DIRITTO PENALE IMPRENDITORI E CRIMINALITÀ … · penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell...
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “MAGNA GRÆCIA” DI
CATANZARO
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
________________________________________________________________
TESI DI LAUREA IN
DIRITTO PENALE
“IMPRENDITORI E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA”
STUDENTE RELATORE
Roberta Bianchi Chiar.mo Prof. Luigi Fornari
Matr. n. 61549
ANNO ACCADEMICO 2007/2008
VII
INDICE SOMMARIO PREMESSA………………………………………………………….….1 CAPITOLO I L’associazione mafiosa 1. Genesi ed aspetti storici e sociologici del fenomeno mafioso……….3 2. La Legge 13/9/1982 n. 646: vera o presunta insufficienza dell’art. 416
del Codice Penale nella repressione della mafia……………………..7 3. Elementi strutturali e strumentali del metodo mafioso: a) la forza
intimidatrice del vincolo associativo………………………………..12 4. Segue: b) l’assoggettamento………………………………………...18 5. Segue: c) l’omertà…………………………………………………..20 6. Le condotte associative: a) la condotta di promozione……………..23 7. Segue: b) la condotta di partecipazione……………………………..27 8. L’assistenza agli associati (art. 418 C.P.)…………………………..33 9. “Omertà esterna” e reato di favoreggiamento personale (art. 378
C.P.)…………………………………………………………………37 10. Le aggravanti introdotte dall’art. 7 del Decreto Legge n. 152 del
1991…………………………………………………………………42 CAPITOLO II Il concorso eventuale nel reato associativo mafioso 1. Breve ricostruzione storica della repressione della contiguità alle
associazioni delittuose………………………………………………47
VIII
2. Indirizzo dottrinario contrario e argomentazioni…………………...51 3. Le aporie dogmatiche che giustificherebbero la tesi contraria al
concorso esterno nel reato associativo: l’aggravante del numero di persone……………………………………………………………...61
4. Segue: il reato diverso da quello voluto dal concorrente esterno…...63 5. Segue: la desistenza volontaria e il pentimento operoso del
concorrente esterno…………………………………………………66 6. Segue: la soluzione proposta…il concorso alla partecipazione…….69 7. La dottrina disincantata……………………………………………..74 8. La dottrina favorevole………………………………………………80 9. Il concorso esterno nella Giurisprudenza della Corte di Cassazione: la
sentenza Demitry, 5 ottobre 1994…………………………………...86 10. Segue: situazioni “patologiche” dell’organizzazione mafiosa……..91 11. L’impostazione della sentenza Carnevale: continuità o
discontinuità?.....................................................................................93 12. Segue: l’elemento soggettivo del concorrente esterno……………100 13. Conclusioni e prospettive di riforma……………………………...102 CAPITOLO III La mafia locale e la mafia globale: dal pizzo all’impresa a partecipazione mafiosa 1. Il livello locale e i processi di radicamento e di ricerca del potere. Il
livello globale e i processi di espansione e di accumulazione delle ricchezze…………………………………………………………...106
IX
2. L’archetipo dell’impresa mafiosa: elementi strutturali, modalità di funzionamento, settori interessati………………………………….111
3. Segue: la contraddizione interna di tale modello d’impresa e il suo
superamento……………………………………………………….122 4. Il processo di legalizzazione/mimetizzazione dell’impresa di
proprietà del mafioso e di diversificazione degli investimenti……124 5. L’impresa a partecipazione mafiosa: ragioni strategiche e sue
affermazioni……………………………………………………….128 6. Il riciclaggio come fenomeno sotteso ad ogni modello di impresa
mafiosa…………………………………………………………….135 7. La relazione della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia
del 20 febbraio 2008: in particolare il ruolo della ‘ndrangheta nell’economia locale………………………………………………143
CAPITOLO IV Imprenditori collusi e imprenditori subordinati 1. Le diverse forme del rapporto tra mafia ed imprenditoria:
imprenditori subordinati e imprenditori collusi…………………...154 2. L’attività della Giurisprudenza nella ricerca della difficile linea di
confine tra imprenditori collusi e imprenditori vittime……………161 3. I profitti associativi confiscabili: la confisca tradizionale e la confisca
penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale……………………………………………………………...174
4. Segue: la confisca penale obbligatoria dei valori ingiustificati prevista
dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 e la sua applicabilità alle ricchezze mafiose “consolidate”…………………………………..182
5. Segue: la confisca come misura di prevenzione patrimoniale…….192
X
6. La sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni nella Legge n. 575/1965: gli artt. 3 quater e quinquies…………………195
7. Il sistema degli appalti…………………………………………….206 8. Il meccanismo della protezione-estorsione………………………..217 9. Segue: il contesto ambientale e il compromesso necessitato……...225 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………..230
1
PREMESSA
La trattazione che ci si accinge a svolgere ha il proposito, in maniera il
più possibile esaustiva, di gettare luce su una realtà, quale è il rapporto
tra mafia e imprenditori, di grande interesse e rilievo sociale i cui
meccanismi di funzionamento rimangono spesso in ombra, ma la cui
conoscenza consapevole è sempre più inderogabile presupposto ai fini
della realizzazione di una efficace strategia di contrasto.
Il fatto che la mafia abbia, fin dalle sue remote origini, un particolare
interesse per il mondo dell’imprenditoria è circostanza nota, ma
altrettanto lo è il fatto che anche quando si insinua in fasce di economia
legale, al fine di perseguire l’accumulazione di capitali, non manca mai
di utilizzare quei metodi violenti e di prevaricazione che la
contraddistinguono, e che legano alla sua storia migliaia di vittime.
Per tali motivi, punto di partenza di questo lavoro non poteva che essere
la conoscenza della struttura organizzativa dei sodalizi criminali e dei
loro metodi.
Le ramificazioni della mafia in diversi settori della vita democratica
hanno poi richiesto un’ampia riflessione sulle possibili risorse punitive
del sistema penale e, quindi, sulla discussa figura del concorso esterno.
L’analisi di questo istituto, che non poteva prescindere da brevi
2
considerazioni storiche circa gli strumenti predisposti al fine di reprimere
forme di contiguità alle associazioni mafiose, ha reso necessaria
un’attenta disamina sul serrato confronto, prima giurisprudenziale e solo
dopo dottrinale, che, a partire dagli anni Ottanta ma soprattutto negli
anni Novanta, avvia un dibattito problematico sul tema.
Per comprendere appieno le molteplici forme di interazione tra mafia e
imprenditori, le cui dimensioni e capacità di sviluppo sono ben
evidenziate nella Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia
del 2008, sinteticamente esposta, si è rivelato necessario analizzare le
trasformazioni assunte dall’impresa mafiosa, da quella originaria a quella
a partecipazione mafiosa, con particolare attenzione ai settori produttivi
nei quali è più massiccia la presenza della criminalità organizzata.
Infine, individuata la linea di confine tra l’imprenditore colluso e quello
subordinato, non solo sulla base di approfonditi studi sociologici ma
soprattutto di recenti pronunce giudiziarie, di grande importanza è stato
l’esame degli strumenti legislativi finalizzati a colpire i patrimoni illeciti
dei sodalizi mafiosi, nell’ambito dei quali il legislatore ha riservato
particolare rilievo alla confisca.
3
CAPITOLO I L’associazione mafiosa
Sommario: 1. Genesi ed aspetti storici e sociologici del fenomeno mafioso. - 2. La Legge 13/9/1982 n. 646: vera o presunta insufficienza dell’art. 416 del Codice Penale nella repressione della mafia. - 3. Elementi strutturali e strumentali del metodo mafioso: a) la forza intimidatrice del vincolo associativo. - 4. Segue: b) l’assoggettamento. - 5. c) l’omertà. - 6. Le condotte associative: a) la condotta di promozione. - 7. Segue: b) la condotta di partecipazione. - 8. L’assistenza agli associati (art. 418 C.P.). - 9. “Omertà esterna” e reato di favoreggiamento personale (art. 378 C.P.). - 10. Le aggravanti introdotte dall’art. 7 del Decreto Legge n. 152 del 1991. 1. Genesi ed aspetti storici e sociologici del fenomeno mafioso
La mafia nasce, si radica e si diffonde in Sicilia e pur manifestando da
sempre una spiccata vocazione, prima nazionale, poi internazionale, lega
saldamente le sue radici a questo territorio1.
Le origini della mafia vengono ricondotte al crollo del sistema feudale e
quindi ai primissimi decenni dell’Ottocento in cui si assiste alla
disgregazione di ormai consolidati equilibri sociali, che rende sempre più
misera la condizione di braccianti e contadini. I proprietari terrieri
rinunciano a vivere nelle loro terre e le affidano ai “gabellotti” (in questo
caso per “gabella” si intende il fitto annuo imposto ai contadini) che a
1 De Liguori L., Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 1996, p. 18 ss.
4
loro volta subaffittano ai contadini2. La posizione intermedia tra grandi
proprietari e contadini e l’uso di metodi violenti consentono ai gabellotti,
prima di svolgere una importante funzione di controllo sociale e di
ordine, specie a tutela della proprietà, poi, individuati nuovi e diversi
strumenti di arricchimento, di imporre gravose condizioni non più solo ai
“fittavoli” e ai “mezzadri” ma anche ai padroni assenteisti. È in questo
intreccio tra potere economico, oppressione di classe e coercizione fisica,
che si riconosce l’originario terreno di coltura delle attività più
squisitamente criminali della mafia; in questo contesto infatti ha origine
e si consolida il monopolio su scala locale delle estorsioni organizzate
che, se da una parte è naturale evoluzione dei tributi prima imposti ai
contadini, dall’altra testimonia che già nell’Ottocento la mafia siciliana,
lungi dall’essere solo mentalità e costume, è già organizzazione formale
e criminale.
Nata in epoca preunitaria si rafforza strutturalmente e soprattutto svela,
dopo l’unità d’Italia, i suoi forti legami con i poteri pubblici, per altro
non sconosciuti in epoche risalenti. Il nuovo Stato appare estraneo e
lontano, insensibile ai gravi problemi sociali, che impone tributi, ma non
ancora capace di garantire l’ordine pubblico. Qualche autore parla
2 Turone G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 2008, p. 34 ss.
5
persino di rinuncia e di delega dallo Stato alla mafia delle sue
prerogative amministrative e giudiziarie. Il consenso di uno Stato assente
consente alla mafia di aumentare il suo radicamento territoriale, il suo
potere reale e di allargare la trama dei traffici illeciti; nel frattempo gli
uomini politici, locali e nazionali, si assicurano per anni un forte e certo
consenso elettorale.
La mafia delle origini è strumento della nobiltà feudale, detentrice,
attraverso la proprietà terriera, del potere economico, e da questa usata
per difendere i propri privilegi da ogni forma di rivendicazione
contadina, ma solo pochi decenni più tardi, manifestando la sua spiccata
capacità di adattamento e profittando di errori politici ed e economici
dello Stato unitario e del suo conseguente scarso consenso, si infiltra nei
pubblici apparati collaborando persino con la polizia ed eliminando così
ogni ostacolo alla libera gestione dei suoi affari.
Con l’ascesa di Mussolini il potere di repressione del movimento
contadino viene energicamente avocato dal regime, che colpisce
duramente attraverso le note operazione di polizia del Prefetto di
Palermo, Cesare Mori, anche la mafia. La repressione fascista che pure
miete molte vittime non tocca però i patrimoni e le ricchezze accumulate
dall’alta mafia, parte della quale finisce per sostenere il regime.
6
Anche lo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel 1943, vede coinvolti mafiosi
detenuti negli USA, la cui collaborazione, tramite il sostegno dei mafiosi
siciliani, nell’esecuzione e realizzazione dell’occupazione dell’Isola,
viene ricompensata con l’espulsione e il ritorno in Italia.
Crollato il fascismo e finita la seconda guerra mondiale la mafia
riconquista le vecchie posizioni, piazzando uomini a lei favorevoli nelle
amministrazioni del nuovo Stato democratico, ma soprattutto
opponendosi, tenacemente e ferocemente, a qualsiasi tentativo di
modificare il sistema del latifondo da cui traeva, da sempre, potere e
ricchezza.
Negli anni Cinquanta, con la realizzazione della Riforma Agraria, che
comporta l’assegnazione delle terre ai contadini, si assiste al passaggio
dalla mafia rurale a quella urbana, la cui iniziale espressione sarà
costituita dalla penetrazione nel controllo dei mercati all’ingrosso. Segue
tra le cosche palermitane una lotta decennale che sfocia, nei primi anni
Sessanta, nella cosiddetta “prima guerra di mafia”. In questa fase di
trasformazione epocale e di riassetto strutturale, riprende da parte dello
Stato, anche sull’onda dell’emozione provocata da molti fatti di sangue,
un’attività di repressione penale, silente negli anni Cinquanta. Tutto
7
questo determina una profonda crisi di collocazione e di legittimazione
del potere mafioso.
Il consenso inizialmente acquisito dalla mafia in larghe fasce di
popolazione, “viziato” perchè carpito con l’inganno, simulando
protezione e comprensione verso ceti vessati da più parti e ignorati da
dirigenti locali e nazionali, il quale consente ai mafiosi di ostacolare ogni
istanza di rinnovamento e di progresso, subisce in questi anni una,
ancora solo tendenziale, involuzione3. In maniera graduale a partire dagli
anni Sessanta si assiste alla perdita di consenso da parte della mafia e ad
una lenta, ma irreversibile, affermazione di una cultura antimafia. Questo
tuttavia non impedisce, specie a partire dagli anni Settanta, prima
l’articolazione in settori diversi e poi l’affermazione della dimensione
imprenditoriale del fenomeno mafioso.
2. La Legge 13/9/1982 n. 646: vera o presunta insufficienza dell’art. 416 del Codice Penale nella repressione della mafia Al fine di realizzare una analisi attenta e completa della nuova fattispecie
associativa introdotta dall’art. 1 della Legge 13 settembre 1982, n. 646,
comunemente nota come Legge ‹‹Rognoni-La torre›, può essere utile
ripercorrere brevemente il percorso normativo che antecede l’art. 416 bis
3 Turone G., Il delitto…, cit., p. 51 ss.
8
del Codice Penale e le problematiche ad esso sottese, anche per meglio
comprendere la complessità del fenomeno mafioso.
Il dibattito sull’applicabilità dell’art. 416 del Codice Penale alla mafia
inizia nei primi anni del secolo scorso ed ha sostanzialmente
monopolizzato l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza sino agli
anni Sessanta4. Il primo giurista che sostiene, già nel 1933, che la mafia
è sempre associazione per delinquere è Lo Schiavo, magistrato che si
occupò dei processi di mafia scaturiti dalle operazioni di Polizia del
Prefetto Cesare Mori. Di diversa opinione quella parte della dottrina, che
fa capo a F. Antilosei, che ha escluso che le aggregazioni mafiose
costituiscano associazioni punibili ai sensi dell’art. 416 del C.P., poichè
per poter ravvisare tale delitto ‹‹occorre che tra le finalità
dell’associazione vi sia quella di realizzare determinate fattispecie
criminose››. Lo stesso Autore sostiene, negli anni Sessanta, che la mafia
di per sé non costituisce un’associazione per delinquere, in quanto essa è
di certo aggregato di persone avente scopo illecito o immorale, ma non
necessariamente attinente alla criminalità organizzata, quasi che le
manifestazioni delittuose fossero mera eventualità.
4 Turone G., Il delitto…, cit., p. 4 ss.
9
Notoriamente contrapposta a quella di Antilosei e palesemente più fedele
alla realtà mafiosa è l’indirizzo dottrinario che fa capo al Manzini, il
quale, in “Trattato di diritto penale italiano” del 1983, osserva che
“poiché il diritto penale non punisce le collettività criminose come tali,
bensì i singoli individui che le compongono, così si dovrà accertare, di
caso in caso, se le persone sottoposte a giudizio si siano veramente
associate per commettere più delitti, mentre non basterebbe assodare
soltanto la loro appartenenza ad una siffatta collettività”5.
Tuttavia l’accoglimento della tesi secondo cui l’associazione mafiosa va
considerata associazione per delinquere ha prodotto, nella giurisprudenza
degli anni Settanta, stante la particolare complessità di raccolta delle
prove nei processi di mafia e il crescente allarme sociale derivante da più
episodi delittuosi, una tecnica giudiziaria improntata al modello del tipo
di autore, poiché tendente ad aggirare l’ostacolo costituito dalla necessità
di provare l’adesione ad un programma criminoso da parte di imputati
riconosciuti come “mafiosi”. L’adesione partecipe ad un programma
criminoso da parte di costoro veniva infatti automaticamente desunta dal
fatto stesso di far parte di un gruppo classificabile come mafioso. Questa
5 Ingroia A., L’associazione di tipo mafioso, Milano, Giuffrè, 1993, p. 51 ss.
10
strada, del resto, oltre a non essere aderente al principio di legalità, si è
rivelata, a causa di ripetuti insuccessi giudiziari, una falsa scorciatoia.
Difatti, la sovrapposizione concettuale tra associazione mafiosa e
associazione per delinquere è corretta sul piano criminologico, non
avendo senso parlare di mafia estranea a episodi delittuosi, ma sul piano
giuridico-penale, trattandosi di applicare una sanzione a singoli
individui, non ci si può esimere dall’accertare volta per volta, come il
Manzini sostiene, la partecipazione dei singoli al programma di
delinquenza. È evidente che, per questa via, il problema della prova del
programma criminoso si ripresenta inesorabilmente; con la conseguenza
ulteriore che l’eventuale insufficienza del relativo quadro probatorio si
riflette sull’esito del giudizio.
Nel frattempo l’asprezza dell’attacco terroristico mafioso rinnova la
volontà repressiva dello Stato, che riducendo l’iniziale e ambizioso
progetto, realizza con la Legge 31/5/1965, n. 575, un intervento decisivo
quanto al significato storico, ma parziale rispetto alla globalità del
fenomeno mafioso, perché relativo solo alle misure di prevenzione6.
Le numerose sentenze di assoluzione per insufficienza di prove
riconducibili all’estrema difficoltà di provare, nei processi di mafia, gli
6 Turone G., Il delitto…, cit., p. 17 ss.
11
estremi costitutivi del reato di cui all’art. 416 del C.P., e la sempre più
manifesta inadeguatezza del medesimo articolo a ricomprendere tutta la
fenomenologia di stampo mafioso, portano alla luce una imperdonabile
lacuna legislativa denunciata da giuristi ed operatori del diritto. E tale
comune opinione si ricava già dalla lettura della relazione alla originaria
proposta di legge ‹‹La Torre›› del 31 marzo 1980, ove si sostiene infatti
la necessità di ‹‹misure che colpiscano la mafia nel patrimonio, essendo
il lucro e l’arricchimento l’obbiettivo di questa criminalità che ben si
distingue per origini e funzione storico-politica dalla criminalità comune
e dalla criminalità politica strettamente intesa. L’espansione
dell’intervento mafioso e l’articolazione complessiva della mafia, che,
mentre non trascura alcun settore produttivo e di servizi, trova
nell’intervento pubblico la sua principale committenza, esigono oggi più
puntuali strumenti proprio nell’ambito degli arricchimenti illeciti e dei
reati finanziari. La mafia, peraltro, opera ormai anche nel campo delle
attività economiche lecite, e si consolida l’impresa mafiosa, che
interviene nelle attività produttive forte dell’autofinanziamento illecito
[…], e mira all’accaparramento dell’intervento pubblico […]
scoraggiando la concorrenza con la forza intimidatrice››7.
7 Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. Sup. Mag., 1982, n. 3, p. 243.
12
La principale ragione per la quale l’art. 416 risulta inadeguato poggia
sulla riflessione che la forza intimidatrice di cui si avvale la cosiddetta
“mafia imprenditrice” per conseguire i propri obiettivi inizialmente
illegali, ma ora anche legali, non si concreterebbe necessariamente in
una vera e propria minaccia, e quindi in una condotta penalmente
rilevante. Altri fattori alla base dell’inadeguatezza strutturale dell’art.
416 vengono poi scorti nell’attitudine della norma a fronteggiare i
fenomeni locali e circoscritti di delinquenza associata, ma non fenomeni
imponenti di criminalità organizzata; nonché nella previsione di requisiti,
come l’organizzazione e l’atto di adesione dell’affiliato al sodalizio,
difficilmente accertabili. Infatti e proprio le particolari caratteristiche
organizzative di questa consorteria basata sulla segretezza, sulla
solidarietà, sulla omertà, rendono difficile in giudizio la prova del
programma criminoso e della commissione di delitti ad esso
riconducibili e quindi del dolo specifico richiesto dall’art. 416 del C.P8.
3. Elementi strutturali e strumentali del metodo mafioso: a) la forza intimidatrice del vincolo associativo L’associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei
fini perseguiti e dei mezzi usati. Sotto l’aspetto finalistico gli obiettivi
8 De Liguori L., Concorso e contiguità…cit., p. 29 ss.
13
tipici della criminalità mafiosa vengono individuati nello scopo di: a)
commettere delitti; b) acquistare in modo diretto o indiretto la gestione o
almeno il controllo di attività economiche, di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; c) realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri; d) interferire nei risultati delle consultazioni
elettorali.
Circa le finalità indicate dall’art. 416 bis del Codice Penale occorre
precisare che esse sono tassative; che sono previste in via alternativa nel
senso che il reato sussiste anche in presenza di una associazione che
persegua una sola di tale finalità; che per la sussistenza del reato in
esame non è necessaria la concreta realizzazione dello scopo associativo
perseguito; che il concorso di esse non determina pluralità di reati.
Sotto il profilo strumentale, invece, detta associazione si caratterizza per
la circostanza che i suoi membri ‹‹si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva9››. I tre parametri, indicati nel
3° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale, costituiscono l’apparato
strumentale proprio di questa associazione e veicolano, unitariamente
considerati, il “metodo mafioso”. Il primo di essi presenta caratteri di
9 Spagnolo G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, CEDAM, 1997, p. 68.
14
prevalenza perché idoneo a produrre assoggettamento ed omertà.
L’omertà, infatti, altro non è se non un aspetto particolare
dell’assoggettamento, mentre quest’ultimo è, in primo luogo, il risultato
esterno della forza di intimidazione10.
Precisato preliminarmente che la “forza di intimidazione del vincolo
associativo” è elemento strutturale e strumentale permanente del
sodalizio criminoso, occorre a questo punto tentare di spiegarne il
contenuto. La “forza di intimidazione” è la capacità che ha uno stato, un
suo apparato o anche solo un singolo individuo, di incutere timore in
base alla diffusa opinione della sua forza e della sua predisposizione ad
usarla. In altre parole è la quantità di paura che una persona (fisica o
giuridica) è in grado di suscitare nei terzi, alla luce della sua
predisposizione ad esercitare sanzioni e rappresaglie11.
Nel caso dell’associazione di tipo mafioso questo elemento scaturisce
dallo stesso vincolo associativo, capace, in quanto tale, di incutere paura
senza il ricorso ad atti concreti di minaccia e di violenza; generando, nei
casi più gravi, un alone permanente di intimidazione diffusa di cui i
singoli associati ad un sodalizio mafioso si avvalgono, quasi esso fosse
una sorta di patrimonio comune dell’associazione stessa. Con un ardito
10 Turone G., Il delitto…, cit., p. 104 ss. 11 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 28 ss.
15
ma esemplificativo parallelismo Turone afferma che: “la forza
intimidatrice del vincolo associativo fa parte del ‹‹patrimonio aziendale››
dell’associazione di tipo mafioso, così come l’avviamento commerciale
fa parte dell’azienda”12.
In questo contesto l’alone di intimidazione, che costituisce indizio
dell’esistenza dell’associazione, ma soprattutto della carica autonoma di
intimidazione da essa sprigionante, è l’elemento catalizzatore, a metà tra
la carica intimidatoria e la condizione di assoggettamento e di omertà:
come dire che la carica intimidatoria produce assoggettamento e omertà
attraverso quell’alone di intimidazione dall’esterno percepito e subito.
Stabilito perciò che diversi sono i modi di avvalersi della forza
intimidatrice: dalla minaccia esplicita, a quella implicita, fino al caso di
chi, utilizzando questa “cattiva fama”, ottiene senza bisogno di chiedere;
appare ormai assodato che destinatario dell’agire mafioso sarà, di volta
in volta, qualsiasi soggetto, pubblico o privato, capace di decidere quanto
interessa all’associazione mafiosa13.
In sintesi, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis C.P.,
occorre accertare che l’associazione sia effettivamente dotata di una
capacità intimidatrice autonoma, idonea ad ingenerare, qualora usata,
12 Turone G., Il delitto…, cit., p. 111. 13 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 30 ss.
16
condizioni psicologiche di assoggettamento e di omertà14. Di
conseguenza, la forza intimidatrice è elemento oggettivo indefettibile
della fattispecie, mentre, sotto il profilo soggettivo, è oggetto del dolo
specifico degli associati, nella prospettiva, in vista dei fini della
consorteria mafiosa, del suo concreto sfruttamento.
Problematica è, con riferimento a questo elemento, anche la soluzione
interpretativa in relazione all’uso, nel dettato normativo, dell’indicativo
‹‹si avvalgono…››. Secondo un primo indirizzo l’uso del presente
indicativo sottintende un esercizio effettivo della forza intimidatrice; la
formulazione letterale infatti non consentirebbe di prescindere dalla sua
esistenze e dalla sua utilizzazione, sicchè saremmo in presenza di una
associazione che delinque e non per delinquere. Questo spiegherebbe
anche la gravità della pene e le difficoltà probatorie. Il secondo
orientamento ritiene invece che il verbo faccia riferimento ad una
modalità abituale del comportamento mafioso che, pur non
concretizzandosi in specifici atti intimidatori, rientra tra gli strumenti di
pressione di cui l’associazione stessa soglia, o comunque intenda,
avvalersi. Dei due indirizzi, il primo contraddice però la ratio legis e la
sua spiccata finalità estensiva, perché si dovrebbero provare, volta per
14 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 70.
17
volta, non solo gli elementi tipici del reato associativo, ma anche l’uso
effettivo ed attuale dell’intimidazione; né parimenti resiste alle diverse
obiezioni il secondo.
La soluzione allora, cui sembra preferibile aderire, mediana tra le due
ricordate, crea un terzo modello interpretativo, che muove
dall’individuazione di due profili simultaneamente riconducibili alla
forza di intimidazione. Il primo, definito statico, riguarda la capacità
intimidatrice, la quale sola deve essere attuale; il secondo, definito
dinamico, attiene invece alla attività di sfruttamento della capacità
intimidatrice, che è sufficiente sia potenziale15. Se così non fosse la mera
intenzione degli associati non potrebbe giustificare il particolare rigore
sanzionatorio dell’art. 416 bis e, potrebbe essere accusata di usare
metodo mafioso una associazione ancora priva di carica intimidatoria
pienamente efficace. La forza di intimidazione deve manifestarsi come la
risultante di una antica, o comunque consolidata, consuetudine di
violenza, come tale percepita dall’esterno, attuale nella sua esistenza, e
idonea a generare, in potenza, assoggettamento e omertà. Anzi è proprio
il costituirsi di questa carica intimidatrice autonoma a consentire il
15 Turone G., Il delitto…, cit., p. 130.
18
passaggio dal sodalizio matrice al sodalizio derivato, o più chiaramente,
dall’associazione a delinquere comune a quella di stampo mafioso.
Basti citare, a questo riguardo, il caso della ‹‹sacra corona unita››. Una
prima sentenza, emessa dal Tribunale di Bari nell’ottobre del 1986, la
classificava associazione per delinquere di tipo comune; una seconda,
emessa dalla Corte d’Appello di Lecce nel 1990, la riconosceva
associazione di tipo mafioso16.
4. Segue: b) l’assoggettamento
Alcuni studiosi muovendo dalla soluzione interpretativa mediana
illustrata, e trasponendola nel momento teorico di transizione dal
sodalizio matrice a quello di tipo mafioso, tentano un’analisi più
dettagliata, ma nel contempo più complessa del fenomeno.
Secondo questa impostazione, l’acquisizione della carica intimidatoria
autonoma, che determina la nascita della associazione di tipo mafioso,
cui è contestuale il formarsi dell’alone di intimidazione diffuso
all’esterno del vincolo associativo, comporta già uno sfruttamento anche
solo “inerziale”, della carica intimidatoria stessa; cui corrisponde quale
risvolto immediato e automatico, un “assoggettamento primordiale”.
16 De Liguori L., Concorso e contiguità…, cit., p. 52.
19
A questo uso inerziale della carica intimidatoria che si atteggia, in questa
fase, a elemento oggettivo e attuale della fattispecie cui corrisponde un
assoggettamento generico; seguirà, attraverso situazioni di sfruttamento
attivo di essa, un assoggettamento specifico e compiuto. In questa
seconda fase, però la carica intimidatoria sarà oggetto del programma
criminoso in quanto finalizzata ai suoi scopi sociali, e quindi, solo
potenziale17.
Del resto, lo sfruttamento attivo della carica intimidatoria autonoma va
inteso nel senso che esso è attivamente orientato verso la realizzazione
del programma, non quindi nel senso che esso deve essere accompagnato
da specifiche attività minatorie, esteriormente percepibili. Se allora lo
sfruttamento iniziale della carica intimidatoria sarà indeterminato
finalisticamente, benché idoneo a creare un ambiente favorevole al
vincolo, quello successivo sarà invece orientato alla realizzazione degli
scopi dell’associazione e per questo solo definito attivo.
Così, se mentre in relazione alle consorterie mafiose classiche la prova
della carica intimidatoria autonoma si desume con facilità da numerose
circostanze, che ne evidenziano la fase avanzata e la produzione di effetti
in termini di assoggettamento ed omertà; non altrettanto semplice risulta
17 Turone G., Il delitto…, cit., p. 130 ss.
20
la constatazione e dimostrazione dell’esistenza dell’apparato strutturale-
strumentale mafioso in relazione alle nuove entità associative.
Assoggettamento ed omertà sono quindi legati alla carica intimidatoria
autonoma da un rapporto di causa effetto, ed è condivisibile la teoria
ricostruttiva che, facendo derivare i due concetti non dalla mera esistenza
ma dall’esercizio della forza di intimidazione, li qualifica quali effetti
psicologici temporanei, non riscontrabili se non a seguito della citata
attivazione della carica intimidatoria18. Se però è opinione condivisa
definire l’assoggettamento come condizione di soggezione
particolarmente intensa, caratterizzata da un perdurante stato di timore
grave, maggiori precisazione merita il termine omertà19.
5. c) l’omertà
Lo stato di assoluta sottomissione in cui si manifesta l’assoggettamento
non può non implicare un atteggiamento omertoso.
Il concetto normativo di omertà che qui interessa ai fini della
comprensione della norma in esame, non deve essere confuso con il
concetto di omertà dalla Giurisprudenza elaborato in relazione alle mafie
storiche e che, legato a valutazione sociologiche e regionalistiche risulta,
18 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 73 ss. 19 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 36 ss.
21
in questo contesto, fuorviante. Se infatti l’omertà ha come sua
indispensabile premessa l’assoggettamento e se questo, a ritroso, è
originato dallo sfruttamento della forza intimidatrice del vincolo
associativo, ne deriva che essa non può considerarsi condizione
permanente del contesto sociale in cui opera la consorteria mafiosa,
bensì, piuttosto, condizione specifica e possibile; anche e soprattutto al
fine di consentire l’applicazione della norma a realtà associative di certo
non meno pericolose in grado di produrre una condizione di omertà,
anche se non permanente e generalizzata20.
Dovendo pertanto derivare dalla forza di intimidazione, l’omertà,
secondo le intenzioni del Legislatore, si basa sulla paura, in
considerazione della particolare gravità del male temuto e della
convinzione della sua pronta ed ineluttabile realizzazione. In questa
accezione, carica di connotazioni negative, l’omertà si palesa in
atteggiamenti di reticenza, di favoreggiamento e di non collaborazione
con gli organi della Stato aventi funzioni inquirenti e giudicanti. È però
necessario chiarire, al fine di evitare applicazioni onnicomprensive ed
erronee del termine, che il rifiuto di collaborare non deve dipendere da
motivi contingenti, non deve avere carattere occasionale, non deve
20 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 73 ss.
22
trovare una spiegazione processuale (altrimenti sarebbe omertoso
qualsiasi imputato che mentisse per difendersi21).
È necessario inoltre ricordare che, in tempi passati, il concetto di omertà
è stato altresì utilizzato con connotazione positiva e legato ad un codice
sociale di comportamento. In questi contesti il sostanziale rifiuto
dell’autorità statale e la non accettazione delle forme legali di
prevenzione e di repressione del crimine, deriva, non dal timore di
rappresaglie, ma dalla volontà di negare legittimazione in materia di
amministrazione della giustizia ad uno Stato ritenuto oppressore ed
ingiusto22.
In conclusione, e solo per completezza, sembra dai più non condivisibile
la volontà di rinvenire una condizione di assoggettamento e di omertà
anche nei rapporti interni all’associazione, tra associati meno
“autorevoli” e associati più “autorevoli”. In tal modo, sostiene Fiandaca,
si finirebbe col fraintendere la realtà del fenomeno: il cemento che lega
tra loro gli associati, più che dal timore e dalla soggezione, è costituito
dalla comune adesione ad una specifica subcultura23.
21 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 38 ss. 22 Turone G., Il delitto…, cit., p. 159 ss. 23 Fiandaca G., Commento all’art. 1 della Legge 13/9/1982, n. 646, in Legislazione Penale, 1983, p. 257 ss.
23
6. Le condotte associative: a) la condotta di promozione
L’art. 416 bis del Codice Penale riconduce le condotte penalmente
rilevanti a due categorie, e in relazione ad ognuna prevede un diverso
regime sanzionatorio. Infatti, nel primo comma stabilisce che è punita
con la reclusione da tre a sei anni la condotta di partecipazione; nel
secondo invece prevede la reclusione da quattro a nove anni per le
condotte di promozione, direzione, organizzazione. Queste ultime anche
se omogenee in relazione alla misura della pena inflitta, veicolano
comportamenti diversi tra loro, accomunati dal fatto di corrispondere a
possibili situazioni di superiorità gerarchica all’interno del gruppo e di
cui, proprio in ragione di ciò, il Legislatore ha voluto fornire una
elencazione esemplificativa24.
Dalla lettura del dettato normativo viene subito in evidenza il mancato
riferimento ad una condotta sovente ricorrente nei reati associativi,
quella di costituzione. L’assenza trova una significativa giustificazione
nella natura del reato, ritenuto reato associativo a struttura complessa.
Nei reati associativi puri, alla cui categoria appartiene il reato di cui
all’art. 416 C.P., la condotta di costituzione perfeziona la fattispecie
astrattamente prevista, non richiedendosi niente altro per la sua
24 Turone G., Il delitto…, cit., p. 349 ss.
24
esistenza; diversamente, in quelli a struttura mista, affinché si perfezioni
la fattispecie non è sufficiente che si costituisca il vincolo associativo,
ma è in aggiunta necessario che questo acquisisca l’apparato strutturale e
strumentale basato su intimidazione, assoggettamento ed omertà.
E se questo momento, come più volte ribadito, coincide con il passaggio
dal sodalizio matrice a quello di tipo mafioso, ciò significa che l’attività
di promozione pur potendo continuare ad esplicarsi anche dopo la
nascita del sodalizio, in forma di contributo al mantenimento e al
rafforzamento della carica intimidatoria autonoma, è prettamente tipica e
ricorrente nella fase costitutiva del sodalizio mafioso. In questo senso,
tale attività è di maggiore evidenza nei sodalizi di ‹‹nuova mafiosità›› e
molto meno nei fenomeni di mafia storica; ma soprattutto è
riconducibile, abbandonata la dottrina tradizionale che definisce
promotore di una associazione ‹‹chi se ne fa iniziatore enunciandone il
programma››, a colui che contribuisce in modo determinante alla
“promozione” della potenzialità intimidatrice di un gruppo associativo,
consentendo la costruzione della carica intimidatoria autonoma.
Chiarito ciò, una ulteriore questione è stata sollevata in dottrina e
presenta aspetti di particolare complessità; la disputa attiene alla
possibilità di considerare il reato in oggetto come reato di pericolo a
25
consumazione anticipata. In questo caso il promotore sarebbe punibile
anche qualora, a seguito della sua attività e quindi indipendentemente dal
risultato raggiunto, non fossero venuti in essere tutti gli elementi
costitutivi dell’associazione di tipo mafioso.
Spagnolo, infatti, ritenendo che sia ravvisabile un reato a consumazione
anticipata, argomenta la sua tesi facendosi guidare da una osservazione
sistematica e letterale di più fattispecie associative. Muovendo
dall’analisi degli artt. 306 e 416 C.P., afferma che in questi casi il
Legislatore richiede esplicitamente, per la punibilità del promotore, che
il sodalizio criminoso sia venuto ad esistenza; qualora invece, come
nell’ipotesi in esame, la costituzione dell’associazione non sia
espressamente prevista, il delitto si considera perfetto indipendentemente
dal fatto che la fattispecie associativa sia stata integralmente realizzata25.
Di contrario avviso Turone, che individua due diverse argomentazioni.
La prima motivazione è di ordine letterale: poiché il primo comma
dell’art. 416 bis C.P. riferendosi alla condotta di partecipazione richiede
l’effettiva formazione di una associazione di tipo mafioso, anche le
condotte contenute nel comma successivo non possono che fare capo alla
medesima realtà associativa. La seconda ragione, più complessa e di
25 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 80 ss.
26
ordine logico, può essere così sintetizzata: l’idoneità e la finalità degli
atti di violenza e di minaccia posti in essere dal promotore in vista della
realizzazione della carica intimidatoria mafiosa, verranno alla luce solo
nel caso in cui quella potenzialità intimidatoria sia stata realmente
conseguita, prima però di tale momento risulterà difficile svelarne in
maniera inequivocabile la funzionalità. Il promotore è dunque
compiutamente tale soltanto a costituzione avvenuta del vincolo
associativo mafioso.
Di facile comprensione è, in conclusione, il significato delle condotte di
direzione e di organizzazione, cui pure si fa riferimento nel secondo
comma dell’art. 416 bis e sussistenti solo in relazione al sodalizio
mafioso già esistente. Dirige chi, in vista del perseguimento dei fini
sociali, ha poteri di comando, di iniziativa, di decisione. Organizza
invece colui che, agendo in attuazione di direttive altrui e godendo di
minore autonomia del dirigente: coordina l’attività degli affiliati, elabora
strategie di reperimento di mezzi materiali e provvede ad un uso
razionale delle risorse, opera per realizzare fattori di impunità del
sodalizio nel suo complesso26.
26 Turone G., Il delitto…, cit., p. 376 ss.
27
7. Segue: b) la condotta di partecipazione
Prima di soffermarsi sull’esatto contenuto della condotta di
partecipazione menzionata nel primo comma dell’art. 416 bis C.P. e sui
suoi requisiti fondanti, occorre affermare che essa è individuabile sia nel
comportamento di chi si inserisce nell’organizzazione di tipo mafioso al
momento della sua costituzione, che in quello di chi manifesta la sua
adesione ad un sodalizio già operante.
Tale affermazione produce importanti conseguenze sul piano della
qualificazione del delitto ipotizzato dall’art. 416 bis; la struttura del reato
infatti ha prodotto divergenti opinioni. Ci si chiesti cioè se la norma
preveda due differenti ipotesi di reato o un reato unico a struttura
complessa ed a livelli partecipativi differenziati. Partendo
dall’orientamento più risalente occorre ricordare che Dottrina e
Giurisprudenza, considerando partecipe solo chi entra a far parte di una
associazione criminosa già esistente, ritengono che l’attività di
partecipazione costituisca una fattispecie monosoggettiva, distinta
rispetto a quella plurisoggettiva comprendente l’attività di costituzione,
di organizzazione e di direzione. Conclusione quest’ultima sostenuta
perfino nella Relazione Ministeriale sul Progetto del Codice Penale, al
fine di graduare le pene in ragione del tipo di responsabilità e per far
28
corrispondere la norma penale alle due fasi, cronologicamente distinte, di
costituzione e di operatività di ogni associazione. In seguito, gli schemi
utilizzati dalla Giurisprudenza per individuare nei delitti di banda
armata, associazione per delinquere e cospirazione politica, condotte
corrispondenti a due autonome fattispecie di reato, sono risultati
inadeguati a trovare applicazione all’associazione di tipo mafioso. Nei
reati citati, infatti, sono previsti, accanto a promotori, organizzatori e
dirigenti, anche i costitutori. Nell’art. 416 bis, mancando tale figura, il
soggetto che dall’origine del sodalizio manifesta adesione come
semplice gregario, non può che essere punito come partecipe. Colui il
quale cioè si appresta ad entrare in un sodalizio ancora da costituire, se la
sua prestazione è di limitato rilievo e comunque non ad un livello
“qualificato”, può essere considerato, solo e semplicemente, partecipe.
Secondo invece i modelli tradizionali, partecipe è chi subentra in una
associazione già attiva così configurando un autonomo reato
monosoggettivo; tuttavia se la sua attività retrocede alla fase iniziale
dell’associazione, si ricade in un’unica fattispecie plurisoggettiva
risultante dal combinato disposto del primo e secondo comma
dell’articolo in esame.
29
Muovendo da tali valutazioni, ed elaborando una terza soluzione che
ipotizza la sostanziale unitarietà dell’art. 416 bis, lo Spagnolo individua
un unico reato plurisoggettivo, con sanzioni diverse, rigidamente
prefissate a seconda dei ruoli svolti dai singoli soggetti durante la vita
dell’associazione. Questa opzione dottrinaria eviterebbe di ravvisare una
pluralità di reati in capo all’affiliato che svolga, prima attività direttive,
poi di semplice partecipe o viceversa27.
Parimenti articolata è la disamina avente ad oggetto gli elementi richiesti
ai fini della configurabilità della condotta partecipativa. Infatti, affinché
quest’ultima possa dirsi realizzata è necessario riscontrare due
componenti, una attinente al profilo psicologico, l’altra a quello
oggettivo dell’attività dell’affiliato. Precisamente la condotta di
partecipazione in relazione all’elemento soggettivo deve essere
caratterizzata dall’affectio societatis, cioè dalla consapevolezza e volontà
di far parte del sodalizio criminoso condividendone gli scopi e le sorti;
quanto invece all’elemento oggettivo, questo dovrà tradursi in un
contributo alla vita dell’ente, in vista della sua esistenza o del suo
rafforzamento. Tuttavia, il contenuto di questi due elementi e le modalità
27 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 87 ss.
30
di interazione reciproca producono numerose varianti di condotta di
partecipazione28.
Circa la componente oggettiva, che presenta una maggiore complessità, è
orami diffusa l’opinione che il contributo, benché non insignificante,
possa anche essere minimo. Questa soglia minima di contributo
partecipativo, anche se idonea a configurare una condotta punibile, esula
dalla materialità dell’apporto dato. In tal senso l’assenza di specifiche
attività materiali e il solo fatto di dichiarare la propria disponibilità
all’ente, in termini tali da rendere serio e credibile l’impegno assunto,
configura la soglia minima del contributo giuridicamente rilevante.
Eventuali attività concrete dell’associato, lungi dall’assurgere ad
elementi costitutivi tipici del fatto associativo vietato, diverranno
requisiti utilizzabili ai fini della commisurazione della pena29.
Diversamente, la semplice disponibilità che normalmente si palesa
contestualmente all’inserimento nel tessuto organizzativo, ne costituisce
un rafforzamento perché ne amplia le potenzialità operative. Senonchè,
questa soglia minima di contributo, in forma di semplice disponibilità, è
assai difficile da provare processualmente di per sé sola, salvo che in due
28 Turone G., Il delitto…, cit., p. 364 ss. 29 De Francesco G., Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1992, I, p. 147.
31
casi: in quello, vagamente anticipato e tipico delle mafie storiche, in cui
il soggetto abbia manifestato, in modo solenne e rituale, adesione
all’organismo associativo e al suo programma, e in quello in cui un
soggetto confessi, risultando attendibile, di aver aderito al sodalizio pur
non avendo ancora eseguito alcuna mansione. Quando però nessuno dei
due casi citati si verifica, l’acquisto della qualità del partecipe deve
essere desunto esclusivamente per facta concludentia, e cioè, attraverso
lo svolgimento di una attività concretamente rivolta a favore
dell’organizzazione delittuosa. Essendo, poi, il reato associativo in
esame a forma libera, la condotta partecipativa e per essa i facta
concludentia possono assumere forme e contenuti variabili.
In definitiva, e specie al fine di tipizzare con sufficiente chiarezza la
condotta penalmente rilevante, sembra opportuno focalizzare
l’attenzione sul concetto di “ruolo” dell’affiliato nel contesto
organizzativo. Il contributo oggettivo apportato dal soggetto, benché
significativo ma accompagnato da un movente psicologico autonomo e
dall’assenza di un ruolo stabile nella struttura dell’ente, configura una
ipotesi di concorso esterno.30
30 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 86.
32
Il dato normativo richiede che il soggetto faccia parte del sodalizio,
questo vuol dire che alla sua volontà di operare a favore
dell’associazione è corrisposto, da parte degli altri associati, un “atto di
accettazione”, che non deve necessariamente essere ufficiale e che si
estrinseca nella concorde decisione di inserirlo nel tessuto organizzativo,
attraverso l’assegnazione di un ruolo stabile e permanente.
In sintesi, è partecipe colui che: al fine di realizzare gli scopi di volta in
volta contemplati nelle singole figure di reato associativo, abbia
accettato o si sia impegnato a svolgere una attività a favore
dell’associazione, assumendo la qualità di membro di quest’ultima31.
Circa l’elemento soggettivo necessario affinché si configuri la condotta
di partecipazione è evidente che si richieda il dolo specifico, non basta
infatti che il partecipe possieda la volontà di far parte dell’associazione,
ma in aggiunta, egli deve voler realizzare gli scopi che integrano il
programma associativo mediante l’impiego del metodo mafioso. Rileva
soprattutto, in relazione a questa realtà, la condivisione o la mera
consapevole accettazione delle metodiche e dei fini dell’ente. Tuttavia,
solo di recente, ragioni di agevolazione probatoria hanno indotto una
parte della giurisprudenze di merito a reputare sufficiente, ai fini della
31 De Francesco G., Societas sceleris…, cit., p. 148.
33
responsabilità del singolo associato, dimostrare la sua consapevolezza di
apportare un contributo ad una associazione che abbia i metodi e gli
scopi indicati nell’art. 416 bis C.P.. In queste ipotesi, la verifica del
consenso della logica di intimidazione sarebbe superflua32.
8. L’assistenza agli associati (art. 418 C.P.)
L’art. 418 del Codice Penale prevede il delitto di “assistenza agli
associati”. Tale norma è stata introdotta dal Legislatore del 1930 al fine
di reprimere il fenomeno del brigantaggio, integrata poi da aggiunte
esplicative nel 2001, e benchè di fatto di scarsa applicazione, è volta a
non lasciare impuniti casi di collaborazione alla mafia, allo scopo di
disincentivare svariate forme di appoggio e quindi, in misura maggiore
possibile, di isolarla.
Afferma l’art. 418: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di
favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di
trasporto, strumenti di comunicazione a talune delle persone che
partecipano all’associazione è punito con la reclusione fino a due anni.
La pena è aumentata se l’assistenza è prestata continuatamente” .
32 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 98.
34
Il dettato normativo delimita, con sufficiente chiarezza, l’ambito di
operatività del delitto di assistenza, servendosi, a tal fine, di una duplice
previsione: indica tassativamente le condotte ausiliatrici punibili e
richiede, ai fini della configurabilità del reato, la permanenza del
sodalizio criminoso. A fronte di tale chiarezza è tuttavia opportuno
offrire alcune precisazioni circa l’esatto significato da attribuire ai
termini “vitto” e “rifugio” e circa il concetto di reiterazione della
prestazione, la quale ultima è idonea ad integrare la circostanza
aggravante di cui al 2° comma. Dubbi intorno a questi termini
originerebbero applicazioni non uniformi della norma e sarebbero causa
di disparità di trattamento.
In particolare, il “vitto” corrisponde ad un insieme di prestazioni di
carattere alimentare, che benché limitate siano idonee a realizzare un
contributo apprezzabile in relazione alla posizione del soggetto.
Il termine “rifugio”, invece, non deve intendersi come nascondiglio, ma
come offerta di ricovero, di protezione, che rileva proprio perché utile
alla attività criminosa dell’associato. La chiave di lettura di entrambi i
termini va colta facendo sempre riferimento alla qualità del soggetto
beneficiario, le condotte diventano punibili solo se quest’ultimo
35
usufruisce dell’asilo e dell’ospitalità quale membro di un sodalizio
criminale.
Viene dunque in rilievo un ulteriore specificazione della attività punibile;
la necessità cioè che l’aiuto venga prestato a favore di un singolo
associato, anche se l’aiuto medesimo può, di volta in volta, riguardare
soggetti diversi di una stessa organizzazione. In effetti, se il contributo
dato dal soggetto agente opera a vantaggio dell’organizzazione nel suo
complesso, ci troviamo di fronte ad un possibile caso di concorso esterno
ai sensi dell’art. 110 C.P.. Ulteriore condizione negativa, oltre al
concorso esterno, per riscontrare il delitto di assistenza, è che le
prestazioni di vivandiere non vengano realizzate da un associato che,
quale membro dell’organizzazione, svolga diligentemente il ruolo
assegnatogli.
Dubbi possono anche sorgere in ordine all’applicazione dell’aggravante
contenuta nel secondo comma dell’art. 418 C.P., a causa dei diversi
significati attribuiti al termine “continuatamente”. Sembra preferibile
intendere l’espressione usata nel senso di protrazione della condotta che
superi quel minimum cronologico che è necessario all’integrazione del
reato base. Il contributo dato si protrae cioè oltre la soglia necessaria
perchè possa considerarsi significativo. Diversamente, nel caso in cui i
36
soggetti assistiti siano più di uno ci si trova in presenza di una pluralità
di reati33.
Quanto poi alla necessità di distinguere il delitto di assistenza agli
associati da quello di favoreggiamento personale, e tenuto fermo che
quest’ultimo può solo seguire alla consumazione del reato al fine di
eludere le investigazioni dell’Autorità e di sottrarsi alle sue ricerche, è
ricorrente l’abitudine di attribuire all’elemento soggettivo il ruolo di
strumento discretivo in grado di differenziare i due reati. Nel delitto di
assistenza agli associati è sufficiente ricorra la coscienza e la volontà di
fornire “vitto” e di dare “rifugio” nella consapevolezza che l’assistito è
membro di un sodalizio mafioso; nel favoreggiamento personale, invece,
è necessario riscontrare l’intenzione di aiutare il soggetto ad eludere le
investigazioni o a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità, anche se non si
richiede che la condotta consegua realmente l’obbiettivo preso di mira.
In questo senso, si considera ipotesi di assistenza e non di
favoreggiamento la condotta di assistenza che consenta di sottrarsi alle
indagini dell’Autorità, qualora il risultato ottenuto non è l’obbiettivo
perseguito dall’autore del reato. Di contro, chi da rifugio ad una soggetto
inseguito dalle Forze dell’Ordine per aiutarlo a sottrarsi all’arresto,
33 De Liguori L., Concorso e contiguità…, cit., p. 80 ss.
37
risponde, anche se questa sola è la condotta materiale a lui addebitabile,
del reato di favoreggiamento personale, e non certo del più lieve delitto
di assistenza agli associati34.
9. “Omertà esterna” e reato di favoreggiamento personale (art. 378 C.P.) Il nucleo centrale della condotta di favoreggiamento personale dell’art.
378 del Codice Penale è costituito da una prestazione di aiuto, che deve
tendere ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche
dell’Autorità, così tipizzata dal Legislatore al fine di disincentivare
eventuali ostacoli frapposti all’attività diretta all’accertamento e alla
repressione dei reati. In particolare, negli ultimi decenni, l’impensato
sviluppo del fenomeno mafioso e le sue molteplici articolazioni, hanno
indotto la Magistratura a valorizzare il più possibile l’incriminazione per
favoreggiamento, grazie oltretutto all’amplissimo raggio di applicabilità
consentito dalla strutturazione a “forma libera” della fattispecie. Questa
finalità non solo è all’origine del moltiplicarsi delle forme di
manifestazione del reato, ma prima ancora, dell’aggiunta nell’art. 378 di
un apposito capoverso.
34 De Francesco G., Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Digesto disc. pen., 1987, I, p. 315.
38
L’art. 2 della Legge 13/9/1982 n. 646, inserendo un nuovo comma che
segue al primo, fissa un aumento del minimo edittale di pena per chi,
senza concorrere nel reato associativo, aiuta consapevolmente un
affiliato ad una associazione di tipo mafioso ad eludere le investigazioni
dell’Autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa. In questa ultima ipotesi,
anche definita di “omertà esterna”, la pena non può essere inferiore ai
due anni di reclusione. Tralasciando però i dubbi circa l’effettiva
efficacia di un semplice aggravamento della sanzione penale rispetto a
comportamenti che sovente potrebbero essere determinati da una
condizione passiva di paura, è indubbio invece che la condotta esaminata
deve verificarsi dopo che è stato commesso un delitto di associazione di
tipo mafioso. Più chiaramente, ai fini della configurabilità del reato in
questione, è sufficiente che abbia avuto inizio la consumazione del reato
associativo di tipo mafioso, verificandosi spesso l’ipotesi di
favoreggiamento personale che interviene durante la permanenza del
vincolo associativo. In tali casi è necessario valutare con estrema
attenzione gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta del soggetto
agente, al fine di evitare di ravvisare in questa, data la mancata
cessazione della permanenza del sodalizio criminoso, un ipotesi di
concorso esterno nel reato associativo presupposto. Ciò che conta, ai fini
39
della configurabilità del favoreggiamento personale, è che il
favoreggiatore risulti effettivamente estraneo all’associazione e che
voglia solo favoreggiare un affiliato e non già apportare un contributo
all’esistenza o al rafforzamento dell’ente; essendo poi irrilevante,
ricorrendo queste circostanze, che il suo comportamento ridondi anche a
vantaggio dell’intero sodalizio criminoso.
Sia il favoreggiatore che il concorrente esterno non sono membri
dell’associazione, ma se il primo intende aiutare, nelle modalità
descritte, un associato; il secondo vuole favorire l’ente nel suo
complesso35.
Ciò premesso, un breve cenno meritano i casi più problematici di
condotte favoreggiatrici.
Un primo caso, da tempo oggetto di divergenti opinioni, riguarda la
possibilità di individuare la fattispecie di favoreggiamento personale
nella condotta di colui che rende dichiarazioni mendaci alla Polizia
giudiziaria. Anche volendo tralasciare eventuali riflessioni circa la
centralità attribuita, nell’attuale sistema processuale, alla fase
dibattimentale in relazione all’assunzione e valutazione della prova; una
prima considerazione può essere di natura sistematica. Infatti, l’analisi
35 Turone G., Il delitto…, cit., p. 506 ss.
40
delle norme in argomento rileva che: l’art. 652 C.P. attribuisce rilevanza
penale alle dichiarazioni mendaci unicamente se rese, agli organi
investigativi, in caso di flagranze di reato. L’art. 371 bis C.P. circoscrive
il reato al caso di false dichiarazioni rese, nel corso di un procedimento
penale, e sempre ai fini delle indagini, al Pubblico Ministero. Per ultimo,
l’art. 372 C.P. punisce chi, in qualità di testimone, depone il falso
davanti alla autorità giudiziaria. Alla luce di questa disamina, che denota
un sistema puntuale e per niente ambiguo, tentare di attribuire rilevanza
penale alle dichiarazioni mendaci rese nella fase delle indagini
preliminari, sia pure nella forma del favoreggiamento, equivale a
realizzare una applicazione analogica dell’art. 372.
Residua però un ipotesi di mendacio alla Polizia giudiziaria penalmente
rilevante perché riconducibile al favoreggiamento: ci si riferisce al caso
di informazioni non veritiere rese in una fase in cui si stiano conducendo
investigazioni urgenti e per questo in grado di produrre un autentico
effetto di depistaggio. In codesta ipotesi è evidente che la dichiarazione
mendace depista allo stesso modo di una azione di favoreggiamento,
ledendo lo stesso interesse protetto dall’art. 378, che si propone di
impedire una modifica in peggio delle condizioni esterne nelle quali si
svolgono le attività investigative.
41
Altro caso molto discusso in ordine all’applicazione del delitto di
favoreggiamento è quello che prende in considerazione comportamenti
posti in essere dagli avvocati a favore dei loro assistiti. Se non c’è
dubbio che comportamenti dei difensori volti ad ostacolare le
investigazioni che esulino dalla difesa tecnica, costituiscono ipotesi di
favoreggiamento, basti pensare all’avvocato che porti al capo del
sodalizio una lettera di un affiliato detenuto, la vera difficoltà riguarda la
necessità di tracciare una linea di confine tra ciò che è lecito e ciò che
non lo è nell’ambito della attività intellettuale di assistenza.
Rientra infatti nell’esercizio del mandato conferitogli che l’avvocato dia
al cliente tutti i suggerimenti che ritiene utili alla sua difesa, compresa la
possibilità, nell’interesse di quello, di assumere un atteggiamento di non
collaborazione con gli organi investigativi. Diversamente, avvertire il
cliente di un provvedimento restrittivo della libertà personale, di una
perquisizione o di una intercettazione telefonica, non solo corrisponde a
violare da parte del difensore il segreto istruttorio, ma individua una
condotta che, discostandosi dal semplice consiglio, lo aiuta
concretamente ad eludere le investigazioni.
In dottrina, Pulitanò ha dimostrato come i suggerimenti privi di
contenuto informativo non integrano la condotta tipica dell’art. 378 C.P.,
42
realizzando una forma di istigazione all’autofavoreggiamento del tutto
estranea alla previsione normativa; così come non sono tipiche le
comunicazioni informative sul processo e quindi anche su determinati
atti, sempre che la loro conoscenza non sia frutto di una condotta
illecita36.
10. Le aggravanti introdotte dall’art. 7 del Decreto Legge n. 152 del 1991 L’art. 7 del Decreto Legge 13/5/1991 n. 152, convertito nella Legge
12/7/1991 n. 203, prevede, per i delitti puniti con pena diversa
dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art.
416 bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste
dallo stesso articolo, un aumento di pena da un terzo alla metà.
L’aggravante in questione rientra tra gli strumenti di un complesso
programma normativo predisposto dal Legislatore, nell’intento di
sottrarre al fenomeno mafioso spazi operativi spesso poco qualificati.
Specie sul piano probatorio la previsione normativa citata consente di
punire eventuali attività collaborative eludendo la prova, non solo
dell’esistenza del sodalizio, ma anche quella di estrema complessità,
della partecipazione al sodalizio medesimo. L’aggravante assume due
36 De Liguori L., Concorso e contiguità…cit., p. 89 ss.
43
diverse forme cui si fanno solitamente derivare due differenti tipologie
tra loro equiparate: quella definita aggravante del “metodo mafioso”,
che, con riguardo alle modalità di commissione di un delitto, ricorre
quando questo sia stato realizzato avvalendosi della forza di
intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva; quella che, con riguardo allo scopo perseguito nel commettere il
reato, ricorre quando la finalità sia stata quella di agevolare
l’associazione mafiosa.
In Dottrina, le riflessioni prodotte da più autori non sembrano in grado di
tracciare una direttrice interpretativa univoca.
Precisamente, il Manzione, ribadito che l’aggravante presenta
connotazioni alquanto sfuggenti, ritiene che essa faccia riferimento a
quelle attività criminose destinate a fungere da supporto ad una
associazione già operante. Il Fondaroli, invece, sottolinea l’impossibilità
di indicare, circa l’ambito di operatività dell’aggravante, un’esaustiva
risposta. Più articolate ma spesso distanti le conclusioni cui pervengono
Turone e De Liguori.
Il primo afferma che l’aggravante, primariamente, trovi applicazione ai
delitti, non punibili con l’ergastolo che siano stati commessi da questo o
quell’associato mafioso, o da più associati in concorso tra loro, nel
44
quadro dell’attività del sodalizio. A suo giudizio, infatti, non è possibile
ipotizzare un delitto che pur previsto nel programma del sodalizio non
venga commesso né avvalendosi dell’apparato strutturale e strumentale
dell’associazione, cui è riconducibile la categoria del metodo mafioso, né
al fine di agevolare l’attività del sodalizio stesso. Del resto, e a sostegno
della sua tesi, specifica che chiunque commetta un delitto con l’unica o
prevalente finalità di agevolare l’attività di una associazione di tipo
mafioso reca, normalmente, alla vita dell’ente un apprezzabile
contributo, che chiaramente configura una condotta di partecipazione.
Fuori da questo ambito, che viene considerato quello tradizionale e
abituale di applicazione dell’aggravante, sono rintracciabili talune ipotesi
di delitti estranei al programma criminoso e posti in essere da soggetti
esterni allo stesso che configurano residuali casi di applicazione dell’art.
7 del D.L. 152/1991. Si tratta del caso, assai marginale, dell’estraneo che
simuli un’appartenenza al sodalizio per avvalersi del metodo mafioso; e
di quello di chi, pur essendo mosso da un movente personale, agisca con
la volontà di agevolare il sodalizio, senza che per questo si possa
considerare né membro, né concorrente esterno37.
37 Turone G., Il delitto…, cit., p. 185 ss.
45
Opposta è l’individuazione degli spazio applicativi dell’aggravante cui
perviene De Liguori. Quest’ultimo ritiene che il problema possa essere
risolto verificando la compatibilità tra il delitto di partecipazione al reato
associativo e la ricorrenza dell’aggravante del ‹‹metodo mafioso›› e
dell’‹‹agevolazione››. Così, secondo l’Autore, se quanto alla prima
tipologia di aggravante non può dubitarsi che il metodo mafioso è lo
stesso di quello di cui all’art. 416 bis C.P., non altrettanta identità può
rinvenirsi per i soggetti. La fattispecie circostanziale prevista, esulando
del tutto dall’appartenenza al sodalizio criminoso, focalizza l’attenzione
solo su una condotta delittuosa posta in essere con metodi mafiosi, il che
non può ancora tradursi in una condotta partecipativa, per la quale è
necessario sussistano anche altri elementi.
Se poi questi ultimi venissero realmente riscontrati, poiché il metodo
mafioso è già dei per sé nota tipicizzante la condotta di partecipazione,
non può venire nuovamente utilizzato come aggravante senza violare il
principio del ne bis in idem. L’Autore utilizza la medesima
argomentazione logica per la seconda tipologia di aggravante. Di fatti,
l’associato che pone in essere attività delittuosa al fine di agevolare il
sodalizio, in realtà non fa altro che perseguire gli scopi dello stesso e
quindi realizza una condotta già prevista nel programma criminoso, da
46
lui conosciuto e voluto in quanto partecipe; ne consegue come una
aggravante di pena apparirebbe del tutto irrazionale. In questo caso non
solo le modalità soggettive, ma anche quelle materiali della condotta
dell’associato resterebbero assorbite dall’art. 416 bis, la cui sfera
operativa risulterebbe comprensiva di quelle peculiarità che l’art. 7 ha
inteso enucleare quali distinte circostanze aggravanti.
Partendo da tali premesse, De Liguori circoscrive a due soli casi
l’applicazione dell’aggravante. Il primo, riguarda la condotta di soggetti
del tutto estranei all’associazione; il secondo, quella di quanti, pur
facendo parte di un sodalizio mafioso, in via eventuale realizzano, a
livello personale e al di fuori di tale appartenenza, delitti connotati da
completa estraneità al sodalizio, avvalendosi del metodo mafioso o al
fine di agevolare una associazione diversa da quella cui appartengono.
Tuttavia, tali conclusioni sembrano individuare spazi di operatività
assolutamente teorici, della cui efficacia, in termini di lotta alla
criminalità organizzata, è legittimo dubitare38.
38 De Liguori L., Concorso e contiguità…cit., p. 107 ss.
47
CAPITOLO II Il concorso eventuale nel reato associativo mafioso
Sommario: 1. Breve ricostruzione storica della repressione della contiguità alle associazioni delittuose. - 2. Indirizzo dottrinario contrario e argomentazioni. - 3. Le aporie dogmatiche che giustificherebbero la tesi contraria al concorso esterno nel reato associativo: l’aggravante del numero di persone. - 4. Segue: il reato diverso da quello voluto dal concorrente esterno. - 5. Segue: la desistenza volontaria e il pentimento operoso del concorrente esterno. - 6. Segue: la soluzione proposta…il concorso alla partecipazione. - 7. La dottrina disincantata. - 8. La dottrina favorevole. - 9. Il concorso esterno nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: la sentenza Demitry, 5 ottobre 1994. - 10. Segue: situazioni “patologiche” dell’organizzazione mafiosa. - 11. L’impostazione della sentenza Carnevale: continuità o discontinuità? - 12. Segue: l’elemento soggettivo del concorrente esterno. - 13. Conclusioni e prospettive di riforma. 1. Breve ricostruzione storica della repressione della contiguità alle associazioni delittuose Il problema della punizione delle attività di sostegno e di
fiancheggiamento del crimine organizzato ha origini molto risalenti nel
tempo, nonostante un vivace dibattito in argomento si sia sviluppato solo
agli inizi del decennio passato, circa la configurabilità del cosiddetto
concorso esterno in associazioni di tipo mafioso. In particolare, le origini
storiche della problematica sono da ricondurre alle remote politiche
penali riguardanti la repressione del banditismo, prima, e del
brigantaggio poi.
48
Quali che siano gli strumenti di lotta di volta in volta predisposti emerge
con chiarezza il continuo avvicendarsi di due fondamentali tecniche
operative. Da una parte l’adozione di misure repressive straordinarie,
spesso in forma di risposta a situazioni emergenziali; dall’altra la
tendenza a ridurre la distanza tra queste misure e i principi di garanzia
tipici del diritto penale.
Grande attenzione merita l’evoluzione della disciplina ottocentesca in
tema di partecipazione e di complicità. Occorre a tale proposito ricordare
due figure di reato: l’associazione di malfattori del Codice napoleonico
del 1810 e la comitiva armata, prevista dal Codice Penale per il Regno
delle due Sicilie del 1819. La prima figura criminosa fa riferimento
all’associazione quale forma di attentato all’ordine pubblico che,
secondo la volontà del legislatore dell’epoca, non solo è minacciato, ma
già compromesso. Ad essa il Codice francese affianca diverse norme, ma
una più delle altre merita attenzione, ed è l’art. 268. Questa norma
punisce tutte quelle persone che: “avranno scientemente e
volontariamente somministrato alle bande o alle loro divisioni delle
armi, munizioni, strumenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di
riunione” con ciò configurando, secondo l’opinione prevalente, una
49
forma speciale di favoreggiamento, volta a colpire tutta l’estesa e
variegata gamma di attività di sostegno alle associazione di malfattori.
L’art. 154 del Codice napoletano descrive, invece, la comitiva armata
come quella che: “in numero non minore di tre individui, dei quali due
siano portatori di armi proprie, vada scorrendo le pubbliche strade o le
campagne con animo di andare commettendo misfatti o delitti…”.
La formulazione riportata non solo delimita con precisione i caratteri del
fatto tipico, ma distingue più ruoli ed individua sanzioni per i diversi
soggetti. L’art. 159 del medesimo Codice prevede poi il delitto di
assistenza agli associati, che, pur ricalcando la struttura dell’art. 268 del
Codice napoleonico, evidenzia una maggiore capacità garantista.
Sottolineando infatti il particolare e necessario contenuto dell’elemento
psicologico del delitto di assistenza agli associati, consistente nella
consapevolezza dell’appartenenza dell’assistito alla comitiva, il
legislatore del Codice napoletano pone fine alle ingiustizie della prassi
repressiva del passato, che spesso aveva equiparato, ai fini della
punizione, complici e vittime.
Qualche decennio più tardi e precisamente nel 1875 la Corte di
Cassazione di Palermo pronuncia due sentenze, che vengono
unanimemente indicate come i primi casi noti di espresso riconoscimento
50
giurisprudenziale della possibilità di configurare un concorso esterno nel
reato associativo.
Di grande rilievo anche le scelte operate con l’introduzione, nel 1889,
del Codice Zanardelli. Primariamente il legislatore sostituisce le
numerose previsioni di reato associativo con un unico modello di
incriminazione, che garantisce una estesa ampiezza applicativa; ma
soprattutto prevedendo all’art. 249 l’ipotesi di assistenza agli associati e
all’art. 64 le ipotesi di complicità criminosa, rende manifesta l’intenzione
di riconoscere alle ipotesi di complicità una funzione incriminatrice
intermedia tra la punibilità degli intranei e quella di coloro che si
limitano a prestare assistenza agli associati.
Più tardi il Codice Rocco, da un lato riduce da cinque a tre il numero
minimo delle persone necessarie a dar vita al sodalizio criminoso,
dall’altro, rinuncia ad una qualsiasi specificazione delle finalità illecite
perseguite dall’organizzazione.
In epoca più recente si deve ad una sentenza della Cassazione del 1968,
in un processo a carico di irredentisti altoatesini la prima pronuncia sulla
configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, con particolare
riferimento alla cospirazione mediante associazione. Ma la sentenza
risulta degna di nota non per gli argomenti a sostegno della
51
configurabilità del concorso esterno, bensì per la parte in cui distingue,
in modo assai netto, la figura dell’appartenente all’associazione da quella
del mero concorrente.
Successivamente e ripetutamente nei cosiddetti anni di piombo nella
giurisprudenza, pur ribadendosi in linea di principio l’applicabilità delle
norme sul concorso eventuale ai reati associativi, prevarrà la tendenza a
ricomprendere il fenomeno dell’appoggio compiacente nella
partecipazione. A fronte di questo stato di cose si leveranno negli anni
ottanta accese critiche dalla dottrina, che da un lato solleciterà
l’applicazione del favoreggiamento ai reati permanenti, dall’altro porrà
spesso in dubbio la configurabilità del concorso nel reato associativo39.
2. Indirizzo dottrinario contrario e argomentazioni
La questione della configurabilità del concorso esterno nei reati
associativi si è presentata, sin dall’origine, assai tormentata e
controversa, ed è presto divenuta uno dei terreni di scontro tra garantisti
e giustizialisti. Il problema ha iniziato a porsi quando il fenomeno del
terrorismo si è radicato sempre più ampiamente nel territorio ed ha
cominciato a generare casistiche giudiziarie estremamente complesse,
39 Argirò F., Note dommatiche e politico-criminali sulla configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione di stampo mafioso, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 2003, III, p. 774 ss.
52
spesso connotate da contributi esterni anomali, contingenti, temporanei e
comunque difficilmente riconducibili a fattispecie autenticamente
partecipative. È in questo contesto storico che maturano gli indirizzi
giurisprudenziali favorevoli ad un allargamento della punibilità alle
condotte di concorso nella partecipazione. In modo particolare, tra la fine
degli anni ottanta e i primi anni novanta, l’elaborazione dottrinaria e
giurisprudenziale ha dato vita a due indirizzi, quello contrario che nega
la configurazione del concorso esterno nei reati associativi e quello
favorevole che ne valorizza la capacità repressiva e di contrasto, al fine
di non lasciare impunite condotte assai pericolose di sostegno per le
organizzazioni criminali. Un’analisi più dettagliata consente tuttavia di
individuare una posizione intermedia tra i due indirizzi, riconducibile a
quegli autori che, pur ammettendo in astratto il concorso esterno ne
condannano l’uso indiscriminato e ne ridimensionano il reale spazio
applicativo40.
Attingendo quindi alle opinioni degli autori più autorevoli, che
dell’argomento si sono occupati, è possibile ripercorrere gli itinerari
argomentativi e le metodologie di ogni indirizzo su esposto, a cominciare
da quello contrario.
40 Visconti C., Il concorso “esterno” nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1995, p. 1306 ss.
53
Nell’ambito della più complessa tematica riguardante l’applicabilità
delle norme sul concorso eventuale di persone alle cosiddette fattispecie
plurisoggettive, si colloca la questione del concorso ex art. 110 del
Codice Penale nelle condotte descritte dai delitti associativi. Mentre,
infatti, la dottrina maggioritaria è concorde nel ritenere applicabili le
norme sul concorso eventuale ai reati necessariamente plurisoggettivi,
non vi è la medesima coincidenza di vedute circa la possibilità di un
concorso eventuale in una specifica categoria di reati a concorso
necessario, quella dei reati associativi. Per alcuni autori perciò non
sarebbe possibile ipotizzare forme di concorso eventuale di terzi, nei
delitti associativi, che non si risolvano, esse stesse, in condotte di
partecipazione all’associazione41. Se così non fosse la soglia di punibilità
retrocederebbe fino a ricomprendere attività preparatorie prive di
potenzialità offensiva. Secondo questa impostazione o si è partecipi o si
è in presenza di condotte rilevanti ad altro titolo, o ancora, penalmente
irrilevanti.
Più precisamente, F. Siracusano, voce autorevole della dottrina contraria,
dichiara che la natura del contributo fornito dal soggetto non integrato
nell’associazione è assai rilevante per ammettere o meno il concorso
41 Insolera G., Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro It., 1995, p. 524.
54
esterno nelle fattispecie associative. Così, in tema di concorso esterno
materiale, un contributo occasionale e temporaneo prestato ad una
struttura permanente e preesistente, non assume i connotati del fatto
tipico del reato associativo e rileva solo in quanto venga ad inserirsi nella
sequenza causale, coordinata agli scopi del sodalizio. Diversamente, è
ammissibile il concorso esterno morale che ricorre allorché soggetti
estranei all’ente criminale determinano o comunque rafforzano la
volontà altrui di partecipare ad una associazione per delinquere, o di
promuoverla, o di dirigerla od organizzarla42.
Altro argomento su cui poggia la dottrina negazionista è quello che
riguarda l’indeterminatezza che scaturirebbe dal connubio tra le norme
sul concorso di persone e quelle fattispecie tradizionalmente ritenute
connotate da una scarsa efficacia descrittiva, cioè i reati associativi.
Sebbene infatti la polemica sul carattere indeterminato dell’intero istituto
del concorso di persone emerge già dai lavori preparatori del Codice
Rocco, è l’applicazione di questo ai delitti associativi a suscitare forti
perplessità. In questi ultimi il legislatore ha volontariamente combinato
esigenze repressive ed esigenze preventive, anticipando a fini di difesa
della collettività, alle attività preparatorie la soglia di punibilità.
42 Siracusano F., Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. Pen., 1993, p. 1872.
55
Qualcuno usa a tale proposito l’espressione “repressione preventiva”. Se
però la carenza di tassatività di queste fattispecie, il loro carattere
generico, risultano funzionali ad un efficace risposta di contrasto al
dilagare del crimine organizzato, una pretesa estensiva della
giurisprudenza, realizzata ipotizzando nuove forme di concorso esterno
al reato associativo, non solo attribuirebbe alla giurisprudenza le stesse
scelte di incriminazione ma piegherebbe anche alle scelte politico-
criminali di questa diverse e pur presenti ragioni dogmatiche. Tutto ciò
rischia di immolare sull’altare delle esigenze della prassi il fondamentale
principio di legalità. Di questa opinione: Insolera, Siracusano e Manna43.
Nell’indirizzo contrario si inserisce infatti anche l’opinione di Adelmo
Manna, che, allontanandosi dagli altri autori, introduce un nuovo
elemento di riflessione. Questo, infatti, sostiene che, ammettendo il
concorso eventuale nel reato associativo, si violerebbe il principio
costituzionale di uguaglianza, parificando, mediante l’applicazione
dell’art. 110 del Codice Penale, il trattamento penale del partecipante e
quello dell’estraneo all’associazione. A fronte di comportamenti di
differente gravità il legislatore ha previsto un analogo trattamento
43 Si vedano in merito: Insolera G., il concorso esterno…, cit., p. 429; Siracusano F., Il concorso esterno…, cit., p. 1874; Manna A., L’ammissibilità di un concorso esterno nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1994, II, p. 1195.
56
sanzionatorio. Poiché infatti nei casi di concorso esterno il disvalore è
coordinato all’apporto solo occasionale e temporaneo all’ associazione,
esso non può venire assimilato a quello caratterizzante la condotta di chi
è perfettamente e stabilmente integrato nella struttura permanente del
sodalizio. Ulteriore conferma dell’improponibilità della figura in esame,
ancora ricavabile dalla disciplina sanzionatoria, deriva poi
dall’applicabilità al concorrente esterno e non anche all’associato
dell’aggravante del numero di persone di cui all’art. 112, n. 1 C.P.
La norma, prescrivendo che: la pena è aumentata se il numero delle
persone che sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la
legge disponga altrimenti, introduce, a giudizio dell’autore,
un’ingiustificata disparità di trattamento. Conseguenze sanzionatorie
deteriori per il concorrente rispetto al partecipe divengono, quindi, altro
motivo di opposizione alla configurabilità del concorso esterno44.
Anche i rilievi di natura sistematica, relativi alla normativa antimafia,
vengono assunti da autori sostenitori della dottrina contraria per
escludere il concorso esterno. In particolare, è stata riconosciuta una
sorta di vis astractiva sul piano della qualificazione penale in capo alle
fattispecie di assistenza ai partecipi, di favoreggiamento e, soprattutto,
44 Manna A., L’ammissibilità…, cit., p. 1193.
57
all’aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. 13.5.1991, n. 152 (convertito
nella L. 12.7.1991, n. 203), rispetto ad ogni condotta ritenuta di
fiancheggiamento alle associazioni criminali45.
Secondo questi autori, alcune previsioni normative tipicizzando
specificatamente comportamenti di soggetti estranei alla associazione,
che, pur collaborando con essa non sono né partecipi né concorrenti
esterni, circoscrivono i limiti di autonome fattispecie di reato. Si
consideri in questo senso l’ipotesi di cui all’art. 418 C.P., che integra
un’ipotesi di reato sussidiario della fattispecie associativa e che,
assorbendo condotte contigue alla partecipazione alla associazione,
introdurrebbe un limite alla applicabilità dell’istituto del concorso di
persone. Non sempre i fatti idonei al conseguimento degli scopi del
sodalizio rientrano, però, in figure di reato previste da legislatore. In
questo ragionamento si inserisce e si comprende la funzione della citata
circostanza aggravante. In essa si tipicizza l’attività di agevolazione al
sodalizio, prestata dall’estraneo commettendo un delitto punibile con
pena diversa dall’ergastolo. Si sostiene quindi che se il legislatore ha
tipicizzato l’attività di agevolazione, come contenuto di una circostanza
aggravante, ha voluto escludere l’applicabilità delle norme sul concorso
45 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1310.
58
esterno a quelle condotte di agevolazione realizzate dal di fuori dell’ente
senza commettere alcun delitto. Se non si accettasse questa tesi la
contraddizione sarebbe evidente. Il comportamento dell’estraneo
penalmente neutro, ma di per sé idoneo a contribuire alla vita dell’ente,
verrebbe punito con la medesima sanzione prevista per l’associato;
diversamente, il comportamento illecito che pure favorisca
l’associazione prevederebbe solo un aggravamento di pena46.
Ancora argomento a sostegno della tesi contraria è quello che poggia
sull’elemento soggettivo quale profilo caratterizzante la condotta
dell’extraneus. Una parte della dottrina afferma che è necessaria la
sussistenza nel concorrente esterno del dolo specifico, in tal caso si
richiede che le condotte dei concorrenti eventuali risultino
finalisticamente orientate verso la realizzazione di ciascuna figura
criminosa; ciò perché solo questo presupposto volitivo permetterebbe di
attribuire rilevanza penale a comportamenti che, avulsi da quel contesto
e singolarmente considerati, esulerebbero dalla attività esecutiva del
reato, integrando eventualmente gli estremi di reati diversi. Secondo tale
impostazione, di fronte a condotte di soggetti disinteressati al
46 Siracusano F., Il concorso esterno…, cit., p. 1876.
59
raggiungimento delle finalità dell’ente criminale non si potrebbero
applicare le norme sul concorso al reato associativo47.
Altra parte della dottrina, fautrice della tesi negazionista lungamente
esaminata, contesta la tesi su esposta. Questi autori, condividendo il
principio generale che ammette che si concorra con dolo generico in un
reato a dolo specifico, sempre che tale requisito soggettivo sia
ravvisabile in un altro concorrente, escludono che la motivazione
dell’agire illecito sia giuridicamente rilevante. Nel concorrente esterno,
perciò, è sufficiente che si ravvisi il dolo generico, da identificarsi nella
consapevolezza dell’esistenza dell’associazione, dei fini illeciti che la
medesima persegue e nella semplice volontarietà della condotta
agevolatoria48.
L’ultima tra le più ricorrenti obiezioni sollevate per escludere
l’ammissibilità del concorso esterno nel reato associativo di tipo
mafioso, è quella che individua, rispetto alla figura del partecipante e a
quella del concorrente esterno, la medesima dinamica di tipizzazione
causale. Se quindi identica è la tecnica che vale a tipizzare la condotta di
partecipazione e quella di concorso nella associazione: “o il contributo
appare significativo ed adeguato rispetto alla struttura organizzativa
47 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1313. 48 Argirò F., Note dommatiche…, cit., p. 784.
60
predisposta, ed allora verteremo in un caso di partecipazione alla
associazione, ovvero, in mancanza di tale connotazione, esuleremo
dall’ambito di rilevanza penale”49.
Invero l’assunto che la condotta di partecipazione debba
necessariamente identificarsi con lo svolgimento di specifiche attività
materiali, sembra destinato a confondere, ancora una volta, il profilo di
disvalore concernente l’organizzazione delittuosa in quanto tale con
quello ricollegabile, viceversa, alle singole attività di volta in volta
esplicate nel perseguimento degli scopi associativi. Questo induce a
condividere l’idea, sostenuta da buona parte della dottrina, che collega
gli estremi della condotta di partecipazione alla esistenza di un ruolo
stabile nella struttura organizzativa propria dell’ente delittuoso. Di
conseguenza, in assenza di questo inserimento nell’associazione, ciò che
attribuisce tipicità alla condotta del concorrente esterno è la natura del
contributo prestato all’ente criminale. Se quindi solo in questo secondo
caso è rinvenibile un nesso causale, il fondamento dell’obiezione mossa
sembra venir meno50.
49 Insolera G., Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, p. 148 ss. 50 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1323 ss.
61
3. Le aporie dogmatiche che giustificherebbero la tesi contraria al concorso esterno nel reato associativo: l’aggravante del numero di persone Nell’ampio panorama della dottrina contraria al concorso esterno si
inserisce il lavoro monografico di Vincenzo Bruno Muscatiello. Questo
autore poggia la negazione dell’istituto del concorso esterno alle
fattispecie associative su una serie di aporie dogmatiche, alle quali la
figura in esame non potrebbe sottrarsi e che dimostrerebbero un
inaccettabile effetto sperequativo nel regime sanzionatorio riservato
rispettivamente al concorrente esterno e al partecipante interno.
La prima aporia, di natura sistematica, risulta, secondo l’autore,
dall’estendibilità al concorrente esterno, ma non anche al partecipante
interno, dell’aggravante contenuta nell’art. 112, n. 1, del Codice Penale e
relativa alla disciplina generale del concorso di persone nel reato. La
norma in questione, prescrivendo, in forma di circostanza aggravante,
che: “la pena da infliggere per il reato commesso è aumentata: 1. se il
numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più,
salvo che la Legge disponga altrimenti”, punirebbe più severamente la
condotta dell’extraneus che quella dell’intraneus, attribuendo quindi una
maggiore carica lesiva alla collaborazione del primo.
62
L’affermazione si fonda sulla natura del rapporto intercorrente fra i reati
plurisoggettivi necessari, alla cui categoria appartiene l’art. 416 bis C.P.,
e le norme di disciplina del concorso di persone o, più precisamente,
sull’applicabilità o meno delle seconde ai primi. L’Autore, infatti, pur
non disconoscendo la tendenza della dottrina a negare simile
applicabilità, ritiene che l’assenza di disposizioni generali ed
inequivocabili in tal senso deve fare concludere per l’operatività
dell’aggravante di cui all’art. 112 n. 1 C.P. anche alle fattispecie
plurisoggetive necessarie; seppure con una serie di limiti discendenti
dalla struttura della citata aggravante. In particolare, pur potendo a limite
dubitare dell’estendibilità dell’aggravante al partecipe interno, in quanto
prevarrebbe il dettato della fattispecie incriminatrice di parte speciale,
non altrettanto può dirsi per il concorrente esterno51.
Assolutamente discorde l’opinione di Costantino Visconti che, partendo
da argomentazioni di ordine generale, e solo dopo particolare, vuole
dimostrare l’inesistenza di questa aporia dogmatica. Primariamente
ritiene che la dottrina, quasi unanimemente, subordini l’applicazione
delle norme sul concorso di persone alla compatibilità con la struttura di
ciascun reato e poi, più specificamente, sostiene che l’inciso “salvo che
51 Muscatiello V. B., Il concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, CEDAM, 1995, p. 91 ss.
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la legge disponga altrimenti”, imponga un’indagine delle singole norme
di parte speciale. In relazione, ad esempio, al reato di associazione per
delinquere semplice, avendo il legislatore previsto un’aggravante
specifica solo quando gli affiliati sono più di dieci non vi è motivo di
credere che il superamento della quota indicata non rilevi anche quando
si tratti di concorrenti esterni, e ciò al fine di dare valore all’inciso
suddetto.
Secondo questo ragionamento che prende le mosse dall’analisi delle
singole fattispecie, l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 112 sarebbe,
rispetto all’associazione di tipo mafioso, ancora più evidente. In
quest’ultima il fatto che il legislatore si disinteressi del numero massimo
di persone che la costituiscono è sufficiente ad escludere che possa
interessarsi del numero di concorrenti eventuali52.
4. Segue: il reato diverso da quello voluto dal concorrente esterno
La seconda aporia dogmatica capace di rilevare un trattamento
sanzionatorio ancora una volta più severo rispetto al concorrente esterno
che non agli associati, deriva, dall’applicazione al primo dell’art. 116
C.P., che, rientrando tra le norme di disciplina proprie del concorso di
52 Visconti C., Il concorso “esterno”…cit., p. 1315 ss.
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persone, contempla la possibile imputazione di responsabilità all’ignaro
concorrente esterno anche per una attività illecita diversa da quella da lui
concordata e compiuta dal sodalizio, purchè conseguenza della sua
azione od omissione. Nonostante infatti la norma introduca un’ipotesi di
responsabilità oggettiva, da più parti ritenuta al limite della legittimità
costituzionale, perché confliggente con l’art. 27 della Costituzione,
l’autore ne sottolinea tuttavia la diffusa applicazione ad opera della
giurisprudenza. A tale proposito propone ed esamina con finalità
esplicative ed argomentative un esempio. Si dia il caso che tre o più
persone si siano associate per realizzare profitti ingiusti per se o per altri,
e che usufruiscano del contributo esterno di un concorrente, nelle forme
ad esempio di un contributo in denaro, e che l’associazione così
costituita, utilizzando il contributo fornito da tutti i compartecipi, interni
o esterni, per volontà di taluno o anche di tutti i soci, ma non anche del
socio esterno, modifichi il piano delittuoso e realizzi, fra l’altro, delitti
volti ad attentare all’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, dando
così vita ad un organismo non più di tipo comune, ma con una precipua
finalità politica.
Nel caso considerato gli affiliati che non condividendo il mutamento
dello scopo sociale dell’ente, non hanno aderito o contribuito,
65
risponderanno e solo fino al suddetto cambiamento di associazione
semplice; il concorrente esterno, invece, cui trova applicazione la
rigorosa ed eccezionale disciplina prevista dall’art. 116 C.P., risponderà
dell’evento diverso da quello da lui voluto e quindi della cospirazione
politica e non dell’associazione semplice53.
Ancora una volta però Visconti ritiene che neanche questa diversità
sanzionatoria possa indurre ad escludere la configurabilità della figura
del concorso eventuale nell’associazione. Non solo perché le
argomentazioni di Muscatiello si fondano su casi assolutamente
marginali, di sporadica realizzazione, ma soprattutto perché questa
diversità di trattamento nasce dalla volontà del legislatore del 1930 di
punire più severamente il concorrente eventuale, la cui condotta viene
ritenuta in una prospettiva sistematica, evidentemente maggiormente
pericolosa per la società. In questo senso, a giudizio di Visconti, la
problematica non riguarda più la configurabilità del concorso esterno nel
reato associativo, ma la permanenza, in termini di opportunità
costituzionale, di tale articolo54.
53 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 94 ss. 54 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1317.
66
5. Segue: la desistenza volontaria e il pentimento operoso del concorrente esterno La terza aporia serve al Muscatiello ad ulteriormente avallare la sua tesi
circa la predisposizione da parte del legislatore di un trattamento meno
benevolo per il concorrente esterno rispetto a quello previsto per il
partecipante, che, in questo caso, afferisce alle ipotesi di desistenza
volontaria e di recesso attivo. Anche a voler prescindere
dall’applicazione alquanto incerta degli istituti premiali alle due diverse
figure, emerge tuttavia che lo stesso concetto di desistenza volontaria
assume significati diversi qualora questa sia posta in essere dall’affiliato
o dal concorrente esterno. Se infatti in relazione alla fattispecie
associativa di stampo mafioso, derivando la responsabilità penale
dall’adesione al sodalizio, il semplice regresso dalla singola condotta di
partecipazione è sufficiente ad escludere la responsabilità stessa; le
difficoltà connesse all’esatta individuazione degli elementi costitutivi
della responsabilità concorsuale esterna si riflettono nello stesso giudizio
di non responsabilità.
In giurisprudenza sono quindi rilevabili due orientamenti maggioritari
circa le connotazioni che la desistenza volontaria assume nella fattispecie
concorsuale.
67
Il primo, fondando la fattispecie concorsuale su una comune
realizzazione causale dell’evento delittuoso, richiede, perché possa
parlarsi di desistenza, che il concorrente esterno si adoperi per
interrompere la condotta dei compartecipi interni o per impedire la
verificazione dell’evento. Il secondo, mantenendosi fedele al principio
che riconosce che la responsabilità penale è personale e così anche la
non responsabilità, richiede, perché possa individuarsi desistenza, che il
soggetto abbia eliminato l’idoneità lesiva del proprio contributo, di modo
che il fatto portato a compimento dagli altri partecipi non possa essere
ricondotto anche all’attività del concorrente esterno.
Se quindi perché si configuri la desistenza dell’intraneus basta il
semplice ravvedimento, che si concretizza nello scioglimento dal vincolo
associativo da parte del soggetto che dichiara di dissociarsi; la desistenza
dell’extraneus dall’accordo criminoso si traduce in un fattivo e concreto
pentimento operoso, che non solo produce un trattamento più
sfavorevole ed ingiustificato, ma introduce anche una causa scriminante,
quella appunto del pentimento operoso, sconosciuta al nostro
ordinamento giuridico penale55.
55 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 96 ss.
68
Il Visconti, ponendosi ancora una volta in antitesi rispetto alle
argomentazioni del Muscatiello, crede che il trattamento sanzionatorio
finisca invece per essere più svantaggioso per il partecipante, il quale, a
suo dire, non sembra avere spazi concreti per desistere e ciò a differenza
dell’extraneus. Poichè infatti lo status di partecipe si acquista assumendo
un ruolo nella struttura organizzativa del sodalizio criminoso, il
partecipante potrà solo eliminare, mediante il recesso dal vincolo
associativo, il proprio contributo, ma sembrerebbe doversi escludere
l’ipotesi del delitto tentato data la difficoltà di individuare uno spazio
logico-temporale in cui la sua condotta rispetto al sodalizio pur iniziata
possa essere interrotta. In breve, o si fa parte oppure no dell’associazione
mafiosa, perché il momento propedeutico alla partecipazione e quindi
alla consumazione del reato è di difficile verificazione.
Quanto poi ad alcune specifiche figure di reati associativi, continua
Visconti, quali il reato di cospirazione politica e di banda armata, sono
previste condizioni speciali di non punibilità le quali possono essere
riferite solo ai partecipanti e non anche ai concorrenti. E del resto,
essendo equiparata la dissociazione dell’estraneo assistente ai partecipi
di cospirazione o di banda armata a quella del partecipe dei medesimi
reati, di modo che per nessuno di questi si richieda un pentimento
69
operoso, lo stesso principio è da intendersi senz’altro esteso anche al
concorrente esterno56.
6. Segue: la soluzione proposta…il concorso alla partecipazione
La parte più originale del lavoro di Muscatiello riguarda l’esito finale cui
perviene. Esclusa la configurabilità di un concorso esterno generalizzato,
l’autore ritiene ammissibile il concorso dell’extraneus alla
partecipazione di altri all’associazione. Eliminato il concorso esterno in
relazione alle condotte qualificate di organizzazione, promozione e
costituzione, dato che l’extraneus che collabori attraverso un contributo
causale all’organizzazione, promozione o costituzione del sodalizio e
senza il quale quest’ultimo non avrebbe avuto esistenza, vedrà la sua
condotta sanzionata attraverso il richiamo all’art. 416 bis C.P., al quale
solo è riconducibile; parrebbe che il concorso esterno trovi
legittimazione unicamente in relazione alla condotta di partecipazione ad
un sodalizio criminale57. In questo senso la tipicità della contribuzione
interna conferirà tipicità alla contribuzione esterna.
56 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1318 ss. 57 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 132 ss.
70
Concorrente esterno è dunque il soggetto che partecipi all’azione che
costituisce il reato di “partecipazione ad associazione”: il soggetto cioè
che ponga in essere una qualsiasi frazione dell’azione, ovvero ne
determina l’altrui compimento, ovvero ancora ne concordi la
realizzazione con altri soggetti. Perchè sia punibile il contributo
dell’esterno deve essere idoneo ed univoco; idoneo a determinare l’altrui
condotta di partecipazione e quindi a ledere o solo porre in pericolo,
attraverso l’intermediazione dell’azione dell’affiliato, il bene giuridico
protetto, univoco rispetto alla lesione del bene medesimo.
Il contributo esterno deve dunque essere idoneo a garantire la
permanenza e la stabilità della partecipazione al sodalizio, mentre
quest’ultima deve essere finalisticamente utile alla permanenza e
stabilità dell’intera associazione58.
Per chiarire la sua tesi l’autore elabora tre esempi.
Rispetto a questi casi, Visconti fornisce letture interpretative diverse, che
conducono tutte ad escludere la figura, elaborata da Muscatiello, del
concorso esterno alla partecipazione nell’associazione.
Sia dia il caso di un membro di una associazione segreta che
nell’adempimento di un ruolo interno al sodalizio, debba partecipare a
58 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 165 ss.
71
riunioni settimanali tenute in una località distante da quella di residenza
raggiungibile solo a mezzo di veicolo privato. Qualora l’affiliato sia
sfornito di autovettura o di abilitazione alla guida, e perciò solo si affidi
ripetutamente ad una amico perché questi lo accompagni ad ogni
riunione, la condotta dell’amico integrerà un ipotesi di appoggio esterno
perché naturalmente e funzionalmente stabile e permanente; capace
quindi di porsi come condicio sine qua non dell’altrui partecipazione59.
Circa il primo esempio, Visconti ritiene che questo potrebbe rientrare, a
certe condizioni, nell’ipotesi di reato di favoreggiamento personale e che
comunque, escluso il caso anzidetto, la soluzione di quell’autore amplia
l’area applicativa del concorso esterno dei reati associativi, dato che la
mancanza di un legame funzionale con l’organizzazione illecita esclude
l’incriminazione, ex art. 110 C.P., della condotta descritta60.
Si pensi ancora al caso in cui un affiliato ad una organizzazione
finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti sia chiamato a svolgere il
servizio di leva (ormai non più obbligatorio) e convinca il suo superiore
a concedergli talune licenze per espletare il compito societario. Appare
chiaro come una singola licenza, occasionalmente concessa, pur nella
consapevolezza della finalità delittuosa, non sia idonea a consentire la
59 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 169 ss. 60 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1319 ss.
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partecipazione dell’affiliato al sodalizio illecito. Diversa conclusione, nel
caso in cui l’accordo preveda la reiterazione delle licenze così da
consentire che il partecipe svolga il proprio ruolo stabilmente, solo in
questo caso il superiore risponderà di concorso esterno alla altrui
partecipazione associativa.
Secondo Visconti con riferimento al caso prospettato nel secondo
esempio, piuttosto che di concorso esterno alla partecipazione sarebbe
più corretto parlare: se il superiore rilascia sistematicamente le licenze
nella consapevolezza di contribuire all’organizzazione dell’associazione
di partecipazione o di concorso esterno, a seconda che il suo vincolo col
sodalizio risulti o meno stabile. Se ignora di contribuire all’esistenza o al
rafforzamento del sodalizio criminale ricorrerà un ipotesi di concorso nei
reati specifici.
Si dia il caso, da ultimo, che un soggetto che partecipe di una
associazione per delinquere, sia sottoposto ad un procedimento penale e
grazie all’intervento di un giudice compiacente riesca ad ottenere una
sentenza di assoluzione. Occorrerà verificare se il contributo esterno,
quindi la sentenza di assoluzione, sia idoneo a garantire la permanenza e
la stabilità della condotta di partecipazione dell’imputato assolto.
Residuano due possibili soluzioni: ritenere che l’intervento del giudice si
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inserisca in una progettualità criminosa a lungo termine, per la quale la
partecipazione venga garantita anche contro possibili future sentenze di
condanna; ritenere oppure che l’intervento del giudice si collochi come
episodio isolato. Nel primo caso si avrà concorso esterno, nel secondo,
invece, si avrà responsabilità ad altro titolo61.
Anche nel terzo esempio, a parere di Visconti, si finisce per allargare
ingiustificatamente l’area applicativa del concorso esterno nel reato
associativo, ai fini del quale è necessaria la volontà di aiutare taluno
nella sua veste di componente dell’organizzazione mafiosa e non, come
nel caso di specie, la sola intenzione di sostenere quel singolo
partecipante, magari anche in futuro con altre sentenze di assoluzione.
Questo perché niente esclude che nel caso descritto il magistrato sia
mosso da antica amicizia.
In conclusione due sono le principali obiezioni che, secondo Visconti,
alla soluzione teorica di Muscatiello si possono fare: la circostanza di
ampliare lo spazio operativo del concorso esterno del reato associativo di
tipo mafioso, fagocitando a volte in esso condotte riconducibili ad altre
figure di reato; un eccesso rigoristico nell’attribuire la responsabilità per
61 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 169 ss.
74
reato associativo ad una condotta che risolve il contributo all’ente
criminale nel sostegno esclusivo ad un partecipante allo stesso62.
7. La dottrina disincantata
A metà strada tra gli autori contrari, che negano la configurabilità del
concorso esterno al reato associativo e quelli favorevoli, che ne
sostengono l’ammissibilità, si pongono quelli definiti da Visconti
disincantati. Questi ultimi, dopo aver negato la possibilità di escludere
l’applicazione dell’istituto concorsuale alle associazioni di stampo
mafioso, pongono al centro della loro analisi la problematica attinente ai
limiti di ammissibilità dell’istituto nella prassi giurisprudenziale.
In questo contesto si collocano le riflessioni di De Francesco, Spagnolo e
Fiandaca63.
Il primo, ponendo l’accento sul nesso causale intercorrente tra la
condotta del cooperatore esterno e l’incremento della potenzialità
offensiva dell’ente criminale, sottolinea come il dibattito tra favorevoli e
contrari abbia finito per trascurare un aspetto del problema tutt’altro che
secondario. Costui infatti afferma che, i criteri di valutazione del
contributo dell’estraneo mancano di determinatezza e risultano spesso
62 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1321 ss. 63 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1326.
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incerti ed opinabili. Stabilito in astratto che il contributo del concorrente
per essere giuridicamente rilevante deve essere idoneo a determinare il
potenziamento, o almeno il consolidamento dell’associazioni criminale,
risulta in concreto estremamente complesso verificare, in ogni singola
condotta del soggetto esterno, tale specifica capacità.
In realtà, continua De Francesco, in presenza di organizzazioni criminali
ancora allo stato embrionale, l’idoneità o meno di un contributo a
completare o consolidare la struttura dell’ente è facilmente riscontrabile,
ma questa operazione non risulta altrettanto semplice in presenza di
associazioni di origine più risalente, e perciò, già fortemente strutturate.
Rispetto a queste ultime sarà difficile istituire una specifica correlazione
causale tra la singola condotta di concorso e l’accrescimento ulteriore
della potenzialità offensiva dell’organizzazione nel suo complesso;
essendo questa già dotata di un forte potenziale aggressivo. Da ciò deriva
che “soltanto in presenza di una reiterazione in forma massiccia di una
molteplicità di contributi di partecipazione alla vita e allo sviluppo
dell’ente delittuoso” si può affermare l’esistenza di un “nesso tra
l’attività del soggetto e la conservazione o il consolidamento della
struttura associativa”. L’autore riconosce tuttavia che, così
argomentando, si finisce per limitare fortemente il concreto spazio
76
operativo del concorso eventuale nel reato associativo. A tale
conclusione conduce però la disciplina positiva del concorso di persone,
che secondo un accreditato canone interpretativo, subordina la rilevanza
del singolo contributo, e quindi la determinazione ad incriminarlo, alla
sua efficienza causale nella produzione del risultato. In tale contesto,
quindi, la disciplina del concorso di persone, rivelando una
inadeguatezza per difetto, ha costituito un impedimento significativo ai
fini del riconoscimento della rilevanza penale delle condotte di concorso
esterno nell’associazione di tipo mafioso. Nel contempo, la mancanza di
una determinazione legale degli elementi costitutivi delle condotte di
concorso, incrementa la discrezionalità giudiziale, pronta ad ampliare o
limitare il contenuto delle condotte di partecipazione a seconda della
rilevanza che intende attribuire a condotte compiacenti e contigue alle
organizzazioni criminali64.
La ricerca di Spagnolo, anche lui come De Francesco attento a tracciare i
confini applicativi dell’istituto del concorso esterno nell’associazione di
tipo mafioso, prende le mosse dall’elaborazione di una nozione ristretta
di partecipazione. Poiché, infatti, se si accoglie una nozione ampia di
partecipe diventa difficile ipotizzare un concorso di terzi che non si
64 De Francesco G., Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1994, IV, p. 1288.
77
risolva, esso stesso, in una attività di partecipazione all’associazione,
l’autore ritiene più corretta la soluzione che propende per una
definizione circoscritta e non equivoca della condotta partecipativa.
In base a questa scelta partecipe è il soggetto che, volendo far parte
dell’associazione, mette a disposizione il suo contributo o promette di
farlo e che viene accettato dall’associazione, anche per facta
concludentia, come socio riconoscendogli un ruolo. Se si accoglie tale
nozione di partecipe, dice Spagnolo, il concorrente sarà colui che
dall’esterno, quindi senza farne parte, contribuisce all’associazione
mediante un apporto personale, agevolandone l’affermarsi e nella
consapevolezza del nesso causale del suo contributo. Ragionando in
questi termini è possibile, secondo l’autore, ammettere la configurabilità
del concorso materiale nei reati associativi. Del resto, continua, a volerla
escludere si dovrebbe dimostrare, da una lato, l’impossibilità di
ipotizzare condotte causali di concorso che non siano di per se condotte
partecipative, dall’altro, che quelle non qualificabili come tali, siano
effettivamente rilevanti ad altro titolo.
Sono tuttavia le caratteristiche peculiari del contributo del terzo a ridurre
ad un ristretto numero di casi l’ambito di applicazione delle norme sul
concorso eventuale ai delitti associativi. In questo senso il contributo
78
deve essere, circa l’aspetto oggettivo, idoneo, anche solo ex ante, a
potenziare o consolidare la struttura organizzativa dell’ente criminale;
circa quello soggettivo, diretto allo scopo di agevolare il conseguimento
degli obbiettivi illeciti dell’associazione. In quanto tale l’aiuto del terzo
risulta distinto da quello avente ad oggetto specifiche imprese delittuose
o prestato a singoli associati65.
Ancora diversa l’analisi di Fiandaca che rientra, a giudizio di Visconti
tra gli autori disincantati, a giudizio di De Liguori tra i possibilisti. Pur
palesando infatti un atteggiamento di favore per quanto riguarda la
configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, pone rilievi
critici circa il contenuto dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo
della condotta del concorrente, così come elaborata dalla dottrina
favorevole.
Cominciando dall’elemento soggettivo, la diversità di atteggiamento
psicologico tra partecipe e concorrente esterno, in base alla quale il
primo agirebbe per far raggiungere all’associazione i suoi scopi ed il
secondo per fini personali distinti da quelli dell’ente criminale, non è,
secondo questo autore, condivisibile. Non solo, infatti, è possibile che
obiettivi personali e obbiettivi sociali si sovrappongano e si confondano,
65 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 137 ss.
79
ma questa possibilità rende complesso l’accertamento probatorio, nella
cui fase la qualificazione di partecipe o di concorrente esterno dovrebbe
invece delinearsi con molta evidenza.
Quanto poi all’elemento materiale, la nozione ristretta di partecipazione
rischia di privilegiare riti formali di affiliazione, con la conseguenza di
non dare adeguato valore al contributo oggettivo prestato, tanto che,
precisa Fiandaca, la stessa dottrina fautrice di questa concezione ravvisa
la necessità di estendere la qualità di partecipe anche a chi risulti tale per
facta concludentia; così restituendo dignità al contributo fornito. E pur
volendo tralasciare le considerazioni di Fiandaca circa l’elasticità delle
nozioni di contributo o di apporto e la sua conseguente sovente
arbitrarietà giudiziale, un altro punto della sua riflessione merita
attenzione. Si propenda per la configurabilità del concorso esterno o lo si
escluda, il comportamento oggettivo deve, per assumere rilevanza
penale, “concretizzarsi in un contributo o apporto obbiettivamente
idoneo alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura
associativa”66.
66 Fiandaca G., La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale (nota a Trib. Catania, 28.3.1991), in Foro It., 1991, II, p. 475 ss.
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8. La dottrina favorevole
Nell’ambito della dottrina favorevole al concorso esterno nel reato
associativo si possono individuare impostazioni differenti, sia sotto il
profilo della metodologia ricostruttiva del fenomeno che della
individuazione degli istituti di base dai quali prendere le mosse, e sia
infine della concreta indicazione esemplificativa del contenuto materiale
e psicologico dei comportamenti a tale scopo ritenuti rilevanti.
Lo Iacoviello, dopo avere premesso che generalmente si ammette la
possibilità di un concorso eventuale in una fattispecie plurisoggettiva
necessaria, e ribadita l’unanime condivisione del concorso morale, sotto
forma di istigazione alla costituzione o alla partecipazione
all’associazione di tipo mafioso, afferma che il problema maggiore sta
nel verificare se sia possibile un concorso materiale nel reato associativo
che non implichi una partecipazione alla consorteria mafiosa. Il punto da
cui muove è la nozione di partecipazione. L’autore è infatti consapevole
che la possibilità o meno di configurare il concorso esterno dipende dal
significato convenzionalmente attribuito alla condotta di partecipazione.
E pur ritenendo che la tesi restrittiva di partecipazione sia più confacente
alla morfologia del crimine organizzato, nella quale legami gerarchici e
distribuzioni di competenze valgono da soli ad esprimere una capacità
81
criminogena, ricorda che sovente questa accezione è stata respinta. In
questi ultimi casi, in cui si è svalutato l’aspetto organizzativo e
valorizzato l’elemento del contributo causale offerto all’organismo
associativo, non vi è spazio per la figura del concorrente. Se quindi il
contenuto della condotta di partecipazione dipende da scelte fatte dai
giuristi in via convenzionale, non è più rilevante l’individuazione di un
discrimine tra condotta di partecipazione e condotta del concorrente
esterno, rilevante è semmai delimitare l’area della punibilità.
Occorre dunque, secondo Iacoviello, stabilire quando un comportamento
è penalmente rilevante e quando penalmente indifferente. Escluso a
riguardo che criterio discretivo sia il nesso causale, che, in quanto tale
c’è o non c’è; ed escluso che sia utile l’intensità del predetto nesso
causale, ritiene invece che si debba guardare all’oggetto del contributo.
In questo senso sarà rilevante non qualsiasi contributo che giovi
all’associazione, ma solo il contributo che incide sulle funzioni
strumentali dell’organizzazione. Ruoli strumentali dell’organismo
associativo sono: l’approvvigionamento di mezzi e di informazioni, la
programmazione di obiettivi da raggiungere, il coordinamento delle
funzioni associative, il controllo della attività operativa, la distribuzione
e il reinvestimento di profitti. Solo il contributo che incide sulle funzioni
82
strumentali permette all’organizzazione di protrarsi nel tempo e di
rafforzare la carica criminogena67.
Dal canto suo, Grosso, dopo avere manifestato una preferenza per la
dottrina che considera configurabile il concorso esterno nei reati
associativi, e dopo averne tuttavia denunciato i limiti derivanti
dall’assenza di inequivoci criteri di demarcazione tra il partecipe e il
concorrente esterno e di criteri certi di individuazione dell’idoneità del
contributo esterno, affronta la questione da tre distinte prospettive.
Sul piano ontologico sottolinea come la posizione di chi entra a far parte
di una associazione, condividendone scopi ed obbiettivi, sia logicamente
differente da quella di chi, pur non essendo entrato a farne parte, abbia
apportato alla stessa un contributo causale di una certa consistenza e
come, quindi, questa diversità debba ricevere altrettanto distinta
qualificazione giuridica.
Sul piano interpretativo-sistematico afferma che rilievi testuali legislativi
costituiscono argomentazioni a favore dell’istituto del concorso esterno.
In tal senso gli artt. 307 e 418 C.P., prevedendo i delitti di assistenza agli
associati, configurano la responsabilità penale di chi “fuori dai casi di
concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce il vitto a
67 Iacoviello F. M., L’organizzazione criminogena prevista dall’art. 416 del Codice Penale, in Cass. Pen., 1994, p. 580 ss.
83
taluna delle persone che partecipano all’associazione”. L’uso del termine
concorso e la manifesta volontà legislativa di distinguere tra condotta di
concorso nel reato e quella di favoreggiamento, dimostrerebbe che il
legislatore voleva attribuire alle due posizioni autonoma e diversa
rilevanza.
Fatte queste osservazioni preliminari, Grosso concentra poi la propria
attenzione sul contenuto della condotta del concorrente esterno. In primo
luogo l’aiuto prestato deve essere rivolto all’intera associazione e non ai
singoli associati, secondariamente, si tratti di una attività continuativa o
ripetuta, oppure si tratti di una prestazione occasionale, il contributo
dell’estraneo per qualificarsi come concorso nel reato associativo deve
incidere sul mantenimento o consolidamento della consorteria mafiosa.
In conclusione, escluso che l’elemento soggettivo sia sufficiente a
discriminare il partecipe dal concorrente esterno, l’autore ritiene che il
secondo debba rappresentarsi, quantomeno in termini di dolo eventuale,
d’intrattenere rapporti con la mafia e di apportare ad essa un contributo
rilevante68.
Innovativa e pragmatica è la tesi proposta da Turone in materia di
concorso esterno al reato associativo. Questo autore osserva come il
68 Grosso C.F., Le contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1993, p. 1188 ss.
84
dettato normativo dell’articolo 416 bis non fa riferimento alla
associazione d tipo mafioso in se, ma alle singole condotte di
promozione, di organizzazione e di partecipazione e ai corrispondenti
ruoli che l’affiliato svolge rispetto all’ente criminale. L’analisi testuale
chiarisce quindi che il termine di riferimento, rispetto al quale valutare la
rilevanza della condotta atipica dell’extraneus, non è la societas sceleris
bensì le condotte tipiche del reato associativo. Secondo questa
impostazione, sostenuta anche dalla sentenza del 22.12.2000 n. 6929
della Vª sezione Suprema Corte e ripresa da un’altra del 12.4.2007 della
VIª sezione, lungi dal ritenere che la condotta esterna sia diretta ad
agevolare un singolo partecipante, la condotta del concorrente eventuale
accede a quella dei membri interni, nel senso che i rispettivi contributi
“interagiscono sinergicamente” concorrendo alla conservazione o al
rafforzamento delle capacità operative dell’associazione. Poiché, del
resto, la prestazione del contributo dell’extraneus dovrà ridondare a
vantaggio del sodalizio nel suo complesso, risulta infondata la
preoccupazione di una sovrapposizione tra concorso esterno da un lato e
favoreggiamento ed assistenza dall’altro. Da queste argomentazioni
deriva che il contributo dell’extraneus, benché di rilievo, deve esplicare
rilevanza causale rispetto alla conservazione o al rafforzamento del
85
sodalizio non già da solo, bensì in concorso con i contributi dei partecipi
interni. Essendo però diverse le condotte indicate dall’art. 416 bis C.P.,
Turone, mutando l’atteggiamento originario, ritiene si possa parlare di
concorso esterno semplice, quando la prestazione è di supporto a chi
partecipa all’associazione; di concorso esterno qualificato quando è
invece di supporto al ruolo tipico di chi organizza l’associazione stessa.
Le condotte di promozione e di direzione, infatti, non ammettono
contributi da parte di soggetti estranei al sodalizio, e ciò perché
ineriscono ad attività che si realizzano e si esauriscono all’interno
dell’organizzazione. Pertanto si configura il concorso esterno nel reato
associativo rispetto alla condotta di semplice partecipazione quando
l’apporto esterno funge da supporto alle condotte tipiche dei membri
interni. Si configura l’ipotesi, ben più complessa, del concorso esterno
nella attività di organizzazione, quando il comportamento dell’extraneus
sia atto a favorire la realizzazione di strategie complessive di tipo
organizzativo. In entrambi i casi, secondo Turone, l’atteggiamento del
soggetto agente può definirsi di “omertà attiva esterna”; questo tipo di
omertà, che esula dal concetto di omertà quale elemento dell’apparato
strutturale-strumentale mafioso, non trae origine dall’in sé del vincolo
associativo, né dalla forza di intimidazione propria del medesimo, ma da
86
una convergenza di interessi tale da indurre il non associato ad attivarsi a
favore dell’associazione69.
9. Il concorso esterno nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: la sentenza Demitry, 5 ottobre 1994 La complessa e tormentata vicenda del concorso esterno perviene ad una
svolta decisiva con una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione: la
sentenza Demitry del 5.10.1994. Quest’ultima, oltre a risolvere in senso
positivo la controversa ammissibilità del concorso materiale nel reato
associativo, compie un tentativo di precisazione dei presupposti e di
delimitazione del concorso esterno punibile.
Il ragionamento degli estensori della sentenza ha origine da una
definizione della condotta tipica di partecipazione. La Corte definisce la
partecipazione come la stabile permanenza del soggetto
nell’associazione cui corrisponde lo svolgimento di una attività o meglio
di una funzione, specificando che esiste un momento statico e uno
dinamico, che sono appunto il far parte e il partecipare. Così intendendo
la partecipazione risulta semplice circoscrivere i connotati della condotta
del concorrente esterno, che si collega alla nozione dinamica di
partecipazione. Concorrente eventuale è, quindi, colui che pur non
69 Turone G., Il delitto…, cit., p. 440 ss.
87
facendo parte dell’associazione e che pur non essendo da essa chiamato a
partecipare, contribuisce atipicamente alla realizzazione della condotta
tipica posta in essere da altri. Questo vuol dire che il punto di riferimento
di qualsiasi discorso sul concorso esterno non può che essere la condotta
di partecipazione70.
Dopo queste considerazioni iniziali la sentenza affronta poi il problema
relativo all’elemento soggettivo. Il dolo del partecipe consiste nella
coscienza e volontà di far parte dell’associazione e di perseguirne i fini
con il metodo mafioso. Qual è, invece, il dolo del concorrente esterno?
Innanzitutto al concorrente esterno manca la volontà di far parte
dell’associazione e, di regola, anche la volontà di realizzare i fini
dell’associazione. Del resto, poiché, precisano le Sezioni Unite, è
possibile partecipare con dolo generico ad un reato a dolo specifico,
purché l’altro concorrente sia animato da tale tipo di dolo; il concorrente
eventuale può benissimo agire con un dolo generico. Il dolo generico del
concorrente esterno consiste quindi nella coscienza e volontà di dare un
contributo all’associazione con la consapevolezza che tale contributo
servirà alla vita e al consolidamento dell’ente. Ciò non impedisce,
70 Iacoviello F. M., Concorso esterno in associazione mafiosa: il fatto non è più previsto dalla giurisprudenza come reato, in Cass. Pen., 2001, III, p. 2076 ss.
88
peraltro, secondo la sentenza citata, che il concorrente eventuale possa
anche agire con dolo specifico, e ciò nonostante, restare pur sempre
concorrente eventuale esterno. In questo caso il concorrente eventuale
vuole realizzare il programma criminale del sodalizio ma non può avere
quel segmento del dolo specifico del partecipe che consiste nella volontà
di far parte dell’associazione. L’alternativa è dunque tra un dolo generico
e un dolo specifico ma diverso da quello della partecipazione71.
Altra condizione posta dalle Sezioni Unite per selezionare le condotte
esterne all’associazione penalmente rilevanti è quella che attiene alla
natura del contributo prestato. Questo deve essere destinato alla
associazione e non ai singoli partecipi, ma soprattutto deve essere, anche
se occasionale, necessario alla vita dell’ente; il quale requisito, taluno
osserva, se rigidamente interpretato, riduce notevolmente le ipotesi di
concorso esterno72.
In un altro punto della sentenza, la Cassazione contesta la tesi di quanti
negano la configurabilità del concorso esterno basandosi
sull’elaborazione, da parte del legislatore, della circostanza aggravante
per chi commette delitti al fine di agevolare l’associazione mafiosa,
aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13.5.1991 n. 152.
71 Turone G., Il delitto…, cit., p. 408 ss. 72 Iacoviello F. M., Concorso esterno…, cit., p. 2081.
89
La formazione dell’aggravante citata non interferisce con il concorso
esterno, e poiché le due figure possono concorrere tra loro, per capire se
il contributo, che sostanzia il delitto, rileva solo come reato aggravato o
anche come concorso esterno, bisogna guardare alla finalità perseguita
dall’organizzazione. Si ricade, quindi, nella seconda ipotesi quando
l’ente criminale versa in uno stato di necessità che intende superare con
la commissione di un reato. Così, secondo le Sezioni Unite, quando ad
un soggetto estraneo viene richiesto di uccidere “per impartire una
lezione a qualcuno che ha osato disobbedire, senza che la disobbedienza
abbia messo minimamente in forse la vita dell’associazione”, si
configurerà un omicidio aggravato dal fine di agevolare l’attività
dell’associazione mafiosa; mentre qualora “l’omicidio abbia di mira
l’eliminazione di un qualche pericoloso concorrente o di altri che
possono minare la vita dell’associazione”, l’estraneo che lo ha
commesso, consapevole del valore del suo contributo, dovrà rispondere
di concorso esterno nell’associazione e di omicidio aggravato73.
Dichiarata ammissibile perciò la configurabilità del concorso esterno, la
pronuncia in esame tenta di spiegare le ragioni che inducono i
negazionisti a riconoscere l’ipotesi di un concorso eventuale morale nel
73 Turone G., Il delitto…, cit., p. 411 ss.
90
reato associativo e a rigettare quella di un concorso esterno materiale. La
Cassazione osserva che è contraddittorio riconoscere il primo e negare il
secondo, anche se l’argomento che essa usa, lungi dal rilevare capacità
dimostrativa in questo senso, ha semmai finalità persuasiva. Esso serve
ad indurre l’interlocutore ad eliminare pregiudizi e ostilità preconcette, e
a spiegare che l’equivoco ha origine, ancora una volta, dal concetto di
condotta74.
Nel concorso morale, sia nella forma della determinazione sia in quella
del rafforzamento, la condotta dell’istigatore è per definizione diversa
dall’azione tipica del partecipe e, in maniera evidente, esterna rispetto
all’associazione. Sul piano del concorso materiale, invece, la distinzione
tra le due condotte non è sempre agevole, specie quando la condotta
atipica consiste in una parte della condotta tipica. Le due condotte
rischiano di sovrapporsi e questa difficoltà di discernere impedisce di
individuare uno spazio per il concorrente eventuale materiale, in più
induce a sostenere che il dolo specifico fa del concorrente materiale un
vero partecipe75.
74 Iacoviello F. M., Concorso esterno…, cit., p. 2075. 75 Iacoviello F. M., Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere (nota a Cass. Pen., Sez.Unite, 5.10.1994), in Cass. Pen., 1995, p. 842 ss.
91
10. Segue: situazioni “patologiche” dell’organizzazione mafiosa
La parte della sentenza Demitry che ha però suscitato in dottrina
maggiori osservazioni, e per la quale essa è assolutamente innovativa, è
quella in cui gli estensori della sentenza stessa elaborano la cosiddetta
teoria della “fibrillazione”. Questa parte, che è l’unica che ha formato
oggetto di una massima giurisprudenziale, fornisce un contributo
decisivo, soprattutto in considerazione della fonte dalla quale proviene,
ai fini della discriminazione tra la condotta e il ruolo del partecipe e la
condotta e il ruolo del concorrente eventuale nell’organigramma
dell’organizzazione criminale.
Precisato preliminarmente che, in relazione al partecipe, la locuzione
“far parte”, utilizzata dal legislatore nell’art. 416 bis del Codice Penale,
serve a indicare una compenetrazione del soggetto nell’ente criminale, e
che quest’ultima può essere desunta in vari modi, la Corte procede ad
una definizione della medesima condotta. Come riportato dalla massima,
partecipe è “colui senza il cui apporto quotidiano o, comunque assiduo,
l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la
dovuta speditezza”. Il partecipe, quindi, è il soggetto che opera nella
normalità, nella fisiologia della vita associativa. Diversi e più complessi i
connotati della condotta del concorrente esterno. La lettera della
92
massima, riferendosi al soggetto che “occupa uno spazio proprio nei
momenti di emergenza della vita associativa”, sembra ancorare la
configurabilità del concorso esterno unicamente alle fasi di “fibrillazione
patologica”. Diversamente la frase contenuta nella versione integrale
della sentenza, lungi dal limitare il concorso esterno alla patologia
dell’ente, ritiene che esso possa riguardare se non solo situazioni
emergenziali, quanto meno situazioni “non normali” che, proprio perché
tali non coinvolgono gli affiliati. Di conseguenza, poiché le situazioni
“non normali” non sono tutte emergenziali ma possono essere anche solo
straordinarie, la Corte ritiene che il concorso esterno nel reato
associativo non sia unicamente riconducibile ad un’azione di
salvataggio. Tuttavia il fatto che la Corte stessa, in un punto della
sentenza, affermi che il concorso esterno può anche concretarsi in un
unico intervento, perché “ciò che rileva è che quell’unico contributo
serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita”, non fa che
qualificare nuovamente quell’apporto come pertinente alla patologia
della vita associativa76.
A queste conclusioni Fiandaca muove due interessanti critiche.
76 Turone G., Il delitto…, cit., p. 413 ss.
93
La prima ha origine da una considerazione storica che lo porta a
ricordare come tratto caratteristico dell’organizzazione dell’associazione
di stampo mafioso siano i frequenti rapporti intercorrenti tra questa ed
esponenti del modo della politica, dell’economia e delle professioni, di
modo che tali contatti, più che riguardare una fase patologica, attengono
al fisiologico funzionamento della criminalità mafiosa.
La seconda, di ordine logico, serve all’autore citato per dimostrare la
fallibilità del criterio discretivo, visto che, qualificare un certo contributo
come utile in una fase di emergenza oppure di patologia, rimane sempre
una valutazione soggettiva77.
11. L’impostazione della sentenza Carnevale: continuità o discontinuità? Dopo il duro attacco demolitorio sferrato alla sentenza Demitry dalla
sentenza Villecco del 21.9.2000, che propugna nuovamente e
decisamente la tesi negazionista, si perviene alla sentenza Carnevale del
2003, la quale ribadisce la configurabilità del concorso esterno in
associazione mafiosa.
77 Fiandaca G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, in Legislazione Penale, 2003, p. 693.
94
Il Tribunale di Palermo, con sentenza 8.6.2000, aveva assolto l’imputato
dalla accusa di avere contribuito, in maniera non occasionale, alla
realizzazione degli scopi di “Cosa Nostra”, strumentalizzando le sue
funzioni di Presidente della Iª sezione penale della Corte di Cassazione
ed assicurando l’impunità a capi e affiliati. La Corte d’Appello di
Palermo, l’anno successivo, aveva capovolto il verdetto.
La sentenza della Corte di Cassazione prende le mosse dalla tesi che
sostiene la natura monosoggettiva della condotta di partecipazione.
Quest’ultima, dice la Corte, non è costituita da un atto unilaterale di
adesione all’associazione, perché “l’inclusione di taluno in una
associazione non può dipendere solo dalla volontà di colui che alla
associazione intende aderire, ma richiede anche quella di tutti gli altri
associati o di coloro che li rappresentano”. Infatti “tanto la costituzione
dell’associazione, quanto l’inserimento di un soggetto in
un’organizzazione già formata, postulano sempre e necessariamente la
volontà e l’agire di una pluralità di persone”. Ne deriva che i reati
associativi sono sempre reati a concorso necessario, cioè fattispecie
plurisoggettive proprie78.
78 Denora G., Sulla qualità di concorrente “esterno” nel reato di associazione di tipo mafioso (nota a Cass. Pen., Sez. Unite, 21.5.2003 n. 29), in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 2004, I, p. 366.
95
Circa poi l’applicabilità delle norme sul concorso di persone ai reati
associativi, la Corte ritiene che trattandosi di norme di carattere generale,
occorre verificare la loro compatibilità con le singole figure di reato. La
difficoltà di distinguere la condotta di partecipe e quella di concorrente
di un reato a concorso necessario può essere facilmente superata. Se
infatti la condotta del partecipe corrisponde alla concreta assunzione di
un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, con il
conseguente impegno di prestare un contributo alla vita del sodalizio,
non può confondersi con quella di chi apporta dall’esterno un contributo
rilevante. Il superamento dell’obiezione additata da chi si oppone ad
ammettere l’applicabilità delle norme sul concorso ai reati associativi
risponde, del resto, all’esigenza pratica di perseguire condotte di favore
alla criminalità organizzata79.
Sempre in relazione alla condotta di partecipazione, la Cassazione, in un
punto fondamentale della sentenza, respinge l’orientamento dottrinale
che assume a punto di riferimento del concorso nel reato associativo, non
l’associazione nel suo complesso, bensì la condotta di partecipazione del
singolo. La soluzione ricordata, infatti, non solo rischia di risolvere il
contributo esterno in un mero “accordo criminoso”, avulso dal rapporto
79 Fiandaca G., La tormentosa…, cit., p. 691 ss.
96
con l’associazione come entità organizzativa, ma, come alcuni autori
sottolineano, rende anche più difficile distinguere la molteplicità delle
condotte di favoreggiamento e limita il concorso esterno alle poche
ipotesi in cui sia possibile ravvisare un collegamento tra contributo
dell’extraneus e il ruolo svolto da un membro dell’organizzazione80.
In linea con l’atteggiamento della giurisprudenza successivo alla
sentenza del 1994, la pronuncia del 2003 ridimensiona in modo
significativo il rilievo attribuito alla teoria della fibrillazione, precisando,
nella motivazione, che già nella precedente sentenza: “l’argomento della
fibrillazione viene ad assumere, in definitiva, più che altro carattere
esemplificativo”. Pur ammettendo, infatti, che il contributo esterno possa
verificarsi ricorrendo uno “stato di necessità” dell’ente, il contributo
medesimo non è necessariamente collegato ad una crisi strutturale e non
altrimenti superabile dell’organizzazione, sottolineando, in via
conclusiva, che “la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo
dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita
dell’associazione”81.
Il vero problema sta invece, secondo la Suprema Corte,
nell’individuazione del “livello di intensità o di qualità” minimo ed
80 De Francesco G., I poliedrici risvolti di un istituto senza pace, in Legislazione Penale, 2003, p. 704. 81 De Francesco G., I poliedrici risvolti…, cit., p. 707.
97
idoneo a considerare il concorso dell’agente esterno come concorso nel
reato associativo. Muovendo dalla sentenza Demitry, che contrappone
alla figura del partecipe quella del concorrente esterno, gli elementi
caratteristici del contributo concorsuale esterno non possono che
ricavarsi dal confronto con il contributo di partecipazione. Perciò il
contributo richiesto al concorrente esterno “deve poter essere apprezzato
come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a
determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento
dell’organizzazione”. Si tratti di attività continuativa oppure occasionale,
secondo la Corte ciò che rileva è che risulti idonea a conseguire quel
risultato. Tuttavia non è ben chiaro, nel modo di argomentare della
Cassazione, se tale giudizio, inerente al contributo, debba essere espresso
ex post oppure ex ante, sebbene quest’ultimo sembri il criterio prescelto.
Proseguendo nel ragionamento, se il concorso esterno manca quando c’è
partecipazione, lo stesso può dirsi per il caso in cui i sui requisiti non
siano compiutamente realizzati. In questa prospettiva la Cassazione
individua, in via esemplificativa, alcune ipotesi quali la “contiguità
compiacente”, la “vicinanza” e la “disponibilità” che considera
giuridicamente irrilevanti, perché non in grado di produrre di per sé un
98
oggettivo apporto al rafforzamento o consolidamento dell’associazione82.
Altro punto di rilievo della sentenza è quello in cui la Corte nega che la
condotta del concorrente esterno e quella del partecipe interno siano
indistinguibili tra loro per il fatto di essere entrambe descritte secondo
una medesima tecnica di “tipizzazione causale”. A giudizio della
Cassazione, ad essere errata è proprio la premessa, e cioè che le due
figure siano individuate dalla medesima dinamica di tipizzazione
causale. Se infatti si è concordi con l’idea, sostenuta da buona parte della
dottrina, che a configurare una condotta come partecipativa è sufficiente
la stabile assunzione di un ruolo nella struttura organizzativa, perché già
da sola in grado di accrescerne le potenzialità criminali, di causalità si
può parlare solo rispetto alla condotta del concorrente esterno. Questo
perché unicamente nel concorso esterno è necessario accertare in
concreto che la condotta del terzo abbia rafforzato o potenziato l’ente
criminale.
La Corte non manca neanche di svalutare gli “argomenti sistematici”
utilizzati dai fautori della tesi negazionista per desumere la non
configurabilità del concorso esterno. Non solo perché le espresse
previsioni legislative, relative a condotte agevolative realizzate da
82 Denora G., Sulla qualità di concorrente…, cit., p. 366 ss.
99
soggetti esterni, non coprono tutte le ipotesi rilevanti, ma anche perché lo
stesso dettato dell’art. 418 del Codice Penale è ricorrente argomento a
conferma dell’ammissibilità del concorso esterno83.
Infine, passando alle problematiche relative alle cosiddette condotte di
aggiustamento dei processi di mafia ad opera di un magistrato
compiacente, che, come preannunciato, ineriscono al caso di specie, il
ragionamento della Corte non appare ai più persuasivo. Se l’evento
consiste nella sopravvivenza o nel rafforzamento dell’associazione,
occorre distinguere tra il contributo isolato e quello reiterato. Nel primo
caso, l’evento che concreta la condotta del concorrente esterno si verifica
se ricorre l’esito favorevole della condotta, cioè l’aggiustamento del
processo. Nel secondo caso, l’idoneità del contributo del soggetto
esterno andrebbe ravvisata “proprio nella reiterata e costante attività di
ingerenza”, perché il rafforzamento dell’associazione è riscontrabile
nella consapevolezza dei suoi membri di poter contare su un apporto
stabile di un soggetto operante nelle istituzioni giudiziarie. Molte le
critiche mosse a questo punto della sentenza, la più ricorrente quella che
sostiene che il reiterato atteggiamento di favore del magistrato, del tutto
privo di risultati concreti, più che produrre un rafforzamento potrebbe
83 Denora G., Sulla qualità di concorrente…, cit., p. 359 ss.
100
legittimamente produrre un effetto di indebolimento del sodalizio
criminale84.
Entrambe le sentenze delle Sezioni Unite, quella Demitry del 1994 e
quella Carnevale del 2003, sono intervenute in momenti in cui forte era
il dibattito e le critiche mosse all’istituto del concorso eventuale in
associazioni di tipo mafioso, ribadendone, con vigore, l’esistenza e
l’importanza. La sentenza Carnevale, che contesta in maniera
sistematica le critiche rivolte alla pronuncia precedente, pur modificando
in modo significativo alcuni principi di diritto enunciati in quella, non
sconfessa mai la decisione del ’94, consentendo di individuare tra le due
una linea di continuità e semmai di logica evoluzione85.
12. Segue: l’elemento soggettivo del concorrente esterno
In un punto del ragionamento il distacco tra le due pronunce sembra
assumere caratteri significativi, tali da rendere, in argomento, la sentenza
Carnevale, decisamente innovativa. Si tratta delle conclusioni cui questa
perviene in materia di elemento soggettivo del concorrente esterno.
84 De Francesco G., I poliedrici risvolti…, cit., p. 707. 85 Grosso C.F., Il concorso esterno nel reato associativo: una evoluzione nel segno della continuità, in Legislazione Pen., 2003, p. 687.
101
La prima considerazione, relativa al partecipe, è comune, poiché il dolo
del partecipe è, per entrambe le sentenze, caratterizzato dalla
consapevolezza e volontà di associarsi con lo scopo di contribuire alla
realizzazione del programma dell’associazione. Condivisione tra le due
si riscontra anche riguardo alla premessa che, al dolo del concorrente, a
differenza di quello del partecipe interno, manca l’ affectio societatis, e
cioè la volontà di far parte integrante del sodalizio. La divergenza
emerge, invece, con evidenza in relazione all’elemento soggettivo del
concorrente esterno, poiché la sentenza Carnevale condivide solo in
parte l’argomentazione della decisione Demitry. Quest’ultima ritiene che
il dolo del concorrente esterno si concreti nella coscienza e volontà di
fornire un contributo vantaggioso per l’associazione, a prescindere dalla
condivisione degli obiettivi e della strategia complessiva della stessa,
condivisione che può sussistere ma che non è affatto richiesta. Ed è
proprio il punto del discorso relativo al rapporto tra il concorrente
esterno e gli scopi del sodalizio, che, nella sentenza del 2003, viene
diversamente elaborato. La Corte di Cassazione nella più recente
decisione riconosce al concorrente esterno un dolo specifico che, anche
se non si estende all’affectio societatis, si configura come un dolo
diretto, proiettato non solo verso la realizzazione di un contributo
102
significativo, ma anche verso la realizzazione del programma criminoso,
magari anche parziale86.
Questa conclusione, tuttavia, non solo deroga alla disciplina generale
della compartecipazione criminosa, che ritiene possibile il concorso con
dolo generico nei reati a dolo specifico, ma in aggiunta, separato il dolo
specifico dalla volontà di far parte dell’associazione, questo finisce con
l’apparire un dato meramente interiore, data la difficoltà di individuare
un rapporto tra il fine indicato e la condotta del soggetto esterno87.
13. Conclusioni e prospettive di riforma
Il vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza e la sovente difficoltà di
tracciare con certezza i presupposti e i limiti dell’istituto del concorso di
persone, hanno generato la proposizione di differenti soluzioni del
problema, alcune delle quali meritano di essere ricordate.
Così, Denora, auspica che si giunga ad una espressa incriminazione
legislativa della condotta del concorrente esterno, che abbia ad oggetto il
contributo concreto, utile alla conservazione o al rafforzamento
dell’associazione e che sia comunque diretto alla realizzazione, anche
86 Fiandaca G., La tormentosa…, cit., p. 695 ss. 87 De Francesco G., I poliedrici risvolti…, cit., p. 708 ss.
103
parziale, del programma criminoso della stessa. In relazione alla utilità
del contributo, in termini di efficacia causale, si dovrebbero configurare
due ipotesi di sostegno. La prima, riferita ad un sostegno di minima
rilevanza, cui corrisponderebbe una pena ridotta. La seconda, relativa
invece ad un contributo “salvifico” perché rilevante rispetto alle sorti
dell’ente criminale, cui corrisponderebbe una pena maggiore rispetto alla
prima, eventualmente equiparata a quella del partecipe. Tale tipizzazione
delle diverse forme di contiguità alla mafia vedrebbe però come
necessaria l’inapplicabilità delle norme sul concorso di persone ai reati
associativi88.
Diversamente Grosso, anche in veste di Legislatore, quale Presidente
della Commissione parlamentare investita del compito di riformare la
parte generale del Codice Penale, mostra la sua contrarietà alla
elaborazione normativa di specifiche figure di reato, e ciò a causa della
difficoltà di prevedere compiutamente ogni forma di contiguità
associativa meritevole di punizione. Ne consegue che l’autore ritiene
preferibile continuare ad avvalersi dell’apparato legislativo esistente, che
applica ai reati associativi l’istituto generale del concorso di persone nel
reato. E quanto poi alla “zona grigia” tra la condotta concorrente e la
88 Denora G., Sulla qualità di concorrente…, cit., p. 369 ss.
104
condizione di chi è vittima della mafia, non rimane che, ravvisata
l’incapacità della legge di fornire un contributo risolutivo, affidarsi alla
valutazione del giudice confidando nella sua capacità di garantire la
giustizia89.
Degna di considerazione per la sua precisione è la proposta del Visconti
di introdurre una apposita figura criminosa che punisca autonomamente
la contiguità mafiosa. Una proposta tanto più interessante in quanto si fa
carico di distinguere, appunto, le forme di contiguità dalle condotte di
partecipazione all’associazione.
Secondo l’autore, risponde di partecipazione, chiunque risulti
stabilmente inserito in una associazione di tipo mafioso e perché tale ne
condivide gli scopi. Fuori dai casi di partecipazione e salvo che la
condotta integri un reato più grave, è punito con la reclusione da due a
cinque anni chiunque, strumentalizzando il ruolo ricoperto in enti
pubblici o privati oppure l’esercizio di una professione o di una attività
economica, si adoperi per avvantaggiare una associazione di tipo
mafioso. In questi ultimi casi si applica la pena della reclusione non
inferiore a tre anni quando alla condotta indicata consegue il risultato
vantaggioso per l’associazione. Negli stessi casi, tuttavia, non è punibile
89 Grosso C.F., Il concorso esterno…, cit., p. 690.
105
chi, in presenza di concrete minacce o del pericolo concreto di violenze
da parte dell’associazione, agisca al fine di salvare sé o un proprio
congiunto da un grave nocumento alla persona, ovvero al fine di evitare
un danno patrimoniale di così rilevante entità da compromettere
l’esercizio della propria impresa o professione90.
90 Visconti C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, Giappichelli, 2003.
106
CAPITOLO III La mafia locale e la mafia globale: dal pizzo all’impresa a partecipazione mafiosa Sommario: 1. Il livello locale e i processi di radicamento e di ricerca del potere. Il livello globale e i processi di espansione e di accumulazione delle ricchezze - 2. L’archetipo dell’impresa mafiosa: elementi strutturali, modalità di funzionamento, settori interessati. - 3. Segue: la contraddizione interna di tale modello di impresa e il suo superamento. - 4. Il processo di legalizzazione/mimetizzazione dell’impresa di proprietà del mafioso e di diversificazione degli investimenti. - 5. L’impresa a partecipazione mafiosa: ragioni strategiche e sue affermazioni. - 6. Il riciclaggio come fenomeno sotteso ad ogni modello di impresa mafiosa. - 7. La Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 20.2.2008: in particolare il ruolo della ‘ndrangheta nell’economia locale. 1. Il livello locale e i processi di radicamento e di ricerca del potere. Il livello globale e i processi di espansione e di accumulazione delle ricchezze A volere ripercorrere brevemente ma in maniera attenta la storia della
mafia dalle sue origini ai nostri giorni, emerge con grande chiarezza la
sua capacità di rinnovamento e di espansione. Seguendo queste due
direttrici è possibile delineare l’iter evolutivo del fenomeno mafioso e
leggerne la sua adesione alla realtà in cui opera. Conformemente a
quanto detto, alcuni autori, studiosi del fenomeno, parlano di una
radicale trasformazione di esso collocata negli anni Sessanta che, però,
107
lungi dal segnare una rottura col passato, traccia una linea di continuità,
pur nel cambiamento.
L’organizzazione di tipo mafioso è, da sempre, collocata e radicata
fortemente nel territorio, tuttavia una delle caratteristiche più recenti
delle mafie storiche italiane è proprio la capacità di espansione
territoriale, oltre che finanziaria. Nata in contesti territoriali dotati di
relative opportunità di sviluppo, come la Piana di Gioia Tauro in
Calabria e l’area palermitana in Sicilia, ricorre all’uso della violenza per
accedere alle risorse del luogo e poi al controllo del territorio per
arricchirsi. Lo strumento di cui la mafia si avvale per affermare la sua
“signoria territoriale” è quello della protezione-estorsione. Il mafioso,
infatti, nelle aree di diffusione tradizionali si specializza nell’offerta di
protezione e cerca di mantenere alta la domanda, incrementando lui
stesso, attraverso l’uso della violenza, la sfiducia. In questo senso quanto
più l’organizzazione diventa, in un dato territorio, meccanismo di
regolazione economico-sociale o meglio di ordine locale, tanto più
radica il suo potere su base territoriale.
L’estorsione è dunque, strumento di accumulazione di ricchezza, alle
origini quasi esclusivo; meccanismo di regolazione dell’economia locale,
che rende operativo il controllo del territorio; mezzo che vale a misurare
108
la fama criminale e quindi a legittimare il gruppo; base attraverso cui si
forma e si accumula il “capitale sociale” della mafia. I contrasti fra e
dentro le cosche sono spesso originati dal controllo del sistema estorsivo,
perché questo delimita la zona di pertinenza della cosca ed è lo
strumento principale attraverso cui il gruppo controlla l’economia locale.
Esso è quindi primariamente sintomo di una specificità territoriale, in un
contesto storico in cui la mafia è fenomeno di società locale.
In diversi luoghi, poi, l’interazione con altre categorie sociali favorisce il
processo di radicamento nel territorio. In particolare, i legami con il
sistema politico hanno costituito storicamente un punto di forza per le
organizzazioni mafiose; la corruzione di elite locali, pronte in cambio di
consenso elettorale a venire a patti coi mafiosi, permette l’inserimento di
questi ultimi nel settore degli appalti pubblici, che è di grande interesse
per le organizzazioni criminali perché fortemente legato al controllo del
territorio.
La mafia quindi, da tempi remoti, è distinguibile da altre forme di
criminalità organizzata in virtù del patrimonio relazionale di cui si
avvale, che si caratterizza per il fatto che i legami che lo concretano sono
interdipendenti, così riuscendo, o per necessità o per convenienza, ad
ottenere la cooperazione di altri soggetti ad essa esterni.
109
In questa fase di economia locale della mafia il controllo degli appalti e
del racket delle estorsioni è misura del processo di radicamento, la
cooperazione e lo scambio coi ceti politici ed istituzionali è sintomo
della ricerca di potere91.
A fronte di questo potere sul territorio, per mantenere il quale la mafia è
pronta a sostenere costi elevati, diversi elementi indicano che siamo in
presenza di una tendenza alla “globalizzazione dell’economia
criminale”. Gli assetti della criminalità organizzata risentono degli effetti
della globalizzazione almeno sotto due diverse prospettive: da una parte
la globalizzazione favorisce l’interdipendenza tra gruppi criminali
diversi, la finanziarizzazione della loro attività e le commistioni tra
criminalità mafiosa e criminalità economica; dall’altra, determinando
l’indebolimento della politica e un rafforzamento dell’economia,
potrebbe offrire un nuovo spazio alla mafia che, sostituendosi ai governi,
può costituire in questi contesti territoriali una valida alternativa a un
deficit di regolazione politica dell’economia. Questo processo di
deterritorializzazione del crimine organizzato non comporta
l’allentamento dei rapporti con il territorio di riferimento, che resta di
rilevanza fondamentale perché consente la riproduzione di quei fattori
91 Sciarrone R., Mafie vecchie, mafie nuove, Roma, Donzelli, 1998, p. 23 ss.
110
originari o tradizionali che hanno bisogno di tempi più lunghi per
svilupparsi e consolidarsi92.
Il fatto poi di evitare conflitti per la sovranità territoriale potrebbe
spiegare alcuni tentativi di colonizzare nuovi territori, mediante
un’espansione che non solo ha seguito direttrici nazionali ma anche
sopranazionali, interagendo con l’economia legale e con quella
criminale. Nella sfera legale dell’economia, in cui spesso confluisce il
denaro sporco della mafia, i settori privilegiati oltre all’agricoltura e
all’edilizia sono soprattutto quelli protetti, in cui l’esercizio dell’attività è
subordinato ad autorizzazioni, concessioni, nulla osta della Pubblica
Amministrazione e, quindi, i settori delle infrastrutture e dei servizi
pubblici. In tali settori la mafia creando posti di lavoro, mentre in realtà
comprime le occasioni di sviluppo legale, accresce il suo consenso93.
Nel contesto invece dell’economia criminale, nazionale ed
internazionale, si ipotizza che i gruppi mafiosi maggiormente
organizzati, possano assumere un ruolo primario come garanti dei patti e
dei contratti conclusi. In questi traffici la criminalità mafiosa viene a
contatto con gruppi di criminalità ordinaria e l’associazione tra le due
92 Sciarrone R., Mafia e imprenditori in tempi di globalizzazione, in Questione Giustizia, 2002, I, p. 525 ss. 93 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 34 ss.
111
può assumere forme diverse, alle volte infatti è possibile che i secondi
vengano inglobati nella prima, così come rapporti affaristici con
elementi non mafiosi possono prevalere sulla solidarietà mafiosa.
Sempre a livello internazionale la criminalità organizzata effettua sempre
più frequenti investimenti nei grandi flussi finanziari e ciò soprattutto per
la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali; per la dilatazione
e smaterializzazione delle transazioni finanziarie; per la sempre
maggiore affidabilità dei paradisi fiscali. In conclusione, nelle zone di
insediamento tradizionali, la ricerca di potere che si traduce in controllo
del territorio, sono obiettivi prevalenti rispetto a quelli economici; in
quelle non tradizionali scopo primario è l’accumulazione di ricchezza94.
2. L’archetipo dell’impresa mafiosa: elementi strutturali, modalità di funzionamento, settori interessati Il rapporto tra mafia ed imprenditori viene posto al centro di importanti
inchieste giudiziarie tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni
Ottanta; questi documenti giudiziari provano la scelta compiuta dalla
mafia negli anni ’60 e ’70 di affiancare alle tradizionali e risalenti attività
illecite, nuove attività produttive, che sveleranno una sorta di
“vocazione” imprenditoriale delle consorterie mafiose.
94 Sciarrone R., Mafia e imprenditori…, cit., p. 527 ss.
112
In particolare in Sicilia e in Calabria, dalla seconda metà degli anni ’60
in poi la criminalità mafiosa intraprende attività economiche di tipo
legale; diversamente in Campania la svolta imprenditoriale matura alla
fine degli anni ’70. Tale impresa criminale-legale può essere definita la
forma originaria o archetipa di impresa mafiosa. In questo periodo le
consorterie mafiose storiche affiancano alle attività consuete, quali
l’esproprio dei raccolti nelle campagne, le guardianie e il pizzo, altre
attività, che creano le basi per il successivo passaggio costituito dalla
formazione dell’impresa di proprietà del mafioso. Un periodo di
accumulazione del capitale precede dunque la formazione dell’impresa
mafiosa; in questo periodo la criminalità organizzata sviluppa
l’intermediazione speculativa sulle aree agricole o urbane, acquista a
basso prezzo o si impossessa di terreni fabbricabili, espropria ai privati
strumenti di lavoro e soprattutto, indipendentemente dal servizio di
protezione, la richiesta di mazzette “una tantum” accresce il patrimonio
mafioso.
A questo periodo si collega anche la terribile pratica dei sequestri di
persona, che diventa sistematico strumento di finanziamento di imprese
mafiose calabresi, a tal punto che ad ogni investimento pubblico
annunciato per un certo territorio, corrispondono, quasi
113
simultaneamente, uno o più sequestri di persona. Dal 1970 al 1977 in
Calabria si sono verificati decine di sequestri, ventuno nella zona di
Palmi, sette nel reggino, otto nel comprensorio di Locri; altri ancora
vengono compiuti da calabresi in altre regioni, soprattutto in Lombardia.
La liquidità di denaro proviene anche dalla lucrosa attività del
contrabbando di sigarette.
Alla fase di accumulazione segue una fase di investimento. Il capitale
mafioso non è più investito soltanto, come tradizionalmente avveniva, in
beni immobili, ma viene spesso messo in circolazione ed impegnato in
attività produttive lecite, al fine di una sua ulteriore valorizzazione e
moltiplicazione. Dapprima le imprese mafiose, ancora prive di
autonomia, gestiscono fasi del ciclo produttivo che fa capo ad altre
imprese legali, ma in pochi anni si ritagliano uno spazio autonomo di
attività distinto dalle vecchie imprese.
La criminalità organizzata è in questa fase assolutamente lungimirante,
realizza con questa nuova strategia di intervento nell’economia tre
distinti obiettivi. Individua uno strumento più moderno di riciclaggio del
denaro; reinveste e moltiplica il capitale; legittima il nuovo potere
economico e anche politico dell’organizzazione criminale.
114
Raimondo Catanzaro ne “Il delitto come impresa” individua due
parametri che a suo giudizio valgono a dimostrare la mafiosità
dell’impresa. Il primo tiene conto della natura, lecita o illecita,
dell’attività svolta. Il secondo, invece, dei metodi pacifici o violenti usati
nella competizione economica. Tuttavia Enzo Fantò, partendo
dall’analisi di alcune realtà mafiose le cui attività sono lecite e i cui
metodi formalmente legali, adotta una diversa nozione di impresa
mafiosa. Ciò che rende l’impresa mafiosa non è il tipo di attività svolta
ma, da una parte, il fatto che il suo capitale è, in tutto o in parte, frutto di
attività di natura criminale, dall’altra, la circostanza che la sua forza
competitiva è costituita essenzialmente dalla forza di intimidazione del
vincolo associativo, che costituisce insieme il suo retroterra e il suo
principale strumento di affermazione sul mercato.
Caratteristica è anche la modalità di funzionamento dell’impresa mafiosa
originaria, che risulta con evidenza, assolutamente peculiare. In primo
luogo è di grande centralità la figura del mafioso imprenditore, l’impresa
è sempre identificata con la sua persona e in lui convivono, anche a
livello pubblico e sociale, la figura di colui che realizza traffici criminali
e quella di chi gestisce attività economiche lecite. La conduzione
dell’azienda coinvolge tutto il nucleo familiare, ruoli familiari e ruoli
115
economici sovente coincidono di modo che, per questo, il capo famiglia
proprietario dell’impresa valuta ed effettua gli investimenti e si impegna
direttamente nell’attività, costruendo le relazioni esterne necessarie e
decidendo dell’uso della forza. Se lecito è quindi il prodotto dell’attività
dell’impresa, ha natura illecita e violenta la modalità di accumulazione
del capitale necessario ai fini dell’avviamento dell’azienda, e violenti
sono anche gli strumenti adoperati per far desistere le imprese
concorrenti. In questi tipo di attività l’uso della violenza è, infatti,
precondizione dell’acquisizione di una posizione di mercato, la misura
della capacità produttiva dell’impresa è lo strumento di regolazione dei
rapporti con le imprese dello stesso settore.
Questo mutamento di fase che si riscontra nella storia delle
organizzazioni di stampo mafioso non è avulso dalla situazione
contingente, ma è semmai il risultato di una scelta calcolata e
opportunistica che è legata alla storia del Meridione d’Italia. L’idea della
mafia di puntare, negli anni ’60 e ’70, sul settore dell’edilizia, dei lavori
pubblici e delle attività redistributive, è strettamente legata ai molti
finanziamenti pubblici a favore del Meridione, che facendo di questo
comparto il più redditizio dell’economia delle regioni del Sud, si
risolvono spesso nella principale fonte di approvvigionamento
116
dell’impresa mafiosa. Se quindi fino a quegli anni la mafia ha servito in
modo subalterno la politica, ora individuata questa nuova fonte di
guadagno, si aggrega a quel nuovo ceto politico che punta a costruire le
basi del suo consenso e del suo potere attraverso la fraudolenta gestione
dei fondi pubblici.
Anche rispetto all’impresa, se prima le consorterie mafiose si erano
accontentate dei ricavi provenienti dal sistema delle guardianie o
comunque di spazi marginali nell’azienda, adesso allargano i loro ambiti
operativi, intraprendendo attività imprenditoriali e inserendosi così nel
ceto dominante della città. Si costituisce quindi, e si consolida un
rapporto di interdipendenza tra mafia, impresa legale e politica; alleanza
fatta di scambi e favori reciproci e in cui ogni parte si assicura lucrosi
guadagni. Il politico, garantendosi così ampi consensi, appalta lavori
all’impresa legale, questa, riducendo le sopravvivenze parassitarie e
improduttive, ne subappalta una parte al mafioso, che accresce le sue
risorse finanziarie e individua un nuovo campo di investimento delle
liquidità derivanti dalle attività criminali.
Sono non a caso questi gli anni della speculazione edilizia urbana, del
deturpamento delle coste e delle grandi opere incompiute95.
95 Fantò E., L’impresa a partecipazione mafiosa, Bari, Dedalo, 1999.
117
Alcuni esempi chiariscono l’entità del fenomeno.
Negli anni ’70 e ’80 si colloca l’attività imprenditoriale
dell’imprenditore di Palermo Rosario Spatola. Costui, stando alla
sentenza di G. Falcone del 1982, fa parte della consorteria mafiosa che fa
capo a Salvatore Inzerillo, ed è identificato come colui che investe nel
settore edilizio i proventi illeciti del clan. Questa attività spiega la rapida
e sorprendente ascesa imprenditoriale di Spatola, che nel l969 realizza
opere per poche decine di milioni di lire, nel 1978 ottiene la cessione di
un appalto per la costruzione di alloggi popolari per più di dieci miliardi
di lire. Negli stessi anni una grande impresa, la Delta, vince le gare
d’appalto per la costruzione di alloggi popolari nel quartiere palermitano
dello Sperone, le difficoltà finanziarie costringono la Delta a rinunciare,
ma l’impresa designata per sostituirla, la Tosi, subisce molti attentati; lo
IACP, affida quindi l’appalto a Spatola che, come risulta dall’inchiesta
giudiziaria, effettua una versamento a favore del Consiglio di
Amministrazione dello IACP di trenta milioni di lire.
È noto, del resto, il rapporto, un decennio prima, tra la formazione delle
imprese mafiose e il “sacco”, di Palermo, durante la sindacatura di Lima
e di Ciancimino. L’inchiesta del Prefetto Beverino, avviata nel 1963,
svela che l’80 per cento delle licenze edilizie del Comune di Palermo è
118
stato rilasciato e cinque costruttori, e che il piano regolatore adottato dal
Consiglio Comunale ha legittimato una speculazione che ha
gradualmente distrutto buona parte del patrimonio monumentale della
città e cementificato l’intera piana di Palermo, una volta, invece,
coltivata ad agrumi96.
In Calabria è emblematico il caso di Gioia Tauro. L’affermazione
imprenditoriale della mafia calabrese avviene con i lavori dell’autostrada
Salerno-Reggio C. negli anni ’60, con quelli relativi allo sbancamento
del porto di Gioia Tauro, in prospettiva della costruzione del V° centro
siderurgico, e con i lavori per il raddoppio della linea ferrata Reggio-
Villa San Giovanni, agli inizi degli anni ’70.
Durante la realizzazione dei lavori dell’autostrada la mafia calabrese si
infiltra nel settore imprenditoriale, avocando alle sue ancora embrionali
imprese le attività di trasporto, di produzione di calcestruzzo e di
fornitura di materiale alle grandi imprese nazionali che hanno vinto le
gare d’appalto. Il criterio di ripartizione tra le famiglie mafiose coinvolte
è quello della “competenza territoriale”. Qualche anno più tardi, in vista
dei preannunciati investimenti riguardanti il porto e il V° centro
96 Santino U., Mafia, impresa e sistema relazionale (da Journees d’etude sur la mafia, 2001), in www.centroimpastato.it
119
siderurgico, i mafiosi cominciano ad acquistare terreni che pagano a
basso prezzo ai vecchi proprietari per poi rivenderli allo Stato il triplo
del valore effettivo. L’appalto per la realizzazione del porto, indetto nel
1974, è stato il più elevato fra quelli fino ad allora realizzati in Italia.
La sua costruzione, che ha provocato la distruzione di oltre settecento
ettari di agrumi e duecento di uliveti, che si caratterizza come un
terminal in cui si svolge il trasbordo da una grande nave madre, che
svolge servizi transoceanici, a navi feeder più piccole che distribuiscono
in container in una serie di porti satelliti; è costata oltre mille miliardi di
lire e il porto è rimasto inutilizzato fino ai primi anni ’90.
Nel frattempo il progetto relativo alla realizzazione del centro
siderurgico a ciclo integrale, che avrebbe dovuto occupare più di
settemila lavoratori, è stato abbandonato.
In tutti questi investimenti le infiltrazioni delle cosche mafiose locali
ritardano la conclusione dei lavori, fanno lievitare in misura consistente
il costo dell’opera, caricato dai profitti dei clan e alle volte, con ciò
provocando notevoli danni economici ad enti pubblici e aziende private,
inducono a desistere dalla realizzazione del progetto97.
97 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 53 ss.
120
Diversa è invece l’esperienza della camorra. Negli anni ’60 la mafia
napoletana è molto lontana dalla capacità di sviluppo e di organizzazione
della mafia siciliana e, ancora negli anni ’70, l’unico rapporto
intercorrente tra la mafia e l’imprenditoria è solo quello legato alla
pratica sistematica delle estorsioni; specie da quando Cutolo, capo
dell’organizzazione, ha deciso di attribuire un assegno mensile alle
famiglie degli affiliati detenuti.
Agli inizi degli anni ’80 due fenomeni di grande rilievo modificano la
natura di questo rapporto: da una lato, gli investimenti colossali nel
settore edilizio, tradizionalmente poco sviluppato, a causa dei miliardi
destinati alla ricostruzione post-terremoto, i quali sono fraudolentemente
gestiti dagli enti locali; dall’altro, la crisi dell’organizzazione cutoliana
con il suo isolamento a l’Asinara e l’ascesa di nuovi leaders, Zaza,
Nuvoletta e Bardellino, che mutuano le tendenze criminali di Cosa
Nostra e danno alla camorra un volto imprenditoriale. In questo contesto
si realizza prima l’incontro e poi l’accordo tra mafia locale e istituzioni
politiche; questo permette alla camorra di penetrare in spazi prima ad
essa preclusi, che le consentono di moltiplicare i suoi capitali e di
esautorare gradualmente lo Stato del controllo di diverse fasce
territoriali. In questa fase, potere politico e potere criminale condividono
121
le medesime sfere di interessi: dapprima i piani di sviluppo edilizio, il
mercato della manodopera, la distribuzione dei fondi CEE per
l’agricoltura; poi, dopo il terremoto, gli appalti pubblici e l’attività di
ricostruzione, per la quale vengono stanziati trenta miliardi di lire98.
Ipotesi frequente nel napoletano risulta l’usurpazione del controllo e
sovente della stessa titolarità dell’impresa legale da parte
dell’organizzazione criminale, ciò per tre ordini di ragioni. I tassi usurai
praticati agli imprenditori da parte delle bande Zaza, Nuvoletta e
Bardellino, la cui liquidità aumenta a seguito dell’inserimento nel
traffico degli stupefacenti; la mancanza di solidità finanziaria delle
imprese, spesso dipendenti da finanziamenti pubblici e la cui assenza
getta l’azienda in una fase di crisi; una situazione di tendenziale illegalità
della categoria imprenditoriale.
Anche il sistema bancario e in particolare creditizio, favorisce l’impresa
mafiosa. La stabilità economica di questa, rende l’istituto di credito ben
disposto a concedere mutui e finanziamenti, magari anche a tassi di
favore, di contro, la disponibilità economica così ottenuta consente alle
aziende del mafioso di sbaragliare la concorrenza, praticando prezzi più
98 Gialanella A., Napoli: la camorra impresa e lo Stato in forma di mafia, in Questione Giustizia, 1990, p. 709 ss.
122
bassi e pagamenti a scadenze temporali più ampie. Per quanto scontato
giova ripetere che anche qui la conquista del mercato non disdegna i
metodi intimidatori99.
3. Segue: la contraddizione interna di tale modello di impresa e il suo superamento La forma originaria o archetipo di impresa mafiosa entra però presto in
crisi. Alcuni studiosi addebitano la fase di difficoltà alla attività di
contrasto dello Stato e, in particolare, alla entrata in vigore della Legge
Rognoni-La Torre. Questa definisce “impresa mafiosa” quella struttura
economico-aziendale, gestita dal mafioso o che comunque a lui faccia
direttamente capo, che ha incardinata in se la forza di intimidazione del
vincolo associativo e il cui capitale è, in tutto o in parte, frutto
dell’azione criminale. Quanto, quindi, sostenuto da questi autori è solo
parzialmente vero, perché ragione non secondaria della crisi accennata è
la contraddizione interna a questo tipo di impresa, che sarà negli anni
successivi motivo del suo superamento e della sua trasformazione.
La ragione che induce i mafiosi ad esercitare l’attività imprenditoriale è,
ovunque, la ricerca di nuovi settori per riciclare il denaro che proviene
99 Mancuso P., La camorra negli anni ’90: dalla conquista dell’impresa all’egemonia sulla società civile, in Questione Giustizia, 1990, III, p. 719.
123
dalla attività criminale e, nel contempo, la valorizzazione delle crescenti
risorse finanziarie. In che misura la mafia realizza gli scopi predetti?
L’uso di metodi intimidatori le consente di inserirsi negli interstizi delle
aziende legali; poi di gestire parti del ciclo produttivo, infine di costituire
aziende proprie, tutto questo quando l’organizzazione criminale non
usurpa addirittura all’imprenditore la proprietà dell’impresa. Ma la forza
che è motivo di ascesa in questo settore e condizione primaria della sua
affermazione è anche, sovente, motivo della sua rovina. In questo sta la
contraddizione interna. La forte identificazione dell’azienda con il
proprietario mafioso e la gestione diretta di costui, legano le sue sorti a
quelle di questo. Qualunque vicenda interessi il mafioso, la morte,
l’arresto, o la latitanza, ma anche conflitti con clan rivali o un possibile
intervento dello Stato, come le inchieste giudiziarie hanno dimostrato,
pregiudica le sorti dell’attività commerciale. Di conseguenza, la
precarietà dell’impresa e della relativa attività preclude quella, almeno
relativa sicurezza e continuità della produzione, che sono condizioni
essenziali per un suo sviluppo nel mercato legale100.
100 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 59 ss.
124
4. il processo di legalizzazione/mimetizzazione dell’impresa di proprietà del mafioso e di diversificazione degli investimenti Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta la crisi che investe
l’impresa mafiosa originaria determina l’avvio di una fase di
ristrutturazione delle attività economiche mafiose di tipo lecito;
cambiamento che condurrà ad un sistema imprenditoriale mafioso
pluralistico.
La trasformazione di quegli anni riguarda primariamente l’elemento
caratteristico dell’impresa mafiosa originaria, vale a dire la titolarità di
questa in capo al proprietario mafioso e la ricorrente identificazione tra
l’uno e l’altro. Al fine di tutelarsi dalla normativa antimafia che tende a
colpire i beni dei mafiosi, questi ricorrono ad una “escamotage” che
consente di mettere al riparo dalle iniziative punitive dello Stato imprese
e altri patrimoni, immobiliari e finanziari. In particolare, quanto alle
imprese, il mafioso ne perde la proprietà, anche se solo sotto il profilo
formale, e la trasferisce a dei prestanome; contestualmente anche le
direttive circa la gestione dell’azienda continuano ad essere risultato
delle sue decisioni, ma trovano attuazione solo attraverso gli atti del
prestanome. Tutto questo è funzionale ad uno scopo preciso, impedire
che l’azienda e soprattutto il suo capitale di origine criminale vengano
125
ricondotti al mafioso. A tal fine, almeno nella fase iniziale del fenomeno,
gli “uomini di paglia” sono membri della famiglia, che vengono utilizzati
per la gestione delle attività economiche “pulite”, o meglio delle attività
lecite in cui viene investito denaro sporco. Più tardi, a questa categoria di
prestanome si affiancano quelli “professionali”, così definiti perché
assommano alla proprietà formale dell’impresa, a fronte di riconosciute
capacità in questo settore, anche un autonomo, seppur relativo, potere di
gestione. Questo consente di allontanare ulteriormente dalla sfera di
influenza della cosca l’impresa mafiosa, cui invece rimanda la pratica di
ricorrere a prestanomi legati al mafioso da rapporti di parentela, e
consente inoltre il superamento dell’assetto individuale delle tradizionali
imprese mafiose.
L’obiettivo principale del riassetto delle imprese mafiose è quello di dare
loro una veste legale, almeno sotto il profilo formale, salvo poi il
riscontrarne la mafiosità in relazione al capitale di cui fa uso e al suo
effettivo proprietario. Inoltre, pur non abbandonando mai del tutto
metodi violenti, esse sono gestite con metodi formalmente legali.
Per acquisire questa rispettabilità le originarie imprese mafiose vengono
sostituite o, attraverso modificazione della loro configurazione
societaria, trasformate in imprese formalmente legali.
126
La legalizzazione è quindi strumentale alla mimetizzazione cui le
imprese non possono rinunciare se vogliono continuare ad operare nei
mercati legali. Per queste ragioni si assiste in questi anni a mutamenti
dell’impresa, che riguarderanno i più diversi elementi di essa. Alle volte
si assiste, allo scopo di impedire l’identificazione dei soggetti che dietro
esse si celano, al mutamento dell’oggetto o degli amministratori, ma
soprattutto si assiste alla loro trasformazione da imprese individuali in
società a responsabilità limitata o in società per azioni.
La forma della società a responsabilità limitata è quella preferita, non
solo perché il capitale necessario per costituirla è di solo diecimila euro e
perché consente conferimenti in natura e in denaro, ma principalmente
perché limita la responsabilità del socio all’ammontare del suo
conferimento. Qualsiasi configurazione societaria che consente una
ripartizione in quote o in azioni del capitale sociale è poi preferita dalla
mafia, perché garantisce dal rischi della confisca totale, dato che tale
misura riguarda le quote o le azioni del soggetto in esame e non
l’impresa nel suo complesso; anche quando, come di fatto accade, la
pluralità degli azionisti è fittizia poiché le azioni sono ancora tutte del
vecchio titolare la cui impresa è stata trasformata101.
101 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 63 ss.
127
Non meno rilevante è il mutamento, riscontrabile in questa fase di
ristrutturazione, che riguarda i settori di attività lecite cui la mafia decide
di dedicarsi. Non solo più il comparto edilizio ed i lavori pubblici, ma
anche il settore dello smaltimento dei rifiuti urbani e tossici, quello delle
aziende manifatturiere e in particolare quello della sanità. Ogni spazio di
quest’ultimo campo, dal materiale sanitario in genere, agli strumenti
chirurgici, alle apparecchiature scientifiche da laboratorio, persino alle
case di cura, interessa la mafia.
Un principio sembra trovare sempre maggiore affermazione, quello che
attribuendo scarso rilevo al settore di volta in volta interessato,
conferisce, di contro, rilevanza alle possibilità di riciclaggio e ai profitti
che una certa impresa consente di realizzare. In vista di questo scopo,
l’obiettivo non è più aumentare la produttività dell’impresa costituita per
prima, ma realizzare una diversificazione degli investimenti. La
diversificazione si realizza investendo gli utili dell’impresa-madre nella
costituzione di altre imprese; società che vivono intrecciate tra loro
attraverso una fitta rete di partecipazioni, fusioni, incorporazioni e
scorporazioni. Come tanti vasi comunicanti, che contengono debiti,
crediti, beni immobili, operazioni varie e che possono vivere
128
autonomamente o realizzare la circolazione di elementi dall’uno
all’altro102.
5. L’impresa a partecipazione mafiosa: ragioni strategiche e sue affermazioni Nel corso degli anni Ottanta l’imprenditoria mafiosa crea un nuovo
modello di impresa, quella a “partecipazione mafiosa”, che trova da
subito largo riscontro per una maggiore capacità di camuffarsi, così
sfuggendo alle investigazioni di polizia giudiziaria, e perché nullo è il
contributo degli imprenditori che subiscono la compartecipazione
mafiosa. Chiari segnali della sua esistenza provengono da più parti.
Nei primi anni ‘90, nel corso di alcune inchieste giornalistiche che
seguono alla uccisione di Libero Grassi, imprenditore palermitano che si
era pubblicamente rifiutato di pagare il pizzo ai mafiosi e aveva attaccato
l’associazione degli industriali che non l’aveva appoggiato, alcuni
imprenditori dichiarano che: “già agli inizi degli anni ’80, i boss avevano
cambiato strategia. Da alcuni di noi industriali non volevano più il pizzo
per la protezione. Pretendevano di divenire soci, in modo da avere una
copertura legale per le loro attività illecite. Nel 1986, l’allora Ministro
102 Pellegrino G., Una seduta spiritica (criminalità organizzata e imprese commerciali), in Dir. Fall. , 1993, I, p. 110 ss.
129
dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, in un intervento reso in seno alla
Commissione Parlamentare Antimafia denuncia che molti soci occulti
vengono imposti con minaccia agli imprenditori siciliani e che alcuni di
questi hanno dovuto accettare denaro di origine criminale, che era stato
versato direttamente sui conti bancari societari o su quelli personali degli
stessi proprietari. Il giudice Giovanni Falcone in occasioni pubbliche
sostiene, sul finire degli anni ’80, che i mafiosi chiedono non più solo il
pizzo, ma anche una partecipazione diretta all’impresa in qualità di socio
e la direzione della stessa.
È infatti nell’ambito della magistratura che matura per prima, nel corso
di alcuni processi degli anni ’70, la consapevolezza della formazione di
un rapporto di compartecipazione tra mafia e impresa, e bisogna
attendere quasi un decennio perché il fenomeno venga segnalato dalle
associazioni di categoria103.
L’elaborazione di meccanismi raffinati, che rendono ancora più occulto
il coinvolgimento dei mafiosi nell’attività di impresa, deriva dalla
necessità di eludere la repressione penale, fattasi ancora più incalzante a
seguito dell’introduzione, con l’art. 1 della Legge 646/1982, dell’art. 416
bis C.P., il quale prevede esplicitamente come sanzionabili penalmente
103 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 96 ss.
130
quelle attività economiche di cui la mafia ha la “gestione” o il
“controllo”, in “modo diretto o indiretto”. Il legislatore, infatti nella sua
formulazione, distingue il fine più generale di “acquisire la gestione o il
controllo delle attività economiche” dal fine più particolare e strumentale
rispetto al primo, di “acquisire il controllo di concessioni, autorizzazioni,
appalti e servizi pubblici”. Il termine “gestione” va inteso quale esercizio
di attività aventi rilevanza economica, mentre il termine “controllo”
esprime una particolare situazione di fatto, per effetto della quale si è in
grado di condizionare l’attività relativa ad un determinato settore
economico. La norma inoltre prevede che la gestione o il controllo delle
attività economiche possano assumere anche una forma indiretta, con ciò
alludendo sia alla prassi della interposizione di persona sia a quella di
ricorrere a schemi di tipo societario. In questo senso lo strumento della
“compartecipazione”, sovente utilizzato nei confronti di aziende in crisi,
consente all’organizzazione di controllare imprese che sono nate da
tempo e che, operando nella legalità, risultano rispettabili nel contesto
del mercato e insospettabili alle forze di polizia104.
Fin dall’entrata in vigore della Legge Rognoni-La Torre, la mafia mira
ad inserirsi nelle attività produttive e quindi a condizionarle dall’interno.
104 Turone G., Il delitto…, cit., p. 221 ss.
131
Partendo generalmente da un imprenditore pulito e con piccoli capitali
sociali, attraverso fusioni, trasferimenti, modificazioni di ragioni sociali
ed aumenti di capitali, crea strutture di rilevante entità; tutto questo
grazie agli ingenti capitali che provengono dalle attività criminali.
La crisi di accumulazione di capitali che investe l’impresa mafiosa
legale, e che è originata ancora una volta dalla sua contraddizione interna
tra metodi violenti e inserimento nel mercato legale, necessita di una
soluzione, che sia nel contempo rispondente anche alla necessità di
eludere le indagini patrimoniali sui capitali di provenienza illecita.
Anche questa volta, come riguardo ai modelli di impresa mafiosa
formatesi in precedenza, la necessità di mimetizzare meglio gli
investimenti comporta una trasformazione, di certo più invasiva, della
struttura imprenditoriale. Un ulteriore motivazione che induce la mafia
ad agire nel senso indicato è di tipo utilitaristico, e unitamente legata al
suo sistema relazionale e di potere sul territorio. Il sistema, infatti, della
collaborazione organica e della compenetrazione dei capitali e delle
competenze, che sta alla base della formazione di un agente
imprenditoriale unitario e comune, elimina la conflittualità permanente
dei decenni precedenti. L’imprenditore evita così che il conflitto si
radicalizzi con esiti a volte irreparabili, di modo che la cooperazione per
132
lui diviene necessitata. Così attraverso l’acquisizione di quote sociali,
formalizzate o di fatto, o la partecipazione azionaria, spesso indiretta, il
mafioso diviene comproprietario dell’impresa, della quale usa la
rispettabilità e le conoscenze tecniche e relazionali del suo
proprietario105.
I vantaggi che la mafia ottiene dall’impresa a partecipazione mafiosa
sono, allora, evidenti e molteplici: primariamente rende ancora più
occulti i canali di riciclaggio e realizza la diversificazione degli
investimenti; riesce ad inserirsi in impegnative gare d’appalto, che
richiedono la presenza di strutture adeguate e di una consolidata
esperienza; realizza il comando dell’impresa senza l’onere della
gestione; si inserisce in modo silente e penetrante nell’economia legale;
rende fisiologico il sistema relazionale con un settore nevralgico dei suoi
interessi, la quale cosa risulta funzionale al controllo del mercato locale e
quindi del territorio106.
Dal quadro tracciato, ma soprattutto dalle inchieste giudiziarie pertinenti,
notevoli risultano le differenze tra l’impresa di proprietà del mafioso e
quella a compartecipazione mafiosa. Strumento di persuasione nei
confronti dell’imprenditore pulito non è più l’intimidazione, e anche
105 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 115 ss. 106 Mastroddi E. M., Imprenditoria mafiosa e collusioni politiche nel Mezzogiorno, in www.proteo.it
133
quando l’intimidazione non manca, l’accento è però posto
principalmente sul denaro e sui vantaggi per l’impresa. Quest’ultima, a
differenza dell’impresa di proprietà del mafioso non è, almeno in
origine, proiezione del clan e dei suoi metodi, ma soggetto che assomma
alla maggiore fluidità economica di altri intensi rapporti di cooperazione
e di scambio con altre imprese legali e con le istituzioni. Il suo capitale
non è, come nell’impresa di proprietà del mafioso solo di origine
illegale, perché la provenienza è mista, in parte legale e in parte illegale.
Infine la differenza riguarda la gestione, questa non è più attribuita al
prestanome, che è tradizionalmente molto vicino al clan o un suo
familiare, ma rimane dell’originario proprietario dell’impresa legale, poi
diventata a partecipazione mafiosa. Anche se la gestione continua ad
essere in capo all’imprenditore, che diventa una sorta di manager con il
compito di massimizzare il profitto, il mafioso esercita il controllo sugli
investimenti dell’impresa, cercando di indirizzarli politicamente.
A causa di questa eterodirezione da parte del mafioso, l’interesse sulla
produttività diminuisce e l’azienda viene di frequente utilizzata per
operazioni illegali e per fatturare attività inesistenti.
134
Se poi l’impresa, per un qualunque motivo va male o entra in crisi, il
mafioso con i suoi capitali si dissocia e abbandona l’attività,
provocandone irrimediabilmente la rovina.
Un ultimo aspetto, di natura strutturale, dell’impresa a partecipazione
mafiosa, merita di essere esaminato. Essa si presenta come società di
persone o, più di frequente, come società di capitali.
Nella prima forma, quella della società di persone, la compartecipazione
si realizza attraverso due vie: o il mafioso a seguito del conferimento di
capitali o di altri servizi diviene socio mediante interposta persona,
oppure diventa socio di fatto, senza che questa sua posizione venga
formalizzata a livello legale. In entrambi i casi la compartecipazione del
mafioso è quasi sempre solo agli utili e non anche ai costi; l’ammontare
di questi utili è predeterminato dal mafioso e non è legato alla
produttività, di modo che al proprietario dell’azienda rimangono solo gli
eventuali profitti residui. Occorre precisare che queste società sono
irregolari, perché costituite in violazione del patto leonino, ed occulte
perché l’interesse mafioso è celato ai terzi e, a volte, anche ad alcuni soci
e perché rimane occulto il vero titolare di questi interessi. In entrambe le
forme di compartecipazione attraverso società di persone accade spesso
che la gestione effettiva dell’impresa si sposti al di fuori di essa, specie il
135
rapporto di fatto accentua il carattere di eterodirezione dell’impresa e la
non visibilità del socio, poiché l’assenza di un prestanome rende ancora
più difficile la possibilità di risalire alla sua presenza.
Nonostante dunque gli evidenti vantaggi che queste società rilevano ad
esse vengono spesso preferite le società di capitali, ciò per almeno tre
motivazioni. Queste consentono una maggiore mimetizzazione dei
capitali e dei soci mafiosi; circoscrivono la responsabilità di ciascun
socio al valore della sua partecipazione; permettono al mafioso di
partecipare all’impresa acquistando pacchetti azionari o quote sociali
tramite prestanome, senza necessità di stabilire un rapporto diretto con
l’imprenditore e soprattutto senza dover svelare ai soci la propria
identità107.
6. Il riciclaggio come fenomeno sotteso ad ogni modello di impresa mafiosa L’analisi riguardante l’attività di riciclaggio necessita di una preliminare
precisazione, onde comprendere la complessità del fenomeno, le
disposizioni normative che lo riguardano e le loro eventuali auspicabili
riforme.
107 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 121 ss.
136
Il riciclaggio, quale processo di pulitura del denaro sporco delle
organizzazioni criminali, ha da sempre coinvolto diversi canali operativi.
Innanzitutto esso costituisce il percorso sistematico, obbligato e
permanente di ogni forma di imprenditoria mafiosa, dalla più risalente
alla più recente. Gli affiliati del sodalizio sono i primi riciclatori, costretti
ad elaborare espedienti diversi per camuffare l’origine illegale delle loro
ricchezze e sottrarle così alle indagini di natura patrimoniale.
Secondariamente il riciclaggio è termine idoneo ad identificare la
medesima attività di trasformazione posta in essere da apposite imprese
di riciclaggio, individuali o societarie, che pur svolgendo una attività
strumentale e consequenziale a quella del sodalizio mafioso, esulano
dalla partecipazione allo stesso e dai reati fine che di quelle ricchezze
costituiscono la fonte. La distinzione operata viene tradizionalmente
esemplificata con i termini, nel primo caso prospettato, di condotte di
riciclaggio primarie, nel secondo, con quello di condotte di riciclaggio
secondarie108.
Prima però di tracciare le distinzioni, anche normative che derivano dalle
due distinte attività, occorre ripercorrere brevemente l’iter della
108 Turone G., Il delitto…, cit., p. 531.
137
disciplina medesima, che si caratterizza per il graduale e continuo
ampliamento del suo perimetro.
Il nostro apparato normativo, che si può considerare in questa materia
uno dei più avanzati tra i paesi industrializzati, è stato il primo a
prevedere la fattispecie penale di riciclaggio attraverso l’introduzione,
con il Decreto Legge 21.3.1978 n. 59, dell’art. 648 bis che si intitolava:
“Sostituzione di denaro o di valori provenienti da rapina aggravata,
estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione”.
La prima formulazione dell’art. 648 bis nasce dalla consapevolezza della
insufficienza della norma sulla ricettazione a punire i comportamenti
idonei a mascherare l’origine illecita del denaro.
La Legge 19.3.1990 n. 55 modifica la formulazione originaria
dell’articolo, introduce l’art. 648 ter, amplia il novero dei reati
presupposti attraverso l’inserimento dei delitti concernenti la produzione
e il traffico di sostanze stupefacenti, estende l’oggetto materiale del reato
che da “denaro e valori” passa a “denaro, beni e altre utilità”, inasprisce
le sanzioni e la multa.
La Legge 9.8.1993 n. 328, che ha ratificato la Convenzione di Strasburgo
dell’ 8 novembre 1990 “sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la
confisca dei proventi di reato”, ha modificato le due norme incriminatrici
138
realizzando la previsione attuale. L’intervento del 1993 ha apportato
rilevanti novità, la più importante delle quali è l’eliminazione dell’elenco
analitico dei reati presupposto. La modifica ha determinato ancora la
configurazione del reato secondo lo schema del delitto a consumazione
anticipata, quindi di pericolo; in particolare le citate figure di reato
puniscono, entrambe con la reclusione da quattro a dodici anni, chiunque
fuori dai casi di concorso: 1. “sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre
utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad
essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro
provenienza delittuosa”; 2. “impiega in attività economiche o finanziarie
denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto”.
Circa il profilo soggettivo chi commette i reati in esame deve, come
anticipato, essere un soggetto che non concorre nel delitto principale da
cui derivano i beni o le altre utilità, e deve essere a conoscenza del fatto
che i beni hanno illecita provenienza.
Partendo quindi dalla normativa attuale e dalla distinzione su esposta tra
condotte di riciclaggio primarie e condotte di riciclaggio secondarie e
complementari, risulta evidente che gli articoli 648 bis e 648 ter del
Codice Penale sono applicabili solo alle persone estranee al delitto
presupposto, e dunque al reato associativo mafioso, che hanno
139
consapevolmente realizzato atti di riciclaggio di profitti criminosi o di
reimpiego dei medesimi.
Se l’associazione di tipo mafioso concreta una dinamica criminale in
pieno svolgimento, cioè una realtà che delinque, qualsiasi atto di
riciclaggio compiuto da un associato mafioso su ricchezze derivanti
dall’attività del sodalizio costituisce condotta di partecipazione al reato
presupposto di tipo associativo, e non condotta rilevante sotto il profilo
dei due distinti reati di riciclaggio e di reimpiego. Gli articoli 648 bis e
648 ter si applicano infatti solo al di fuori dei casi di concorso nel reato
presupposto, e che per reato presupposto si intende anche quello di
associazione di stampo mafioso, oltre ai reati fine che producono illecita
ricchezza, si desume anche dal settimo comma dell’art. 416 bis, che
esulando dal reato di riciclaggio prevede la confisca obbligatoria “delle
cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato o che
costituiscono l’impiego dei predetti proventi”. Poiché cioè già il delitto
di associazione di stampo mafioso costituisce reato presupposto del
riciclaggio o di reimpiego, una stessa condotta non può essere
configurata sia come condotta partecipativa che di riciclaggio o di
reimpiego.
140
La normativa predisposta risulta così destinata a incontrare, come spesso
denunciato dalla Guardia di Finanza, abilitata a compiere le indagini
volte alla repressione del riciclaggio, molti freni, che scaturiscono dalla
difficoltà di acquisire elementi di prova che dimostrino l’autonomia della
condotta del riciclatore rispetto a quella dell’autore del reato
presupposto, specie se tale è quello di associazione di stampo mafioso109.
Per queste ragioni i magistrati, in prima linea impegnati nell’attività di
distruzione del potere finanziario della criminalità organizzata,
auspicano la riformulazione dell’art. 648 bis del Codice Penale. Questa
dovrebbe realizzare l’eliminazione della clausola di riserva contenuta
nell’articolo, che esclude la punibilità a titolo di riciclaggio per il
soggetto resosi responsabile del reato presupposto. Tale innovazione,
prevista nel “pacchetto sicurezza”, avvicinerebbe la nostra normativa a
quella di altri Paesi, come la Spagna e ai Paesi di common law, come
l’Australia e gli Stati Uniti. L’attuale formulazione della norma ha infatti
reso sostanzialmente ineffettiva la repressione del riciclaggio nel nostro
Paese, dove pochi sono i processi celebrati per riciclaggio, perché la
clausola di riserva induce ad inquadrare nell’ambito del reato associativo
109 Razzante R., Di Nuzzo U., Carano A., Contrasto al riciclaggio e al reimpiego dei proventi illeciti alla luce delle novità previste nel Disegno di Legge sulla tutela del risparmio, in Riv. Pen., 2004, II, p. 681 ss.
141
di stampo mafioso e non in quello dell’art. 648 le condotte di riciclaggio
poste in essere nell’interesse di organizzazioni criminali. Questa
circostanza comporta l’applicazione al riciclatore di un trattamento
sanzionatorio meno severo e rende più complesso l’iter che dimostra la
sua colpevolezza, date le note difficoltà probatorie connesse ai reati
associativi. A ciò si aggiunge la possibilità che si verifichino casi limite,
capaci di palesare l’inefficienza del sistema attuale come nel caso, ad
esempio, dell’imprenditore che sia già stato condannato ad una pena
modesta per una condotta associativa consistente in una generica
disponibilità in favore di una associazione mafiosa. Costui, se verrà poi
riconosciuto autore di attività di riciclaggio realizzate per la stessa
associazione nel periodo cui si riferisce la precedente sentenza, non
risponderà della condotta di riciclaggio110.
Non contempla infatti alcuna clausola di riserva riferita al reato
presupposto, così includendo sia le condotte di riciclaggio primarie che
quelle secondarie, la terza direttiva europea antiriciclaggio del 26 ottobre
2005, n. 60.
110 Ingargiola F., Valutazioni sul rapporto tra organizzazione mafiosa e sistema economico – Strategie di contrasto e possibili riforme (26 gennaio 2008), in www.giustizia.it
142
L’articolo 2, comma 1° del Decreto Legislativo 21.11.2007, n. 231 che
ha recepito la direttiva medesima fissa la seguente definizione: “Ai soli
fini del presente decreto le seguenti azioni, se commesse
intenzionalmente, costituiscono riciclaggio: a) la conversione o il
trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi
provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale
attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni
medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi
alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni; b) l’occultamento o la
dissimulazione della natura reale, provenienza, ubicazione, disposizione,
movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo
a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una
partecipazione a tale attività; c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione
di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali
beni provengono da una attività criminosa o da una partecipazione a tale
attività; d) la partecipazione ad uno degli atti di cui alle lettere
precedenti, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di
perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a
commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione”.
143
Altra novità di rilievo introdotta in materia di riciclaggio dall’art. 63 del
predetto Decreto Legislativo è l’introduzione dell’art. 648 quater del
Codice Penale. Questa disposizione non solo rende obbligatoria in ogni
caso la confisca, anche “per equivalente”, dei beni che costituiscono il
prodotto o il profitto di uno dei delitti previsti dall’art. 648 bis e 648 ter,
ma al terzo comma prevede anche il grosso vantaggio di consentire al
Pubblico Ministero la prosecuzioni delle indagini patrimoniali in materia
di riciclaggio fino alla conclusione del dibattimento di primo grado, che
si applica anche se manca la prova della dimensione transnazionale dei
delitti di riciclaggio e di reimpiego111.
7. La Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 20.2.2008: in particolare il ruolo della ‘ndrangheta nell’economia locale La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, presieduta dal
dott. Francesco Forgiane e pubblicata il 20.2.2008, ha fornito una
disamina articolata e illuminante dello stato attuale della mafie italiane, e
delle loro molteplici forme ed implicazioni.
La centralità assunta, nell’attività della Commissione, dal tema
dell’aggressione delle mafie al sistema economico ha posto la questione
111 Turone G., Il delitto…, cit., p. 522 e 539.
144
fondamentale del rapporto tra impresa e criminalità mafiosa. La
necessità delle mafie, seguita ad una accumulazione di capitali
inimmaginabile, di individuare canali economici in grado di realizzare il
riciclaggio ed il reimpiego dei medesimi, ha generato un forte interesse
delle consorterie mafiose per l’attività di impresa. Così, alle volte le
strutture economiche di cui le mafie si avvalgono per realizzare queste
attività sono parte integrante delle stesse organizzazioni criminali, altre
volte, invece, si realizza un connubio scellerato tra le une e le altre, fatto
di scambi e vantaggi reciproci. In questo contesto le imprese che si
asservono alla mafia, così disponendo di grandi capitali di illecita
provenienza, alterano le regole del mercato, nel quale finiscono per
operare in posizione di privilegio. Questo meccanismo, che costituisce
una minaccia concreta per la sicurezza, l’ordine pubblico, oltre che per il
sistema economico, mortifica le imprese legali, che hanno spesso
difficoltà nell’accedere al credito e che si vedono quindi costrette a
ricorrere a prestiti usurai. Questi ultimi, cui ricorrono soprattutto piccoli
artigiani e commercianti, divengono così ulteriore meccanismo che
consente l’infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto
imprenditoriale e legale.
145
Dalle audizioni svolte dalla Commissione in Sicilia, in Calabria e in
Campania, è emerso in modo drammatico la condizione di
un’imprenditoria che spesso convive, silente o vittima, collusa o
intimidita, con il potere pervasivo delle mafie. La questione riguarda
innanzitutto il Mezzogiorno, ma tocca indubbiamente il sistema
economico nazionale.
I dati ISTAT, relativi al 2005, rivelano che: il PIL del Mezzogiorno è
pari a meno di un terzo di quello del Centro-Nord, e meno di un quarto
del PIL nazionale. Il PIL, invece, pro-capite del Centro-Nord è di
25.000€, 14.000€ quello del Sud.
Secondo la Commissione la scarsa capacità del Mezzogiorno di attrarre
capitali, e quindi di dare impulso al settore produttivo in genere, è da
addebitare ad una serie di concause: il tema della sicurezza; il cattivo
funzionamento della Pubblica Amministrazione; la lentezza della
giustizia civile e la carenza delle infrastrutture.
In un contesto sociale e strutturale siffatto la mafia crea una “economia
parallela”, che attrae risorse umane e finanziarie e le sottrae all’economia
legale impedendone lo sviluppo. La conseguenza è che l’attività illegale,
producendo posti di lavoro, finisce per attrarre nella propria orbita gli
individui.
146
Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria al momento
della stesura della Relazione, durante la sua audizione conferma la
necessità di un deciso cambiamento di indirizzo, se si vuole evitare di
consegnare alle mafie una parte importante del sistema economico del
Mezzogiorno. Ed è proprio dando attuazione a questo proposito che
Confindustria ha deciso di azzerare i vertici dell’Associazione industriali
di Reggio Calabria, coinvolti in un’inchiesta giudiziaria.
Sulla medesima linea di continuità si pongono poi le iniziative realizzate
da Confindustria siciliana, sia per rafforzare le azioni di prevenzione, sia
per il sostegno agli associati vittime delle organizzazioni mafiose. Le più
importanti e radicali di esse sono state rivolte all’adozione di un codice
etico, che impone agli associati l’obbligo di denunciare le richieste di
pizzo; alla prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità
organizzata negli investimenti del polo petrolchimico, nell’area di
Caltanissetta; alla video-sorveglianza delle aree industriali; all’emersione
del lavoro nero e irregolare; alla sottoscrizione di protocolli di legalità in
materia di appalti; all’istituzione di un elenco di aziende fornitrici
certificate.
Non sono ovviamente mancate contrastanti reazioni interne ed esterne.
Quanto alle intimidazioni esterne, particolare valore simbolico assume
147
l’attentato del 26 settembre 2007 alla sede di Caltanissetta di
Confindustria. L’incursione notturna che ha devastato la sede mirava a
trafugare i verbali delle riunioni in cui gli associati, dandosi un codice
etico, hanno deciso di espellere gli imprenditori che non denunciano il
racket, e ciò al fine di individuare i nominativi degli aderenti alla
proposta.
Ma se il quadro generale fatto dalla Commissione è tutt’altro che
confortante, di certo, se anche non sorprende, preoccupa e merita
particolare attenzione l’analisi che riguarda la ‘ndrangheta.
Mentre l’attenzione dei media si è sempre concentrata su Cosa Nostra, la
‘ndrangheta ha scalato posizioni, diventando l’organizzazione criminale
più moderna e potente. Questa mafia agisce e pensa
contemporaneamente, localmente e globalmente, controlla il territorio in
maniera ossessiva e maniacale, segue e interviene nell’evoluzione dei
mercati internazionali. Con questo dinamismo ha articolato e
diversificato le sue attività. Abbandonati i sequestri di persona e
continuando a controllare l’intero ciclo dell’edilizia, ha investito nella
sanità, nel turismo, nel traffico dei rifiuti, nella grande distribuzione
commerciale, assumendo anche un ruolo chiave nel controllo dei grandi
flussi di denaro pubblico. È divenuta un soggetto criminale moderno che
148
si inserisce negli organismi elettivi generando: la pratica delle assunzioni
clientelari e degli affidamenti di lavori, di forniture e servizi ad imprese
collegate.
La storia degli ultimi decenni, rileva l’Antimafia, ha mutato e segnato il
corso di questa evoluzione da mafia arcaica a mafia imprenditrice a
centrale finanziaria della globalizzazione con attività al Nord e all’estero.
Il Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno presentato nel 2007,
nella parte che riguarda la Calabria, presenta il quadro di una regione con
un PIL pro-capite di 13.762 euro, pari al 54,6% del PIL pro-capite del
Centro-Nord Italia, un tasso di disoccupazione di circa il 13%,
un'economia sommersa, in crescita, pari al 27% e lavoratori irregolari,
ancora in crescita, per oltre 176.000 unità. Dallo stesso Rapporto risulta
che le imprese che pagano il “pizzo” nella regione sono 150.000, la metà
del totale delle imprese esistenti nella regione, con una punta del 70% a
Reggio Calabria. Non solo. Il dato dell’usura, secondo il Rapporto
Svimez, fa segnare in Calabria la percentuale più alta di commercianti
vittime del fenomeno in rapporto ai soggetti attivi: il 30% con 10.500
commercianti coinvolti in regione.
Nella Calabria di oggi infatti, gran parte delle attività economiche,
imprenditoriali e produttive sono condizionate, infiltrate e alcune dirette
149
dalle cosche della ‘ndrangheta. Quando non sono direttamente colluse, le
imprese sono acquiescenti alle mire e agli interessi della criminalità
organizzata e ciò avviene in tutti gli ambiti economici: imprese agricole,
imprese turistiche, imprese commerciali, grande distribuzione, ma
soprattutto nell’edilizia, con un’egemonia mafiosa sull’intero ciclo del
cemento.
Saldi risultano anche i legami con le elìte politiche locali. La
Commissione Antimafia ha registrato ritardi da parte
dell’amministrazione regionale nella valutazione dei progetti da
finanziare, per permettere a società ancora da costituire di vedere la luce
e di partecipare, col favore del politico di turno e delle cosche,
all’accaparramento dei finanziamenti pubblici. È un meccanismo che
purtroppo ricorre sovente, così come quello di non far conoscere i bandi
per le gare pubbliche se non nelle ore precedenti la scadenza del termine
per parteciparvi, favorendo così in modo apparentemente legale i pochi
predestinati all’accesso al finanziamento grazie allo scambio politico-
affaristico quando non direttamente mafioso.
Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano
così un dato costante che assume le forme di una gestione parallela
dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di
150
sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati
amministrativi, dai Comuni alle A.S.L., dalle Asi alle società miste per la
gestione dei servizi.
Emerge inoltre un peggioramento della situazione relativa al 2007 in
merito alle frodi ai danni dello Stato e dell’Unione Europea, secondo dati
ufficiali forniti dalla sola Guardia di Finanza. Su un totale nazionale di
259 violazioni riscontrate per frodi a danno del bilancio nazionale, ben
70 (il 37%) sono avvenute in Calabria. L’analisi dei dati investigativi e
giudiziari fornisce, rileva l’Antimafia, “un quadro di preoccupante
allarme per l’inarrestabile emorragia di contributi pubblici intercettati
dalle cosche”.
Focus centrale della relazione è la sanità calabrese, portando alla luce i
drammi delle A.S.L. di Locri e di Vibo, metafore del fallimento politico
e della delegittimazione morale della gestione della sanità pubblica e
degli interessi mafiosi nella sanità privata in spregio ad ogni diritto, fino
a quello più sacro, della vita umana. La sanità pubblica viene fatta
morire per alimentare il senso comune dell’utilità della sanità privata.
Chi governa crea così l’alibi per drenare risorse pubbliche verso un
sistema d’affari privato che spesso, in Calabria, ha come soggetto diretto
d’impresa la ‘ndrangheta.
151
Tralasciando il livello locale ciò che colpisce sono le ramificazioni di
questa consorteria mafiosa in tutte le regioni d’Italia. Circa il Nord non è
solo a Milano e in Lombardia che la ‘ndrangheta fa i suoi affari. Genova
per esempio ha da sempre rappresentato uno snodo fondamentale per il
traffico di cocaina e per le rotte verso la Costa Azzurra. Troviamo delle
presenze consistenti anche in Emilia Romagna. Cocaina, bische, gioco
d’azzardo, riciclaggio di capitali ed edilizia. Sono queste le attività che le
famiglie mafiose realizzano fra Bologna, Modena, Forlì, Rimini, Reggio
Emilia, Parma e Piacenza.
In Piemonte invece la ‘ndrangheta fa sentire la sua presenza anche in Val
di Susa, implicazioni ci sono già state in passato per le Olimpiadi
Invernali e non è escluso che gli interessi delle famiglie calabresi siano
orientate agli appalti per l’alta velocità.
E non solo. La ‘ndrangheta infatti è un “broker mondiale” con i suoi
uomini nelle sedi di approvvigionamento della droga, come la Colombia
e la Bolivia. Uomini in grado di gestire i flussi del denaro e incamerare
costantemente cocaina presso i fornitori sudamericani, assicurando
comunque il pagamento delle partite di stupefacente. Ad agevolare il
disegno egemonico dei clan dei calabresi, evidenzia la Commissione
Antimafia, è la capillare diffusione in tutti i continenti: dal Sud America
152
all’Australia, dalla Germania alla Spagna, dalla Francia alla Svizzera al
Canada.
La forza di questa consorteria mafiosa risiede quindi nella convivenza di
due fattori: lo spirito criminale e quello imprenditoriale. La metamorfosi
della ‘ndrangheta in mera criminalità organizzata ne segnerebbe la
rovina, ne esaudirebbe inesorabilmente la forza vitale e la leadership.
La ragione del suo primato, secondo la Commissione Antimafia, risiede
nella forte gerarchizzazione e compartimentalizzazione delle attività
criminali, ma sempre riconducibili al nucleo ‘ndranghetistico originario
per la parte concernente la direzione e la promozione della cooperazione
a delinquere.
È una sorta di struttura a compartimenti stagni, capace di resistere
all’azione repressiva in ragione dell’estrema fungibilità dei personaggi
coinvolti, dell’incompleta conoscenza dei meccanismi in cui si snoda,
della catena di omertà che comunque avvolge gli associati. Di fronte a
questa capacità organizzativa, alla sua invisibilità nelle dinamiche della
globalizzazione criminale e in quelle della globalizzazione finanziaria
legale, è necessario riorganizzare le strutture del contrasto, con una
ripartizione del lavoro investigativo tra indagini su scala internazionale e
153
indagini che concernono i settori tradizionali dell’egemonia mafiosa sul
territorio calabrese e nazionale.
L’intera relazione è quindi attraversata dalla narrazione dei processi
degenerativi che investono le Istituzioni e la gestione della cosa
pubblica. Le continue inchieste della magistratura che, pur in assenza di
sentenze definitive, colpiscono esponenti di primo piano di tutti i partiti,
gli avvisi di garanzia che investono buona parte del Consiglio Regionale,
assessori regionali o ex assessori in carcere per reati collegati alla mafia
o esponenti di primo piano dei partiti sotto processo o già condannati per
corruzione, rappresentano, purtroppo, la fotografia della realtà. E anche
quando i partiti e la politica intervengono, il loro intervento è sempre
posteriore a quello della magistratura, benché conoscano meglio di
questa quello che è il loro stesso sistema.
Alla luce di tutto questo la lotta alla mafia, in questa regione, è
primariamente una questione morale, culturale e sociale112.
112 Dati e informazioni tratti dalla Relazione della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia del 20.02.2008, firmata da Francesco Forgione.
154
CAPITOLO IV Imprenditori collusi e imprenditori subordinati Sommario: 1. Le diverse forme del rapporto tra mafia ed imprenditoria: imprenditori subordinati e imprenditori collusi. - 2. L’attività della Giurisprudenza nella ricerca della difficile linea di confine tra imprenditori collusi e imprenditori vittime. - 3. I profitti associativi confiscabili: la confisca tradizionale e la confisca penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale. - 4. Segue: la confisca penale obbligatoria dei valori ingiustificati prevista dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 e la sua applicabilità alle ricchezze mafiose “consolidate”. - 5. Segue: la confisca come misura di prevenzione patrimoniale. 6. La sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni nella Legge n. 575/1965: gli artt. 3 quater e quinquies. - 7. Il sistema degli appalti. - 8. Il meccanismo della protezione-estorsione. - 9. Segue: il contesto ambientale e il compromesso necessitato. 1. Le diverse forme del rapporto tra mafia ed imprenditoria: imprenditori subordinati e imprenditori collusi Dopo aver esaminato le fasi evolutive dell’impresa del mafioso e le
forme ad essa corrispondenti, è necessario, a fini di completezza del
discorso, distinguere le diverse tipologie di comportamenti
imprenditoriali che si possono ravvisare nel rapporto tra mafia e
imprenditoria. In tale senso risulta esemplare e dai più condivisa la
ricerca sociologica di R. Sciarrone, che ha distinto e classificato gli
imprenditori di un’area significativa della Calabria, quella della Piana di
Gioia Tauro, in alcune categorie ideal-tipiche, definite in base alle
caratteristiche e alle modalità dell’interazione con i mafiosi.
155
Questo autore, ricollegandosi agli studi di Diego Gambetta sulla mafia
intesa come industria della protezione, sostiene che ciò che distingue i
vari tipi di imprenditori è il modo in cui questi si avvalgono dell’offerta
di fiducia, ossia del tipo di protezione mafiosa di cui la loro attività
economica è fatta oggetto. Alla luce di questo criterio la distinzione
fondamentale è quella tra imprenditori “subordinati” e imprenditori
“collusi”.
Preliminarmente e in base a quanto affermato occorre precisare che, a
coloro che vengono definiti subordinati è imposta un protezione passiva,
tale perché afferma l’unilateralità dell’iniziativa, viceversa quelli definiti
collusi possono usufruire di un tipo di protezione attiva, cosiddetta
perché instaura con i mafiosi un rapporto interattivo, vantaggioso per
entrambe le parti. Nell’uno e nell’altro caso tuttavia la mafia riesce ad
ottenere la “cooperazione” degli imprenditori, ma diversi sono i
presupposti.
Nel caso degli imprenditori subordinati la collaborazione è originata dal
timore di sanzioni materiali, che deriva dall’uso di metodi intimidatori;
in quello degli imprenditori collusi da un vantaggio economico, da una
logica di profitto113.
113 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 63 ss.
156
Gli imprenditori subordinati sono quelli su cui più grava la pressione
mafiosa, il meccanismo della protezione-estorsione diviene, nei loro
confronti, di regola, sempre più stringente e a tale scopo le condizioni
imposte dal mafioso possono essere continuamente modificate. Questi
imprenditori, secondo l’analisi di Sciarrone, si articolano in due
sottocategorie, quella degli imprenditori “oppressi” e quella degli
imprenditori “dipendenti”. In particolare, i primi sono quelli con cui la
mafia intrattiene un rapporto di puro dominio: “essi pagano la protezione
mafiosa senza ricevere in cambio nulla di concreto se non una garanzia,
peraltro del tutto provvisoria, di poter semplicemente continuare a
svolgere la propria attività…e si sentono completamente indifesi di
fronte alla mafia, anche perché il più delle volte hanno potuto
verificarne, subendone direttamente le conseguenze, la potenza
militare”114. I secondi invece, “non solo devono pagare la protezione ai
mafiosi…, ma devono ottenere la loro autorizzazione per poter svolgere
la propria attività”; conseguenza di ciò è che vedono selezionate dalla
mafia le opportunità di impresa. Questo ulteriore limite che grava sugli
imprenditori subordinati “dipendenti” deriva dalla circostanza che questi
svolgono sovente la loro attività nel campo dei lavori pubblici, che è
114 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 69.
157
settore di grande interesse per la mafia e tradizionalmente da essa
controllato.
Perciò non è inusuale che gli imprenditori considerati debbano pagare,
per svolgere attività di impresa, non solo la protezione ai mafiosi ma
anche tangenti ai politici. Può poi accadere che i mafiosi, in alternativa o
in aggiunta all’estorsione “diretta”, attuino forme di estorsione definite
“indirette”. In quest’ultimo caso i mafiosi hanno di mira quelle aziende
che entrano in connessione con le loro attività imprenditoriali e dai
proprietari di esse pretendono merce e prestazioni lavorative. Non è
escluso che il sodalizio, con l’intento di effettuare il controllo
dell’azienda dall’interno, imponga l’assunzione di persone di fiducia.
Qualora questo si verifichi, l’imprenditore avrà, quasi certamente, un
dipendente privo delle competenze necessarie e, cosa di gran lunga più
grave, non potrà attuare la “tattica de sotterfugi”, che consiste nel
ricorrere a scuse per sottrarsi alle richieste dei mafiosi.
Tutte queste richieste alternative rispetto alla tradizionale pretesa di
denaro sono spesso legate al volume d’affari delle aziende, che, quanto
più producono, tanto più saranno oggetto di attenzioni e di pretese.
Per le ragioni esposte questi operatori economici sono spinti a preferire
una situazione di immobilismo, che se da una parte mortifica le
158
possibilità di sviluppo dell’impresa, dall’altra serve a non attirare gli
interessi della mafia115.
Da un diverso tipo di relazione tra mafia e imprenditoria scaturisce la
figura dell’imprenditore colluso. Ciò che caratterizza l’interazione tra i
due soggetti non è, in tale ipotesi, la subordinazione dell’uno all’altro,
bensì un reciproco vantaggio e la maggiore possibilità, riconosciuta agli
imprenditori di negoziare i termini della protezione. Questi ultimi
cercano di volgere in benefici quei condizionamenti che per gli
imprenditori subordinati costituiscono un serio ostacolo all’esplicazione
della propria attività economica. Per fare ciò è necessario ricorrano due
condizioni: la prima è che l’imprenditore abbandoni ogni reticenza di
ordine morale, riconoscendo in tal modo il potere mafioso, essendo a ciò
spinto dalla convinzione che un rapporto collaborativo con la mafia
possa essere molto vantaggioso; la seconda è che il mafioso accetti la
cooperazione, cosa che fa solo qualora questa si riveli più conveniente
del rapporto di subordinazione o se tra lui e l’imprenditore esiste un
legame personale di fedeltà, specie se in forma di parentela.
115 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 70 ss.
159
Anche all’interno della categoria degli imprenditori in collusione con la
mafia Sciarrone individua due sottocategorie: quella degli imprenditori
“strumentali” e quella degli imprenditori “clienti”116.
L’imprenditore strumentale ha una buona capacità di contrattare il
rapporto di scambio con i mafiosi. È di solito un soggetto che ha
un’impresa di dimensioni più ampie della media locale, proviene da un
territorio esterno a quello di insediamento del gruppo mafioso e opera,
quasi sempre, nel campo dei lavori pubblici. La sua azienda ha mezzi e
risorse necessarie per partecipare ad appalti relativi alla costruzione di
grandi opere, ma necessita per vincere la gare d’appalto dell’appoggio
dei mafiosi locali. Questi, che non hanno l’apparato strutturale per agire
da soli, ma che vogliono assicurasi la gestione dei subappalti, possono
ritenere il patto con l’imprenditore strumentale conveniente o addirittura
necessario. Il compromesso tra i due ha però carattere contingente e
condizionale. Ciò perché la comunanza tra mafiosi e imprenditori
strumentali è unicamente economica, e la logica di scambio che ne
costituisce la premessa limita il coinvolgimento alle sole prestazioni,
escludendo le persone. Sciarrone sostiene, infatti, che l’imprenditore
strumentale segue il principio antropologico della “doppia morale”, in
116 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 84 ss.
160
base alla quale la mafia è una necessità economica temporanea, ma non
ha niente a che fare con il resto della sua vita e con il passato e il futuro
della sua attività.
Diversamente il rapporto che gli imprenditori clienti stabiliscono con i
mafiosi è caratterizzato dalla stabilità, coinvolge l’intera attività
dell’imprenditore e la sua sfera personale. Le prestazioni che sono
oggetto del rapporto clientelare sono molteplici, si va dalla semplice
offerta di informazioni che l’imprenditore procura al mafioso,
all’accesso a determinati circuiti politici e finanziari, fino alla
costituzione di vere e proprie società tra cliente-imprenditore e mafioso.
Alle volte l’aiuto fornito dal cliente al mafioso può anche non avere
alcun legame con la sua attività lavorativa o addirittura non avere
contenuto economico.
Quale che sia comunque l’oggetto della prestazione, il rapporto di
scambio che si stabilisce è basato sulla cooperazione reciproca e sul
mutuo vantaggio.
La categoria degli imprenditori clienti può anche ulteriormente
specificarsi nella variante degli imprenditori clienti “identificati”.
Quando infatti il rapporto di scambio instaurato con il mafioso assume
contenuti più affettivi si realizza un processo di identificazione, tale per
161
cui vi è una solidarietà partecipativa, una comunanza che diventa
immedesimazione reciproca e che induce a concludere affari in comune
in ogni tipo di mercato, legale e illegale. Il rapporto di scambio tra il
mafioso e l’imprenditore cliente, che spesso è un parente o un amico
dell’affiliato, non è più diadico ma coinvolge tutti i membri della
famiglia del cliente e spesso anche quelli della famiglia del mafioso
stesso. L’interazione che dipende non solo dai caratteri intrinseci di
questa identità ma anche dalla collocazione socioeconomica e dalle
risorse politiche di cui dispone l’imprenditore, lega la sua sorte a quella
del mafioso117.
2. L’attività della Giurisprudenza nella ricerca della difficile linea di confine tra imprenditori collusi e imprenditori vittime Effettuata a livello teorico una preliminare distinzione tra imprenditori
subordinati e imprenditori collusi, la giurisprudenza ha tentato di
individuare la linea di demarcazione tra le due categorie, attraverso
l’elaborazione di un efficace criterio discretivo che consenta di
distinguere la contiguità soggiacente e la contiguità compiacente.
Qualora poi si versi in una ipotesi di contiguità compiacente sarà
117 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 89 ss.
162
necessario stabilire quando l’imprenditore colluso sia da considerare
partecipe interno e quando, invece, concorrente esterno.
Il cammino verso l’individuazione di questo spartiacque tra imprenditore
subordinato e imprenditore colluso è stato complesso ma non privo di
risultati importanti. Al fine di tracciare i passaggi salienti che hanno
condotto agli esiti finali occorre ricordare quattro pronunce giudiziali, si
tratta della sentenza “Cavallari” del 1996, di quella “Cabib” del 1999 e
di due sentenze di legittimità, “Iovino” e “D’Orio”, entrambe del 2005.
Nel primo giudizio, il Giudice dell’Udienza Preliminare di Bari con
provvedimento emesso in sede di patteggiamento il 30.6.1996 ha
concluso per la colpevolezza, in termini di partecipazione ad
associazione mafiosa, di un imprenditore attivo nel settore economico
della sanità privata. La decisione dell’autorità giudiziaria è relativa alla
vicenda dell’imprenditore Cavallari, che inizialmente vessato dal
sodalizio mafioso ha subito gradualmente l’usurpazione del controllo
della sua attività. In seguito l’imprenditore ha deciso di venire a patti con
il gruppo mafioso, così diventando da imprenditore subordinato
imprenditore colluso, e si è avvalso dei metodi mafiosi per garantire alla
sua impresa una posizione prima di privilegio, poi di monopolio.
163
A tale proposito Visconti, che ha approfondito l’argomento della
contiguità alla mafia, ha attribuito notevole importanza a questo
provvedimento di merito ed ha cercato di dare corpo alla “massima di
esperienza” cui si può ritenere che il giudice di Bari abbia attinto nel
caso di specie, formulandola nei seguenti termini: “posto che il controllo
da parte di una associazione mafiosa delle attività economiche di un
imprenditore può schiudere per l’azienda nuove e vantaggiose
prospettive di penetrazione nel mercato grazie allo sfruttamento del
metodo mafioso, l’operatore commerciale coinvolto, pur anche vittima in
un primo momento dell’intimidazione mafiosa, tende il più delle volte a
compenetrarsi nel sodalizio criminale118.
Il passo successivo di questa ricerca è rappresentato da una pronuncia
della Suprema Corte del 1999, relativa al giudizio nei confronti di un
imprenditore di nome Cabib, che nell’attivarsi per l’acquisizione
dell’appalto di un opera pubblica di rilevante valore ha instaurato
rapporti con il “clan dei casalesi”, al fine di rimuovere preventivamente
gli ostacoli di carattere estorsivo all’esecuzione dei lavori, mediante
l’instaurazione di un “accordo di non conflittualità”, produttivo di
118 Visconti C., Contiguità alla mafia…, cit., p. 339 ss.
164
vantaggi reciproci. Ciò gli è valso un’accusa di partecipazione
all’organizzazione camorristica.
La Corte, affrontando la complessa problematica della contiguità
imprenditoriale, sviluppa due argomenti.
Il primo riguarda la corretta utilizzazione, in sede di valutazione delle
prove, delle massime di esperienza di matrice socio-criminologica. Il
secondo concerne, invece, il tentativo di fornire alla prassi un criterio
capace di distinguere l’imprenditore compiacente, punibile ai sensi
dell’art. 416 bis del Codice Penale, da quello c.d. soggiacente nei
confronti dell’attività estorsiva e, quindi, vittima dell’organizzazione
criminale.
Quanto al primo aspetto la Corte sostiene che nella valutazione dei
rapporti tra mafia e imprenditori l’indagine del giudice non può fondarsi
su aprioristici ed astratti stereotipi socio-criminali, la cui applicazione in
forma di massime di esperienza, conduce a generalizzate
concettualizzazioni o, viceversa, al riconoscimento di vaste aree di
impunità. Non può infatti mai prescindersi da un effettivo e serio vaglio
degli aspetti contingenti della singola fattispecie. La Cassazione ha
ravvisato nel provvedimento del Tribunale del riesame che l’ufficio del
P.M. ha impugnato una illogicità manifesta, laddove configura i rapporti
165
instauratisi tra l’imprenditore e le associazione criminali non nell’area
della contiguità compiacente, bensì in quella della contiguità
soggiacente.
I giudici di legittimità contestano ai giudici di merito di avere applicato
astratti stereotipi socio-criminologici in luogo di un attento vaglio delle
prove raccolte e ritengono che è la sussistenza o meno di una condizione
di “ineluttabile coartazione” che imprime all’imprenditore che entra in
contatto con la mafia i connotati di vera e propria vittima dell’estorsione.
La Corte ritiene dunque, nella sentenza in esame, che il giudice possa
avvalersi della massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-
criminologiche, ma non prima di averne riscontrato la piena rispondenza
alle specifiche e peculiari risultanze probatorie attinenti al caso di specie.
In questo senso la Cassazione in sostanza opta per una strada mediana,
che affida al giudice il delicatissimo compito di vagliare caso per caso
l’effettiva idoneità dei dati storico-criminologici ad essere assunti ad
attendibili massime di esperienza, solo dopo aver ricostruito sulla base
dei mezzi di prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che
formano l’oggetto del processo.
166
In questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chiamato, la
lettura delle più moderne, attente ed approfondite analisi sociologiche
può sicuramente rivelarsi un importante strumento di riflessione.
Quanto invece al secondo argomento, e cioè al criterio discretivo
individuato dalla sentenza in esame per distinguere l’imprenditore
vittima da quello colluso, questo è quello della condizione di
“ ineluttabile coartazione”, che ricorrendo attribuisce all’imprenditore la
qualità di vittima della mafia.
Con tale formula i giudici di legittimità hanno inteso fare riferimento
all’atteggiamento psicologico della vittima del reato di estorsione
perpetrato dalla criminalità organizzata. La Corte, poi, oltre al fenomeno
psicologico valorizza, quale utile criterio discretivo il dato cronologico,
già ampiamente evidenziato dall’accusa. L’imprenditore indagato,
infatti, prima di ottenere dalla pubblica amministrazione l’affidamento
delle opere da realizzare e di subire atti intimidatori specifici, si è
attivato per stipulare con i capi del clan camorristico un “contratto di
protezione”, che tenesse indenne dalla violenza criminale le imprese
impegnate nella esecuzione dei lavori. In questo senso la Corte individua
nell’iniziativa degli imprenditori di pattuire preventivamente il costo
della protezione un elemento idoneo a fare considerare gli operatori
167
economici coinvolti come soggetti che, lungi dall’essere vittime della
mafia, apportano un contributo alle associazione mafiose, che, nel caso
di specie, si configura come concorso esterno nel reato associativo.
Diversamente, gli imprenditori che non prendono l’iniziativa per primi e
si limitano a subire le richieste estorsive avanzate dalle organizzazioni
mafiose, sono configurabili come vittime.
A giudizio di Visconti, però, l’adozione del criterio della “ineluttabile
coartazione” per distinguere il soggetto passivo dell’estorsione dal
concorrente esterno o dal partecipe nell’associazione, appare discutibile
sul piano politico criminale e potenzialmente foriera, al contrario da
quanto auspicato dalla Cassazione, di soluzioni decisorie improntate a
valutazioni di natura extralegale. Ciò perché in entrambe le ipotesi
considerate gli imprenditori agiscono a fronte di uno stato di
assoggettamento ed omertà che è frutto della forza di intimidazione del
vincolo associativo; questa situazione, secondo l’autore, “dovrebbe
bastare per ritenere comunque integrata la fattispecie di estorsione,
giacchè il momento o il modo in cui si è preso l’impegno di pagare o si è
168
pagato nulla toglie alla posizione di vittima comunque rivestita
dall’imprenditore”119.
Maggiormente chiare nell’identificare il criterio discretivo tra
imprenditore vittima e imprenditore colluso sono le due sentenze di
legittimità pronunciate nel 2005, riguardanti imprenditori edili che hanno
pagato tangenti ai clan mafiosi operanti nei territori di rispettiva
pertinenza, ed entrambe sentenze di annullamento senza rinvio in
materia di libertà, con contestuale immediata liberazione del ricorrente.
Nel primo giudizio a carico dell’imprenditore Iovino viene formulata
l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e ciò per avere
costui versato ad un gruppo criminoso del Salernitano, anche per conto
di altri operatori economici della zona, ottanta milioni di vecchie lire. Il
versamento della tangente, secondo l’accusa, integrerebbe un contributo
consapevolmente prestato al sodalizio criminale e denoterebbe specifiche
finalità di locupletazione, quale quella di tenere indenne sé e gli altri
imprenditori coinvolti da continue richieste estorsive. A dispetto di
questo apparato accusatorio la Suprema Corte, che con sentenza del
22.3.2005 annulla il provvedimento impugnato, afferma che è illogico
ravvisare una finalità di locupletazione nel pagamento della tangente, ciò
119 Visconti C., Imprenditori e camorra: l’‹‹ineluttabile coartazione›› come criterio discretivo tra complici e vittime?, in Foro It., 1999, I, parte II, p. 631 ss.
169
principalmente a causa delle richieste estorsive e dei successivi esborsi
di denaro provati dallo stesso provvedimento oggetto di impugnazione,
nel comportamento dell’imprenditore è semmai possibile ravvisare un
tentativo di riduzione del danno. In sostanza, afferma la sentenza, “nella
ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di merito, non è contemplata
l’ipotesi di versamenti preventivi di denaro a clan camorristici finalizzati
ad ottenere illeciti vantaggi, neppure nella forma di indebiti vantaggi
concorrenziali rispetto ad altre imprese, ma emerge invece la
rappresentazione di una linea di condotta diretta ad ottenere, grazie ad un
pagamento preventivo a forfait, l’esenzione da future sistematiche
estorsioni ritenute certe e non altrimenti evitabili […]. Ciò comporta che,
nella fattispecie in esame, non si è di fronte ad una convergenza anche
solo parziale di interessi, di obbiettivi e di vantaggi tra l’indagato e gli
specifici gruppi camorristici destinatari della tangente, e che il
comportamento dell’indagato non appare direttamente e volontariamente
finalizzato a contribuire al loro rafforzamento ed al raggiungimento dei
loro scopi criminosi, ma piuttosto a sottrarsi alla loro pressione al minor
prezzo possibile”120.
120 Cass., Sez. VI, 22.3.2005, n. 14236
170
La seconda sentenza di legittimità, pronunciata l’11.10.2005, riguarda la
posizione di un imprenditore edile, D’Orio, cui è stato contestato il
delitto di partecipazione ad associazione mafiosa per avere versato
denaro alla famiglia mafiosa di Partinico, con la quale, secondo l’accusa,
ha instaurato un “rapporto di cointeressenza”.
La sentenza prende, dunque, le mosse dai principi stabiliti dalla Corte
Suprema nella pronuncia Cabib del 1999 circa il problema della
utilizzabilità in sede giudiziaria delle cosiddette “massime di
esperienza”. In questo senso ribadisce la rilevanza delle massime di
esperienza elaborate con il contributo di indagini sociologiche, ma pone
precisi limiti alla loro utilizzazione.
Primariamente la massima di esperienza deve derivare dall’osservazione
di comportamenti ricorrenti in un dato contesto geografico-sociale, dai
quali si può desumere che essi siano la regola nell’ambiente considerato.
Secondariamente, e soprattutto tenendo conto che la massima di
esperienza non è indicativa di una certezza, ma solo della probabilità di
una determinata condotta e di certi effetti, il giudice dovrà, in maniera
imprescindibile, verificare la riconduzione delle risultanze probatorie del
caso di specie alla regola enucleata.
171
Dopodichè la Corte riconosce che l’ordinanza impugnata ha
correttamente individuato le massime di esperienza atte a stabilire il
discrimine tra l’imprenditore complice e quello vittima di attività
delinquenziali mafiose. Osserva inoltre come il provvedimento
impugnato abbia correttamente superato la massima di esperienza,
funzionale a esiti decisori predeterminati, che riconduce sempre allo
schema del cosiddetto “contratto di protezione” la relazione tra
organizzazione mafiosa e imprenditori in luoghi sottoposti alla pervasiva
infiltrazione della mafia, riconducendo ogni interazione ad un
compromesso necessitato. Per evitare dunque di incorrere in errori,
proprio nella consapevolezza della variabilità dei fenomeni di mafia e
della loro rapida evoluzione, è necessario sempre verificare la perdurante
attualità della massima e, senza perciò negare il suo carattere di
generalità, procedere al suo superamento di fronte alla conclamata
dimostrazione della sua sopravvenuta inattualità.
Nel caso di specie, la Corte, pur condividendo la massima secondo cui
l’esistenza di un sinallagma è un criterio utile ad interpretare, in chiave
di partecipazione o di concorso esterno, la contiguità tra imprenditori e
organizzazione mafiosa, nega che la motivazione del provvedimento
172
impugnato fornisca la dimostrazione di tale sinallagma, e dunque di tale
massima pur correttamente individuata.
La sentenza D’Orio si sofferma in modo esemplare, da ciò la rilevanza
della stessa, sul parametro atto a distinguere l’imprenditore vittima da
quello colluso. Ciò che caratterizza l’imprenditore colluso è, come detto,
l’esistenza di un rapporto sinallagmatico, e dunque di una corrispettività
tra le prestazioni con i mafiosi, tale da consentire all’imprenditore di
rivolgere a proprio profitto il fatto di avere stabilito relazioni con il
sodalizio criminale. Ed in questo requisito dell’ingiustizia del vantaggio,
che può essere conseguito dall’imprenditore e che distingue la posizione
di soggiacenza da quella di compiacenza, è facile ravvisare un
parallelismo con la stessa definizione della finalità dell’associazione
mafiosa, tra le quali il terzo comma dell’art. 416 bis C.P. ricomprende
appunto la finalità di un ingiusto vantaggio.
Tuttavia, chiarita in ipotesi l’esistenza di una contiguità compiacente tra
imprenditore e organizzazione mafiosa, è necessario verificare caso per
caso se, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità,
ricorre responsabilità penale a titolo di partecipazione o di concorso
esterno in associazione di stampo mafioso.
173
Si versa nell’ipotesi di partecipazione all’associazione mafiosa se
l’imprenditore colluso risulta stabilmente inserito nella struttura
organizzativa del sodalizio con l’assunzione di un ruolo e vuole far parte
di esso e destinare il proprio contributo al raggiungimento delle finalità
proprie del sodalizio medesimo. Si versa, invece, nell’ipotesi di concorso
esterno se l’imprenditore colluso, privo dell’affectio societatis e non
inserito nella struttura organizzativa dell’ente criminale, agisce con la
consapevolezza e volontà di fornire un contributo causale alla
conservazione o al rafforzamento dell’associazione, nonché alla
realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso.
Individuato nell’esistenza del rapporto sinallagmatico produttivo di
vantaggi ingiusti reciproci l’indice di una contiguità compiacente ne
consegue che è imprenditore subordinato, non solo colui che subisce le
pretese estorsive, ricevendone un danno ingiusto, ma anche colui che
realizza un accordo con il sodalizio mafioso al solo fine di limitare il
danno121.
121 Borrelli G., Massime di esperienza e stereotipi socio-culturali nei processi i mafia: la rilevanza penale della “contiguità mafiosa”, in Cass. Pen., 2007, p. 1074 ss.
174
3. I profitti associativi confiscabili: la confisca tradizionale e la confisca penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale Sul piano della normazione l’attività dello Stato di contrasto ai processi
di accumulazione del capitale, propria delle organizzazioni mafiose, si
caratterizza per l’introduzione di molteplici strumenti giuridici. La
scienza sociologica ha da tempo rimarcato la tendenza della criminalità
di tipo mafioso, manifestatasi a partire dagli anni ’70, a reinvestire i
grossi proventi del traffico di droga in attività produttive lecite. Questo
fenomeno assomma ai problemi di salvaguardia dell’ordine pubblico
l’esigenza di tutelare l’ordine economico, poiché la disponibilità di
ingenti somme di denaro unita alla limitata capienza dei mercati
criminali e all’utilizzo del “metodo mafioso”, determina una sempre più
devastante infezione dell’economia legale e una conseguente distorsione
delle regole della concorrenza dei mercati. In questo contesto l’elemento
patrimoniale indirizza le strutture criminali e genera quell’impulso al
reinvestimento che costituisce condizione di sviluppo e di sopravvivenza
delle economie criminali. Il diritto penale appresta dunque strumenti che
possano arginare lo sviluppo della criminalità organizzata attraverso una
attività di contrasto della formazione e della disponibilità della ricchezza
illecita. In tal senso meritano preliminare attenzione la confisca
175
tradizionale di cui all’articolo 240 del Codice Penale e quella prevista dal
7° comma dell’art. 416 bis C.P.
Prima di valutare l’effettività sanzionatoria e la conseguente capacità
deterrente della confisca codicistica è necessario precisare che l’art. 240
C.P. distingue una confisca facoltativa da una obbligatoria. La prima,
prevista nel primo comma, riguarda le cose che “servirono o furono
destinate a commettere il reato” e le “cose che ne sono il prodotto o il
profitto”; intendendo per “profitto” il guadagno, il vantaggio di natura
economica che deriva dall’illecito, per “prodotto” la cosa materiale che
si origina dal reato medesimo.
La confisca obbligatoria, invece, prevista nel secondo comma, riguarda
le cose che costituiscono il prezzo del reato, intendendo per tale l’utile
pattuito e conseguito da una persona come corrispettivo dell’esecuzione
dell’illecito; le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o
alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata
condanna122.
Il carattere spiccatamente preventivo della confisca introdotta dal
Legislatore del ’30, giustificherebbe l’inclusione di essa tra le misure di
122 Cassano F., Quale riforma per l’amministrazione e la destinazione dei patrimoni di mafia?, in Questione Giustizia, 2006, I, p. 1 ss.
176
sicurezza, scelta classificatoria non unanimemente condivisa dalla
dottrina. La perplessità riguarda soprattutto un aspetto sovente ritenuto
presupposto necessario in vista dell’applicazione della confisca: la
pericolosità della cosa come attitudine della stessa a recare danno;
requisito che, difficile da rinvenire in entrambe le ipotesi di confisca,
facoltativa e obbligatoria, costituirebbe criterio di scarsa utilità
interpretativa. Per superare l’ostacolo e dare senso al concetto di
pericolosità, Fornari, prima distingue un pericolosità oggettiva, tale
perchè della cosa, da una pericolosità soggettiva, e poi propende per la
ricostruzione soggettiva, che ravvisa il requisito nella circostanza che la
cosa, lasciata nella disponibilità del reo, costituisca per lui un incentivo
per commettere ulteriori illeciti.
In questo senso il “rischio di attrattiva” del profitto a delinquere
nuovamente, potendo ricorrere ma potendo anche non ricorrere,
dovrebbe essere rinvenuto in ogni singolo caso, da ciò il regime
facoltativo della confisca inerente il profitto. Tuttavia, poiché un giudizio
prognostico di attrattività del profitto non sembra criterio di certa
affidabilità ed efficacia, l’autore citato ritiene che il giudice sia titolare,
in ordine alla scelta se procedere o meno a tale forma di confisca, di
discrezionalità assolutamente libera.
177
Se si considera poi che ogni modalità illegittima di acquisizione della
ricchezza, tanto nella forma del profitto quanto in quella del prezzo, è
parimenti penalmente rilevante e che non è agevole rinvenire un motivo
che adeguatamente giustifichi la diversità di regime, facoltativo o
obbligatorio, può risultare utile una ricostruzione storico-sociologica.
La realtà criminale cui fanno riferimento i compilatori del Codice Rocco,
cui la confisca risale, non conosce ancora la presenza della criminalità
organizzata, dedita all’accumulo e al reinvestimento dei capitali illeciti,
plausibilmente perciò la diversità di trattamento sanzionatorio è legata
alla tipologia dell’autore del reato. La confisca è facoltativa rispetto ad
un soggetto che agisce per scopi di lucro, in modo disorganizzato ed
episodico, è invece obbligatoria quando si tratti di colpire un delinquente
abituale, che in maniera sistematica vende la propria disponibilità a
commettere un reato. Questa strutturazione è rispondente alle necessità
del sistema penale dell’epoca, che, teso alla salvaguardia della sfera
patrimoniale della vittima, garantisce la soddisfazione delle pretese
risarcitorie e restitutorie della vittima stessa. Quest’ultima infatti può
agevolmente agire personalmente per ottenere il profitto derivante dal
reato, di modo che la discrezionalità del giudice è legata all’iniziativa o
mancata iniziativa del privato. Diversamente la doverosità della confisca
178
del prezzo è del tutto obbligata, non potendo essere l’utile economico
conseguito tramite la commissione del reato oggetto di pretese diverse da
quelle dello Stato e dunque individuali.
Per lungo tempo, prosegue Fornari, la facoltatività della confisca dei
profitti illeciti e le note difficoltà di accertamento e di apprensione di
questi, che aggravano l’attività giudiziale, ha comportato nella prassi un
uso limitato di tale figura. Ma ciò che ne ha ostacolato e circoscritto il
ricorso, precisa l’autore, sono gravosi limiti operativi. Se infatti
l’introduzione di una regola di obbligatorietà della confisca del profitto,
sovente caldeggiata dalla Giurisprudenza, non solo assicurerebbe
esigenze di razionalità legislativa ma soprattutto garantirebbe l’assunto
che “il crimine non deve mai rendere”, ben altri sono gli ostacoli che si
frappongono all’effettività dell’istituto. I limiti cui si fa riferimento
attengono alla immediata connessione dei beni, oggetto di confisca, con
il fatto delittuoso. Precisamente: il bene da confiscare deve derivare dal
reato commesso e quanto alla qualità del bene medesimo, esso deve
identificarsi, integrandolo, con il corpo del reato. La prima condizione di
applicabilità indicata richiede non solo una diretta correlazione del bene
col reato produttivo del profitto illecito, ma anche con lo stesso oggetto
del reato, non rilevando una derivazione indiretta. Così argomentando
179
può accadere che il profitto, benché illecitamente conseguito, non è fatto
oggetto di confisca perché il bene che lo integra non è avvinto da un
nesso eziologico diretto ed essenziale con il reato commesso.
La seconda condizione, che parimenti alla prima rende difficile la
praticabilità dell’istituto, accede ad una caratteristica tipica della confisca
“classica”, qual’è la propensione a riguardare unicamente il bene
pertinente al reato in maniera specifica, e non un altro benché di valore o
di significato equivalente. Questa circostanza, che complica non poco
l’attività processuale, produce inoltre il non auspicabile risultato di non
colpire l’illecito arricchimento del reo, salvo ricorrano precisi requisiti,
quali quelli che il bene servì o fu destinato a commettere il reato o che si
tratti al più di beni che sostituiscono o trasformano i primi.
Per queste ragioni Fornari, ritenendo che alla luce delle finalità
preventive dell’istituto ciò che rileva è il valore del guadagno e non
anche il bene che lo integra, auspica, sull’esempio di molte legislazioni
straniere, il ricorso alla cosiddetta “confisca per equivalente”.
Questa tecnica ablativa consente, in caso di impossibilità di agire
direttamente sui beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, di
180
confiscare utilità patrimoniali di valore corrispondente, di cui il reo abbia
la disponibilità123.
Sintomatica di un incremento delle ipotesi di confisca obbligatoria
finalizzata a prevenire e reprimere fenomenologie delittuose tipicamente
produttrici di arricchimento illecito, e ciò al fine di ovviare alla confisca
facoltativa del profitto illecito della norma di parte generale, è la
confisca penale dei proventi mafiosi di cui al settimo comma dell’art.
416 bis C.P.. Questo stabilisce che nei confronti del condannato per
associazione di tipo mafioso va sempre disposta la confisca “delle cose
che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne
sono il prezzo, il prodotto o il profitto o che ne costituiscono l’impiego”.
Circa la natura giuridica l’obbligatorietà della confisca, a prescindere da
qualsiasi giudizio di pericolosità, induce la dottrina maggioritaria a
considerarla pena accessoria, avente come tale una funzione afflittiva e
generalpreventiva.
Servirono o furono destinati a commettere il reato tutti quei beni, mobili
o immobili, finalizzati alla struttura organizzativa, al metodo e alle
finalità associative.
123 Fornari L., Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, CEDAM, 1997, p. 19 ss.
181
Costituiscono invece il prezzo, il prodotto, il profitto del reato di
associazione di tipo mafioso, tutti quei beni in cui si concretizzano le
varie utilità indebite conseguite dall’associazione attraverso l’uso della
forza intimidatrice e in funzione attuativa del suo programma criminoso.
Quello che però emerge quale significativo dato nuovo è la confiscabilità
delle cose che costituiscono l’“impiego” dei proventi del reato. La ratio
della novità tiene conto della vocazione imprenditoriale della mafia.
In tal senso, dal momento che gli utili di un’impresa mafiosa rientrano
già tra i profitti del reato associativo in esame, deve ritenersi che il
legislatore, riferendosi all’impiego del prezzo, del prodotto o del profitto,
abbia inteso estendere la confisca a qualsiasi reinvestimento successivo
dei profitti delittuosi, ed anche ai reinvestimenti degli stessi utili
dell’impresa mafiosa. La confisca si estende anche ai beni che facenti
materialmente capo ad una siffatta impresa sono “strumenti” del reato
associativo124.
124 Gialanella A., Il punto sulla questione probatoria nelle misure di prevenzione antimafia, in Questione Giustizia, 1994, p. 777 ss.
182
4. Segue: la confisca penale obbligatoria dei valori ingiustificati prevista dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 e la sua applicabilità alle ricchezze mafiose “consolidate” Il limite della confisca penale prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis
C.P. sta nella sua sostanziale incapacità di raggiungere e colpire quelle
fasce di economia criminale mafiosa ormai da tempo consolidate, di cui
risulti impossibile ricostruire in maniera documentata le trasformazioni
più remote e, quindi, l’origine ultima.
È su questo terreno che viene ad incidere efficacemente il meccanismo
normativo introdotto con l’art. 12 sexies del D.L. 8/6/1992, n. 306.
Questa norma, che risulta di importanza fondamentale nel contesto delle
legislazione antimafia finalizzata all’individuazione e sottrazione alla
disponibilità dei titolari dei patrimoni illeciti, va a colmare il vuoto
normativo creato dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 12
quinquies, 2° comma del D.L. 306/1992, originariamente concepito
come strumento di indagine di ausilio al Pubblico Ministero nel corso del
procedimento penale.
Prima dunque di esaminare la “confisca allargata” e le sue peculiari
caratteristiche si rende necessario un breve cenno al contesto normativo
da cui essa ha origine.
183
L’art. 12 quinquies, espressione della piena consapevolezza legislativa in
ordine alle modalità con cui opera e alle forme in cui si estrinseca la
criminalità organizzata nel settore economico, segnerebbe secondo
alcuni il passaggio da un’impostazione tutta fondata su un concetto di
pericolosità soggettiva ad un’impostazione basata sulla pericolosità
oggettiva, vale a dire, sulla pericolosità del patrimonio, considerata in sé
e per sé. La norma, rappresentando un avanzamento ulteriore della sfera
di intervento penale, sancisce la punibilità a titolo delittuoso di chi risulti
semplicemente indagato e perciò, dunque, sospettato della commissione
di alcune fattispecie di reato, da ciò l’opinione che rimandi alla categoria
dei reati di sospetto.
Precisamente, sanziona con la reclusione da due a cinque anni e con la
confisca, la disponibilità in capo a soggetti indagati per gravi reati di
criminalità organizzata o sottoposti ad una misura di prevenzione
personale di “denaro, beni o altre utilità di valore sproporzionato al
proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria
attività economica, e dei quali non possano giustificare la legittima
provenienza”.
La maggiore perplessità riguarda la determinazione legislativa dei
soggetti attivi del reato, che, o sono sottoposti a procedimento penale e
184
dunque titolari di una condizione transitoria che non legittima ancora
alcun apprezzamento in termini di disvalore, oppure sono “coloro nei cui
confronti è in corso di applicazione o comunque si procede per
l’applicazione di una misura di prevenzione personale”, le quali misure
notoriamente denotano un procedimento dotato di ben minori garanzie
rispetto al procedimento penale. Già solo questo è valso alla norma
l’accusa di violazione di importanti principi costituzionali, quali la
presunzione di non colpevolezza (di cui al 2° comma dell’art. 27 della
Costituzione) e il diritto di difesa (di cui all’art. 24 Cost.).
Probabilmente però oltre alle molte imperfezioni della norma alcune
ritrosie rispetto ad essa sono derivate dal fatto che tale fattispecie penale
si è rilevata priva di ogni profilo di offensività nei confronti di un
qualsivoglia bene giuridico. Come sostiene Fiandaca : “l’oggetto di
tutela deve essere suscettivo…di concretizzarsi in esemplari individuali
materialmente ledibili e capaci di ricadere, da un punto di vista fisico-
naturalistico, nel raggio d’azione della condotta pericolosa”.
Ma è evidente che, nell’ipotesi di interessi di tipo economico o politico,
come nel caso di specie, l’offesa si diluisce e si fa sfuggente. Quanto poi
all’interesse tutelato dalla norma solo un’ardita operazione interpretativa
potrebbe rinvenire nella piena trasparenza in materia economica una
185
condizione necessaria per la tutela dell’ordine pubblico, il quale è bene
di tale importanza da poter al limite legittimare l’anticipazione della
sfera di tutela.
Tenuto conto di queste considerazioni non sorprende, perciò, che la
Corte Costituzionale con sentenza n. 48/1994, depositata il 17 febbraio
1994, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 quinquies, 2°
comma, limitandosi, tra i molti profili evidenziati, a riscontrare la
violazione dell’art. 27, 2° comma della Costituzione, facendo la
disposizione analizzata dipendere la realizzazione di un fatto penalmente
rilevante dalla circostanza che il suo autore sia o meno sottoposto a
procedimento penale125.
Il definitivo superamento della norma incriminatrice si verifica con
l’introduzione dell’art. 12 sexies, che introduce un’ipotesi di confisca
penale obbligatoria subordinata ad una avvenuta pronuncia di
responsabilità penale del soggetto interessato per determinati reati
particolarmente congeniali alla imprenditorialità criminale.
Condizione imprescindibile, dunque, perché si realizzi la confisca è che
sia intervenuto, a carico del soggetto passivo del provvedimento, tramite
125 Di Giovine O., Antichi schemi e nuove prospettive nella lotta alla criminalità organizzata. Dall’art. 708 C.P. all’art. 12 quinquies D.L. 8.6.1992, n. 306, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1994, I, p. 117 ss.
186
sentenza di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti, un
accertamento della sua responsabilità penale per taluno dei reati-
presupposto tassativamente indicati dallo stesso art. 12 sexies. A questa
condizione: “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle
altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di
cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare
o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al
proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria
attività economica”.
La confisca, definita “allargata” perché consente di privare la persona
interessata di tutti i beni patrimoniali sproporzionati alla sua capacità
economica, anche in assenza di derivazione causale rispetto al reato
contestato, sembrerebbe per questo insensibile al criterio di
proporzionalità tra il fatto e la sua conseguenza sanzionatoria; in
aggiunta, l’onere di allegazione della legittima origine dei beni posto a
carico della difesa degenera in un vero e proprio onere della prova
invertito, del quale la dottrina sottolinea il contrasto con la presunzione
187
di non colpevolezza e col cosiddetto diritto al silenzio dell’imputato o
dell’indagato126.
Difficile è anche la collocazione sistematica dell’istituto. La confisca
non è una misura di prevenzione, perché presupponendo un
accertamento giudiziale di un fatto criminoso manca del tratto
caratteristico delle misure di prevenzione, che è quello di ricorrere ante
delictum.
Parimenti rilevanti argomentazioni si frappongono alla possibilità di
considerare la figura in esame pena accessoria o misura di sicurezza. La
prima è tradizionalmente orientata ad interdire, in ragione del reato
commesso, dal compimento di determinate attività o prerogative
legittime di cui il reo abbia abusato; la misura, invece, di cui all’art. 12
sexies persegue la finalità di impedire un’attività di gestione perché
strumentale ad un sistema di riproduzione della ricchezza
inequivocabilmente illegittimo127. Quanto poi alla possibilità di
ricondurre l’istituto alle misure di sicurezza si ravviserebbe una forzatura
rispetto ad un carattere fondamentale delle stesse: “il fatto
commesso,…lungi dal fondare…un giudizio di pericolosità (personale o
126 Gialanella A., Prevenzione patrimoniale della mafia, utilitarismo versus garantismo, in Questione Giustizia, 2002, I, p. 667 ss. 127 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 63 ss.
188
reale che sia), scolora all’interno della norma in esame nella mera
occasione di un intervento totalmente emancipato dai contorni
patrimoniali del fatto su cui verte il procedimento, per trarre piuttosto
giustificazione e limite di estensione dalla (mera) mancata dimostrazione
dell’origine lecita del patrimonio (come del resto avveniva con tutta
evidenza nell’art. 12 quinquies, 2° comma nel cui solco la nuova
disposizione dichiaratamente si pone). In questo quadro, non appare
fuori luogo ritenere che con l’introduzione dell’ipotesi particolare di
confisca ex art. 12 sexies, il legislatore italiano abbia inteso creare, sulla
scia del “modello tedesco”128, una vera e propria sanzione patrimoniale a
carattere schiettamente punitivo, in cui il sacrificio del diritto di proprietà
è di entità tendenzialmente ben superiore al guadagno ottenuto tramite il
reato-occasione”129. Come accennato, del tutto disagevole appare la
compatibilità sistematica di una simile misura con i principi di
colpevolezza, proporzione, determinatezza, uguaglianza, con il diritto di
proprietà come costituzionalmente tutelato e con la presunzione di non
colpevolezza.
128 Il riferimento è alla sanzione della Vermogensstrafe, inserita nell’ordinamento tedesco del 1992. 129 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 67-68.
189
Focalizzate le argomentazioni ricorrenti con maggiore frequenza in
ordine alla natura giuridica della norma, occorre ora indagare le finalità e
le modalità applicative di essa.
La tendenza legislativa a svincolare l’applicazione delle misure
patrimoniali da quelle personali, sempre più marcata negli ultimi
decenni, risulta strumentale alla finalità di controllo della ricchezza
sospetta, che è utile non solo ad impedire l’inserimento di cespiti di
ricchezza in illeciti schemi di riproduzione di essa, ma anche per
supportare, attraverso le indagini patrimoniali, le inchieste giudiziarie sui
singoli reati. La funzionalità processuale, in particolare, risulta evidente
da una lettura complessiva della norma, che in relazione ai beni di cui è
ipotizzabile la confisca a seguito di condanna, prevede, nel corso delle
indagini preliminari relative ai reati-presupposto, la possibilità che siano
fatti oggetto di sequestro preventivo130.
Attraverso il sequestro preventivo il Pubblico Ministero, già nel corso
delle indagini preliminari relative a reati di criminalità organizzata o a
questa collegati, può aggredire con provvedimenti ablativi patrimoni che,
poiché di valore sproporzionato alle capacità economiche o reddituali del
soggetto, si presumono illecitamente costituiti. Non ricorrendo in capo al
130 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 71 ss.
190
P.M. l’obbligo, proprio delle misure di prevenzione, di provare la
mafiosità del soggetto interessato o che quest’ultimo vive abitualmente
coi proventi di determinati delitti, l’applicabilità del sequestro di cui al
4° comma dell’art. 12 sexies è unicamente subordinata alla sussistenza
della qualità di persona sottoposta ad indagini per i reati indicati e alla
confiscabilità dei beni, circostanza questa che offre alla pubblica accusa
un ulteriore e importante strumento di intervento.
Il controllo, infatti, dei patrimoni illecitamente costituiti, che vengono
così sottratti ad occultamenti e fittizie intestazioni, si rivela sovente
prezioso nei processi di mafia, perché consente una ricostruzione a
ritroso, che parte appunto dai beni, delle modalità di acquisizione e di
accumulazione dei patrimoni. Dunque, la circostanza che il patrimonio
sia a disposizione degli inquirenti non solo può consentire un riscontro
probatorio in relazione al reato-occasione, ma può anche fare emergere
reati rimasti nascosti131.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono occupate dell’art. 12
sexies in due distinte occasioni. Le due pronunce relative, la sentenza
Derouach132 del 2001 e quella Montella133 del 2004, hanno attribuito alla
131 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 80 ss. 132 Cass., SS.UU., 30.05.2001 133 Cass., SS.UU., 17.12.2003
191
confisca dei valori ingiustificati la natura giuridica di una “misura di
sicurezza patrimoniale dai connotati atipici”.
In queste due sentenze le Sezioni Unite hanno enunciato i seguenti
principi:
• La confisca dei valori ingiustificati può essere disposta anche dal
giudice dell’esecuzione.
• Essendo irrilevante il requisito della pertinenzialità del bene
rispetto al reato per cui si è proceduto, la confisca dei singoli beni
non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca
anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna, o
che il loro valore superi il provento del medesimo reato.
• Ai fini della “sproporzione” è necessario che i termini di raffronto
dello squilibrio siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività
economiche “non al momento della misura rispetto a tutti i beni
presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei
beni di volta in volta acquisiti”, mentre la “giustificazione”
credibile deve consistere “nella prova della positiva liceità della
loro provenienza e non in quella negativa della loro non
provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna”.
192
• Le condizioni per disporre il sequestro preventivo consistono,
quanto al fumus commissi delicti, nell’astratta configurabilità, nel
fatto attribuito all’indagato, di una delle ipotesi criminose elencate
nell’art. 12 sexies; mentre, per quanto attiene al periculum in
mora, “coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene” le
condizioni per disporre il sequestro consistono “nella presenza di
seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano
la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei
beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia
per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita
provenienza dei beni stessi.
5. Segue: la confisca come misura di prevenzione patrimoniale
Consente di pervenire ai medesimi risultati perseguiti attraverso
l’applicazione dell’art. 12 sexies del Decreto Legge 306/1992, ma
partendo da diversi presupposti e fornendo ben minori garanzie, il
sistema delle misure di prevenzione patrimoniali.
Tale sistema, incentrato sulla Legge 31.5.1965, n. 575, modificata dalla
L. 13.9.1982, n. 646 e da successivi interventi normativi, permette di
realizzare il sequestro e la successiva confisca dei beni di sospetta
193
origine illecita riconducibili a soggetti indiziati di appartenere ad
associazioni di tipo mafioso.
Il sequestro preventivo “extra-processuale”, sostanzialmente alternativo
a quello processuale previsto dall’art. 321 C.P., puo’ risultare, se
promosso in parallelo al procedimento penale per associazione di tipo
mafioso, utile strumento di supporto nelle indagini concernenti le fasce
di economia criminale consolidata. Promosso, dunque, il procedimento
penale, a norma degli articoli 2 bis e 2 ter della L. 575/1965, il Pubblico
Ministero è in grado di ottenere immediatamente e agevolmente,
nell’ambito del separato procedimento di prevenzione, il sequestro dei
beni sospetti di cui dispongano direttamente o indirettamente gli
indagati. In particolare il sequestro dei beni è previsto quando: “il loro
valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività
economica svolta ovvero quando, sulla basse di sufficienti indizi, si ha
motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego”. Peraltro, nel parallelo procedimento di
prevenzione, il P.M., qualora sospetti che i beni oggetto di sequestro
siano parti di economia criminale consolidata, può ottenere la confisca
“extra-processuale” dei suddetti beni, sempre che i soggetti interessati,
su cui grava l’onere della prova, non siano in grado di dimostrarne la
194
legittima provenienza e a prescindere, quindi, da qualsiasi pronuncia di
responsabilità penale, richiesta invece per la confisca di cui all’art. 12
sexies.
Nel caso in cui, però, all’esito del processo penale i medesimi cespiti di
ricchezza sottoposti a confisca extra-processuale nel procedimento di
prevenzione, vengano confiscati anche in sede penale134, la confisca
penale, come prevede l’ultimo comma dell’art. 2 ter, è comunque
destinata ad avere il sopravvento.
In conclusione, se il sequestro preventivo extra-processuale promosso
parallelamente al procedimento penale risulta agile provvedimento
ablativo, strumentale alla conseguente indagine patrimoniale, di grande
efficacia perché basato su un regime probatorio semplificato rispetto a
quello del sistema penale, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda il
ricorso alla confisca extra-processuale, che, trovando attuazione rispetto
a soggetti che sono solo indagati o imputati, presenta minori garanzie di
tutela rispetto all’art. 12 sexies135.
134 A norma dell’art. 240 C.P. o dell’art. 416 bis C.P., ovvero anche a norma dell’art. 12 sexies del D.L. 306/1992. 135 Gialanella A., Dall’indiziato di mafia alla pericolosità del patrimonio, in Questione Giustizia, 2000, p. 1062 ss.
195
6. La sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni nella Legge n. 575/1965: gli artt. 3 quater e quinquies Individuata la “compresenza di due binari di intervento paralleli”, uno
integralmente penale e l’altro allargato, Fornari ravvisa l’esistenza di
sistemi di controllo che, sempre con riferimento alle misure reali, si
presentano in larga misura autonomi, e che costituiscono “il punto di
arrivo di una evoluzione normativa di rara tortuosità, in cui può però
ravvisarsi il segno di una aspirazione costante e ben precisa: quella di
chiudere ogni varco alla fruizione da parte delle criminalità organizzata
delle fasce di ricchezza consolidata inattingibili dalla confisca-misura di
sicurezza”136. In vista di tale obiettivo l’autore auspica che si accentui il
ricorso ad interventi preventivi sui patrimoni illeciti, tendenza
manifestatasi già con gli articoli 3 quater e 3 quinquies, introdotti
dall’articolo 24 del D.L. 8.6.1992, n. 306 nel corpo della L. 575/1965.
La mancanza del normale nesso di presupposizione tra le misure
personali e quelle patrimoniali di prevenzione è in queste norme quanto
mai evidente. Il sistema di controllo dei patrimoni mafiosi predisposto da
queste disposizioni presenta un aspetto assolutamente nuovo: ciò che
rileva non è ricostruire l’origine di ricchezze statiche, attraverso indagini
che muovono dal soggetto, ma circoscrivere il campo di indagine
136 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 83-85.
196
secondo un criterio diverso, che è quello dell’utilità prestata ad interessi
criminali. Oggetto dell’intervento preventivo è direttamente l’attività
economica che si suppone inserita in un circuito illegale137.
Il primo comma dell’art. 3 quater della Legge 575/1965 contempla la
fattispecie in cui, a seguito degli accertamenti svolti ai sensi dell’art. 2
bis della medesima legge o per “verificare i pericoli di infiltrazione da
parte della delinquenza di tipo mafioso”, ricorrano “sufficienti indizi”
per ritenere che l’esercizio di determinate “attività economiche,
comprese quelle imprenditoriali, sia, anche indirettamente, sottoposto
alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’art.
416 bis del Codice Penale o possa, comunque, agevolare l’attività di
persone nei cui confronti sia stata proposta o applicata una misura di
prevenzione personale ai sensi dell’art. 2 della legge citata ovvero di
persone sottoposte a procedimento penale”, per taluno dei delitti previsti
dagli articoli 416 bis, 529, 630, 644, 648 bis e 648 ter del Codice Penale
senza che nei confronti del soggetto che esercita le attività economiche
ora dette ricorrano i presupposti per l’applicazione delle misure di
prevenzione di cui all’art. 2.
137 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 72-75.
197
In tale fattispecie la norma citata prevede che il procuratore della
Repubblica o il questore possano chiedere al tribunale competente per
l’applicazione delle misure di prevenzione, di disporre ulteriori indagini
e verifiche sulle predette attività economiche, oltre che l’obbligo, a
carico di chi abbia la proprietà o, comunque, la disponibilità di beni o
altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria
capacità economica, di giustificarne la legittima provenienza. Il fine di
tali indagini è quello di raccogliere “sufficienti elementi” per ritenere che
il libero esercizio di queste attività economiche agevoli le attività
criminali delle persone che versano nelle condizioni processuali
suindicate. Questo complesso dimostrativo consente al tribunale di
adottare la sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni
utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento di dette
attività economiche. Inoltre, quando vi sia concreto pericolo che i beni
sottoposti alla sospensione temporanea dell’amministrazione “vengano
dispersi, sottratti o alienati”, il procuratore della Repubblica o il questore
possono chiedere al tribunale di disporne il sequestro.
L’art. 3 quinquies, II°, III° e IV° comma della Legge 575/1965,
definisce, quindi, i possibili ed alternativi esiti del procedimento: la
confisca di quelli, tra i suddetti beni, che si abbia “motivo di ritenere che
198
siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”; ovvero la
revoca della sospensione disposta. In tale ultimo caso la confisca
obbligatoria colpisce anche i beni acquistati e i pagamenti ricevuti nel
quadro di un’amministrazione “sorvegliata”, quando sia stato violato
l’obbligo di comunicare, al questore o alla polizia tributaria gli atti e le
circostanze ad essi relativi138.
L’obiettivo perseguito dal Legislatore mediante la predisposizione
dell’istituto di cui all’art. 3 quater è quello di realizzare una sorta di
cordone di sicurezza attorno ai soggetti appartenenti ad organizzazioni
mafiose al fine di colpire alla radice le fonti di approvvigionamento e di
incremento patrimoniale; tuttavia la non semplice formulazione della
norma richiede chiarificazioni di natura interpretativa e sistematica.
In questo senso di rilievo risultano le impostazioni di Fornari e di
Mangione.
L’approccio “oggettivistico”, proprio delle misure di prevenzione
patrimoniale di cui all’art. 3 quater e 3 quinquies, e funzionale alla
realizzazione del controllo della ricchezza mafiosa, è assolutamente
oggetto di positiva valutazione e di una conseguente promozione da
parte di Fornari.
138 Giglio V., La sospensione dell’amministrazione di beni per agevolazione di attività mafiose: uno strumento da rivedere, in Questione Giustizia, 1999, p. 936 ss.
199
Una strategia di intervento efficace in vista della individuazione ed
emersione dei patrimoni illeciti mafiosi impone che l’indagine venga
svincolata dai limiti operativi del processo penale, che risulta perciò uno
ma non l’unico mezzo di contrasto del crimine organizzato. Il motivo è
che nel processo penale l’intervento di natura patrimoniale è conseguente
alla individuazione della responsabilità penale del soggetto interessato; il
sistema delle misure di prevenzione, invece, legittima un intervento
diretto sul patrimonio, che ha quale unico presupposto il sospetto
dell’illecita origine e/o destinazione dello stesso. L’osservanza di un
obbligo generale di trasparenza patrimoniale, da tempo affermatosi
nell’ordinamento tributario, spiega i presupposti di operatività delle
misure patrimoniali antimafia e supera l’idea che esse servano ad
aggirare vincoli probatori insuperabili in sede penale. Per queste ragioni
l’Autore auspica l’accentuazione del taglio spiccatamente preventivo
degli interventi sul patrimonio “che privilegino l’incidenza,
possibilmente tempestiva, su realtà economiche che, già ad una
considerazione oggettiva, si pongono al di fuori, per la funzione da esse
svolta, dell’area di fruibilità delle garanzie costituzionali di cui all’art. 41
della Costituzione”.
200
Alcune critiche vengono inoltre mosse ad un’interpretazione degli
articoli 3 quater e 3 quinquies diffusa in dottrina all’indomani della
genesi del nuovo istituto, compendiata nel pensiero di Mangione, e a
giudizio di Fornari non rispondente ai meccanismi operativi delle norme.
La tesi cui si replica è quella secondo cui, quanto ai profili soggettivi
della fattispecie, il legislatore sarebbe ricorso ad una tecnica di
“tipizzazione ambientale” troppo distante dalla soglia di effettive
responsabilità penali, ed avrebbe inoltre proceduto ad una irragionevole
“equiparazione tra vittima e colluso”, in funzione della quale entrambi
finiscono con l’essere assoggettati al “medesimo trattamento giuridico”,
fondato su un giudizio di “pericolosità reale” che omologa realtà
soggettive del tutto diverse.
Fornari così argomenta: poiché l’obiettivo indicato dallo stesso art. 3
quater è reagire ai “pericoli di infiltrazione da parte della delinquenza di
tipo mafioso”, una volta individuata una realtà economica che agevola la
realizzazione degli interessi di quella, al fine di ripristinare le normali
dinamiche economiche, è opportuno procedere alla sospensione
dell’amministrazione dei beni, sia nel caso dell’imprenditore colluso sia
in quello dell’imprenditore vittima. A questo punto, tuttavia, l’alternativa
tra confisca e revoca indicata dall’art. 3 quinquies è opportunamente
201
prevista al fine di diversificare il trattamento delle imprese che traggono
vantaggi economici dalla collaborazione da quelle assoggettate ai
sodalizi mafiosi. Alle prime si applicherà la confisca dei beni “che si ha
motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il
reimpiego”, alle seconde la revoca dell’amministrazione provvisoria.
Il Legislatore, perciò, lungi dal procedere a confische indiscriminate,
prevede una diretta intromissione statale nella gestione dell’impresa al
solo scopo di eliminarne gli aspetti più compromessi.
In conclusione, la categoria delle misure patrimoniali, benché di grande
utilità in vista del controllo dell’economia criminale, presenta
nondimeno gravi limiti strutturali che non le consentono di cogliere gli
aspetti dinamici della circolazione dei capitali. La circostanza che le
misure in questione intervengano unicamente su nuclei economici statici,
palesa la necessità di fare “ricorso ad un sistema di tutela del mercato
finanziario che ne garantisca la trasparenza in tutte le fasi della
circolazione dei capitali”, con particolare attenzione alle operazioni
sospette di riciclaggio139.
Una totalmente diversa impostazione delle questioni che interessano le
misure di prevenzione patrimoniali fa capo a Mangione.
139 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 235-246.
202
La sua critica delle misure di prevenzione investe sia i presupposti
soggettivi, quali gli indizi di appartenenza ad associazioni di tipo
mafioso e la conseguente pericolosità sociale, sia quelli oggettivi, quali
gli indizi dell’illecita provenienza del patrimonio. Secondo l’Autore
nella prevenzione antimafia la figura dell’indiziato di mafia è stata
costruita ipotizzando una simbiosi tra colpevolezza e pericolosità, di
modo che la fattispecie preventiva e quella di reato sono distinte soltanto
dalla diversa valenza probatoria richiesta, dal che discende
clamorosamente che la misura di prevenzione è diretta a colpire quei fatti
che l’accusa non è in grado di provare, ossia che il sistema giuridico
tollera che il sospetto, le illazioni e le mere presunzioni possano
legittimare l’applicazione di misure essenzialmente afflittive.
Per i requisiti oggettivi, la disponibilità diretta o indiretta del bene
costituisce lo strumento per penetrare nei segreti economici e finanziari
della criminalità organizzata ed aggredirne le ricchezze illecite.
Il meccanismo operativo, che annovera tra i suoi strumenti più discutibili
la confisca antimafia, ha aspetti di profonda ingiustizia, in quanto
sacrifica sistematicamente alla difesa sociale ampie fasce di interessi e di
diritti soggettivi meritevoli di tutela.
203
In effetti il sistema delle cosiddette misure ante delictum, che
sostanzialmente poggia su finzioni giuridiche, quale appunto la
pericolosità, persegue l’obiettivo di “incapacitare”, sia dal punto di vista
patrimoniale che da quello personale, particolari categorie di soggetti.
Tali misure infatti incidono pesantemente oltre che sulla libertà di
iniziativa economica, anche sulla tutela del lavoro (art. 35 Cost.) e della
famiglia (art. 31 Cost.), ostacolando seriamente il libero estrinsecarsi
della personalità umana, sia nella sua singolarità che in tutte le
formazioni sociali a cui partecipa (artt. 2 e 3 Cost.). Il sacrificio di beni
costituzionalmente tutelati dovrebbe, però, presupporre un accertamento
di responsabilità penale. Questo non solo richiede un consistente
materiale probatorio ma presuppone anche la violazione di un bene
tutelato a livello costituzionale. Diversamente, l’attuazione delle misure
di prevenzione non prevede affatto queste garanzie, oltre a realizzare un
carico afflittivo non proporzionato ai presupposti applicativi.
Alla luce di queste osservazioni generali le critiche di Mangione
diventano ancora più incisive allorquando si tratta di esaminare lo
schema adottato dal legislatore negli articoli 3 quater e 3 quinquies.
In essi la qualità indiziante, di regola richiesta per l’applicazione delle
misure di prevenzione del sequestro e della confisca di cui all’art. 2 ter
204
L. 575/1965, non ricade neanche sul destinatario della misura.
L’obbiettivo di incidere nel sottobosco della “contiguità” tra mafia e
impresa spinge a prescindere volutamente da un giudizio di pericolosità
personale, così violando il primo comma dell’art. 27 della Costituzione.
Per questa ragione si estende in maniera eccessiva l’ambito di
applicazione della misura; si fa dipendere l’applicazione di essa dalla
qualifica del terzo che, lungi dall’essere stato colpito da una sentenza di
condanna, è ancora solo sottoposto o proposto per l’applicazione di una
misura di prevenzione, ovvero indagato o imputato per l’applicazione di
alcuni gravi delitti; infine, l’estremo della “sproporzione” tra reddito e
patrimonio, riferendosi al presunto colluso, non esprime alcun
collegamento causale con la presunta origine illecita facendo apparire
inammissibile e inutile “l’obbligo di giustificazione”.
Numerosi sono soprattutto i profili di incostituzionalità che Mangione
ravvisa negli articoli 3 quater e 3 quinquies.
Innanzitutto, e con ciò come ribadito discostandosi da Fornari, ritenendo
che il legislatore abbia previsto il medesimo trattamento giuridico per le
due ipotesi nettamente distinte di vittima e di colluso, assume violato il
principio di uguaglianza. Del resto la stessa Corte Costituzionale nella
sentenza n. 487/1995 segue un’impostazione fuorviante allorquando,
205
concentrando l’attenzione sul solo provvedimento ablativo finale,
ravvisa la diversità di trattamento nel fatto che questo si applichi solo al
caso in cui l’interessato non riesca a dimostrare l’origine lecita dei beni
di cui è sospesa l’amministrazione, con ciò trascurando che già la
sospensione e/o il sequestro viola principi costituzionali.
Anche l’istituto dell’inversione dell’onere della prova non è esente da
accuse di illegittimità costituzionale. L’interessato innanzi agli indizi
contestati deve dimostrare la legittimità delle proprie possidenze laddove
intenda ottenere la revoca della sospensione e/o del sequestro, poiché nel
caso contrario andrà incontro alla confisca. Tuttavia, nella prassi,
l’insufficienza dell’allegazione difensiva del soggetto fa si che il
complesso di indizi rilevanti ai fini della sospensione sia sufficiente ad
emanare il provvedimento di confisca. Poiché però i provvedimenti
definitivi, e quindi anche la confisca, necessitano di un grado di certezza
probatoria assimilabile alla prova vera e propria, si assumono violati
l’art. 3 e l’art. 24 della Costituzione.
Da ultimo, quanto al principio di legalità, pur potendo accogliere la
distinzione tra “legalità repressiva” e “legalità preventiva” e pur potendo
riconoscere che la tipizzazione di una fattispecie di sospetto presenta
difficoltà superiori a quelle che si pongono in tema di incriminazione,
206
l’Autore ritiene che tutto questo non possa legittimare una deroga a
siffatto principio. La sua ratio garantista si collega intimamente al
primato della persona umana come “valore etico” in sé, non
strumentalizzabile per alcuna finalità di politica criminale. Per queste
ragioni Mangione auspica che, nel campo delle misure di prevenzione, si
faccia ricorso a tecniche di normazione che impongano la necessità
dell’accertamento della “concretezza della pericolosità” e “l’univocità
delle condotte sintomatiche”140.
7. Il sistema degli appalti
Nell’ambito della logica imprenditoriale mafiosa volta alla gestione
monopolistica di attività economiche, una rilevante e fondamentale
funzione è rivestita dal controllo di determinati atti e procedimenti
amministrativi tra cui senza dubbio spiccano gli appalti pubblici141.
In tale settore, infatti, la capacità di pressione e l’influenza che gli
associati all’organizzazione criminale riescono ad esercitare sugli organi
amministrativi competenti è ingente; tale condizione si attua attraverso
140 Mangione A., La ‹‹contiguità›› alla mafia fra ‹‹prevenzione›› e ‹‹repressione››: tecniche normative e categorie dogmatiche, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1996, p. 705 ss. 141 Con il contratto di appalto, una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro (art. 1655 ss. c.c.). Si distinguono quindi gli appalti di opere dagli appalti di sevizi.
207
condotte complesse fondate sull’utilizzo degli “strumenti”
dell’intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà142.
Attualmente, in attuazione delle Direttive comunitarie 2004/17/CE e
2004/18/CE, relative al coordinamento complessivo della materia dei
pubblici contratti, la disciplina delle concessioni, degli appalti e dei
servizi pubblici è stata compendiata in maniera completa nel cosiddetto
“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”143.
Questo nuovo testo normativo, entrato in vigore il 1° luglio 2006, è però
evidentemente troppo recente perché si possano trarre dei dati certi o
delle ragionevoli previsioni circa i risultati positivi che potranno
concretizzarsi avverso le condotte illegali delle organizzazioni
mafiose144. Tali condotte costituiscono il cosiddetto “metodo mafioso”
che si consacra in elementi che la giurisprudenza della Suprema Corte
distingue in essenziali ed eventuali.145
142 L’associazione mafiosa è dunque in grado di operare attraverso l’utilizzo di due diverse ma strettamente connesse modalità: la commissione di illeciti penali, nonché quella di illeciti amministrativi. Così facendo l’organizzazione acquisisce sostanzialmente sia un potere di strumentalizzazione che un potere di evitare le conseguenti sanzioni. 143 Il nuovo Codice, oltre ad innovare la materia in oggetto, trasforma la precedente Autorità preposta al controllo di questo settore in Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ampliandone i poteri. In merito si veda: Borraccetti V., Gli aspetti di rilevanza penale, in Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Santarcangelo di Romagna, 2007, p. 399 ss. 144 Turone G., Il delitto…, cit., p. 226 ss. 145 Cass., sez. V, sent. 4893 del 20.04.2000
208
Sono elementi essenziali: la forza intimidatrice, la condizione di
assoggettamento e l’atteggiamento omertoso; sono elementi eventuali: la
violenza e la minaccia.
Come già accennato, gli appalti di opere pubbliche sono quelli
normalmente presi di mira dalle imprese mafiose operanti nel settore
edilizio che incentrano il proprio interesse non soltanto verso quelle
opere destinate a divenire oggetto di proprietà pubblica, ma tutte quelle
che riguardano comunque la pubblica amministrazione e si collegano
all’utilizzo di denaro pubblico146.
Le imprese mafiose (caratterizzate dall’intera compenetrazione
dell’organizzazione criminale nel capitale sociale della società che
gestisce l’impresa) e quelle contigue al sodalizio mafioso (la cui
agevolazione agli scopi mafio-economici di gestione del settore
d’interesse conduce sostanzialmente alla strumentalizzazione di imprese
originariamente pulite da parte dell’organizzazione criminale) finiscono
sostanzialmente per influire sulla regolarità del procedimento
amministrativo previsto per i pubblici appalti147, e perseguire così il loro
illegale accaparramento.
146 In realtà, un’impresa mafiosa operante su un dato territorio in regime quasi di monopolio può accaparrarsi, applicando i metodi che le sono propri, sia gli appalti privati che quelli pubblici. 147 Atto di approvazione del progetto, avvisi d’asta, approvazione del contratto e così via.
209
Volendo prendere a titolo esemplificativo il contesto venutosi a creare in
Sicilia148, è significativo osservare come al preesistente sistema di illecita
lottizzazione spartitoria degli appalti pubblici (1980/1990), dominato (in
maniera ugualmente illegittima) esclusivamente da gruppi
imprenditoriali, esponenti politici e pubblici funzionari costituenti i
cosiddetti “comitati d’affari”, sia si sostituito il complesso sistema
mafioso di Cosa Nostra.
Uno degli obiettivi di Cosa Nostra è quello di intervenire,
condizionandolo, sul settore economico ed imprenditoriale della società
civile. L’associazione penetra il tessuto sociale ed economico del
territorio nel quale agisce, avvalendosi, a tal fine, anche del contributo di
soggetti che, pur se non formalmente inseriti nella stessa, sono
comunque disponibili a svolgere compiti di importanza vitale per
l’associazione149.
Dopo la guerra di mafia del 1981 conclusasi con lo strapotere dei
“corleonesi”, non solo si pose fine al cosiddetto principio della
territorialità, in forza del quale ogni famiglia esercitava un controllo
148 Certamente non meno insidiosi sono i sistemi di condizionamento venutisi a creare in Calabria e Campania. 149 Lembo C., Coordinamento investigativo e cooperazione istituzionale: nuove prospettive della lotta alla criminalità organizzata nel settore dei lavori pubblici, in AA.VV., Il coordinamento delle indagini di criminalità organizzata e terrorismo, a cura di G. Melillo, A. Spataro, P.L. Vigna, Milano, 2004, p. 335 ss.
210
pressoché assoluto su tutte le attività lecite ed illecite che si svolgevano
nel territorio di sua pertinenza, ma si compì anche la definitiva erosione
del potere dei comitati d’affari politico-imprenditoriali esterni a Cosa
Nostra.
Il cosiddetto “metodo Siino” (originariamente proposto dall’esponente di
Cosa Nostra Angelo Siino), noto anche come metodo della “rotazione
programmata” ovvero del “tavolino”, viene fatto proprio dal vertice
dell’organizzazione e sperimentato dapprima in ambito ristretto, ma
successivamente si trasforma in sistema globale di controllo verticale
degli appalti pubblici sull’intero territorio siciliano ponendo in essere
una sostanziale soppressione del regime di libera concorrenza.
In sostanza, dopo che il vertice di Cosa Nostra seleziona a monte gli
appalti pubblici sui quali intervenire, e dopo che i cosiddetti
“imprenditori interfaccia” seguono l’appalto nella fase del
finanziamento150, si passa alla fase operativa.
Attraverso il sistema di rotazione programmata, tutte le imprese
sottoposte alla regia dell’organizzazione hanno la garanzia di ottenere a
turno l’aggiudicazione di appalti pubblici, offrendo il minimo ribasso. Si
150 Tale controllo avviene concretamente attraverso l’intrattenimento da parte degli stessi “imprenditori interfaccia” di rapporti personali con quegli esponenti del modo politico e delle Pubbliche Amministrazioni interessate che svolgono un ruolo ai fini dell’approvazione e dell’erogazione del finanziamento.
211
tratta insomma di stabilire anticipatamente quali imprenditori dovranno
astenersi dalla gara prescelta, nonché di decidere quale ribasso dovrà
proporre ciascuna delle imprese partecipanti, così garantendo
l’aggiudicazione dell’appalto secondo lo schema predeterminato151.
Essenziale è poi evidenziare che le suddette tecniche di manipolazione
hanno modalità che variano a seconda del tipo di gara.
Nelle gare d’appalto svolte attraverso licitazione privata, ad esempio, la
manipolazione avviene mediante la preventiva determinazione dei ribassi
che ciascuna impresa deve indicare nella sua offerta. In alcune gare
vengono poi predisposti dei bandi che, mediante accorte “griglie di
sbarramento”, circoscrivono il numero delle imprese abilitate a
partecipare.
Solitamente gli imprenditori preselezionati riescono a raggiungere
l’intesa con gli altri imprenditori152 senza alcuna necessità di interventi
diretti di Cosa Nostra, in quanto questi ultimi ben sanno che esiste un
sistema di turnazione e che, comunque, l’impresa che chiede alle altre il
“pass” (cioè l’astensione dal partecipare alla gara o la partecipazione
presentando offerte di appoggio) ha avuto a monte la garanzia
151 Turone G., Il delitto…, cit., p. 243. 152 L’intesa concerne il comportamento da seguire in merito alla eventuale astensione dalla partecipazione e anche l’indicazione del ribasso da parte di ciascuna impresa partecipante.
212
dell’aggiudicazione dell’appalto impegnandosi a pagare una tangente al
referente dell’organizzazione mafiosa, il quale poi provvede direttamente
a distribuire le relative quote di spettanza dei politici, dei pubblici
amministratori, della famiglia del luogo in cui devono eseguirsi i lavori e
dell’organizzazione in generale153.
Il volto mafioso dell’organizzazione emerge in modo inequivocabile nei
momenti di “crisi”, cioè nei casi in cui occorre ricondurre al rispetto
delle “regole” imprenditori che non si adeguano al contesto in atti154.
L’esclusione dalla gara si ottiene attraverso l’intervento dei referenti
territoriali dell’organizzazione, attraverso la sottrazione fraudolenta di
documenti o, in casi estremi, mediante il ricorso all’assassinio155.
Tale più marcato condizionamento si attua anche nei casi in cui
l’aggiudicazione dell’appalto vada ad una impresa diversa da quella
“prescelta”. In tale circostanza, infatti, l’impresa può essere costretta: a
versare l’intero margine del suo guadagno all’impresa predestinata; a
corrispondere l’equivalente della tangente da questa anticipata o a cedere
153 Poiché gli accordi vengono “chiusi” direttamente dall’impresa designata, le altre imprese in gara possono quindi anche restare all’oscuro del fatto che l’impresa predestinata ad aggiudicarsi l’appalto sia stata selezionata da Cosa Nostra, e ritenere che abbia invece soltanto trattato l’aggiudicazione dell’appalto direttamente con i politici erogatori del finanziamento. 154 Aliquò V., Mafia, appalti, processo penale – In attesa di nuove vie per la legalità, in www.appinter.it. 155 Accrescendo, in tal modo, la forza intimidatrice dell’organizzazione.
213
parte del guadagno mediante subappalti a imprese mafiose e acquisti di
forniture dalle stesse156.
E’ evidente dunque che in tutto il descritto sistema è prioritario solo ed
esclusivamente l’interesse mafioso.
Tale interesse primeggia anche nella fase di esecuzione dei lavori e si
concretizza nel sopra visto obiettivo più immediato di lucrare tangenti,
collocare manodopera nei subappalti e far acquisire le forniture dalle
“ditte amiche”; ma anche nell’obiettivo più generale di controllare gli
aspetti essenziali della vita politica ed economica del territorio. Ciò vale,
senza dubbio, per tutte le “organizzazioni” operanti in Italia e non solo
per la mafia siciliana.
Il sistema, infine, si diversifica in tre differenti tipologie di appalti:
gestiti da Cosa Nostra; gestiti da imprenditori; gestiti da imprenditori con
richiesta di intervento a Cosa Nostra.
Nella prima tipologia, gli imprenditori si limitano a seguire le direttive
impartite dagli emissari dell’organizzazione mafiosa senza stabilire
rapporti con i politici e i pubblici amministratori percettori delle tangenti.
Gli importi globali delle tangenti, comprendenti le quote di pertinenza
156 Lembo C., Coordinamento investigativo…, cit., p. 340 ss.
214
dei politici e di Cosa Nostra, vengono versate direttamente ai referenti
che provvedono poi alla ripartizione interna delle varie quote.
Invece, nella seconda tipologia di appalti, gli imprenditori, dopo avere
ottenuto dai loro referenti politici e amministrativi l’erogazione del
finanziamento dell’opera pubblica da appaltare, operano autonomamente
in modo da pilotare l’aggiudicazione dell’appalto a loro favore mediante
accordi collusivi con i politici, con i pubblici amministratori (redazione
di bandi di gara con particolari griglie di sbarramento, comunicazione di
informazioni riservate, favoritismi in sede di valutazione tecnico-
discrezionale di progetti di miglioramento tecnico, etc.), e con le altre
imprese, alle quali viene chiesto di non partecipare alla gara o di
presentare offerte concordate di appoggio. Le tangenti vengono poi
pagate al momento dell’erogazione del finanziamento e/o al momento
dell’aggiudicazione della gara.
In questi casi il rapporto con Cosa Nostra viene instaurato solo nella fase
di esecuzione dei lavori, nella forma del pagamento di tangenti e della
concessione di subappalti ad esponenti delle famiglie mafiose del luogo
di esecuzione157.
157 Uno degli strumenti più efficaci adottati dalla sistema mafioso per entrare nella gestione degli appalti è stata storicamente l’imposizione dei subappalti, soprattutto in forma occulta, imponendo alle imprese appaltatrici dei grandi lavori pubblici la presenza di piccole imprese operanti in tutti quei settori che, non necessitando di specifiche competenze tecniche e progettuali, consentono
215
Infine, la terza ipotesi considerata si sostanzia in una variante di quella
appena descritta e si verifica nel caso in cui l’impresa che ha gestito
direttamente con i politici l’aggiudicazione dell’appalto a suo favore, si
trovi in difficoltà in quanto non riesce a coordinare e controllare il
comportamento di altre imprese concorrenti che si rifiutano di concedere
il “pass”.
In tale ipotesi viene richiesto l’intervento dei referenti territoriali di Cosa
Nostra, i quali rimuovono l’ostacolo utilizzando metodologie mafiose158.
Dopo l’analisi di ciò che rappresenta e di ciò che realmente è questo
“sistema” messo in atto dall’organizzazione mafiosa, è opportuno tornare
brevemente al sopra citato “Codice dei contratti pubblici” (D.Lgs. 12
aprile 2006, n. 163).
La struttura di questa norma possiede in se un excursus di elementi
positivi che vanno dall’enunciazione, nell’art. 2, dei principi da
rispettarsi nello svolgimento dell’appalto (principi di economicità,
l’inserimento di imprese ditate soltanto di beni strumentali minimi e di semplice manodopera. Si è così determinata la crescita imprenditoriale delle imprese subappaltatrici legate all’organizzazione criminale. In merito si veda: Aliquò V., Mafia…, cit. 158 E’ necessario aggiungere che le tipiche condotte poste in essere dai membri di un sodalizio mafioso al fine di condizionare i pubblici appalti comporteranno sempre anche l’incriminazione per il reato specifico di “turbata libertà degli incanti” (ex art. 353 c.p. ed aggravato ex art. 7 del D.L. 152/1991). Esse potranno altresì comportare, eventualmente, l’incriminazione per l’ulteriore reato di “illecita concorrenza con minaccia o violenza” (ex art. 513 bis c.p., con la medesima aggravante). Riguardo le posizioni giuridiche di imprenditori, pubblici amministratori e politici variamente coinvolti nel condizionamento mafioso di appalti, esse potranno consistere nella contestazione anche a costoro del reato associativo (sia in termini di “partecipazione” che di “concorso esterno”).
216
efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza, parità di
trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e
pubblicità), fino alla determinazione delle procedure di monitoraggio per
la prevenzione e repressione di tentativi di infiltrazione mafiosa prevista
dall’art. 180.
Di primaria importanza sono anche la particolareggiata disciplina delle
procedure di affidamento contenuta negli articoli dal 34 al 52, nonché le
statuizioni riguardanti i criteri di selezione delle offerte indicati negli
articoli dall’81 all’89.
Essenziali sono infine le prescrizioni rispetto alla normativa antimafia ed
alla prevenzione e repressione della criminalità, rispettivamente
contenute negli articoli 116 e 176159.
Vi è dunque una ragionevole prospettiva che il nuovo testo normativo
possa rendere quanto meno più difficoltoso il controllo degli appalti da
parte delle organizzazioni mafiose160, garantendo trasparenza, corretta
gestione e particolari forme di pubblicità. Tutto ciò nella consapevolezza
degli ostacoli e delle difficoltà connaturate alla complessità del “sistema”
e del “metodo” caratterizzanti la mafia, e fin qui descritti161.
159 Borraccetti V., Gli aspetti…, cit., p. 399 ss. 160 Tutte le organizzazioni mafiose, non solo quelle siciliane. 161 Turone G., Il delitto…, cit., p. 236 ss.
217
A dir poco pertinente è in proposito la massima dell’ordinanza-sentenza
emessa nel maxiprocesso “Abbate + 706”, che, in merito al
coinvolgimento di tanti imprenditori in indagini giudiziarie concernenti
la mafia, ed esplicitando la suddetta complessità di tale distorto contesto,
sostiene che, da un lato, il clima di intimidazione mafiosa è così pesante
da determinare il convincimento della incapacità dello Stato ad
assicurare le condizioni di una pacifica convivenza; dall’altro, la
“protezione” di Cosa Nostra consente di svolgere nel migliore dei modi
lucrose attività economiche.
A fronte dell’esistenza di una tale estesa area grigia di “contiguità” fra
mafia e settori del mondo economico e finanziario, concludendo, è assai
arduo stabilire, nel caso concreto, dove finisce l’azione necessitata dalla
imposizione mafiosa e dove comincia il coinvolgimento ed il
fiancheggiamento delle attività mafiose.
8. Il meccanismo della protezione-estorsione
Il delitto di estorsione è stato inserito dal legislatore del 1930 nel libro II,
titolo XIII, capo I del Codice Penale, che disciplina i delitti contro il
patrimonio commessi mediante violenza alle cose o alle persone. Il reato
è comune, perché può essere commesso da chiunque e appartiene al
218
novero dei delitti di cooperazione con la vittima, essendo indispensabile
che questa compia l’atto desiderato per l’integrazione della fattispecie
normativa.
La norma incriminatrice, che interessa settori diversi, viene qui di
seguito considerata in relazione alla sua commissione ad opera di
soggetti appartenenti ad associazioni di stampo mafioso. Benché le
statistiche giudiziarie non siano rappresentative della realtà del
fenomeno estorsivo, a causa di un ricorso ancora limitato allo strumento
della denuncia, il racket delle estorsioni, nella forma della c.d.
ricompensa per la protezione (c.d. pizzo), rappresenta l’attività più
risalente delle mafie e fondamentale mezzo di reperimento di capitali e
di radicamento nel territorio162.
Infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma è duplice, da un lato la
norma tutela il patrimonio nel suo complesso contro aggressioni
compiute, nel caso che qui interessa, da appartenenti al sodalizio
mafioso; dall’altro la libertà di autodeterminazione della vittima.
La condotta penalmente rilevante consiste nell’uso di violenza o di
minaccia diretto prima a creare uno stato di costrizione psichica e ad
ottenere, poi, un profitto ingiusto per sé o per altri con correlativo altrui
162 Si veda in merito Cap. III, par. I.
219
danno. Dunque le modalità alternative o congiunte della condotta sono
l’uso della violenza o la minaccia.
La violenza, quale mezzo di coazione del volere, in grado di determinare
uno stato di incapacità di volere e di agire, non deve essere assoluta,
poiché quest’ultima non lasciando al soggetto un minimum di possibilità
di volere escluderebbe la cooperazione della vittima. Il soggetto passivo
del reato, benché costretto, sceglie di compiere l’atto di disposizione
patrimoniale. La violenza può essere estrinsecata nei confronti della
persona ovvero sulle cose (c.d. violenza reale), anzi proprio questa forma
non solo distingue il reato in questione da quello di rapina, ma
costituisce uno dei modi socialmente più diffusi di intimidazione e di
coartazione dell’altrui libertà di autodeterminazione. Basti pensare ai
casi, frequenti nel Meridione, di incendi di esercizi commerciali,
danneggiamenti di porte, saracinesche o automobili163.
La minaccia, che si manifesta con la prospettazione di un male futuro,
deve essere idonea a costringere il soggetto a compiere l’atto di
disposizione patrimoniale. Essa, che può consistere in una omissione,
può anche, secondo la Suprema Corte, essere manifesta o implicita,
163 Fiandaca G., Musco E., Diritto penale – Parte speciale – vol. II, tomo II, Bologna, Zanichelli, ultima edizione, p. 143 ss.
220
palese o larvata, diretta o indiretta, orale o scritta, determinata o
indeterminata, purché idonea, in relazione alla personalità dell’agente,
alle circostanze concrete e alle condizioni ambientali, a coartare la
volontà della vittima. La giurisprudenza attribuisce rilevanza persino alle
esortazioni, ai consigli e ai comportamenti apparentemente corretti,
come in relazione al caso di una colletta promossa da un gruppo di ex
detenuti in proprio favore e in danno dei commercianti di un certo
quartiere (Cass., 17 aprile 1986, Neri)164.
Affinché si integri la fattispecie di reato considerata occorre rilevare un
nesso di causalità fra la violenza o la minaccia, la coartazione della
volontà della vittima, e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca
l’ingiusto profitto con danno altrui.
Per effetto della coazione psicologica il soggetto passivo deve fare o
omettere qualcosa. Costui, posto di fronte all’alternativa tra aderire alla
richiesta del reo o subire le conseguenze della sua minaccia, sceglie la
prima alternativa e compie sul proprio patrimonio un atto di cessione o
di rinuncia. Tale gesto procura a sé un danno di natura patrimoniale e un
ingiusto profitto al reo o ad altri. Correlativamente al danno, anche il
profitto deve essere inteso in termini esclusivamente patrimoniali: esso
164 Lattanzi G., Lupo E., Codice penale (Annotato con giurisprudenza), Milano, Giuffrè, 2008.
221
ricomprende ogni forma di arricchimento o di evitato depauperamento
del patrimonio del soggetto attivo o del terzo beneficiario della condotta
del reo. Il profitto deve, altresì essere ingiusto, vale a dire non fondato su
alcuna pretesa tutelata dall’ordinamento giuridico. Ingiusto è per
eccellenza il profitto derivante dal pizzo pagato da commercianti
taglieggiati.
Circa il dolo, il reato esaminato è a dolo generico, poiché il procurare a
sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno non rappresenta
soltanto lo scopo in vista del quale il colpevole si determina al
comportamento criminoso, ma anche un elemento della fattispecie
oggettiva165. Infatti, solo con la realizzazione dell’ingiusto profitto per
l’agente o per un terzo e del danno patrimoniale per la vittima, il reato di
estorsione può dirsi consumato.
Per quel che riguarda i rapporti tra la consumazione e il tentativo,
occorre segnalare l’orientamento giurisprudenziale che tende ad
anticipare la prima al momento in cui il reo acquista la “mera”
disponibilità del prodotto dell’attività criminosa anche per un breve
periodo di tempo. In questo senso la sentenza “Panetta” (Cass. Pen.,
13/04/1995) in cui la Corte ha affermato che l’estorsione si consuma
165 Cass. Pen., sez. II, 17/03/2004 – 21/4/2004, n. 18380.
222
allorché l’estorsore, nonostante il servizio di rafforzamento predisposto
dalla polizia, riesce ad impossessarsi per un breve lasso di tempo della
somma messa a disposizione dal soggetto passivo della violenza o della
minaccia.
Di opinione diversa quella parte della dottrina che, evidenziando la
struttura dell’estorsione, che è quella di reato di evento, esclude che
l’evento dannoso costituito dalla lesione patrimoniale possa ritenersi
integrato da un possesso ancora precario166.
L’estorsione mafiosa, punita con la reclusione da sei a venti anni, è
intimamente connessa con il concetto di imprenditore subordinato167.
Sin dalla fine dell’Ottocento il mafioso si specializza, in concorrenza e in
conflitto con lo Stato, nell’offerta di protezione e cerca di mantenere alta
la domanda di questa “merce” ricorrendo all’uso della violenza. Per
questa via impone una regolazione violenta del mercato e soprattutto un
controllo capillare delle transazioni economiche, che oltre a garantirgli
una costante fonte di sostentamento, usata per finanziare i costi
dell’organizzazione e per stipendiare gli operai del crimine, è misura del
potere del gruppo sul territorio. Per queste ragioni tale pratica antica
166 Lattanzi G., Lupo E., Codice…, cit. 167 Per la definizione di imprenditore subordinato e per la differenza tra estorsione diretta e estorsione indiretta si veda Cap. IV, par. I.
223
rimane una costante delle attività mafiose, difficile da debellare, specie
in alcune aree del Mezzogiorno168.
Il pizzo è stato spesso considerato un fenomeno di “serie B”, marginale
rispetto ad altre manifestazioni criminali, ma tale impostazione del
problema risponde ad una visione parziale del fenomeno, dimentica delle
sue molteplici implicazioni sociali.
I comportamenti acquiescenti degli imprenditori rispetto alle richieste
estorsive mafiose non sono pregiudizievoli solo per gli operatori
economici interessati, ma anche per tutti quelli non acquiescenti e per le
stesse possibilità di sviluppo economico di intere zone, perché il pizzo è
una via d’accesso della mafia nel tessuto economico imprenditoriale, che
riduce drasticamente la libertà di impresa e induce gli imprenditori ad
assumere posizioni di immobilismo. Non solo, ma, nel frattempo che si
riduce la possibilità di crescita dell’economia legale, si rafforza
involontariamente quella illegale-mafiosa. Difatti, anche quando
l’importo economico richiesto agli imprenditori risulti modesto, la
relazione di dipendenza tra costui ed il mafioso è suscettibile di assumere
nuovi contenuti, che, attraverso svariate forme di imposizione,
favoriscono l’impresa mafiosa.
168 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 30 ss.
224
Alle volte, poi, la dinamica estorsiva inizia con un atto intimidatorio o
con un reato patrimoniale di piccola entità nei confronti del
commerciante, cui segue la ricerca di protezione da parte dello stesso.
In tale ipotesi, in cui il servizio di protezione è addirittura sollecitato
dalla vittima, le capacità contrattuali dell’estorto diminuiscono e le
condizioni iniziali sovente peggiorano. Più spesso la mafia punta ad
estendere il numero dei soggetti da contattare, imponendo dazioni di
modesta entità; si parla di “orizzontalizzazione” della pratica estorsiva.
La riduzione dell’importo preteso rende più appetibile la proposta di
protezione e quindi, paradossalmente, pagare diventa conveniente,
resistere no. Dal punto di vista criminale l’esito complessivo delle
entrate resta invariato, ciò che si aggiunge è un più pervasivo controllo
del territorio. Inoltre questa strategia richiede un più basso livello di
violenza, che consente di attenuare la conflittualità nei confronti della
società e dello Stato.
Il tentativo della mafia di rendere il suo sistema criminale “compatibile”
con il settore economico aggredito, la diffusa reticenza dei commercianti
rispetto alla possibilità di denunciare ed una conseguente inadeguata
risposta degli organi giudiziari, determinano le difficoltà di emersione e
di contrasto del fenomeno.
225
9. Segue: il contesto ambientale e il compromesso necessitato
Il concetto di ambientalità assume un rilievo decisivo ai fini della
possibilità di qualificare alcuni imprenditori come collusi con
organizzazioni di stampo mafioso o come vittime del reato di estorsione.
Tale circostanza ha assunto grande importanza all’inizio degli anni ’90,
quando un filone giurisprudenziale ha escluso, in ragione di particolari
situazioni ambientali, la responsabilità penale di alcuni imprenditori che,
in cambio della protezione avevano posto in essere condotte
collaborative nei confronti della mafia. In alcune aree geografiche
caratterizzate da una presenza massiccia e pervasiva del fenomeno
mafioso, l’adeguarsi con condotte collaborative alle interferenze della
mafia sarebbe l’unico rimedio possibile per non essere ostacolati
nell’esercizio di attività economiche. In questi contesti, la contiguità alla
mafia della categoria imprenditoriale sarebbe imposta dall’esigenza di
trovare “soluzioni di non conflittualità”, e in quanto tale non perseguibile
giuridicamente169.
Due pronunce giudiziali sono riconducibili a questo orientamento
giurisprudenziale: la sentenza del giudice istruttore di Catania del 1991
169 Morosini P., Mafia e appalti – La rilevanza penale delle condotte del politico e dell’imprenditore, in Questione Giustizia, 1999, p. 1057 ss.
226
relativa ai cosiddetti “cavalieri del lavoro” e la sentenza del tribunale di
Palermo del 2001 relativa ai “fratelli Cavallotti”.
Il giudice, nella prima sentenza, ricostruisce il diverso modo in cui gli
imprenditori reagiscono di fronte all’offerta di protezione da parte
dell’associazione: alcuni compiono la scelta di affiliarsi, altri adottano la
cosiddetta soluzione di non conflittualità, che sfocia nell’accettazione del
“contratto di protezione”.
Si legge nella motivazione che, l’accettazione del contratto di
protezione: “espone inevitabilmente l’imprenditore ad un rapporto di
materiale relazione con soggetti dei quali può apparire connivente o,
addirittura, complice, ma sotto il profilo giuridico, non si potrà, sic et
simpliciter, attrarre nello schema dei reati associativi previsti dagli art.
416 e 416 bis, qualunque comportamento che, pur evidenziando la fisica
contiguità tra mafia e impresa, tuttavia non esprime una scelta autonoma
dell’imprenditore, bensì una delle soluzioni di non conflittualità sopra
richiamate per una situazione non riconducibile alla sua iniziativa”.
Il giudice esclude in questo caso, la configurabilità di una partecipazione
esterna degli imputati all’associazione criminosa ritenendo che, la
contiguità degli imprenditori, nelle zone ad altissima densità mafiosa
come quella catanese, “fosse imposta dall’esigenza di trovare soluzioni
227
di non conflittualità con la mafia, posto che nello scontro frontale
risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco
titolare di grandi complessi aziendali”.
Eppure dal quadro probatorio emerge una fitta e prolungata rete di
relazioni di scambio che farebbe più esattamente propendere per una
colpevole complicità. Ed infatti, in cambio della protezione ricevuta gli
imprenditori avrebbero effettuato una serie di controprestazioni:
pagamento di somme di denaro, assunzione del personale indicato
dall’associazione, preferenza accordata a taluni fornitori di materie
prime. Trascurando dunque la relazione di reciproco interesse e
convenienza del rapporto instauratasi tra l’impresa e Cosa Nostra, il
giudice poggia la sua decisione su premesse socio-criminologiche170.
Nel secondo giudizio, relativo al ruolo degli imprenditori Cavallotti,
l’attività investigativa ha condotto al possesso, ed alla successiva
acquisizione processuale, di alcune missive inviate dal boss Bernardo
Provenzano a Luigi Ilardo, affiliato a Cosa Nostra. In queste lettere, il
boss fa riferimento, fra l’altro, ad importanti gare d’appalto di cui i
Cavallotti sarebbero stati successivamente aggiudicatari
“raccomandandoli” al fine della successiva aggiudicazione, addirittura
170 Fiandaca G., La contiguità mafiosa…, cit., p. 472 ss.
228
ancora prima dell’indizione della gara. Gli imprenditori, si legge ancora
nella sentenza di primo grado, erano inseriti nel cosiddetto “giro delle
buste”, e cioè partecipavano all’aggiustamento delle gare d’appalto
attraverso la “preventiva e concordata comunicazione delle offerte,
nell’ambito del sistema di controllo organizzato da Cosa Nostra”.
I collaboratori di giustizia hanno poi spiegato come l’inserimento in tale
sistema di relazioni fosse una condizione essenziale per poter svolgere
l’attività imprenditoriale171. In questo senso il giudice precisa che gli
imprenditori operanti in un contesto mafioso devono attenersi ad una
serie di regole ed imposizioni, richiedere una preventiva autorizzazione,
pagare il pizzo ed esaudire ulteriori richieste dell’organizzazione.
Su questa base il tribunale conclude che: “il coinvolgimento dei
Cavallotti nel sistema di controllo delle attività imprenditoriali
organizzato e gestito dagli esponenti di Cosa Nostra, non può essere
fondatamente valutato come prova dell’adesione al vincolo associativo
ovvero come contributo al consolidamento dell’organizzazione
criminale. Il carattere obbligatorio dell’inserimento nel predetto contesto
ambientale, in qualche modo attestato dall’imponente diffusione del
fenomeno nel mondo imprenditoriale siciliano, induce ad escludere che
171 In merito si veda ampiamente par. 7.
229
il consapevole coinvolgimento…possa essere valutato quale condotta
censurabile ai sensi dell’art. 416 bis; dovendosi, se così fosse, pervenire
alla paradossale conclusione che tutti gli imprenditori operanti nelle
province siciliane sottoposte al controllo mafioso si siano resi
responsabili di analoghi comportamenti illeciti”172.
172 Visconti C., La punibilità della contiguità alla mafia tra tradizione (molta) e innovazione (poca), in Cass. Pen., 2002, p. 1854.
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