l’articolo 7 della

Convenzione.

b) Principi applicabili

52. La garanzia sancita dall’articolo 7, elemento fondamentale della preminenza del diritto, occupa un posto

primordiale nel sistema di tutela della Convenzione, come attestato dal fatto che l’articolo 15 non ne autorizza

alcuna deroga in tempo di guerra o di altro pericolo pubblico. Come si deduce dal suo oggetto e dal suo scopo,

deve essere interpretato ed applicato in modo da garantire un’effettiva tutela da azioni penali, da condanne e da

sanzioni arbitrarie (sentenze S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 34, serie A n. 335 B e C.R. c. Regno

Unito del 22 novembre 1995, serie A nn. 335-B e 335-C, § 32).

53. L’articolo 7 § 1 sancisce in particolare il principio della legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla

poena sine lege). Esso vieta in particolare di estendere il campo d’applicazione dei reati esistenti a fatti che, in

precedenza, non costituivano reati, ordinando inoltre di non applicare la legge penale in maniera estensiva a

scapito dell’imputato, per esempio per analogia (vedi, tra le altre, Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96,

32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, §145, CEDU 2000 VII).

54. Ne segue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene applicabili (Achour c. Francia [GC], n.

67335/01, § 41, CEDU 2006 IV). Questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può

sapere, a partire dalla formulazione della norma pertinente e, se necessario, con l’aiuto dell’interpretazione data

dai tribunali, quali atti e omissioni implichino la sua responsabilità penale.

55. La nozione di «diritto» («law») usata nell’articolo 7 corrisponde a quella di «legge» che figura in altri articoli

della Convenzione; essa comprende il diritto d’origine sia legislativa sia giurisprudenziale e implica delle

condizioni qualitative, tra cui quella dell’accessibilità e della prevedibilità (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996,

§ 29, Recueil des arrêts et des décisions 1996 V; S.W., sopra citata, § 35; Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993,

§§ 40-42, serie A n. 260 A). Per quanto chiara possa essere la formulazione di una norma legale, in qualunque

sistema giuridico, compreso il diritto penale, esiste immancabilmente un elemento di interpretazione giuridica.

Sarà sempre necessario delucidare i punti dubbi e adattarsi alle mutate situazioni. Tra l’altro, è saldamente

stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto fonte del

diritto, contribuisce necessariamente alla progressiva evoluzione del diritto penale. Non si può interpretare

l’articolo 7 della Convenzione come una norma che vieta il graduale chiarimento delle norme della responsabilità

penale attraverso l’interpretazione giuridica da una causa all’altra, a condizione che il risultato sia coerente con la

sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96,

35532/97 e 44801/98, § 50, CEDU 2001 II).

56. La portata del concetto di prevedibilità dipende in gran parte dal contenuto del testo di cui si tratta,

dell’ambito interessato nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge non si

contrappone al fatto che la persona interessata sia portata ad avvalersi di consigli illuminati per valutare, a un

livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto.

Questo vale in particolare per i professionisti, abituati a dover dare prova di grande prudenza nell’esercizio del

loro lavoro. Perciò ci si può aspettare che essi valutino con particolare attenzione i rischi che esso comporta

(Pessino c. Francia, n. 40403/02, § 33, 10 ottobre 2006).

57. Spetta quindi alla Corte assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha portato

all’azione penale e alla condanna, esistesse una norma legale che rendeva l’atto punibile, e che la pena imposta

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non abbia oltrepassato i limiti fissati da questa norma (Murphy c. Regno Unito, n. 4681/70, decisione della

Commissione, 3 e 4 ottobre 1972, Recueil des décisions 43; Coëme e altri, sopra citata, § 145).

c) L’applicazione di questi principi al caso di specie

58. La Corte ricorda che nella causa Sud Fondi (Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia sopra citata, §§ 112 e 114), aveva

concluso che l’applicazione della confisca malgrado la decisione di assolvere i ricorrenti non aveva una base

legale, era arbitraria e violava l’articolo 7 della Convenzione. Era stata pronunciata l’assoluzione in quanto i

ricorrenti avevano commesso un errore inevitabile e scusabile nell’interpretare la legge.

59. Nel caso di specie, il ricorrente ha beneficiato di un non luogo a procedere in quanto il reato di lottizzazione

abusiva era estinto per prescrizione ed era stato oggetto di una sanzione, ossia la confisca delle opere costruite e

dei terreni interessati dal progetto di lottizzazione controverso. La Corte ha il compito di esaminare se

l’applicazione di questa sanzione è compatibile con l’articolo 7 della Convenzione.

60. Anzitutto, la Corte osserva che ai sensi della norma applicabile (paragrafo 30 supra), la confisca delle opere

abusive nonché dei terreni lottizzati abusivamente è autorizzata quando i giudici penali hanno accertato con una

«sentenza definitiva» che la lottizzazione è abusiva, ma il testo non precisa che la «sentenza definitiva» deve essere

una decisione di condanna.

I giudici nazionali hanno interpretato questa norma nel senso che era possibile applicare la sanzione senza una

condanna dal momento in cui hanno ritenuto che si trattasse di una sanzione amministrativa. La Corte nota in

proposito che esiste un principio nel diritto nazionale (si veda diritto interno capitoli A. e D.) stando al quale non

si può punire un imputato in mancanza di una condanna. In particolare, quando il reato è prescritto, non si può

comminare una pena (paragrafo 41, supra). Inoltre, l’interpretazione della norma applicabile da parte dei giudici

nazionali è stata fatta a scapito dell’imputato.

61. In secondo luogo, la Corte ha difficoltà a capire come la punizione di un imputato il cui processo non si è

concluso con una condanna possa conciliarsi con l’articolo 7 della Convenzione, norma che esplicita il principio

di legalità nel diritto penale.

62. Dato che nessuno può essere riconosciuto colpevole di un reato che non sia previsto dalla legge, e che

nessuno può subire una pena che non sia prevista dalla legge, una prima conseguenza è ovviamente il divieto per

i giudici nazionali di interpretare in modo estensivo la legge a scapito dell’imputato, altrimenti quest’ultimo

potrebbe essere punito per un comportamento non previsto come reato.

63. Un’altra conseguenza di fondamentale importanza deriva dal principio di legalità nel diritto penale: il divieto

di punire una persona se il reato è stato commesso da un’altra.

64. La Corte ha finora avuto l’opportunità di affrontare questa questione dal punto di vista dell’articolo 6 § 2

della Convenzione.

65. Nella causa A.P., M.P. e T.P. c. Svizzera, 29 agosto 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997 V), alcuni eredi

erano stati puniti per reati commessi dal defunto. La Corte ha ritenuto che la sanzione penale inflitta agli eredi

per una frode fiscale attribuita al defunto contrastasse con una regola fondamentale del diritto penale, secondo

cui la responsabilità penale non sopravvive all’autore del reato (ibid., § 48). È quanto riconosciuto esplicitamente

dal diritto svizzero, e la Corte ha affermato che questa norma è altresì richiesta per la presunzione di innocenza

sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione. Ereditare la colpevolezza del defunto non è compatibile con le

norme della giustizia penale in una società in cui vige il principio della preminenza del diritto. Il principio è stato

ribadito nella causa Lagardère (Lagardère c. Francia, n. 18851/07, 12 aprile 2012, § 77), in cui la Corte ha

ricordato che, per la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione, è richiesta anche la

norma secondo la quale la responsabilità penale non sopravvive all’autore del reato, ma anche che ereditare la

colpevolezza del defunto non è compatibile con le norme della giustizia penale in una società regolata dalla

preminenza del diritto.

66. Visto l’accostamento degli articoli 6 § 2 e 7 § 1 della Convenzione (Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, §

100, serie A n. 39), la Corte ritiene che la norma da lei appena ricordata sia valida anche dal punto di vista

dell’articolo 7 della Convenzione, che impone di vietare che nel diritto penale si possa rispondere per un fatto

commesso da altri. Infatti, se è vero che ogni persona deve poter stabilire in ogni momento cosa è permesso e

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cosa è vietato per mezzo di leggi precise e chiare, non si può concepire un sistema che punisca coloro che non

sono responsabili, perché il responsabile è stato un terzo.

67. Non si può neppure concepire un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun

grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza subisca una pena. Si tratta di una terza

conseguenza del principio di legalità nel diritto penale: il divieto di comminare una pena senza accertamento di

responsabilità, che deriva anch’esso dall’articolo 7 della Convenzione.

68. Anche questo principio è stato affermato dalla Corte relativamente all’articolo 6 § 2 della Convenzione. Nella

causa Geerings (Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1. marzo 2007), i tribunali nazionali avevano

confiscato i beni dell’interessato in quanto avevano ritenuto che questi avesse tratto profitto dal reato in

questione anche se il ricorrente non era mai stato trovato in possesso di beni di cui non era stato in grado di

spiegare l’origine. La Corte aveva ritenuto che la confisca dei «benefici ottenuti illecitamente» fosse una misura

inadeguata tanto più che l’interessato non era stato dichiarato colpevole del reato e che non era mai stato stabilito

che avesse avuto dei benefici dal reato. La Corte aveva ritenuto che questa situazione non potesse essere

compatibile con la presunzione di innocenza e aveva concluso con la violazione dell’articolo 6 § 2 della

Convenzione.

69. L’accostamento dell’articolo 5 § 1 a) agli articoli 6 § 2 e 7 § 1 mostra che ai fini della Convenzione non si può

avere «condanna» senza che sia legalmente accertato un illecito – penale o, eventualmente, disciplinare (Engel e

altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 68, serie A n. 22; Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, § 100, serie A n. 39),

così come non si può avere una pena senza l’accertamento di una responsabilità personale.

70. Certo, gli Stati contraenti restano liberi, in linea di principio, di reprimere penalmente un atto compiuto fuori

dall’esercizio normale di uno dei diritti tutelati dalla Convenzione e, quindi, di definire gli elementi costitutivi di

questo reato: essi possono, in particolare, sempre in linea di principio e ad alcune condizioni, rendere punibile un

fatto materiale o oggettivo considerato di per sé, che derivi o meno da un intento criminale o da una negligenza;

le rispettive legislazioni ne offrono degli esempi (Salabiaku c. Francia, 7 ottobre 1988, serie A n. 141, § 27). Lo

stesso principio è stato affermato in Janosevic c. Svezia (n. 34619/97, 23 luglio 2002, § 68) in cui la Corte ha

aggiunto che «la mancanza di elementi soggettivi non priva necessariamente un reato della sua natura penale; in

realtà, le legislazioni degli Stati contraenti offrono esempi di reati basati unicamente su elementi oggettivi».

L’articolo 7 della Convenzione non richiede espressamente un «nesso psicologico» o «intellettuale» o «morale» tra

l’elemento materiale del reato e la persona che ne è ritenuta l’autore. Tra l’altro, la Corte ha recentemente

concluso per la non violazione dell’articolo 7 in un caso in cui era stata inflitta una multa a una parte ricorrente

che aveva commesso un reato senza dolo o colpa (Valico S.r.l. c. Italia (dec.), n. 70074/01, CEDU 2006 III).

L’accertamento di responsabilità era sufficiente per giustificare l’applicazione della sanzione.

71. La logica della «pena» e della «punizione», e la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente

nozione di «persona colpevole» (nella versione francese), depongono a favore di un’interpretazione dell’articolo 7

che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di

addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non avrebbe senso

(Sud Fondi e altri, sopra citata, § 116). Sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile

e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è

stata condannata.

72. Nella presente causa, la sanzione penale inflitta al ricorrente, quando il reato era estinto e la sua

responsabilità non era stata accertata con una sentenza di condanna, contrasta con i principi di legalità penale

appena esposti dalla Corte e che sono parte integrante del principio di legalità che l’articolo 7 della Convenzione

impone di rispettare. La sanzione controversa non è quindi prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della

Convenzione ed è arbitraria.

73. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 2 DELLA CONVENZIONE

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74. Il ricorrente sostiene che la confisca disposta nei suoi confronti nonostante la decisione di non luogo a

procedere ha violato il principio della presunzione di innocenza, come previsto dall’articolo 6 § 2 della

Convenzione, così formulato:

«2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata

legalmente accertata.»

(omissis)

III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1

78. Il ricorrente denuncia l’illegalità nonché il carattere sproporzionato della confisca disposta sui suoi beni e

deduce violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 che, nella sua parte pertinente, dispone:

«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà

se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto

internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute

necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale.»

(omissis)

1.2 Cedu e margine di apprezzamento del giudice nazionale

Cass. Pen. Sez III, 20 maggio 2014, n. 20636

All. 1

1.3 Cedu, nozione di pena e sanzioni formalmente amministrative

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 marzo 2014 - Ricorso n. 18640/10

- Grande Stevens e altri c. Italia

IN DIRITTO

I. (omissis)

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE

87. I ricorrenti sostengono che il procedimento dinanzi alla CONSOB non è stato equo e denunciano la

mancanza di imparzialità e indipendenza di tale organo.

Essi invocano l'articolo 6 della Convenzione, che, nelle sue parti pertinenti, e così formulato:

«1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente (…), da un tribunale

indipendente e imparziale (…), il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di

carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa

pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte

del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società

democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o,

nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa

portare pregiudizio agli interessi della giustizia.

2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata

legalmente accertata.

(omissis)

b) Valutazione della Corte

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17

94. La Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di

una «accusa in materia penale», occorre tener presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa

nel diritto nazionale, la natura stessa di quest'ultima, e la natura e il grado di severità della «sanzione» (Engel e

altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22). Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi:

affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell'articolo 6 § 1, è sufficiente che il reato in causa

sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l'interessato a una sanzione che, per natura e

livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un

approccio cumulativo se l'analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in

merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31,

CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX (estratti)).

95. Nel caso di specie, la Corte constata innanzitutto che le manipolazioni del mercato ascritte ai ricorrenti non

costituiscono un reato di natura penale nel diritto italiano. Questi comportamenti sono in effetti puniti con una

sanzione qualificata come «amministrativa» dall'articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998

(paragrafo 20 supra). Ciò non è tuttavia decisivo ai fini dell'applicabilità del profilo penale dell'articolo 6 della

Convenzione, in quanto le indicazioni che fornisce il diritto interno hanno un valore relativo (Öztürk c.

Germania, 21 febbraio 1984, § 52, serie A n. 73, e Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 39).

96. Per quanto riguarda la natura dell’illecito, sembra che le disposizioni la cui violazione è stata ascritta ai

ricorrenti si prefiggessero di garantire l'integrità dei mercati finanziari e di mantenere la fiducia del pubblico nella

sicurezza delle transazioni. La Corte rammenta che la CONSOB, autorità amministrativa indipendente, ha tra i

suoi scopi quello di assicurare la tutela degli investitori e l'efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati

borsistici (paragrafo 9 supra). Si tratta di interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale (si

veda mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 40; si veda anche Société Stenuit c. Francia,

rapporto della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 30 maggio 1991, § 62, serie A n. 232 A). Inoltre, la

Corte è del parere che le sanzioni pecuniarie inflitte mirassero essenzialmente a punire per impedire la recidiva.

Erano dunque basate su norme che perseguivano uno scopo preventivo, ovvero dissuadere gli interessati dal

ricominciare, e repressivo, in quanto sanzionavano una irregolarità (si veda, mutatis mutandis, Jussila, sopra

citata, § 38). Dunque, non si prefiggevano unicamente, come sostiene il Governo (paragrafo 91 supra), di riparare

un danno di natura finanziaria. Al riguardo, è opportuno notare che le sanzioni erano inflitte dalla CONSOB in

funzione della gravità della condotta ascritta e non del danno provocato agli investitori.

97. Per quanto riguarda la natura e la severità della sanzione «che può essere inflitta» ai ricorrenti (Ezeh e

Connors c. Regno Unito [GC], nn. 39665/98 e 40086/98, § 120, CEDU 2003-X), la Corte conviene con il

Governo (paragrafo 90 supra) che le sanzioni pecuniarie in questione non potessero essere sostituite da una pena

privativa della libertà in caso di mancato pagamento (si veda, a contrario, Anghel c. Romania, n. 28183/03, § 52,

4 ottobre 2007). Tuttavia, la CONSOB poteva infliggere una sanzione pecuniaria fino a 5.000.000 EUR

(paragrafo 20 supra), e questo massimo ordinario poteva, in alcune circostanze, essere triplicato o elevato fino a

dieci volte il prodotto o il profitto ottenuto grazie al comportamento illecito (paragrafo 53 supra). L'inflizione

delle sanzioni amministrative pecuniarie sopra menzionate comporta per i rappresentanti delle società coinvolte

la perdita temporanea della loro onorabilità, e se queste ultime sono quotate in borsa, ai loro rappresentanti si

applica l'incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito delle

società quotate per una durata variabile da due mesi a tre anni. La CONSOB può anche vietare alle società

quotate, alle società di gestione e alle società di revisione di avvalersi della collaborazione dell'autore dell’illecito,

per una durata massima di tre anni, e chiedere agli ordini professionali la sospensione temporanea dell'interessato

dall'esercizio della sua attività professionale (paragrafo 54 supra). Infine, l'applicazione delle sanzioni

amministrative pecuniarie importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per

commetterlo (paragrafo 56 supra).

98. È vero che nel caso di specie le sanzioni non sono state applicate nel loro ammontare massimo, in quanto la

corte d'appello di Torino ha ridotto alcune ammende inflitte dalla CONSOB (paragrafo 30 supra), e non è stata

disposta alcuna confisca. Tuttavia, il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della

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sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (Engel e altri, sopra citata, § 82), e non alla gravità della

sanzione alla fine inflitta (Dubus S.A., sopra citata, § 37). Per di più, nel caso di specie i ricorrenti sono stati

sanzionati con ammende variabili tra 500.000 e 3.000.000 EUR, e a Gabetti, Grande Stevens e Marrone è stata

inflitta l’interdizione dall’amministrare, dirigere o controllare delle società quotate in borsa per un tempo

compreso tra due e quattro mesi (paragrafi 25-26 e 30-31 supra). Quest'ultima sanzione era tale da ledere il

credito delle persone interessate (si veda, mutatis mutandis, Dubus S.A., loc. ult. cit.), e le ammende erano, visto

il loro ammontare, di una innegabile severità che comportava per gli interessati conseguenze patrimoniali

importanti.

99. Alla luce di quanto è stato esposto e tenuto conto dell'importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e di

quelle di cui erano passibili i ricorrenti, la Corte ritiene che le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità,

nell’ambito della materia penale (si vedano, mutatis mutandis, Öztürk, sopra citata, § 54, e, a contrario, Inocêncio

c. Portogallo (dec.), n. 43862/98, CEDU 2001 I).

100. (omissis)

2. Altri motivi di irricevibilità

102 (omissis)

B. Sul merito

1. Sulla questione di stabilire se il procedimento dinanzi alla CONSOB sia stato equo

(omissis)

2. Sulla questione di stabilire se la CONSOB fosse un tribunale indipendente e imparziale

(omissis)

3. Sulla questione di stabilire se i ricorrenti abbiano avuto accesso a un tribunale con piena giurisdizione

(omissis)

III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 3 a) E c) DELLA CONVENZIONE

(omissis)

IV. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1

176. I ricorrenti lamentano una violazione del loro diritto al rispetto dei loro beni, sancito dall’articolo 1 del

Protocollo n. 1.

(omissis)

V. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 4 DEL PROTOCOLLO N. 7

202. I ricorrenti si considerano vittime di una violazione del principio ne bis in idem, sancito dall’articolo 4 del

Protocollo n. 7.

Tale disposizione recita:

«1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato

per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla

procedura penale di tale Stato.

2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla

legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio

fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta.

3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.»

203. Il Governo contesta l’affermazione dei ricorrenti.

A. Sulla ricevibilità

1. La riserva dell’Italia relativa all’articolo 4 del Protocollo n. 7

204. Il Governo osserva che l’Italia ha fatto una dichiarazione secondo la quale gli articoli 2 – 4 del Protocollo n.

7 si applicano solo agli illeciti, ai procedimenti e alle decisioni che la legge italiana definisce penali. La legge

italiana tuttavia non definisce penali gli illeciti sanzionati dalla CONSOB. Inoltre, la dichiarazione dell’Italia

sarebbe simile a quelle fatte da altri Stati (in particolare, Germania, Francia e Portogallo).

205. I ricorrenti replicano che l’articolo 4 del Protocollo n. 7, per il quale non è prevista alcuna deroga ai sensi

dell’articolo 15 della Convenzione, riguarda un diritto che rientra nella sfera nell’ordine pubblico europeo.

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Secondo loro, la dichiarazione fatta dall’Italia in occasione del deposito dello strumento di ratifica del Protocollo

n. 7 non avrebbe la portata di una riserva ai sensi dell’articolo 57 della Convenzione, che non autorizza le riserve

di carattere generale. Inoltre, la dichiarazione in questione non si ricollega a «una legge» in vigore al momento

della sua formulazione e non contiene una «breve esposizione» di tale legge. Essa sarebbe dunque ininfluente per

quanto riguarda gli obblighi assunti dall’Italia.

206. La Corte osserva che il Governo afferma di avere emesso una riserva per quanto riguarda l’applicazione

degli articoli 2 – 4 del Protocollo n. 7 (paragrafo 204 supra). Indipendentemente dalla questione dell’applicabilità

di tale riserva, la Corte deve esaminarne la validità: in altri termini, essa deve stabilire se la riserva soddisfi le

esigenze dell’articolo 57 della Convenzione (Eisenstecken c. Austria, n. 29477/95, § 28, CEDU 2000-X).

Tale disposizione recita:

«1. Ogni Stato, al momento della firma della presente Convenzione o del deposito del suo strumento di ratifica,

può formulare una riserva riguardo a una determinata disposizione della Convenzione, nella misura in cui una

legge in quel momento in vigore sul suo territorio non sia conforme a tale disposizione. Le riserve di carattere

generale non sono autorizzate ai sensi del presente articolo.

2. Ogni riserva emessa in conformità al presente articolo comporta una breve esposizione della legge in

questione.»

207. La Corte rammenta che, per essere valida, una riserva deve presentare i seguenti requisiti: 1) deve essere

fatta al momento in cui la Convenzione o i suoi Protocolli vengono firmati o ratificati; 2) deve riguardare leggi

ben precise in vigore all’epoca della ratifica; 3) non deve essere di carattere generale; 4) deve contenere una breve

esposizione della legge interessata (Põder e altri c. Estonia (dec.), n. 67723/01, CEDU 2005 VIII, e Liepājnieks c.

Lettonia (dec.), n. 37586/06, § 45, 2 novembre 2010).

208. La Corte ha avuto modo di precisare che l’articolo 57 § 1 della Convenzione esige da parte degli Stati

contraenti «precisione e chiarezza», e che, chiedendo loro di presentare una breve esposizione della legge in

questione, tale disposizione non enuncia un «semplice requisito formale» ma stabilisce una «condizione

sostanziale» che costituisce «un elemento di prova e, allo stesso tempo, un fattore di sicurezza giuridica» (Belilos

c. Svizzera, 29 aprile 1988, §§ 55 e 59, serie A n. 132; Weber c. Svizzera, 22 maggio 1990, § 38, serie A n. 177; e

Eisenstecken, sopra citata, § 24).

209. Per «riserva di carattere generale», l’articolo 57 intende in particolare una riserva redatta in termini troppo

vaghi o ampi per poterne valutare con precisione il senso e il campo di applicazione. Il testo della dichiarazione

deve permettere di valutare esattamente la portata dell’impegno dello Stato contraente, in particolare per quanto

riguarda le categorie di controversie previste, e non deve prestarsi a diverse interpretazioni (Belilos, sopra citata, §

55).

210. Nel caso di specie, la Corte rileva che la riserva in questione non contiene una «breve esposizione» della

legge o delle leggi asseritamente incompatibili con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. Dal testo della riserva si può

dedurre che l’Italia ha inteso escludere dal campo di applicazione di tale disposizione tutti gli illeciti e le

procedure che non sono qualificati come «penali» dalla legge italiana. Ciò non toglie che una riserva che non

invoca né indica le disposizioni specifiche dell’ordinamento giuridico italiano che escludono alcuni illeciti o

alcune procedure dal campo di applicazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 non offra sufficienti garanzie che

non andrà oltre le disposizioni esplicitamente escluse dallo Stato contraente (si vedano, mutatis mutandis,

Chorherr c. Austria, 25 agosto 1993, § 20, serie A n. 266 B; Gradinger c. Austria, 23 ottobre 1995, § 51, serie A n.

328 C; e Eisenstecken, sopra citata, § 29; si veda anche, a contrario, Kozlova e Smirnova c. Lettonia (dec.), n.

57381/00, CEDU 2001 XI). Al riguardo, la Corte rammenta che nemmeno difficoltà pratiche notevoli

nell’indicazione e nella descrizione di tutte le disposizioni interessate dalla riserva possono giustificare

l’inosservanza delle condizioni dettate dall’articolo 57 della Convenzione (Liepājnieks, decisione sopra citata, §

54).

211. Di conseguenza, la riserva invocata dall’Italia non soddisfa le esigenze dell’articolo 57 § 2 della

Convenzione. Questa conclusione è sufficiente per determinare la nullità della riserva, senza che sia necessario

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esaminare se siano state rispettate le altre condizioni formulate nell’articolo 57 (si veda, mutatis mutandis,

Eisenstecken, sopra citata, § 30).

2. Altri motivi di irricevibilità

(omissis)

B. Sul merito

1. Argomenti delle parti

a) I ricorrenti

213. I ricorrenti osservano che hanno subito una sanzione penale all’esito del procedimento dinanzi alla

CONSOB, e che sono stati oggetto di un’azione penale per gli stessi fatti.

214. Per quanto riguarda la questione di stabilire se il procedimento dinanzi alla CONSOB e il procedimento

penale fossero relativi allo stesso «illecito», i ricorrenti rammentano i principi enunciati dalla Grande Camera nella

causa Sergueï Zolotoukhine c. Russia ([GC], n. 14939/03, 10 febbraio 2009), in cui la Corte ha concluso

affermando che è vietato perseguire una persona per un secondo «illecito» quando quest’ultimo è basato su fatti

identici o fatti che sono in sostanza gli stessi. Secondo i ricorrenti, è proprio ciò che si è verificato nel caso di

specie.

Al riguardo, i ricorrenti rammentano che, se è vero che la CGUE ha precisato che l’articolo 50 della Carta dei

diritti fondamentali non si opponeva al fatto che uno Stato membro imponesse in momenti diversi, per un unico

e medesimo insieme di fatti di inosservanza di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto, una

sanzione fiscale e una sanzione penale, la condizione era comunque che la prima sanzione non fosse di natura

penale (si veda Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, sentenza sopra citata, punto 1 del dispositivo); invece,

secondo loro, tale condizione non sussiste nel caso di specie, poiché nonostante la loro qualificazione formale nel

diritto italiano, le sanzioni comminate dalla CONSOB sarebbero proprio di natura penale secondo la

giurisprudenza della Corte.

b) Il Governo

215. Facendo riferimento agli argomenti esposti dal punto di vista dell’articolo 6 della Convenzione, il Governo

sostiene anzitutto che il procedimento dinanzi alla CONSOB non riguardava una «accusa in materia penale» e

che la decisione della CONSOB non era di natura «penale».

216. Peraltro, il diritto dell’Unione europea ha espressamente autorizzato il ricorso a una doppia sanzione

(amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte abusive sui mercati finanziari. Un tale ricorso

costituirebbe una tradizione costituzionale comune agli Stati membri, in particolare in ambiti quali la tassazione,

le politiche ambientali e la sicurezza pubblica. Tenuto conto di ciò, e del fatto che alcuni Stati non hanno

ratificato il Protocollo n. 7 o hanno emesso dichiarazioni a proposito dello stesso, sarebbe lecito considerare che

la Convenzione non garantisce il principio ne bis in idem come fa invece per quanto riguarda altri principi

fondamentali. Pertanto, non sarebbe opportuno ritenere che l’imposizione di una sanzione amministrativa

definitiva impedisca l’avvio di un’azione penale. Il Governo fa riferimento, su questo punto, all’opinione espressa

dinanzi alla CGUE dall’avvocato generale nelle sue conclusioni del 12 giugno 2012 sulla causa Åklagaren c. Hans

Åkerberg Fransson, sopra citata.

217. In ogni caso, il procedimento penale pendente nei confronti dei ricorrenti non riguarderebbe lo stesso fatto

che è stato sanzionato dalla CONSOB. In effetti, vi sarebbe una differenza netta tra gli illeciti previsti

rispettivamente dagli articoli 187 ter e 185 del decreto legislativo n. 58 del 1998, in quanto solo il secondo esige

l’esistenza di un dolo (non essendo sufficiente una semplice negligenza) e della idoneità delle informazioni false o

fuorvianti diffuse a produrre un’alterazione significativa dei mercati finanziari. Peraltro, solo il procedimento

penale può portare a infliggere pene privative della libertà. Il Governo fa riferimento alla causa R.T. c. Svizzera

((dec.), n. 31982/96, 30 maggio 2000), in cui la Corte ha precisato che il fatto che due diverse autorità (una

amministrativa e l’altra penale) infliggano sanzioni non è incompatibile con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. A

questo riguardo, la circostanza che una stessa condotta possa violare contemporaneamente l’articolo 187 ter e

l’articolo 185 del decreto legislativo n. 58 del 1998 non sarebbe pertinente, in quanto si tratterebbe di una caso

tipico di concorso formale di reati, caratterizzato dalla circostanza che un unico fatto penale si scinde in due

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illeciti distinti (si veda Oliveira c. Svizzera, n. 25711/94, § 26, 30 luglio 1998; Goktan c. Francia, n. 33402/96, §

50, 2 luglio 2002; Gauthier c. Francia (dec.), n. 61178/00, 24 giugno 2003; e Ongun c. Turchia (dec.), n.

15737/02, 10 ottobre 2006).

218. Infine, si deve notare che, allo scopo di assicurare la proporzionalità della pena rispetto ai fatti ascritti, il

giudice penale può tenere conto del fatto che sia stata precedentemente inflitta una sanzione amministrativa, e

decidere di ridurre la sanzione penale. In particolare, l’importo della sanzione pecuniaria amministrativa viene

detratto dalla pena pecuniaria (articolo 187 terdecies del decreto legislativo n. 58 del 1998) e i beni già sottoposti

a sequestro nell’ambito del procedimento amministrativo non possono essere confiscati.

2. Valutazione della Corte

219. La Corte rammenta che, nella causa Sergueï Zolotoukhine (sopra citata, § 82), la Grande Camera ha

precisato che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare

una persona per un secondo «illecito» nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono

sostanzialmente gli stessi.

220. La garanzia sancita all’articolo 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo

procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato. In questa fase, gli

elementi del fascicolo comprenderanno ovviamente la decisione con la quale si è concluso il primo

«procedimento penale» e la lista delle accuse mosse nei confronti del ricorrente nell’ambito del nuovo

procedimento. Tali documenti includono ovviamente un’esposizione dei fatti relativi all’illecito per cui il

ricorrente è stato già giudicato e una descrizione del secondo illecito di cui è accusato. Tali esposizioni

costituiscono un utile punto di partenza, per l’esame da parte della Corte, per poter stabilire se i fatti oggetto dei

due procedimenti sono identici o sono in sostanza gli stessi.

Non è importante sapere quali parti di queste nuove accuse siano alla fine ammesse o escluse nella procedura

successiva, poiché l’articolo 4 del Protocollo n. 7 enuncia una garanzia contro nuove azioni penali o contro il

rischio di tali azioni, e non il divieto di una seconda condanna o di una seconda assoluzione (Sergueï

Zolotoukhine, sopra citata, § 83).

221. La Corte, pertanto, deve esaminare la causa dal punto di vista dei fatti descritti nelle suddette esposizioni,

che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete a carico dello stesso contravventore e

indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio; l’esistenza di tali circostanze deve essere dimostrata

affinché possa essere pronunciata una condanna o esercitata l’azione penale (Sergueï Zolotoukhine, sopra citata,

§ 84).

222. Applicando tali principi nel caso di specie, la Corte osserva anzitutto che ha appena concluso, dal punto di

vista dell’articolo 6 della Convenzione, che era opportuno considerare che il procedimento dinanzi alla

CONSOB riguardava una «accusa in materia penale» contro i ricorrenti (paragrafo 101 supra) e osserva anche

che le condanne inflitte dalla CONSOB e parzialmente ridotte dalla corte d’appello sono passate in giudicato il

23 giugno 2009, quando sono state pronunciate le sentenze della Corte di cassazione (paragrafo 38 supra). A

partire da tale momento, i ricorrenti dovevano dunque essere considerati come «già condannati per un reato a

seguito di una sentenza definitiva» ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 7.

223. Malgrado ciò, la nuova azione penale che nel frattempo era stata avviata nei loro confronti (paragrafi 39-40

supra) non è stata interrotta, e ha portato alla pronuncia di sentenze di primo e secondo grado.

224. Resta da determinare se il nuovo procedimento in questione fosse basato su fatti che erano sostanzialmente

gli stessi rispetto a quelli che sono stati oggetto della condanna definitiva. A tale riguardo, la Corte osserva che,

contrariamente a quanto sembra affermare il Governo (paragrafo 217 supra), dai principi enunciati nella causa

Sergueï Zolotoukhine sopra citata risulta che la questione da definire non è quella di stabilire se gli elementi

costitutivi degli illeciti previsti dagli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 siano o

meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB e dinanzi ai giudici penali fossero

riconducibili alla stessa condotta.

225. Dinanzi alla CONSOB, i ricorrenti erano accusati, sostanzialmente, di non aver menzionato nei comunicati

stampa del 24 agosto 2005 il piano di rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch

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22

International Ltd mentre tale progetto già esisteva e si trovava in una fase di realizzazione avanzata (paragrafi 20

e 21 supra). Successivamente, essi sono stati condannati per tale fatto dalla CONSOB e dalla corte d’appello di

Torino (paragrafi 27 e 35 supra).

226. Dinanzi ai giudici penali, gli interessati sono stati accusati di avere dichiarato, negli stessi comunicati, che la

Exor non aveva né avviato né messo a punto iniziative con riguardo alla scadenza del contratto di finanziamento,

mentre l’accordo che modificava l’equity swap era già stato esaminato e concluso, informazione che sarebbe stata

tenuta nascosta allo scopo di evitare un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT (paragrafo 40 supra).

227. Secondo la Corte, si tratta chiaramente di una unica e stessa condotta da parte delle stesse persone alla

stessa data. Peraltro la stessa corte d’appello di Torino, nelle sentenze del 23 gennaio 2008, ha ammesso che gli

articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 avevano ad oggetto la stessa condotta, ossia la

diffusione di false informazioni (paragrafo 34 supra). Di conseguenza, la nuova azione penale riguardava un

secondo «illecito», basato su fatti identici a quelli che avevano motivato la prima condanna definitiva.

228. Questa constatazione è sufficiente per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n.

7.

229. Peraltro, nella misura in cui il Governo afferma che il diritto dell’Unione europea avrebbe apertamente

autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte

abusive sui mercati finanziari (paragrafo 216 supra), la Corte, pur precisando che il suo compito non è

interpretare la giurisprudenza della CGUE, osserva che nella sua sentenza del 23 dicembre 2009, resa nella causa

Spector Photo Group, sopra citata, la CGUE ha indicato che l’articolo 14 della direttiva 2003/6 non impone agli

Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico degli autori di abusi di informazioni privilegiate, ma si limita ad

enunciare che tali Stati sono tenuti a vigilare affinché siano applicate sanzioni amministrative nei confronti delle

persone responsabili di una violazione delle disposizioni adottate in applicazione di tale direttiva. Essa ha anche

messo in guardia gli Stati sul fatto che tali sanzioni amministrative potevano, ai fini dell’applicazione della

Convenzione, essere qualificate come sanzioni penali (paragrafo 61 supra). Inoltre, nella sentenza Åklagaren c.

Hans Åkerberg Fransson, sopra citata, in materia di imposta sul valore aggiunto, la CGUE ha precisato che, in

virtù del principio ne bis in idem, uno Stato può imporre una doppia sanzione (fiscale e penale) per gli stessi fatti

solo a condizione che la prima sanzione non sia di natura penale (paragrafo 92 supra).

(omissis)

2 Riserva di legge e fonti

2.1 Decreti legge e diritto penale

Corte Cost., 25 febbraio 2014, n. 32

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli

4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272

(Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la

funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi

e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,

prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della

Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio

2006, n. 49, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.

Ad avviso del Collegio rimettente, le disposizioni impugnate, introdotte dalla legge di conversione,

mancherebbero del requisito di omogeneità con quelle originarie del decreto-legge. Detto requisito, infatti, è

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richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost. che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del

2012), istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di

conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello

ordinario. La legge di conversione, pertanto, rappresenta una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può

aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei

(ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto

di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico.

Nella specie, ha osservato il Collegio rimettente, le disposizioni originariamente contenute nel decreto-legge

riguardavano la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi invernali (che di lì a poco si sarebbero svolte a

Torino), la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno e il recupero di tossicodipendenti recidivi. Invece, le

disposizioni impugnate, introdotte con la sola legge di conversione, non avrebbero nessuna correlazione con le

prime, in quanto volte ad attuare una radicale e complessiva riforma del testo unico sugli stupefacenti e del

trattamento sanzionatorio dei reati ivi contenuti.

In particolare, ha osservato la Corte di cassazione, il citato artt. 4-bis – modificando l’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre

1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,

prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – ha previsto una medesima cornice

edittale per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, unificando il trattamento sanzionatorio che, in

precedenza, era differenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o psicotrope

incluse nelle tabelle II e IV (cosiddette “droghe leggere”) ovvero quelle incluse nelle tabelle I e III (cosiddette

“droghe pesanti”): la legge di conversione, infatti, con l’art. 4-vicies ter ha parallelamente modificato il precedente

sistema tabellare stabilito dagli artt. 13 e 14 dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990, includendo nella nuova tabella I

gli stupefacenti che prima erano distinti in differenti gruppi.

Per effetto di tali modifiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette “droghe leggere” e, in particolare, i

derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite nell’intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei

anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a

venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000.

Considerata la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle citate nuove norme

introdotte in sede di conversione, i rimettenti reputano che sia stato violato l’art. 77, secondo comma, Cost. sotto

il profilo del difetto del requisito di omogeneità ovvero del nesso di interrelazione funzionale richiesto dalla citata

disposizione costituzionale.

In via subordinata, tuttavia, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei

medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter, per difetto del requisito della necessità ed urgenza, richiesto dal medesimo art.

77, secondo comma, Cost. Secondo i rimettenti, infatti, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le

conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge,

e dovesse ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto a questo, allora, poiché la legge di conversione

non sana i vizi del decreto (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007), non potrebbe considerarsi legittima

l’introduzione, in sede di conversione, di disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità

ed urgenza legittimanti l’intervento governativo, ragioni evidentemente insussistenti nella specie.

2.– In via preliminare, in ordine alle deduzioni della parte privata, deve osservarsi che – ferma l’ammissibilità del

suo intervento, in quanto persona imputata nel procedimento a quo e, quindi, parte del giudizio (ex plurimis,

sentenze n. 304 del 2011, n. 138 del 2010 e n. 263 del 2009) – esse introducono profili di illegittimità

costituzionale non prospettati nell’ordinanza di rimessione, in vista di un ampliamento del thema decidendum.

Nella memoria di costituzione, infatti, viene dedotta anche una duplice violazione della normativa dell’Unione

europea, in relazione sia alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 25

ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi

costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti), sia all’art. 49, paragrafo

3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

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Va rilevato, invero, che si tratta di un percorso argomentativo e di una eccezione difensiva già ritenuti

manifestamente infondati dalla Corte di cassazione e che la disamina di tale profilo non può ritenersi ammissibile

nel presente giudizio incidentale, in quanto la parte privata costituita non può estendere i limiti della questione,

quali precisati nell’ordinanza di rimessione dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2009, n. 86 del 2008,

n. 174 del 2003). Ciò a prescindere dalla carente indicazione delle disposizioni costituzionali rispetto alle quali la

normativa dell’Unione europea assumerebbe rilevanza nel presente giudizio.

3.– In punto di ammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione, deve osservarsi che l’Avvocatura

generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle medesime, in quanto il giudice a quo avrebbe omesso

di sperimentare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alle differenti tipologie di stupefacenti,

attraverso l’applicazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, che prevede pene più miti per i fatti di

lieve entità.

L’eccezione non è fondata, in quanto la Corte di cassazione ha espressamente precisato, nel corpo stesso della

sua ordinanza, che la Corte d’appello di Trento ha fornito congrua, specifica e adeguata motivazione delle ragioni

per le quali non è riconoscibile nella specie il fatto di lieve entità, ai sensi del citato art. 73, comma 5.

È appena il caso di aggiungere che, alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna

incidenza sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309

del 1990 dall’art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti

fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni,

dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10. Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni

non applicabili nel giudizio a quo, non si ravvisa la necessità di una restituzione degli atti al giudice rimettente, dal

momento che le modifiche, intervenute medio tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa

l’applicazione nella specie, e sono tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice

rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni

differenti. Inoltre, gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la

modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione

successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima.

4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005,

come convertito dall’art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, è fondata in riferimento all’art. 77, secondo

comma, Cost. per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e

quelle impugnate, introdotte nella legge di conversione.

4.1.– In proposito va richiamata la giurisprudenza di questa Corte, con particolare riguardo alla sentenza n. 22 del

2012 e alla successiva ordinanza n. 34 del 2013, nella quale si è chiarito che la legge di conversione deve avere un

contenuto omogeneo a quello del decreto-legge. Ciò in ossequio, prima ancora che a regole di buona tecnica

normativa, allo stesso art. 77, secondo comma, Cost., il quale presuppone «un nesso di interrelazione funzionale

tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione,

caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 22 del

2012).

La legge di conversione – per l’approvazione della quale le Camere, anche se sciolte, si riuniscono entro cinque

giorni dalla presentazione del relativo disegno di legge (art. 77, secondo comma, Cost.) – segue un iter

parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce

della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato

provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.

Dalla sua connotazione di legge a competenza tipica derivano i limiti alla emendabilità del decreto-legge. La legge

di conversione non può, quindi, aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, come del resto prescrivono anche i

regolamenti parlamentari (art. 96-bis del Regolamento della Camera dei Deputati e art. 97 del Regolamento del

Senato della Repubblica, come interpretato dalla Giunta per il regolamento con il parere dell’8 novembre 1984).

Diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con

forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare. Pertanto, l’inclusione di

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emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di

quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua.

È bene sottolineare che la richiesta coerenza tra il decreto-legge e la legge di conversione non esclude, in linea

generale, che le Camere possano apportare emendamenti al testo del decreto-legge, per modificare la normativa

in esso contenuta, in base alle valutazioni emerse nel dibattito parlamentare; essa vale soltanto a scongiurare l’uso

improprio di tale potere, che si verifica ogniqualvolta sotto la veste formale di un emendamento si introduca un

disegno di legge che tenda a immettere nell’ordinamento una disciplina estranea, interrompendo il legame

essenziale tra decreto-legge e legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall’art. 77, secondo

comma, Cost.

Ciò vale anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo, come quello di specie. In

relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito

dell’omogeneità (sentenza n. 22 del 2012) – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve

essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante

del provvedimento originario considerato nel suo complesso.

Nell’ipotesi in cui la legge di conversione spezzi la suddetta connessione, si determina un vizio di procedura,

mentre resta ovviamente salva la possibilità che la materia regolata dagli emendamenti estranei al decreto-legge

formi oggetto di un separato disegno di legge, da discutersi secondo le ordinarie modalità previste dall’art. 72

Cost.

L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle

stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale

peculiare, che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto

sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-

legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per

violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di

continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge.

4.2.– Nel caso di specie, dunque, la Corte è chiamata a verificare se il contenuto delle disposizioni impugnate,

introdotte in fase di conversione, sia funzionalmente correlato al decreto-legge n. 272 del 2005, al fine di

giudicare il corretto uso del potere di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. da parte delle Camere.

A tal fine va osservato che le norme originarie contenute nel decreto-legge riguardano l’assunzione di personale

della Polizia di Stato (art. 1), misure per assicurare la funzionalità all’Amministrazione civile dell’interno (art. 2),

finanziamenti per le olimpiadi invernali (art. 3), il recupero dei tossicodipendenti detenuti (art. 4) e il diritto di

voto degli italiani residenti all’estero (art. 5).

Come può facilmente rilevarsi, e come del resto ha osservato l’Avvocatura dello Stato, l’unica previsione alla

quale, in ipotesi, potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l’art. 4, la

cui connotazione finalistica era ed è quella di impedire l’interruzione del programma di recupero di determinate

categorie di tossicodipendenti recidivi.

Nei confronti di questi ultimi era, infatti, intervenuta l’allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251

(Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di

giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta “legge ex

Cirielli”, che con il suo art. 8 aveva aggiunto l’art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990, riducendo così da quattro a tre

anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l’affidamento in prova per l’attuazione di un programma

terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza; inoltre, l’art. 9 della medesima legge aveva aggiunto la lettera c)

al comma 9 dell’art. 656 del codice di procedura penale, escludendo la sospensione della esecuzione della pena

per i recidivi, anche se tossicodipendenti inseriti in un programma terapeutico di recupero.

Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l’efficacia dei citati programmi di recupero

anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva

modificato l’art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell’esecuzione della pena

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nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto alle condizioni precedentemente

previste.

L’art. 4 contiene, pertanto, norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine

è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Esse riguardano, cioè, la

persona del tossicodipendente e perseguono una finalità specifica e ben determinata: il suo recupero dall’uso di

droghe, qualunque reato egli abbia commesso, sia esso in materia di stupefacenti o non.

Non così le impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le

quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente. Inoltre, esse sono norme a

connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti.

Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle

disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui

sono state inserite.

4.3.– Tra gli elementi sintomatici che confermano tale conclusione, si può richiamare la circostanza che lo stesso

Parlamento ha dovuto modificare, in sede di conversione, il titolo originario del decreto-legge, ampliandolo con

l’aggiunta delle parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze

psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del

Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309», per includervi la materia disciplinata dalle disposizioni

introdotte solo con la legge di conversione. Ciò è indice del fatto che lo stesso legislatore ha ritenuto che le

innovazioni introdotte con la legge di conversione non potevano essere ricomprese nelle materie già disciplinate

dal decreto-legge medesimo e risultanti dal titolo originario di quest’ultimo.

D’altra parte, non meno significativo è il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera dei

deputati (nella seduta del 1° febbraio 2006) sul disegno di legge C. 6297 di conversione in legge del decreto-legge

n. 272 del 2005. In tale parere si rileva che il disegno di legge «reca un contenuto i cui elementi di eterogeneità –

peraltro già originariamente presenti nella originaria formulazione di 5 articoli […] – sono stati notevolmente

accentuati a seguito dell’inserimento, durante il procedimento di conversione presso il Senato, di una vasta mole

di ulteriori disposizioni (recate in 25 nuovi articoli) riguardanti principalmente, ma non esclusivamente, misure di

contrasto alla diffusione degli stupefacenti, mutuate da un disegno di legge da tempo all’esame del Senato (S.

2953)».

4.4.– Del resto, la disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto-legge da convertire assume

caratteri di assoluta evidenza, anche alla luce della portata della riforma recata dagli impugnati artt. 4-bis e 4-vicies

ter e della delicatezza e complessità della materia incisa dagli stessi.

Infatti, benché contenute in due soli articoli, le modifiche introdotte nell’ordinamento apportano una

innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni

sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe

cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece

dalla precedente disciplina.

Una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica,

avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di

formazione della legge, ex art. 72 Cost.

Si aggiunga che un intervento normativo di simile rilievo – che, non a caso, faceva parte di un autonomo disegno

di legge S. 2953 giacente da tre anni in Senato in attesa dell’approvazione – ha finito, invece, per essere

frettolosamente inserito in un “maxi-emendamento” del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno

di legge di conversione, presentato direttamente nell’Assemblea del Senato e su cui il Governo medesimo ha

posto la questione di fiducia (nella seduta del 25 gennaio 2006), così precludendo una discussione specifica e una

congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta.

Inoltre, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure

parlamentari, è stato anche impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo, dal momento

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che all’oggetto della questione di fiducia, non possono essere riferiti emendamenti, sub-emendamenti o articoli

aggiuntivi e che su tale oggetto è altresì vietata la votazione per parti separate.

Né la seconda e definitiva lettura presso l’altro ramo del Parlamento ha consentito successivamente di rimediare

a questa mancanza, visto che anche in quel caso il Governo ha posto, nella seduta del 6 febbraio 2006, la

questione di fiducia sul testo approvato dal Senato, obbligando così l’Assemblea della Camera a votarlo “in

blocco”.

Va inoltre osservato che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di

legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l’esame referente richiesto dal

primo comma dell’art. 72 Cost.

Per di più, l’imminente fine della legislatura (intervenuta con il d.P.R. 11 febbraio 2006, n. 32, recante

«Scioglimento del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati») e l’assoluta urgenza di convertire alcune

delle disposizioni contenute nel decreto-legge originario, tra cui quelle riguardanti la sicurezza e il finanziamento

delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, impedivano di fatto allo stesso Presidente della Repubblica di fare uso

della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., non disponendo, tra l’altro, di un potere di rinvio parziale.

In questo senso sono, infatti, i rilievi contenuti nei ripetuti interventi da parte del Presidente della Repubblica –

lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell’iter

parlamentare di conversione in legge del decreto-legge c.d. “salva Roma” (decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126);

lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; lettera inviata il 22 febbraio 2011 ai

Presidenti del Senato e della Camera; messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) – e, recentemente, anche

da parte del Presidente del Senato (comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013), interventi

tutti volti a segnalare l’abuso dell’istituto del decreto-legge e, in particolare, l’uso improprio dello strumento della

legge di conversione, in violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.

Ben si comprende, pertanto, proprio alla luce di quanto accaduto nel caso di specie, come il rispetto del requisito

dell’omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di

conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. sia di fondamentale importanza per mantenere entro la cornice

costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento

della funzione legislativa.

4.5.– Conclusivamente sul punto, deve osservarsi che, nel caso sottoposto all’esame della Corte, risultano

contestualmente presenti plurimi indici che rendono manifesta l’assenza di ogni nesso di interrelazione

funzionale tra le disposizioni impugnate e le originarie disposizioni del decreto-legge.

In difetto del necessario legame logico-giuridico, richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost., i censurati artt. 4-

bis e 4-vicies ter devono ritenersi adottati in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere

legislativo di conversione e perciò costituzionalmente illegittimi.

Trattandosi di un vizio di natura procedurale, che peraltro – come si è detto – si evidenzia solo ad un’analisi dei

contenuti normativi aggiunti in sede di conversione, la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per

intero le due disposizioni impugnate e soltanto esse, restando impregiudicata la valutazione di questa Corte in

relazione ad eventuali ulteriori impugnative aventi ad oggetto altre disposizioni della medesima legge.

5.– In considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex

art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate,

tornino a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente

abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate.

Il potere di conversione non può, infatti, considerarsi una mera manifestazione dell’ordinaria potestà legislativa

delle Camere, in quanto la legge di conversione ha natura «funzionalizzata e specializzata» (sentenza n. 22 del

2012 e ordinanza n. 34 del 2013). Essa presuppone un decreto da convertire, al cui contenuto precettivo deve

attenersi, e per questo non è votata articolo per articolo, ma in genere è composta da un articolo unico, sul quale

ha luogo la votazione – salva la eventuale proposizione di emendamenti, nei limiti sopra ricordati – nell’ambito di

un procedimento ad hoc (art. 96-bis del Regolamento della Camera; art. 78 del Regolamento del Senato), che

deve necessariamente concludersi entro sessanta giorni, pena la decadenza ex tunc del provvedimento

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governativo. Nella misura in cui le Camere non rispettano la funzione tipica della legge di conversione, facendo

uso della speciale procedura per essa prevista al fine di perseguire scopi ulteriori rispetto alla conversione del

provvedimento del Governo, esse agiscono in una situazione di carenza di potere.

In tali casi, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è

inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del

2011 e n. 361 del 2010). Sotto questo profilo, la situazione risulta assimilabile a quella della caducazione di norme

legislative emanate in difetto di delega, per le quali questa Corte ha già riconosciuto, come conseguenza della

declaratoria di illegittimità costituzionale, l’applicazione della normativa precedente (sentenze n. 5 del 2014 e n.

162 del 2012), in conseguenza dell’inidoneità dell’atto, per il radicale vizio procedurale che lo inficia, a produrre

effetti abrogativi anche per modifica o sostituzione.

Deve, dunque, ritenersi che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella

versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto

abrogativo.

È appena il caso di aggiungere che la materia del traffico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di

penalizzazione, in virtù di normative dell’Unione europea. Più precisamente la decisione quadro n.

2004/757/GAI del 2004 fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in

materia di traffico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte

intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni

nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel

d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo

sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che

l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

6.– Stabilito, quindi, che una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate riprende

applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate, resta da

osservare che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli

illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della

multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabilisce sanzioni più

severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti con la pena della reclusione da otto a venti

anni, anziché con quella da sei a venti anni).

È bene ribadire che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sin dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto

che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della

normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia

penale, di cui all’art. 25 Cost.) di «configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse

incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la

decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal

legislatore.

Quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la

dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei

principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della

norma penale più favorevole al reo.

Analogamente, rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate,

non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e

quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis

e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione.

7.– La decisione di cui sopra assorbe l’ulteriore questione sollevata in via subordinata dalla Corte di cassazione.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

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dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272

(Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la

funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi

e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,

prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della

Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio

2006, n. 49.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2014.

2.2 Decreti legislativi e diritto penale

Corte Cost. 23 gennaio 2014, n. 5

TESTO DELLA SENTENZA

(omissis)

Considerato in diritto

1.– (omissis)

3.– Questa Corte ritiene opportuno ricostruire le vicende da cui traggono origine le odierne ordinanze di

rimessione.

Il legislatore, con l’art. 14, comma 14, della legge n. 246 del 2005, aveva delegato il Governo ad adottare, con le

modalità di cui all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e

compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione

amministrativa), e successive modificazioni, «decreti legislativi che individuano le disposizioni legislative statali,

pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali si

ritiene indispensabile la permanenza in vigore», stabilendo, al successivo comma 14-ter, che, «decorso un anno

dalla scadenza del termine di cui al comma 14, ovvero del maggior termine previsto dall’ultimo periodo del

comma 22, tutte le disposizioni legislative statali non comprese nei decreti legislativi di cui al comma 14, anche se

modificate con provvedimenti successivi, sono abrogate». L’esercizio della delega per l’individuazione delle

norme da mantenere in vigore sarebbe, quindi, dovuto avvenire entro il 16 dicembre 2009.

Con il d.lgs. n. 179 del 2009 il Governo aveva esercitato la delega, individuando le disposizioni legislative da

mantenere in vigore, tra le quali era compreso il d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere

militare che perseguono, anche indirettamente, scopi politici, ma di questo decreto legislativo, successivamente,

con l’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’ordinamento militare), era stata disposta l’abrogazione.

Per contestare tale abrogazione, il Tribunale di Verona che, in riferimento all’azione dell’associazione denominata

“Camicie verdi”, stava giudicando varie persone imputate del reato previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 43 del 1948,

aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale. Dopo tre giorni dalla sua proposizione, però, il

Governo, con il d.lgs. n. 213 del 2010, aveva replicato l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, espungendolo dalle

disposizioni che, con il d.lgs. n. 179 del 2009, aveva in precedenza stabilito di mantenere in vigore.

Questa Corte, considerato lo ius superveniens che aveva reiterato l’effetto abrogativo, aveva disposto la

restituzione degli atti al giudice a quo, ritenendo che spettasse a questo la valutazione circa la perdurante

rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.

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A sua volta, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso, che stava giudicando varie persone per

la «formazione del corpo paramilitare denominato “Polisia Veneta”», aveva sollevato, in riferimento agli artt. 76,

18 e 25, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella

parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e, in via subordinata, in riferimento

all’art. 76 Cost., dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge n. 246 del 2005.

Di tali questioni questa Corte, con l’ordinanza n. 341 del 2011, aveva dichiarato la manifesta inammissibilità,

perché il giudice a quo non aveva valutato gli effetti dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, intervenuto prima

dell’ordinanza di rimessione.

4.– Le ordinanze del Tribunale di Verona e del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso

concernono le stesse norme e propongono questioni analoghe, perciò i relativi procedimenti vanno riuniti, per

essere definiti con un’unica decisione. Infatti, entrambi i giudici hanno sollevato, oltre alle questioni che avevano

già proposto, relative all’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, anche questioni di legittimità costituzionale relative

all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui ha modificato il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle

disposizioni mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.

5.– Il giorno precedente a quello della pronuncia dell’ordinanza del Tribunale di Verona, avvenuta il 25 febbraio

2012, è intervenuto il decreto legislativo 24 febbraio 2012, n. 20 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo

15 marzo 2010, n. 66, recante codice dell’ordinamento militare, a norma dell’articolo 14, comma 18, della legge

28 novembre 2005, n. 246), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 12 marzo 2012 ed entrato in vigore il 27

marzo 2012, con cui il legislatore, in attuazione dell’art. 14, commi 14, 15 e 18 della legge n. 246 del 2005, ha

reintrodotto il reato di cui al d.lgs. n. 43 del 1948; l’art. 9, comma 1, lettera q), infatti, ha stabilito che «all’articolo

2268, comma 1, il numero 297) è soppresso e, per l’effetto, il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43, riprende

vigore ed è sottratto agli effetti di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 13 dicembre 2010,

n. 213».

Il Tribunale di Verona non ha potuto prendere in considerazione questa disposizione, perché l’ordinanza di

rimessione è precedente alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, mentre il Giudice dell’udienza

preliminare del Tribunale di Treviso ne ha tenuto conto, affermando che il ripristino della fattispecie abrogata

non è sufficiente a rendere irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale delle leggi abrogatrici «in quanto

l’assetto punitivo estenderebbe retroattivamente i suoi effetti favorevoli di abolitio criminis in forza della regola

della lex intermedia favorevole di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen.».

L’affermazione del giudice rimettente è plausibile, perché può ben ritenersi che il citato ius superveniens,

ripristinando una fattispecie incriminatrice precedentemente abrogata, non possa determinare la reviviscenza di

un reato raggiunto dall’effetto abrogativo. In questo senso è anche la giurisprudenza della Corte di cassazione,

che, nel caso di successione di leggi penali, ritiene debba applicarsi quella che prevede il trattamento più

favorevole per il reo, anche se la legge più recente ha ripristinato una legge anteriore che quella più favorevole

aveva modificato (sentenze 7 luglio 2009, n. 35079 e 21 settembre 2007, n. 38548).

La nuova normativa, pertanto, non incide sull’ammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Verona, né

impone la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso.

5.1.– Questa Corte, in numerose occasioni, ha ritenuto inammissibili questioni di legittimità costituzionale di

norme penali la cui caducazione avrebbe determinato un trattamento deteriore per l’imputato.

I giudici rimettenti non ignorano le ragioni di tali decisioni ma ritengono che nel caso in esame quelle ragioni non

sussistano. Essi infatti ricordano che secondo la giurisprudenza costituzionale il principio della riserva di legge in

materia penale, posto dall’art. 25, secondo comma, Cost., impedisce a questa Corte interventi in malam partem,

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rimessi esclusivamente al potere legislativo, ma sostengono che nel caso in esame sia proprio quel principio a

giustificare una pronuncia di illegittimità costituzionale, perché le norme impugnate sarebbero state adottate dal

Governo in mancanza della necessaria delega e quindi sarebbero state introdotte nell’ordinamento in violazione

della riserva di legge.

La tesi dei giudici rimettenti sull’ammissibilità delle questioni proposte è condivisibile, ma occorrono in proposito

alcuni chiarimenti, perché la giurisprudenza di questa Corte in materia si è andata nel tempo evolvendo e

precisando, ed è alla luce di questa evoluzione che tali questioni vanno ora considerate.

L’inammissibilità del sindacato sulle norme penali più favorevoli era stata originariamente argomentata

considerando che una questione finalizzata a una pronuncia in malam partem sarebbe stata priva di rilevanza,

dato il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli. Infatti, si era affermato, «i principi generali

vigenti in tema di non retroattività delle sanzioni penali più sfavorevoli al reo, desumibili dagli artt. 25, secondo

comma, della Costituzione, e 2 del codice penale, impedirebbero in ogni caso che una eventuale sentenza, anche

se di accoglimento, possa produrre un effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente

innanzi al giudice a quo» (sentenza n. 85 del 1976).

Successivamente però questa Corte ha riconosciuto «che la retroattività della legge più favorevole non esclude

l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale: “Altro

[…] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo

l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme

stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione,

all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile” (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto,

sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 28 del 2010).

Il mutato orientamento sulla rilevanza non ha comportato automaticamente l’ammissibilità delle questioni

relative alle norme penali più favorevoli, perché si è ritenuto che a una pronuncia della Corte in malam partem

fosse comunque di ostacolo il principio sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale «demanda in via

esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla

Corte di creare nuove fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di

incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis, sentenza n. 394

del 2006; ordinanze n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009)» (ordinanza n. 285 del 2012).

Non sono però mancati casi in cui la Corte ha ritenuto che l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale

in malam partem non trovasse ostacolo nel principio dell’art. 25, secondo comma, Cost. Particolarmente

significativa in questo senso è la sentenza n. 394 del 2006, che ha riconosciuto la sindacabilità delle «c.d. norme

penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico

più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni». Alla nozione di “norma

penale di favore” ha fatto successivamente, in più occasioni, riferimento la giurisprudenza costituzionale

(sentenze n. 273 del 2010, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanze n. 103 e n. 3 del 2009), ma è la sentenza n.

394 del 2006 che ne ha precisato le caratteristiche e le relative implicazioni ai fini del sindacato di legittimità

costituzionale. Secondo questa sentenza «il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di configurare

nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di

soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un

trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e ciò a prescindere dall’istituto o dal mezzo tecnico tramite

il quale tale trattamento si realizza […]. In simili frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle scelte di

criminalizzazione resta salva: l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla

manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata

lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica riespansione della

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norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina

derogatoria».

Un’altra decisione significativa è la n. 28 del 2010, con la quale la Corte, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo

comma, Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge intermedia (e più esattamente di un decreto

legislativo intermedio) che, in contrasto con una direttiva comunitaria, aveva escluso la punibilità di un fatto

precedentemente e successivamente previsto come reato. Secondo questa decisione, infatti, «se si stabilisse che il

possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme

legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie

nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla

conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie […], ma si toglierebbe a queste ultime

ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano».

Questa decisione può costituire un utile punto di riferimento perché, come nel presente giudizio, anche se per

una ragione diversa, il vizio del decreto legislativo traeva origine dalla carenza di potere del Governo che aveva

adottato la normativa impugnata.

5.2.– Il difetto di delega denunciato dai giudici rimettenti, se esistente, comporterebbe un esercizio illegittimo da

parte del Governo della funzione legislativa. L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto

legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 25, secondo

comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività

nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte

di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato

costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si

consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento

penale di alcuni fatti.

Deve quindi concludersi che, quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di

legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il

sindacato di questa Corte non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale.

Questo principio rimette al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da

sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare, ed è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo

in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa.

La verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene, allora, strumento di

garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, secondo comma,

Cost., e non può essere limitata in considerazione degli eventuali effetti che una sentenza di accoglimento

potrebbe produrre nel giudizio a quo. Si rischierebbe altrimenti, come già rilevato in altre occasioni da questa

Corte, di creare zone franche dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali sarebbe di

fatto consentito al Governo di effettuare scelte politico-criminali, che la Costituzione riserva al Parlamento,

svincolate dal rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dal legislatore delegante, eludendo così il disposto

dell’art. 25, secondo comma, della stessa Costituzione.

Per superare il paradosso ed evitare al tempo stesso eventuali effetti impropri di una pronuncia in malam partem,

«occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se

ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale,

che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel

tempo delle leggi penali» (sentenza n. 28 del 2010).

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È da aggiungere che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, «le questioni incidentali di legittimità

sono ammissibili “quando la norma impugnata è applicabile nel processo d’origine e, quindi, la decisione della

Corte è idonea a determinare effetti nel processo stesso; mentre è totalmente ininfluente sull’ammissibilità della

questione il “senso” degli ipotetici effetti che potrebbero derivare per le parti in causa da una pronuncia sulla

costituzionalità della legge” (sentenza n. 98 del 1997)» (sentenza n. 294 del 2011). Compete, dunque, ai giudici

rimettenti valutare le conseguenze applicative che potranno derivare da una eventuale pronuncia di accoglimento,

mentre deve escludersi che vi siano ostacoli all’ammissibilità delle proposte questioni di legittimità costituzionale.

6.– Una volta riconosciutane l’ammissibilità, deve essere esaminata, in primo luogo, la questione relativa all’art.

2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010, perchè se la norma censurata risultasse immune da vizi di

costituzionalità, essendosi prodotto l’effetto abrogativo del d.lgs. n. 43 del 1948 da essa stabilito, diventerebbero

prive di rilevanza le ulteriori questioni e in particolare quella relativa all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, che

avrebbe ad oggetto l’ulteriore abrogazione di una norma non più in vigore.

6.1.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero

297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata.

6.2.– Il d.lgs. n. 66 del 2010 è stato adottato, secondo quanto espressamente indicato nel suo preambolo, sulla

base dell’art. 14, commi 14 e 15, della legge n. 246 del 2005, e ad avviso dei giudici rimettenti queste norme non

davano al Governo il potere di abrogare il d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere militare,

del quale, con il d.lgs. n. 179 del 2009, era stata in precedenza stabilita la permanenza in vigore.

In effetti, il comma 14 non prevede alcun diretto potere abrogativo, ma conferisce al Governo solo la delega ad

individuare gli atti normativi da sottrarre alla clausola “ghigliottina” contenuta nell’art. 14, comma 14-ter, della

legge n. 246 del 2005, potere che, come si è detto, era stato già esercitato con il d.lgs. n. 179 del 2009.

È quindi fondata la tesi dei giudici a quibus, secondo cui il Governo, al momento dell’adozione del d.lgs. n. 66

del 2010, aveva già esercitato, rispetto al d.lgs. n. 43 del 1948, il potere normativo attribuitogli con il comma 14,

né poteva ritenersi consentito, in base al comma citato, il nuovo e contrario esercizio della delega, il quale,

anziché in un effetto di salvaguardia dell’efficacia, era sfociato in un’espressa abrogazione.

Anche se fosse stato riconosciuto al Governo dal comma 14 un potere direttamente abrogativo, poi, dovrebbe

ritenersi che mancavano le condizioni per esercitarlo nei confronti del d.lgs. n. 43 del 1948, dato che, in base ai

criteri indicati in tale comma, si trattava di un testo normativo del quale era indispensabile la permanenza in

vigore.

Con il citato comma 14 il Governo era stato delegato ad individuare le disposizioni da mantenere in vigore, che

non avessero subito un’abrogazione tacita o implicita (lettera a) e non avessero esaurito la loro funzione, o

fossero prive di effettivo contenuto normativo, o fossero comunque obsolete (lettera b), e nessuna di queste

condizioni poteva riferirsi al d.lgs. n. 43 del 1948. In particolare è certo che il decreto non aveva esaurito la sua

funzione, dato che aveva originato i procedimenti penali nel cui ambito erano state sollevate le odierne questioni

di costituzionalità.

Ugualmente, non può ritenersi che si trattasse di disposizione priva di un effettivo contenuto normativo od

obsoleta: il d.lgs. n. 43 del 1948, infatti, è coevo alla Costituzione e costituisce l’immediata attuazione dell’art. 18,

secondo comma, Cost. L’atto normativo in questione, in coerenza con la previsione della Carta costituzionale, si

prefigge di impedire attività idonee a influenzare e pregiudicare la formazione democratica delle convinzioni

politiche dei cittadini, anche se non riconducibili a violazioni delle comuni norme penali, il che implica la

sussistenza di un effettivo contenuto normativo di rilevanza costituzionale e fa escludere l’obsolescenza della

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disciplina. Del resto la perdurante attualità del decreto legislativo n. 43 del 1948 è confermata, se ce ne fosse

bisogno, dalla sua reintroduzione ad opera del d.lgs. n. 20 del 2012.

È da aggiungere che se, come si ritiene, la ratio dell’incriminazione delle associazioni di carattere militare per

scopi politici, come anche quella dell’art. 18, secondo comma, Cost., risiede nell’esigenza di salvaguardare la

libertà del processo di decisione politica, la norma impugnata risulta chiaramente in contrasto con il criterio della

lettera c) del citato comma 14, volto ad assicurare la permanenza in vigore «delle disposizioni la cui abrogazione

comporterebbe lesione dei diritti costituzionali».

6.3.– Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010, come si è già ricordato, indica, tra le fonti della delega, oltre al

comma 14, anche il comma 15 della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce che «I decreti legislativi di cui al

comma 14 provvedono altresì alla semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto, nel rispetto dei

principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche

al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle pubblicate successivamente alla data del 1°

gennaio 1970».

Neppure questa disposizione, però, avrebbe potuto giustificare l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948.

La delega del comma 15, infatti, era diretta alla semplificazione e al riassetto normativo delle disposizioni

legislative anteriori al 1° gennaio 1970 mantenute in vigore all’esito delle operazioni “salva-leggi”, da

armonizzare, eventualmente, con la legislazione successiva, e in questo contesto la norma abrogatrice posta

dall’art. 2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010 non può trovare alcuna legittimazione, anche

perché il d.lgs. n. 43 del 1948 non rientra nella materia dell’ordinamento militare regolata dallo stesso decreto

legislativo n. 66 del 2010.

Dal tenore letterale dell’art. 1 di questo decreto risulta, infatti, chiaramente che le associazioni di carattere militare

per scopi politici non rientrano nella materia oggetto del riassetto normativo, e, quindi, anche nell’ipotesi in cui si

ritenesse consentita dal comma 15 l’espressa abrogazione di testi legislativi, ivi compresi quelli di cui era stata già

disposta la permanenza in vigore, dovrebbe concludersi che non sarebbe stata possibile l’abrogazione del d.lgs. n.

43 del 1948, per l’estraneità della materia regolata da questo rispetto all’ordinamento militare che aveva formato

oggetto del riassetto.

In proposito è importante ricordare che, in un comunicato del 22 ottobre 2010 del Ministero della difesa, il

Ministro aveva reso noto che l’inserimento del d.lgs. n. 43 del 1948 tra le norme da abrogare elencate nell’art.

2268 del d.lgs. n. 66 del 2010 era erroneo. Conseguentemente l’Ufficio legislativo del Ministero della difesa ne

aveva «proposto la correzione con procedura di rettifica di errore materiale da pubblicare nella Gazzetta

Ufficiale», ma questa soluzione non era stata «condivisa dall’Ufficio legislativo del Dipartimento per la

Semplificazione Normativa, co-proponente del Codice».

La norma censurata, quindi, eccede anche l’ambito della delega conferita dal comma 15, giacché «la finalità

fondamentale di semplificazione, che costituiva la ratio propria della legge n. 246 del 2005, era quella di creare

insiemi normativi coerenti, a partire da una risistemazione delle norme vigenti, sparse e non coordinate,

apportando quelle modifiche rese necessarie dalla composizione unitaria delle stesse» (sentenza n. 80 del 2012),

mentre l’abrogazione di norme penali incriminatrici solo apparentemente connesse con la materia oggetto del

riassetto normativo si colloca evidentemente su un altro piano e richiede scelte di politica legislativa, che, seppur

per grandi linee, devono provenire dal Parlamento.

Chiarito perciò che la norma in questione non potrebbe rientrare nell’ambito di un’operazione di semplificazione

o di riassetto dell’ordinamento militare, deve anche considerarsi che il comma 15 dell’art. 14 della legge n. 246 del

2005, riguardando i «decreti legislativi di cui al comma 14» dello stesso articolo, in nessun caso potrebbe

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giustificare l’abrogazione di una legge della quale, a norma del comma 14, dovrebbe essere invece assicurata la

permanenza in vigore.

6.4.– Una terza delega è contenuta nell’art. 14, comma 14-quater, della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce

che «Il Governo è altresì delegato ad adottare, entro il termine di cui al comma 14-ter, uno o più decreti legislativi

recanti l’abrogazione espressa, con la medesima decorrenza prevista dal comma 14-ter, di disposizioni legislative

statali ricadenti tra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14, anche se pubblicate successivamente al 1°

gennaio 1970».

Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010 non richiama il comma 14-quater; tuttavia, dai lavori preparatori, emerge

che il legislatore delegato ha inteso attuare anche la delega prevista da questo comma, individuando e abrogando

espressamente le disposizioni legislative ormai inutili, e nel parere reso sullo schema del decreto legislativo in

esame il Consiglio di Stato, per indicarne la base normativa, ha fatto espresso riferimento anche al comma 14-

quater, oltre che ai commi 14 e 15.

Neppure questa disposizione di delega però, pur prevedendo espressamente un potere abrogativo, può

giustificare l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, perché il comma 14-quater dà mandato al Governo di abrogare

«le disposizioni legislative statali ricadenti fra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14», vale a dire quelle

«oggetto di abrogazione tacita o implicita» e quelle che «abbiano esaurito la loro funzione o siano prive di

effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete», e in queste categorie, come si è già visto, non può in

alcun modo rientrare il decreto legislativo che vieta le associazioni di carattere militare per scopi politici.

6.5.– Alla luce delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, si deve concludere che, per la carenza della

necessaria delega legislativa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella

parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata.

Sono conseguentemente assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dai giudici rimettenti.

7.– Resta da esaminare la questione relativa all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs.

n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n.

179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948.

Anche in questo caso le censure dei giudici rimettenti si appuntano, innanzitutto, sulla violazione dell’art. 76

Cost., sul presupposto che la reiterata abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948 sarebbe avvenuta in carenza di delega.

L’art. 1 del d.lgs n. 213 del 2010 dispone che, «Ai fini e per gli effetti dell’articolo 14, commi 14, 14-ter e 18, della

legge 28 novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni, al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, sono

apportate le seguenti modificazioni: a) l’Allegato 1 è integrato dalle disposizioni legislative statali, pubblicate

anteriormente al 1° gennaio 1970, inserite nell’Allegato A al presente decreto; b) dall’Allegato 1 sono espunte le

disposizioni legislative statali indicate nell’Allegato B al presente decreto; c) le voci di cui all’Allegato C al

presente decreto sostituiscono le corrispondenti voci dell’Allegato 1». Insomma questa disposizione, svolgendo

un’opera integrativa da un lato e riduttiva dall’altro, con l’Allegato A ha aggiunto alcune disposizioni legislative a

quelle mantenute in vigore dal d.lgs. n. 179 del 2009, mentre con l’allegato B ne ha espunte altre.

Il d.lgs. n. 213 reca la data del 13 dicembre 2010, e, poiché il 16 dicembre 2009 il termine della delega prevista dal

comma 14 dell’art.14 della legge n. 246 del 2005 era ormai decorso, è al comma 18 dello stesso articolo che

occorre fare riferimento per individuare la fonte del potere esercitato nell’occasione dal Governo. Questo

comma stabilisce che «Entro due anni dall’entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 14, possono

essere emanate, con uno o più decreti legislativi, disposizioni integrative, di riassetto o correttive, esclusivamente

nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al comma 15 e previo parere della Commissione di cui al comma

19».

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Riconducendo a questa disposizione l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, gli si deve riconoscere un carattere

“integrativo”, relativamente alla lettera a), e “correttivo”, relativamente alla lettera b), con l’avvertenza che

l’integrazione e la correzione non sarebbero potute avvenire senza osservare i criteri di delega del comma 14.

Infatti il comma 18, che si collega ai «decreti legislativi di cui al comma 14» e fa riferimento ai «principi e criteri

direttivi di cui al comma 15», costituisce il prolungamento nel tempo, con alcune specificità, delle deleghe

contenute nei due commi anzidetti. In particolare è il comma 14 che segna il discrimine tra le disposizioni

legislative da mantenere in vigore e quelle da abrogare, sicché neppure dal comma 18 potrebbe derivare al

Governo il potere di disporre l’abrogazione di disposizioni che, come quella del d.lgs. n. 43 del 1948, sarebbero

invece, per il comma 14, dovute rimanere in vigore.

Perciò deve concludersi che il Governo non poteva espungere dal d.lgs. n. 179 del 2009 la disposizione del d.lgs.

n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere militare per scopi politici, di cui aveva legittimamente

disposto il mantenimento in vigore.

Ciò chiarito, si deve concludere che anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del

2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in

vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948, è fondata per carenza di delega

legislativa.

Sono conseguentemente assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dai giudici rimettenti.

8.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al

numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948 e dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui

modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1

del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948, per violazione dell’art. 76 della Costituzione.

Sono assorbite le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice

dell’ordinamento militare), nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il decreto legislativo 14

febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed

integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni legislative statali anteriori al 1°

gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore), nella parte in cui modifica il decreto

legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene

indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246),

espungendo dalle norme mantenute in vigore il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle

associazioni di carattere militare).

3 Tassatività e precisione

3.1 Principio di precisione e stalking

Corte Cost., 11 giugno 2014, n. 172

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Considerato in diritto

1.– Con ordinanza depositata in data 24 giugno 2013 (r. o. n. 284 del 2013), il Tribunale ordinario di Trapani,

sezione distaccata di Alcamo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis del codice

penale, per violazione del principio di determinatezza delle fattispecie penali codificato dall’art. 25, secondo

comma, della Costituzione.

In particolare, il giudice rimettente ha lamentato il fatto che il legislatore non abbia indicato in maniera

sufficientemente precisa il minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché

possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante.

Inoltre, sarebbe eccessivamente vaga la nozione di «perdurante e grave stato di ansia o di paura», con cui si

definisce uno degli eventi alternativi costitutivi del reato.

Altrettanto indefiniti sarebbero, poi, i criteri necessari per stabilire quando il timore ingenerato nella vittima

debba considerarsi «fondato» ai fini dell’integrazione della fattispecie.

Eccessivamente ampio ed elastico sarebbe, infine, il concetto di «abitudini di vita», la cui alterazione è richiesta

per la configurazione del reato.

2.– In via preliminare deve rilevarsi che, successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione, l’impugnato

art. 612-bis cod. pen. è stato modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78

(Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,

della legge 9 agosto 2013, n. 94, che ha elevato a cinque anni di reclusione il massimo della pena edittale,

originariamente prevista in quattro anni. Inoltre, l’art. 1, comma 3, lettera a), del decreto-legge 14 agosto 2013, n.

93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di

protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della

legge 15 ottobre 2013, n. 119, ha modificato l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 612-bis cod. pen.,

stabilendo che l’aumento di pena consegua anche nel caso in cui il fatto sia commesso attraverso strumenti

informatici o telematici, e chiarendo che l’aggravante sussiste anche nel caso di persona che sia attualmente legata

da relazione affettiva con la persona offesa (mentre nel testo previgente si parlava di fatto commesso da chi «è

stato» legato alla vittima). L’art. 1, comma 3, lettera b), del citato d.l. n. 93 del 2013, convertito, con

modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 119 del 2013, ha infine modificato il quarto comma dell’art.

612-bis cod. pen., che disciplina la procedibilità del reato, stabilendo che, nei casi in cui il delitto sia procedibile a

querela, la remissione di quest’ultima possa essere soltanto processuale e che la medesima sia irrevocabile quando

il fatto è stato commesso attraverso la reiterazione di minacce aggravate.

Deve, peraltro, osservarsi che il predetto jus superveniens ha inciso su parti dell’art. 612-bis cod. pen. che

riguardano il trattamento sanzionatorio, le aggravanti e la procedibilità a querela del reato, senza minimamente

intaccare la descrizione della fattispecie-base oggetto di incriminazione, l’unica che il rimettente assume

indeterminata, lamentando solo in relazione alla stessa la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., rilevante

nel procedimento a quo.

Si tratta, quindi, di modifiche che non concernono aspetti della disposizione impugnata, censurati di

indeterminatezza dal giudice rimettente. Conseguentemente, deve escludersi che, nella specie, debba procedersi

ad una restituzione degli atti, anche perché, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, «un’eventuale

restituzione degli atti al giudice rimettente, ove questa non sia giustificata dalla necessità che sia nuovamente

valutata la perdurante rilevanza nel giudizio a quo e la non manifesta infondatezza della quaestio a suo tempo

sollevata, potrebbe condurre, proprio in aperto contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale

che non può essere disgiunta dalla sua tempestività, ad un inutile dilatamento dei tempi dei giudizi a quibus,

soggetti per due volte alla sospensione conseguente al promovimento dell’incidente di legittimità costituzionale, e

ad una duplicazione dello stesso giudizio di costituzionalità, con il rischio di vulnerare il canone di ragionevole

durata del processo sancito dall’art. 111 Cost.» (sentenza n. 186 del 2013).

3 – Nel merito, questa Corte è chiamata a giudicare se l’art. 612-bis cod. pen. – che punisce «chiunque, con

condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di

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paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona

al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita» –

soddisfi il principio di determinatezza delle fattispecie penali, garantito dall’art. 25, secondo comma, Cost.

La questione non è fondata.

Invero, la giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che, per verificare il rispetto del principio di

determinatezza, «occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì

collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce» (da ultimo,

sentenza n. 282 del 2010).

La valutazione, dunque, è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere

volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra,

la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Infatti, come

già precisato, a partire dalla sentenza n. 96 del 1981, «nella dizione dell’art. 25 Cost., che impone espressamente al

legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e

dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che

esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà».

4.– Ciò premesso in ordine alla portata del parametro costituzionale evocato dal rimettente e al metodo da

seguire per accertarne l’osservanza, occorre notare che la fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. si configura

come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale, sin dalla sua

originaria formulazione, agli artt. 612 e 660. La lunga tradizione applicativa di tali fattispecie in sede

giurisdizionale, da un lato agevola l’interpretazione della disposizione oggi sottoposta a giudizio e, dall’altro, offre

la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili (e riscontrati)

nella realtà.

La condotta di minaccia, infatti, oltre ad essere elemento costitutivo di diversi reati – si pensi, ad esempio, alla

violenza privata ex art. 610 cod. pen., alla rapina ex art. 628 cod. pen. o all’estorsione ex art. 629 cod. pen. – è

oggetto della specifica incriminazione di cui all’art. 612 cod. pen. e, nella tradizionale e consolidata

interpretazione che ne è data, in piena adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune, essa

consiste nella prospettazione di un male futuro. Molestare significa, invece, sempre secondo il senso comune,

alterare in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente

il significato evocato dall’art. 660 cod. pen., in cui viene fatto riferimento alla molestia per definire il risultato di

una condotta.

4.1.– In anni più recenti il legislatore – con l’art. 7 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in

materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito,

con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38 – volendo colmare un vuoto di tutela

verso i comportamenti persecutori, assillanti e invasivi della vita altrui, di cui sono vittime soprattutto, ma non

esclusivamente, le donne, ha introdotto nel codice penale l’art. 612-bis, il quale prevede un’autonoma e più grave

fattispecie di reato, in linea con quanto previsto da numerosi ordinamenti stranieri e con quanto ora è stabilito,

quale obbligo convenzionale per lo Stato, da strumenti internazionali e, segnatamente, dall’art. 34 della

Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la

violenza domestica di Istanbul, ratificata e resa esecutiva in Italia con gli artt. 1 e 2 della legge 27 giugno 2013, n.

77 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la

violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011). Con lo speciale

reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. il legislatore ha ulteriormente connotato le condotte di minaccia e molestia,

richiedendo che le stesse siano realizzate in modo reiterato e idoneo a cagionare almeno uno degli eventi indicati

nel testo normativo (stato di ansia o di paura, timore per l’incolumità e cambiamento delle abitudini di vita). Tale

ulteriore connotazione è volta ad individuare specifici fenomeni di molestia assillante che si caratterizzano per un

atteggiamento predatorio nei confronti della vittima, bene espresso dal termine inglese “stalking”, con cui viene

solitamente descritto questo comportamento criminale. Le peculiarità, che contraddistinguono la minaccia e la

molestia in questi casi, espongono la vittima a conseguenze nella vita emotiva (stato di ansia e di paura ovvero

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timore per l’incolumità) e pratica (cambiamento delle abitudini di vita), che rappresentano eventi individuati dal

legislatore proprio al fine di meglio circoscrivere la nuova area di illecito, caratterizzata da un aggravato disvalore

rispetto alle generiche minacce e molestie e che, pertanto, giustificano una più severa reazione penale.

Ancora, occorre tenere conto del fatto che si è ormai consolidato un “diritto vivente” che qualifica il delitto di

cui all’art. 612-bis cod. pen. come reato abituale di evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata,

idonea a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, richiede

il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella

consapevolezza della idoneità delle medesime a produrre almeno uno degli eventi previsti dalla norma

incriminatrice (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 20993 e n. 7544 del 2012).

Ciò conferma quanto risulta evidente già dalla formulazione legislativa del precetto e, cioè, che il reato di cui

all’art. 612-bis cod. pen. non attenua in alcun modo la determinatezza della incriminazione rispetto alle fattispecie

di molestie o di minacce, di cui costituisce una specificazione.

4.2.– Il fatto che il legislatore, nel definire le condotte e gli eventi, abbia fatto ricorso a una enunciazione sintetica

della norma incriminatrice – come avviene, del resto, nella gran parte dei Paesi dove è stata adottata una

normativa cosiddetta “anti-stalking” – e non abbia adottato, invece, una tecnica analitica di enumerazione dei

comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza, purché attraverso

l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, si pervenga alla individuazione di un significato chiaro,

intelligibile e preciso dell’enunciato. Del resto, anche in un ordinamento come quello tedesco, in cui si è scelto di

enumerare le ipotesi di persecuzione riportabili al cosiddetto “stalking” (“Nachstellung”), l’elenco non è

tassativo, ma prevede una clausola di chiusura “ad analogia esplicita”, che attrae nel perimetro della rilevanza

penale, oltre alle condotte puntualmente tipizzate, anche ogni “altro comportamento assimilabile” (“eine andere

vergleichbare Handlung”, ex § 238, (1) del codice penale tedesco).

Invero, come già affermato da questa Corte, l’esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie ai sensi

dell’art. 25, secondo comma, Cost., non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della

stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (sentenze n. 79 del 1982, n.

120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extragiuridici diffusi (sentenze n. 42 del 1972, n. 191 del

1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (sentenza n. 126 del 1971). Il principio di

determinatezza non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il

legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente

idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità

dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (sentenze n. 302 e n. 5 del 2004).

5.– In relazione ai diversi elementi che, nella loro combinazione, integrano il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen.,

ora sottoposto all’esame della Corte, viene anzitutto in rilievo la reiterazione di condotte minacciose o moleste,

idonee alternativamente a cagionare un «perdurante e grave stato di ansia o di paura» ovvero a ingenerare un

«fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da

relazione affettiva» ovvero a costringere lo stesso ad alterare le «proprie abitudini di vita».

Il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie

almeno due condotte di minacce o molestia. Ciò, tuttavia, non è sufficiente, in quanto le medesime devono anche

essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Una tale

valutazione di idoneità non può che essere condotta in concreto dal giudice esaminando il singolo caso

sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente sottolineato la giurisprudenza di

legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 46331 del 2013 e n. 6417 del

2010), non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale, né basta l’astratta

idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere

dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima.

Quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e al «fondato timore per l’incolumità», trattandosi di

eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un’accurata

osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella

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conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e

dell’equilibrio psicologico della vittima. A questo proposito, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (ex

plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza n. 14391 del 2012) ha precisato che la prova dello

stato di ansia e di paura può e deve essere ancorata ad elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento

psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla

condotta posta in essere dall’agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all’agente, e

come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo. Anche sotto questo profilo, dunque, è dimostrato che

l’enunciato legislativo di cui all’art. 612-bis cod. pen., pur richiedendo un’attenta considerazione di dati

riscontrabili sul piano dei comportamenti e dell’esperienza, consente al giudice di appurare con ragionevole

certezza il verificarsi dei fenomeni in esso descritti e, pertanto, non presenta vizi di indeterminatezza, ai sensi

dell’art. 25, secondo comma, Cost.

L’aggettivazione, inoltre, in termini di «grave e perdurante» stato di ansia o di paura e di «fondato» timore per

l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano doverosamente

ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul

soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo riguardo, deve

rammentarsi come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante

sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per

giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato (ex plurimis,

sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986).

Infine, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei

comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima

è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente

deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di

dolo.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis cod. pen. sollevata, in riferimento

all’art. 25, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Trapani, sezione distaccata di Alcamo, con

l’ordinanza in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2014.

3.2 Principio di precisione e riscritto reato di scambio elettorale politico- mafioso

Cass. Pen., 28 agosto 2014, n. 36382

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso appare fondato nei termini di cui in motivazione. 3.1 Preliminare rispetto all'esame dei motivi di

censura inerenti la valutazione del compendio probatorio e la tenuta della motivazione della sentenza impugnata,

appare la ricognizione del dato normativo di riferimento, costituito oggi dall'art. 416 ter c.p., quale risultante dalla

novella di cui alla L. 17 aprile 2014, n. 62, pubblicata su Gazz. Uff. 17 aprile 2014, n. 90.

La Corte d'Appello di Palermo ha, infatti, ritenuto essersi consumato il reato contestato in virtù della mera

accettazione della promessa di voti da parte del candidato / imputato in cambio del contributo in denaro e ciò in

riferimento ad un parametro normativo ed all'interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa Corte di cui

occorre apprezzare la perdurante o cessata validità. Nel contesto di una significativa rimodulazione della

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fattispecie incriminatrice, infatti, oltre alla estensione dell'ambito della controprestazione di chi ottiene la

promessa di voti da parte di organizzazioni mafiose ad "altre utilità", il legislatore è intervenuto anche sul

contenuto delle promesse oggetto di pattuizione, introducendo la locuzione "procurare voti mediante le modalità

di cui all'art. 416 bis, comma 3", previsione che, nella parte di specifico interesse, a sua volta recita:

"L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del

vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva (...) al fine di impedire od

ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di competizioni elettorali".

Nella Relazione alla proposta di legge C.204, presentata alla Camera dei Deputati il 15 marzo 2013 e poi

approvata con modificazioni, si evidenziava, infatti, che "l'ulteriore (diabolica) necessità di provare l'utilizzo del

metodo mafioso, che non attiene alla struttura del reato, riconducibile ai delitti di pericolo ovvero a

consumazione anticipata, rischia di vanificare la portata applicativa della disposizione".

Di conseguenza la proposta era così formulata: "Chiunque, fuori delle previsioni di cui all'art. 416 bis, comma 3,

anche senza avvalersi delle condizioni ivi previste, ottenga, da parte di soggetti appartenenti a taluna delle

associazioni di tipo mafioso punite a norma dell'art. 416-bis ovvero da parte di singoli affiliati per conto delle

medesime, la promessa di voti, ancorché in seguito non effettivamente ricevuti, in cambio dell'erogazione di

denaro o altra utilità è punito con la pena prevista dal primo comma del citato art. 416 bis".

Secondo tale formulazione letterale, dunque, avrebbe dovuto essere irrilevante il metodo attraverso il quale ci si

impegna a procurare i voti oggetto dell'accordo.

Senonché il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 16 luglio 2013 sanzionava l'accettazione

del "procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell'art. 416 bis", previsione che, non più

modificata in occasione dei successivi passaggi parlamentari, è divenuta legge. Il richiamo ai lavori parlamentari

appare rilevante poiché dimostra che la locuzione definitivamente inserita nel nuovo testo dell'art. 416 ter, ha

costituito oggetto di specifica ponderazione, talché proprio alla luce dei lavori preparatori si deve ritenere che il

suo mantenimento sia stato ritenuto funzionale all'esigenza di punire non il semplice accordo politico-elettorale

del candidato o di un suo incaricato con il sodalizio di tipo mafioso, bensì quell'accordo avente ad oggetto

l'impegno del gruppo malavitoso ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale con le modalità intimidatorie

tipicamente connesse al suo modo di agire.

La modifica, inequivoca per quanto sopra esposto, ha di fatto normativizzato quel filone ermeneutico presente

nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui è necessario che la promessa abbia ad oggetto il procacciamento

di voti nei modi, con i metodi e secondo gli scopi dell'organismo mafioso, fondata su di un'interpretazione del

previgente testo normativo che stabiliva l'applicabilità dell'art. 416 bis "a chi ottiene la promessa di voti prevista

dal medesimo art. 416 bis, comma 3" in funzione della sua collocazione tra i delitti posti a tutela dell'ordine

pubblico, messo in pericolo dal connubio tra mafia e politica, e solo in via strumentale dell'interesse al corretto

svolgimento delle consultazioni elettorali, espressamente tutelato dalle norme contenute nel D.P.R. 361 del 1957,

ed in particolare dall'art. 96 (Sez. 1^, sent. n. 27655 del 24/01/ 2012, Macrì, Rv. 253387; Sez. 6, sent. n. 18080 del

13/04/2012, Diana, Rv. 252641; Sez. 1, sent. n. 27777 del 25/03/2003, Cassata, Rv. 225864).

È rimasta, dunque, recessiva nelle opzioni legislative la diversa interpretazione che reputa sufficiente ai fini del

perfezionamento del reato la semplice stipula del patto di scambio, contemplante la promessa di voti contro

l'erogazione di denaro (Sez. 1, sent. n. 32820 del 02/03/ 2012, Battaglia, Rv. 253740; Sez. 6, sent. n. 43107 del

09/11/2011, P.G. in proc. Pizzo e altro, Rv. 251370), a proposito della quale va per completezza detto che un

esame meno superficiale delle decisioni che l'hanno propugnata, dimostra che l'opzione era stata prescelta non

tanto in contrapposizione alla necessità di definire specificamente le modalità di procacciamento dei consensi,

quanto per escludere la rilevanza della materiale erogazione del denaro (Sez. 1 n. 32820/12) o della conclusione

di patti aggiuntivi, vincolanti l'uomo politico ad operare in favore dell'associazione in caso di vittoria elettorale

(Sez. 6 n. 43107/11).

Dal complesso delle superiori considerazioni si desume, pertanto, che ai sensi del nuovo art. 46 ter c.p., le

modalità di procacciamento dei voti debbono costituire oggetto del patto di scambio politico- mafioso, in

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funzione dell'esigenza che il candidato possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione

proprio del sodalizio mafioso e che quest'ultimo si impegni a farvi ricorso, ove necessario.

Viene a questo punto in rilievo la questione, espressamente dedotta in ricorso, se l'art. 416 ter c.p., risultante dalla

modifica costituisca o meno legge più favorevole per l'imputato ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4, ed a tale quesito

non può che darsi risposta positiva.

È stato, infatti, sicuramente introdotto un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie incriminatrice, tale da

rendere, per confronto con la previgente versione, penalmente irrilevanti condotte pregresse consistenti in

pattuizioni politico - mafiose che non abbiano espressamente contemplato tali concrete modalità di

procacciamento dei voti; quale logica conseguenza, deve esservi stata, ai fini della punibilità, piena

rappresentazione e volizione da parte dell'imputato di aver concluso uno scambio politico- elettorale implicante

l'impiego da parte del sodalizio mafioso della sua forza di intimidazione e costrizione della volontà degli elettori.

L'individuazione tra più disposizioni incriminatrici che si susseguono nel tempo quale norma più favorevole per

l'imputato va, infatti, operata in concreto mediante il confronto dei risultati che deriverebbero dall'effettiva

applicazione di ciascuna di esse alla fattispecie sottoposta all'esame del giudice (Cass. sez. 1 sent. n. 40915 del

02/10/2003, Fittipaldi, Rv. 226475; Sez. 6 sent. n. 394 del 30/05/1990, Cosco, Rv. 186207: Sez. 2 sent. n. 98163

del 10/04/1987;

Sez. 6 sent. n. 593 del 04/11/1982), prescindendo però da sue valutazioni discrezionali (Sez. 3 sent. n. 9234 del

04/07/1995 in fattispecie di norma contemplante la pena dell'arresto astrattamente convertibile in pena

pecuniaria di entità minore dell'ammenda prevista dalla previgente normativa).

Non è questo evidentemente il caso in esame, in cui l'aggiunta di un elemento descrittivo della norma

incriminatrice astratta impone di necessità al giudice di confrontarsi con il nuovo dato normativo ai fini della

stessa affermazione o per converso esclusione della responsabilità penale a detto titolo.

Spetterà, dunque, alla Corte territoriale rivalutare la fattispecie in base allo ius superveniens, onde stabilire se è

ancora possibile sussumere la condotta contestata - e quale risultante dal compendio probatorio acquisito -

nell'ambito di applicazione del nuovo art. 416 ter c.p., o se invece debba o meno ricondursi ad altra figura di

reato.

3.2 L'accoglimento di tale (preliminare) doglianza, suddivisa tra quinto e ottavo motivo di ricorso, finisce in realtà

per assorbire tutte le altre.

Due di esse vertono, infatti, sulla figura di reato di cui all'art. 416 ter, nell'interpretazione accolta in sentenza

(secondo e sesto motivo); altre riguardano la qualifica di mafioso dei soggetti con cui il ricorrente si sarebbe

incontrato (primo e quarto motivo) o sarebbe venuto in contatto in occasione di precedente consultazione

elettorale (settimo); quella inerente l'interpretazione delle intercettazioni (nono motivo) involge l'aspetto cruciale

del ricorso ovvero le concrete modalità di procacciamento dei voti in favore del candidato Antinoro.

Occorre, infine, osservare che anche le plurime doglianze articolate con il terzo motivo di ricorso appaiono

strettamente collegate al fatto che l'Antinoro non ha mai negato di avere avuto, con alcuni dei coimputati

giudicati con rito abbreviato, incontri di natura squisitamente elettorale, di modo che sia la questione della

mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per escussione del teste a discarico Lo Buglio, sia il tema

dell'attendibilità complessiva e specifica del collaboratore di giustizia Visita (le cui dichiarazioni il Tribunale aveva

in primo grado, invece, valutato in maniera frazionata, pervenendo alla dichiarazioni di responsabilità per il

diverso reato di cui al D.P.R. n. 361 del 1957, art. 96) andranno necessariamente riconsiderate in occasione del

giudizio di rinvio, in base al parametro di riferimento normativo sopra ampiamente indicato.

4. All'annullamento della sentenza impugnata consegue il rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo

giudizio.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Palermo.

Così deciso in Roma, il 3 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2014

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Cass. Pen., 9 settembre 2014, n. 37374

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, anzitutto in relazione al primo dei motivi di doglianza espressi dal Pubblico ministero

palermitano. 2. È corretta, in particolare, la critica alla tesi del Tribunale secondo cui, per l'integrazione del delitto

di cui all'art. 416 ter c.p., sarebbe necessario il comprovato ricorso per l'acquisizione dei voti, da parte dei

componenti la formazione mafiosa coinvolta nell'accordo, ai metodi di intimidazione e assoggettamento descritti

nel precedente art. 416 bis c.p..

In realtà la consumazione del reato precede l'effettiva acquisizione dei suffragi, essendo centrata sulla mera

conclusione dell'accordo concernente lo scambio tra voto e denaro (per l'integrazione del delitto a monte della

materiale erogazione del compenso si veda, ad esempio, Sez. 1^, Sentenza n. 32820 del 2/03/2012, rv. 253740;

per l'irrilevanza sul piano consumativo dell'attuazione di entrambe le promesse che segnano il c.d. patto politico -

mafioso può vedersi Sez. 5^, Sentenza n. 4293 del 13/11/2002, rv. 224274). Dunque, l'esercizio in concreto del

metodo mafioso, cioè il compimento di singoli atti di intimidazione e sopraffazione in danno degli elettori,

potrebbe costituire al più l'oggetto di una intenzione del promittente, o del patto eventualmente concluso circa le

modalità esecutive dell'accordo, ma non una componente materiale della condotta tipica, rispetto alla quale

costituisce un post factum, punibile semmai con riguardo a diverse ed ulteriori fattispecie criminose (si veda per

esempio, a tale ultimo proposito, Sez. 2^, Sentenza n. 22136 del 19/02/2013, rv. 255727). La figura

incriminatrice contestata, per altro, non contiene una specificazione nel senso indicato, cioè non prevede

neppure che il soggetto alla ricerca di voti chieda all'interlocutore mafioso specifiche modalità di attuazione della

campagna, e ne ottenga la promessa. Se anche la ratio dell'incriminazione consiste nello specifico rischio di

alterazione del processo democratico che si determina quando il voto viene sollecitato da una organizzazione

mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esaurisce nella logica del comportamento di chi,

per proprie esigenze elettorali, promette denaro ad una organizzazione criminale siffatta, ovviamente

consapevole della sua natura e dei metodi che la connotano.

La fattispecie si atteggia quindi a reato di pericolo, fondandosi su consolidate regole di esperienza, e non richiede

affatto ne' l'attuazione ne' l'esplicita programmazione di una campagna singolarmente attuata mediante

intimidazioni: la sufficienza dell'assoggettamento di aree territoriali e corpi sociali alla forza del vincolo mafioso

costituisce, affinché si determinino alterazioni del libero esercizio individuale e collettivo di diritti e facoltà,

costituisce uno dei profili essenziali del fenomeno, ed è ampiamente recepita nella legislazione repressiva.

3. Si sono anticipate in sintesi conclusioni che la giurisprudenza di questa Corte ha gradualmente elaborato e

consolidato, sia pure con un processo non del tutto lineare.

Tra le decisioni antecedenti assume particolare rilievo, nel presente giudizio, quella deliberata da questa stessa

Sezione della Corte di legittimità nel procedimento incidentale a carico di Licata Aldo, cioè dell'imprenditore che

avrebbe chiesto all'odierno ricorrente di perfezionare il patto politico mafioso di cui si tratta. Nella sentenza di

annullamento con rinvio della decisione di annullamento che il Tribunale di Palermo aveva deliberato (in

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coerenza con la decisione impugnata i questa sede) si leggono numerosi argomenti a sostegno della tesi (anche

qui) accolta (Sez. 6^, Sentenza n. 19525 del 17/04/2014). Si osserva in particolare che "la fattispecie di reato di

cui all'art. 416 ter c.p., come può desumersi dal tenore testuale della disposizione, presuppone la presenza di

un'associazione di stampo mafioso che si occupa anche del condizionamento del voto, e lo eserciti a servizio dei

terzi, anche in conseguenza della corresponsione di somme di denaro, in cambio della promessa di voto ... ciò

che è essenziale alla configurazione del reato, e nella specie alla verifica degli indizi sul punto, è la certezza

dell'intervento di componenti dell'associazione di stampo mafioso nel condizionamento del voto, e l'avvenuta

promessa da parte dell'estraneo alla compagine della corresponsione di denaro in cambio del procacciamento di

consenso, risultando indifferente che le somme promesse vadano a retribuire il singolo voto procacciato, o

l'azione dei responsabili di zona che tale attività sul territorio vadano concretamente ad esercitare".

Le affermazioni citate riprendono aspetti significativi della giurisprudenza antecedente. Ciò che caratterizza il

reato in questione è la particolare qualità del soggetto che promette la campagna di reclutamento, soggetto il

quale esercita un condizionamento diffuso e fondato sulla prepotenza e la sopraffazione (Sez. 5^, Sentenza n.

23005 del 22/01/2013, rv. 255502). In tale qualità risiede l'elemento differenziale che, in effetti, va individuato

per distinguere tra il reato in contestazione e quelli di cui agli artt. 96 e 97 del T.U. delle leggi elettorali, approvato

con D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361. Ma l'indicata esigenza di delimitazione non si è risolta, se non episodicamente,

nella pretesa del concreto esercizio di pressioni ed intimidazioni, il quale, come sopra si è detto, non compare

quale elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice: "è sufficiente che l'indicazione di voto sia percepita

all'esterno come proveniente dal "clan" e come tale sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo (nel

caso di specie, la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza del tribunale che, in sede di riesame, aveva qualificato

il fatto come corruzione elettorale di cui al D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 96, modificando l'originaria

imputazione di delitto ex art. 416 ter c.p., ritenendo che la sola qualità di "mafioso" del promittente non fosse

sufficiente ne' a comprovare la collusione fra candidato ed organizzazione criminale ne' a dimostrare l'impiego

della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento che ne deriva per orientare

il voto)" (Sez. 1^, Sentenza n. 3859 del 14/01/2004, rv. 227476).

Anche nella sentenza riguardante Licata si osservato che, "se pacificamente il reato si consuma con la

conclusione dell'accordo e la formulazione della promessa che vincola reciprocamente le parti alla raccolta dei

voti, in cambio di denaro, è del tutto evidente che non possano assumere alcuna rilevanza concrete le modalità di

reperimento del consenso, poiché la potenzialità lesiva della condotta è data dalla mercificazione del libero

consenso democratico, di cui viene aumentata la potenzialità corruttiva in quanto perseguita attraverso l'attività di

un gruppo associato, in attività nella zona territoriale di interesse, e le cui connotazioni di pericolosità emergano e

siano conosciute al proponente. Questi, con l'accordo concluso, ottiene l'ulteriore risultato di aumentare le

potenzialità invasive della libera determinazione delle persone sul territorio a cura dei componenti del gruppo

illecito, legittimati ad intervenire sulla raccolta di consenso, a prescindere dalle loro concrete modalità attuative,

che necessariamente vengono realizzate ad accordo concluso e quindi a reato già perfezionato". In altre parole,

"per la sussistenza del reato di cui all'art. 416 ter c.p., non è necessario che, nello svolgimento della campagna

elettorale, vengano posti in essere singoli ed individuabili atti di sopraffazione o di minaccia, essendo sufficiente

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che l'indicazione di voto sia percepita all'esterno come proveniente dal clan e come tale sorretta dalla forza

intimidatrice del vincolo associativo (Sez. 1^, Sentenza n. 23186 del 5/06/2012, che cita in senso adesivo Sez. 1^,

Sentenza n. 3859 del 14/1/2004, rv. 227476 e Sez. 2^, Sentenza n. 46922 del 30/11/2011, rv. 251374; in senso

almeno parzialmente contrario Sez. 6^, Sentenza n. 18080 del 13/04/2012, rv. 252641 e Sez. 1^, Sentenza n.

27777 del 25/03/2003, rv. 225864, che però non possono essere condivise per le ragioni fin qui enunciate). 4.

Nella decisione concernente Licata si è fatto riferimento anche ad un altro profilo della fattispecie in

considerazione: ®rimane indifferente che il gruppo si attivi distribuendo ai singoli elettori, o agli intermediari

utilizzati, le utilità economiche percepite, trattandosi di modalità esecutiva che sopraggiunge al perfezionamento

dell'accordo, e quindi alla consumazione del reato". In particolare, si è escluso che sussista una pretesa

"inconciliabilità logica" tra l'eventuale erogazione di denaro ai singoli elettori, quale strumento per l'acquisizione

della promessa di voto, ed il metodo intimidatorio che contrassegna l'attività mafiosa e che si vorrebbe esercitato,

appunto, in ogni singola relazione tra il gruppo criminale ed i singoli suoi interlocutori. Come detto, l'attuazione

del patto di scambio è fenomeno successivo alla consumazione del reato: l'anticipazione della soglia di tutela è

giustificata dalla "forza di intimidazione insita nel controllo del territorio, ove riferisce la sua espressione

all'esistenza del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che la connota, senza

richiedere l'estrinsecazione della forza per ogni azione che si intenda realizzare a tal fine, ove risulti nota la

correlazione dell'agente con l'illecita compagine";

la previsione normativa, d'altra parte, "non effettua alcuna distinzione in ordine ai destinatari del pagamento, che

potrebbero rivelarsi gli stessi elettori, il gruppo richiesto, o i singoli associati utilizzati quali intermediari

territoriali". Del resto, e conclusivamente, non può certo teorizzarsi che il metodo mafioso venga meno ogni qual

volta i singoli interlocutori dell'organizzazione criminale traggono un vantaggio, più o meno proporzionato, dalla

propria accondiscendenza.

5. Da quanto precede deriva, come anticipato, la necessità di un annullamento con rinvio della impugnata

ordinanza, affinché il Tribunale del riesame valuti se nei fatti contestati, che risultino adeguatamente dimostrati

sul piano indiziario, sia ravvisabile il reato di cui all'art. 416 ter c.p., nella configurazione sopra delineata.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palermo.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2014

3.3 Analogia, reati tributari e abuso del diritto

Cass. Pen., 3 aprile 2014, n. 15186

Considerato in diritto

3. Il ricorso è parzialmente fondato.

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3.1 II primo motivo ripropone un'eccezione dì incompetenza territoriale già avanzata in sede di riesame, e

fondata sul fatto che l'accertamento del reato sarebbe avvenuto a Padova, lo stesso capo di incolpazione

indicando nell'aprile 2013 la data di accertamento, che coinciderebbe con I primi sequestri effettuati nel

circondario patavino (il 10 aprile a carico del F. T. e l’il aprile a carico di un coindagato). La Guardia di Finanza di

Cagliari ha si svolto un ruolo di coordinamento delle indagini, ma ad avviso del ricorrente presso i suoi uffici non

potrebbero ritenersi avvenute "le operazioni di concreto accertamento atte a radicare la competenza territoriale

per il presente procedimento penale", non potendosi peraltro ritenere che il luogo di accertamento sia quello in

cui sono concentrati I documenti e gli elementi raccolti, perché ciò comprometterebbe l'Individuazione del

giudice naturale. La pretesa evasione fiscale sarebbe quindi stata consumata e accertata a Padova (o, in subordine,

a Torino).

La questione era stata affrontata dal Tribunale, per cui l'acquisizione da parte della Guardia di Finanza in Padova

e in Torino di documenti posti a sostegno dell'informativa del pubblico ministero non significa accertamento In

tali sedi del reato. L’articolo 21, ultimo comma, l. 7 gennaio 1929 n.4 attribuisce infatti la competenza per i reati

finanziari, tra cui è annoverabile t'omesso pagamento dell'lva all'importazione, al giudice del luogo dove il reato è

stato accertato, che non va Identificato, appunto, come luogo di acquisizione, bensì come luogo in cui "sono stati

concentrati" gli elementi raccolti, "sono state effettuate le verifiche conclusive della loro rilevanza ed infine è

stata riscontrata la sussistenza degli estremi della violazione". La valutazione dei Tribunale è condivisibile, in

quanto l'accertamento non può essere identificato già negli atti ad esso prodromici, bensì si compie laddove tali

atti sono inseriti in un coordinato compendio così da poterne vagliare la effettiva significanza in termini di rilievo

penale (sulla necessità che l'accertamento, per radicare la competenza territoriale ex articolo 21 citato, consista in

una constatazione frutto di una verifica degli organi di controllo v. già Cass. sez. I, 17 giugno 2003 n. 29667;

conforme da ultimo Cass. sez. IlI, 9 gennaio 2014, non ancora massimata). Il motivo è pertanto infondato.

3.2.1 II secondo motivo prende le mosse dal presupposto che "a leggere il provvedimento parrebbe che il

Tribunale abbia ritenuto di poter inquadrare il caso nella disposizione di cui all'art. 70 d.p.r. 633/72" anziché

nell’articolo 292 d.p.r. 43/1973. Per l'ipotesi allora in cui sia stato applicato quest'ultimo, il secondo motivo

confuta la sussistenza della relativa fattispecie criminosa. Il terzo motivo, Invece, interpreta l'ordinanza nel senso

della riqualificazione, come davvero avvenuta, del fatto contestato ex articolo 70 d.p.r, 633/1972, argomentando

la non configurabitità di tale incolpazione. I due motivi devono dunque essere vagliati congiuntamente,

preliminarmente esaminando II contenuto effettivo dell'ordinanza impugnata quanto alla determinazione della

fattispecie criminosa.

Il Tribunale conferma anzitutto che ‘la scelta dello Stato membro dell'Unione nel quale introdurre il bene

extraeuropeo nella Comunità costituisce esercizio del diritto di libera circolazione delle mere e dei capitali" ex

articoli 23 e 56 Trattato CE "anche laddove ciò comporti il vantaggio di un trattamento fiscale più favorevole

rispetto a quello previsto in altri Stati". Tale premessa, apparentemente, scioglierebbe ogni questione, ma il

Tribunale, subito dopo avere riconosciuto II diritto, si pone sul piano dell’abuso del diritto stesso, ovvero del suo

esercizio con modalità illecite. Secondo l'ordinanza impugnata, infatti, l'esercizio del diritto di libera circolazione

delle merci e del capitali sarebbe nel caso in esame "avvenuto oltre i limiti ed in contrasto con gli scopi per i quali

è stato riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico": ciò si ricaverebbe dalla presenza delle caratteristiche

dell'abuso del diritto come elaborate in dottrina e in giurisprudenza, e in particolare, dell'elemento intenzionale -

rappresentato dal ’fine abusivo esclusivo -, dell‘elemento strutturale - "l'architettura complessiva non lineare delle

operazioni negoziali sottostanti, prive di giustificazione economica diversa dal risparmio del tributo" - e

dell'elemento teleologico - "il risparmio indebito d'imposta. Dopo avere descritto nel senso fattuale tali elementi,

l’ordinanza ne deduce che l’aereo era fin dall'inizio destinato ad essere importato in Italia, senza che il soggetta

che ne avrebbe poi goduto 'ne risultasse importatore, né Intestatario formale, in modo da eludere il pagamento

dell'Iva all'importazione e da rendere problematica la riconducibllità a lui dell'intera operazione", qualificando

quindi quest'ultima non come legittimo esercizio di un diritto, bensì come "una condotta connotata da profili di

frode, intenzionalmente posta in essere al solo scopo di consumare un'evasione fiscale, altrimenti irrealizzabile, e

di dissimulare la realtà dei rapporti giuridici sottostanti". A questo punto, il Tribunale ha proceduto realmente a

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una riqualificazione, affermando che "in definitiva, la fattispecie va ricostruita come una diretta importazione del

bene in Italia dagli Stati Uniti con omesso pagamento dell'Iva all'importazione e, quindi, sussunta nell'articolo 70"

d.p.r. 633/1972, la cui violazione comporta l'applicazione obbligatoria della confisca ex articolo 301 d.p.r.

43/1973, onde il sequestro è legittimo, in quanto finalizzato a tale confisca obbligatoria. (Si nota peraltro che

anche il pubblico ministero, nel disporre il sequestro preventivo in via d'urgenza in data 7 maggio 2013 - poi

convalidato dal gip che ha emesso il 14 maggio 2013 il decreto di sequestro preventivo - aveva ritenuto

sussistente il reato di cui all'articolo 70 d.p.r. 633/1972 per essere stato il velivolo immesso in consumo in Italia,

deducendone che l'adempimento delle imposte di consumo, tra cui riva, in Italia avrebbe dovuto avvenire).

3.2.3 Deve anzitutto, allora, valutarsi se l'istituto di sostanza ermeneutica rappresentato dall'abuso del diritto -

utilizzato dal Tribunale per negare nel caso concreto la tutela dell'esercizio del diritto stesso, e anzi per convertire

detto esercizio, oltre che in un inadempimento tributario, in un illecito penale - sia applicabile nella fattispecie, e

prima ancora, in genere, nel settore penale.

L’abuso del diritto è uno strumento di concretizzazione, e quindi di circoscrizione della efficacia della norma che

ha natura generale ed astratta, utilizzato sia nel campo processuale Sia in quello sostanziale. Un recente esempio

di concretizzazione istruttivo anche per Identificare le connotazioni dell'abuso nel campo sostanziale è costituito,

proprio nei processo penale, dalla fattispecie riscontrata da S.U. 29 settembre 2011, 10 gennaio 2012 n. 185, per

cui l'abuso (in quel caso, dei processo, ma la definizione è valevole, appunto, altresì per l'abuso di un diritto

sostanziale) consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza

quando un diritto è esercitato per scopi diversi da quelli per i quali l’ordinamento astrattamente lo riconosce al

titolare, il quale non può in tal caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà

effettivamente perseguiti.

Lo sviamento come contenuto dell'abuso di per sé conduce agevolmente all'elusione: una norma viene utilizzata

per uno scopo diverso da quello In essa insito, sfigurandone la ratio, per stornare l'applicazione di un'altra

norma. Un’ampia giurisprudenza nel settore tributario si è avvalsa di questo passepartout ermeneutico per

contrastare condotte dirette ad inadempiere in questo modo "mascherato" l'obbligo tributario, Individuando

nell’articolo 53 Cost. (laddove impone a tutti di contribuire secondo la propria capacità) un principio generale

antielusivo (S.U. civ. 23 dicembre 2008 n. 30057), ed enucleando attività elusive, e dunque non opponibili

all'erario, laddove sussista un uso distorto, anche se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di

strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, In difetto di ragioni

economicamente apprezzabili dell’operazione diverse dalla mera aspettativa del "beneficio" tributario (in tal

senso da ultimo Cass. civ. sez. V, 5 gennaio 2014 n. 653; tra gli arresti più recenti v. pure Cass. civ. sez. V, 30

novembre 2012 n. 21390, per cui in materia tributaria costituisce condotta abusiva l'operazione economica che

abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo elusivo del fisco, cosicché il divieto di tali

operazioni non opera soltanto se queste possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi

d'imposta).

Peraltro, tali sviluppi interpretativi si nutrono anche di norme ordinarie specificamente antielusive, come gli

articoli 37, terzo comma, e soprattutto 37 bis d.p.r, 600/1973. Quest'ultima disposizione, al suo primo comma,

fornisce una descrizione definitoria dell'attività elusiva fiscale, rendendo inopponibili all’amministrazione

finanziaria "gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare

obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzione di imposte o rimborsi, altrimenti

Indebiti". E una siffatta attività è valutata dalla giurisprudenza tributaria come oggettivamente sufficiente per

Integrare l'elusione, non occorrendo connotazioni fraudolente in senso proprio (Cass, Civ. sez. V, 8 aprile 2009

n, 8487 insegna che la norma antielusiva di cui all’articolo 37 bis d.p.r. 600/1973 non presuppone un

comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante - perché non

sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale - di un legittimo strumento giuridico, che consenta

di eludere l'applicazione del regime fiscale proprio dell'operazione che costituisce II presupposto d'imposta, nello

stesso senso, più di recente, Cass. civ. sez. V, 10 giugno 2011 n. 12788).

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48

E' Il caso di rammentare, Infine, che il contrasto, interpretativo e normativo, attuabile dagli Stati membri della

Comunità europea, come contro le evasioni fiscali, anche contro le elusioni e le pratiche abusive che si avvalgono

pure del diritto comunitario è incoraggiato quale obiettivo positivo sia dalla Comunità stessa (cfr, direttiva

2006/112) sia da varie pronunce della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (v. da ultimo le sentenze 13

febbraio 2014, Maks Pen EQOD, C-18/13; 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/U; 29 marzo 2012, 3M Italia S.p.A,,

C-417/10; 21 febbraio 2008, Part Service Srl, 0-425/06, per cui può essere pratica abusiva quella in cui il

perseguimento dì un vantaggio finale è lo scopo essenziale dell’operazione, nonostante l'esistenza eventuale di

altri obiettivi economici), a condizione comunque Che la normativa interna non ecceda a quanto necessario per il

conseguimento dell’obiettivo suddetto (v. sentenza 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading Kft, C-563/12).

3.2.4 Occorre a questo punto richiamare la indiscussa indipendenza sistemica tra il settore penale e quello

tributarlo, potendosi identificare nell'articolo 20 d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 un vero e proprio principio di

reciproca indipendenza tra il procedimento penale e il processo tributario (cfr. da ultimo, proprio a proposito di

una fattispecie elusiva, Cass. sez. II, 22 novembre 2011-28 febbraio 2012 n. 7739, in motivazione) che la

giurisprudenza ha recepito in modo ormai consolidato, evidenziando come l'accertamento del reato tributario

prescinda da quello del credito erariale, potendo pervenire anche alla sua contraddizione, non sussistendo alcun

vincolo del giudice penale rispetto all'accertamento tributario, e al contrario spettando esclusivamente al giudice

penale anche di accertare e determinare l'importo della imposta evasa ai fini di valutare la concreta configurabilità

del reato tributario (Cass. sez.IlI, 2 dicembre 2011-14 febbraio 2012 n. 5640; Cass. sez.IlI, 7 ottobre 2011 n.

36396; Cass. sez.III, 28 maggio 2008 n. 21213).

La translatio, pur effettuata, del principio antielusivo dal campo tributario ai reati finanziari e tributari ha

richiesto, allora, un suo ridimensionamento, per depurarlo da un tasso di duttilità che avrebbe potuto renderlo

intollerabilmente amorfo rispetto ai canoni costituzionali penali, vale a dire confliggente con l'Impostazione

penale del vincolo della legalità, intesa nel senso di determinatezza e tassatività, che frena, nell'estrapolazione,

dalla congerie delle condotte attuabili, di quelle penalmente rilevanti, la strutturazione integrativa dell'interprete. Il

principio della determinatezza che governa le potenzialità ermeneutiche con peculiare intensità nel settore penale

è infatti racchiuso nella riserva assoluta di legge che per la fattispecie penale sancisce l’articolo 25, secondo

comma, Cost., ed è diretto ad evitare che, in contrasto con il principio della divisione del poteri manifestato

appunto con la riserva assoluta di legge in campo penale, "il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, In

luogo del legislatore, i confini tra il lecito e illecito", nonché, correlativamente, a garantire la libera

autodeterminazione Individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le

conseguenze giuridiche della sua condotta (cosi lo focalizza il giudice delle leggi nella sentenza 327/2008; cfr.

pure Corte Cost. 185/1992 e 364/1988).

Rileva ai fini penali, pertanto, una condotta elusiva di imposizione fiscale esclusivamente se Si aggancia ad una

norma specifica, che non può essere, per così dire, di gestione ermeneutica, ovvero una norma "in bianco" da

colmare interpretativamente secondo le fattispecie concrete (un esempio simbolico di norme siffatte nel settore

tributario è ravvisabile nell'articolo 10 della I. 212/2000, il c.d. Statuto del contribuente, che al primo comma

stabilisce Che "i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della

collaborazione e della buona fede"), bensì una norma che precisamente individui, senza alcuno spazio

identificativo rimesso all'interprete, la condotta criminosa che, sul piano amministrativo tributario, coincide

anche con una condotta elusiva. Se, infatti, in via generale, il rispetto del principio di determinatezza della norma

penale emerge contestualizzando gli elementi costitutivi della fattispecie tra essi reciprocamente e nella disciplina

in cui la fattispecie si inserisce (da ultimo Cass. sez. I, 13 luglio 2012 n. 42130 e Cass. sez. V, 13 giugno 2012 n.

36737) così che, come accade per le espressioni sommarie e i vocaboli polisensi, il ricorso a clausole generali o a

concetti elastici non comporta alcun vulnus del suddetto parametro costituzionale, potendo il giudice esprimere

un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta in base a un fondamento

ermeneutico controllabile (v. ancora Corte Cost. 327/ 2008, sulla linea di Corte Cost. 5/2004, Corte Cost.

34/1995, Corte Cost. 122/1993, Corte Cost. 247/1989, Corte Cost. ord. 395/2005, Corte Cost. ord.302/2004 e

Corte Cost. ord. 80/2004), nell'ipotesi in esame è proprio la contestualizzazione (comportante II riscontro

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dell'esistenza del diritto che si prospetta abusato) che introduce in una tematica ambigua e di problematica

comprensione qualora si intenda fondare la fattispecie criminosa soltanto sull'abuso di un diritto riconosciuto

dall'ordinamento, in difetto di norme che identifichino con esattezza il confine di tale diritto - ovvero II confine

tra lecito ed illecito, che non deve essere individuato, si è visto, dall'interprete ma dal legislatore - determinando

dove viene meno perché incompatibile, appunto, con una specifica norma, o penale o Integrativa del contenuto

della norma penale (sul fatto che la norma penale possa essere integrata da norme extrapenali cfr. da ultimo

Corte Cost. 21/2009). L'abuso di un diritto come fonte di illecito penale, nel caso in esame, non può quindi

fondarsi sulla base di una composizione logica di elementi sistemici effettuata dall’interprete, bensì occorre che

trovi specifico sostegno in una norma penale oppure in una norma antielusiva tributaria.

Partendo dunque dalla inattribuibilità di valore probatorio della sussistenza di un reato a una condotta elusiva in

campo tributario (in tal senso Cass. sez III, 26 novembre 2008-2 aprile 2009 n. 14486, per cui nel reati finanziari

e tributari la figura del c.d. abuso del diritto, qualificata dall'adozione, allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale,

di una forma giuridica non corrispondente alla realtà economica, non ha valore probatorio perché implica una

presunzione incompatibile con l'accertamento penale, mentre è utilizzabile in sede tributarla come strumento di

accertamento semplificato nel contrasto all’evasione fiscale), si è pervenuto a collocare la condotta di elusione sul

piano della integrazione diretta della fattispecie penale qualora coincida, per la sua conformazione, o con il

contenuto della norma penale in questione o con la violazione di una specifica norma tributarla antielusiva che

consente appunto di identificare la condotta criminosa. Una chiara giurisprudenza di questa Suprema Corte In tal

senso si è sviluppata per le fattispecie di cui agli articoli 4 e 8 d.igs, 74/2000, che si è ritenuto possano essere

integrate "anche da comportamenti elusivi posti In essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi

dall'utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni

economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione, a condizione che sia individuata la norma

antielusiva, specificamente prevista dalla legge, violata" (così da ultimo Cass. sez. IlI, 12 giugno 2013 n, 33187;

conforme Cass. sez. IlI, 6 marzo 2013 n, 19100, a proposito del reato di dichiarazione infedele dei redditi):

norme che, In questo caso, sono state ravvisate negli articoli 37, comma 3, e 37 bis d.p.r. 600/1973 (cfr. Cass-

sez. III, 23 maggio 2013 n. 36894 e Cass. sez. II, 22 novembre 2011-28 febbraio 2012 n. 7739).

3.2.5 Quanto sinora osservato significa che, per integrare una fattispecie penale, non è sufficiente che la condotta

posta in essere - la quale formalmente costituisce l'esercizio di un diritto - abbia (come "motivo" In termini civili,

come elemento psicologico intenzionale, in termini penali) esclusivamente lo scopo di ridurre o risparmiare in

ordine ad una debenza tributaria che l'agente comunque deve assolvere, attraverso tale esclusività scollegandosi

dalla ratio normativa, cioè dal fondamento di tutela di beni/interessi per cui il diritto viene riconosciuto. E ciò

comporta che l'esercizio del diritto a porre in essere una determinata condotta (nel caso di specie, del diritto di

avvalersi della libera circolazione delle merci nell’ambito della Comunità europea sancito dall'articolo 95 del

Trattato) non viene circoscritto nel suo ambito d'applicabilità, e anzi tramutato in condotta penalmente illecita,

soltanto se lo scopo per cui l’agente se ne avvale è un proprio vantaggio tributario. Acquisire un vantaggio

tributario, di per sé, non rende quindi illecita la modalità dell'acquisizione. Occorre invece un’integrazione

normativa, nel senso di una norma specifica che confini lo spazio d’esercizio del diritto In questione e che sia

appunto incompatibile con un esercizio finalizzato esclusivamente al vantaggio fiscale, la quale faccia pertanto

venir meno la riconducibilità della condotta al reale esercizio di un diritto, convertendola in abuso del diritto, cioè

in illecito.

Il Tribunale, nel caso di specie, non si è confrontato realmente con questi presupposti normativi, limitandosi ad

una generica considerazione di elementi che ha definito sintomatici dell’abuso di diritto, quale *il fine abusivo

esclusivo" - così identificando tout court, erroneamente per quanto si è appena rilevato, Il fine del vantaggio

fiscale in un fine abusivo -, l’aspetto strutturale - che a ben guardare coincide con II precedente elemento, perché

plasmato dall'unico fine del risparmio del tributo - e l'aspetto teleologico * che ancora una volta altro non è che

"il risparmio indebito d'imposta". Detti elementi, come si è ora evidenziato, in realtà sono ipostasi di un unico

elemento che, ad avviso del Tribunale, rende abusivo, nel senso di penalmente rilevante (il Tribunale non

distingue l'elusione tributaria dalle fattispecie penali), l'esercizio del diritto di libera circolazione delle merci

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nell'ambito della Comunità europea: lo scopo di deminutio del debito tributario. Non si pone il Tribunale II

quesito sulle condizioni per cui l'"esercizio" (in tale eventualità, apparente) di un diritto possa eventualmente

coincidere con un'evasione fiscale penalmente rilevante, né considera che, se vi è II diritto di libera circolazione

delle merci nella Comunità europea il suo esercizio non può logicamente non includere anche la scelta fiscale

correlata, in difetto di norme a ciò ostative che dovrebbero comunque non confliggere con l'articolo 95 del

Trattato comunitario (si ricorda che l'IVA correlata all’importazione di beni da altro Stato membro della

comunità europea - nel caso di specie, il velivolo è stato importato in Italia dalla Danimarca - è contributo

interno come l'IVA attinente alle cessioni di beni all'interno dello Stato membro, come affermato dalla nota e

ormai risalente sentenza Drexl, cioè la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 25 febbraio

1988, C-299/86; conforme, più di recente, la sentenza emessa dalia stessa Corte In data 2 agosto 1993, C-276/91,

Commissione delle Comunità Europee c. Repubblica francese).

Non sussistono, in effetti, norme che predeterminano che lo Stato in cui viene importato il bene deve coincidere

con quello In cui risiede il soggetto che ne acquisisce poi la reale disponibilità. La fattispecie, dunque, non ha

riscontro in una specifica normativa antielusiva, e pertanto, a fortiori, non può avere rilievo penale. La

giurisprudenza di questa Suprema Corte ha già chiarito, invero, che la scelta di uno Stato attraverso il quale

introdurre II bene nella Comunità europea, anche se - come contestato nel caso di specie - è derivata

esclusivamente dal fatto che in tale Stato il regime fiscale è più favorevole, non costituisce abuso ma esercizio del

diritto di libera circolazione delle merci di cui all'articolo 23 Trattato CE e dei capitali di cui all'articolo 56

Trattato CE (In tal senso la già citata Cass. sez. IlI, 26 novembre 2008-2 aprile 2009 n. 14486, che richiama tra

l’altro la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 9 marzo 1999, Centros Ltd., C-212/97,

relativa all'esercizio del diritto di stabilimento, per cui la scelta di uno Stato membro per costituirvi una società in

quanto le sue norme del diritto societario sono meno severe rispetto a quelle degli altri Stati membri non

costituisce di per sé un abuso del diritto di stabilimento ex articolo 43 ss. Trattato CE, anche se ciò non toglie

allo Stato membro interessato, tra l’altro, il potere di emanare norme antielusive se emerge trattarsi di scelta

fraudolenta per eludere le obbligazioni della società e/o dei soci verso creditori pubblici o privati stabiliti nel

territorio dello Stato membro interessato; sempre a proposito dell'esercizio del diritto di stabilimento risulta

significativa per le questioni in esame altresì la sentenza 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e a., C-196/04,

per cui la mera circostanza che una società istituisca uno stabilimento secondario - per esempio, una controllata -

in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede non può fondare un presunzione generale di frode fiscale,

né giustificare una misura che pregiudichi l'esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato, pur

dovendosi ritenere una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento giustificata dallo scopo di

contrasto contro pratiche abusive allorquando concerne specificamente costruzioni puramente artificiose, prive

di effettività economiche, finalizzate ad eludere la normale Imposta che avrebbe dovuto essere corrisposta nello

Stato interessato, in tal caso trattandosi appunto di "costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l'imposta

nazionale normalmente dovuta").

Non ritiene, poi, questo Collegio di condividere la diversa posizione assunta al riguardo da Cass. sez. III, 9

gennaio 2014 (non ancora massimata). Tale arresto da un lato argomenta sulla questione di fatto, non presente

nell'ordinanza in questa sede oggetto di ricorso, della mancata prova di iscrizione del velivolo ai pubblici registri e

presso l'ente nazionale di volo danesi, e dall'altro, a parte il profilo dei limiti di detraibilità dell'Iva "assolta a

monte", cioè in altro Stato membro della Comunità europea, che pure qui non ricorre e sul quale vi è ampia

giurisprudenza comunitaria, si Impernia su alcuni elementi tratti dalla sentenza della Corte di Giustizia delle

Comunità Europee del 6 novembre 2008, Trespa International BV (C-248/2007) in ordine all'interpretazione del

Regolamento di attuazione del Codice Doganale Comunitario, che attengono, peraltro, all'Ipotesi - qui non

emergente come inclusa nel thema decidendum - del trattamento tariffario favorevole riguardo alla riduzione o la

sospensione di dazio in caso di importazione di merce originaria di Paesi extracomunitari per destinazione

particolare, per la fruizione della quale l'operatore che importa o fa Importare la merce per immetterla in libera

pratica deve ottenere un'autorizzazione scritta, di cui deve poi. In caso di cessione intracomunltaria della merce,

essere in possesso pure il cessionario (articoli 291 e 297 del Regolamento), fattispecie in cui possono rientrare, ex

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articolo 295 dei Regolamento, gli aeromobili civili. Nello stesso senso della presente decisione si è peraltro posta

anche Cass. sez. IlI, 17 gennaio 2014, n. 13039, ancora non massimata.

Non è, in conclusione, configurabile una sorta di penalmente illecita simulazione complessiva quale è quella che

riscontra il Tribunale laddove afferma che "la fattispecie va ricostruita come una diretta importazione del bene in

Italia dagli Stati Uniti con omesso pagamento dell'Iva all’importazione" deducendone la qualificazione ex articolo

70 d.p.r. 633/1972, cioè del reato di evasione dell'Iva all'importazione. Ne discende - assorbendosi così ogni

ulteriore questione, incluso l'ultimo motivo del ricorso - che l'ordinanza, confermando la sottoposizione del

velivolo al vincolo, incorre in una violazione di legge che ne giustifica l'annullamento senza rinvio, nonché il

conseguente annullamento del provvedimento genetico, con restituzione del velivolo a chi ne abbia diritto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nonché il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del

Tribunale di Cagliari in data 14 maggio 2013 e ordina la restituzione di quanto in sequestro in favore dell'avente

diritto.

3.4 Interpretazione estensiva, stato di necessità e crisi di liquidità

Cass. Pen, 4 aprile 2014, n. 15416

Considerato in diritto

3. - Il ricorso è infondato.

3.1. - Il primo motivo di doglianza - con cui si lamenta, in sostanza, che il mancato pagamento delle imposte

sarebbe dovuto alla crisi economica del settore produttivo cui afferisce la società dell'imputato e che l'esigenza di

salvaguardare i posti di lavoro dei dipendenti integrerebbe la circostanza scriminante dello stato di necessità di cui

all'art. 54 cod. pen. - è infondato.

3.1.1. - Come recentemente ribadito dalle sezioni unite di questa Corte, il reato di omesso versamento di ritenute

certificate (art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000) si consuma con il mancato versamento per un ammontare

superiore ad euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai

sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale (28 marzo 2013, n.

37425, rv. 255759). Ne deriva che il delitto in questione è strutturato come reato omissivo proprio istantaneo,

posto che si consuma in conseguenza del mancato compimento dell'azione dovuta, costituita dall'omesso

versamento, entro il termine fissato, delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti dallo stesso

contribuente. Tale termine non coincide con quello richiesto dalla normativa fiscale per l'adempimento

dell'obbligazione tributaria, ma è ad esso successivo, avendo il legislatore ritenuto di lasciare al contribuente un

lasso di tempo per poter sanare il proprio debito tributario prima che la condotta omissiva integri la fattispecie

penalmente rilevante. Infatti, mentre la normativa tributaria fissa quale termine per il versamento all'erario delle

ritenute effettuate il giorno sedici del mese successivo a quello in cui le stesse sono state operate da parte del

sostituto (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 3 e 8), sanzionando l'omissione in via amministrativa in base al

d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, comma 1, la normativa penale (d.lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis), si

riferisce complessivamente a tutte le ritenute operate nell'anno di imposta e stabilisce, quale termine di

adempimento penalmente rilevante, quello del 31 ottobre dell'anno successivo. Le sezioni unite hanno, più in

particolare, chiarito che il reato di omesso versamento di ritenute certificate non si pone in rapporto di specialità

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ma di progressione illecita con l'illecito amministrativo tributario di cui al d.lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1,

con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni.

Come successivamente precisato da questa Corte in una fattispecie analoga a quella per la quale qui si procede

(sez. 3, 5 dicembre 2013, n.5467/2014), rispetto a tale quadro giuridico e normativo, la situazione di colui che

non versa l'imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si

articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute; successivamente con

l'omesso versamento mensile secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria; ed infine con la

prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale. Poiché il sostituto di

imposta, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, deve, allorché procede al versamento

in favore di quest'ultimo, trattenere una percentuale di questo emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per, poi,

versarlo all'erario entro il sedici del mese successivo a quello nel quale ha operato la trattenuta, gli spazi per

ritenere l'assenza dell'elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore quale

conseguenza di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità appaiono, all'evidenza, oggettivamente

ristretti.

Con la richiamata sentenza n. 37425 del 28 marzo 2013, le sezioni unite hanno, infatti, ribadito che, per

l'integrazione della fattispecie ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico ossia

la coscienza e volontà di non versare all’erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, con la precisazione

che tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia dei cinquantamila euro, che è un elemento costitutivo

del fatto, contribuendo a definirne il disvalore. È invece irrilevante il fine perseguito dall'agente e, più in

particolare, la circostanza se il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte (ex

plurimis, sez. 3, 19 gennaio 2011, n. 13100, rv. 249917; sez. 3, 26 maggio 2010, n. 25875, rv. 248151),

La prova del dolo è normalmente insita nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e

della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la

loro data ed ammontare, nonché i versamenti relativi. Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute

è infatti collegato alle erogazioni degli emolumenti ai dipendenti; con la conseguenza che, ogni qualvolta il

sostituto d'imposta effettua tali erogazioni, insorge a suo carico l'obbligo di accantonare le somme dovute

alberarlo, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria,

L'introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione,

estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per

escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo,

ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all'esigenza predetta.

Non può ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice

del merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - nei quali possa

invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere all'obbligazione tributaria. È tuttavia necessario

che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno investire non solo

l'aspetto della non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe

investito l'azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il

ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia

stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale

adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli

per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un'improvvisa crisi di liquidità,

quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua

volontà e ad egli non imputabili (sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).

Né il fatto che le obbligazioni tributarie siano rimaste inadempiute per l'esigenza di adempiere prioritariamente

alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è di per sé idoneo a configurare la

circostanza scriminante dello stato di necessità, specificamente invocata dalla difesa nel caso di specie. L'art. 54

cod. pen.esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di

salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona; laddove, con l'espressione «danno grave alla

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persona», il legislatore ha inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere

umano, come la vita, l'integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome,

l'onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento

ed allo sviluppo della persona umana. Ne consegue che, pur dovendosi affermare che II diritto al lavoro è

costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana,

deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo

dell'art. 54 cod. pen. (sez. 1, 23 gennaio 1997, n. 4323, rv, 207434).

3.1.2. - Analoghe considerazioni valgono per il reato di cui all'art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, anch'esso

contestato nel caso di specie.

La disposizione incriminatrice prevede, in particolare, che la sanzione prevista dall'art. 10-bis, per il delitto di

omesso versamento di ritenute certificate si applica anche a chiunque non versi l'imposta sul valore aggiunto,

dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo

d'imposta successivo. Il comportamento del soggetto che non versa l'iva dichiarata a debito in sede di

dichiarazione annuale è stato quindi dal legislatore assimilato in tutto e per tutto a quello del sostituto che non

versa le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti. Il momento consumativo del reato è

individuato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta

successivo; termine fissato dalla legge n. 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre. Conseguentemente, per la

consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alla scadenze previste, ma

occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27

dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento, incombendo sul contribuente l'onere di

organizzare le risorse disponibili su scala annuale in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria.

La giurisprudenza dì questa Corte ha, in particolare, precisato che, in tema di omesso versamento IVA, il reato

omissivo a carattere istantaneo previsto dal D.Lgs, 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, consiste nel mancato

versamento all'erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità

del regime di «IVA per cassa», è ordinariamente svincolato dall'effettiva riscossione dei corrispettivi relativi alle

prestazioni effettuate. Ha altresì precisato che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico essendo

sufficiente a integrarlo la coscienza e volontà di non versare all'erario le ritenute effettuate nel periodo

considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di euro cinquantamila, che è un elemento

costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore (sez. un, 28 marzo 2013, n. 37424, rv. 255758; sez. 3, 6

marzo 2013, n. 19099, rv. 255327). La prova del dolo - analogamente a quanto affermato in relazione alla

fattispecie di cui al precedente art. 10-bis - è Insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale

emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la

soglia dì euro cinquantamila, entro il termine previsto.

Appare, dunque, evidente la similitudine con quanto accade per il sostituto d'imposta rispetto alle trattenute

operate per oneri previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei propri dipendenti. Ed è evidentemente questa

la ragione della scelta del legislatore di equiparare le relative sanzioni; con la conseguenza che devono essere

integralmente confermate e richiamate, anche in relazione al reato dì cui all'art. 10-ter, le considerazioni sopra

svolte circa la valutazione dell'elemento soggettivo e l'applicabilità delle circostanze scriminanti della forza

maggiore e dello stato di necessità.

3.1.3. - Tali principi trovano applicazione in riferimento al caso in esame, in cui la difesa ha dedotto - con il

primo motivo di ricorso - che: a) gli importi delle ritenute e dell'Iva non versati sono stati espressamente

dichiarati e certificati; b) il mancato versamento è dovuto alla crisi economica del settore produttivo, essendosi il

fatturato ridotto di circa il 70% fra il 2008 e il 2009 ed essendo stato necessario per la società pagare

prioritariamente gli istituti di eredito e i fornitori, che minacciavano di presentare istanza di fallimento; c) sono

state effettuate proposte di concordato in via di definizione con l'Agenzia delle entrate ed è stato effettuato un

pagamento parziale, tanto che, a fronte di un iniziale debito di circa 250.000,00 euro, residuerebbero circa

200.0,00 euro; d) sarebbe applicabile nel caso di specie l'esimente dello stato di necessità di cui all'art. 54 cod.

pen., in relazione al pericolo della perdita del posto di lavoro da parte dei dipendenti.

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Quanto al rilievo sub a), va osservato che il fatto che gli importi non versati siano stati espressamente dichiarati e

certificati non esclude la sussistenza dei reati contestati, perché essi attengono non alla mancata dichiarazione o

certificazione di operazioni imponibili, ma - come visto - più semplicemente al mancato pagamento del dovuto

nei termini fissati.

Quanto alla censura sub b), deve rilevarsi che, dalla stessa prospettazione del ricorrente, non emerge se la crisi

aziendale sia stata inevitabile conseguenza della crisi del settore economico o fosse invece evitabile attraverso

l'utilizzazione delle cautele e degli accorgimenti del caso. Emerge, anzi, che il mancato pagamento di quanto

dovuto all'erario non è il frutto di una assoluta mancanza di liquidità - circostanza che, alle condizioni sopra

precisate al paragrafo 3.1.1., avrebbe potuto costituire una base per l'applicazione della scriminante della forza

maggiore - ma è invece il frutto di una consapevole scelta imprenditoriale diretta a privilegiare il pagamento di

altri creditori rispetto all'erario. Può affermarsi, dunque, che il mancato adempimento delle obbligazioni tributarie

è sostanzialmente riconosciuto come doloso dallo stesso ricorrente, il quale ha consapevolmente omesso di

versare somme superiori alla soglia di punibilità alle scadenze previste, con ciò integrando il dolo del reato, nei

termini specificati al paragrafo 3.1.1. Né alcuna valenza può essere attribuita, in ogni caso, alla circostanza che il

mancato pagamento dei creditori diversi dall'erario sarebbe stato necessario per scongiurare il fallimento della

società. E ciò sia perché il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso erario proprio in relazione

ai crediti tributari, sia perché la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare

l'ipotesi di forza maggiore sopra delineata.

Quanto al rilievo sub c), relativo ad un preteso pagamento parziale dell'obbligazione tributaria, questo non rileva

ai fini della sussistenza del fumus commissi delieti, ma potrebbe al più rilevare ai fini della determinazione

dell'ammontare del sequestro (su cui vedi però infra 3.4.).

Quanto, infine, al rilievo riportato sub d), relativo allo stato di necessità, valgono le considerazioni già svolte al

paragrafo 3.1.1., secondo cui la perdita del lavoro non integra, in quanto tale, un danno grave alla persona

rilevante ai fini dell'art. 54 cod. pen.

3.2. - Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

3.2.1. - Infatti con esso la difesa formula, in primo luogo, mere asserzioni circa la mancanza di un profitto

conseguente all'evasione fiscale, senza considerare che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, in

tema di reati tributari, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente prevista dall'art. 1, comma 143, della

legge n. 244 del 2007 va riferito all'ammontare dell'imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio

patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto

del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro

destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo; a tal fine, per la quantificazione di questo risparmio, deve

tenersi conto anche del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all'accertamento del

debito tributario (sez. 3, 23 ottobre 2012, n. 45849).

3.2.2. - Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non è poi necessario che vi sia un collegamento tra i

beni sequestrati per equivalente e il profitto conseguito.

Deve infatti ribadirsi il principio, desumibile dalla semplice lettura dell'art. 322 ter cod. pen. e costantemente

affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il sequestro e la confisca per equivalente non

presuppongono alcuna dimostrazione di uno specifico nesso di strumentalità tra la res e il reato, potendo essere

imposti su qualsivoglia bene afferente al patrimonio dell'autore del reato e bastando quale presupposto il solo

fumus della consumazione del reato stesso. Tale conclusione risulta ulteriormente avvalorata dalla natura

sanzionatola dell'istituto, la cui ratio è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico dell'attività

criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità

dissuasiva e disincentivante di tale strumento, con la conseguenza, appunto, della confiscabilità di beni che, oltre

a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno collegamento diretto con il

singolo reato (ex plurimis, sez. 3, 23 ottobre 2013, n. 45951; sez. 1, 28 febbraio 2012, n. 11768; sez. 3, 14 gennaio

2010, n. 6293).

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3.2.3. - Manifestamente infondato è anche l'ulteriore rilievo difensivo, secondo cui uno degli immobili sequestrati

costituirebbe l'abitazione principale e la sua espropriazione sarebbe, dunque, vietata ai sensi dell'art. 76, comma 1,

del d.P.R. n. 602 del 1973.

Va infatti ricordato che il richiamato art. 76 (Espropriazione immobiliare), come sostituito, da ultimo, dall’art. 52,

comma 1, lettera g), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98,

stabilisce, al comma 1, che: «Ferma la facoltà di intervento ai sensi dell'articolo 499 del codice di procedura civile,

l'agente della riscossione: a) non dà corso all'espropriazione se l'unico immobile di proprietà del debitore, con

esclusione delle abitazioni di lusso aventi le caratteristiche individuate dal decreto del Ministro per i lavori

pubblici 2 agosto 1969, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 27 agosto 1969, e comunque dei fabbricati

classificati nelle categorie catastali A/8 e A/9, è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente».

La disposizione richiamata prevede, dunque, che sia esclusa dall’espropriazione l'abitazione di residenza alle

condizioni che questa sia l'unico immobile di proprietà del debitore e che non appartenga ad alcune particolari

categorie di fabbricati.

Di tali due condizioni: la prima risulta espressamente esclusa dagli atti, dai quali emerge che il debitore non è

proprietario di un unico immobile, tanto che è stato destinatario del sequestro di più immobili; la seconda non

risulta dedotta, né tantomeno provata. E ciò, a prescindere dall'assorbente considerazione che le limitazioni

previste dall'art. 76 si applicano alla fattispecie dell'espropriazione da parte dell'erario in conseguenza di

inadempimento delle obbligazioni tributarie, che ha natura strettamente ripristinatoria, e non alla diversa

fattispecie - qui in esame - della confisca per equivalente, che ha invece natura sanzionatola.

3.3. - Inammissibile è il rilievo - proposto con il terzo motivo di ricorso - secondo cui il Tribunale non si è

pronunciato sul punto se il sequestro sia stato disposto senza preventivamente accertare l'impossibilità di

procedere in via diretta sui beni della società o del legale rappresentante costituenti il profitto del reato.

Il ricorrente non specifica, infatti, se tale doglianza fosse stata prospettata con i motivi di riesame né se fosse

stata dedotta all'udienza in camera di consiglio di fronte al Tribunale; con la conseguenza che questa Corte non è

messa in grado di valutare se lo stesso Tribunale abbia effettivamente omesso di motivare su una questione posta

alla sua attenzione. Dall'esame degli atti risulta, anzi, che detta questione è stata proposta per la prima volta in

sede di legittimità. Né a tali conclusioni potrebbe obiettarsi che la richiesta di riesame ha effetto interamente

devolutivo e, dunque, investe il Tribunale di ogni aspetto relativo al titolo cautelare. L'effetto devolutivo del

riesame deve, infatti, essere inteso nel senso che il Tribunale è tenuto, indipendentemente dalla prospettazione

del ricorrente, a valutare esclusivamente la sussistenza dei presupposti della misura cautelare, sotto il profilo del

fumus commissi delieti e, nel caso del sequestro preventivo, del periculum in mora o della confiscabilità dei beni

sequestrati; non essendo tenuto, invece, a procedere all'analisi di aspetti ulteriori, quale quello relativo alla

sequestrabilità dei beni, qualora non espressamente dedotti.

3.4. Il quarto motivo di doglianza - con il quale si sostiene che, per l'applicabilità del sequestro preventivo

finalizzato alla confisca per equivalente, è necessaria l'esatta equivalenza dì valore tra I beni confiscati e il prezzo

o il profitto derivante dal reato e che una tale equivalenza non sussisterebbe, nel caso di specie, perché il debito

erariale, al momento dell'esecuzione del sequestro, ammontava a circa euro 200.000,00 e non invece alla

maggiore somma sequestrata di euro 250.527,10 - è infondato.

3*4.1. - Non vi è dubbio, in linea di principio che la funzione sanzionatoria della confisca per equivalente venga

meno con il versamento dell'imposta evasa. Il versamento realizza, infatti, l'eliminazione dell'ingiustificato

arricchimento derivante dalla commissione del reato ed impedisce, perciò, che, attraverso l'Impiego di beni di

provenienza delittuosa o del loro equivalente, il colpevole possa assicurarsi il vantaggio economico oggetto

specifico del disegno criminoso come precisato da questa Corte, con le sentenze sez. 3, 1° dicembre 2010, n.

10120/2011, rv. 249752, e sez, 3, 12 luglio 2012, n. 46726. In particolare, nella prima di tali due pronunce, si è

adottata un'interpretazione costituzionalmente conforme delle richiamate disposizioni, affermando che è

manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 322 ter cod. pen. ed 1, comma 143,

della legge 24 dicembre 2007, n. 244, per la parte in cui, nel prevedere la confisca per equivalente anche per i reati

tributari previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, contrasterebbero, nel caso di sanatoria della posizione debitoria

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con l'Amministrazione finanziaria, con gli artt. 23 e 25 Cost., in quanto la restituzione all'Erario del profitto del

reato fa venir meno lo scopo principale perseguito con la confisca, escludendo la temuta duplicazione

sanzionatoria.

In altri termini, se il reo provvede al pagamento dell'imposta evasa, considerato che l'ammontare suscettibile di

confisca corrisponde al quantum dell'imposta stessa, viene meno l'indebito vantaggio da aggredire con il

provvedimento ablatorio, perché viene meno la necessità di evitare che il conseguimento dell'indebito profitto

del reato si consolidi. Ne consegue che la natura prevalentemente sanzionatoria della confisca per equivalente

non può portare ad un indiscriminato automatismo nella sua applicazione, perché, diversamente opinando, vi

sarebbe un'indebita duplicazione in malam partem: l'indagato, oltre ad aver adempiuto il suo debito verso

l'amministrazione finanziaria, si vedrebbe privato, all'esito dell'accertamento della responsabilità penale, anche di

beni equivalenti per valore al profitto iniziale del reato, ormai venuto meno proprio a seguito del versamento

dell'imposta evasa.

L'adempimento del debito verso l'amministratore finanziaria fa, dunque, venire meno lo scopo principale che si

intende perseguire con la confisca.

Tali principi non trovano, però, applicazione nel caso di specie, concernente il giudizio di riesame conseguente

all'applicazione del sequestro preventivo per equivalente.

Oggetto del presente giudizio è, infatti, la situazione che si presentava al momento dell'emanazione del

provvedimento cautelare impugnato, da valutarsi anche alla luce degli eventuali elementi di prova

successivamente forniti dall'indagato, ma non le eventuali mutazioni della stessa realizzate attraverso pagamenti

parziali del debito tributario. Tali pagamenti possono, al più, essere posti a fondamento di una richiesta di revoca

parziale ai sensi dell'art. 321, comma 3, cod. proc. pen., potendo configurarsi come quei fatti sopravvenuti idonei

a far mancare le condizioni di applicabilità del sequestro, sotto il profilo della non corrispondenza fra la somma

sequestrata e il profitto effettivamente conseguito.

In sede di riesame, invece, può essere data rilevanza alle sole condizioni di applicabilità originarie della misura,

con la conseguenza che la corrispondenza fra il quantum sequestrato e il profitto deve essere valutata con

riferimento al profitto inizialmente conseguito dall'indagato e, di regola, corrispondente all'entità dell'imposta

evasa (sez. 3, 27 novembre 2013, n.10826/2014).

3.4.2. - A ciò deve aggiungersi che, in ogni caso, non vi è necessità che vi sia esatta corrispondenza fra profitto e

quantum sequestrato, essendo sufficiente che il giudice motivi, in linea di massima, sulla non esorbitanza di

quanto sequestrato, salvi, ovviamente, gli eventuali più approfonditi accertamenti da svolgersi nel giudizio di

merito. Ne consegue che, laddove la valutazione del giudice risponda a tali criteri, essa è insindacabile in sede di

legittimità. Il provvedimento del tribunale del riesame che conferma il sequestro preventivo funzionale alla

confisca per equivalente può essere, infatti, ritenuto illegittimo nel solo caso in cui non contenga alcuna

valutazione sul valore dei beni sequestrati; valutazione necessaria al fine di verificare il rispetto del principio di

proporzionalità tra il credito garantito ed il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, non essendo consentito

differire l'adempimento estimatorio alla fase esecutiva della confisca (ex multis, sez. 3, 23 aprile 2013, n. 39091;

sez. 3, 7 ottobre 2010, n, 41731).

4. - Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese

processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Cass. Pen., 5 giugno 2014, n. 23532

Motivi della decisione

1. I motivi sopra indicati sono fondati esclusivamente per quanto concerne le doglianze relative all'omesso

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versamento delle ritenute previdenziali operate in relazione all'anno 2012. Gli altri motivi sono infondati e

pertanto il proposto ricorso, per il resto, va rigettato.

2. Va in primis ricordato che l'art. 325 c.p.p., prevede, contro le ordinanza in materia di riesame di misure

cautelari reali, il ricorso per cassazione soltanto per violazione di legge.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito come in tale

nozione debbano ricomprendersi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della

motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del

tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a

rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (vedasi Sez. U, n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov,

rv. 239692;

conf. Sez. 5, n. 43068 del 13.10.2009, Bosi, rv. 245093).

Ancora più di recente è stato precisato che in tali casi è ammissibile il ricorso per cassazione, pur consentito

solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o

meramente apparente, perchè sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda

contestata e l'"iter" logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato, (così sez. 6, n. 6589 del

10.1.2013, Gabriele, rv.

254893).

Di fronte all'assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l'obbligo di motivazione dei

provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell'atto.

3. Fatta questa necessaria premessa in punto di diritto va ricordato che l'indagine penale a carico del B. -

nella sua qualità di legale rappresentante della ditta "TRT - Trasporti Refrigerati Tirreno di Bucchi Marco &

C." esercente attività di autotrasporti di generi alimentari - trae origine da un controllo fiscale eseguito nei

confronti della stessa ed avente ad oggetto gli anni d'imposta 2011 e 2012.In particolare la Guardia di Finanza, a

seguito della rituale esibizione dei libri e delle scritture contabili da

parte della società sottoposta ad accertamento, procedeva ad un'attività ispettiva tesa al controllo circa il

corretto versamento delle ritenute fiscali e dell'Iva.

Da un punto di vista operativo tale accertamento veniva esperito procedendo, per quanto attiene alle

ritenute fiscali, al raffronto tra la dichiarazione annuale dei sostituti d'imposta modello 770 ed i relativi

versamenti mediante F24, mentre per quanto attiene al versamento dell'Iva mediante riconciliazione delle

registrazioni effettuate nei trimestri presi in considerazione e le relative liquidazioni periodiche presenti

nell'archivio dell'anagrafe tributaria.

Le indagini così eseguite portavano la Guardia di Finanza a ritenere che per gli anni d'imposta 2011 e 2012

la società controllata avesse omesso il versamento di ritenute certificate e dell'Iva. Di conseguenza al B.,

quale legale rappresentante della stessa, venivano contestate le violazioni, a) di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000,

art. 10 ter, perchè per il periodo di imposta 2011 non versava entro i termini previsti per il versamento

dell'acconto relativo al periodo d'imposta successiva l'imposta sul valore aggiunto dichiarata in

dichiarazione annuale pari ad Euro 249.205; b) di cui all'art. 81 c.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis,

perchè non versava entro i termini previsti per la presentazione della dichiarazione annuale dei sostituti

d'imposta le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate sostituti d'imposta per un ammontare di Euro

76.153 per il periodo di imposta 2011 ed Euro 137.043 per il periodo 2012.

Orbene, come visto, il ricorrente non contesta la sussistenza dei presupposti oggettivi in relazione all'anno

di imposta 2011, sia per l'IVA (capo a) che per le ritenute di acconto relative a tale anno (capo b), sul cui

fumus il tribunale di Roma motiva in maniera logica e coerente, e pertanto immune da vizi di legittimità

(cfr. pag. 3 sub 2 del provvedimento impugnato).

Fondata è invece la doglianza per quanto concerne il fumus del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10

bis, per l'omesso versamento di Euro 137.043 per il periodo 2012.

Questa Corte Suprema ha chiarito che il reato di omesso versamento, da parte del sostituto d'imposta,

delle ritenute operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti si consuma alla scadenza del termine per

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la presentazione della dichiarazione annuale, in quanto è solo con il maturare di tale termine che si verifica

l'evento dannoso per l'erario, previsto dalla fattispecie penale, ed è punibile a titolo di dolo generico,

richiedendo la mera consapevolezza della condotta omissiva (cfr. Sez. un., n. 37425 del 28.3.2013,

Favellato, rv. 255760: sez. 3, n. 25875 del 26.5.2010, Olivieri, rv. 248151).

Come evidenziato dal ricorrente, a seguito del D.P.C.M. del 24.7.2013 il termine per la presentazione

telematica del mod. 770 era stato prorogato al 20 settembre 2013. E pertanto, allorquando è intervenuto

l'accertamento della G.D.F., a luglio 2013, il reato de quo non poteva ancora essere stato consumato.

4. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, "Omesso versamento di ritenute certificate", introdotto con l'art. 1,

comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Legge finanziaria per l'anno 2005), prevede che: "1. E'

punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la

presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione

rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo di imposta".

A norma del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, inserito con il D.L. 4 luglio 2006, art. 35, comma 7, convertito

con modificazioni nella L. 4 agosto del 2006, la sanzione prevista dall'art. 10 bis, per il delitto di omesso

versamento di ritenute certificate si applica anche a chiunque non versi l'imposta sul valore aggiunto,

dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo

d'imposta successivo.

Con l'intervento legislativo del luglio 2006 è stata, dunque, introdotta una nuova fattispecie criminosa,

diretta a sanzionare l'omesso versamento dell'IVA in base alle risultanze della dichiarazione annuale, cui è stata

estesa la sanzione penale prevista per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate dal

precedente art. 10 bis, in forza del quale è punito "con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non

versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta

ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila

Euro per ciascun periodo d'imposta" (da intendersi per i fatti commessi sino al 17.9.2011 superiore, per

ciascun periodo d'imposta, a 103.931,38 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 8.4.2014 n. 80 -

in GU la Serie Speciale - Corte Costituzionale n.17 del 16-4-2014 e quindi produttiva di effetti dal 17.4.2014

- che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter nella parte de qua).

Con il già citato dictum delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte si è ribadito che il reato di omesso

versamento di ritenute certificate di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, si consuma con il mancato

versamento per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti

dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della

dichiarazione annuale (e si è anche precisato che, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione

illecita con l'art. 13, comma primo, D.Lgs. n. 471 del 1997, che punisce con la sanzione amministrativa

l'omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza

che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. Unite n. 37425 del 28.3.2013,

Favellato, rv. 255759).

Il momento consumativo del reato di cui all'art. 10 ter in materia di IVA è individuato, a sua volta, alla

scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo. Tale

termine è fissato dalla L. n. 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre. Conseguentemente per la

consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alla scadenze

previste, ma occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione si

protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento.

Condivisibilmente è stato precisato che in tema di omesso versamento IVA, il reato omissivo a carattere

istantaneo previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 ter, consiste nel mancato versamento all'erario

delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del regime di

"IVA per cassa", è ordinariamente svincolato dalla effettiva riscossione delle somme- corrispettivo relative

alle prestazioni effettuate (Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv. 255758; sez. 3, n. 19099 del

6.3.2013, Di Vora, rv. 255327).

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59

5. Alla luce dei principi sopra ricordati, appare infondato, invece, il profilo di doglianza attinente alla

mancanza dell'elemento soggettivo.

Questa Corte Suprema, all'esito di un'approfondita disamina della normativa tributaria in materia, proprio

in tema di elemento soggettivo, ha di recente affermato a Sezioni Unite in due sentenze il principio che,

mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, richiedono che il

comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione

della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo nè dell'art. 10 bis, e nemmeno del D.Lgs. n. 74 del

2000, art. 10 ter, che pertanto sono puniti a titolo di dolo generico (così, per l'art. 10 bis. Sez. Unite n.

37425 del 28.3.2013, Favellato, rv. 255759 e per l'art. 10 ter Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv.

255758).

Per la commissione di tali reati, basta, in altri termini, la coscienza e volontà di non versare all'Erario le

ritenute effettuate nel periodo considerato, con la precisazione che tale coscienza e volontà deve investire

anche la soglia dei cinquantamila Euro, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il

disvalore.

La prova del dolo è insita, in genere, nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e

della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute

effettuate, la loro data ed ammontare, nonchè i versamenti relativi o della dichiarazione IVA. Il debito verso il

fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato con quello della erogazione degli emolumenti ai

collaboratori. Ogni qualvolta il sostituto d'imposta effettua tali erogazioni, deriva, quindi, a suo carico

l'obbligo di accantonare le somme dovute all'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter

adempiere all'obbligazione tributaria.

Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni

qualvolta il soggetto d'imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall'acquirente del bene o del servizio)

l'IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da

poter adempiere all'obbligazione tributaria.

Nelle sentenze delle SS.UU. sopra citate si ricorda anche che l'introduzione della norma di cui al D.Lgs. n. 74

del 2000, art. 10 bis, e poi quella di cui all'art. 10 ter, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la

loro applicazione, hanno esteso l'esigenza di organizzazione dei propri pagamenti all'Erario da parte del

sostituto d'imposta su scala annuale.

6. Non può, dunque - secondo l'interpretazione delle SS.UU. che è condivisa da questo Collegio - essere

invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza

del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte

alla esigenza predetta (cfr. sul punto anche questa sez. 3, n. 37528 del 12.6.2013, Corlianò, rv. 257683).

Le Sezioni Unite scrivono, anche, nella citata sentenza 37424/13:

"Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al

momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta

(protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del 2006) di non far

debitamente fronte alla esigenza predetta (per l'esclusione del rilievo scriminante di impreviste difficoltà

economiche in sè considerate v., in riferimento alla parallela norma dell'art. 10 bis, Sez. 3, n. 10120 del

01/12/2010, dep. 2011, Provenzale)".

Le SS.UU. dunque, richiamano la giurisprudenza di questa Sezione che ha già più volte stabilito, in materia

di omesso versamento di ritenute previdenziali che il reato è integrato, siccome è a dolo generico, dalla

consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che il datore di lavoro

attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti (sez. 3,

n. 13100 del 19.1.2011, Biglia, Rv. 249917; conf. sez. 3, n. 29616 del 14.6.2011, Vescovi, rv.

250529).

Per la sussistenza dei reati de quo, basta la coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute

effettuate nel periodo considerato mentre, secondo l'insegnamento delle citate SS.UU. Favellato e Romano

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è, invece, irrilevante il fine perseguito dall'agente e, più in particolare, la circostanza se il comportamento

illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte (ex plurimis, sez. 3, 19 gennaio 2011, n.

13100, rv. 249917; sez. 3, 26 maggio 2010, n. 25875, rv. 248151).

Come più volte precisato da questa Corte di legittimità in relazione a fattispecie analoghe a quella per la

quale qui si procede (cfr. questa sez. 3, n. 5467 del 5.12.2013 dep. 4.2.2014, Mercutello, rv. 258055; sez. 3,

n.15416 dell'8.1.2014, Tonti, non massim.) rispetto a tale quadro giuridico e normativo, la situazione di

colui che non versa l'imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo

progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute;

successivamente con l'omesso versamento mensile secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria;

ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale.

Poichè colui che ha percepito l'IVA o il sostituto di imposta, quale debitore di una somma costituente

reddito per il sostituito, deve, allorchè procede al versamento in favore di quest'ultimo, trattenere una percentuale

di questo emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per poi versarlo all'erario entro il sedici del

mese successivo a quello nel quale ha operato la trattenuta, è stato condivisibilmente sottolineato nella

sentenza 15416/2014 e va qui ribadito che gli spazi per ritenere l'assenza dell'elemento soggettivo o la

sussistenza della scriminante della forza maggiore quale conseguenza di una improvvisa ed imprevista

situazione di illiquidità appaiono, all'evidenza, oggettivamente ristretti.

7. Va evidenziato che nell'ormai ricorrente casistica dei motivi dell'illiquidità che si assume essere

incolpevole e che si chiede poter scriminare il mancato pagamento di tributi all'Erario vengono per lo più

sottoposte all'attenzione di questa Suprema Corte, insieme o in alternativa, proprio i motivi oggi dedotti in

ricorso e cioè: a) l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare

dei licenziamenti; b) l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società; c) la mancata

riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato.

Ebbene, nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare ex se l'invocato stato di necessità ex

art. 54 c.p..

Non lo è, in primis, la pur comprensibile scelta di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di

pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

L'art. 54 c.p., esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla

necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ed è pacifico nella

giurisprudenza di questa Corte che con l'espressione "danno grave alla persona", il legislatore abbia inteso

riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita,

l'integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, ma non

anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo

sviluppo della persona umana (cfr. sul punto la già citata sentenza di questa sez. 3 n. 15416/2014).

Pur essendo dunque fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro

contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua

perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell'art. 54 c.p. (cfr. sul punto

sez. 1, 23 gennaio 1997, n. 4323, P.M. in proc. Baiocco ed altri, rv.

207434).

Analogamente nessuna conseguenza può discendere in termini di punibilità, in ogni caso, dalla circostanza

che il mancato pagamento dei creditori diversi dall'Erario sia stato ritenuto necessario in quanto si è

ritenuto di dover prioritariamente pagare altri creditori, tra cui i fornitori, per scongiurare il fallimento della

società. E ciò sia perchè il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso Erario proprio in

relazione ai crediti tributari, sia perchè la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad

integrare l'ipotesi di forza maggiore sopra delineata.

In ultimo, nessuna autonoma rilevanza può derivare dal fatto che il ricorrente provi di vantare crediti verso

terzi che non sia riuscito ad esigere. E ciò vale anche se il terzo debitore sia lo Stato o un altro ente

pubblico, laddove l'interessato abbia nei confronti dello stesso rapporti di tipo contrattuale, ad esempio per

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61

la prestazione di servizi.

La legge, infatti, disciplina in maniera tassativa i casi in cui può procedersi a compensazione del debito

tributario. E, al di fuori di questi, il mancato pagamento dei debiti che l'interessato può addurre nei

confronti dello Stato o dell'ente pubblico, rientra nel suo normale rischio d'impresa, di tipo privatistico, e

non può certo elidere l'obbligazione, di natura pubblicistica, che egli ha verso l'Erario.

8. Va chiarito che il Collegio ritiene che tale assunto non sia incompatibile con la più recente precisazione

fornita da questa stessa Suprema Corte secondo cui non è escluso che, in astratto, siano possibili casi - il cui

apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se

congruamente motivato - nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere

l'obbligazione tributaria (così sez. 3 n. 10813 del 6.2.2014, Servida, non massim.; conf. la cit. sez. 3, n. 5467

del 5.12.2013 dep. il 4.2.2014, Mercutello,rv.

258055).

E' tuttavia necessario, perchè in concreto ciò si verifichi, che siano assolti gli oneri di allegazione che, per

quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità

a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma

anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte

dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario).

In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile

alla forza maggiore, nei termini di cui si è detto, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile

reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni

tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio

personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause

indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili (così la già citata e condivisibile sentenza 5467/14 di

questa Sezione).

Nel caso in esame tali allegazioni, valutato quanto si legge nel provevdimento impugnato, non ci sono state.

Al contrario, la riportata giustificazione dell'avere 700.000 Euro di fatture emesse dalla ditta TRT negli ultimi

anni non ancora liquidate dai clienti-debitori, con tutti gli esborsi conseguenti cui la ditta ha dovuto far

fronte per coltivare le azioni giudiziarie volte al recupero dei crediti in questione, nonchè di avere

continuato a pagare regolarmente i propri fornitori, i propri dipendenti, i mutui e i finanziamenti appare

frutto di una scelta imprenditoriale, sulla cui condivisibilità non spetta a questa Corte giudicare, ma certo

non prova l'illiquidità e la crisi, nei termini di cui si diceva in precedenza, atte a consentire che non si sia

realizzata la fattispecie penale che incrimina l'omissione del versamento all'Erario. Può affermarsi, al

contrario, che il mancato adempimento delle obbligazioni tributarie è sostanzialmente riconosciuto come

doloso dallo stesso ricorrente, il quale ha consapevolmente omesso di versare somme superiori alla soglia

di punibilità alle scadenze previste, con ciò integrando il dolo del reato, nei termini specificati in

precedenza.

Quanto all'intervenuta rateizzazione del debito tributario e agli iniziati pagamenti, al più gli stessi saranno

valutabile in sede di giudizio, quale post factum.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata limitatamente all'art. 10 bis D. Leg.

74/2000 relativo al periodo d'imposta 2012 con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo esame sul punto.

Rigetta nel resto.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2014

4 Efficacia della legge penale nel tempo

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4.1 Giudicato e illegittimità costituzionale o europea di norma penale non incriminatrice

Cass. Sez. Unite, 7 maggio 2014, n. 18821

All. 2

Cass. Pen., Sezioni Unite, 14 ottobre 2014, n. 42858

All. 3

4.2 Successione tra illecito penale e illecito amministrativo

Cass. Pen., 17 settembre 2014, n. 38080

All. 4

4.3 Successione e nuovo reato di scambio elettorale politico- mafioso

Cass. Pen., 28 agosto 2014, n. 36382

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso appare fondato nei termini di cui in motivazione. 3.1 Preliminare rispetto all'esame dei motivi di

censura inerenti la valutazione del compendio probatorio e la tenuta della motivazione della sentenza impugnata,

appare la ricognizione del dato normativo di riferimento, costituito oggi dall'art. 416 ter c.p., quale risultante dalla

novella di cui alla L. 17 aprile 2014, n. 62, pubblicata su Gazz. Uff. 17 aprile 2014, n. 90.

La Corte d'Appello di Palermo ha, infatti, ritenuto essersi consumato il reato contestato in virtù della mera

accettazione della promessa di voti da parte del candidato / imputato in cambio del contributo in denaro e ciò in

riferimento ad un parametro normativo ed all'interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa Corte di cui

occorre apprezzare la perdurante o cessata validità. Nel contesto di una significativa rimodulazione della

fattispecie incriminatrice, infatti, oltre alla estensione dell'ambito della controprestazione di chi ottiene la

promessa di voti da parte di organizzazioni mafiose ad "altre utilità", il legislatore è intervenuto anche sul

contenuto delle promesse oggetto di pattuizione, introducendo la locuzione "procurare voti mediante le modalità

di cui all'art. 416 bis, comma 3", previsione che, nella parte di specifico interesse, a sua volta recita:

"L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del

vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva (...) al fine di impedire od

ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di competizioni elettorali".

Nella Relazione alla proposta di legge C.204, presentata alla Camera dei Deputati il 15 marzo 2013 e poi

approvata con modificazioni, si evidenziava, infatti, che "l'ulteriore (diabolica) necessità di provare l'utilizzo del

metodo mafioso, che non attiene alla struttura del reato, riconducibile ai delitti di pericolo ovvero a

consumazione anticipata, rischia di vanificare la portata applicativa della disposizione".

Di conseguenza la proposta era così formulata: "Chiunque, fuori delle previsioni di cui all'art. 416 bis, comma 3,

anche senza avvalersi delle condizioni ivi previste, ottenga, da parte di soggetti appartenenti a taluna delle

associazioni di tipo mafioso punite a norma dell'art. 416-bis ovvero da parte di singoli affiliati per conto delle

medesime, la promessa di voti, ancorché in seguito non effettivamente ricevuti, in cambio dell'erogazione di

denaro o altra utilità è punito con la pena prevista dal primo comma del citato art. 416 bis".

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63

Secondo tale formulazione letterale, dunque, avrebbe dovuto essere irrilevante il metodo attraverso il quale ci si

impegna a procurare i voti oggetto dell'accordo.

Senonché il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 16 luglio 2013 sanzionava l'accettazione

del "procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell'art. 416 bis", previsione che, non più

modificata in occasione dei successivi passaggi parlamentari, è divenuta legge. Il richiamo ai lavori parlamentari

appare rilevante poiché dimostra che la locuzione definitivamente inserita nel nuovo testo dell'art. 416 ter, ha

costituito oggetto di specifica ponderazione, talché proprio alla luce dei lavori preparatori si deve ritenere che il

suo mantenimento sia stato ritenuto funzionale all'esigenza di punire non il semplice accordo politico-elettorale

del candidato o di un suo incaricato con il sodalizio di tipo mafioso, bensì quell'accordo avente ad oggetto

l'impegno del gruppo malavitoso ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale con le modalità intimidatorie

tipicamente connesse al suo modo di agire.

La modifica, inequivoca per quanto sopra esposto, ha di fatto normativizzato quel filone ermeneutico presente

nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui è necessario che la promessa abbia ad oggetto il procacciamento

di voti nei modi, con i metodi e secondo gli scopi dell'organismo mafioso, fondata su di un'interpretazione del

previgente testo normativo che stabiliva l'applicabilità dell'art. 416 bis "a chi ottiene la promessa di voti prevista

dal medesimo art. 416 bis, comma 3" in funzione della sua collocazione tra i delitti posti a tutela dell'ordine

pubblico, messo in pericolo dal connubio tra mafia e politica, e solo in via strumentale dell'interesse al corretto

svolgimento delle consultazioni elettorali, espressamente tutelato dalle norme contenute nel D.P.R. 361 del 1957,

ed in particolare dall'art. 96 (Sez. 1^, sent. n. 27655 del 24/01/ 2012, Macrì, Rv. 253387; Sez. 6, sent. n. 18080 del

13/04/2012, Diana, Rv. 252641; Sez. 1, sent. n. 27777 del 25/03/2003, Cassata, Rv. 225864).

È rimasta, dunque, recessiva nelle opzioni legislative la diversa interpretazione che reputa sufficiente ai fini del

perfezionamento del reato la semplice stipula del patto di scambio, contemplante la promessa di voti contro

l'erogazione di denaro (Sez. 1, sent. n. 32820 del 02/03/ 2012, Battaglia, Rv. 253740; Sez. 6, sent. n. 43107 del

09/11/2011, P.G. in proc. Pizzo e altro, Rv. 251370), a proposito della quale va per completezza detto che un

esame meno superficiale delle decisioni che l'hanno propugnata, dimostra che l'opzione era stata prescelta non

tanto in contrapposizione alla necessità di definire specificamente le modalità di procacciamento dei consensi,

quanto per escludere la rilevanza della materiale erogazione del denaro (Sez. 1 n. 32820/12) o della conclusione

di patti aggiuntivi, vincolanti l'uomo politico ad operare in favore dell'associazione in caso di vittoria elettorale

(Sez. 6 n. 43107/11).

Dal complesso delle superiori considerazioni si desume, pertanto, che ai sensi del nuovo art. 46 ter c.p., le

modalità di procacciamento dei voti debbono costituire oggetto del patto di scambio politico- mafioso, in

funzione dell'esigenza che il candidato possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione

proprio del sodalizio mafioso e che quest'ultimo si impegni a farvi ricorso, ove necessario.

Viene a questo punto in rilievo la questione, espressamente dedotta in ricorso, se l'art. 416 ter c.p., risultante dalla

modifica costituisca o meno legge più favorevole per l'imputato ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4, ed a tale quesito

non può che darsi risposta positiva.

È stato, infatti, sicuramente introdotto un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie incriminatrice, tale da

rendere, per confronto con la previgente versione, penalmente irrilevanti condotte pregresse consistenti in

pattuizioni politico - mafiose che non abbiano espressamente contemplato tali concrete modalità di

procacciamento dei voti; quale logica conseguenza, deve esservi stata, ai fini della punibilità, piena

rappresentazione e volizione da parte dell'imputato di aver concluso uno scambio politico- elettorale implicante

l'impiego da parte del sodalizio mafioso della sua forza di intimidazione e costrizione della volontà degli elettori.

L'individuazione tra più disposizioni incriminatrici che si susseguono nel tempo quale norma più favorevole per

l'imputato va, infatti, operata in concreto mediante il confronto dei risultati che deriverebbero dall'effettiva

applicazione di ciascuna di esse alla fattispecie sottoposta all'esame del giudice (Cass. sez. 1 sent. n. 40915 del

02/10/2003, Fittipaldi, Rv. 226475; Sez. 6 sent. n. 394 del 30/05/1990, Cosco, Rv. 186207: Sez. 2 sent. n. 98163

del 10/04/1987;

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Sez. 6 sent. n. 593 del 04/11/1982), prescindendo però da sue valutazioni discrezionali (Sez. 3 sent. n. 9234 del

04/07/1995 in fattispecie di norma contemplante la pena dell'arresto astrattamente convertibile in pena

pecuniaria di entità minore dell'ammenda prevista dalla previgente normativa).

Non è questo evidentemente il caso in esame, in cui l'aggiunta di un elemento descrittivo della norma

incriminatrice astratta impone di necessità al giudice di confrontarsi con il nuovo dato normativo ai fini della

stessa affermazione o per converso esclusione della responsabilità penale a detto titolo.

Spetterà, dunque, alla Corte territoriale rivalutare la fattispecie in base allo ius superveniens, onde stabilire se è

ancora possibile sussumere la condotta contestata - e quale risultante dal compendio probatorio acquisito -

nell'ambito di applicazione del nuovo art. 416 ter c.p., o se invece debba o meno ricondursi ad altra figura di

reato.

3.2 L'accoglimento di tale (preliminare) doglianza, suddivisa tra quinto e ottavo motivo di ricorso, finisce in realtà

per assorbire tutte le altre.

Due di esse vertono, infatti, sulla figura di reato di cui all'art. 416 ter, nell'interpretazione accolta in sentenza

(secondo e sesto motivo); altre riguardano la qualifica di mafioso dei soggetti con cui il ricorrente si sarebbe

incontrato (primo e quarto motivo) o sarebbe venuto in contatto in occasione di precedente consultazione

elettorale (settimo); quella inerente l'interpretazione delle intercettazioni (nono motivo) involge l'aspetto cruciale

del ricorso ovvero le concrete modalità di procacciamento dei voti in favore del candidato Antinoro.

Occorre, infine, osservare che anche le plurime doglianze articolate con il terzo motivo di ricorso appaiono

strettamente collegate al fatto che l'Antinoro non ha mai negato di avere avuto, con alcuni dei coimputati

giudicati con rito abbreviato, incontri di natura squisitamente elettorale, di modo che sia la questione della

mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per escussione del teste a discarico Lo Buglio, sia il tema

dell'attendibilità complessiva e specifica del collaboratore di giustizia Visita (le cui dichiarazioni il Tribunale aveva

in primo grado, invece, valutato in maniera frazionata, pervenendo alla dichiarazioni di responsabilità per il

diverso reato di cui al D.P.R. n. 361 del 1957, art. 96) andranno necessariamente riconsiderate in occasione del

giudizio di rinvio, in base al parametro di riferimento normativo sopra ampiamente indicato.

4. All'annullamento della sentenza impugnata consegue il rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo

giudizio.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Palermo.

Così deciso in Roma, il 3 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2014

4.4 Nuova concussione e profili successori

Cass. Pen. Sezioni Unite, 14 marzo 2014, n. 12228

All. 5