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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “MAGNA GRÆCIA” DI CATANZARO FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA ________________________________________________________________ TESI DI LAUREA IN DIRITTO PENALE “IMPRENDITORI E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA” STUDENTE RELATORE Roberta Bianchi Chiar.mo Prof. Luigi Fornari Matr. n. 61549 ANNO ACCADEMICO 2007/2008

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “MAGNA GRÆCIA” DI

CATANZARO

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

________________________________________________________________

TESI DI LAUREA IN

DIRITTO PENALE

“IMPRENDITORI E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA”

STUDENTE RELATORE

Roberta Bianchi Chiar.mo Prof. Luigi Fornari

Matr. n. 61549

ANNO ACCADEMICO 2007/2008

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INDICE SOMMARIO PREMESSA………………………………………………………….….1 CAPITOLO I L’associazione mafiosa 1. Genesi ed aspetti storici e sociologici del fenomeno mafioso……….3 2. La Legge 13/9/1982 n. 646: vera o presunta insufficienza dell’art. 416

del Codice Penale nella repressione della mafia……………………..7 3. Elementi strutturali e strumentali del metodo mafioso: a) la forza

intimidatrice del vincolo associativo………………………………..12 4. Segue: b) l’assoggettamento………………………………………...18 5. Segue: c) l’omertà…………………………………………………..20 6. Le condotte associative: a) la condotta di promozione……………..23 7. Segue: b) la condotta di partecipazione……………………………..27 8. L’assistenza agli associati (art. 418 C.P.)…………………………..33 9. “Omertà esterna” e reato di favoreggiamento personale (art. 378

C.P.)…………………………………………………………………37 10. Le aggravanti introdotte dall’art. 7 del Decreto Legge n. 152 del

1991…………………………………………………………………42 CAPITOLO II Il concorso eventuale nel reato associativo mafioso 1. Breve ricostruzione storica della repressione della contiguità alle

associazioni delittuose………………………………………………47

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2. Indirizzo dottrinario contrario e argomentazioni…………………...51 3. Le aporie dogmatiche che giustificherebbero la tesi contraria al

concorso esterno nel reato associativo: l’aggravante del numero di persone……………………………………………………………...61

4. Segue: il reato diverso da quello voluto dal concorrente esterno…...63 5. Segue: la desistenza volontaria e il pentimento operoso del

concorrente esterno…………………………………………………66 6. Segue: la soluzione proposta…il concorso alla partecipazione…….69 7. La dottrina disincantata……………………………………………..74 8. La dottrina favorevole………………………………………………80 9. Il concorso esterno nella Giurisprudenza della Corte di Cassazione: la

sentenza Demitry, 5 ottobre 1994…………………………………...86 10. Segue: situazioni “patologiche” dell’organizzazione mafiosa……..91 11. L’impostazione della sentenza Carnevale: continuità o

discontinuità?.....................................................................................93 12. Segue: l’elemento soggettivo del concorrente esterno……………100 13. Conclusioni e prospettive di riforma……………………………...102 CAPITOLO III La mafia locale e la mafia globale: dal pizzo all’impresa a partecipazione mafiosa 1. Il livello locale e i processi di radicamento e di ricerca del potere. Il

livello globale e i processi di espansione e di accumulazione delle ricchezze…………………………………………………………...106

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2. L’archetipo dell’impresa mafiosa: elementi strutturali, modalità di funzionamento, settori interessati………………………………….111

3. Segue: la contraddizione interna di tale modello d’impresa e il suo

superamento……………………………………………………….122 4. Il processo di legalizzazione/mimetizzazione dell’impresa di

proprietà del mafioso e di diversificazione degli investimenti……124 5. L’impresa a partecipazione mafiosa: ragioni strategiche e sue

affermazioni……………………………………………………….128 6. Il riciclaggio come fenomeno sotteso ad ogni modello di impresa

mafiosa…………………………………………………………….135 7. La relazione della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia

del 20 febbraio 2008: in particolare il ruolo della ‘ndrangheta nell’economia locale………………………………………………143

CAPITOLO IV Imprenditori collusi e imprenditori subordinati 1. Le diverse forme del rapporto tra mafia ed imprenditoria:

imprenditori subordinati e imprenditori collusi…………………...154 2. L’attività della Giurisprudenza nella ricerca della difficile linea di

confine tra imprenditori collusi e imprenditori vittime……………161 3. I profitti associativi confiscabili: la confisca tradizionale e la confisca

penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale……………………………………………………………...174

4. Segue: la confisca penale obbligatoria dei valori ingiustificati prevista

dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 e la sua applicabilità alle ricchezze mafiose “consolidate”…………………………………..182

5. Segue: la confisca come misura di prevenzione patrimoniale…….192

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6. La sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni nella Legge n. 575/1965: gli artt. 3 quater e quinquies…………………195

7. Il sistema degli appalti…………………………………………….206 8. Il meccanismo della protezione-estorsione………………………..217 9. Segue: il contesto ambientale e il compromesso necessitato……...225 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………..230

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PREMESSA

La trattazione che ci si accinge a svolgere ha il proposito, in maniera il

più possibile esaustiva, di gettare luce su una realtà, quale è il rapporto

tra mafia e imprenditori, di grande interesse e rilievo sociale i cui

meccanismi di funzionamento rimangono spesso in ombra, ma la cui

conoscenza consapevole è sempre più inderogabile presupposto ai fini

della realizzazione di una efficace strategia di contrasto.

Il fatto che la mafia abbia, fin dalle sue remote origini, un particolare

interesse per il mondo dell’imprenditoria è circostanza nota, ma

altrettanto lo è il fatto che anche quando si insinua in fasce di economia

legale, al fine di perseguire l’accumulazione di capitali, non manca mai

di utilizzare quei metodi violenti e di prevaricazione che la

contraddistinguono, e che legano alla sua storia migliaia di vittime.

Per tali motivi, punto di partenza di questo lavoro non poteva che essere

la conoscenza della struttura organizzativa dei sodalizi criminali e dei

loro metodi.

Le ramificazioni della mafia in diversi settori della vita democratica

hanno poi richiesto un’ampia riflessione sulle possibili risorse punitive

del sistema penale e, quindi, sulla discussa figura del concorso esterno.

L’analisi di questo istituto, che non poteva prescindere da brevi

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considerazioni storiche circa gli strumenti predisposti al fine di reprimere

forme di contiguità alle associazioni mafiose, ha reso necessaria

un’attenta disamina sul serrato confronto, prima giurisprudenziale e solo

dopo dottrinale, che, a partire dagli anni Ottanta ma soprattutto negli

anni Novanta, avvia un dibattito problematico sul tema.

Per comprendere appieno le molteplici forme di interazione tra mafia e

imprenditori, le cui dimensioni e capacità di sviluppo sono ben

evidenziate nella Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia

del 2008, sinteticamente esposta, si è rivelato necessario analizzare le

trasformazioni assunte dall’impresa mafiosa, da quella originaria a quella

a partecipazione mafiosa, con particolare attenzione ai settori produttivi

nei quali è più massiccia la presenza della criminalità organizzata.

Infine, individuata la linea di confine tra l’imprenditore colluso e quello

subordinato, non solo sulla base di approfonditi studi sociologici ma

soprattutto di recenti pronunce giudiziarie, di grande importanza è stato

l’esame degli strumenti legislativi finalizzati a colpire i patrimoni illeciti

dei sodalizi mafiosi, nell’ambito dei quali il legislatore ha riservato

particolare rilievo alla confisca.

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CAPITOLO I L’associazione mafiosa

Sommario: 1. Genesi ed aspetti storici e sociologici del fenomeno mafioso. - 2. La Legge 13/9/1982 n. 646: vera o presunta insufficienza dell’art. 416 del Codice Penale nella repressione della mafia. - 3. Elementi strutturali e strumentali del metodo mafioso: a) la forza intimidatrice del vincolo associativo. - 4. Segue: b) l’assoggettamento. - 5. c) l’omertà. - 6. Le condotte associative: a) la condotta di promozione. - 7. Segue: b) la condotta di partecipazione. - 8. L’assistenza agli associati (art. 418 C.P.). - 9. “Omertà esterna” e reato di favoreggiamento personale (art. 378 C.P.). - 10. Le aggravanti introdotte dall’art. 7 del Decreto Legge n. 152 del 1991. 1. Genesi ed aspetti storici e sociologici del fenomeno mafioso

La mafia nasce, si radica e si diffonde in Sicilia e pur manifestando da

sempre una spiccata vocazione, prima nazionale, poi internazionale, lega

saldamente le sue radici a questo territorio1.

Le origini della mafia vengono ricondotte al crollo del sistema feudale e

quindi ai primissimi decenni dell’Ottocento in cui si assiste alla

disgregazione di ormai consolidati equilibri sociali, che rende sempre più

misera la condizione di braccianti e contadini. I proprietari terrieri

rinunciano a vivere nelle loro terre e le affidano ai “gabellotti” (in questo

caso per “gabella” si intende il fitto annuo imposto ai contadini) che a

1 De Liguori L., Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 1996, p. 18 ss.

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loro volta subaffittano ai contadini2. La posizione intermedia tra grandi

proprietari e contadini e l’uso di metodi violenti consentono ai gabellotti,

prima di svolgere una importante funzione di controllo sociale e di

ordine, specie a tutela della proprietà, poi, individuati nuovi e diversi

strumenti di arricchimento, di imporre gravose condizioni non più solo ai

“fittavoli” e ai “mezzadri” ma anche ai padroni assenteisti. È in questo

intreccio tra potere economico, oppressione di classe e coercizione fisica,

che si riconosce l’originario terreno di coltura delle attività più

squisitamente criminali della mafia; in questo contesto infatti ha origine

e si consolida il monopolio su scala locale delle estorsioni organizzate

che, se da una parte è naturale evoluzione dei tributi prima imposti ai

contadini, dall’altra testimonia che già nell’Ottocento la mafia siciliana,

lungi dall’essere solo mentalità e costume, è già organizzazione formale

e criminale.

Nata in epoca preunitaria si rafforza strutturalmente e soprattutto svela,

dopo l’unità d’Italia, i suoi forti legami con i poteri pubblici, per altro

non sconosciuti in epoche risalenti. Il nuovo Stato appare estraneo e

lontano, insensibile ai gravi problemi sociali, che impone tributi, ma non

ancora capace di garantire l’ordine pubblico. Qualche autore parla

2 Turone G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 2008, p. 34 ss.

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persino di rinuncia e di delega dallo Stato alla mafia delle sue

prerogative amministrative e giudiziarie. Il consenso di uno Stato assente

consente alla mafia di aumentare il suo radicamento territoriale, il suo

potere reale e di allargare la trama dei traffici illeciti; nel frattempo gli

uomini politici, locali e nazionali, si assicurano per anni un forte e certo

consenso elettorale.

La mafia delle origini è strumento della nobiltà feudale, detentrice,

attraverso la proprietà terriera, del potere economico, e da questa usata

per difendere i propri privilegi da ogni forma di rivendicazione

contadina, ma solo pochi decenni più tardi, manifestando la sua spiccata

capacità di adattamento e profittando di errori politici ed e economici

dello Stato unitario e del suo conseguente scarso consenso, si infiltra nei

pubblici apparati collaborando persino con la polizia ed eliminando così

ogni ostacolo alla libera gestione dei suoi affari.

Con l’ascesa di Mussolini il potere di repressione del movimento

contadino viene energicamente avocato dal regime, che colpisce

duramente attraverso le note operazione di polizia del Prefetto di

Palermo, Cesare Mori, anche la mafia. La repressione fascista che pure

miete molte vittime non tocca però i patrimoni e le ricchezze accumulate

dall’alta mafia, parte della quale finisce per sostenere il regime.

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Anche lo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel 1943, vede coinvolti mafiosi

detenuti negli USA, la cui collaborazione, tramite il sostegno dei mafiosi

siciliani, nell’esecuzione e realizzazione dell’occupazione dell’Isola,

viene ricompensata con l’espulsione e il ritorno in Italia.

Crollato il fascismo e finita la seconda guerra mondiale la mafia

riconquista le vecchie posizioni, piazzando uomini a lei favorevoli nelle

amministrazioni del nuovo Stato democratico, ma soprattutto

opponendosi, tenacemente e ferocemente, a qualsiasi tentativo di

modificare il sistema del latifondo da cui traeva, da sempre, potere e

ricchezza.

Negli anni Cinquanta, con la realizzazione della Riforma Agraria, che

comporta l’assegnazione delle terre ai contadini, si assiste al passaggio

dalla mafia rurale a quella urbana, la cui iniziale espressione sarà

costituita dalla penetrazione nel controllo dei mercati all’ingrosso. Segue

tra le cosche palermitane una lotta decennale che sfocia, nei primi anni

Sessanta, nella cosiddetta “prima guerra di mafia”. In questa fase di

trasformazione epocale e di riassetto strutturale, riprende da parte dello

Stato, anche sull’onda dell’emozione provocata da molti fatti di sangue,

un’attività di repressione penale, silente negli anni Cinquanta. Tutto

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questo determina una profonda crisi di collocazione e di legittimazione

del potere mafioso.

Il consenso inizialmente acquisito dalla mafia in larghe fasce di

popolazione, “viziato” perchè carpito con l’inganno, simulando

protezione e comprensione verso ceti vessati da più parti e ignorati da

dirigenti locali e nazionali, il quale consente ai mafiosi di ostacolare ogni

istanza di rinnovamento e di progresso, subisce in questi anni una,

ancora solo tendenziale, involuzione3. In maniera graduale a partire dagli

anni Sessanta si assiste alla perdita di consenso da parte della mafia e ad

una lenta, ma irreversibile, affermazione di una cultura antimafia. Questo

tuttavia non impedisce, specie a partire dagli anni Settanta, prima

l’articolazione in settori diversi e poi l’affermazione della dimensione

imprenditoriale del fenomeno mafioso.

2. La Legge 13/9/1982 n. 646: vera o presunta insufficienza dell’art. 416 del Codice Penale nella repressione della mafia Al fine di realizzare una analisi attenta e completa della nuova fattispecie

associativa introdotta dall’art. 1 della Legge 13 settembre 1982, n. 646,

comunemente nota come Legge ‹‹Rognoni-La torre›, può essere utile

ripercorrere brevemente il percorso normativo che antecede l’art. 416 bis

3 Turone G., Il delitto…, cit., p. 51 ss.

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del Codice Penale e le problematiche ad esso sottese, anche per meglio

comprendere la complessità del fenomeno mafioso.

Il dibattito sull’applicabilità dell’art. 416 del Codice Penale alla mafia

inizia nei primi anni del secolo scorso ed ha sostanzialmente

monopolizzato l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza sino agli

anni Sessanta4. Il primo giurista che sostiene, già nel 1933, che la mafia

è sempre associazione per delinquere è Lo Schiavo, magistrato che si

occupò dei processi di mafia scaturiti dalle operazioni di Polizia del

Prefetto Cesare Mori. Di diversa opinione quella parte della dottrina, che

fa capo a F. Antilosei, che ha escluso che le aggregazioni mafiose

costituiscano associazioni punibili ai sensi dell’art. 416 del C.P., poichè

per poter ravvisare tale delitto ‹‹occorre che tra le finalità

dell’associazione vi sia quella di realizzare determinate fattispecie

criminose››. Lo stesso Autore sostiene, negli anni Sessanta, che la mafia

di per sé non costituisce un’associazione per delinquere, in quanto essa è

di certo aggregato di persone avente scopo illecito o immorale, ma non

necessariamente attinente alla criminalità organizzata, quasi che le

manifestazioni delittuose fossero mera eventualità.

4 Turone G., Il delitto…, cit., p. 4 ss.

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Notoriamente contrapposta a quella di Antilosei e palesemente più fedele

alla realtà mafiosa è l’indirizzo dottrinario che fa capo al Manzini, il

quale, in “Trattato di diritto penale italiano” del 1983, osserva che

“poiché il diritto penale non punisce le collettività criminose come tali,

bensì i singoli individui che le compongono, così si dovrà accertare, di

caso in caso, se le persone sottoposte a giudizio si siano veramente

associate per commettere più delitti, mentre non basterebbe assodare

soltanto la loro appartenenza ad una siffatta collettività”5.

Tuttavia l’accoglimento della tesi secondo cui l’associazione mafiosa va

considerata associazione per delinquere ha prodotto, nella giurisprudenza

degli anni Settanta, stante la particolare complessità di raccolta delle

prove nei processi di mafia e il crescente allarme sociale derivante da più

episodi delittuosi, una tecnica giudiziaria improntata al modello del tipo

di autore, poiché tendente ad aggirare l’ostacolo costituito dalla necessità

di provare l’adesione ad un programma criminoso da parte di imputati

riconosciuti come “mafiosi”. L’adesione partecipe ad un programma

criminoso da parte di costoro veniva infatti automaticamente desunta dal

fatto stesso di far parte di un gruppo classificabile come mafioso. Questa

5 Ingroia A., L’associazione di tipo mafioso, Milano, Giuffrè, 1993, p. 51 ss.

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strada, del resto, oltre a non essere aderente al principio di legalità, si è

rivelata, a causa di ripetuti insuccessi giudiziari, una falsa scorciatoia.

Difatti, la sovrapposizione concettuale tra associazione mafiosa e

associazione per delinquere è corretta sul piano criminologico, non

avendo senso parlare di mafia estranea a episodi delittuosi, ma sul piano

giuridico-penale, trattandosi di applicare una sanzione a singoli

individui, non ci si può esimere dall’accertare volta per volta, come il

Manzini sostiene, la partecipazione dei singoli al programma di

delinquenza. È evidente che, per questa via, il problema della prova del

programma criminoso si ripresenta inesorabilmente; con la conseguenza

ulteriore che l’eventuale insufficienza del relativo quadro probatorio si

riflette sull’esito del giudizio.

Nel frattempo l’asprezza dell’attacco terroristico mafioso rinnova la

volontà repressiva dello Stato, che riducendo l’iniziale e ambizioso

progetto, realizza con la Legge 31/5/1965, n. 575, un intervento decisivo

quanto al significato storico, ma parziale rispetto alla globalità del

fenomeno mafioso, perché relativo solo alle misure di prevenzione6.

Le numerose sentenze di assoluzione per insufficienza di prove

riconducibili all’estrema difficoltà di provare, nei processi di mafia, gli

6 Turone G., Il delitto…, cit., p. 17 ss.

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estremi costitutivi del reato di cui all’art. 416 del C.P., e la sempre più

manifesta inadeguatezza del medesimo articolo a ricomprendere tutta la

fenomenologia di stampo mafioso, portano alla luce una imperdonabile

lacuna legislativa denunciata da giuristi ed operatori del diritto. E tale

comune opinione si ricava già dalla lettura della relazione alla originaria

proposta di legge ‹‹La Torre›› del 31 marzo 1980, ove si sostiene infatti

la necessità di ‹‹misure che colpiscano la mafia nel patrimonio, essendo

il lucro e l’arricchimento l’obbiettivo di questa criminalità che ben si

distingue per origini e funzione storico-politica dalla criminalità comune

e dalla criminalità politica strettamente intesa. L’espansione

dell’intervento mafioso e l’articolazione complessiva della mafia, che,

mentre non trascura alcun settore produttivo e di servizi, trova

nell’intervento pubblico la sua principale committenza, esigono oggi più

puntuali strumenti proprio nell’ambito degli arricchimenti illeciti e dei

reati finanziari. La mafia, peraltro, opera ormai anche nel campo delle

attività economiche lecite, e si consolida l’impresa mafiosa, che

interviene nelle attività produttive forte dell’autofinanziamento illecito

[…], e mira all’accaparramento dell’intervento pubblico […]

scoraggiando la concorrenza con la forza intimidatrice››7.

7 Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. Sup. Mag., 1982, n. 3, p. 243.

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La principale ragione per la quale l’art. 416 risulta inadeguato poggia

sulla riflessione che la forza intimidatrice di cui si avvale la cosiddetta

“mafia imprenditrice” per conseguire i propri obiettivi inizialmente

illegali, ma ora anche legali, non si concreterebbe necessariamente in

una vera e propria minaccia, e quindi in una condotta penalmente

rilevante. Altri fattori alla base dell’inadeguatezza strutturale dell’art.

416 vengono poi scorti nell’attitudine della norma a fronteggiare i

fenomeni locali e circoscritti di delinquenza associata, ma non fenomeni

imponenti di criminalità organizzata; nonché nella previsione di requisiti,

come l’organizzazione e l’atto di adesione dell’affiliato al sodalizio,

difficilmente accertabili. Infatti e proprio le particolari caratteristiche

organizzative di questa consorteria basata sulla segretezza, sulla

solidarietà, sulla omertà, rendono difficile in giudizio la prova del

programma criminoso e della commissione di delitti ad esso

riconducibili e quindi del dolo specifico richiesto dall’art. 416 del C.P8.

3. Elementi strutturali e strumentali del metodo mafioso: a) la forza intimidatrice del vincolo associativo L’associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei

fini perseguiti e dei mezzi usati. Sotto l’aspetto finalistico gli obiettivi

8 De Liguori L., Concorso e contiguità…cit., p. 29 ss.

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tipici della criminalità mafiosa vengono individuati nello scopo di: a)

commettere delitti; b) acquistare in modo diretto o indiretto la gestione o

almeno il controllo di attività economiche, di concessioni, di

autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; c) realizzare profitti o vantaggi

ingiusti per sé o per altri; d) interferire nei risultati delle consultazioni

elettorali.

Circa le finalità indicate dall’art. 416 bis del Codice Penale occorre

precisare che esse sono tassative; che sono previste in via alternativa nel

senso che il reato sussiste anche in presenza di una associazione che

persegua una sola di tale finalità; che per la sussistenza del reato in

esame non è necessaria la concreta realizzazione dello scopo associativo

perseguito; che il concorso di esse non determina pluralità di reati.

Sotto il profilo strumentale, invece, detta associazione si caratterizza per

la circostanza che i suoi membri ‹‹si avvalgono della forza di

intimidazione del vincolo associativo e della condizione di

assoggettamento e di omertà che ne deriva9››. I tre parametri, indicati nel

3° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale, costituiscono l’apparato

strumentale proprio di questa associazione e veicolano, unitariamente

considerati, il “metodo mafioso”. Il primo di essi presenta caratteri di

9 Spagnolo G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, CEDAM, 1997, p. 68.

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prevalenza perché idoneo a produrre assoggettamento ed omertà.

L’omertà, infatti, altro non è se non un aspetto particolare

dell’assoggettamento, mentre quest’ultimo è, in primo luogo, il risultato

esterno della forza di intimidazione10.

Precisato preliminarmente che la “forza di intimidazione del vincolo

associativo” è elemento strutturale e strumentale permanente del

sodalizio criminoso, occorre a questo punto tentare di spiegarne il

contenuto. La “forza di intimidazione” è la capacità che ha uno stato, un

suo apparato o anche solo un singolo individuo, di incutere timore in

base alla diffusa opinione della sua forza e della sua predisposizione ad

usarla. In altre parole è la quantità di paura che una persona (fisica o

giuridica) è in grado di suscitare nei terzi, alla luce della sua

predisposizione ad esercitare sanzioni e rappresaglie11.

Nel caso dell’associazione di tipo mafioso questo elemento scaturisce

dallo stesso vincolo associativo, capace, in quanto tale, di incutere paura

senza il ricorso ad atti concreti di minaccia e di violenza; generando, nei

casi più gravi, un alone permanente di intimidazione diffusa di cui i

singoli associati ad un sodalizio mafioso si avvalgono, quasi esso fosse

una sorta di patrimonio comune dell’associazione stessa. Con un ardito

10 Turone G., Il delitto…, cit., p. 104 ss. 11 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 28 ss.

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ma esemplificativo parallelismo Turone afferma che: “la forza

intimidatrice del vincolo associativo fa parte del ‹‹patrimonio aziendale››

dell’associazione di tipo mafioso, così come l’avviamento commerciale

fa parte dell’azienda”12.

In questo contesto l’alone di intimidazione, che costituisce indizio

dell’esistenza dell’associazione, ma soprattutto della carica autonoma di

intimidazione da essa sprigionante, è l’elemento catalizzatore, a metà tra

la carica intimidatoria e la condizione di assoggettamento e di omertà:

come dire che la carica intimidatoria produce assoggettamento e omertà

attraverso quell’alone di intimidazione dall’esterno percepito e subito.

Stabilito perciò che diversi sono i modi di avvalersi della forza

intimidatrice: dalla minaccia esplicita, a quella implicita, fino al caso di

chi, utilizzando questa “cattiva fama”, ottiene senza bisogno di chiedere;

appare ormai assodato che destinatario dell’agire mafioso sarà, di volta

in volta, qualsiasi soggetto, pubblico o privato, capace di decidere quanto

interessa all’associazione mafiosa13.

In sintesi, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis C.P.,

occorre accertare che l’associazione sia effettivamente dotata di una

capacità intimidatrice autonoma, idonea ad ingenerare, qualora usata,

12 Turone G., Il delitto…, cit., p. 111. 13 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 30 ss.

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condizioni psicologiche di assoggettamento e di omertà14. Di

conseguenza, la forza intimidatrice è elemento oggettivo indefettibile

della fattispecie, mentre, sotto il profilo soggettivo, è oggetto del dolo

specifico degli associati, nella prospettiva, in vista dei fini della

consorteria mafiosa, del suo concreto sfruttamento.

Problematica è, con riferimento a questo elemento, anche la soluzione

interpretativa in relazione all’uso, nel dettato normativo, dell’indicativo

‹‹si avvalgono…››. Secondo un primo indirizzo l’uso del presente

indicativo sottintende un esercizio effettivo della forza intimidatrice; la

formulazione letterale infatti non consentirebbe di prescindere dalla sua

esistenze e dalla sua utilizzazione, sicchè saremmo in presenza di una

associazione che delinque e non per delinquere. Questo spiegherebbe

anche la gravità della pene e le difficoltà probatorie. Il secondo

orientamento ritiene invece che il verbo faccia riferimento ad una

modalità abituale del comportamento mafioso che, pur non

concretizzandosi in specifici atti intimidatori, rientra tra gli strumenti di

pressione di cui l’associazione stessa soglia, o comunque intenda,

avvalersi. Dei due indirizzi, il primo contraddice però la ratio legis e la

sua spiccata finalità estensiva, perché si dovrebbero provare, volta per

14 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 70.

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volta, non solo gli elementi tipici del reato associativo, ma anche l’uso

effettivo ed attuale dell’intimidazione; né parimenti resiste alle diverse

obiezioni il secondo.

La soluzione allora, cui sembra preferibile aderire, mediana tra le due

ricordate, crea un terzo modello interpretativo, che muove

dall’individuazione di due profili simultaneamente riconducibili alla

forza di intimidazione. Il primo, definito statico, riguarda la capacità

intimidatrice, la quale sola deve essere attuale; il secondo, definito

dinamico, attiene invece alla attività di sfruttamento della capacità

intimidatrice, che è sufficiente sia potenziale15. Se così non fosse la mera

intenzione degli associati non potrebbe giustificare il particolare rigore

sanzionatorio dell’art. 416 bis e, potrebbe essere accusata di usare

metodo mafioso una associazione ancora priva di carica intimidatoria

pienamente efficace. La forza di intimidazione deve manifestarsi come la

risultante di una antica, o comunque consolidata, consuetudine di

violenza, come tale percepita dall’esterno, attuale nella sua esistenza, e

idonea a generare, in potenza, assoggettamento e omertà. Anzi è proprio

il costituirsi di questa carica intimidatrice autonoma a consentire il

15 Turone G., Il delitto…, cit., p. 130.

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passaggio dal sodalizio matrice al sodalizio derivato, o più chiaramente,

dall’associazione a delinquere comune a quella di stampo mafioso.

Basti citare, a questo riguardo, il caso della ‹‹sacra corona unita››. Una

prima sentenza, emessa dal Tribunale di Bari nell’ottobre del 1986, la

classificava associazione per delinquere di tipo comune; una seconda,

emessa dalla Corte d’Appello di Lecce nel 1990, la riconosceva

associazione di tipo mafioso16.

4. Segue: b) l’assoggettamento

Alcuni studiosi muovendo dalla soluzione interpretativa mediana

illustrata, e trasponendola nel momento teorico di transizione dal

sodalizio matrice a quello di tipo mafioso, tentano un’analisi più

dettagliata, ma nel contempo più complessa del fenomeno.

Secondo questa impostazione, l’acquisizione della carica intimidatoria

autonoma, che determina la nascita della associazione di tipo mafioso,

cui è contestuale il formarsi dell’alone di intimidazione diffuso

all’esterno del vincolo associativo, comporta già uno sfruttamento anche

solo “inerziale”, della carica intimidatoria stessa; cui corrisponde quale

risvolto immediato e automatico, un “assoggettamento primordiale”.

16 De Liguori L., Concorso e contiguità…, cit., p. 52.

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A questo uso inerziale della carica intimidatoria che si atteggia, in questa

fase, a elemento oggettivo e attuale della fattispecie cui corrisponde un

assoggettamento generico; seguirà, attraverso situazioni di sfruttamento

attivo di essa, un assoggettamento specifico e compiuto. In questa

seconda fase, però la carica intimidatoria sarà oggetto del programma

criminoso in quanto finalizzata ai suoi scopi sociali, e quindi, solo

potenziale17.

Del resto, lo sfruttamento attivo della carica intimidatoria autonoma va

inteso nel senso che esso è attivamente orientato verso la realizzazione

del programma, non quindi nel senso che esso deve essere accompagnato

da specifiche attività minatorie, esteriormente percepibili. Se allora lo

sfruttamento iniziale della carica intimidatoria sarà indeterminato

finalisticamente, benché idoneo a creare un ambiente favorevole al

vincolo, quello successivo sarà invece orientato alla realizzazione degli

scopi dell’associazione e per questo solo definito attivo.

Così, se mentre in relazione alle consorterie mafiose classiche la prova

della carica intimidatoria autonoma si desume con facilità da numerose

circostanze, che ne evidenziano la fase avanzata e la produzione di effetti

in termini di assoggettamento ed omertà; non altrettanto semplice risulta

17 Turone G., Il delitto…, cit., p. 130 ss.

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la constatazione e dimostrazione dell’esistenza dell’apparato strutturale-

strumentale mafioso in relazione alle nuove entità associative.

Assoggettamento ed omertà sono quindi legati alla carica intimidatoria

autonoma da un rapporto di causa effetto, ed è condivisibile la teoria

ricostruttiva che, facendo derivare i due concetti non dalla mera esistenza

ma dall’esercizio della forza di intimidazione, li qualifica quali effetti

psicologici temporanei, non riscontrabili se non a seguito della citata

attivazione della carica intimidatoria18. Se però è opinione condivisa

definire l’assoggettamento come condizione di soggezione

particolarmente intensa, caratterizzata da un perdurante stato di timore

grave, maggiori precisazione merita il termine omertà19.

5. c) l’omertà

Lo stato di assoluta sottomissione in cui si manifesta l’assoggettamento

non può non implicare un atteggiamento omertoso.

Il concetto normativo di omertà che qui interessa ai fini della

comprensione della norma in esame, non deve essere confuso con il

concetto di omertà dalla Giurisprudenza elaborato in relazione alle mafie

storiche e che, legato a valutazione sociologiche e regionalistiche risulta,

18 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 73 ss. 19 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 36 ss.

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in questo contesto, fuorviante. Se infatti l’omertà ha come sua

indispensabile premessa l’assoggettamento e se questo, a ritroso, è

originato dallo sfruttamento della forza intimidatrice del vincolo

associativo, ne deriva che essa non può considerarsi condizione

permanente del contesto sociale in cui opera la consorteria mafiosa,

bensì, piuttosto, condizione specifica e possibile; anche e soprattutto al

fine di consentire l’applicazione della norma a realtà associative di certo

non meno pericolose in grado di produrre una condizione di omertà,

anche se non permanente e generalizzata20.

Dovendo pertanto derivare dalla forza di intimidazione, l’omertà,

secondo le intenzioni del Legislatore, si basa sulla paura, in

considerazione della particolare gravità del male temuto e della

convinzione della sua pronta ed ineluttabile realizzazione. In questa

accezione, carica di connotazioni negative, l’omertà si palesa in

atteggiamenti di reticenza, di favoreggiamento e di non collaborazione

con gli organi della Stato aventi funzioni inquirenti e giudicanti. È però

necessario chiarire, al fine di evitare applicazioni onnicomprensive ed

erronee del termine, che il rifiuto di collaborare non deve dipendere da

motivi contingenti, non deve avere carattere occasionale, non deve

20 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 73 ss.

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trovare una spiegazione processuale (altrimenti sarebbe omertoso

qualsiasi imputato che mentisse per difendersi21).

È necessario inoltre ricordare che, in tempi passati, il concetto di omertà

è stato altresì utilizzato con connotazione positiva e legato ad un codice

sociale di comportamento. In questi contesti il sostanziale rifiuto

dell’autorità statale e la non accettazione delle forme legali di

prevenzione e di repressione del crimine, deriva, non dal timore di

rappresaglie, ma dalla volontà di negare legittimazione in materia di

amministrazione della giustizia ad uno Stato ritenuto oppressore ed

ingiusto22.

In conclusione, e solo per completezza, sembra dai più non condivisibile

la volontà di rinvenire una condizione di assoggettamento e di omertà

anche nei rapporti interni all’associazione, tra associati meno

“autorevoli” e associati più “autorevoli”. In tal modo, sostiene Fiandaca,

si finirebbe col fraintendere la realtà del fenomeno: il cemento che lega

tra loro gli associati, più che dal timore e dalla soggezione, è costituito

dalla comune adesione ad una specifica subcultura23.

21 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 38 ss. 22 Turone G., Il delitto…, cit., p. 159 ss. 23 Fiandaca G., Commento all’art. 1 della Legge 13/9/1982, n. 646, in Legislazione Penale, 1983, p. 257 ss.

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6. Le condotte associative: a) la condotta di promozione

L’art. 416 bis del Codice Penale riconduce le condotte penalmente

rilevanti a due categorie, e in relazione ad ognuna prevede un diverso

regime sanzionatorio. Infatti, nel primo comma stabilisce che è punita

con la reclusione da tre a sei anni la condotta di partecipazione; nel

secondo invece prevede la reclusione da quattro a nove anni per le

condotte di promozione, direzione, organizzazione. Queste ultime anche

se omogenee in relazione alla misura della pena inflitta, veicolano

comportamenti diversi tra loro, accomunati dal fatto di corrispondere a

possibili situazioni di superiorità gerarchica all’interno del gruppo e di

cui, proprio in ragione di ciò, il Legislatore ha voluto fornire una

elencazione esemplificativa24.

Dalla lettura del dettato normativo viene subito in evidenza il mancato

riferimento ad una condotta sovente ricorrente nei reati associativi,

quella di costituzione. L’assenza trova una significativa giustificazione

nella natura del reato, ritenuto reato associativo a struttura complessa.

Nei reati associativi puri, alla cui categoria appartiene il reato di cui

all’art. 416 C.P., la condotta di costituzione perfeziona la fattispecie

astrattamente prevista, non richiedendosi niente altro per la sua

24 Turone G., Il delitto…, cit., p. 349 ss.

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esistenza; diversamente, in quelli a struttura mista, affinché si perfezioni

la fattispecie non è sufficiente che si costituisca il vincolo associativo,

ma è in aggiunta necessario che questo acquisisca l’apparato strutturale e

strumentale basato su intimidazione, assoggettamento ed omertà.

E se questo momento, come più volte ribadito, coincide con il passaggio

dal sodalizio matrice a quello di tipo mafioso, ciò significa che l’attività

di promozione pur potendo continuare ad esplicarsi anche dopo la

nascita del sodalizio, in forma di contributo al mantenimento e al

rafforzamento della carica intimidatoria autonoma, è prettamente tipica e

ricorrente nella fase costitutiva del sodalizio mafioso. In questo senso,

tale attività è di maggiore evidenza nei sodalizi di ‹‹nuova mafiosità›› e

molto meno nei fenomeni di mafia storica; ma soprattutto è

riconducibile, abbandonata la dottrina tradizionale che definisce

promotore di una associazione ‹‹chi se ne fa iniziatore enunciandone il

programma››, a colui che contribuisce in modo determinante alla

“promozione” della potenzialità intimidatrice di un gruppo associativo,

consentendo la costruzione della carica intimidatoria autonoma.

Chiarito ciò, una ulteriore questione è stata sollevata in dottrina e

presenta aspetti di particolare complessità; la disputa attiene alla

possibilità di considerare il reato in oggetto come reato di pericolo a

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consumazione anticipata. In questo caso il promotore sarebbe punibile

anche qualora, a seguito della sua attività e quindi indipendentemente dal

risultato raggiunto, non fossero venuti in essere tutti gli elementi

costitutivi dell’associazione di tipo mafioso.

Spagnolo, infatti, ritenendo che sia ravvisabile un reato a consumazione

anticipata, argomenta la sua tesi facendosi guidare da una osservazione

sistematica e letterale di più fattispecie associative. Muovendo

dall’analisi degli artt. 306 e 416 C.P., afferma che in questi casi il

Legislatore richiede esplicitamente, per la punibilità del promotore, che

il sodalizio criminoso sia venuto ad esistenza; qualora invece, come

nell’ipotesi in esame, la costituzione dell’associazione non sia

espressamente prevista, il delitto si considera perfetto indipendentemente

dal fatto che la fattispecie associativa sia stata integralmente realizzata25.

Di contrario avviso Turone, che individua due diverse argomentazioni.

La prima motivazione è di ordine letterale: poiché il primo comma

dell’art. 416 bis C.P. riferendosi alla condotta di partecipazione richiede

l’effettiva formazione di una associazione di tipo mafioso, anche le

condotte contenute nel comma successivo non possono che fare capo alla

medesima realtà associativa. La seconda ragione, più complessa e di

25 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 80 ss.

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ordine logico, può essere così sintetizzata: l’idoneità e la finalità degli

atti di violenza e di minaccia posti in essere dal promotore in vista della

realizzazione della carica intimidatoria mafiosa, verranno alla luce solo

nel caso in cui quella potenzialità intimidatoria sia stata realmente

conseguita, prima però di tale momento risulterà difficile svelarne in

maniera inequivocabile la funzionalità. Il promotore è dunque

compiutamente tale soltanto a costituzione avvenuta del vincolo

associativo mafioso.

Di facile comprensione è, in conclusione, il significato delle condotte di

direzione e di organizzazione, cui pure si fa riferimento nel secondo

comma dell’art. 416 bis e sussistenti solo in relazione al sodalizio

mafioso già esistente. Dirige chi, in vista del perseguimento dei fini

sociali, ha poteri di comando, di iniziativa, di decisione. Organizza

invece colui che, agendo in attuazione di direttive altrui e godendo di

minore autonomia del dirigente: coordina l’attività degli affiliati, elabora

strategie di reperimento di mezzi materiali e provvede ad un uso

razionale delle risorse, opera per realizzare fattori di impunità del

sodalizio nel suo complesso26.

26 Turone G., Il delitto…, cit., p. 376 ss.

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7. Segue: b) la condotta di partecipazione

Prima di soffermarsi sull’esatto contenuto della condotta di

partecipazione menzionata nel primo comma dell’art. 416 bis C.P. e sui

suoi requisiti fondanti, occorre affermare che essa è individuabile sia nel

comportamento di chi si inserisce nell’organizzazione di tipo mafioso al

momento della sua costituzione, che in quello di chi manifesta la sua

adesione ad un sodalizio già operante.

Tale affermazione produce importanti conseguenze sul piano della

qualificazione del delitto ipotizzato dall’art. 416 bis; la struttura del reato

infatti ha prodotto divergenti opinioni. Ci si chiesti cioè se la norma

preveda due differenti ipotesi di reato o un reato unico a struttura

complessa ed a livelli partecipativi differenziati. Partendo

dall’orientamento più risalente occorre ricordare che Dottrina e

Giurisprudenza, considerando partecipe solo chi entra a far parte di una

associazione criminosa già esistente, ritengono che l’attività di

partecipazione costituisca una fattispecie monosoggettiva, distinta

rispetto a quella plurisoggettiva comprendente l’attività di costituzione,

di organizzazione e di direzione. Conclusione quest’ultima sostenuta

perfino nella Relazione Ministeriale sul Progetto del Codice Penale, al

fine di graduare le pene in ragione del tipo di responsabilità e per far

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corrispondere la norma penale alle due fasi, cronologicamente distinte, di

costituzione e di operatività di ogni associazione. In seguito, gli schemi

utilizzati dalla Giurisprudenza per individuare nei delitti di banda

armata, associazione per delinquere e cospirazione politica, condotte

corrispondenti a due autonome fattispecie di reato, sono risultati

inadeguati a trovare applicazione all’associazione di tipo mafioso. Nei

reati citati, infatti, sono previsti, accanto a promotori, organizzatori e

dirigenti, anche i costitutori. Nell’art. 416 bis, mancando tale figura, il

soggetto che dall’origine del sodalizio manifesta adesione come

semplice gregario, non può che essere punito come partecipe. Colui il

quale cioè si appresta ad entrare in un sodalizio ancora da costituire, se la

sua prestazione è di limitato rilievo e comunque non ad un livello

“qualificato”, può essere considerato, solo e semplicemente, partecipe.

Secondo invece i modelli tradizionali, partecipe è chi subentra in una

associazione già attiva così configurando un autonomo reato

monosoggettivo; tuttavia se la sua attività retrocede alla fase iniziale

dell’associazione, si ricade in un’unica fattispecie plurisoggettiva

risultante dal combinato disposto del primo e secondo comma

dell’articolo in esame.

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Muovendo da tali valutazioni, ed elaborando una terza soluzione che

ipotizza la sostanziale unitarietà dell’art. 416 bis, lo Spagnolo individua

un unico reato plurisoggettivo, con sanzioni diverse, rigidamente

prefissate a seconda dei ruoli svolti dai singoli soggetti durante la vita

dell’associazione. Questa opzione dottrinaria eviterebbe di ravvisare una

pluralità di reati in capo all’affiliato che svolga, prima attività direttive,

poi di semplice partecipe o viceversa27.

Parimenti articolata è la disamina avente ad oggetto gli elementi richiesti

ai fini della configurabilità della condotta partecipativa. Infatti, affinché

quest’ultima possa dirsi realizzata è necessario riscontrare due

componenti, una attinente al profilo psicologico, l’altra a quello

oggettivo dell’attività dell’affiliato. Precisamente la condotta di

partecipazione in relazione all’elemento soggettivo deve essere

caratterizzata dall’affectio societatis, cioè dalla consapevolezza e volontà

di far parte del sodalizio criminoso condividendone gli scopi e le sorti;

quanto invece all’elemento oggettivo, questo dovrà tradursi in un

contributo alla vita dell’ente, in vista della sua esistenza o del suo

rafforzamento. Tuttavia, il contenuto di questi due elementi e le modalità

27 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 87 ss.

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di interazione reciproca producono numerose varianti di condotta di

partecipazione28.

Circa la componente oggettiva, che presenta una maggiore complessità, è

orami diffusa l’opinione che il contributo, benché non insignificante,

possa anche essere minimo. Questa soglia minima di contributo

partecipativo, anche se idonea a configurare una condotta punibile, esula

dalla materialità dell’apporto dato. In tal senso l’assenza di specifiche

attività materiali e il solo fatto di dichiarare la propria disponibilità

all’ente, in termini tali da rendere serio e credibile l’impegno assunto,

configura la soglia minima del contributo giuridicamente rilevante.

Eventuali attività concrete dell’associato, lungi dall’assurgere ad

elementi costitutivi tipici del fatto associativo vietato, diverranno

requisiti utilizzabili ai fini della commisurazione della pena29.

Diversamente, la semplice disponibilità che normalmente si palesa

contestualmente all’inserimento nel tessuto organizzativo, ne costituisce

un rafforzamento perché ne amplia le potenzialità operative. Senonchè,

questa soglia minima di contributo, in forma di semplice disponibilità, è

assai difficile da provare processualmente di per sé sola, salvo che in due

28 Turone G., Il delitto…, cit., p. 364 ss. 29 De Francesco G., Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1992, I, p. 147.

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casi: in quello, vagamente anticipato e tipico delle mafie storiche, in cui

il soggetto abbia manifestato, in modo solenne e rituale, adesione

all’organismo associativo e al suo programma, e in quello in cui un

soggetto confessi, risultando attendibile, di aver aderito al sodalizio pur

non avendo ancora eseguito alcuna mansione. Quando però nessuno dei

due casi citati si verifica, l’acquisto della qualità del partecipe deve

essere desunto esclusivamente per facta concludentia, e cioè, attraverso

lo svolgimento di una attività concretamente rivolta a favore

dell’organizzazione delittuosa. Essendo, poi, il reato associativo in

esame a forma libera, la condotta partecipativa e per essa i facta

concludentia possono assumere forme e contenuti variabili.

In definitiva, e specie al fine di tipizzare con sufficiente chiarezza la

condotta penalmente rilevante, sembra opportuno focalizzare

l’attenzione sul concetto di “ruolo” dell’affiliato nel contesto

organizzativo. Il contributo oggettivo apportato dal soggetto, benché

significativo ma accompagnato da un movente psicologico autonomo e

dall’assenza di un ruolo stabile nella struttura dell’ente, configura una

ipotesi di concorso esterno.30

30 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 86.

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Il dato normativo richiede che il soggetto faccia parte del sodalizio,

questo vuol dire che alla sua volontà di operare a favore

dell’associazione è corrisposto, da parte degli altri associati, un “atto di

accettazione”, che non deve necessariamente essere ufficiale e che si

estrinseca nella concorde decisione di inserirlo nel tessuto organizzativo,

attraverso l’assegnazione di un ruolo stabile e permanente.

In sintesi, è partecipe colui che: al fine di realizzare gli scopi di volta in

volta contemplati nelle singole figure di reato associativo, abbia

accettato o si sia impegnato a svolgere una attività a favore

dell’associazione, assumendo la qualità di membro di quest’ultima31.

Circa l’elemento soggettivo necessario affinché si configuri la condotta

di partecipazione è evidente che si richieda il dolo specifico, non basta

infatti che il partecipe possieda la volontà di far parte dell’associazione,

ma in aggiunta, egli deve voler realizzare gli scopi che integrano il

programma associativo mediante l’impiego del metodo mafioso. Rileva

soprattutto, in relazione a questa realtà, la condivisione o la mera

consapevole accettazione delle metodiche e dei fini dell’ente. Tuttavia,

solo di recente, ragioni di agevolazione probatoria hanno indotto una

parte della giurisprudenze di merito a reputare sufficiente, ai fini della

31 De Francesco G., Societas sceleris…, cit., p. 148.

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responsabilità del singolo associato, dimostrare la sua consapevolezza di

apportare un contributo ad una associazione che abbia i metodi e gli

scopi indicati nell’art. 416 bis C.P.. In queste ipotesi, la verifica del

consenso della logica di intimidazione sarebbe superflua32.

8. L’assistenza agli associati (art. 418 C.P.)

L’art. 418 del Codice Penale prevede il delitto di “assistenza agli

associati”. Tale norma è stata introdotta dal Legislatore del 1930 al fine

di reprimere il fenomeno del brigantaggio, integrata poi da aggiunte

esplicative nel 2001, e benchè di fatto di scarsa applicazione, è volta a

non lasciare impuniti casi di collaborazione alla mafia, allo scopo di

disincentivare svariate forme di appoggio e quindi, in misura maggiore

possibile, di isolarla.

Afferma l’art. 418: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di

favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di

trasporto, strumenti di comunicazione a talune delle persone che

partecipano all’associazione è punito con la reclusione fino a due anni.

La pena è aumentata se l’assistenza è prestata continuatamente” .

32 Ingroia A., L’associazione…, cit., p. 98.

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Il dettato normativo delimita, con sufficiente chiarezza, l’ambito di

operatività del delitto di assistenza, servendosi, a tal fine, di una duplice

previsione: indica tassativamente le condotte ausiliatrici punibili e

richiede, ai fini della configurabilità del reato, la permanenza del

sodalizio criminoso. A fronte di tale chiarezza è tuttavia opportuno

offrire alcune precisazioni circa l’esatto significato da attribuire ai

termini “vitto” e “rifugio” e circa il concetto di reiterazione della

prestazione, la quale ultima è idonea ad integrare la circostanza

aggravante di cui al 2° comma. Dubbi intorno a questi termini

originerebbero applicazioni non uniformi della norma e sarebbero causa

di disparità di trattamento.

In particolare, il “vitto” corrisponde ad un insieme di prestazioni di

carattere alimentare, che benché limitate siano idonee a realizzare un

contributo apprezzabile in relazione alla posizione del soggetto.

Il termine “rifugio”, invece, non deve intendersi come nascondiglio, ma

come offerta di ricovero, di protezione, che rileva proprio perché utile

alla attività criminosa dell’associato. La chiave di lettura di entrambi i

termini va colta facendo sempre riferimento alla qualità del soggetto

beneficiario, le condotte diventano punibili solo se quest’ultimo

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usufruisce dell’asilo e dell’ospitalità quale membro di un sodalizio

criminale.

Viene dunque in rilievo un ulteriore specificazione della attività punibile;

la necessità cioè che l’aiuto venga prestato a favore di un singolo

associato, anche se l’aiuto medesimo può, di volta in volta, riguardare

soggetti diversi di una stessa organizzazione. In effetti, se il contributo

dato dal soggetto agente opera a vantaggio dell’organizzazione nel suo

complesso, ci troviamo di fronte ad un possibile caso di concorso esterno

ai sensi dell’art. 110 C.P.. Ulteriore condizione negativa, oltre al

concorso esterno, per riscontrare il delitto di assistenza, è che le

prestazioni di vivandiere non vengano realizzate da un associato che,

quale membro dell’organizzazione, svolga diligentemente il ruolo

assegnatogli.

Dubbi possono anche sorgere in ordine all’applicazione dell’aggravante

contenuta nel secondo comma dell’art. 418 C.P., a causa dei diversi

significati attribuiti al termine “continuatamente”. Sembra preferibile

intendere l’espressione usata nel senso di protrazione della condotta che

superi quel minimum cronologico che è necessario all’integrazione del

reato base. Il contributo dato si protrae cioè oltre la soglia necessaria

perchè possa considerarsi significativo. Diversamente, nel caso in cui i

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soggetti assistiti siano più di uno ci si trova in presenza di una pluralità

di reati33.

Quanto poi alla necessità di distinguere il delitto di assistenza agli

associati da quello di favoreggiamento personale, e tenuto fermo che

quest’ultimo può solo seguire alla consumazione del reato al fine di

eludere le investigazioni dell’Autorità e di sottrarsi alle sue ricerche, è

ricorrente l’abitudine di attribuire all’elemento soggettivo il ruolo di

strumento discretivo in grado di differenziare i due reati. Nel delitto di

assistenza agli associati è sufficiente ricorra la coscienza e la volontà di

fornire “vitto” e di dare “rifugio” nella consapevolezza che l’assistito è

membro di un sodalizio mafioso; nel favoreggiamento personale, invece,

è necessario riscontrare l’intenzione di aiutare il soggetto ad eludere le

investigazioni o a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità, anche se non si

richiede che la condotta consegua realmente l’obbiettivo preso di mira.

In questo senso, si considera ipotesi di assistenza e non di

favoreggiamento la condotta di assistenza che consenta di sottrarsi alle

indagini dell’Autorità, qualora il risultato ottenuto non è l’obbiettivo

perseguito dall’autore del reato. Di contro, chi da rifugio ad una soggetto

inseguito dalle Forze dell’Ordine per aiutarlo a sottrarsi all’arresto,

33 De Liguori L., Concorso e contiguità…, cit., p. 80 ss.

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risponde, anche se questa sola è la condotta materiale a lui addebitabile,

del reato di favoreggiamento personale, e non certo del più lieve delitto

di assistenza agli associati34.

9. “Omertà esterna” e reato di favoreggiamento personale (art. 378 C.P.) Il nucleo centrale della condotta di favoreggiamento personale dell’art.

378 del Codice Penale è costituito da una prestazione di aiuto, che deve

tendere ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche

dell’Autorità, così tipizzata dal Legislatore al fine di disincentivare

eventuali ostacoli frapposti all’attività diretta all’accertamento e alla

repressione dei reati. In particolare, negli ultimi decenni, l’impensato

sviluppo del fenomeno mafioso e le sue molteplici articolazioni, hanno

indotto la Magistratura a valorizzare il più possibile l’incriminazione per

favoreggiamento, grazie oltretutto all’amplissimo raggio di applicabilità

consentito dalla strutturazione a “forma libera” della fattispecie. Questa

finalità non solo è all’origine del moltiplicarsi delle forme di

manifestazione del reato, ma prima ancora, dell’aggiunta nell’art. 378 di

un apposito capoverso.

34 De Francesco G., Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Digesto disc. pen., 1987, I, p. 315.

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L’art. 2 della Legge 13/9/1982 n. 646, inserendo un nuovo comma che

segue al primo, fissa un aumento del minimo edittale di pena per chi,

senza concorrere nel reato associativo, aiuta consapevolmente un

affiliato ad una associazione di tipo mafioso ad eludere le investigazioni

dell’Autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa. In questa ultima ipotesi,

anche definita di “omertà esterna”, la pena non può essere inferiore ai

due anni di reclusione. Tralasciando però i dubbi circa l’effettiva

efficacia di un semplice aggravamento della sanzione penale rispetto a

comportamenti che sovente potrebbero essere determinati da una

condizione passiva di paura, è indubbio invece che la condotta esaminata

deve verificarsi dopo che è stato commesso un delitto di associazione di

tipo mafioso. Più chiaramente, ai fini della configurabilità del reato in

questione, è sufficiente che abbia avuto inizio la consumazione del reato

associativo di tipo mafioso, verificandosi spesso l’ipotesi di

favoreggiamento personale che interviene durante la permanenza del

vincolo associativo. In tali casi è necessario valutare con estrema

attenzione gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta del soggetto

agente, al fine di evitare di ravvisare in questa, data la mancata

cessazione della permanenza del sodalizio criminoso, un ipotesi di

concorso esterno nel reato associativo presupposto. Ciò che conta, ai fini

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della configurabilità del favoreggiamento personale, è che il

favoreggiatore risulti effettivamente estraneo all’associazione e che

voglia solo favoreggiare un affiliato e non già apportare un contributo

all’esistenza o al rafforzamento dell’ente; essendo poi irrilevante,

ricorrendo queste circostanze, che il suo comportamento ridondi anche a

vantaggio dell’intero sodalizio criminoso.

Sia il favoreggiatore che il concorrente esterno non sono membri

dell’associazione, ma se il primo intende aiutare, nelle modalità

descritte, un associato; il secondo vuole favorire l’ente nel suo

complesso35.

Ciò premesso, un breve cenno meritano i casi più problematici di

condotte favoreggiatrici.

Un primo caso, da tempo oggetto di divergenti opinioni, riguarda la

possibilità di individuare la fattispecie di favoreggiamento personale

nella condotta di colui che rende dichiarazioni mendaci alla Polizia

giudiziaria. Anche volendo tralasciare eventuali riflessioni circa la

centralità attribuita, nell’attuale sistema processuale, alla fase

dibattimentale in relazione all’assunzione e valutazione della prova; una

prima considerazione può essere di natura sistematica. Infatti, l’analisi

35 Turone G., Il delitto…, cit., p. 506 ss.

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delle norme in argomento rileva che: l’art. 652 C.P. attribuisce rilevanza

penale alle dichiarazioni mendaci unicamente se rese, agli organi

investigativi, in caso di flagranze di reato. L’art. 371 bis C.P. circoscrive

il reato al caso di false dichiarazioni rese, nel corso di un procedimento

penale, e sempre ai fini delle indagini, al Pubblico Ministero. Per ultimo,

l’art. 372 C.P. punisce chi, in qualità di testimone, depone il falso

davanti alla autorità giudiziaria. Alla luce di questa disamina, che denota

un sistema puntuale e per niente ambiguo, tentare di attribuire rilevanza

penale alle dichiarazioni mendaci rese nella fase delle indagini

preliminari, sia pure nella forma del favoreggiamento, equivale a

realizzare una applicazione analogica dell’art. 372.

Residua però un ipotesi di mendacio alla Polizia giudiziaria penalmente

rilevante perché riconducibile al favoreggiamento: ci si riferisce al caso

di informazioni non veritiere rese in una fase in cui si stiano conducendo

investigazioni urgenti e per questo in grado di produrre un autentico

effetto di depistaggio. In codesta ipotesi è evidente che la dichiarazione

mendace depista allo stesso modo di una azione di favoreggiamento,

ledendo lo stesso interesse protetto dall’art. 378, che si propone di

impedire una modifica in peggio delle condizioni esterne nelle quali si

svolgono le attività investigative.

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Altro caso molto discusso in ordine all’applicazione del delitto di

favoreggiamento è quello che prende in considerazione comportamenti

posti in essere dagli avvocati a favore dei loro assistiti. Se non c’è

dubbio che comportamenti dei difensori volti ad ostacolare le

investigazioni che esulino dalla difesa tecnica, costituiscono ipotesi di

favoreggiamento, basti pensare all’avvocato che porti al capo del

sodalizio una lettera di un affiliato detenuto, la vera difficoltà riguarda la

necessità di tracciare una linea di confine tra ciò che è lecito e ciò che

non lo è nell’ambito della attività intellettuale di assistenza.

Rientra infatti nell’esercizio del mandato conferitogli che l’avvocato dia

al cliente tutti i suggerimenti che ritiene utili alla sua difesa, compresa la

possibilità, nell’interesse di quello, di assumere un atteggiamento di non

collaborazione con gli organi investigativi. Diversamente, avvertire il

cliente di un provvedimento restrittivo della libertà personale, di una

perquisizione o di una intercettazione telefonica, non solo corrisponde a

violare da parte del difensore il segreto istruttorio, ma individua una

condotta che, discostandosi dal semplice consiglio, lo aiuta

concretamente ad eludere le investigazioni.

In dottrina, Pulitanò ha dimostrato come i suggerimenti privi di

contenuto informativo non integrano la condotta tipica dell’art. 378 C.P.,

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realizzando una forma di istigazione all’autofavoreggiamento del tutto

estranea alla previsione normativa; così come non sono tipiche le

comunicazioni informative sul processo e quindi anche su determinati

atti, sempre che la loro conoscenza non sia frutto di una condotta

illecita36.

10. Le aggravanti introdotte dall’art. 7 del Decreto Legge n. 152 del 1991 L’art. 7 del Decreto Legge 13/5/1991 n. 152, convertito nella Legge

12/7/1991 n. 203, prevede, per i delitti puniti con pena diversa

dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art.

416 bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste

dallo stesso articolo, un aumento di pena da un terzo alla metà.

L’aggravante in questione rientra tra gli strumenti di un complesso

programma normativo predisposto dal Legislatore, nell’intento di

sottrarre al fenomeno mafioso spazi operativi spesso poco qualificati.

Specie sul piano probatorio la previsione normativa citata consente di

punire eventuali attività collaborative eludendo la prova, non solo

dell’esistenza del sodalizio, ma anche quella di estrema complessità,

della partecipazione al sodalizio medesimo. L’aggravante assume due

36 De Liguori L., Concorso e contiguità…cit., p. 89 ss.

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diverse forme cui si fanno solitamente derivare due differenti tipologie

tra loro equiparate: quella definita aggravante del “metodo mafioso”,

che, con riguardo alle modalità di commissione di un delitto, ricorre

quando questo sia stato realizzato avvalendosi della forza di

intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne

deriva; quella che, con riguardo allo scopo perseguito nel commettere il

reato, ricorre quando la finalità sia stata quella di agevolare

l’associazione mafiosa.

In Dottrina, le riflessioni prodotte da più autori non sembrano in grado di

tracciare una direttrice interpretativa univoca.

Precisamente, il Manzione, ribadito che l’aggravante presenta

connotazioni alquanto sfuggenti, ritiene che essa faccia riferimento a

quelle attività criminose destinate a fungere da supporto ad una

associazione già operante. Il Fondaroli, invece, sottolinea l’impossibilità

di indicare, circa l’ambito di operatività dell’aggravante, un’esaustiva

risposta. Più articolate ma spesso distanti le conclusioni cui pervengono

Turone e De Liguori.

Il primo afferma che l’aggravante, primariamente, trovi applicazione ai

delitti, non punibili con l’ergastolo che siano stati commessi da questo o

quell’associato mafioso, o da più associati in concorso tra loro, nel

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quadro dell’attività del sodalizio. A suo giudizio, infatti, non è possibile

ipotizzare un delitto che pur previsto nel programma del sodalizio non

venga commesso né avvalendosi dell’apparato strutturale e strumentale

dell’associazione, cui è riconducibile la categoria del metodo mafioso, né

al fine di agevolare l’attività del sodalizio stesso. Del resto, e a sostegno

della sua tesi, specifica che chiunque commetta un delitto con l’unica o

prevalente finalità di agevolare l’attività di una associazione di tipo

mafioso reca, normalmente, alla vita dell’ente un apprezzabile

contributo, che chiaramente configura una condotta di partecipazione.

Fuori da questo ambito, che viene considerato quello tradizionale e

abituale di applicazione dell’aggravante, sono rintracciabili talune ipotesi

di delitti estranei al programma criminoso e posti in essere da soggetti

esterni allo stesso che configurano residuali casi di applicazione dell’art.

7 del D.L. 152/1991. Si tratta del caso, assai marginale, dell’estraneo che

simuli un’appartenenza al sodalizio per avvalersi del metodo mafioso; e

di quello di chi, pur essendo mosso da un movente personale, agisca con

la volontà di agevolare il sodalizio, senza che per questo si possa

considerare né membro, né concorrente esterno37.

37 Turone G., Il delitto…, cit., p. 185 ss.

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Opposta è l’individuazione degli spazio applicativi dell’aggravante cui

perviene De Liguori. Quest’ultimo ritiene che il problema possa essere

risolto verificando la compatibilità tra il delitto di partecipazione al reato

associativo e la ricorrenza dell’aggravante del ‹‹metodo mafioso›› e

dell’‹‹agevolazione››. Così, secondo l’Autore, se quanto alla prima

tipologia di aggravante non può dubitarsi che il metodo mafioso è lo

stesso di quello di cui all’art. 416 bis C.P., non altrettanta identità può

rinvenirsi per i soggetti. La fattispecie circostanziale prevista, esulando

del tutto dall’appartenenza al sodalizio criminoso, focalizza l’attenzione

solo su una condotta delittuosa posta in essere con metodi mafiosi, il che

non può ancora tradursi in una condotta partecipativa, per la quale è

necessario sussistano anche altri elementi.

Se poi questi ultimi venissero realmente riscontrati, poiché il metodo

mafioso è già dei per sé nota tipicizzante la condotta di partecipazione,

non può venire nuovamente utilizzato come aggravante senza violare il

principio del ne bis in idem. L’Autore utilizza la medesima

argomentazione logica per la seconda tipologia di aggravante. Di fatti,

l’associato che pone in essere attività delittuosa al fine di agevolare il

sodalizio, in realtà non fa altro che perseguire gli scopi dello stesso e

quindi realizza una condotta già prevista nel programma criminoso, da

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lui conosciuto e voluto in quanto partecipe; ne consegue come una

aggravante di pena apparirebbe del tutto irrazionale. In questo caso non

solo le modalità soggettive, ma anche quelle materiali della condotta

dell’associato resterebbero assorbite dall’art. 416 bis, la cui sfera

operativa risulterebbe comprensiva di quelle peculiarità che l’art. 7 ha

inteso enucleare quali distinte circostanze aggravanti.

Partendo da tali premesse, De Liguori circoscrive a due soli casi

l’applicazione dell’aggravante. Il primo, riguarda la condotta di soggetti

del tutto estranei all’associazione; il secondo, quella di quanti, pur

facendo parte di un sodalizio mafioso, in via eventuale realizzano, a

livello personale e al di fuori di tale appartenenza, delitti connotati da

completa estraneità al sodalizio, avvalendosi del metodo mafioso o al

fine di agevolare una associazione diversa da quella cui appartengono.

Tuttavia, tali conclusioni sembrano individuare spazi di operatività

assolutamente teorici, della cui efficacia, in termini di lotta alla

criminalità organizzata, è legittimo dubitare38.

38 De Liguori L., Concorso e contiguità…cit., p. 107 ss.

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CAPITOLO II Il concorso eventuale nel reato associativo mafioso

Sommario: 1. Breve ricostruzione storica della repressione della contiguità alle associazioni delittuose. - 2. Indirizzo dottrinario contrario e argomentazioni. - 3. Le aporie dogmatiche che giustificherebbero la tesi contraria al concorso esterno nel reato associativo: l’aggravante del numero di persone. - 4. Segue: il reato diverso da quello voluto dal concorrente esterno. - 5. Segue: la desistenza volontaria e il pentimento operoso del concorrente esterno. - 6. Segue: la soluzione proposta…il concorso alla partecipazione. - 7. La dottrina disincantata. - 8. La dottrina favorevole. - 9. Il concorso esterno nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: la sentenza Demitry, 5 ottobre 1994. - 10. Segue: situazioni “patologiche” dell’organizzazione mafiosa. - 11. L’impostazione della sentenza Carnevale: continuità o discontinuità? - 12. Segue: l’elemento soggettivo del concorrente esterno. - 13. Conclusioni e prospettive di riforma. 1. Breve ricostruzione storica della repressione della contiguità alle associazioni delittuose Il problema della punizione delle attività di sostegno e di

fiancheggiamento del crimine organizzato ha origini molto risalenti nel

tempo, nonostante un vivace dibattito in argomento si sia sviluppato solo

agli inizi del decennio passato, circa la configurabilità del cosiddetto

concorso esterno in associazioni di tipo mafioso. In particolare, le origini

storiche della problematica sono da ricondurre alle remote politiche

penali riguardanti la repressione del banditismo, prima, e del

brigantaggio poi.

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Quali che siano gli strumenti di lotta di volta in volta predisposti emerge

con chiarezza il continuo avvicendarsi di due fondamentali tecniche

operative. Da una parte l’adozione di misure repressive straordinarie,

spesso in forma di risposta a situazioni emergenziali; dall’altra la

tendenza a ridurre la distanza tra queste misure e i principi di garanzia

tipici del diritto penale.

Grande attenzione merita l’evoluzione della disciplina ottocentesca in

tema di partecipazione e di complicità. Occorre a tale proposito ricordare

due figure di reato: l’associazione di malfattori del Codice napoleonico

del 1810 e la comitiva armata, prevista dal Codice Penale per il Regno

delle due Sicilie del 1819. La prima figura criminosa fa riferimento

all’associazione quale forma di attentato all’ordine pubblico che,

secondo la volontà del legislatore dell’epoca, non solo è minacciato, ma

già compromesso. Ad essa il Codice francese affianca diverse norme, ma

una più delle altre merita attenzione, ed è l’art. 268. Questa norma

punisce tutte quelle persone che: “avranno scientemente e

volontariamente somministrato alle bande o alle loro divisioni delle

armi, munizioni, strumenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di

riunione” con ciò configurando, secondo l’opinione prevalente, una

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forma speciale di favoreggiamento, volta a colpire tutta l’estesa e

variegata gamma di attività di sostegno alle associazione di malfattori.

L’art. 154 del Codice napoletano descrive, invece, la comitiva armata

come quella che: “in numero non minore di tre individui, dei quali due

siano portatori di armi proprie, vada scorrendo le pubbliche strade o le

campagne con animo di andare commettendo misfatti o delitti…”.

La formulazione riportata non solo delimita con precisione i caratteri del

fatto tipico, ma distingue più ruoli ed individua sanzioni per i diversi

soggetti. L’art. 159 del medesimo Codice prevede poi il delitto di

assistenza agli associati, che, pur ricalcando la struttura dell’art. 268 del

Codice napoleonico, evidenzia una maggiore capacità garantista.

Sottolineando infatti il particolare e necessario contenuto dell’elemento

psicologico del delitto di assistenza agli associati, consistente nella

consapevolezza dell’appartenenza dell’assistito alla comitiva, il

legislatore del Codice napoletano pone fine alle ingiustizie della prassi

repressiva del passato, che spesso aveva equiparato, ai fini della

punizione, complici e vittime.

Qualche decennio più tardi e precisamente nel 1875 la Corte di

Cassazione di Palermo pronuncia due sentenze, che vengono

unanimemente indicate come i primi casi noti di espresso riconoscimento

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giurisprudenziale della possibilità di configurare un concorso esterno nel

reato associativo.

Di grande rilievo anche le scelte operate con l’introduzione, nel 1889,

del Codice Zanardelli. Primariamente il legislatore sostituisce le

numerose previsioni di reato associativo con un unico modello di

incriminazione, che garantisce una estesa ampiezza applicativa; ma

soprattutto prevedendo all’art. 249 l’ipotesi di assistenza agli associati e

all’art. 64 le ipotesi di complicità criminosa, rende manifesta l’intenzione

di riconoscere alle ipotesi di complicità una funzione incriminatrice

intermedia tra la punibilità degli intranei e quella di coloro che si

limitano a prestare assistenza agli associati.

Più tardi il Codice Rocco, da un lato riduce da cinque a tre il numero

minimo delle persone necessarie a dar vita al sodalizio criminoso,

dall’altro, rinuncia ad una qualsiasi specificazione delle finalità illecite

perseguite dall’organizzazione.

In epoca più recente si deve ad una sentenza della Cassazione del 1968,

in un processo a carico di irredentisti altoatesini la prima pronuncia sulla

configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, con particolare

riferimento alla cospirazione mediante associazione. Ma la sentenza

risulta degna di nota non per gli argomenti a sostegno della

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configurabilità del concorso esterno, bensì per la parte in cui distingue,

in modo assai netto, la figura dell’appartenente all’associazione da quella

del mero concorrente.

Successivamente e ripetutamente nei cosiddetti anni di piombo nella

giurisprudenza, pur ribadendosi in linea di principio l’applicabilità delle

norme sul concorso eventuale ai reati associativi, prevarrà la tendenza a

ricomprendere il fenomeno dell’appoggio compiacente nella

partecipazione. A fronte di questo stato di cose si leveranno negli anni

ottanta accese critiche dalla dottrina, che da un lato solleciterà

l’applicazione del favoreggiamento ai reati permanenti, dall’altro porrà

spesso in dubbio la configurabilità del concorso nel reato associativo39.

2. Indirizzo dottrinario contrario e argomentazioni

La questione della configurabilità del concorso esterno nei reati

associativi si è presentata, sin dall’origine, assai tormentata e

controversa, ed è presto divenuta uno dei terreni di scontro tra garantisti

e giustizialisti. Il problema ha iniziato a porsi quando il fenomeno del

terrorismo si è radicato sempre più ampiamente nel territorio ed ha

cominciato a generare casistiche giudiziarie estremamente complesse,

39 Argirò F., Note dommatiche e politico-criminali sulla configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione di stampo mafioso, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 2003, III, p. 774 ss.

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spesso connotate da contributi esterni anomali, contingenti, temporanei e

comunque difficilmente riconducibili a fattispecie autenticamente

partecipative. È in questo contesto storico che maturano gli indirizzi

giurisprudenziali favorevoli ad un allargamento della punibilità alle

condotte di concorso nella partecipazione. In modo particolare, tra la fine

degli anni ottanta e i primi anni novanta, l’elaborazione dottrinaria e

giurisprudenziale ha dato vita a due indirizzi, quello contrario che nega

la configurazione del concorso esterno nei reati associativi e quello

favorevole che ne valorizza la capacità repressiva e di contrasto, al fine

di non lasciare impunite condotte assai pericolose di sostegno per le

organizzazioni criminali. Un’analisi più dettagliata consente tuttavia di

individuare una posizione intermedia tra i due indirizzi, riconducibile a

quegli autori che, pur ammettendo in astratto il concorso esterno ne

condannano l’uso indiscriminato e ne ridimensionano il reale spazio

applicativo40.

Attingendo quindi alle opinioni degli autori più autorevoli, che

dell’argomento si sono occupati, è possibile ripercorrere gli itinerari

argomentativi e le metodologie di ogni indirizzo su esposto, a cominciare

da quello contrario.

40 Visconti C., Il concorso “esterno” nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1995, p. 1306 ss.

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Nell’ambito della più complessa tematica riguardante l’applicabilità

delle norme sul concorso eventuale di persone alle cosiddette fattispecie

plurisoggettive, si colloca la questione del concorso ex art. 110 del

Codice Penale nelle condotte descritte dai delitti associativi. Mentre,

infatti, la dottrina maggioritaria è concorde nel ritenere applicabili le

norme sul concorso eventuale ai reati necessariamente plurisoggettivi,

non vi è la medesima coincidenza di vedute circa la possibilità di un

concorso eventuale in una specifica categoria di reati a concorso

necessario, quella dei reati associativi. Per alcuni autori perciò non

sarebbe possibile ipotizzare forme di concorso eventuale di terzi, nei

delitti associativi, che non si risolvano, esse stesse, in condotte di

partecipazione all’associazione41. Se così non fosse la soglia di punibilità

retrocederebbe fino a ricomprendere attività preparatorie prive di

potenzialità offensiva. Secondo questa impostazione o si è partecipi o si

è in presenza di condotte rilevanti ad altro titolo, o ancora, penalmente

irrilevanti.

Più precisamente, F. Siracusano, voce autorevole della dottrina contraria,

dichiara che la natura del contributo fornito dal soggetto non integrato

nell’associazione è assai rilevante per ammettere o meno il concorso

41 Insolera G., Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, in Foro It., 1995, p. 524.

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esterno nelle fattispecie associative. Così, in tema di concorso esterno

materiale, un contributo occasionale e temporaneo prestato ad una

struttura permanente e preesistente, non assume i connotati del fatto

tipico del reato associativo e rileva solo in quanto venga ad inserirsi nella

sequenza causale, coordinata agli scopi del sodalizio. Diversamente, è

ammissibile il concorso esterno morale che ricorre allorché soggetti

estranei all’ente criminale determinano o comunque rafforzano la

volontà altrui di partecipare ad una associazione per delinquere, o di

promuoverla, o di dirigerla od organizzarla42.

Altro argomento su cui poggia la dottrina negazionista è quello che

riguarda l’indeterminatezza che scaturirebbe dal connubio tra le norme

sul concorso di persone e quelle fattispecie tradizionalmente ritenute

connotate da una scarsa efficacia descrittiva, cioè i reati associativi.

Sebbene infatti la polemica sul carattere indeterminato dell’intero istituto

del concorso di persone emerge già dai lavori preparatori del Codice

Rocco, è l’applicazione di questo ai delitti associativi a suscitare forti

perplessità. In questi ultimi il legislatore ha volontariamente combinato

esigenze repressive ed esigenze preventive, anticipando a fini di difesa

della collettività, alle attività preparatorie la soglia di punibilità.

42 Siracusano F., Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. Pen., 1993, p. 1872.

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Qualcuno usa a tale proposito l’espressione “repressione preventiva”. Se

però la carenza di tassatività di queste fattispecie, il loro carattere

generico, risultano funzionali ad un efficace risposta di contrasto al

dilagare del crimine organizzato, una pretesa estensiva della

giurisprudenza, realizzata ipotizzando nuove forme di concorso esterno

al reato associativo, non solo attribuirebbe alla giurisprudenza le stesse

scelte di incriminazione ma piegherebbe anche alle scelte politico-

criminali di questa diverse e pur presenti ragioni dogmatiche. Tutto ciò

rischia di immolare sull’altare delle esigenze della prassi il fondamentale

principio di legalità. Di questa opinione: Insolera, Siracusano e Manna43.

Nell’indirizzo contrario si inserisce infatti anche l’opinione di Adelmo

Manna, che, allontanandosi dagli altri autori, introduce un nuovo

elemento di riflessione. Questo, infatti, sostiene che, ammettendo il

concorso eventuale nel reato associativo, si violerebbe il principio

costituzionale di uguaglianza, parificando, mediante l’applicazione

dell’art. 110 del Codice Penale, il trattamento penale del partecipante e

quello dell’estraneo all’associazione. A fronte di comportamenti di

differente gravità il legislatore ha previsto un analogo trattamento

43 Si vedano in merito: Insolera G., il concorso esterno…, cit., p. 429; Siracusano F., Il concorso esterno…, cit., p. 1874; Manna A., L’ammissibilità di un concorso esterno nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1994, II, p. 1195.

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sanzionatorio. Poiché infatti nei casi di concorso esterno il disvalore è

coordinato all’apporto solo occasionale e temporaneo all’ associazione,

esso non può venire assimilato a quello caratterizzante la condotta di chi

è perfettamente e stabilmente integrato nella struttura permanente del

sodalizio. Ulteriore conferma dell’improponibilità della figura in esame,

ancora ricavabile dalla disciplina sanzionatoria, deriva poi

dall’applicabilità al concorrente esterno e non anche all’associato

dell’aggravante del numero di persone di cui all’art. 112, n. 1 C.P.

La norma, prescrivendo che: la pena è aumentata se il numero delle

persone che sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la

legge disponga altrimenti, introduce, a giudizio dell’autore,

un’ingiustificata disparità di trattamento. Conseguenze sanzionatorie

deteriori per il concorrente rispetto al partecipe divengono, quindi, altro

motivo di opposizione alla configurabilità del concorso esterno44.

Anche i rilievi di natura sistematica, relativi alla normativa antimafia,

vengono assunti da autori sostenitori della dottrina contraria per

escludere il concorso esterno. In particolare, è stata riconosciuta una

sorta di vis astractiva sul piano della qualificazione penale in capo alle

fattispecie di assistenza ai partecipi, di favoreggiamento e, soprattutto,

44 Manna A., L’ammissibilità…, cit., p. 1193.

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all’aggravante prevista dall’art. 7 del D.L. 13.5.1991, n. 152 (convertito

nella L. 12.7.1991, n. 203), rispetto ad ogni condotta ritenuta di

fiancheggiamento alle associazioni criminali45.

Secondo questi autori, alcune previsioni normative tipicizzando

specificatamente comportamenti di soggetti estranei alla associazione,

che, pur collaborando con essa non sono né partecipi né concorrenti

esterni, circoscrivono i limiti di autonome fattispecie di reato. Si

consideri in questo senso l’ipotesi di cui all’art. 418 C.P., che integra

un’ipotesi di reato sussidiario della fattispecie associativa e che,

assorbendo condotte contigue alla partecipazione alla associazione,

introdurrebbe un limite alla applicabilità dell’istituto del concorso di

persone. Non sempre i fatti idonei al conseguimento degli scopi del

sodalizio rientrano, però, in figure di reato previste da legislatore. In

questo ragionamento si inserisce e si comprende la funzione della citata

circostanza aggravante. In essa si tipicizza l’attività di agevolazione al

sodalizio, prestata dall’estraneo commettendo un delitto punibile con

pena diversa dall’ergastolo. Si sostiene quindi che se il legislatore ha

tipicizzato l’attività di agevolazione, come contenuto di una circostanza

aggravante, ha voluto escludere l’applicabilità delle norme sul concorso

45 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1310.

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esterno a quelle condotte di agevolazione realizzate dal di fuori dell’ente

senza commettere alcun delitto. Se non si accettasse questa tesi la

contraddizione sarebbe evidente. Il comportamento dell’estraneo

penalmente neutro, ma di per sé idoneo a contribuire alla vita dell’ente,

verrebbe punito con la medesima sanzione prevista per l’associato;

diversamente, il comportamento illecito che pure favorisca

l’associazione prevederebbe solo un aggravamento di pena46.

Ancora argomento a sostegno della tesi contraria è quello che poggia

sull’elemento soggettivo quale profilo caratterizzante la condotta

dell’extraneus. Una parte della dottrina afferma che è necessaria la

sussistenza nel concorrente esterno del dolo specifico, in tal caso si

richiede che le condotte dei concorrenti eventuali risultino

finalisticamente orientate verso la realizzazione di ciascuna figura

criminosa; ciò perché solo questo presupposto volitivo permetterebbe di

attribuire rilevanza penale a comportamenti che, avulsi da quel contesto

e singolarmente considerati, esulerebbero dalla attività esecutiva del

reato, integrando eventualmente gli estremi di reati diversi. Secondo tale

impostazione, di fronte a condotte di soggetti disinteressati al

46 Siracusano F., Il concorso esterno…, cit., p. 1876.

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raggiungimento delle finalità dell’ente criminale non si potrebbero

applicare le norme sul concorso al reato associativo47.

Altra parte della dottrina, fautrice della tesi negazionista lungamente

esaminata, contesta la tesi su esposta. Questi autori, condividendo il

principio generale che ammette che si concorra con dolo generico in un

reato a dolo specifico, sempre che tale requisito soggettivo sia

ravvisabile in un altro concorrente, escludono che la motivazione

dell’agire illecito sia giuridicamente rilevante. Nel concorrente esterno,

perciò, è sufficiente che si ravvisi il dolo generico, da identificarsi nella

consapevolezza dell’esistenza dell’associazione, dei fini illeciti che la

medesima persegue e nella semplice volontarietà della condotta

agevolatoria48.

L’ultima tra le più ricorrenti obiezioni sollevate per escludere

l’ammissibilità del concorso esterno nel reato associativo di tipo

mafioso, è quella che individua, rispetto alla figura del partecipante e a

quella del concorrente esterno, la medesima dinamica di tipizzazione

causale. Se quindi identica è la tecnica che vale a tipizzare la condotta di

partecipazione e quella di concorso nella associazione: “o il contributo

appare significativo ed adeguato rispetto alla struttura organizzativa

47 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1313. 48 Argirò F., Note dommatiche…, cit., p. 784.

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predisposta, ed allora verteremo in un caso di partecipazione alla

associazione, ovvero, in mancanza di tale connotazione, esuleremo

dall’ambito di rilevanza penale”49.

Invero l’assunto che la condotta di partecipazione debba

necessariamente identificarsi con lo svolgimento di specifiche attività

materiali, sembra destinato a confondere, ancora una volta, il profilo di

disvalore concernente l’organizzazione delittuosa in quanto tale con

quello ricollegabile, viceversa, alle singole attività di volta in volta

esplicate nel perseguimento degli scopi associativi. Questo induce a

condividere l’idea, sostenuta da buona parte della dottrina, che collega

gli estremi della condotta di partecipazione alla esistenza di un ruolo

stabile nella struttura organizzativa propria dell’ente delittuoso. Di

conseguenza, in assenza di questo inserimento nell’associazione, ciò che

attribuisce tipicità alla condotta del concorrente esterno è la natura del

contributo prestato all’ente criminale. Se quindi solo in questo secondo

caso è rinvenibile un nesso causale, il fondamento dell’obiezione mossa

sembra venir meno50.

49 Insolera G., Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, p. 148 ss. 50 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1323 ss.

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3. Le aporie dogmatiche che giustificherebbero la tesi contraria al concorso esterno nel reato associativo: l’aggravante del numero di persone Nell’ampio panorama della dottrina contraria al concorso esterno si

inserisce il lavoro monografico di Vincenzo Bruno Muscatiello. Questo

autore poggia la negazione dell’istituto del concorso esterno alle

fattispecie associative su una serie di aporie dogmatiche, alle quali la

figura in esame non potrebbe sottrarsi e che dimostrerebbero un

inaccettabile effetto sperequativo nel regime sanzionatorio riservato

rispettivamente al concorrente esterno e al partecipante interno.

La prima aporia, di natura sistematica, risulta, secondo l’autore,

dall’estendibilità al concorrente esterno, ma non anche al partecipante

interno, dell’aggravante contenuta nell’art. 112, n. 1, del Codice Penale e

relativa alla disciplina generale del concorso di persone nel reato. La

norma in questione, prescrivendo, in forma di circostanza aggravante,

che: “la pena da infliggere per il reato commesso è aumentata: 1. se il

numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più,

salvo che la Legge disponga altrimenti”, punirebbe più severamente la

condotta dell’extraneus che quella dell’intraneus, attribuendo quindi una

maggiore carica lesiva alla collaborazione del primo.

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L’affermazione si fonda sulla natura del rapporto intercorrente fra i reati

plurisoggettivi necessari, alla cui categoria appartiene l’art. 416 bis C.P.,

e le norme di disciplina del concorso di persone o, più precisamente,

sull’applicabilità o meno delle seconde ai primi. L’Autore, infatti, pur

non disconoscendo la tendenza della dottrina a negare simile

applicabilità, ritiene che l’assenza di disposizioni generali ed

inequivocabili in tal senso deve fare concludere per l’operatività

dell’aggravante di cui all’art. 112 n. 1 C.P. anche alle fattispecie

plurisoggetive necessarie; seppure con una serie di limiti discendenti

dalla struttura della citata aggravante. In particolare, pur potendo a limite

dubitare dell’estendibilità dell’aggravante al partecipe interno, in quanto

prevarrebbe il dettato della fattispecie incriminatrice di parte speciale,

non altrettanto può dirsi per il concorrente esterno51.

Assolutamente discorde l’opinione di Costantino Visconti che, partendo

da argomentazioni di ordine generale, e solo dopo particolare, vuole

dimostrare l’inesistenza di questa aporia dogmatica. Primariamente

ritiene che la dottrina, quasi unanimemente, subordini l’applicazione

delle norme sul concorso di persone alla compatibilità con la struttura di

ciascun reato e poi, più specificamente, sostiene che l’inciso “salvo che

51 Muscatiello V. B., Il concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, CEDAM, 1995, p. 91 ss.

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la legge disponga altrimenti”, imponga un’indagine delle singole norme

di parte speciale. In relazione, ad esempio, al reato di associazione per

delinquere semplice, avendo il legislatore previsto un’aggravante

specifica solo quando gli affiliati sono più di dieci non vi è motivo di

credere che il superamento della quota indicata non rilevi anche quando

si tratti di concorrenti esterni, e ciò al fine di dare valore all’inciso

suddetto.

Secondo questo ragionamento che prende le mosse dall’analisi delle

singole fattispecie, l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 112 sarebbe,

rispetto all’associazione di tipo mafioso, ancora più evidente. In

quest’ultima il fatto che il legislatore si disinteressi del numero massimo

di persone che la costituiscono è sufficiente ad escludere che possa

interessarsi del numero di concorrenti eventuali52.

4. Segue: il reato diverso da quello voluto dal concorrente esterno

La seconda aporia dogmatica capace di rilevare un trattamento

sanzionatorio ancora una volta più severo rispetto al concorrente esterno

che non agli associati, deriva, dall’applicazione al primo dell’art. 116

C.P., che, rientrando tra le norme di disciplina proprie del concorso di

52 Visconti C., Il concorso “esterno”…cit., p. 1315 ss.

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persone, contempla la possibile imputazione di responsabilità all’ignaro

concorrente esterno anche per una attività illecita diversa da quella da lui

concordata e compiuta dal sodalizio, purchè conseguenza della sua

azione od omissione. Nonostante infatti la norma introduca un’ipotesi di

responsabilità oggettiva, da più parti ritenuta al limite della legittimità

costituzionale, perché confliggente con l’art. 27 della Costituzione,

l’autore ne sottolinea tuttavia la diffusa applicazione ad opera della

giurisprudenza. A tale proposito propone ed esamina con finalità

esplicative ed argomentative un esempio. Si dia il caso che tre o più

persone si siano associate per realizzare profitti ingiusti per se o per altri,

e che usufruiscano del contributo esterno di un concorrente, nelle forme

ad esempio di un contributo in denaro, e che l’associazione così

costituita, utilizzando il contributo fornito da tutti i compartecipi, interni

o esterni, per volontà di taluno o anche di tutti i soci, ma non anche del

socio esterno, modifichi il piano delittuoso e realizzi, fra l’altro, delitti

volti ad attentare all’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, dando

così vita ad un organismo non più di tipo comune, ma con una precipua

finalità politica.

Nel caso considerato gli affiliati che non condividendo il mutamento

dello scopo sociale dell’ente, non hanno aderito o contribuito,

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risponderanno e solo fino al suddetto cambiamento di associazione

semplice; il concorrente esterno, invece, cui trova applicazione la

rigorosa ed eccezionale disciplina prevista dall’art. 116 C.P., risponderà

dell’evento diverso da quello da lui voluto e quindi della cospirazione

politica e non dell’associazione semplice53.

Ancora una volta però Visconti ritiene che neanche questa diversità

sanzionatoria possa indurre ad escludere la configurabilità della figura

del concorso eventuale nell’associazione. Non solo perché le

argomentazioni di Muscatiello si fondano su casi assolutamente

marginali, di sporadica realizzazione, ma soprattutto perché questa

diversità di trattamento nasce dalla volontà del legislatore del 1930 di

punire più severamente il concorrente eventuale, la cui condotta viene

ritenuta in una prospettiva sistematica, evidentemente maggiormente

pericolosa per la società. In questo senso, a giudizio di Visconti, la

problematica non riguarda più la configurabilità del concorso esterno nel

reato associativo, ma la permanenza, in termini di opportunità

costituzionale, di tale articolo54.

53 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 94 ss. 54 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1317.

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5. Segue: la desistenza volontaria e il pentimento operoso del concorrente esterno La terza aporia serve al Muscatiello ad ulteriormente avallare la sua tesi

circa la predisposizione da parte del legislatore di un trattamento meno

benevolo per il concorrente esterno rispetto a quello previsto per il

partecipante, che, in questo caso, afferisce alle ipotesi di desistenza

volontaria e di recesso attivo. Anche a voler prescindere

dall’applicazione alquanto incerta degli istituti premiali alle due diverse

figure, emerge tuttavia che lo stesso concetto di desistenza volontaria

assume significati diversi qualora questa sia posta in essere dall’affiliato

o dal concorrente esterno. Se infatti in relazione alla fattispecie

associativa di stampo mafioso, derivando la responsabilità penale

dall’adesione al sodalizio, il semplice regresso dalla singola condotta di

partecipazione è sufficiente ad escludere la responsabilità stessa; le

difficoltà connesse all’esatta individuazione degli elementi costitutivi

della responsabilità concorsuale esterna si riflettono nello stesso giudizio

di non responsabilità.

In giurisprudenza sono quindi rilevabili due orientamenti maggioritari

circa le connotazioni che la desistenza volontaria assume nella fattispecie

concorsuale.

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Il primo, fondando la fattispecie concorsuale su una comune

realizzazione causale dell’evento delittuoso, richiede, perché possa

parlarsi di desistenza, che il concorrente esterno si adoperi per

interrompere la condotta dei compartecipi interni o per impedire la

verificazione dell’evento. Il secondo, mantenendosi fedele al principio

che riconosce che la responsabilità penale è personale e così anche la

non responsabilità, richiede, perché possa individuarsi desistenza, che il

soggetto abbia eliminato l’idoneità lesiva del proprio contributo, di modo

che il fatto portato a compimento dagli altri partecipi non possa essere

ricondotto anche all’attività del concorrente esterno.

Se quindi perché si configuri la desistenza dell’intraneus basta il

semplice ravvedimento, che si concretizza nello scioglimento dal vincolo

associativo da parte del soggetto che dichiara di dissociarsi; la desistenza

dell’extraneus dall’accordo criminoso si traduce in un fattivo e concreto

pentimento operoso, che non solo produce un trattamento più

sfavorevole ed ingiustificato, ma introduce anche una causa scriminante,

quella appunto del pentimento operoso, sconosciuta al nostro

ordinamento giuridico penale55.

55 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 96 ss.

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Il Visconti, ponendosi ancora una volta in antitesi rispetto alle

argomentazioni del Muscatiello, crede che il trattamento sanzionatorio

finisca invece per essere più svantaggioso per il partecipante, il quale, a

suo dire, non sembra avere spazi concreti per desistere e ciò a differenza

dell’extraneus. Poichè infatti lo status di partecipe si acquista assumendo

un ruolo nella struttura organizzativa del sodalizio criminoso, il

partecipante potrà solo eliminare, mediante il recesso dal vincolo

associativo, il proprio contributo, ma sembrerebbe doversi escludere

l’ipotesi del delitto tentato data la difficoltà di individuare uno spazio

logico-temporale in cui la sua condotta rispetto al sodalizio pur iniziata

possa essere interrotta. In breve, o si fa parte oppure no dell’associazione

mafiosa, perché il momento propedeutico alla partecipazione e quindi

alla consumazione del reato è di difficile verificazione.

Quanto poi ad alcune specifiche figure di reati associativi, continua

Visconti, quali il reato di cospirazione politica e di banda armata, sono

previste condizioni speciali di non punibilità le quali possono essere

riferite solo ai partecipanti e non anche ai concorrenti. E del resto,

essendo equiparata la dissociazione dell’estraneo assistente ai partecipi

di cospirazione o di banda armata a quella del partecipe dei medesimi

reati, di modo che per nessuno di questi si richieda un pentimento

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operoso, lo stesso principio è da intendersi senz’altro esteso anche al

concorrente esterno56.

6. Segue: la soluzione proposta…il concorso alla partecipazione

La parte più originale del lavoro di Muscatiello riguarda l’esito finale cui

perviene. Esclusa la configurabilità di un concorso esterno generalizzato,

l’autore ritiene ammissibile il concorso dell’extraneus alla

partecipazione di altri all’associazione. Eliminato il concorso esterno in

relazione alle condotte qualificate di organizzazione, promozione e

costituzione, dato che l’extraneus che collabori attraverso un contributo

causale all’organizzazione, promozione o costituzione del sodalizio e

senza il quale quest’ultimo non avrebbe avuto esistenza, vedrà la sua

condotta sanzionata attraverso il richiamo all’art. 416 bis C.P., al quale

solo è riconducibile; parrebbe che il concorso esterno trovi

legittimazione unicamente in relazione alla condotta di partecipazione ad

un sodalizio criminale57. In questo senso la tipicità della contribuzione

interna conferirà tipicità alla contribuzione esterna.

56 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1318 ss. 57 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 132 ss.

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Concorrente esterno è dunque il soggetto che partecipi all’azione che

costituisce il reato di “partecipazione ad associazione”: il soggetto cioè

che ponga in essere una qualsiasi frazione dell’azione, ovvero ne

determina l’altrui compimento, ovvero ancora ne concordi la

realizzazione con altri soggetti. Perchè sia punibile il contributo

dell’esterno deve essere idoneo ed univoco; idoneo a determinare l’altrui

condotta di partecipazione e quindi a ledere o solo porre in pericolo,

attraverso l’intermediazione dell’azione dell’affiliato, il bene giuridico

protetto, univoco rispetto alla lesione del bene medesimo.

Il contributo esterno deve dunque essere idoneo a garantire la

permanenza e la stabilità della partecipazione al sodalizio, mentre

quest’ultima deve essere finalisticamente utile alla permanenza e

stabilità dell’intera associazione58.

Per chiarire la sua tesi l’autore elabora tre esempi.

Rispetto a questi casi, Visconti fornisce letture interpretative diverse, che

conducono tutte ad escludere la figura, elaborata da Muscatiello, del

concorso esterno alla partecipazione nell’associazione.

Sia dia il caso di un membro di una associazione segreta che

nell’adempimento di un ruolo interno al sodalizio, debba partecipare a

58 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 165 ss.

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riunioni settimanali tenute in una località distante da quella di residenza

raggiungibile solo a mezzo di veicolo privato. Qualora l’affiliato sia

sfornito di autovettura o di abilitazione alla guida, e perciò solo si affidi

ripetutamente ad una amico perché questi lo accompagni ad ogni

riunione, la condotta dell’amico integrerà un ipotesi di appoggio esterno

perché naturalmente e funzionalmente stabile e permanente; capace

quindi di porsi come condicio sine qua non dell’altrui partecipazione59.

Circa il primo esempio, Visconti ritiene che questo potrebbe rientrare, a

certe condizioni, nell’ipotesi di reato di favoreggiamento personale e che

comunque, escluso il caso anzidetto, la soluzione di quell’autore amplia

l’area applicativa del concorso esterno dei reati associativi, dato che la

mancanza di un legame funzionale con l’organizzazione illecita esclude

l’incriminazione, ex art. 110 C.P., della condotta descritta60.

Si pensi ancora al caso in cui un affiliato ad una organizzazione

finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti sia chiamato a svolgere il

servizio di leva (ormai non più obbligatorio) e convinca il suo superiore

a concedergli talune licenze per espletare il compito societario. Appare

chiaro come una singola licenza, occasionalmente concessa, pur nella

consapevolezza della finalità delittuosa, non sia idonea a consentire la

59 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 169 ss. 60 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1319 ss.

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partecipazione dell’affiliato al sodalizio illecito. Diversa conclusione, nel

caso in cui l’accordo preveda la reiterazione delle licenze così da

consentire che il partecipe svolga il proprio ruolo stabilmente, solo in

questo caso il superiore risponderà di concorso esterno alla altrui

partecipazione associativa.

Secondo Visconti con riferimento al caso prospettato nel secondo

esempio, piuttosto che di concorso esterno alla partecipazione sarebbe

più corretto parlare: se il superiore rilascia sistematicamente le licenze

nella consapevolezza di contribuire all’organizzazione dell’associazione

di partecipazione o di concorso esterno, a seconda che il suo vincolo col

sodalizio risulti o meno stabile. Se ignora di contribuire all’esistenza o al

rafforzamento del sodalizio criminale ricorrerà un ipotesi di concorso nei

reati specifici.

Si dia il caso, da ultimo, che un soggetto che partecipe di una

associazione per delinquere, sia sottoposto ad un procedimento penale e

grazie all’intervento di un giudice compiacente riesca ad ottenere una

sentenza di assoluzione. Occorrerà verificare se il contributo esterno,

quindi la sentenza di assoluzione, sia idoneo a garantire la permanenza e

la stabilità della condotta di partecipazione dell’imputato assolto.

Residuano due possibili soluzioni: ritenere che l’intervento del giudice si

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inserisca in una progettualità criminosa a lungo termine, per la quale la

partecipazione venga garantita anche contro possibili future sentenze di

condanna; ritenere oppure che l’intervento del giudice si collochi come

episodio isolato. Nel primo caso si avrà concorso esterno, nel secondo,

invece, si avrà responsabilità ad altro titolo61.

Anche nel terzo esempio, a parere di Visconti, si finisce per allargare

ingiustificatamente l’area applicativa del concorso esterno nel reato

associativo, ai fini del quale è necessaria la volontà di aiutare taluno

nella sua veste di componente dell’organizzazione mafiosa e non, come

nel caso di specie, la sola intenzione di sostenere quel singolo

partecipante, magari anche in futuro con altre sentenze di assoluzione.

Questo perché niente esclude che nel caso descritto il magistrato sia

mosso da antica amicizia.

In conclusione due sono le principali obiezioni che, secondo Visconti,

alla soluzione teorica di Muscatiello si possono fare: la circostanza di

ampliare lo spazio operativo del concorso esterno del reato associativo di

tipo mafioso, fagocitando a volte in esso condotte riconducibili ad altre

figure di reato; un eccesso rigoristico nell’attribuire la responsabilità per

61 Muscatiello V. B., Il concorso esterno…, cit., p. 169 ss.

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reato associativo ad una condotta che risolve il contributo all’ente

criminale nel sostegno esclusivo ad un partecipante allo stesso62.

7. La dottrina disincantata

A metà strada tra gli autori contrari, che negano la configurabilità del

concorso esterno al reato associativo e quelli favorevoli, che ne

sostengono l’ammissibilità, si pongono quelli definiti da Visconti

disincantati. Questi ultimi, dopo aver negato la possibilità di escludere

l’applicazione dell’istituto concorsuale alle associazioni di stampo

mafioso, pongono al centro della loro analisi la problematica attinente ai

limiti di ammissibilità dell’istituto nella prassi giurisprudenziale.

In questo contesto si collocano le riflessioni di De Francesco, Spagnolo e

Fiandaca63.

Il primo, ponendo l’accento sul nesso causale intercorrente tra la

condotta del cooperatore esterno e l’incremento della potenzialità

offensiva dell’ente criminale, sottolinea come il dibattito tra favorevoli e

contrari abbia finito per trascurare un aspetto del problema tutt’altro che

secondario. Costui infatti afferma che, i criteri di valutazione del

contributo dell’estraneo mancano di determinatezza e risultano spesso

62 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1321 ss. 63 Visconti C., Il concorso “esterno”…, cit., p. 1326.

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incerti ed opinabili. Stabilito in astratto che il contributo del concorrente

per essere giuridicamente rilevante deve essere idoneo a determinare il

potenziamento, o almeno il consolidamento dell’associazioni criminale,

risulta in concreto estremamente complesso verificare, in ogni singola

condotta del soggetto esterno, tale specifica capacità.

In realtà, continua De Francesco, in presenza di organizzazioni criminali

ancora allo stato embrionale, l’idoneità o meno di un contributo a

completare o consolidare la struttura dell’ente è facilmente riscontrabile,

ma questa operazione non risulta altrettanto semplice in presenza di

associazioni di origine più risalente, e perciò, già fortemente strutturate.

Rispetto a queste ultime sarà difficile istituire una specifica correlazione

causale tra la singola condotta di concorso e l’accrescimento ulteriore

della potenzialità offensiva dell’organizzazione nel suo complesso;

essendo questa già dotata di un forte potenziale aggressivo. Da ciò deriva

che “soltanto in presenza di una reiterazione in forma massiccia di una

molteplicità di contributi di partecipazione alla vita e allo sviluppo

dell’ente delittuoso” si può affermare l’esistenza di un “nesso tra

l’attività del soggetto e la conservazione o il consolidamento della

struttura associativa”. L’autore riconosce tuttavia che, così

argomentando, si finisce per limitare fortemente il concreto spazio

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operativo del concorso eventuale nel reato associativo. A tale

conclusione conduce però la disciplina positiva del concorso di persone,

che secondo un accreditato canone interpretativo, subordina la rilevanza

del singolo contributo, e quindi la determinazione ad incriminarlo, alla

sua efficienza causale nella produzione del risultato. In tale contesto,

quindi, la disciplina del concorso di persone, rivelando una

inadeguatezza per difetto, ha costituito un impedimento significativo ai

fini del riconoscimento della rilevanza penale delle condotte di concorso

esterno nell’associazione di tipo mafioso. Nel contempo, la mancanza di

una determinazione legale degli elementi costitutivi delle condotte di

concorso, incrementa la discrezionalità giudiziale, pronta ad ampliare o

limitare il contenuto delle condotte di partecipazione a seconda della

rilevanza che intende attribuire a condotte compiacenti e contigue alle

organizzazioni criminali64.

La ricerca di Spagnolo, anche lui come De Francesco attento a tracciare i

confini applicativi dell’istituto del concorso esterno nell’associazione di

tipo mafioso, prende le mosse dall’elaborazione di una nozione ristretta

di partecipazione. Poiché, infatti, se si accoglie una nozione ampia di

partecipe diventa difficile ipotizzare un concorso di terzi che non si

64 De Francesco G., Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1994, IV, p. 1288.

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risolva, esso stesso, in una attività di partecipazione all’associazione,

l’autore ritiene più corretta la soluzione che propende per una

definizione circoscritta e non equivoca della condotta partecipativa.

In base a questa scelta partecipe è il soggetto che, volendo far parte

dell’associazione, mette a disposizione il suo contributo o promette di

farlo e che viene accettato dall’associazione, anche per facta

concludentia, come socio riconoscendogli un ruolo. Se si accoglie tale

nozione di partecipe, dice Spagnolo, il concorrente sarà colui che

dall’esterno, quindi senza farne parte, contribuisce all’associazione

mediante un apporto personale, agevolandone l’affermarsi e nella

consapevolezza del nesso causale del suo contributo. Ragionando in

questi termini è possibile, secondo l’autore, ammettere la configurabilità

del concorso materiale nei reati associativi. Del resto, continua, a volerla

escludere si dovrebbe dimostrare, da una lato, l’impossibilità di

ipotizzare condotte causali di concorso che non siano di per se condotte

partecipative, dall’altro, che quelle non qualificabili come tali, siano

effettivamente rilevanti ad altro titolo.

Sono tuttavia le caratteristiche peculiari del contributo del terzo a ridurre

ad un ristretto numero di casi l’ambito di applicazione delle norme sul

concorso eventuale ai delitti associativi. In questo senso il contributo

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deve essere, circa l’aspetto oggettivo, idoneo, anche solo ex ante, a

potenziare o consolidare la struttura organizzativa dell’ente criminale;

circa quello soggettivo, diretto allo scopo di agevolare il conseguimento

degli obbiettivi illeciti dell’associazione. In quanto tale l’aiuto del terzo

risulta distinto da quello avente ad oggetto specifiche imprese delittuose

o prestato a singoli associati65.

Ancora diversa l’analisi di Fiandaca che rientra, a giudizio di Visconti

tra gli autori disincantati, a giudizio di De Liguori tra i possibilisti. Pur

palesando infatti un atteggiamento di favore per quanto riguarda la

configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, pone rilievi

critici circa il contenuto dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo

della condotta del concorrente, così come elaborata dalla dottrina

favorevole.

Cominciando dall’elemento soggettivo, la diversità di atteggiamento

psicologico tra partecipe e concorrente esterno, in base alla quale il

primo agirebbe per far raggiungere all’associazione i suoi scopi ed il

secondo per fini personali distinti da quelli dell’ente criminale, non è,

secondo questo autore, condivisibile. Non solo, infatti, è possibile che

obiettivi personali e obbiettivi sociali si sovrappongano e si confondano,

65 Spagnolo G., L’associazione…, cit., p. 137 ss.

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ma questa possibilità rende complesso l’accertamento probatorio, nella

cui fase la qualificazione di partecipe o di concorrente esterno dovrebbe

invece delinearsi con molta evidenza.

Quanto poi all’elemento materiale, la nozione ristretta di partecipazione

rischia di privilegiare riti formali di affiliazione, con la conseguenza di

non dare adeguato valore al contributo oggettivo prestato, tanto che,

precisa Fiandaca, la stessa dottrina fautrice di questa concezione ravvisa

la necessità di estendere la qualità di partecipe anche a chi risulti tale per

facta concludentia; così restituendo dignità al contributo fornito. E pur

volendo tralasciare le considerazioni di Fiandaca circa l’elasticità delle

nozioni di contributo o di apporto e la sua conseguente sovente

arbitrarietà giudiziale, un altro punto della sua riflessione merita

attenzione. Si propenda per la configurabilità del concorso esterno o lo si

escluda, il comportamento oggettivo deve, per assumere rilevanza

penale, “concretizzarsi in un contributo o apporto obbiettivamente

idoneo alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura

associativa”66.

66 Fiandaca G., La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale (nota a Trib. Catania, 28.3.1991), in Foro It., 1991, II, p. 475 ss.

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8. La dottrina favorevole

Nell’ambito della dottrina favorevole al concorso esterno nel reato

associativo si possono individuare impostazioni differenti, sia sotto il

profilo della metodologia ricostruttiva del fenomeno che della

individuazione degli istituti di base dai quali prendere le mosse, e sia

infine della concreta indicazione esemplificativa del contenuto materiale

e psicologico dei comportamenti a tale scopo ritenuti rilevanti.

Lo Iacoviello, dopo avere premesso che generalmente si ammette la

possibilità di un concorso eventuale in una fattispecie plurisoggettiva

necessaria, e ribadita l’unanime condivisione del concorso morale, sotto

forma di istigazione alla costituzione o alla partecipazione

all’associazione di tipo mafioso, afferma che il problema maggiore sta

nel verificare se sia possibile un concorso materiale nel reato associativo

che non implichi una partecipazione alla consorteria mafiosa. Il punto da

cui muove è la nozione di partecipazione. L’autore è infatti consapevole

che la possibilità o meno di configurare il concorso esterno dipende dal

significato convenzionalmente attribuito alla condotta di partecipazione.

E pur ritenendo che la tesi restrittiva di partecipazione sia più confacente

alla morfologia del crimine organizzato, nella quale legami gerarchici e

distribuzioni di competenze valgono da soli ad esprimere una capacità

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criminogena, ricorda che sovente questa accezione è stata respinta. In

questi ultimi casi, in cui si è svalutato l’aspetto organizzativo e

valorizzato l’elemento del contributo causale offerto all’organismo

associativo, non vi è spazio per la figura del concorrente. Se quindi il

contenuto della condotta di partecipazione dipende da scelte fatte dai

giuristi in via convenzionale, non è più rilevante l’individuazione di un

discrimine tra condotta di partecipazione e condotta del concorrente

esterno, rilevante è semmai delimitare l’area della punibilità.

Occorre dunque, secondo Iacoviello, stabilire quando un comportamento

è penalmente rilevante e quando penalmente indifferente. Escluso a

riguardo che criterio discretivo sia il nesso causale, che, in quanto tale

c’è o non c’è; ed escluso che sia utile l’intensità del predetto nesso

causale, ritiene invece che si debba guardare all’oggetto del contributo.

In questo senso sarà rilevante non qualsiasi contributo che giovi

all’associazione, ma solo il contributo che incide sulle funzioni

strumentali dell’organizzazione. Ruoli strumentali dell’organismo

associativo sono: l’approvvigionamento di mezzi e di informazioni, la

programmazione di obiettivi da raggiungere, il coordinamento delle

funzioni associative, il controllo della attività operativa, la distribuzione

e il reinvestimento di profitti. Solo il contributo che incide sulle funzioni

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strumentali permette all’organizzazione di protrarsi nel tempo e di

rafforzare la carica criminogena67.

Dal canto suo, Grosso, dopo avere manifestato una preferenza per la

dottrina che considera configurabile il concorso esterno nei reati

associativi, e dopo averne tuttavia denunciato i limiti derivanti

dall’assenza di inequivoci criteri di demarcazione tra il partecipe e il

concorrente esterno e di criteri certi di individuazione dell’idoneità del

contributo esterno, affronta la questione da tre distinte prospettive.

Sul piano ontologico sottolinea come la posizione di chi entra a far parte

di una associazione, condividendone scopi ed obbiettivi, sia logicamente

differente da quella di chi, pur non essendo entrato a farne parte, abbia

apportato alla stessa un contributo causale di una certa consistenza e

come, quindi, questa diversità debba ricevere altrettanto distinta

qualificazione giuridica.

Sul piano interpretativo-sistematico afferma che rilievi testuali legislativi

costituiscono argomentazioni a favore dell’istituto del concorso esterno.

In tal senso gli artt. 307 e 418 C.P., prevedendo i delitti di assistenza agli

associati, configurano la responsabilità penale di chi “fuori dai casi di

concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce il vitto a

67 Iacoviello F. M., L’organizzazione criminogena prevista dall’art. 416 del Codice Penale, in Cass. Pen., 1994, p. 580 ss.

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taluna delle persone che partecipano all’associazione”. L’uso del termine

concorso e la manifesta volontà legislativa di distinguere tra condotta di

concorso nel reato e quella di favoreggiamento, dimostrerebbe che il

legislatore voleva attribuire alle due posizioni autonoma e diversa

rilevanza.

Fatte queste osservazioni preliminari, Grosso concentra poi la propria

attenzione sul contenuto della condotta del concorrente esterno. In primo

luogo l’aiuto prestato deve essere rivolto all’intera associazione e non ai

singoli associati, secondariamente, si tratti di una attività continuativa o

ripetuta, oppure si tratti di una prestazione occasionale, il contributo

dell’estraneo per qualificarsi come concorso nel reato associativo deve

incidere sul mantenimento o consolidamento della consorteria mafiosa.

In conclusione, escluso che l’elemento soggettivo sia sufficiente a

discriminare il partecipe dal concorrente esterno, l’autore ritiene che il

secondo debba rappresentarsi, quantomeno in termini di dolo eventuale,

d’intrattenere rapporti con la mafia e di apportare ad essa un contributo

rilevante68.

Innovativa e pragmatica è la tesi proposta da Turone in materia di

concorso esterno al reato associativo. Questo autore osserva come il

68 Grosso C.F., Le contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1993, p. 1188 ss.

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dettato normativo dell’articolo 416 bis non fa riferimento alla

associazione d tipo mafioso in se, ma alle singole condotte di

promozione, di organizzazione e di partecipazione e ai corrispondenti

ruoli che l’affiliato svolge rispetto all’ente criminale. L’analisi testuale

chiarisce quindi che il termine di riferimento, rispetto al quale valutare la

rilevanza della condotta atipica dell’extraneus, non è la societas sceleris

bensì le condotte tipiche del reato associativo. Secondo questa

impostazione, sostenuta anche dalla sentenza del 22.12.2000 n. 6929

della Vª sezione Suprema Corte e ripresa da un’altra del 12.4.2007 della

VIª sezione, lungi dal ritenere che la condotta esterna sia diretta ad

agevolare un singolo partecipante, la condotta del concorrente eventuale

accede a quella dei membri interni, nel senso che i rispettivi contributi

“interagiscono sinergicamente” concorrendo alla conservazione o al

rafforzamento delle capacità operative dell’associazione. Poiché, del

resto, la prestazione del contributo dell’extraneus dovrà ridondare a

vantaggio del sodalizio nel suo complesso, risulta infondata la

preoccupazione di una sovrapposizione tra concorso esterno da un lato e

favoreggiamento ed assistenza dall’altro. Da queste argomentazioni

deriva che il contributo dell’extraneus, benché di rilievo, deve esplicare

rilevanza causale rispetto alla conservazione o al rafforzamento del

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sodalizio non già da solo, bensì in concorso con i contributi dei partecipi

interni. Essendo però diverse le condotte indicate dall’art. 416 bis C.P.,

Turone, mutando l’atteggiamento originario, ritiene si possa parlare di

concorso esterno semplice, quando la prestazione è di supporto a chi

partecipa all’associazione; di concorso esterno qualificato quando è

invece di supporto al ruolo tipico di chi organizza l’associazione stessa.

Le condotte di promozione e di direzione, infatti, non ammettono

contributi da parte di soggetti estranei al sodalizio, e ciò perché

ineriscono ad attività che si realizzano e si esauriscono all’interno

dell’organizzazione. Pertanto si configura il concorso esterno nel reato

associativo rispetto alla condotta di semplice partecipazione quando

l’apporto esterno funge da supporto alle condotte tipiche dei membri

interni. Si configura l’ipotesi, ben più complessa, del concorso esterno

nella attività di organizzazione, quando il comportamento dell’extraneus

sia atto a favorire la realizzazione di strategie complessive di tipo

organizzativo. In entrambi i casi, secondo Turone, l’atteggiamento del

soggetto agente può definirsi di “omertà attiva esterna”; questo tipo di

omertà, che esula dal concetto di omertà quale elemento dell’apparato

strutturale-strumentale mafioso, non trae origine dall’in sé del vincolo

associativo, né dalla forza di intimidazione propria del medesimo, ma da

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una convergenza di interessi tale da indurre il non associato ad attivarsi a

favore dell’associazione69.

9. Il concorso esterno nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: la sentenza Demitry, 5 ottobre 1994 La complessa e tormentata vicenda del concorso esterno perviene ad una

svolta decisiva con una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione: la

sentenza Demitry del 5.10.1994. Quest’ultima, oltre a risolvere in senso

positivo la controversa ammissibilità del concorso materiale nel reato

associativo, compie un tentativo di precisazione dei presupposti e di

delimitazione del concorso esterno punibile.

Il ragionamento degli estensori della sentenza ha origine da una

definizione della condotta tipica di partecipazione. La Corte definisce la

partecipazione come la stabile permanenza del soggetto

nell’associazione cui corrisponde lo svolgimento di una attività o meglio

di una funzione, specificando che esiste un momento statico e uno

dinamico, che sono appunto il far parte e il partecipare. Così intendendo

la partecipazione risulta semplice circoscrivere i connotati della condotta

del concorrente esterno, che si collega alla nozione dinamica di

partecipazione. Concorrente eventuale è, quindi, colui che pur non

69 Turone G., Il delitto…, cit., p. 440 ss.

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facendo parte dell’associazione e che pur non essendo da essa chiamato a

partecipare, contribuisce atipicamente alla realizzazione della condotta

tipica posta in essere da altri. Questo vuol dire che il punto di riferimento

di qualsiasi discorso sul concorso esterno non può che essere la condotta

di partecipazione70.

Dopo queste considerazioni iniziali la sentenza affronta poi il problema

relativo all’elemento soggettivo. Il dolo del partecipe consiste nella

coscienza e volontà di far parte dell’associazione e di perseguirne i fini

con il metodo mafioso. Qual è, invece, il dolo del concorrente esterno?

Innanzitutto al concorrente esterno manca la volontà di far parte

dell’associazione e, di regola, anche la volontà di realizzare i fini

dell’associazione. Del resto, poiché, precisano le Sezioni Unite, è

possibile partecipare con dolo generico ad un reato a dolo specifico,

purché l’altro concorrente sia animato da tale tipo di dolo; il concorrente

eventuale può benissimo agire con un dolo generico. Il dolo generico del

concorrente esterno consiste quindi nella coscienza e volontà di dare un

contributo all’associazione con la consapevolezza che tale contributo

servirà alla vita e al consolidamento dell’ente. Ciò non impedisce,

70 Iacoviello F. M., Concorso esterno in associazione mafiosa: il fatto non è più previsto dalla giurisprudenza come reato, in Cass. Pen., 2001, III, p. 2076 ss.

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peraltro, secondo la sentenza citata, che il concorrente eventuale possa

anche agire con dolo specifico, e ciò nonostante, restare pur sempre

concorrente eventuale esterno. In questo caso il concorrente eventuale

vuole realizzare il programma criminale del sodalizio ma non può avere

quel segmento del dolo specifico del partecipe che consiste nella volontà

di far parte dell’associazione. L’alternativa è dunque tra un dolo generico

e un dolo specifico ma diverso da quello della partecipazione71.

Altra condizione posta dalle Sezioni Unite per selezionare le condotte

esterne all’associazione penalmente rilevanti è quella che attiene alla

natura del contributo prestato. Questo deve essere destinato alla

associazione e non ai singoli partecipi, ma soprattutto deve essere, anche

se occasionale, necessario alla vita dell’ente; il quale requisito, taluno

osserva, se rigidamente interpretato, riduce notevolmente le ipotesi di

concorso esterno72.

In un altro punto della sentenza, la Cassazione contesta la tesi di quanti

negano la configurabilità del concorso esterno basandosi

sull’elaborazione, da parte del legislatore, della circostanza aggravante

per chi commette delitti al fine di agevolare l’associazione mafiosa,

aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13.5.1991 n. 152.

71 Turone G., Il delitto…, cit., p. 408 ss. 72 Iacoviello F. M., Concorso esterno…, cit., p. 2081.

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La formazione dell’aggravante citata non interferisce con il concorso

esterno, e poiché le due figure possono concorrere tra loro, per capire se

il contributo, che sostanzia il delitto, rileva solo come reato aggravato o

anche come concorso esterno, bisogna guardare alla finalità perseguita

dall’organizzazione. Si ricade, quindi, nella seconda ipotesi quando

l’ente criminale versa in uno stato di necessità che intende superare con

la commissione di un reato. Così, secondo le Sezioni Unite, quando ad

un soggetto estraneo viene richiesto di uccidere “per impartire una

lezione a qualcuno che ha osato disobbedire, senza che la disobbedienza

abbia messo minimamente in forse la vita dell’associazione”, si

configurerà un omicidio aggravato dal fine di agevolare l’attività

dell’associazione mafiosa; mentre qualora “l’omicidio abbia di mira

l’eliminazione di un qualche pericoloso concorrente o di altri che

possono minare la vita dell’associazione”, l’estraneo che lo ha

commesso, consapevole del valore del suo contributo, dovrà rispondere

di concorso esterno nell’associazione e di omicidio aggravato73.

Dichiarata ammissibile perciò la configurabilità del concorso esterno, la

pronuncia in esame tenta di spiegare le ragioni che inducono i

negazionisti a riconoscere l’ipotesi di un concorso eventuale morale nel

73 Turone G., Il delitto…, cit., p. 411 ss.

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reato associativo e a rigettare quella di un concorso esterno materiale. La

Cassazione osserva che è contraddittorio riconoscere il primo e negare il

secondo, anche se l’argomento che essa usa, lungi dal rilevare capacità

dimostrativa in questo senso, ha semmai finalità persuasiva. Esso serve

ad indurre l’interlocutore ad eliminare pregiudizi e ostilità preconcette, e

a spiegare che l’equivoco ha origine, ancora una volta, dal concetto di

condotta74.

Nel concorso morale, sia nella forma della determinazione sia in quella

del rafforzamento, la condotta dell’istigatore è per definizione diversa

dall’azione tipica del partecipe e, in maniera evidente, esterna rispetto

all’associazione. Sul piano del concorso materiale, invece, la distinzione

tra le due condotte non è sempre agevole, specie quando la condotta

atipica consiste in una parte della condotta tipica. Le due condotte

rischiano di sovrapporsi e questa difficoltà di discernere impedisce di

individuare uno spazio per il concorrente eventuale materiale, in più

induce a sostenere che il dolo specifico fa del concorrente materiale un

vero partecipe75.

74 Iacoviello F. M., Concorso esterno…, cit., p. 2075. 75 Iacoviello F. M., Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere (nota a Cass. Pen., Sez.Unite, 5.10.1994), in Cass. Pen., 1995, p. 842 ss.

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10. Segue: situazioni “patologiche” dell’organizzazione mafiosa

La parte della sentenza Demitry che ha però suscitato in dottrina

maggiori osservazioni, e per la quale essa è assolutamente innovativa, è

quella in cui gli estensori della sentenza stessa elaborano la cosiddetta

teoria della “fibrillazione”. Questa parte, che è l’unica che ha formato

oggetto di una massima giurisprudenziale, fornisce un contributo

decisivo, soprattutto in considerazione della fonte dalla quale proviene,

ai fini della discriminazione tra la condotta e il ruolo del partecipe e la

condotta e il ruolo del concorrente eventuale nell’organigramma

dell’organizzazione criminale.

Precisato preliminarmente che, in relazione al partecipe, la locuzione

“far parte”, utilizzata dal legislatore nell’art. 416 bis del Codice Penale,

serve a indicare una compenetrazione del soggetto nell’ente criminale, e

che quest’ultima può essere desunta in vari modi, la Corte procede ad

una definizione della medesima condotta. Come riportato dalla massima,

partecipe è “colui senza il cui apporto quotidiano o, comunque assiduo,

l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la

dovuta speditezza”. Il partecipe, quindi, è il soggetto che opera nella

normalità, nella fisiologia della vita associativa. Diversi e più complessi i

connotati della condotta del concorrente esterno. La lettera della

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massima, riferendosi al soggetto che “occupa uno spazio proprio nei

momenti di emergenza della vita associativa”, sembra ancorare la

configurabilità del concorso esterno unicamente alle fasi di “fibrillazione

patologica”. Diversamente la frase contenuta nella versione integrale

della sentenza, lungi dal limitare il concorso esterno alla patologia

dell’ente, ritiene che esso possa riguardare se non solo situazioni

emergenziali, quanto meno situazioni “non normali” che, proprio perché

tali non coinvolgono gli affiliati. Di conseguenza, poiché le situazioni

“non normali” non sono tutte emergenziali ma possono essere anche solo

straordinarie, la Corte ritiene che il concorso esterno nel reato

associativo non sia unicamente riconducibile ad un’azione di

salvataggio. Tuttavia il fatto che la Corte stessa, in un punto della

sentenza, affermi che il concorso esterno può anche concretarsi in un

unico intervento, perché “ciò che rileva è che quell’unico contributo

serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita”, non fa che

qualificare nuovamente quell’apporto come pertinente alla patologia

della vita associativa76.

A queste conclusioni Fiandaca muove due interessanti critiche.

76 Turone G., Il delitto…, cit., p. 413 ss.

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La prima ha origine da una considerazione storica che lo porta a

ricordare come tratto caratteristico dell’organizzazione dell’associazione

di stampo mafioso siano i frequenti rapporti intercorrenti tra questa ed

esponenti del modo della politica, dell’economia e delle professioni, di

modo che tali contatti, più che riguardare una fase patologica, attengono

al fisiologico funzionamento della criminalità mafiosa.

La seconda, di ordine logico, serve all’autore citato per dimostrare la

fallibilità del criterio discretivo, visto che, qualificare un certo contributo

come utile in una fase di emergenza oppure di patologia, rimane sempre

una valutazione soggettiva77.

11. L’impostazione della sentenza Carnevale: continuità o discontinuità? Dopo il duro attacco demolitorio sferrato alla sentenza Demitry dalla

sentenza Villecco del 21.9.2000, che propugna nuovamente e

decisamente la tesi negazionista, si perviene alla sentenza Carnevale del

2003, la quale ribadisce la configurabilità del concorso esterno in

associazione mafiosa.

77 Fiandaca G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, in Legislazione Penale, 2003, p. 693.

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Il Tribunale di Palermo, con sentenza 8.6.2000, aveva assolto l’imputato

dalla accusa di avere contribuito, in maniera non occasionale, alla

realizzazione degli scopi di “Cosa Nostra”, strumentalizzando le sue

funzioni di Presidente della Iª sezione penale della Corte di Cassazione

ed assicurando l’impunità a capi e affiliati. La Corte d’Appello di

Palermo, l’anno successivo, aveva capovolto il verdetto.

La sentenza della Corte di Cassazione prende le mosse dalla tesi che

sostiene la natura monosoggettiva della condotta di partecipazione.

Quest’ultima, dice la Corte, non è costituita da un atto unilaterale di

adesione all’associazione, perché “l’inclusione di taluno in una

associazione non può dipendere solo dalla volontà di colui che alla

associazione intende aderire, ma richiede anche quella di tutti gli altri

associati o di coloro che li rappresentano”. Infatti “tanto la costituzione

dell’associazione, quanto l’inserimento di un soggetto in

un’organizzazione già formata, postulano sempre e necessariamente la

volontà e l’agire di una pluralità di persone”. Ne deriva che i reati

associativi sono sempre reati a concorso necessario, cioè fattispecie

plurisoggettive proprie78.

78 Denora G., Sulla qualità di concorrente “esterno” nel reato di associazione di tipo mafioso (nota a Cass. Pen., Sez. Unite, 21.5.2003 n. 29), in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 2004, I, p. 366.

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Circa poi l’applicabilità delle norme sul concorso di persone ai reati

associativi, la Corte ritiene che trattandosi di norme di carattere generale,

occorre verificare la loro compatibilità con le singole figure di reato. La

difficoltà di distinguere la condotta di partecipe e quella di concorrente

di un reato a concorso necessario può essere facilmente superata. Se

infatti la condotta del partecipe corrisponde alla concreta assunzione di

un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, con il

conseguente impegno di prestare un contributo alla vita del sodalizio,

non può confondersi con quella di chi apporta dall’esterno un contributo

rilevante. Il superamento dell’obiezione additata da chi si oppone ad

ammettere l’applicabilità delle norme sul concorso ai reati associativi

risponde, del resto, all’esigenza pratica di perseguire condotte di favore

alla criminalità organizzata79.

Sempre in relazione alla condotta di partecipazione, la Cassazione, in un

punto fondamentale della sentenza, respinge l’orientamento dottrinale

che assume a punto di riferimento del concorso nel reato associativo, non

l’associazione nel suo complesso, bensì la condotta di partecipazione del

singolo. La soluzione ricordata, infatti, non solo rischia di risolvere il

contributo esterno in un mero “accordo criminoso”, avulso dal rapporto

79 Fiandaca G., La tormentosa…, cit., p. 691 ss.

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con l’associazione come entità organizzativa, ma, come alcuni autori

sottolineano, rende anche più difficile distinguere la molteplicità delle

condotte di favoreggiamento e limita il concorso esterno alle poche

ipotesi in cui sia possibile ravvisare un collegamento tra contributo

dell’extraneus e il ruolo svolto da un membro dell’organizzazione80.

In linea con l’atteggiamento della giurisprudenza successivo alla

sentenza del 1994, la pronuncia del 2003 ridimensiona in modo

significativo il rilievo attribuito alla teoria della fibrillazione, precisando,

nella motivazione, che già nella precedente sentenza: “l’argomento della

fibrillazione viene ad assumere, in definitiva, più che altro carattere

esemplificativo”. Pur ammettendo, infatti, che il contributo esterno possa

verificarsi ricorrendo uno “stato di necessità” dell’ente, il contributo

medesimo non è necessariamente collegato ad una crisi strutturale e non

altrimenti superabile dell’organizzazione, sottolineando, in via

conclusiva, che “la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo

dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita

dell’associazione”81.

Il vero problema sta invece, secondo la Suprema Corte,

nell’individuazione del “livello di intensità o di qualità” minimo ed

80 De Francesco G., I poliedrici risvolti di un istituto senza pace, in Legislazione Penale, 2003, p. 704. 81 De Francesco G., I poliedrici risvolti…, cit., p. 707.

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idoneo a considerare il concorso dell’agente esterno come concorso nel

reato associativo. Muovendo dalla sentenza Demitry, che contrappone

alla figura del partecipe quella del concorrente esterno, gli elementi

caratteristici del contributo concorsuale esterno non possono che

ricavarsi dal confronto con il contributo di partecipazione. Perciò il

contributo richiesto al concorrente esterno “deve poter essere apprezzato

come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a

determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento

dell’organizzazione”. Si tratti di attività continuativa oppure occasionale,

secondo la Corte ciò che rileva è che risulti idonea a conseguire quel

risultato. Tuttavia non è ben chiaro, nel modo di argomentare della

Cassazione, se tale giudizio, inerente al contributo, debba essere espresso

ex post oppure ex ante, sebbene quest’ultimo sembri il criterio prescelto.

Proseguendo nel ragionamento, se il concorso esterno manca quando c’è

partecipazione, lo stesso può dirsi per il caso in cui i sui requisiti non

siano compiutamente realizzati. In questa prospettiva la Cassazione

individua, in via esemplificativa, alcune ipotesi quali la “contiguità

compiacente”, la “vicinanza” e la “disponibilità” che considera

giuridicamente irrilevanti, perché non in grado di produrre di per sé un

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oggettivo apporto al rafforzamento o consolidamento dell’associazione82.

Altro punto di rilievo della sentenza è quello in cui la Corte nega che la

condotta del concorrente esterno e quella del partecipe interno siano

indistinguibili tra loro per il fatto di essere entrambe descritte secondo

una medesima tecnica di “tipizzazione causale”. A giudizio della

Cassazione, ad essere errata è proprio la premessa, e cioè che le due

figure siano individuate dalla medesima dinamica di tipizzazione

causale. Se infatti si è concordi con l’idea, sostenuta da buona parte della

dottrina, che a configurare una condotta come partecipativa è sufficiente

la stabile assunzione di un ruolo nella struttura organizzativa, perché già

da sola in grado di accrescerne le potenzialità criminali, di causalità si

può parlare solo rispetto alla condotta del concorrente esterno. Questo

perché unicamente nel concorso esterno è necessario accertare in

concreto che la condotta del terzo abbia rafforzato o potenziato l’ente

criminale.

La Corte non manca neanche di svalutare gli “argomenti sistematici”

utilizzati dai fautori della tesi negazionista per desumere la non

configurabilità del concorso esterno. Non solo perché le espresse

previsioni legislative, relative a condotte agevolative realizzate da

82 Denora G., Sulla qualità di concorrente…, cit., p. 366 ss.

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soggetti esterni, non coprono tutte le ipotesi rilevanti, ma anche perché lo

stesso dettato dell’art. 418 del Codice Penale è ricorrente argomento a

conferma dell’ammissibilità del concorso esterno83.

Infine, passando alle problematiche relative alle cosiddette condotte di

aggiustamento dei processi di mafia ad opera di un magistrato

compiacente, che, come preannunciato, ineriscono al caso di specie, il

ragionamento della Corte non appare ai più persuasivo. Se l’evento

consiste nella sopravvivenza o nel rafforzamento dell’associazione,

occorre distinguere tra il contributo isolato e quello reiterato. Nel primo

caso, l’evento che concreta la condotta del concorrente esterno si verifica

se ricorre l’esito favorevole della condotta, cioè l’aggiustamento del

processo. Nel secondo caso, l’idoneità del contributo del soggetto

esterno andrebbe ravvisata “proprio nella reiterata e costante attività di

ingerenza”, perché il rafforzamento dell’associazione è riscontrabile

nella consapevolezza dei suoi membri di poter contare su un apporto

stabile di un soggetto operante nelle istituzioni giudiziarie. Molte le

critiche mosse a questo punto della sentenza, la più ricorrente quella che

sostiene che il reiterato atteggiamento di favore del magistrato, del tutto

privo di risultati concreti, più che produrre un rafforzamento potrebbe

83 Denora G., Sulla qualità di concorrente…, cit., p. 359 ss.

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legittimamente produrre un effetto di indebolimento del sodalizio

criminale84.

Entrambe le sentenze delle Sezioni Unite, quella Demitry del 1994 e

quella Carnevale del 2003, sono intervenute in momenti in cui forte era

il dibattito e le critiche mosse all’istituto del concorso eventuale in

associazioni di tipo mafioso, ribadendone, con vigore, l’esistenza e

l’importanza. La sentenza Carnevale, che contesta in maniera

sistematica le critiche rivolte alla pronuncia precedente, pur modificando

in modo significativo alcuni principi di diritto enunciati in quella, non

sconfessa mai la decisione del ’94, consentendo di individuare tra le due

una linea di continuità e semmai di logica evoluzione85.

12. Segue: l’elemento soggettivo del concorrente esterno

In un punto del ragionamento il distacco tra le due pronunce sembra

assumere caratteri significativi, tali da rendere, in argomento, la sentenza

Carnevale, decisamente innovativa. Si tratta delle conclusioni cui questa

perviene in materia di elemento soggettivo del concorrente esterno.

84 De Francesco G., I poliedrici risvolti…, cit., p. 707. 85 Grosso C.F., Il concorso esterno nel reato associativo: una evoluzione nel segno della continuità, in Legislazione Pen., 2003, p. 687.

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La prima considerazione, relativa al partecipe, è comune, poiché il dolo

del partecipe è, per entrambe le sentenze, caratterizzato dalla

consapevolezza e volontà di associarsi con lo scopo di contribuire alla

realizzazione del programma dell’associazione. Condivisione tra le due

si riscontra anche riguardo alla premessa che, al dolo del concorrente, a

differenza di quello del partecipe interno, manca l’ affectio societatis, e

cioè la volontà di far parte integrante del sodalizio. La divergenza

emerge, invece, con evidenza in relazione all’elemento soggettivo del

concorrente esterno, poiché la sentenza Carnevale condivide solo in

parte l’argomentazione della decisione Demitry. Quest’ultima ritiene che

il dolo del concorrente esterno si concreti nella coscienza e volontà di

fornire un contributo vantaggioso per l’associazione, a prescindere dalla

condivisione degli obiettivi e della strategia complessiva della stessa,

condivisione che può sussistere ma che non è affatto richiesta. Ed è

proprio il punto del discorso relativo al rapporto tra il concorrente

esterno e gli scopi del sodalizio, che, nella sentenza del 2003, viene

diversamente elaborato. La Corte di Cassazione nella più recente

decisione riconosce al concorrente esterno un dolo specifico che, anche

se non si estende all’affectio societatis, si configura come un dolo

diretto, proiettato non solo verso la realizzazione di un contributo

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significativo, ma anche verso la realizzazione del programma criminoso,

magari anche parziale86.

Questa conclusione, tuttavia, non solo deroga alla disciplina generale

della compartecipazione criminosa, che ritiene possibile il concorso con

dolo generico nei reati a dolo specifico, ma in aggiunta, separato il dolo

specifico dalla volontà di far parte dell’associazione, questo finisce con

l’apparire un dato meramente interiore, data la difficoltà di individuare

un rapporto tra il fine indicato e la condotta del soggetto esterno87.

13. Conclusioni e prospettive di riforma

Il vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza e la sovente difficoltà di

tracciare con certezza i presupposti e i limiti dell’istituto del concorso di

persone, hanno generato la proposizione di differenti soluzioni del

problema, alcune delle quali meritano di essere ricordate.

Così, Denora, auspica che si giunga ad una espressa incriminazione

legislativa della condotta del concorrente esterno, che abbia ad oggetto il

contributo concreto, utile alla conservazione o al rafforzamento

dell’associazione e che sia comunque diretto alla realizzazione, anche

86 Fiandaca G., La tormentosa…, cit., p. 695 ss. 87 De Francesco G., I poliedrici risvolti…, cit., p. 708 ss.

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parziale, del programma criminoso della stessa. In relazione alla utilità

del contributo, in termini di efficacia causale, si dovrebbero configurare

due ipotesi di sostegno. La prima, riferita ad un sostegno di minima

rilevanza, cui corrisponderebbe una pena ridotta. La seconda, relativa

invece ad un contributo “salvifico” perché rilevante rispetto alle sorti

dell’ente criminale, cui corrisponderebbe una pena maggiore rispetto alla

prima, eventualmente equiparata a quella del partecipe. Tale tipizzazione

delle diverse forme di contiguità alla mafia vedrebbe però come

necessaria l’inapplicabilità delle norme sul concorso di persone ai reati

associativi88.

Diversamente Grosso, anche in veste di Legislatore, quale Presidente

della Commissione parlamentare investita del compito di riformare la

parte generale del Codice Penale, mostra la sua contrarietà alla

elaborazione normativa di specifiche figure di reato, e ciò a causa della

difficoltà di prevedere compiutamente ogni forma di contiguità

associativa meritevole di punizione. Ne consegue che l’autore ritiene

preferibile continuare ad avvalersi dell’apparato legislativo esistente, che

applica ai reati associativi l’istituto generale del concorso di persone nel

reato. E quanto poi alla “zona grigia” tra la condotta concorrente e la

88 Denora G., Sulla qualità di concorrente…, cit., p. 369 ss.

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condizione di chi è vittima della mafia, non rimane che, ravvisata

l’incapacità della legge di fornire un contributo risolutivo, affidarsi alla

valutazione del giudice confidando nella sua capacità di garantire la

giustizia89.

Degna di considerazione per la sua precisione è la proposta del Visconti

di introdurre una apposita figura criminosa che punisca autonomamente

la contiguità mafiosa. Una proposta tanto più interessante in quanto si fa

carico di distinguere, appunto, le forme di contiguità dalle condotte di

partecipazione all’associazione.

Secondo l’autore, risponde di partecipazione, chiunque risulti

stabilmente inserito in una associazione di tipo mafioso e perché tale ne

condivide gli scopi. Fuori dai casi di partecipazione e salvo che la

condotta integri un reato più grave, è punito con la reclusione da due a

cinque anni chiunque, strumentalizzando il ruolo ricoperto in enti

pubblici o privati oppure l’esercizio di una professione o di una attività

economica, si adoperi per avvantaggiare una associazione di tipo

mafioso. In questi ultimi casi si applica la pena della reclusione non

inferiore a tre anni quando alla condotta indicata consegue il risultato

vantaggioso per l’associazione. Negli stessi casi, tuttavia, non è punibile

89 Grosso C.F., Il concorso esterno…, cit., p. 690.

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chi, in presenza di concrete minacce o del pericolo concreto di violenze

da parte dell’associazione, agisca al fine di salvare sé o un proprio

congiunto da un grave nocumento alla persona, ovvero al fine di evitare

un danno patrimoniale di così rilevante entità da compromettere

l’esercizio della propria impresa o professione90.

90 Visconti C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, Giappichelli, 2003.

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CAPITOLO III La mafia locale e la mafia globale: dal pizzo all’impresa a partecipazione mafiosa Sommario: 1. Il livello locale e i processi di radicamento e di ricerca del potere. Il livello globale e i processi di espansione e di accumulazione delle ricchezze - 2. L’archetipo dell’impresa mafiosa: elementi strutturali, modalità di funzionamento, settori interessati. - 3. Segue: la contraddizione interna di tale modello di impresa e il suo superamento. - 4. Il processo di legalizzazione/mimetizzazione dell’impresa di proprietà del mafioso e di diversificazione degli investimenti. - 5. L’impresa a partecipazione mafiosa: ragioni strategiche e sue affermazioni. - 6. Il riciclaggio come fenomeno sotteso ad ogni modello di impresa mafiosa. - 7. La Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 20.2.2008: in particolare il ruolo della ‘ndrangheta nell’economia locale. 1. Il livello locale e i processi di radicamento e di ricerca del potere. Il livello globale e i processi di espansione e di accumulazione delle ricchezze A volere ripercorrere brevemente ma in maniera attenta la storia della

mafia dalle sue origini ai nostri giorni, emerge con grande chiarezza la

sua capacità di rinnovamento e di espansione. Seguendo queste due

direttrici è possibile delineare l’iter evolutivo del fenomeno mafioso e

leggerne la sua adesione alla realtà in cui opera. Conformemente a

quanto detto, alcuni autori, studiosi del fenomeno, parlano di una

radicale trasformazione di esso collocata negli anni Sessanta che, però,

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lungi dal segnare una rottura col passato, traccia una linea di continuità,

pur nel cambiamento.

L’organizzazione di tipo mafioso è, da sempre, collocata e radicata

fortemente nel territorio, tuttavia una delle caratteristiche più recenti

delle mafie storiche italiane è proprio la capacità di espansione

territoriale, oltre che finanziaria. Nata in contesti territoriali dotati di

relative opportunità di sviluppo, come la Piana di Gioia Tauro in

Calabria e l’area palermitana in Sicilia, ricorre all’uso della violenza per

accedere alle risorse del luogo e poi al controllo del territorio per

arricchirsi. Lo strumento di cui la mafia si avvale per affermare la sua

“signoria territoriale” è quello della protezione-estorsione. Il mafioso,

infatti, nelle aree di diffusione tradizionali si specializza nell’offerta di

protezione e cerca di mantenere alta la domanda, incrementando lui

stesso, attraverso l’uso della violenza, la sfiducia. In questo senso quanto

più l’organizzazione diventa, in un dato territorio, meccanismo di

regolazione economico-sociale o meglio di ordine locale, tanto più

radica il suo potere su base territoriale.

L’estorsione è dunque, strumento di accumulazione di ricchezza, alle

origini quasi esclusivo; meccanismo di regolazione dell’economia locale,

che rende operativo il controllo del territorio; mezzo che vale a misurare

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la fama criminale e quindi a legittimare il gruppo; base attraverso cui si

forma e si accumula il “capitale sociale” della mafia. I contrasti fra e

dentro le cosche sono spesso originati dal controllo del sistema estorsivo,

perché questo delimita la zona di pertinenza della cosca ed è lo

strumento principale attraverso cui il gruppo controlla l’economia locale.

Esso è quindi primariamente sintomo di una specificità territoriale, in un

contesto storico in cui la mafia è fenomeno di società locale.

In diversi luoghi, poi, l’interazione con altre categorie sociali favorisce il

processo di radicamento nel territorio. In particolare, i legami con il

sistema politico hanno costituito storicamente un punto di forza per le

organizzazioni mafiose; la corruzione di elite locali, pronte in cambio di

consenso elettorale a venire a patti coi mafiosi, permette l’inserimento di

questi ultimi nel settore degli appalti pubblici, che è di grande interesse

per le organizzazioni criminali perché fortemente legato al controllo del

territorio.

La mafia quindi, da tempi remoti, è distinguibile da altre forme di

criminalità organizzata in virtù del patrimonio relazionale di cui si

avvale, che si caratterizza per il fatto che i legami che lo concretano sono

interdipendenti, così riuscendo, o per necessità o per convenienza, ad

ottenere la cooperazione di altri soggetti ad essa esterni.

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In questa fase di economia locale della mafia il controllo degli appalti e

del racket delle estorsioni è misura del processo di radicamento, la

cooperazione e lo scambio coi ceti politici ed istituzionali è sintomo

della ricerca di potere91.

A fronte di questo potere sul territorio, per mantenere il quale la mafia è

pronta a sostenere costi elevati, diversi elementi indicano che siamo in

presenza di una tendenza alla “globalizzazione dell’economia

criminale”. Gli assetti della criminalità organizzata risentono degli effetti

della globalizzazione almeno sotto due diverse prospettive: da una parte

la globalizzazione favorisce l’interdipendenza tra gruppi criminali

diversi, la finanziarizzazione della loro attività e le commistioni tra

criminalità mafiosa e criminalità economica; dall’altra, determinando

l’indebolimento della politica e un rafforzamento dell’economia,

potrebbe offrire un nuovo spazio alla mafia che, sostituendosi ai governi,

può costituire in questi contesti territoriali una valida alternativa a un

deficit di regolazione politica dell’economia. Questo processo di

deterritorializzazione del crimine organizzato non comporta

l’allentamento dei rapporti con il territorio di riferimento, che resta di

rilevanza fondamentale perché consente la riproduzione di quei fattori

91 Sciarrone R., Mafie vecchie, mafie nuove, Roma, Donzelli, 1998, p. 23 ss.

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originari o tradizionali che hanno bisogno di tempi più lunghi per

svilupparsi e consolidarsi92.

Il fatto poi di evitare conflitti per la sovranità territoriale potrebbe

spiegare alcuni tentativi di colonizzare nuovi territori, mediante

un’espansione che non solo ha seguito direttrici nazionali ma anche

sopranazionali, interagendo con l’economia legale e con quella

criminale. Nella sfera legale dell’economia, in cui spesso confluisce il

denaro sporco della mafia, i settori privilegiati oltre all’agricoltura e

all’edilizia sono soprattutto quelli protetti, in cui l’esercizio dell’attività è

subordinato ad autorizzazioni, concessioni, nulla osta della Pubblica

Amministrazione e, quindi, i settori delle infrastrutture e dei servizi

pubblici. In tali settori la mafia creando posti di lavoro, mentre in realtà

comprime le occasioni di sviluppo legale, accresce il suo consenso93.

Nel contesto invece dell’economia criminale, nazionale ed

internazionale, si ipotizza che i gruppi mafiosi maggiormente

organizzati, possano assumere un ruolo primario come garanti dei patti e

dei contratti conclusi. In questi traffici la criminalità mafiosa viene a

contatto con gruppi di criminalità ordinaria e l’associazione tra le due

92 Sciarrone R., Mafia e imprenditori in tempi di globalizzazione, in Questione Giustizia, 2002, I, p. 525 ss. 93 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 34 ss.

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può assumere forme diverse, alle volte infatti è possibile che i secondi

vengano inglobati nella prima, così come rapporti affaristici con

elementi non mafiosi possono prevalere sulla solidarietà mafiosa.

Sempre a livello internazionale la criminalità organizzata effettua sempre

più frequenti investimenti nei grandi flussi finanziari e ciò soprattutto per

la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali; per la dilatazione

e smaterializzazione delle transazioni finanziarie; per la sempre

maggiore affidabilità dei paradisi fiscali. In conclusione, nelle zone di

insediamento tradizionali, la ricerca di potere che si traduce in controllo

del territorio, sono obiettivi prevalenti rispetto a quelli economici; in

quelle non tradizionali scopo primario è l’accumulazione di ricchezza94.

2. L’archetipo dell’impresa mafiosa: elementi strutturali, modalità di funzionamento, settori interessati Il rapporto tra mafia ed imprenditori viene posto al centro di importanti

inchieste giudiziarie tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni

Ottanta; questi documenti giudiziari provano la scelta compiuta dalla

mafia negli anni ’60 e ’70 di affiancare alle tradizionali e risalenti attività

illecite, nuove attività produttive, che sveleranno una sorta di

“vocazione” imprenditoriale delle consorterie mafiose.

94 Sciarrone R., Mafia e imprenditori…, cit., p. 527 ss.

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In particolare in Sicilia e in Calabria, dalla seconda metà degli anni ’60

in poi la criminalità mafiosa intraprende attività economiche di tipo

legale; diversamente in Campania la svolta imprenditoriale matura alla

fine degli anni ’70. Tale impresa criminale-legale può essere definita la

forma originaria o archetipa di impresa mafiosa. In questo periodo le

consorterie mafiose storiche affiancano alle attività consuete, quali

l’esproprio dei raccolti nelle campagne, le guardianie e il pizzo, altre

attività, che creano le basi per il successivo passaggio costituito dalla

formazione dell’impresa di proprietà del mafioso. Un periodo di

accumulazione del capitale precede dunque la formazione dell’impresa

mafiosa; in questo periodo la criminalità organizzata sviluppa

l’intermediazione speculativa sulle aree agricole o urbane, acquista a

basso prezzo o si impossessa di terreni fabbricabili, espropria ai privati

strumenti di lavoro e soprattutto, indipendentemente dal servizio di

protezione, la richiesta di mazzette “una tantum” accresce il patrimonio

mafioso.

A questo periodo si collega anche la terribile pratica dei sequestri di

persona, che diventa sistematico strumento di finanziamento di imprese

mafiose calabresi, a tal punto che ad ogni investimento pubblico

annunciato per un certo territorio, corrispondono, quasi

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simultaneamente, uno o più sequestri di persona. Dal 1970 al 1977 in

Calabria si sono verificati decine di sequestri, ventuno nella zona di

Palmi, sette nel reggino, otto nel comprensorio di Locri; altri ancora

vengono compiuti da calabresi in altre regioni, soprattutto in Lombardia.

La liquidità di denaro proviene anche dalla lucrosa attività del

contrabbando di sigarette.

Alla fase di accumulazione segue una fase di investimento. Il capitale

mafioso non è più investito soltanto, come tradizionalmente avveniva, in

beni immobili, ma viene spesso messo in circolazione ed impegnato in

attività produttive lecite, al fine di una sua ulteriore valorizzazione e

moltiplicazione. Dapprima le imprese mafiose, ancora prive di

autonomia, gestiscono fasi del ciclo produttivo che fa capo ad altre

imprese legali, ma in pochi anni si ritagliano uno spazio autonomo di

attività distinto dalle vecchie imprese.

La criminalità organizzata è in questa fase assolutamente lungimirante,

realizza con questa nuova strategia di intervento nell’economia tre

distinti obiettivi. Individua uno strumento più moderno di riciclaggio del

denaro; reinveste e moltiplica il capitale; legittima il nuovo potere

economico e anche politico dell’organizzazione criminale.

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Raimondo Catanzaro ne “Il delitto come impresa” individua due

parametri che a suo giudizio valgono a dimostrare la mafiosità

dell’impresa. Il primo tiene conto della natura, lecita o illecita,

dell’attività svolta. Il secondo, invece, dei metodi pacifici o violenti usati

nella competizione economica. Tuttavia Enzo Fantò, partendo

dall’analisi di alcune realtà mafiose le cui attività sono lecite e i cui

metodi formalmente legali, adotta una diversa nozione di impresa

mafiosa. Ciò che rende l’impresa mafiosa non è il tipo di attività svolta

ma, da una parte, il fatto che il suo capitale è, in tutto o in parte, frutto di

attività di natura criminale, dall’altra, la circostanza che la sua forza

competitiva è costituita essenzialmente dalla forza di intimidazione del

vincolo associativo, che costituisce insieme il suo retroterra e il suo

principale strumento di affermazione sul mercato.

Caratteristica è anche la modalità di funzionamento dell’impresa mafiosa

originaria, che risulta con evidenza, assolutamente peculiare. In primo

luogo è di grande centralità la figura del mafioso imprenditore, l’impresa

è sempre identificata con la sua persona e in lui convivono, anche a

livello pubblico e sociale, la figura di colui che realizza traffici criminali

e quella di chi gestisce attività economiche lecite. La conduzione

dell’azienda coinvolge tutto il nucleo familiare, ruoli familiari e ruoli

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economici sovente coincidono di modo che, per questo, il capo famiglia

proprietario dell’impresa valuta ed effettua gli investimenti e si impegna

direttamente nell’attività, costruendo le relazioni esterne necessarie e

decidendo dell’uso della forza. Se lecito è quindi il prodotto dell’attività

dell’impresa, ha natura illecita e violenta la modalità di accumulazione

del capitale necessario ai fini dell’avviamento dell’azienda, e violenti

sono anche gli strumenti adoperati per far desistere le imprese

concorrenti. In questi tipo di attività l’uso della violenza è, infatti,

precondizione dell’acquisizione di una posizione di mercato, la misura

della capacità produttiva dell’impresa è lo strumento di regolazione dei

rapporti con le imprese dello stesso settore.

Questo mutamento di fase che si riscontra nella storia delle

organizzazioni di stampo mafioso non è avulso dalla situazione

contingente, ma è semmai il risultato di una scelta calcolata e

opportunistica che è legata alla storia del Meridione d’Italia. L’idea della

mafia di puntare, negli anni ’60 e ’70, sul settore dell’edilizia, dei lavori

pubblici e delle attività redistributive, è strettamente legata ai molti

finanziamenti pubblici a favore del Meridione, che facendo di questo

comparto il più redditizio dell’economia delle regioni del Sud, si

risolvono spesso nella principale fonte di approvvigionamento

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dell’impresa mafiosa. Se quindi fino a quegli anni la mafia ha servito in

modo subalterno la politica, ora individuata questa nuova fonte di

guadagno, si aggrega a quel nuovo ceto politico che punta a costruire le

basi del suo consenso e del suo potere attraverso la fraudolenta gestione

dei fondi pubblici.

Anche rispetto all’impresa, se prima le consorterie mafiose si erano

accontentate dei ricavi provenienti dal sistema delle guardianie o

comunque di spazi marginali nell’azienda, adesso allargano i loro ambiti

operativi, intraprendendo attività imprenditoriali e inserendosi così nel

ceto dominante della città. Si costituisce quindi, e si consolida un

rapporto di interdipendenza tra mafia, impresa legale e politica; alleanza

fatta di scambi e favori reciproci e in cui ogni parte si assicura lucrosi

guadagni. Il politico, garantendosi così ampi consensi, appalta lavori

all’impresa legale, questa, riducendo le sopravvivenze parassitarie e

improduttive, ne subappalta una parte al mafioso, che accresce le sue

risorse finanziarie e individua un nuovo campo di investimento delle

liquidità derivanti dalle attività criminali.

Sono non a caso questi gli anni della speculazione edilizia urbana, del

deturpamento delle coste e delle grandi opere incompiute95.

95 Fantò E., L’impresa a partecipazione mafiosa, Bari, Dedalo, 1999.

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Alcuni esempi chiariscono l’entità del fenomeno.

Negli anni ’70 e ’80 si colloca l’attività imprenditoriale

dell’imprenditore di Palermo Rosario Spatola. Costui, stando alla

sentenza di G. Falcone del 1982, fa parte della consorteria mafiosa che fa

capo a Salvatore Inzerillo, ed è identificato come colui che investe nel

settore edilizio i proventi illeciti del clan. Questa attività spiega la rapida

e sorprendente ascesa imprenditoriale di Spatola, che nel l969 realizza

opere per poche decine di milioni di lire, nel 1978 ottiene la cessione di

un appalto per la costruzione di alloggi popolari per più di dieci miliardi

di lire. Negli stessi anni una grande impresa, la Delta, vince le gare

d’appalto per la costruzione di alloggi popolari nel quartiere palermitano

dello Sperone, le difficoltà finanziarie costringono la Delta a rinunciare,

ma l’impresa designata per sostituirla, la Tosi, subisce molti attentati; lo

IACP, affida quindi l’appalto a Spatola che, come risulta dall’inchiesta

giudiziaria, effettua una versamento a favore del Consiglio di

Amministrazione dello IACP di trenta milioni di lire.

È noto, del resto, il rapporto, un decennio prima, tra la formazione delle

imprese mafiose e il “sacco”, di Palermo, durante la sindacatura di Lima

e di Ciancimino. L’inchiesta del Prefetto Beverino, avviata nel 1963,

svela che l’80 per cento delle licenze edilizie del Comune di Palermo è

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stato rilasciato e cinque costruttori, e che il piano regolatore adottato dal

Consiglio Comunale ha legittimato una speculazione che ha

gradualmente distrutto buona parte del patrimonio monumentale della

città e cementificato l’intera piana di Palermo, una volta, invece,

coltivata ad agrumi96.

In Calabria è emblematico il caso di Gioia Tauro. L’affermazione

imprenditoriale della mafia calabrese avviene con i lavori dell’autostrada

Salerno-Reggio C. negli anni ’60, con quelli relativi allo sbancamento

del porto di Gioia Tauro, in prospettiva della costruzione del V° centro

siderurgico, e con i lavori per il raddoppio della linea ferrata Reggio-

Villa San Giovanni, agli inizi degli anni ’70.

Durante la realizzazione dei lavori dell’autostrada la mafia calabrese si

infiltra nel settore imprenditoriale, avocando alle sue ancora embrionali

imprese le attività di trasporto, di produzione di calcestruzzo e di

fornitura di materiale alle grandi imprese nazionali che hanno vinto le

gare d’appalto. Il criterio di ripartizione tra le famiglie mafiose coinvolte

è quello della “competenza territoriale”. Qualche anno più tardi, in vista

dei preannunciati investimenti riguardanti il porto e il V° centro

96 Santino U., Mafia, impresa e sistema relazionale (da Journees d’etude sur la mafia, 2001), in www.centroimpastato.it

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siderurgico, i mafiosi cominciano ad acquistare terreni che pagano a

basso prezzo ai vecchi proprietari per poi rivenderli allo Stato il triplo

del valore effettivo. L’appalto per la realizzazione del porto, indetto nel

1974, è stato il più elevato fra quelli fino ad allora realizzati in Italia.

La sua costruzione, che ha provocato la distruzione di oltre settecento

ettari di agrumi e duecento di uliveti, che si caratterizza come un

terminal in cui si svolge il trasbordo da una grande nave madre, che

svolge servizi transoceanici, a navi feeder più piccole che distribuiscono

in container in una serie di porti satelliti; è costata oltre mille miliardi di

lire e il porto è rimasto inutilizzato fino ai primi anni ’90.

Nel frattempo il progetto relativo alla realizzazione del centro

siderurgico a ciclo integrale, che avrebbe dovuto occupare più di

settemila lavoratori, è stato abbandonato.

In tutti questi investimenti le infiltrazioni delle cosche mafiose locali

ritardano la conclusione dei lavori, fanno lievitare in misura consistente

il costo dell’opera, caricato dai profitti dei clan e alle volte, con ciò

provocando notevoli danni economici ad enti pubblici e aziende private,

inducono a desistere dalla realizzazione del progetto97.

97 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 53 ss.

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Diversa è invece l’esperienza della camorra. Negli anni ’60 la mafia

napoletana è molto lontana dalla capacità di sviluppo e di organizzazione

della mafia siciliana e, ancora negli anni ’70, l’unico rapporto

intercorrente tra la mafia e l’imprenditoria è solo quello legato alla

pratica sistematica delle estorsioni; specie da quando Cutolo, capo

dell’organizzazione, ha deciso di attribuire un assegno mensile alle

famiglie degli affiliati detenuti.

Agli inizi degli anni ’80 due fenomeni di grande rilievo modificano la

natura di questo rapporto: da una lato, gli investimenti colossali nel

settore edilizio, tradizionalmente poco sviluppato, a causa dei miliardi

destinati alla ricostruzione post-terremoto, i quali sono fraudolentemente

gestiti dagli enti locali; dall’altro, la crisi dell’organizzazione cutoliana

con il suo isolamento a l’Asinara e l’ascesa di nuovi leaders, Zaza,

Nuvoletta e Bardellino, che mutuano le tendenze criminali di Cosa

Nostra e danno alla camorra un volto imprenditoriale. In questo contesto

si realizza prima l’incontro e poi l’accordo tra mafia locale e istituzioni

politiche; questo permette alla camorra di penetrare in spazi prima ad

essa preclusi, che le consentono di moltiplicare i suoi capitali e di

esautorare gradualmente lo Stato del controllo di diverse fasce

territoriali. In questa fase, potere politico e potere criminale condividono

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le medesime sfere di interessi: dapprima i piani di sviluppo edilizio, il

mercato della manodopera, la distribuzione dei fondi CEE per

l’agricoltura; poi, dopo il terremoto, gli appalti pubblici e l’attività di

ricostruzione, per la quale vengono stanziati trenta miliardi di lire98.

Ipotesi frequente nel napoletano risulta l’usurpazione del controllo e

sovente della stessa titolarità dell’impresa legale da parte

dell’organizzazione criminale, ciò per tre ordini di ragioni. I tassi usurai

praticati agli imprenditori da parte delle bande Zaza, Nuvoletta e

Bardellino, la cui liquidità aumenta a seguito dell’inserimento nel

traffico degli stupefacenti; la mancanza di solidità finanziaria delle

imprese, spesso dipendenti da finanziamenti pubblici e la cui assenza

getta l’azienda in una fase di crisi; una situazione di tendenziale illegalità

della categoria imprenditoriale.

Anche il sistema bancario e in particolare creditizio, favorisce l’impresa

mafiosa. La stabilità economica di questa, rende l’istituto di credito ben

disposto a concedere mutui e finanziamenti, magari anche a tassi di

favore, di contro, la disponibilità economica così ottenuta consente alle

aziende del mafioso di sbaragliare la concorrenza, praticando prezzi più

98 Gialanella A., Napoli: la camorra impresa e lo Stato in forma di mafia, in Questione Giustizia, 1990, p. 709 ss.

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bassi e pagamenti a scadenze temporali più ampie. Per quanto scontato

giova ripetere che anche qui la conquista del mercato non disdegna i

metodi intimidatori99.

3. Segue: la contraddizione interna di tale modello di impresa e il suo superamento La forma originaria o archetipo di impresa mafiosa entra però presto in

crisi. Alcuni studiosi addebitano la fase di difficoltà alla attività di

contrasto dello Stato e, in particolare, alla entrata in vigore della Legge

Rognoni-La Torre. Questa definisce “impresa mafiosa” quella struttura

economico-aziendale, gestita dal mafioso o che comunque a lui faccia

direttamente capo, che ha incardinata in se la forza di intimidazione del

vincolo associativo e il cui capitale è, in tutto o in parte, frutto

dell’azione criminale. Quanto, quindi, sostenuto da questi autori è solo

parzialmente vero, perché ragione non secondaria della crisi accennata è

la contraddizione interna a questo tipo di impresa, che sarà negli anni

successivi motivo del suo superamento e della sua trasformazione.

La ragione che induce i mafiosi ad esercitare l’attività imprenditoriale è,

ovunque, la ricerca di nuovi settori per riciclare il denaro che proviene

99 Mancuso P., La camorra negli anni ’90: dalla conquista dell’impresa all’egemonia sulla società civile, in Questione Giustizia, 1990, III, p. 719.

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dalla attività criminale e, nel contempo, la valorizzazione delle crescenti

risorse finanziarie. In che misura la mafia realizza gli scopi predetti?

L’uso di metodi intimidatori le consente di inserirsi negli interstizi delle

aziende legali; poi di gestire parti del ciclo produttivo, infine di costituire

aziende proprie, tutto questo quando l’organizzazione criminale non

usurpa addirittura all’imprenditore la proprietà dell’impresa. Ma la forza

che è motivo di ascesa in questo settore e condizione primaria della sua

affermazione è anche, sovente, motivo della sua rovina. In questo sta la

contraddizione interna. La forte identificazione dell’azienda con il

proprietario mafioso e la gestione diretta di costui, legano le sue sorti a

quelle di questo. Qualunque vicenda interessi il mafioso, la morte,

l’arresto, o la latitanza, ma anche conflitti con clan rivali o un possibile

intervento dello Stato, come le inchieste giudiziarie hanno dimostrato,

pregiudica le sorti dell’attività commerciale. Di conseguenza, la

precarietà dell’impresa e della relativa attività preclude quella, almeno

relativa sicurezza e continuità della produzione, che sono condizioni

essenziali per un suo sviluppo nel mercato legale100.

100 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 59 ss.

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4. il processo di legalizzazione/mimetizzazione dell’impresa di proprietà del mafioso e di diversificazione degli investimenti Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta la crisi che investe

l’impresa mafiosa originaria determina l’avvio di una fase di

ristrutturazione delle attività economiche mafiose di tipo lecito;

cambiamento che condurrà ad un sistema imprenditoriale mafioso

pluralistico.

La trasformazione di quegli anni riguarda primariamente l’elemento

caratteristico dell’impresa mafiosa originaria, vale a dire la titolarità di

questa in capo al proprietario mafioso e la ricorrente identificazione tra

l’uno e l’altro. Al fine di tutelarsi dalla normativa antimafia che tende a

colpire i beni dei mafiosi, questi ricorrono ad una “escamotage” che

consente di mettere al riparo dalle iniziative punitive dello Stato imprese

e altri patrimoni, immobiliari e finanziari. In particolare, quanto alle

imprese, il mafioso ne perde la proprietà, anche se solo sotto il profilo

formale, e la trasferisce a dei prestanome; contestualmente anche le

direttive circa la gestione dell’azienda continuano ad essere risultato

delle sue decisioni, ma trovano attuazione solo attraverso gli atti del

prestanome. Tutto questo è funzionale ad uno scopo preciso, impedire

che l’azienda e soprattutto il suo capitale di origine criminale vengano

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ricondotti al mafioso. A tal fine, almeno nella fase iniziale del fenomeno,

gli “uomini di paglia” sono membri della famiglia, che vengono utilizzati

per la gestione delle attività economiche “pulite”, o meglio delle attività

lecite in cui viene investito denaro sporco. Più tardi, a questa categoria di

prestanome si affiancano quelli “professionali”, così definiti perché

assommano alla proprietà formale dell’impresa, a fronte di riconosciute

capacità in questo settore, anche un autonomo, seppur relativo, potere di

gestione. Questo consente di allontanare ulteriormente dalla sfera di

influenza della cosca l’impresa mafiosa, cui invece rimanda la pratica di

ricorrere a prestanomi legati al mafioso da rapporti di parentela, e

consente inoltre il superamento dell’assetto individuale delle tradizionali

imprese mafiose.

L’obiettivo principale del riassetto delle imprese mafiose è quello di dare

loro una veste legale, almeno sotto il profilo formale, salvo poi il

riscontrarne la mafiosità in relazione al capitale di cui fa uso e al suo

effettivo proprietario. Inoltre, pur non abbandonando mai del tutto

metodi violenti, esse sono gestite con metodi formalmente legali.

Per acquisire questa rispettabilità le originarie imprese mafiose vengono

sostituite o, attraverso modificazione della loro configurazione

societaria, trasformate in imprese formalmente legali.

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La legalizzazione è quindi strumentale alla mimetizzazione cui le

imprese non possono rinunciare se vogliono continuare ad operare nei

mercati legali. Per queste ragioni si assiste in questi anni a mutamenti

dell’impresa, che riguarderanno i più diversi elementi di essa. Alle volte

si assiste, allo scopo di impedire l’identificazione dei soggetti che dietro

esse si celano, al mutamento dell’oggetto o degli amministratori, ma

soprattutto si assiste alla loro trasformazione da imprese individuali in

società a responsabilità limitata o in società per azioni.

La forma della società a responsabilità limitata è quella preferita, non

solo perché il capitale necessario per costituirla è di solo diecimila euro e

perché consente conferimenti in natura e in denaro, ma principalmente

perché limita la responsabilità del socio all’ammontare del suo

conferimento. Qualsiasi configurazione societaria che consente una

ripartizione in quote o in azioni del capitale sociale è poi preferita dalla

mafia, perché garantisce dal rischi della confisca totale, dato che tale

misura riguarda le quote o le azioni del soggetto in esame e non

l’impresa nel suo complesso; anche quando, come di fatto accade, la

pluralità degli azionisti è fittizia poiché le azioni sono ancora tutte del

vecchio titolare la cui impresa è stata trasformata101.

101 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 63 ss.

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Non meno rilevante è il mutamento, riscontrabile in questa fase di

ristrutturazione, che riguarda i settori di attività lecite cui la mafia decide

di dedicarsi. Non solo più il comparto edilizio ed i lavori pubblici, ma

anche il settore dello smaltimento dei rifiuti urbani e tossici, quello delle

aziende manifatturiere e in particolare quello della sanità. Ogni spazio di

quest’ultimo campo, dal materiale sanitario in genere, agli strumenti

chirurgici, alle apparecchiature scientifiche da laboratorio, persino alle

case di cura, interessa la mafia.

Un principio sembra trovare sempre maggiore affermazione, quello che

attribuendo scarso rilevo al settore di volta in volta interessato,

conferisce, di contro, rilevanza alle possibilità di riciclaggio e ai profitti

che una certa impresa consente di realizzare. In vista di questo scopo,

l’obiettivo non è più aumentare la produttività dell’impresa costituita per

prima, ma realizzare una diversificazione degli investimenti. La

diversificazione si realizza investendo gli utili dell’impresa-madre nella

costituzione di altre imprese; società che vivono intrecciate tra loro

attraverso una fitta rete di partecipazioni, fusioni, incorporazioni e

scorporazioni. Come tanti vasi comunicanti, che contengono debiti,

crediti, beni immobili, operazioni varie e che possono vivere

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autonomamente o realizzare la circolazione di elementi dall’uno

all’altro102.

5. L’impresa a partecipazione mafiosa: ragioni strategiche e sue affermazioni Nel corso degli anni Ottanta l’imprenditoria mafiosa crea un nuovo

modello di impresa, quella a “partecipazione mafiosa”, che trova da

subito largo riscontro per una maggiore capacità di camuffarsi, così

sfuggendo alle investigazioni di polizia giudiziaria, e perché nullo è il

contributo degli imprenditori che subiscono la compartecipazione

mafiosa. Chiari segnali della sua esistenza provengono da più parti.

Nei primi anni ‘90, nel corso di alcune inchieste giornalistiche che

seguono alla uccisione di Libero Grassi, imprenditore palermitano che si

era pubblicamente rifiutato di pagare il pizzo ai mafiosi e aveva attaccato

l’associazione degli industriali che non l’aveva appoggiato, alcuni

imprenditori dichiarano che: “già agli inizi degli anni ’80, i boss avevano

cambiato strategia. Da alcuni di noi industriali non volevano più il pizzo

per la protezione. Pretendevano di divenire soci, in modo da avere una

copertura legale per le loro attività illecite. Nel 1986, l’allora Ministro

102 Pellegrino G., Una seduta spiritica (criminalità organizzata e imprese commerciali), in Dir. Fall. , 1993, I, p. 110 ss.

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dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, in un intervento reso in seno alla

Commissione Parlamentare Antimafia denuncia che molti soci occulti

vengono imposti con minaccia agli imprenditori siciliani e che alcuni di

questi hanno dovuto accettare denaro di origine criminale, che era stato

versato direttamente sui conti bancari societari o su quelli personali degli

stessi proprietari. Il giudice Giovanni Falcone in occasioni pubbliche

sostiene, sul finire degli anni ’80, che i mafiosi chiedono non più solo il

pizzo, ma anche una partecipazione diretta all’impresa in qualità di socio

e la direzione della stessa.

È infatti nell’ambito della magistratura che matura per prima, nel corso

di alcuni processi degli anni ’70, la consapevolezza della formazione di

un rapporto di compartecipazione tra mafia e impresa, e bisogna

attendere quasi un decennio perché il fenomeno venga segnalato dalle

associazioni di categoria103.

L’elaborazione di meccanismi raffinati, che rendono ancora più occulto

il coinvolgimento dei mafiosi nell’attività di impresa, deriva dalla

necessità di eludere la repressione penale, fattasi ancora più incalzante a

seguito dell’introduzione, con l’art. 1 della Legge 646/1982, dell’art. 416

bis C.P., il quale prevede esplicitamente come sanzionabili penalmente

103 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 96 ss.

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quelle attività economiche di cui la mafia ha la “gestione” o il

“controllo”, in “modo diretto o indiretto”. Il legislatore, infatti nella sua

formulazione, distingue il fine più generale di “acquisire la gestione o il

controllo delle attività economiche” dal fine più particolare e strumentale

rispetto al primo, di “acquisire il controllo di concessioni, autorizzazioni,

appalti e servizi pubblici”. Il termine “gestione” va inteso quale esercizio

di attività aventi rilevanza economica, mentre il termine “controllo”

esprime una particolare situazione di fatto, per effetto della quale si è in

grado di condizionare l’attività relativa ad un determinato settore

economico. La norma inoltre prevede che la gestione o il controllo delle

attività economiche possano assumere anche una forma indiretta, con ciò

alludendo sia alla prassi della interposizione di persona sia a quella di

ricorrere a schemi di tipo societario. In questo senso lo strumento della

“compartecipazione”, sovente utilizzato nei confronti di aziende in crisi,

consente all’organizzazione di controllare imprese che sono nate da

tempo e che, operando nella legalità, risultano rispettabili nel contesto

del mercato e insospettabili alle forze di polizia104.

Fin dall’entrata in vigore della Legge Rognoni-La Torre, la mafia mira

ad inserirsi nelle attività produttive e quindi a condizionarle dall’interno.

104 Turone G., Il delitto…, cit., p. 221 ss.

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Partendo generalmente da un imprenditore pulito e con piccoli capitali

sociali, attraverso fusioni, trasferimenti, modificazioni di ragioni sociali

ed aumenti di capitali, crea strutture di rilevante entità; tutto questo

grazie agli ingenti capitali che provengono dalle attività criminali.

La crisi di accumulazione di capitali che investe l’impresa mafiosa

legale, e che è originata ancora una volta dalla sua contraddizione interna

tra metodi violenti e inserimento nel mercato legale, necessita di una

soluzione, che sia nel contempo rispondente anche alla necessità di

eludere le indagini patrimoniali sui capitali di provenienza illecita.

Anche questa volta, come riguardo ai modelli di impresa mafiosa

formatesi in precedenza, la necessità di mimetizzare meglio gli

investimenti comporta una trasformazione, di certo più invasiva, della

struttura imprenditoriale. Un ulteriore motivazione che induce la mafia

ad agire nel senso indicato è di tipo utilitaristico, e unitamente legata al

suo sistema relazionale e di potere sul territorio. Il sistema, infatti, della

collaborazione organica e della compenetrazione dei capitali e delle

competenze, che sta alla base della formazione di un agente

imprenditoriale unitario e comune, elimina la conflittualità permanente

dei decenni precedenti. L’imprenditore evita così che il conflitto si

radicalizzi con esiti a volte irreparabili, di modo che la cooperazione per

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lui diviene necessitata. Così attraverso l’acquisizione di quote sociali,

formalizzate o di fatto, o la partecipazione azionaria, spesso indiretta, il

mafioso diviene comproprietario dell’impresa, della quale usa la

rispettabilità e le conoscenze tecniche e relazionali del suo

proprietario105.

I vantaggi che la mafia ottiene dall’impresa a partecipazione mafiosa

sono, allora, evidenti e molteplici: primariamente rende ancora più

occulti i canali di riciclaggio e realizza la diversificazione degli

investimenti; riesce ad inserirsi in impegnative gare d’appalto, che

richiedono la presenza di strutture adeguate e di una consolidata

esperienza; realizza il comando dell’impresa senza l’onere della

gestione; si inserisce in modo silente e penetrante nell’economia legale;

rende fisiologico il sistema relazionale con un settore nevralgico dei suoi

interessi, la quale cosa risulta funzionale al controllo del mercato locale e

quindi del territorio106.

Dal quadro tracciato, ma soprattutto dalle inchieste giudiziarie pertinenti,

notevoli risultano le differenze tra l’impresa di proprietà del mafioso e

quella a compartecipazione mafiosa. Strumento di persuasione nei

confronti dell’imprenditore pulito non è più l’intimidazione, e anche

105 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 115 ss. 106 Mastroddi E. M., Imprenditoria mafiosa e collusioni politiche nel Mezzogiorno, in www.proteo.it

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quando l’intimidazione non manca, l’accento è però posto

principalmente sul denaro e sui vantaggi per l’impresa. Quest’ultima, a

differenza dell’impresa di proprietà del mafioso non è, almeno in

origine, proiezione del clan e dei suoi metodi, ma soggetto che assomma

alla maggiore fluidità economica di altri intensi rapporti di cooperazione

e di scambio con altre imprese legali e con le istituzioni. Il suo capitale

non è, come nell’impresa di proprietà del mafioso solo di origine

illegale, perché la provenienza è mista, in parte legale e in parte illegale.

Infine la differenza riguarda la gestione, questa non è più attribuita al

prestanome, che è tradizionalmente molto vicino al clan o un suo

familiare, ma rimane dell’originario proprietario dell’impresa legale, poi

diventata a partecipazione mafiosa. Anche se la gestione continua ad

essere in capo all’imprenditore, che diventa una sorta di manager con il

compito di massimizzare il profitto, il mafioso esercita il controllo sugli

investimenti dell’impresa, cercando di indirizzarli politicamente.

A causa di questa eterodirezione da parte del mafioso, l’interesse sulla

produttività diminuisce e l’azienda viene di frequente utilizzata per

operazioni illegali e per fatturare attività inesistenti.

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Se poi l’impresa, per un qualunque motivo va male o entra in crisi, il

mafioso con i suoi capitali si dissocia e abbandona l’attività,

provocandone irrimediabilmente la rovina.

Un ultimo aspetto, di natura strutturale, dell’impresa a partecipazione

mafiosa, merita di essere esaminato. Essa si presenta come società di

persone o, più di frequente, come società di capitali.

Nella prima forma, quella della società di persone, la compartecipazione

si realizza attraverso due vie: o il mafioso a seguito del conferimento di

capitali o di altri servizi diviene socio mediante interposta persona,

oppure diventa socio di fatto, senza che questa sua posizione venga

formalizzata a livello legale. In entrambi i casi la compartecipazione del

mafioso è quasi sempre solo agli utili e non anche ai costi; l’ammontare

di questi utili è predeterminato dal mafioso e non è legato alla

produttività, di modo che al proprietario dell’azienda rimangono solo gli

eventuali profitti residui. Occorre precisare che queste società sono

irregolari, perché costituite in violazione del patto leonino, ed occulte

perché l’interesse mafioso è celato ai terzi e, a volte, anche ad alcuni soci

e perché rimane occulto il vero titolare di questi interessi. In entrambe le

forme di compartecipazione attraverso società di persone accade spesso

che la gestione effettiva dell’impresa si sposti al di fuori di essa, specie il

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rapporto di fatto accentua il carattere di eterodirezione dell’impresa e la

non visibilità del socio, poiché l’assenza di un prestanome rende ancora

più difficile la possibilità di risalire alla sua presenza.

Nonostante dunque gli evidenti vantaggi che queste società rilevano ad

esse vengono spesso preferite le società di capitali, ciò per almeno tre

motivazioni. Queste consentono una maggiore mimetizzazione dei

capitali e dei soci mafiosi; circoscrivono la responsabilità di ciascun

socio al valore della sua partecipazione; permettono al mafioso di

partecipare all’impresa acquistando pacchetti azionari o quote sociali

tramite prestanome, senza necessità di stabilire un rapporto diretto con

l’imprenditore e soprattutto senza dover svelare ai soci la propria

identità107.

6. Il riciclaggio come fenomeno sotteso ad ogni modello di impresa mafiosa L’analisi riguardante l’attività di riciclaggio necessita di una preliminare

precisazione, onde comprendere la complessità del fenomeno, le

disposizioni normative che lo riguardano e le loro eventuali auspicabili

riforme.

107 Fantò E., L’impresa…, cit., p. 121 ss.

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Il riciclaggio, quale processo di pulitura del denaro sporco delle

organizzazioni criminali, ha da sempre coinvolto diversi canali operativi.

Innanzitutto esso costituisce il percorso sistematico, obbligato e

permanente di ogni forma di imprenditoria mafiosa, dalla più risalente

alla più recente. Gli affiliati del sodalizio sono i primi riciclatori, costretti

ad elaborare espedienti diversi per camuffare l’origine illegale delle loro

ricchezze e sottrarle così alle indagini di natura patrimoniale.

Secondariamente il riciclaggio è termine idoneo ad identificare la

medesima attività di trasformazione posta in essere da apposite imprese

di riciclaggio, individuali o societarie, che pur svolgendo una attività

strumentale e consequenziale a quella del sodalizio mafioso, esulano

dalla partecipazione allo stesso e dai reati fine che di quelle ricchezze

costituiscono la fonte. La distinzione operata viene tradizionalmente

esemplificata con i termini, nel primo caso prospettato, di condotte di

riciclaggio primarie, nel secondo, con quello di condotte di riciclaggio

secondarie108.

Prima però di tracciare le distinzioni, anche normative che derivano dalle

due distinte attività, occorre ripercorrere brevemente l’iter della

108 Turone G., Il delitto…, cit., p. 531.

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disciplina medesima, che si caratterizza per il graduale e continuo

ampliamento del suo perimetro.

Il nostro apparato normativo, che si può considerare in questa materia

uno dei più avanzati tra i paesi industrializzati, è stato il primo a

prevedere la fattispecie penale di riciclaggio attraverso l’introduzione,

con il Decreto Legge 21.3.1978 n. 59, dell’art. 648 bis che si intitolava:

“Sostituzione di denaro o di valori provenienti da rapina aggravata,

estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione”.

La prima formulazione dell’art. 648 bis nasce dalla consapevolezza della

insufficienza della norma sulla ricettazione a punire i comportamenti

idonei a mascherare l’origine illecita del denaro.

La Legge 19.3.1990 n. 55 modifica la formulazione originaria

dell’articolo, introduce l’art. 648 ter, amplia il novero dei reati

presupposti attraverso l’inserimento dei delitti concernenti la produzione

e il traffico di sostanze stupefacenti, estende l’oggetto materiale del reato

che da “denaro e valori” passa a “denaro, beni e altre utilità”, inasprisce

le sanzioni e la multa.

La Legge 9.8.1993 n. 328, che ha ratificato la Convenzione di Strasburgo

dell’ 8 novembre 1990 “sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la

confisca dei proventi di reato”, ha modificato le due norme incriminatrici

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realizzando la previsione attuale. L’intervento del 1993 ha apportato

rilevanti novità, la più importante delle quali è l’eliminazione dell’elenco

analitico dei reati presupposto. La modifica ha determinato ancora la

configurazione del reato secondo lo schema del delitto a consumazione

anticipata, quindi di pericolo; in particolare le citate figure di reato

puniscono, entrambe con la reclusione da quattro a dodici anni, chiunque

fuori dai casi di concorso: 1. “sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre

utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad

essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro

provenienza delittuosa”; 2. “impiega in attività economiche o finanziarie

denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto”.

Circa il profilo soggettivo chi commette i reati in esame deve, come

anticipato, essere un soggetto che non concorre nel delitto principale da

cui derivano i beni o le altre utilità, e deve essere a conoscenza del fatto

che i beni hanno illecita provenienza.

Partendo quindi dalla normativa attuale e dalla distinzione su esposta tra

condotte di riciclaggio primarie e condotte di riciclaggio secondarie e

complementari, risulta evidente che gli articoli 648 bis e 648 ter del

Codice Penale sono applicabili solo alle persone estranee al delitto

presupposto, e dunque al reato associativo mafioso, che hanno

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consapevolmente realizzato atti di riciclaggio di profitti criminosi o di

reimpiego dei medesimi.

Se l’associazione di tipo mafioso concreta una dinamica criminale in

pieno svolgimento, cioè una realtà che delinque, qualsiasi atto di

riciclaggio compiuto da un associato mafioso su ricchezze derivanti

dall’attività del sodalizio costituisce condotta di partecipazione al reato

presupposto di tipo associativo, e non condotta rilevante sotto il profilo

dei due distinti reati di riciclaggio e di reimpiego. Gli articoli 648 bis e

648 ter si applicano infatti solo al di fuori dei casi di concorso nel reato

presupposto, e che per reato presupposto si intende anche quello di

associazione di stampo mafioso, oltre ai reati fine che producono illecita

ricchezza, si desume anche dal settimo comma dell’art. 416 bis, che

esulando dal reato di riciclaggio prevede la confisca obbligatoria “delle

cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato o che

costituiscono l’impiego dei predetti proventi”. Poiché cioè già il delitto

di associazione di stampo mafioso costituisce reato presupposto del

riciclaggio o di reimpiego, una stessa condotta non può essere

configurata sia come condotta partecipativa che di riciclaggio o di

reimpiego.

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La normativa predisposta risulta così destinata a incontrare, come spesso

denunciato dalla Guardia di Finanza, abilitata a compiere le indagini

volte alla repressione del riciclaggio, molti freni, che scaturiscono dalla

difficoltà di acquisire elementi di prova che dimostrino l’autonomia della

condotta del riciclatore rispetto a quella dell’autore del reato

presupposto, specie se tale è quello di associazione di stampo mafioso109.

Per queste ragioni i magistrati, in prima linea impegnati nell’attività di

distruzione del potere finanziario della criminalità organizzata,

auspicano la riformulazione dell’art. 648 bis del Codice Penale. Questa

dovrebbe realizzare l’eliminazione della clausola di riserva contenuta

nell’articolo, che esclude la punibilità a titolo di riciclaggio per il

soggetto resosi responsabile del reato presupposto. Tale innovazione,

prevista nel “pacchetto sicurezza”, avvicinerebbe la nostra normativa a

quella di altri Paesi, come la Spagna e ai Paesi di common law, come

l’Australia e gli Stati Uniti. L’attuale formulazione della norma ha infatti

reso sostanzialmente ineffettiva la repressione del riciclaggio nel nostro

Paese, dove pochi sono i processi celebrati per riciclaggio, perché la

clausola di riserva induce ad inquadrare nell’ambito del reato associativo

109 Razzante R., Di Nuzzo U., Carano A., Contrasto al riciclaggio e al reimpiego dei proventi illeciti alla luce delle novità previste nel Disegno di Legge sulla tutela del risparmio, in Riv. Pen., 2004, II, p. 681 ss.

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di stampo mafioso e non in quello dell’art. 648 le condotte di riciclaggio

poste in essere nell’interesse di organizzazioni criminali. Questa

circostanza comporta l’applicazione al riciclatore di un trattamento

sanzionatorio meno severo e rende più complesso l’iter che dimostra la

sua colpevolezza, date le note difficoltà probatorie connesse ai reati

associativi. A ciò si aggiunge la possibilità che si verifichino casi limite,

capaci di palesare l’inefficienza del sistema attuale come nel caso, ad

esempio, dell’imprenditore che sia già stato condannato ad una pena

modesta per una condotta associativa consistente in una generica

disponibilità in favore di una associazione mafiosa. Costui, se verrà poi

riconosciuto autore di attività di riciclaggio realizzate per la stessa

associazione nel periodo cui si riferisce la precedente sentenza, non

risponderà della condotta di riciclaggio110.

Non contempla infatti alcuna clausola di riserva riferita al reato

presupposto, così includendo sia le condotte di riciclaggio primarie che

quelle secondarie, la terza direttiva europea antiriciclaggio del 26 ottobre

2005, n. 60.

110 Ingargiola F., Valutazioni sul rapporto tra organizzazione mafiosa e sistema economico – Strategie di contrasto e possibili riforme (26 gennaio 2008), in www.giustizia.it

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L’articolo 2, comma 1° del Decreto Legislativo 21.11.2007, n. 231 che

ha recepito la direttiva medesima fissa la seguente definizione: “Ai soli

fini del presente decreto le seguenti azioni, se commesse

intenzionalmente, costituiscono riciclaggio: a) la conversione o il

trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi

provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale

attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni

medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi

alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni; b) l’occultamento o la

dissimulazione della natura reale, provenienza, ubicazione, disposizione,

movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo

a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una

partecipazione a tale attività; c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione

di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali

beni provengono da una attività criminosa o da una partecipazione a tale

attività; d) la partecipazione ad uno degli atti di cui alle lettere

precedenti, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di

perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a

commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione”.

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Altra novità di rilievo introdotta in materia di riciclaggio dall’art. 63 del

predetto Decreto Legislativo è l’introduzione dell’art. 648 quater del

Codice Penale. Questa disposizione non solo rende obbligatoria in ogni

caso la confisca, anche “per equivalente”, dei beni che costituiscono il

prodotto o il profitto di uno dei delitti previsti dall’art. 648 bis e 648 ter,

ma al terzo comma prevede anche il grosso vantaggio di consentire al

Pubblico Ministero la prosecuzioni delle indagini patrimoniali in materia

di riciclaggio fino alla conclusione del dibattimento di primo grado, che

si applica anche se manca la prova della dimensione transnazionale dei

delitti di riciclaggio e di reimpiego111.

7. La Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 20.2.2008: in particolare il ruolo della ‘ndrangheta nell’economia locale La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, presieduta dal

dott. Francesco Forgiane e pubblicata il 20.2.2008, ha fornito una

disamina articolata e illuminante dello stato attuale della mafie italiane, e

delle loro molteplici forme ed implicazioni.

La centralità assunta, nell’attività della Commissione, dal tema

dell’aggressione delle mafie al sistema economico ha posto la questione

111 Turone G., Il delitto…, cit., p. 522 e 539.

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fondamentale del rapporto tra impresa e criminalità mafiosa. La

necessità delle mafie, seguita ad una accumulazione di capitali

inimmaginabile, di individuare canali economici in grado di realizzare il

riciclaggio ed il reimpiego dei medesimi, ha generato un forte interesse

delle consorterie mafiose per l’attività di impresa. Così, alle volte le

strutture economiche di cui le mafie si avvalgono per realizzare queste

attività sono parte integrante delle stesse organizzazioni criminali, altre

volte, invece, si realizza un connubio scellerato tra le une e le altre, fatto

di scambi e vantaggi reciproci. In questo contesto le imprese che si

asservono alla mafia, così disponendo di grandi capitali di illecita

provenienza, alterano le regole del mercato, nel quale finiscono per

operare in posizione di privilegio. Questo meccanismo, che costituisce

una minaccia concreta per la sicurezza, l’ordine pubblico, oltre che per il

sistema economico, mortifica le imprese legali, che hanno spesso

difficoltà nell’accedere al credito e che si vedono quindi costrette a

ricorrere a prestiti usurai. Questi ultimi, cui ricorrono soprattutto piccoli

artigiani e commercianti, divengono così ulteriore meccanismo che

consente l’infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto

imprenditoriale e legale.

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Dalle audizioni svolte dalla Commissione in Sicilia, in Calabria e in

Campania, è emerso in modo drammatico la condizione di

un’imprenditoria che spesso convive, silente o vittima, collusa o

intimidita, con il potere pervasivo delle mafie. La questione riguarda

innanzitutto il Mezzogiorno, ma tocca indubbiamente il sistema

economico nazionale.

I dati ISTAT, relativi al 2005, rivelano che: il PIL del Mezzogiorno è

pari a meno di un terzo di quello del Centro-Nord, e meno di un quarto

del PIL nazionale. Il PIL, invece, pro-capite del Centro-Nord è di

25.000€, 14.000€ quello del Sud.

Secondo la Commissione la scarsa capacità del Mezzogiorno di attrarre

capitali, e quindi di dare impulso al settore produttivo in genere, è da

addebitare ad una serie di concause: il tema della sicurezza; il cattivo

funzionamento della Pubblica Amministrazione; la lentezza della

giustizia civile e la carenza delle infrastrutture.

In un contesto sociale e strutturale siffatto la mafia crea una “economia

parallela”, che attrae risorse umane e finanziarie e le sottrae all’economia

legale impedendone lo sviluppo. La conseguenza è che l’attività illegale,

producendo posti di lavoro, finisce per attrarre nella propria orbita gli

individui.

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Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria al momento

della stesura della Relazione, durante la sua audizione conferma la

necessità di un deciso cambiamento di indirizzo, se si vuole evitare di

consegnare alle mafie una parte importante del sistema economico del

Mezzogiorno. Ed è proprio dando attuazione a questo proposito che

Confindustria ha deciso di azzerare i vertici dell’Associazione industriali

di Reggio Calabria, coinvolti in un’inchiesta giudiziaria.

Sulla medesima linea di continuità si pongono poi le iniziative realizzate

da Confindustria siciliana, sia per rafforzare le azioni di prevenzione, sia

per il sostegno agli associati vittime delle organizzazioni mafiose. Le più

importanti e radicali di esse sono state rivolte all’adozione di un codice

etico, che impone agli associati l’obbligo di denunciare le richieste di

pizzo; alla prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità

organizzata negli investimenti del polo petrolchimico, nell’area di

Caltanissetta; alla video-sorveglianza delle aree industriali; all’emersione

del lavoro nero e irregolare; alla sottoscrizione di protocolli di legalità in

materia di appalti; all’istituzione di un elenco di aziende fornitrici

certificate.

Non sono ovviamente mancate contrastanti reazioni interne ed esterne.

Quanto alle intimidazioni esterne, particolare valore simbolico assume

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l’attentato del 26 settembre 2007 alla sede di Caltanissetta di

Confindustria. L’incursione notturna che ha devastato la sede mirava a

trafugare i verbali delle riunioni in cui gli associati, dandosi un codice

etico, hanno deciso di espellere gli imprenditori che non denunciano il

racket, e ciò al fine di individuare i nominativi degli aderenti alla

proposta.

Ma se il quadro generale fatto dalla Commissione è tutt’altro che

confortante, di certo, se anche non sorprende, preoccupa e merita

particolare attenzione l’analisi che riguarda la ‘ndrangheta.

Mentre l’attenzione dei media si è sempre concentrata su Cosa Nostra, la

‘ndrangheta ha scalato posizioni, diventando l’organizzazione criminale

più moderna e potente. Questa mafia agisce e pensa

contemporaneamente, localmente e globalmente, controlla il territorio in

maniera ossessiva e maniacale, segue e interviene nell’evoluzione dei

mercati internazionali. Con questo dinamismo ha articolato e

diversificato le sue attività. Abbandonati i sequestri di persona e

continuando a controllare l’intero ciclo dell’edilizia, ha investito nella

sanità, nel turismo, nel traffico dei rifiuti, nella grande distribuzione

commerciale, assumendo anche un ruolo chiave nel controllo dei grandi

flussi di denaro pubblico. È divenuta un soggetto criminale moderno che

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si inserisce negli organismi elettivi generando: la pratica delle assunzioni

clientelari e degli affidamenti di lavori, di forniture e servizi ad imprese

collegate.

La storia degli ultimi decenni, rileva l’Antimafia, ha mutato e segnato il

corso di questa evoluzione da mafia arcaica a mafia imprenditrice a

centrale finanziaria della globalizzazione con attività al Nord e all’estero.

Il Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno presentato nel 2007,

nella parte che riguarda la Calabria, presenta il quadro di una regione con

un PIL pro-capite di 13.762 euro, pari al 54,6% del PIL pro-capite del

Centro-Nord Italia, un tasso di disoccupazione di circa il 13%,

un'economia sommersa, in crescita, pari al 27% e lavoratori irregolari,

ancora in crescita, per oltre 176.000 unità. Dallo stesso Rapporto risulta

che le imprese che pagano il “pizzo” nella regione sono 150.000, la metà

del totale delle imprese esistenti nella regione, con una punta del 70% a

Reggio Calabria. Non solo. Il dato dell’usura, secondo il Rapporto

Svimez, fa segnare in Calabria la percentuale più alta di commercianti

vittime del fenomeno in rapporto ai soggetti attivi: il 30% con 10.500

commercianti coinvolti in regione.

Nella Calabria di oggi infatti, gran parte delle attività economiche,

imprenditoriali e produttive sono condizionate, infiltrate e alcune dirette

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dalle cosche della ‘ndrangheta. Quando non sono direttamente colluse, le

imprese sono acquiescenti alle mire e agli interessi della criminalità

organizzata e ciò avviene in tutti gli ambiti economici: imprese agricole,

imprese turistiche, imprese commerciali, grande distribuzione, ma

soprattutto nell’edilizia, con un’egemonia mafiosa sull’intero ciclo del

cemento.

Saldi risultano anche i legami con le elìte politiche locali. La

Commissione Antimafia ha registrato ritardi da parte

dell’amministrazione regionale nella valutazione dei progetti da

finanziare, per permettere a società ancora da costituire di vedere la luce

e di partecipare, col favore del politico di turno e delle cosche,

all’accaparramento dei finanziamenti pubblici. È un meccanismo che

purtroppo ricorre sovente, così come quello di non far conoscere i bandi

per le gare pubbliche se non nelle ore precedenti la scadenza del termine

per parteciparvi, favorendo così in modo apparentemente legale i pochi

predestinati all’accesso al finanziamento grazie allo scambio politico-

affaristico quando non direttamente mafioso.

Le mani delle cosche sulle attività di carattere pubblico rappresentano

così un dato costante che assume le forme di una gestione parallela

dell’amministrazione della res pubblica, attraverso l’elezione diretta di

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sindaci ed amministratori locali o il controllo degli apparati

amministrativi, dai Comuni alle A.S.L., dalle Asi alle società miste per la

gestione dei servizi.

Emerge inoltre un peggioramento della situazione relativa al 2007 in

merito alle frodi ai danni dello Stato e dell’Unione Europea, secondo dati

ufficiali forniti dalla sola Guardia di Finanza. Su un totale nazionale di

259 violazioni riscontrate per frodi a danno del bilancio nazionale, ben

70 (il 37%) sono avvenute in Calabria. L’analisi dei dati investigativi e

giudiziari fornisce, rileva l’Antimafia, “un quadro di preoccupante

allarme per l’inarrestabile emorragia di contributi pubblici intercettati

dalle cosche”.

Focus centrale della relazione è la sanità calabrese, portando alla luce i

drammi delle A.S.L. di Locri e di Vibo, metafore del fallimento politico

e della delegittimazione morale della gestione della sanità pubblica e

degli interessi mafiosi nella sanità privata in spregio ad ogni diritto, fino

a quello più sacro, della vita umana. La sanità pubblica viene fatta

morire per alimentare il senso comune dell’utilità della sanità privata.

Chi governa crea così l’alibi per drenare risorse pubbliche verso un

sistema d’affari privato che spesso, in Calabria, ha come soggetto diretto

d’impresa la ‘ndrangheta.

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Tralasciando il livello locale ciò che colpisce sono le ramificazioni di

questa consorteria mafiosa in tutte le regioni d’Italia. Circa il Nord non è

solo a Milano e in Lombardia che la ‘ndrangheta fa i suoi affari. Genova

per esempio ha da sempre rappresentato uno snodo fondamentale per il

traffico di cocaina e per le rotte verso la Costa Azzurra. Troviamo delle

presenze consistenti anche in Emilia Romagna. Cocaina, bische, gioco

d’azzardo, riciclaggio di capitali ed edilizia. Sono queste le attività che le

famiglie mafiose realizzano fra Bologna, Modena, Forlì, Rimini, Reggio

Emilia, Parma e Piacenza.

In Piemonte invece la ‘ndrangheta fa sentire la sua presenza anche in Val

di Susa, implicazioni ci sono già state in passato per le Olimpiadi

Invernali e non è escluso che gli interessi delle famiglie calabresi siano

orientate agli appalti per l’alta velocità.

E non solo. La ‘ndrangheta infatti è un “broker mondiale” con i suoi

uomini nelle sedi di approvvigionamento della droga, come la Colombia

e la Bolivia. Uomini in grado di gestire i flussi del denaro e incamerare

costantemente cocaina presso i fornitori sudamericani, assicurando

comunque il pagamento delle partite di stupefacente. Ad agevolare il

disegno egemonico dei clan dei calabresi, evidenzia la Commissione

Antimafia, è la capillare diffusione in tutti i continenti: dal Sud America

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all’Australia, dalla Germania alla Spagna, dalla Francia alla Svizzera al

Canada.

La forza di questa consorteria mafiosa risiede quindi nella convivenza di

due fattori: lo spirito criminale e quello imprenditoriale. La metamorfosi

della ‘ndrangheta in mera criminalità organizzata ne segnerebbe la

rovina, ne esaudirebbe inesorabilmente la forza vitale e la leadership.

La ragione del suo primato, secondo la Commissione Antimafia, risiede

nella forte gerarchizzazione e compartimentalizzazione delle attività

criminali, ma sempre riconducibili al nucleo ‘ndranghetistico originario

per la parte concernente la direzione e la promozione della cooperazione

a delinquere.

È una sorta di struttura a compartimenti stagni, capace di resistere

all’azione repressiva in ragione dell’estrema fungibilità dei personaggi

coinvolti, dell’incompleta conoscenza dei meccanismi in cui si snoda,

della catena di omertà che comunque avvolge gli associati. Di fronte a

questa capacità organizzativa, alla sua invisibilità nelle dinamiche della

globalizzazione criminale e in quelle della globalizzazione finanziaria

legale, è necessario riorganizzare le strutture del contrasto, con una

ripartizione del lavoro investigativo tra indagini su scala internazionale e

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indagini che concernono i settori tradizionali dell’egemonia mafiosa sul

territorio calabrese e nazionale.

L’intera relazione è quindi attraversata dalla narrazione dei processi

degenerativi che investono le Istituzioni e la gestione della cosa

pubblica. Le continue inchieste della magistratura che, pur in assenza di

sentenze definitive, colpiscono esponenti di primo piano di tutti i partiti,

gli avvisi di garanzia che investono buona parte del Consiglio Regionale,

assessori regionali o ex assessori in carcere per reati collegati alla mafia

o esponenti di primo piano dei partiti sotto processo o già condannati per

corruzione, rappresentano, purtroppo, la fotografia della realtà. E anche

quando i partiti e la politica intervengono, il loro intervento è sempre

posteriore a quello della magistratura, benché conoscano meglio di

questa quello che è il loro stesso sistema.

Alla luce di tutto questo la lotta alla mafia, in questa regione, è

primariamente una questione morale, culturale e sociale112.

112 Dati e informazioni tratti dalla Relazione della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia del 20.02.2008, firmata da Francesco Forgione.

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CAPITOLO IV Imprenditori collusi e imprenditori subordinati Sommario: 1. Le diverse forme del rapporto tra mafia ed imprenditoria: imprenditori subordinati e imprenditori collusi. - 2. L’attività della Giurisprudenza nella ricerca della difficile linea di confine tra imprenditori collusi e imprenditori vittime. - 3. I profitti associativi confiscabili: la confisca tradizionale e la confisca penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale. - 4. Segue: la confisca penale obbligatoria dei valori ingiustificati prevista dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 e la sua applicabilità alle ricchezze mafiose “consolidate”. - 5. Segue: la confisca come misura di prevenzione patrimoniale. 6. La sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni nella Legge n. 575/1965: gli artt. 3 quater e quinquies. - 7. Il sistema degli appalti. - 8. Il meccanismo della protezione-estorsione. - 9. Segue: il contesto ambientale e il compromesso necessitato. 1. Le diverse forme del rapporto tra mafia ed imprenditoria: imprenditori subordinati e imprenditori collusi Dopo aver esaminato le fasi evolutive dell’impresa del mafioso e le

forme ad essa corrispondenti, è necessario, a fini di completezza del

discorso, distinguere le diverse tipologie di comportamenti

imprenditoriali che si possono ravvisare nel rapporto tra mafia e

imprenditoria. In tale senso risulta esemplare e dai più condivisa la

ricerca sociologica di R. Sciarrone, che ha distinto e classificato gli

imprenditori di un’area significativa della Calabria, quella della Piana di

Gioia Tauro, in alcune categorie ideal-tipiche, definite in base alle

caratteristiche e alle modalità dell’interazione con i mafiosi.

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Questo autore, ricollegandosi agli studi di Diego Gambetta sulla mafia

intesa come industria della protezione, sostiene che ciò che distingue i

vari tipi di imprenditori è il modo in cui questi si avvalgono dell’offerta

di fiducia, ossia del tipo di protezione mafiosa di cui la loro attività

economica è fatta oggetto. Alla luce di questo criterio la distinzione

fondamentale è quella tra imprenditori “subordinati” e imprenditori

“collusi”.

Preliminarmente e in base a quanto affermato occorre precisare che, a

coloro che vengono definiti subordinati è imposta un protezione passiva,

tale perché afferma l’unilateralità dell’iniziativa, viceversa quelli definiti

collusi possono usufruire di un tipo di protezione attiva, cosiddetta

perché instaura con i mafiosi un rapporto interattivo, vantaggioso per

entrambe le parti. Nell’uno e nell’altro caso tuttavia la mafia riesce ad

ottenere la “cooperazione” degli imprenditori, ma diversi sono i

presupposti.

Nel caso degli imprenditori subordinati la collaborazione è originata dal

timore di sanzioni materiali, che deriva dall’uso di metodi intimidatori;

in quello degli imprenditori collusi da un vantaggio economico, da una

logica di profitto113.

113 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 63 ss.

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Gli imprenditori subordinati sono quelli su cui più grava la pressione

mafiosa, il meccanismo della protezione-estorsione diviene, nei loro

confronti, di regola, sempre più stringente e a tale scopo le condizioni

imposte dal mafioso possono essere continuamente modificate. Questi

imprenditori, secondo l’analisi di Sciarrone, si articolano in due

sottocategorie, quella degli imprenditori “oppressi” e quella degli

imprenditori “dipendenti”. In particolare, i primi sono quelli con cui la

mafia intrattiene un rapporto di puro dominio: “essi pagano la protezione

mafiosa senza ricevere in cambio nulla di concreto se non una garanzia,

peraltro del tutto provvisoria, di poter semplicemente continuare a

svolgere la propria attività…e si sentono completamente indifesi di

fronte alla mafia, anche perché il più delle volte hanno potuto

verificarne, subendone direttamente le conseguenze, la potenza

militare”114. I secondi invece, “non solo devono pagare la protezione ai

mafiosi…, ma devono ottenere la loro autorizzazione per poter svolgere

la propria attività”; conseguenza di ciò è che vedono selezionate dalla

mafia le opportunità di impresa. Questo ulteriore limite che grava sugli

imprenditori subordinati “dipendenti” deriva dalla circostanza che questi

svolgono sovente la loro attività nel campo dei lavori pubblici, che è

114 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 69.

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settore di grande interesse per la mafia e tradizionalmente da essa

controllato.

Perciò non è inusuale che gli imprenditori considerati debbano pagare,

per svolgere attività di impresa, non solo la protezione ai mafiosi ma

anche tangenti ai politici. Può poi accadere che i mafiosi, in alternativa o

in aggiunta all’estorsione “diretta”, attuino forme di estorsione definite

“indirette”. In quest’ultimo caso i mafiosi hanno di mira quelle aziende

che entrano in connessione con le loro attività imprenditoriali e dai

proprietari di esse pretendono merce e prestazioni lavorative. Non è

escluso che il sodalizio, con l’intento di effettuare il controllo

dell’azienda dall’interno, imponga l’assunzione di persone di fiducia.

Qualora questo si verifichi, l’imprenditore avrà, quasi certamente, un

dipendente privo delle competenze necessarie e, cosa di gran lunga più

grave, non potrà attuare la “tattica de sotterfugi”, che consiste nel

ricorrere a scuse per sottrarsi alle richieste dei mafiosi.

Tutte queste richieste alternative rispetto alla tradizionale pretesa di

denaro sono spesso legate al volume d’affari delle aziende, che, quanto

più producono, tanto più saranno oggetto di attenzioni e di pretese.

Per le ragioni esposte questi operatori economici sono spinti a preferire

una situazione di immobilismo, che se da una parte mortifica le

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possibilità di sviluppo dell’impresa, dall’altra serve a non attirare gli

interessi della mafia115.

Da un diverso tipo di relazione tra mafia e imprenditoria scaturisce la

figura dell’imprenditore colluso. Ciò che caratterizza l’interazione tra i

due soggetti non è, in tale ipotesi, la subordinazione dell’uno all’altro,

bensì un reciproco vantaggio e la maggiore possibilità, riconosciuta agli

imprenditori di negoziare i termini della protezione. Questi ultimi

cercano di volgere in benefici quei condizionamenti che per gli

imprenditori subordinati costituiscono un serio ostacolo all’esplicazione

della propria attività economica. Per fare ciò è necessario ricorrano due

condizioni: la prima è che l’imprenditore abbandoni ogni reticenza di

ordine morale, riconoscendo in tal modo il potere mafioso, essendo a ciò

spinto dalla convinzione che un rapporto collaborativo con la mafia

possa essere molto vantaggioso; la seconda è che il mafioso accetti la

cooperazione, cosa che fa solo qualora questa si riveli più conveniente

del rapporto di subordinazione o se tra lui e l’imprenditore esiste un

legame personale di fedeltà, specie se in forma di parentela.

115 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 70 ss.

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Anche all’interno della categoria degli imprenditori in collusione con la

mafia Sciarrone individua due sottocategorie: quella degli imprenditori

“strumentali” e quella degli imprenditori “clienti”116.

L’imprenditore strumentale ha una buona capacità di contrattare il

rapporto di scambio con i mafiosi. È di solito un soggetto che ha

un’impresa di dimensioni più ampie della media locale, proviene da un

territorio esterno a quello di insediamento del gruppo mafioso e opera,

quasi sempre, nel campo dei lavori pubblici. La sua azienda ha mezzi e

risorse necessarie per partecipare ad appalti relativi alla costruzione di

grandi opere, ma necessita per vincere la gare d’appalto dell’appoggio

dei mafiosi locali. Questi, che non hanno l’apparato strutturale per agire

da soli, ma che vogliono assicurasi la gestione dei subappalti, possono

ritenere il patto con l’imprenditore strumentale conveniente o addirittura

necessario. Il compromesso tra i due ha però carattere contingente e

condizionale. Ciò perché la comunanza tra mafiosi e imprenditori

strumentali è unicamente economica, e la logica di scambio che ne

costituisce la premessa limita il coinvolgimento alle sole prestazioni,

escludendo le persone. Sciarrone sostiene, infatti, che l’imprenditore

strumentale segue il principio antropologico della “doppia morale”, in

116 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 84 ss.

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base alla quale la mafia è una necessità economica temporanea, ma non

ha niente a che fare con il resto della sua vita e con il passato e il futuro

della sua attività.

Diversamente il rapporto che gli imprenditori clienti stabiliscono con i

mafiosi è caratterizzato dalla stabilità, coinvolge l’intera attività

dell’imprenditore e la sua sfera personale. Le prestazioni che sono

oggetto del rapporto clientelare sono molteplici, si va dalla semplice

offerta di informazioni che l’imprenditore procura al mafioso,

all’accesso a determinati circuiti politici e finanziari, fino alla

costituzione di vere e proprie società tra cliente-imprenditore e mafioso.

Alle volte l’aiuto fornito dal cliente al mafioso può anche non avere

alcun legame con la sua attività lavorativa o addirittura non avere

contenuto economico.

Quale che sia comunque l’oggetto della prestazione, il rapporto di

scambio che si stabilisce è basato sulla cooperazione reciproca e sul

mutuo vantaggio.

La categoria degli imprenditori clienti può anche ulteriormente

specificarsi nella variante degli imprenditori clienti “identificati”.

Quando infatti il rapporto di scambio instaurato con il mafioso assume

contenuti più affettivi si realizza un processo di identificazione, tale per

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cui vi è una solidarietà partecipativa, una comunanza che diventa

immedesimazione reciproca e che induce a concludere affari in comune

in ogni tipo di mercato, legale e illegale. Il rapporto di scambio tra il

mafioso e l’imprenditore cliente, che spesso è un parente o un amico

dell’affiliato, non è più diadico ma coinvolge tutti i membri della

famiglia del cliente e spesso anche quelli della famiglia del mafioso

stesso. L’interazione che dipende non solo dai caratteri intrinseci di

questa identità ma anche dalla collocazione socioeconomica e dalle

risorse politiche di cui dispone l’imprenditore, lega la sua sorte a quella

del mafioso117.

2. L’attività della Giurisprudenza nella ricerca della difficile linea di confine tra imprenditori collusi e imprenditori vittime Effettuata a livello teorico una preliminare distinzione tra imprenditori

subordinati e imprenditori collusi, la giurisprudenza ha tentato di

individuare la linea di demarcazione tra le due categorie, attraverso

l’elaborazione di un efficace criterio discretivo che consenta di

distinguere la contiguità soggiacente e la contiguità compiacente.

Qualora poi si versi in una ipotesi di contiguità compiacente sarà

117 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 89 ss.

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necessario stabilire quando l’imprenditore colluso sia da considerare

partecipe interno e quando, invece, concorrente esterno.

Il cammino verso l’individuazione di questo spartiacque tra imprenditore

subordinato e imprenditore colluso è stato complesso ma non privo di

risultati importanti. Al fine di tracciare i passaggi salienti che hanno

condotto agli esiti finali occorre ricordare quattro pronunce giudiziali, si

tratta della sentenza “Cavallari” del 1996, di quella “Cabib” del 1999 e

di due sentenze di legittimità, “Iovino” e “D’Orio”, entrambe del 2005.

Nel primo giudizio, il Giudice dell’Udienza Preliminare di Bari con

provvedimento emesso in sede di patteggiamento il 30.6.1996 ha

concluso per la colpevolezza, in termini di partecipazione ad

associazione mafiosa, di un imprenditore attivo nel settore economico

della sanità privata. La decisione dell’autorità giudiziaria è relativa alla

vicenda dell’imprenditore Cavallari, che inizialmente vessato dal

sodalizio mafioso ha subito gradualmente l’usurpazione del controllo

della sua attività. In seguito l’imprenditore ha deciso di venire a patti con

il gruppo mafioso, così diventando da imprenditore subordinato

imprenditore colluso, e si è avvalso dei metodi mafiosi per garantire alla

sua impresa una posizione prima di privilegio, poi di monopolio.

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A tale proposito Visconti, che ha approfondito l’argomento della

contiguità alla mafia, ha attribuito notevole importanza a questo

provvedimento di merito ed ha cercato di dare corpo alla “massima di

esperienza” cui si può ritenere che il giudice di Bari abbia attinto nel

caso di specie, formulandola nei seguenti termini: “posto che il controllo

da parte di una associazione mafiosa delle attività economiche di un

imprenditore può schiudere per l’azienda nuove e vantaggiose

prospettive di penetrazione nel mercato grazie allo sfruttamento del

metodo mafioso, l’operatore commerciale coinvolto, pur anche vittima in

un primo momento dell’intimidazione mafiosa, tende il più delle volte a

compenetrarsi nel sodalizio criminale118.

Il passo successivo di questa ricerca è rappresentato da una pronuncia

della Suprema Corte del 1999, relativa al giudizio nei confronti di un

imprenditore di nome Cabib, che nell’attivarsi per l’acquisizione

dell’appalto di un opera pubblica di rilevante valore ha instaurato

rapporti con il “clan dei casalesi”, al fine di rimuovere preventivamente

gli ostacoli di carattere estorsivo all’esecuzione dei lavori, mediante

l’instaurazione di un “accordo di non conflittualità”, produttivo di

118 Visconti C., Contiguità alla mafia…, cit., p. 339 ss.

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vantaggi reciproci. Ciò gli è valso un’accusa di partecipazione

all’organizzazione camorristica.

La Corte, affrontando la complessa problematica della contiguità

imprenditoriale, sviluppa due argomenti.

Il primo riguarda la corretta utilizzazione, in sede di valutazione delle

prove, delle massime di esperienza di matrice socio-criminologica. Il

secondo concerne, invece, il tentativo di fornire alla prassi un criterio

capace di distinguere l’imprenditore compiacente, punibile ai sensi

dell’art. 416 bis del Codice Penale, da quello c.d. soggiacente nei

confronti dell’attività estorsiva e, quindi, vittima dell’organizzazione

criminale.

Quanto al primo aspetto la Corte sostiene che nella valutazione dei

rapporti tra mafia e imprenditori l’indagine del giudice non può fondarsi

su aprioristici ed astratti stereotipi socio-criminali, la cui applicazione in

forma di massime di esperienza, conduce a generalizzate

concettualizzazioni o, viceversa, al riconoscimento di vaste aree di

impunità. Non può infatti mai prescindersi da un effettivo e serio vaglio

degli aspetti contingenti della singola fattispecie. La Cassazione ha

ravvisato nel provvedimento del Tribunale del riesame che l’ufficio del

P.M. ha impugnato una illogicità manifesta, laddove configura i rapporti

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instauratisi tra l’imprenditore e le associazione criminali non nell’area

della contiguità compiacente, bensì in quella della contiguità

soggiacente.

I giudici di legittimità contestano ai giudici di merito di avere applicato

astratti stereotipi socio-criminologici in luogo di un attento vaglio delle

prove raccolte e ritengono che è la sussistenza o meno di una condizione

di “ineluttabile coartazione” che imprime all’imprenditore che entra in

contatto con la mafia i connotati di vera e propria vittima dell’estorsione.

La Corte ritiene dunque, nella sentenza in esame, che il giudice possa

avvalersi della massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-

criminologiche, ma non prima di averne riscontrato la piena rispondenza

alle specifiche e peculiari risultanze probatorie attinenti al caso di specie.

In questo senso la Cassazione in sostanza opta per una strada mediana,

che affida al giudice il delicatissimo compito di vagliare caso per caso

l’effettiva idoneità dei dati storico-criminologici ad essere assunti ad

attendibili massime di esperienza, solo dopo aver ricostruito sulla base

dei mezzi di prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che

formano l’oggetto del processo.

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In questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chiamato, la

lettura delle più moderne, attente ed approfondite analisi sociologiche

può sicuramente rivelarsi un importante strumento di riflessione.

Quanto invece al secondo argomento, e cioè al criterio discretivo

individuato dalla sentenza in esame per distinguere l’imprenditore

vittima da quello colluso, questo è quello della condizione di

“ ineluttabile coartazione”, che ricorrendo attribuisce all’imprenditore la

qualità di vittima della mafia.

Con tale formula i giudici di legittimità hanno inteso fare riferimento

all’atteggiamento psicologico della vittima del reato di estorsione

perpetrato dalla criminalità organizzata. La Corte, poi, oltre al fenomeno

psicologico valorizza, quale utile criterio discretivo il dato cronologico,

già ampiamente evidenziato dall’accusa. L’imprenditore indagato,

infatti, prima di ottenere dalla pubblica amministrazione l’affidamento

delle opere da realizzare e di subire atti intimidatori specifici, si è

attivato per stipulare con i capi del clan camorristico un “contratto di

protezione”, che tenesse indenne dalla violenza criminale le imprese

impegnate nella esecuzione dei lavori. In questo senso la Corte individua

nell’iniziativa degli imprenditori di pattuire preventivamente il costo

della protezione un elemento idoneo a fare considerare gli operatori

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economici coinvolti come soggetti che, lungi dall’essere vittime della

mafia, apportano un contributo alle associazione mafiose, che, nel caso

di specie, si configura come concorso esterno nel reato associativo.

Diversamente, gli imprenditori che non prendono l’iniziativa per primi e

si limitano a subire le richieste estorsive avanzate dalle organizzazioni

mafiose, sono configurabili come vittime.

A giudizio di Visconti, però, l’adozione del criterio della “ineluttabile

coartazione” per distinguere il soggetto passivo dell’estorsione dal

concorrente esterno o dal partecipe nell’associazione, appare discutibile

sul piano politico criminale e potenzialmente foriera, al contrario da

quanto auspicato dalla Cassazione, di soluzioni decisorie improntate a

valutazioni di natura extralegale. Ciò perché in entrambe le ipotesi

considerate gli imprenditori agiscono a fronte di uno stato di

assoggettamento ed omertà che è frutto della forza di intimidazione del

vincolo associativo; questa situazione, secondo l’autore, “dovrebbe

bastare per ritenere comunque integrata la fattispecie di estorsione,

giacchè il momento o il modo in cui si è preso l’impegno di pagare o si è

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pagato nulla toglie alla posizione di vittima comunque rivestita

dall’imprenditore”119.

Maggiormente chiare nell’identificare il criterio discretivo tra

imprenditore vittima e imprenditore colluso sono le due sentenze di

legittimità pronunciate nel 2005, riguardanti imprenditori edili che hanno

pagato tangenti ai clan mafiosi operanti nei territori di rispettiva

pertinenza, ed entrambe sentenze di annullamento senza rinvio in

materia di libertà, con contestuale immediata liberazione del ricorrente.

Nel primo giudizio a carico dell’imprenditore Iovino viene formulata

l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e ciò per avere

costui versato ad un gruppo criminoso del Salernitano, anche per conto

di altri operatori economici della zona, ottanta milioni di vecchie lire. Il

versamento della tangente, secondo l’accusa, integrerebbe un contributo

consapevolmente prestato al sodalizio criminale e denoterebbe specifiche

finalità di locupletazione, quale quella di tenere indenne sé e gli altri

imprenditori coinvolti da continue richieste estorsive. A dispetto di

questo apparato accusatorio la Suprema Corte, che con sentenza del

22.3.2005 annulla il provvedimento impugnato, afferma che è illogico

ravvisare una finalità di locupletazione nel pagamento della tangente, ciò

119 Visconti C., Imprenditori e camorra: l’‹‹ineluttabile coartazione›› come criterio discretivo tra complici e vittime?, in Foro It., 1999, I, parte II, p. 631 ss.

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principalmente a causa delle richieste estorsive e dei successivi esborsi

di denaro provati dallo stesso provvedimento oggetto di impugnazione,

nel comportamento dell’imprenditore è semmai possibile ravvisare un

tentativo di riduzione del danno. In sostanza, afferma la sentenza, “nella

ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di merito, non è contemplata

l’ipotesi di versamenti preventivi di denaro a clan camorristici finalizzati

ad ottenere illeciti vantaggi, neppure nella forma di indebiti vantaggi

concorrenziali rispetto ad altre imprese, ma emerge invece la

rappresentazione di una linea di condotta diretta ad ottenere, grazie ad un

pagamento preventivo a forfait, l’esenzione da future sistematiche

estorsioni ritenute certe e non altrimenti evitabili […]. Ciò comporta che,

nella fattispecie in esame, non si è di fronte ad una convergenza anche

solo parziale di interessi, di obbiettivi e di vantaggi tra l’indagato e gli

specifici gruppi camorristici destinatari della tangente, e che il

comportamento dell’indagato non appare direttamente e volontariamente

finalizzato a contribuire al loro rafforzamento ed al raggiungimento dei

loro scopi criminosi, ma piuttosto a sottrarsi alla loro pressione al minor

prezzo possibile”120.

120 Cass., Sez. VI, 22.3.2005, n. 14236

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La seconda sentenza di legittimità, pronunciata l’11.10.2005, riguarda la

posizione di un imprenditore edile, D’Orio, cui è stato contestato il

delitto di partecipazione ad associazione mafiosa per avere versato

denaro alla famiglia mafiosa di Partinico, con la quale, secondo l’accusa,

ha instaurato un “rapporto di cointeressenza”.

La sentenza prende, dunque, le mosse dai principi stabiliti dalla Corte

Suprema nella pronuncia Cabib del 1999 circa il problema della

utilizzabilità in sede giudiziaria delle cosiddette “massime di

esperienza”. In questo senso ribadisce la rilevanza delle massime di

esperienza elaborate con il contributo di indagini sociologiche, ma pone

precisi limiti alla loro utilizzazione.

Primariamente la massima di esperienza deve derivare dall’osservazione

di comportamenti ricorrenti in un dato contesto geografico-sociale, dai

quali si può desumere che essi siano la regola nell’ambiente considerato.

Secondariamente, e soprattutto tenendo conto che la massima di

esperienza non è indicativa di una certezza, ma solo della probabilità di

una determinata condotta e di certi effetti, il giudice dovrà, in maniera

imprescindibile, verificare la riconduzione delle risultanze probatorie del

caso di specie alla regola enucleata.

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Dopodichè la Corte riconosce che l’ordinanza impugnata ha

correttamente individuato le massime di esperienza atte a stabilire il

discrimine tra l’imprenditore complice e quello vittima di attività

delinquenziali mafiose. Osserva inoltre come il provvedimento

impugnato abbia correttamente superato la massima di esperienza,

funzionale a esiti decisori predeterminati, che riconduce sempre allo

schema del cosiddetto “contratto di protezione” la relazione tra

organizzazione mafiosa e imprenditori in luoghi sottoposti alla pervasiva

infiltrazione della mafia, riconducendo ogni interazione ad un

compromesso necessitato. Per evitare dunque di incorrere in errori,

proprio nella consapevolezza della variabilità dei fenomeni di mafia e

della loro rapida evoluzione, è necessario sempre verificare la perdurante

attualità della massima e, senza perciò negare il suo carattere di

generalità, procedere al suo superamento di fronte alla conclamata

dimostrazione della sua sopravvenuta inattualità.

Nel caso di specie, la Corte, pur condividendo la massima secondo cui

l’esistenza di un sinallagma è un criterio utile ad interpretare, in chiave

di partecipazione o di concorso esterno, la contiguità tra imprenditori e

organizzazione mafiosa, nega che la motivazione del provvedimento

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impugnato fornisca la dimostrazione di tale sinallagma, e dunque di tale

massima pur correttamente individuata.

La sentenza D’Orio si sofferma in modo esemplare, da ciò la rilevanza

della stessa, sul parametro atto a distinguere l’imprenditore vittima da

quello colluso. Ciò che caratterizza l’imprenditore colluso è, come detto,

l’esistenza di un rapporto sinallagmatico, e dunque di una corrispettività

tra le prestazioni con i mafiosi, tale da consentire all’imprenditore di

rivolgere a proprio profitto il fatto di avere stabilito relazioni con il

sodalizio criminale. Ed in questo requisito dell’ingiustizia del vantaggio,

che può essere conseguito dall’imprenditore e che distingue la posizione

di soggiacenza da quella di compiacenza, è facile ravvisare un

parallelismo con la stessa definizione della finalità dell’associazione

mafiosa, tra le quali il terzo comma dell’art. 416 bis C.P. ricomprende

appunto la finalità di un ingiusto vantaggio.

Tuttavia, chiarita in ipotesi l’esistenza di una contiguità compiacente tra

imprenditore e organizzazione mafiosa, è necessario verificare caso per

caso se, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità,

ricorre responsabilità penale a titolo di partecipazione o di concorso

esterno in associazione di stampo mafioso.

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Si versa nell’ipotesi di partecipazione all’associazione mafiosa se

l’imprenditore colluso risulta stabilmente inserito nella struttura

organizzativa del sodalizio con l’assunzione di un ruolo e vuole far parte

di esso e destinare il proprio contributo al raggiungimento delle finalità

proprie del sodalizio medesimo. Si versa, invece, nell’ipotesi di concorso

esterno se l’imprenditore colluso, privo dell’affectio societatis e non

inserito nella struttura organizzativa dell’ente criminale, agisce con la

consapevolezza e volontà di fornire un contributo causale alla

conservazione o al rafforzamento dell’associazione, nonché alla

realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso.

Individuato nell’esistenza del rapporto sinallagmatico produttivo di

vantaggi ingiusti reciproci l’indice di una contiguità compiacente ne

consegue che è imprenditore subordinato, non solo colui che subisce le

pretese estorsive, ricevendone un danno ingiusto, ma anche colui che

realizza un accordo con il sodalizio mafioso al solo fine di limitare il

danno121.

121 Borrelli G., Massime di esperienza e stereotipi socio-culturali nei processi i mafia: la rilevanza penale della “contiguità mafiosa”, in Cass. Pen., 2007, p. 1074 ss.

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3. I profitti associativi confiscabili: la confisca tradizionale e la confisca penale obbligatoria prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis del Codice Penale Sul piano della normazione l’attività dello Stato di contrasto ai processi

di accumulazione del capitale, propria delle organizzazioni mafiose, si

caratterizza per l’introduzione di molteplici strumenti giuridici. La

scienza sociologica ha da tempo rimarcato la tendenza della criminalità

di tipo mafioso, manifestatasi a partire dagli anni ’70, a reinvestire i

grossi proventi del traffico di droga in attività produttive lecite. Questo

fenomeno assomma ai problemi di salvaguardia dell’ordine pubblico

l’esigenza di tutelare l’ordine economico, poiché la disponibilità di

ingenti somme di denaro unita alla limitata capienza dei mercati

criminali e all’utilizzo del “metodo mafioso”, determina una sempre più

devastante infezione dell’economia legale e una conseguente distorsione

delle regole della concorrenza dei mercati. In questo contesto l’elemento

patrimoniale indirizza le strutture criminali e genera quell’impulso al

reinvestimento che costituisce condizione di sviluppo e di sopravvivenza

delle economie criminali. Il diritto penale appresta dunque strumenti che

possano arginare lo sviluppo della criminalità organizzata attraverso una

attività di contrasto della formazione e della disponibilità della ricchezza

illecita. In tal senso meritano preliminare attenzione la confisca

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tradizionale di cui all’articolo 240 del Codice Penale e quella prevista dal

7° comma dell’art. 416 bis C.P.

Prima di valutare l’effettività sanzionatoria e la conseguente capacità

deterrente della confisca codicistica è necessario precisare che l’art. 240

C.P. distingue una confisca facoltativa da una obbligatoria. La prima,

prevista nel primo comma, riguarda le cose che “servirono o furono

destinate a commettere il reato” e le “cose che ne sono il prodotto o il

profitto”; intendendo per “profitto” il guadagno, il vantaggio di natura

economica che deriva dall’illecito, per “prodotto” la cosa materiale che

si origina dal reato medesimo.

La confisca obbligatoria, invece, prevista nel secondo comma, riguarda

le cose che costituiscono il prezzo del reato, intendendo per tale l’utile

pattuito e conseguito da una persona come corrispettivo dell’esecuzione

dell’illecito; le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o

alienazione costituisce reato, anche se non è stata pronunciata

condanna122.

Il carattere spiccatamente preventivo della confisca introdotta dal

Legislatore del ’30, giustificherebbe l’inclusione di essa tra le misure di

122 Cassano F., Quale riforma per l’amministrazione e la destinazione dei patrimoni di mafia?, in Questione Giustizia, 2006, I, p. 1 ss.

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sicurezza, scelta classificatoria non unanimemente condivisa dalla

dottrina. La perplessità riguarda soprattutto un aspetto sovente ritenuto

presupposto necessario in vista dell’applicazione della confisca: la

pericolosità della cosa come attitudine della stessa a recare danno;

requisito che, difficile da rinvenire in entrambe le ipotesi di confisca,

facoltativa e obbligatoria, costituirebbe criterio di scarsa utilità

interpretativa. Per superare l’ostacolo e dare senso al concetto di

pericolosità, Fornari, prima distingue un pericolosità oggettiva, tale

perchè della cosa, da una pericolosità soggettiva, e poi propende per la

ricostruzione soggettiva, che ravvisa il requisito nella circostanza che la

cosa, lasciata nella disponibilità del reo, costituisca per lui un incentivo

per commettere ulteriori illeciti.

In questo senso il “rischio di attrattiva” del profitto a delinquere

nuovamente, potendo ricorrere ma potendo anche non ricorrere,

dovrebbe essere rinvenuto in ogni singolo caso, da ciò il regime

facoltativo della confisca inerente il profitto. Tuttavia, poiché un giudizio

prognostico di attrattività del profitto non sembra criterio di certa

affidabilità ed efficacia, l’autore citato ritiene che il giudice sia titolare,

in ordine alla scelta se procedere o meno a tale forma di confisca, di

discrezionalità assolutamente libera.

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Se si considera poi che ogni modalità illegittima di acquisizione della

ricchezza, tanto nella forma del profitto quanto in quella del prezzo, è

parimenti penalmente rilevante e che non è agevole rinvenire un motivo

che adeguatamente giustifichi la diversità di regime, facoltativo o

obbligatorio, può risultare utile una ricostruzione storico-sociologica.

La realtà criminale cui fanno riferimento i compilatori del Codice Rocco,

cui la confisca risale, non conosce ancora la presenza della criminalità

organizzata, dedita all’accumulo e al reinvestimento dei capitali illeciti,

plausibilmente perciò la diversità di trattamento sanzionatorio è legata

alla tipologia dell’autore del reato. La confisca è facoltativa rispetto ad

un soggetto che agisce per scopi di lucro, in modo disorganizzato ed

episodico, è invece obbligatoria quando si tratti di colpire un delinquente

abituale, che in maniera sistematica vende la propria disponibilità a

commettere un reato. Questa strutturazione è rispondente alle necessità

del sistema penale dell’epoca, che, teso alla salvaguardia della sfera

patrimoniale della vittima, garantisce la soddisfazione delle pretese

risarcitorie e restitutorie della vittima stessa. Quest’ultima infatti può

agevolmente agire personalmente per ottenere il profitto derivante dal

reato, di modo che la discrezionalità del giudice è legata all’iniziativa o

mancata iniziativa del privato. Diversamente la doverosità della confisca

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del prezzo è del tutto obbligata, non potendo essere l’utile economico

conseguito tramite la commissione del reato oggetto di pretese diverse da

quelle dello Stato e dunque individuali.

Per lungo tempo, prosegue Fornari, la facoltatività della confisca dei

profitti illeciti e le note difficoltà di accertamento e di apprensione di

questi, che aggravano l’attività giudiziale, ha comportato nella prassi un

uso limitato di tale figura. Ma ciò che ne ha ostacolato e circoscritto il

ricorso, precisa l’autore, sono gravosi limiti operativi. Se infatti

l’introduzione di una regola di obbligatorietà della confisca del profitto,

sovente caldeggiata dalla Giurisprudenza, non solo assicurerebbe

esigenze di razionalità legislativa ma soprattutto garantirebbe l’assunto

che “il crimine non deve mai rendere”, ben altri sono gli ostacoli che si

frappongono all’effettività dell’istituto. I limiti cui si fa riferimento

attengono alla immediata connessione dei beni, oggetto di confisca, con

il fatto delittuoso. Precisamente: il bene da confiscare deve derivare dal

reato commesso e quanto alla qualità del bene medesimo, esso deve

identificarsi, integrandolo, con il corpo del reato. La prima condizione di

applicabilità indicata richiede non solo una diretta correlazione del bene

col reato produttivo del profitto illecito, ma anche con lo stesso oggetto

del reato, non rilevando una derivazione indiretta. Così argomentando

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può accadere che il profitto, benché illecitamente conseguito, non è fatto

oggetto di confisca perché il bene che lo integra non è avvinto da un

nesso eziologico diretto ed essenziale con il reato commesso.

La seconda condizione, che parimenti alla prima rende difficile la

praticabilità dell’istituto, accede ad una caratteristica tipica della confisca

“classica”, qual’è la propensione a riguardare unicamente il bene

pertinente al reato in maniera specifica, e non un altro benché di valore o

di significato equivalente. Questa circostanza, che complica non poco

l’attività processuale, produce inoltre il non auspicabile risultato di non

colpire l’illecito arricchimento del reo, salvo ricorrano precisi requisiti,

quali quelli che il bene servì o fu destinato a commettere il reato o che si

tratti al più di beni che sostituiscono o trasformano i primi.

Per queste ragioni Fornari, ritenendo che alla luce delle finalità

preventive dell’istituto ciò che rileva è il valore del guadagno e non

anche il bene che lo integra, auspica, sull’esempio di molte legislazioni

straniere, il ricorso alla cosiddetta “confisca per equivalente”.

Questa tecnica ablativa consente, in caso di impossibilità di agire

direttamente sui beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, di

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confiscare utilità patrimoniali di valore corrispondente, di cui il reo abbia

la disponibilità123.

Sintomatica di un incremento delle ipotesi di confisca obbligatoria

finalizzata a prevenire e reprimere fenomenologie delittuose tipicamente

produttrici di arricchimento illecito, e ciò al fine di ovviare alla confisca

facoltativa del profitto illecito della norma di parte generale, è la

confisca penale dei proventi mafiosi di cui al settimo comma dell’art.

416 bis C.P.. Questo stabilisce che nei confronti del condannato per

associazione di tipo mafioso va sempre disposta la confisca “delle cose

che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne

sono il prezzo, il prodotto o il profitto o che ne costituiscono l’impiego”.

Circa la natura giuridica l’obbligatorietà della confisca, a prescindere da

qualsiasi giudizio di pericolosità, induce la dottrina maggioritaria a

considerarla pena accessoria, avente come tale una funzione afflittiva e

generalpreventiva.

Servirono o furono destinati a commettere il reato tutti quei beni, mobili

o immobili, finalizzati alla struttura organizzativa, al metodo e alle

finalità associative.

123 Fornari L., Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, CEDAM, 1997, p. 19 ss.

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Costituiscono invece il prezzo, il prodotto, il profitto del reato di

associazione di tipo mafioso, tutti quei beni in cui si concretizzano le

varie utilità indebite conseguite dall’associazione attraverso l’uso della

forza intimidatrice e in funzione attuativa del suo programma criminoso.

Quello che però emerge quale significativo dato nuovo è la confiscabilità

delle cose che costituiscono l’“impiego” dei proventi del reato. La ratio

della novità tiene conto della vocazione imprenditoriale della mafia.

In tal senso, dal momento che gli utili di un’impresa mafiosa rientrano

già tra i profitti del reato associativo in esame, deve ritenersi che il

legislatore, riferendosi all’impiego del prezzo, del prodotto o del profitto,

abbia inteso estendere la confisca a qualsiasi reinvestimento successivo

dei profitti delittuosi, ed anche ai reinvestimenti degli stessi utili

dell’impresa mafiosa. La confisca si estende anche ai beni che facenti

materialmente capo ad una siffatta impresa sono “strumenti” del reato

associativo124.

124 Gialanella A., Il punto sulla questione probatoria nelle misure di prevenzione antimafia, in Questione Giustizia, 1994, p. 777 ss.

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4. Segue: la confisca penale obbligatoria dei valori ingiustificati prevista dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 e la sua applicabilità alle ricchezze mafiose “consolidate” Il limite della confisca penale prevista dal 7° comma dell’art. 416 bis

C.P. sta nella sua sostanziale incapacità di raggiungere e colpire quelle

fasce di economia criminale mafiosa ormai da tempo consolidate, di cui

risulti impossibile ricostruire in maniera documentata le trasformazioni

più remote e, quindi, l’origine ultima.

È su questo terreno che viene ad incidere efficacemente il meccanismo

normativo introdotto con l’art. 12 sexies del D.L. 8/6/1992, n. 306.

Questa norma, che risulta di importanza fondamentale nel contesto delle

legislazione antimafia finalizzata all’individuazione e sottrazione alla

disponibilità dei titolari dei patrimoni illeciti, va a colmare il vuoto

normativo creato dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 12

quinquies, 2° comma del D.L. 306/1992, originariamente concepito

come strumento di indagine di ausilio al Pubblico Ministero nel corso del

procedimento penale.

Prima dunque di esaminare la “confisca allargata” e le sue peculiari

caratteristiche si rende necessario un breve cenno al contesto normativo

da cui essa ha origine.

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L’art. 12 quinquies, espressione della piena consapevolezza legislativa in

ordine alle modalità con cui opera e alle forme in cui si estrinseca la

criminalità organizzata nel settore economico, segnerebbe secondo

alcuni il passaggio da un’impostazione tutta fondata su un concetto di

pericolosità soggettiva ad un’impostazione basata sulla pericolosità

oggettiva, vale a dire, sulla pericolosità del patrimonio, considerata in sé

e per sé. La norma, rappresentando un avanzamento ulteriore della sfera

di intervento penale, sancisce la punibilità a titolo delittuoso di chi risulti

semplicemente indagato e perciò, dunque, sospettato della commissione

di alcune fattispecie di reato, da ciò l’opinione che rimandi alla categoria

dei reati di sospetto.

Precisamente, sanziona con la reclusione da due a cinque anni e con la

confisca, la disponibilità in capo a soggetti indagati per gravi reati di

criminalità organizzata o sottoposti ad una misura di prevenzione

personale di “denaro, beni o altre utilità di valore sproporzionato al

proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria

attività economica, e dei quali non possano giustificare la legittima

provenienza”.

La maggiore perplessità riguarda la determinazione legislativa dei

soggetti attivi del reato, che, o sono sottoposti a procedimento penale e

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dunque titolari di una condizione transitoria che non legittima ancora

alcun apprezzamento in termini di disvalore, oppure sono “coloro nei cui

confronti è in corso di applicazione o comunque si procede per

l’applicazione di una misura di prevenzione personale”, le quali misure

notoriamente denotano un procedimento dotato di ben minori garanzie

rispetto al procedimento penale. Già solo questo è valso alla norma

l’accusa di violazione di importanti principi costituzionali, quali la

presunzione di non colpevolezza (di cui al 2° comma dell’art. 27 della

Costituzione) e il diritto di difesa (di cui all’art. 24 Cost.).

Probabilmente però oltre alle molte imperfezioni della norma alcune

ritrosie rispetto ad essa sono derivate dal fatto che tale fattispecie penale

si è rilevata priva di ogni profilo di offensività nei confronti di un

qualsivoglia bene giuridico. Come sostiene Fiandaca : “l’oggetto di

tutela deve essere suscettivo…di concretizzarsi in esemplari individuali

materialmente ledibili e capaci di ricadere, da un punto di vista fisico-

naturalistico, nel raggio d’azione della condotta pericolosa”.

Ma è evidente che, nell’ipotesi di interessi di tipo economico o politico,

come nel caso di specie, l’offesa si diluisce e si fa sfuggente. Quanto poi

all’interesse tutelato dalla norma solo un’ardita operazione interpretativa

potrebbe rinvenire nella piena trasparenza in materia economica una

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condizione necessaria per la tutela dell’ordine pubblico, il quale è bene

di tale importanza da poter al limite legittimare l’anticipazione della

sfera di tutela.

Tenuto conto di queste considerazioni non sorprende, perciò, che la

Corte Costituzionale con sentenza n. 48/1994, depositata il 17 febbraio

1994, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 quinquies, 2°

comma, limitandosi, tra i molti profili evidenziati, a riscontrare la

violazione dell’art. 27, 2° comma della Costituzione, facendo la

disposizione analizzata dipendere la realizzazione di un fatto penalmente

rilevante dalla circostanza che il suo autore sia o meno sottoposto a

procedimento penale125.

Il definitivo superamento della norma incriminatrice si verifica con

l’introduzione dell’art. 12 sexies, che introduce un’ipotesi di confisca

penale obbligatoria subordinata ad una avvenuta pronuncia di

responsabilità penale del soggetto interessato per determinati reati

particolarmente congeniali alla imprenditorialità criminale.

Condizione imprescindibile, dunque, perché si realizzi la confisca è che

sia intervenuto, a carico del soggetto passivo del provvedimento, tramite

125 Di Giovine O., Antichi schemi e nuove prospettive nella lotta alla criminalità organizzata. Dall’art. 708 C.P. all’art. 12 quinquies D.L. 8.6.1992, n. 306, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1994, I, p. 117 ss.

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sentenza di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti, un

accertamento della sua responsabilità penale per taluno dei reati-

presupposto tassativamente indicati dallo stesso art. 12 sexies. A questa

condizione: “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle

altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di

cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare

o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al

proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria

attività economica”.

La confisca, definita “allargata” perché consente di privare la persona

interessata di tutti i beni patrimoniali sproporzionati alla sua capacità

economica, anche in assenza di derivazione causale rispetto al reato

contestato, sembrerebbe per questo insensibile al criterio di

proporzionalità tra il fatto e la sua conseguenza sanzionatoria; in

aggiunta, l’onere di allegazione della legittima origine dei beni posto a

carico della difesa degenera in un vero e proprio onere della prova

invertito, del quale la dottrina sottolinea il contrasto con la presunzione

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di non colpevolezza e col cosiddetto diritto al silenzio dell’imputato o

dell’indagato126.

Difficile è anche la collocazione sistematica dell’istituto. La confisca

non è una misura di prevenzione, perché presupponendo un

accertamento giudiziale di un fatto criminoso manca del tratto

caratteristico delle misure di prevenzione, che è quello di ricorrere ante

delictum.

Parimenti rilevanti argomentazioni si frappongono alla possibilità di

considerare la figura in esame pena accessoria o misura di sicurezza. La

prima è tradizionalmente orientata ad interdire, in ragione del reato

commesso, dal compimento di determinate attività o prerogative

legittime di cui il reo abbia abusato; la misura, invece, di cui all’art. 12

sexies persegue la finalità di impedire un’attività di gestione perché

strumentale ad un sistema di riproduzione della ricchezza

inequivocabilmente illegittimo127. Quanto poi alla possibilità di

ricondurre l’istituto alle misure di sicurezza si ravviserebbe una forzatura

rispetto ad un carattere fondamentale delle stesse: “il fatto

commesso,…lungi dal fondare…un giudizio di pericolosità (personale o

126 Gialanella A., Prevenzione patrimoniale della mafia, utilitarismo versus garantismo, in Questione Giustizia, 2002, I, p. 667 ss. 127 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 63 ss.

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reale che sia), scolora all’interno della norma in esame nella mera

occasione di un intervento totalmente emancipato dai contorni

patrimoniali del fatto su cui verte il procedimento, per trarre piuttosto

giustificazione e limite di estensione dalla (mera) mancata dimostrazione

dell’origine lecita del patrimonio (come del resto avveniva con tutta

evidenza nell’art. 12 quinquies, 2° comma nel cui solco la nuova

disposizione dichiaratamente si pone). In questo quadro, non appare

fuori luogo ritenere che con l’introduzione dell’ipotesi particolare di

confisca ex art. 12 sexies, il legislatore italiano abbia inteso creare, sulla

scia del “modello tedesco”128, una vera e propria sanzione patrimoniale a

carattere schiettamente punitivo, in cui il sacrificio del diritto di proprietà

è di entità tendenzialmente ben superiore al guadagno ottenuto tramite il

reato-occasione”129. Come accennato, del tutto disagevole appare la

compatibilità sistematica di una simile misura con i principi di

colpevolezza, proporzione, determinatezza, uguaglianza, con il diritto di

proprietà come costituzionalmente tutelato e con la presunzione di non

colpevolezza.

128 Il riferimento è alla sanzione della Vermogensstrafe, inserita nell’ordinamento tedesco del 1992. 129 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 67-68.

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Focalizzate le argomentazioni ricorrenti con maggiore frequenza in

ordine alla natura giuridica della norma, occorre ora indagare le finalità e

le modalità applicative di essa.

La tendenza legislativa a svincolare l’applicazione delle misure

patrimoniali da quelle personali, sempre più marcata negli ultimi

decenni, risulta strumentale alla finalità di controllo della ricchezza

sospetta, che è utile non solo ad impedire l’inserimento di cespiti di

ricchezza in illeciti schemi di riproduzione di essa, ma anche per

supportare, attraverso le indagini patrimoniali, le inchieste giudiziarie sui

singoli reati. La funzionalità processuale, in particolare, risulta evidente

da una lettura complessiva della norma, che in relazione ai beni di cui è

ipotizzabile la confisca a seguito di condanna, prevede, nel corso delle

indagini preliminari relative ai reati-presupposto, la possibilità che siano

fatti oggetto di sequestro preventivo130.

Attraverso il sequestro preventivo il Pubblico Ministero, già nel corso

delle indagini preliminari relative a reati di criminalità organizzata o a

questa collegati, può aggredire con provvedimenti ablativi patrimoni che,

poiché di valore sproporzionato alle capacità economiche o reddituali del

soggetto, si presumono illecitamente costituiti. Non ricorrendo in capo al

130 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 71 ss.

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P.M. l’obbligo, proprio delle misure di prevenzione, di provare la

mafiosità del soggetto interessato o che quest’ultimo vive abitualmente

coi proventi di determinati delitti, l’applicabilità del sequestro di cui al

4° comma dell’art. 12 sexies è unicamente subordinata alla sussistenza

della qualità di persona sottoposta ad indagini per i reati indicati e alla

confiscabilità dei beni, circostanza questa che offre alla pubblica accusa

un ulteriore e importante strumento di intervento.

Il controllo, infatti, dei patrimoni illecitamente costituiti, che vengono

così sottratti ad occultamenti e fittizie intestazioni, si rivela sovente

prezioso nei processi di mafia, perché consente una ricostruzione a

ritroso, che parte appunto dai beni, delle modalità di acquisizione e di

accumulazione dei patrimoni. Dunque, la circostanza che il patrimonio

sia a disposizione degli inquirenti non solo può consentire un riscontro

probatorio in relazione al reato-occasione, ma può anche fare emergere

reati rimasti nascosti131.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono occupate dell’art. 12

sexies in due distinte occasioni. Le due pronunce relative, la sentenza

Derouach132 del 2001 e quella Montella133 del 2004, hanno attribuito alla

131 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 80 ss. 132 Cass., SS.UU., 30.05.2001 133 Cass., SS.UU., 17.12.2003

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confisca dei valori ingiustificati la natura giuridica di una “misura di

sicurezza patrimoniale dai connotati atipici”.

In queste due sentenze le Sezioni Unite hanno enunciato i seguenti

principi:

• La confisca dei valori ingiustificati può essere disposta anche dal

giudice dell’esecuzione.

• Essendo irrilevante il requisito della pertinenzialità del bene

rispetto al reato per cui si è proceduto, la confisca dei singoli beni

non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca

anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna, o

che il loro valore superi il provento del medesimo reato.

• Ai fini della “sproporzione” è necessario che i termini di raffronto

dello squilibrio siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività

economiche “non al momento della misura rispetto a tutti i beni

presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei

beni di volta in volta acquisiti”, mentre la “giustificazione”

credibile deve consistere “nella prova della positiva liceità della

loro provenienza e non in quella negativa della loro non

provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna”.

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• Le condizioni per disporre il sequestro preventivo consistono,

quanto al fumus commissi delicti, nell’astratta configurabilità, nel

fatto attribuito all’indagato, di una delle ipotesi criminose elencate

nell’art. 12 sexies; mentre, per quanto attiene al periculum in

mora, “coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene” le

condizioni per disporre il sequestro consistono “nella presenza di

seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano

la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei

beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia

per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita

provenienza dei beni stessi.

5. Segue: la confisca come misura di prevenzione patrimoniale

Consente di pervenire ai medesimi risultati perseguiti attraverso

l’applicazione dell’art. 12 sexies del Decreto Legge 306/1992, ma

partendo da diversi presupposti e fornendo ben minori garanzie, il

sistema delle misure di prevenzione patrimoniali.

Tale sistema, incentrato sulla Legge 31.5.1965, n. 575, modificata dalla

L. 13.9.1982, n. 646 e da successivi interventi normativi, permette di

realizzare il sequestro e la successiva confisca dei beni di sospetta

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origine illecita riconducibili a soggetti indiziati di appartenere ad

associazioni di tipo mafioso.

Il sequestro preventivo “extra-processuale”, sostanzialmente alternativo

a quello processuale previsto dall’art. 321 C.P., puo’ risultare, se

promosso in parallelo al procedimento penale per associazione di tipo

mafioso, utile strumento di supporto nelle indagini concernenti le fasce

di economia criminale consolidata. Promosso, dunque, il procedimento

penale, a norma degli articoli 2 bis e 2 ter della L. 575/1965, il Pubblico

Ministero è in grado di ottenere immediatamente e agevolmente,

nell’ambito del separato procedimento di prevenzione, il sequestro dei

beni sospetti di cui dispongano direttamente o indirettamente gli

indagati. In particolare il sequestro dei beni è previsto quando: “il loro

valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività

economica svolta ovvero quando, sulla basse di sufficienti indizi, si ha

motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne

costituiscano il reimpiego”. Peraltro, nel parallelo procedimento di

prevenzione, il P.M., qualora sospetti che i beni oggetto di sequestro

siano parti di economia criminale consolidata, può ottenere la confisca

“extra-processuale” dei suddetti beni, sempre che i soggetti interessati,

su cui grava l’onere della prova, non siano in grado di dimostrarne la

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legittima provenienza e a prescindere, quindi, da qualsiasi pronuncia di

responsabilità penale, richiesta invece per la confisca di cui all’art. 12

sexies.

Nel caso in cui, però, all’esito del processo penale i medesimi cespiti di

ricchezza sottoposti a confisca extra-processuale nel procedimento di

prevenzione, vengano confiscati anche in sede penale134, la confisca

penale, come prevede l’ultimo comma dell’art. 2 ter, è comunque

destinata ad avere il sopravvento.

In conclusione, se il sequestro preventivo extra-processuale promosso

parallelamente al procedimento penale risulta agile provvedimento

ablativo, strumentale alla conseguente indagine patrimoniale, di grande

efficacia perché basato su un regime probatorio semplificato rispetto a

quello del sistema penale, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda il

ricorso alla confisca extra-processuale, che, trovando attuazione rispetto

a soggetti che sono solo indagati o imputati, presenta minori garanzie di

tutela rispetto all’art. 12 sexies135.

134 A norma dell’art. 240 C.P. o dell’art. 416 bis C.P., ovvero anche a norma dell’art. 12 sexies del D.L. 306/1992. 135 Gialanella A., Dall’indiziato di mafia alla pericolosità del patrimonio, in Questione Giustizia, 2000, p. 1062 ss.

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6. La sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni nella Legge n. 575/1965: gli artt. 3 quater e quinquies Individuata la “compresenza di due binari di intervento paralleli”, uno

integralmente penale e l’altro allargato, Fornari ravvisa l’esistenza di

sistemi di controllo che, sempre con riferimento alle misure reali, si

presentano in larga misura autonomi, e che costituiscono “il punto di

arrivo di una evoluzione normativa di rara tortuosità, in cui può però

ravvisarsi il segno di una aspirazione costante e ben precisa: quella di

chiudere ogni varco alla fruizione da parte delle criminalità organizzata

delle fasce di ricchezza consolidata inattingibili dalla confisca-misura di

sicurezza”136. In vista di tale obiettivo l’autore auspica che si accentui il

ricorso ad interventi preventivi sui patrimoni illeciti, tendenza

manifestatasi già con gli articoli 3 quater e 3 quinquies, introdotti

dall’articolo 24 del D.L. 8.6.1992, n. 306 nel corpo della L. 575/1965.

La mancanza del normale nesso di presupposizione tra le misure

personali e quelle patrimoniali di prevenzione è in queste norme quanto

mai evidente. Il sistema di controllo dei patrimoni mafiosi predisposto da

queste disposizioni presenta un aspetto assolutamente nuovo: ciò che

rileva non è ricostruire l’origine di ricchezze statiche, attraverso indagini

che muovono dal soggetto, ma circoscrivere il campo di indagine

136 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 83-85.

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secondo un criterio diverso, che è quello dell’utilità prestata ad interessi

criminali. Oggetto dell’intervento preventivo è direttamente l’attività

economica che si suppone inserita in un circuito illegale137.

Il primo comma dell’art. 3 quater della Legge 575/1965 contempla la

fattispecie in cui, a seguito degli accertamenti svolti ai sensi dell’art. 2

bis della medesima legge o per “verificare i pericoli di infiltrazione da

parte della delinquenza di tipo mafioso”, ricorrano “sufficienti indizi”

per ritenere che l’esercizio di determinate “attività economiche,

comprese quelle imprenditoriali, sia, anche indirettamente, sottoposto

alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’art.

416 bis del Codice Penale o possa, comunque, agevolare l’attività di

persone nei cui confronti sia stata proposta o applicata una misura di

prevenzione personale ai sensi dell’art. 2 della legge citata ovvero di

persone sottoposte a procedimento penale”, per taluno dei delitti previsti

dagli articoli 416 bis, 529, 630, 644, 648 bis e 648 ter del Codice Penale

senza che nei confronti del soggetto che esercita le attività economiche

ora dette ricorrano i presupposti per l’applicazione delle misure di

prevenzione di cui all’art. 2.

137 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 72-75.

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In tale fattispecie la norma citata prevede che il procuratore della

Repubblica o il questore possano chiedere al tribunale competente per

l’applicazione delle misure di prevenzione, di disporre ulteriori indagini

e verifiche sulle predette attività economiche, oltre che l’obbligo, a

carico di chi abbia la proprietà o, comunque, la disponibilità di beni o

altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria

capacità economica, di giustificarne la legittima provenienza. Il fine di

tali indagini è quello di raccogliere “sufficienti elementi” per ritenere che

il libero esercizio di queste attività economiche agevoli le attività

criminali delle persone che versano nelle condizioni processuali

suindicate. Questo complesso dimostrativo consente al tribunale di

adottare la sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni

utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento di dette

attività economiche. Inoltre, quando vi sia concreto pericolo che i beni

sottoposti alla sospensione temporanea dell’amministrazione “vengano

dispersi, sottratti o alienati”, il procuratore della Repubblica o il questore

possono chiedere al tribunale di disporne il sequestro.

L’art. 3 quinquies, II°, III° e IV° comma della Legge 575/1965,

definisce, quindi, i possibili ed alternativi esiti del procedimento: la

confisca di quelli, tra i suddetti beni, che si abbia “motivo di ritenere che

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siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”; ovvero la

revoca della sospensione disposta. In tale ultimo caso la confisca

obbligatoria colpisce anche i beni acquistati e i pagamenti ricevuti nel

quadro di un’amministrazione “sorvegliata”, quando sia stato violato

l’obbligo di comunicare, al questore o alla polizia tributaria gli atti e le

circostanze ad essi relativi138.

L’obiettivo perseguito dal Legislatore mediante la predisposizione

dell’istituto di cui all’art. 3 quater è quello di realizzare una sorta di

cordone di sicurezza attorno ai soggetti appartenenti ad organizzazioni

mafiose al fine di colpire alla radice le fonti di approvvigionamento e di

incremento patrimoniale; tuttavia la non semplice formulazione della

norma richiede chiarificazioni di natura interpretativa e sistematica.

In questo senso di rilievo risultano le impostazioni di Fornari e di

Mangione.

L’approccio “oggettivistico”, proprio delle misure di prevenzione

patrimoniale di cui all’art. 3 quater e 3 quinquies, e funzionale alla

realizzazione del controllo della ricchezza mafiosa, è assolutamente

oggetto di positiva valutazione e di una conseguente promozione da

parte di Fornari.

138 Giglio V., La sospensione dell’amministrazione di beni per agevolazione di attività mafiose: uno strumento da rivedere, in Questione Giustizia, 1999, p. 936 ss.

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Una strategia di intervento efficace in vista della individuazione ed

emersione dei patrimoni illeciti mafiosi impone che l’indagine venga

svincolata dai limiti operativi del processo penale, che risulta perciò uno

ma non l’unico mezzo di contrasto del crimine organizzato. Il motivo è

che nel processo penale l’intervento di natura patrimoniale è conseguente

alla individuazione della responsabilità penale del soggetto interessato; il

sistema delle misure di prevenzione, invece, legittima un intervento

diretto sul patrimonio, che ha quale unico presupposto il sospetto

dell’illecita origine e/o destinazione dello stesso. L’osservanza di un

obbligo generale di trasparenza patrimoniale, da tempo affermatosi

nell’ordinamento tributario, spiega i presupposti di operatività delle

misure patrimoniali antimafia e supera l’idea che esse servano ad

aggirare vincoli probatori insuperabili in sede penale. Per queste ragioni

l’Autore auspica l’accentuazione del taglio spiccatamente preventivo

degli interventi sul patrimonio “che privilegino l’incidenza,

possibilmente tempestiva, su realtà economiche che, già ad una

considerazione oggettiva, si pongono al di fuori, per la funzione da esse

svolta, dell’area di fruibilità delle garanzie costituzionali di cui all’art. 41

della Costituzione”.

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Alcune critiche vengono inoltre mosse ad un’interpretazione degli

articoli 3 quater e 3 quinquies diffusa in dottrina all’indomani della

genesi del nuovo istituto, compendiata nel pensiero di Mangione, e a

giudizio di Fornari non rispondente ai meccanismi operativi delle norme.

La tesi cui si replica è quella secondo cui, quanto ai profili soggettivi

della fattispecie, il legislatore sarebbe ricorso ad una tecnica di

“tipizzazione ambientale” troppo distante dalla soglia di effettive

responsabilità penali, ed avrebbe inoltre proceduto ad una irragionevole

“equiparazione tra vittima e colluso”, in funzione della quale entrambi

finiscono con l’essere assoggettati al “medesimo trattamento giuridico”,

fondato su un giudizio di “pericolosità reale” che omologa realtà

soggettive del tutto diverse.

Fornari così argomenta: poiché l’obiettivo indicato dallo stesso art. 3

quater è reagire ai “pericoli di infiltrazione da parte della delinquenza di

tipo mafioso”, una volta individuata una realtà economica che agevola la

realizzazione degli interessi di quella, al fine di ripristinare le normali

dinamiche economiche, è opportuno procedere alla sospensione

dell’amministrazione dei beni, sia nel caso dell’imprenditore colluso sia

in quello dell’imprenditore vittima. A questo punto, tuttavia, l’alternativa

tra confisca e revoca indicata dall’art. 3 quinquies è opportunamente

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prevista al fine di diversificare il trattamento delle imprese che traggono

vantaggi economici dalla collaborazione da quelle assoggettate ai

sodalizi mafiosi. Alle prime si applicherà la confisca dei beni “che si ha

motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il

reimpiego”, alle seconde la revoca dell’amministrazione provvisoria.

Il Legislatore, perciò, lungi dal procedere a confische indiscriminate,

prevede una diretta intromissione statale nella gestione dell’impresa al

solo scopo di eliminarne gli aspetti più compromessi.

In conclusione, la categoria delle misure patrimoniali, benché di grande

utilità in vista del controllo dell’economia criminale, presenta

nondimeno gravi limiti strutturali che non le consentono di cogliere gli

aspetti dinamici della circolazione dei capitali. La circostanza che le

misure in questione intervengano unicamente su nuclei economici statici,

palesa la necessità di fare “ricorso ad un sistema di tutela del mercato

finanziario che ne garantisca la trasparenza in tutte le fasi della

circolazione dei capitali”, con particolare attenzione alle operazioni

sospette di riciclaggio139.

Una totalmente diversa impostazione delle questioni che interessano le

misure di prevenzione patrimoniali fa capo a Mangione.

139 Fornari L., Criminalità del profitto…, cit., p. 235-246.

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La sua critica delle misure di prevenzione investe sia i presupposti

soggettivi, quali gli indizi di appartenenza ad associazioni di tipo

mafioso e la conseguente pericolosità sociale, sia quelli oggettivi, quali

gli indizi dell’illecita provenienza del patrimonio. Secondo l’Autore

nella prevenzione antimafia la figura dell’indiziato di mafia è stata

costruita ipotizzando una simbiosi tra colpevolezza e pericolosità, di

modo che la fattispecie preventiva e quella di reato sono distinte soltanto

dalla diversa valenza probatoria richiesta, dal che discende

clamorosamente che la misura di prevenzione è diretta a colpire quei fatti

che l’accusa non è in grado di provare, ossia che il sistema giuridico

tollera che il sospetto, le illazioni e le mere presunzioni possano

legittimare l’applicazione di misure essenzialmente afflittive.

Per i requisiti oggettivi, la disponibilità diretta o indiretta del bene

costituisce lo strumento per penetrare nei segreti economici e finanziari

della criminalità organizzata ed aggredirne le ricchezze illecite.

Il meccanismo operativo, che annovera tra i suoi strumenti più discutibili

la confisca antimafia, ha aspetti di profonda ingiustizia, in quanto

sacrifica sistematicamente alla difesa sociale ampie fasce di interessi e di

diritti soggettivi meritevoli di tutela.

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In effetti il sistema delle cosiddette misure ante delictum, che

sostanzialmente poggia su finzioni giuridiche, quale appunto la

pericolosità, persegue l’obiettivo di “incapacitare”, sia dal punto di vista

patrimoniale che da quello personale, particolari categorie di soggetti.

Tali misure infatti incidono pesantemente oltre che sulla libertà di

iniziativa economica, anche sulla tutela del lavoro (art. 35 Cost.) e della

famiglia (art. 31 Cost.), ostacolando seriamente il libero estrinsecarsi

della personalità umana, sia nella sua singolarità che in tutte le

formazioni sociali a cui partecipa (artt. 2 e 3 Cost.). Il sacrificio di beni

costituzionalmente tutelati dovrebbe, però, presupporre un accertamento

di responsabilità penale. Questo non solo richiede un consistente

materiale probatorio ma presuppone anche la violazione di un bene

tutelato a livello costituzionale. Diversamente, l’attuazione delle misure

di prevenzione non prevede affatto queste garanzie, oltre a realizzare un

carico afflittivo non proporzionato ai presupposti applicativi.

Alla luce di queste osservazioni generali le critiche di Mangione

diventano ancora più incisive allorquando si tratta di esaminare lo

schema adottato dal legislatore negli articoli 3 quater e 3 quinquies.

In essi la qualità indiziante, di regola richiesta per l’applicazione delle

misure di prevenzione del sequestro e della confisca di cui all’art. 2 ter

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L. 575/1965, non ricade neanche sul destinatario della misura.

L’obbiettivo di incidere nel sottobosco della “contiguità” tra mafia e

impresa spinge a prescindere volutamente da un giudizio di pericolosità

personale, così violando il primo comma dell’art. 27 della Costituzione.

Per questa ragione si estende in maniera eccessiva l’ambito di

applicazione della misura; si fa dipendere l’applicazione di essa dalla

qualifica del terzo che, lungi dall’essere stato colpito da una sentenza di

condanna, è ancora solo sottoposto o proposto per l’applicazione di una

misura di prevenzione, ovvero indagato o imputato per l’applicazione di

alcuni gravi delitti; infine, l’estremo della “sproporzione” tra reddito e

patrimonio, riferendosi al presunto colluso, non esprime alcun

collegamento causale con la presunta origine illecita facendo apparire

inammissibile e inutile “l’obbligo di giustificazione”.

Numerosi sono soprattutto i profili di incostituzionalità che Mangione

ravvisa negli articoli 3 quater e 3 quinquies.

Innanzitutto, e con ciò come ribadito discostandosi da Fornari, ritenendo

che il legislatore abbia previsto il medesimo trattamento giuridico per le

due ipotesi nettamente distinte di vittima e di colluso, assume violato il

principio di uguaglianza. Del resto la stessa Corte Costituzionale nella

sentenza n. 487/1995 segue un’impostazione fuorviante allorquando,

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concentrando l’attenzione sul solo provvedimento ablativo finale,

ravvisa la diversità di trattamento nel fatto che questo si applichi solo al

caso in cui l’interessato non riesca a dimostrare l’origine lecita dei beni

di cui è sospesa l’amministrazione, con ciò trascurando che già la

sospensione e/o il sequestro viola principi costituzionali.

Anche l’istituto dell’inversione dell’onere della prova non è esente da

accuse di illegittimità costituzionale. L’interessato innanzi agli indizi

contestati deve dimostrare la legittimità delle proprie possidenze laddove

intenda ottenere la revoca della sospensione e/o del sequestro, poiché nel

caso contrario andrà incontro alla confisca. Tuttavia, nella prassi,

l’insufficienza dell’allegazione difensiva del soggetto fa si che il

complesso di indizi rilevanti ai fini della sospensione sia sufficiente ad

emanare il provvedimento di confisca. Poiché però i provvedimenti

definitivi, e quindi anche la confisca, necessitano di un grado di certezza

probatoria assimilabile alla prova vera e propria, si assumono violati

l’art. 3 e l’art. 24 della Costituzione.

Da ultimo, quanto al principio di legalità, pur potendo accogliere la

distinzione tra “legalità repressiva” e “legalità preventiva” e pur potendo

riconoscere che la tipizzazione di una fattispecie di sospetto presenta

difficoltà superiori a quelle che si pongono in tema di incriminazione,

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l’Autore ritiene che tutto questo non possa legittimare una deroga a

siffatto principio. La sua ratio garantista si collega intimamente al

primato della persona umana come “valore etico” in sé, non

strumentalizzabile per alcuna finalità di politica criminale. Per queste

ragioni Mangione auspica che, nel campo delle misure di prevenzione, si

faccia ricorso a tecniche di normazione che impongano la necessità

dell’accertamento della “concretezza della pericolosità” e “l’univocità

delle condotte sintomatiche”140.

7. Il sistema degli appalti

Nell’ambito della logica imprenditoriale mafiosa volta alla gestione

monopolistica di attività economiche, una rilevante e fondamentale

funzione è rivestita dal controllo di determinati atti e procedimenti

amministrativi tra cui senza dubbio spiccano gli appalti pubblici141.

In tale settore, infatti, la capacità di pressione e l’influenza che gli

associati all’organizzazione criminale riescono ad esercitare sugli organi

amministrativi competenti è ingente; tale condizione si attua attraverso

140 Mangione A., La ‹‹contiguità›› alla mafia fra ‹‹prevenzione›› e ‹‹repressione››: tecniche normative e categorie dogmatiche, in Riv. It. di Dir. e Proc. Penale, 1996, p. 705 ss. 141 Con il contratto di appalto, una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro (art. 1655 ss. c.c.). Si distinguono quindi gli appalti di opere dagli appalti di sevizi.

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condotte complesse fondate sull’utilizzo degli “strumenti”

dell’intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà142.

Attualmente, in attuazione delle Direttive comunitarie 2004/17/CE e

2004/18/CE, relative al coordinamento complessivo della materia dei

pubblici contratti, la disciplina delle concessioni, degli appalti e dei

servizi pubblici è stata compendiata in maniera completa nel cosiddetto

“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”143.

Questo nuovo testo normativo, entrato in vigore il 1° luglio 2006, è però

evidentemente troppo recente perché si possano trarre dei dati certi o

delle ragionevoli previsioni circa i risultati positivi che potranno

concretizzarsi avverso le condotte illegali delle organizzazioni

mafiose144. Tali condotte costituiscono il cosiddetto “metodo mafioso”

che si consacra in elementi che la giurisprudenza della Suprema Corte

distingue in essenziali ed eventuali.145

142 L’associazione mafiosa è dunque in grado di operare attraverso l’utilizzo di due diverse ma strettamente connesse modalità: la commissione di illeciti penali, nonché quella di illeciti amministrativi. Così facendo l’organizzazione acquisisce sostanzialmente sia un potere di strumentalizzazione che un potere di evitare le conseguenti sanzioni. 143 Il nuovo Codice, oltre ad innovare la materia in oggetto, trasforma la precedente Autorità preposta al controllo di questo settore in Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ampliandone i poteri. In merito si veda: Borraccetti V., Gli aspetti di rilevanza penale, in Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Santarcangelo di Romagna, 2007, p. 399 ss. 144 Turone G., Il delitto…, cit., p. 226 ss. 145 Cass., sez. V, sent. 4893 del 20.04.2000

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Sono elementi essenziali: la forza intimidatrice, la condizione di

assoggettamento e l’atteggiamento omertoso; sono elementi eventuali: la

violenza e la minaccia.

Come già accennato, gli appalti di opere pubbliche sono quelli

normalmente presi di mira dalle imprese mafiose operanti nel settore

edilizio che incentrano il proprio interesse non soltanto verso quelle

opere destinate a divenire oggetto di proprietà pubblica, ma tutte quelle

che riguardano comunque la pubblica amministrazione e si collegano

all’utilizzo di denaro pubblico146.

Le imprese mafiose (caratterizzate dall’intera compenetrazione

dell’organizzazione criminale nel capitale sociale della società che

gestisce l’impresa) e quelle contigue al sodalizio mafioso (la cui

agevolazione agli scopi mafio-economici di gestione del settore

d’interesse conduce sostanzialmente alla strumentalizzazione di imprese

originariamente pulite da parte dell’organizzazione criminale) finiscono

sostanzialmente per influire sulla regolarità del procedimento

amministrativo previsto per i pubblici appalti147, e perseguire così il loro

illegale accaparramento.

146 In realtà, un’impresa mafiosa operante su un dato territorio in regime quasi di monopolio può accaparrarsi, applicando i metodi che le sono propri, sia gli appalti privati che quelli pubblici. 147 Atto di approvazione del progetto, avvisi d’asta, approvazione del contratto e così via.

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Volendo prendere a titolo esemplificativo il contesto venutosi a creare in

Sicilia148, è significativo osservare come al preesistente sistema di illecita

lottizzazione spartitoria degli appalti pubblici (1980/1990), dominato (in

maniera ugualmente illegittima) esclusivamente da gruppi

imprenditoriali, esponenti politici e pubblici funzionari costituenti i

cosiddetti “comitati d’affari”, sia si sostituito il complesso sistema

mafioso di Cosa Nostra.

Uno degli obiettivi di Cosa Nostra è quello di intervenire,

condizionandolo, sul settore economico ed imprenditoriale della società

civile. L’associazione penetra il tessuto sociale ed economico del

territorio nel quale agisce, avvalendosi, a tal fine, anche del contributo di

soggetti che, pur se non formalmente inseriti nella stessa, sono

comunque disponibili a svolgere compiti di importanza vitale per

l’associazione149.

Dopo la guerra di mafia del 1981 conclusasi con lo strapotere dei

“corleonesi”, non solo si pose fine al cosiddetto principio della

territorialità, in forza del quale ogni famiglia esercitava un controllo

148 Certamente non meno insidiosi sono i sistemi di condizionamento venutisi a creare in Calabria e Campania. 149 Lembo C., Coordinamento investigativo e cooperazione istituzionale: nuove prospettive della lotta alla criminalità organizzata nel settore dei lavori pubblici, in AA.VV., Il coordinamento delle indagini di criminalità organizzata e terrorismo, a cura di G. Melillo, A. Spataro, P.L. Vigna, Milano, 2004, p. 335 ss.

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pressoché assoluto su tutte le attività lecite ed illecite che si svolgevano

nel territorio di sua pertinenza, ma si compì anche la definitiva erosione

del potere dei comitati d’affari politico-imprenditoriali esterni a Cosa

Nostra.

Il cosiddetto “metodo Siino” (originariamente proposto dall’esponente di

Cosa Nostra Angelo Siino), noto anche come metodo della “rotazione

programmata” ovvero del “tavolino”, viene fatto proprio dal vertice

dell’organizzazione e sperimentato dapprima in ambito ristretto, ma

successivamente si trasforma in sistema globale di controllo verticale

degli appalti pubblici sull’intero territorio siciliano ponendo in essere

una sostanziale soppressione del regime di libera concorrenza.

In sostanza, dopo che il vertice di Cosa Nostra seleziona a monte gli

appalti pubblici sui quali intervenire, e dopo che i cosiddetti

“imprenditori interfaccia” seguono l’appalto nella fase del

finanziamento150, si passa alla fase operativa.

Attraverso il sistema di rotazione programmata, tutte le imprese

sottoposte alla regia dell’organizzazione hanno la garanzia di ottenere a

turno l’aggiudicazione di appalti pubblici, offrendo il minimo ribasso. Si

150 Tale controllo avviene concretamente attraverso l’intrattenimento da parte degli stessi “imprenditori interfaccia” di rapporti personali con quegli esponenti del modo politico e delle Pubbliche Amministrazioni interessate che svolgono un ruolo ai fini dell’approvazione e dell’erogazione del finanziamento.

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tratta insomma di stabilire anticipatamente quali imprenditori dovranno

astenersi dalla gara prescelta, nonché di decidere quale ribasso dovrà

proporre ciascuna delle imprese partecipanti, così garantendo

l’aggiudicazione dell’appalto secondo lo schema predeterminato151.

Essenziale è poi evidenziare che le suddette tecniche di manipolazione

hanno modalità che variano a seconda del tipo di gara.

Nelle gare d’appalto svolte attraverso licitazione privata, ad esempio, la

manipolazione avviene mediante la preventiva determinazione dei ribassi

che ciascuna impresa deve indicare nella sua offerta. In alcune gare

vengono poi predisposti dei bandi che, mediante accorte “griglie di

sbarramento”, circoscrivono il numero delle imprese abilitate a

partecipare.

Solitamente gli imprenditori preselezionati riescono a raggiungere

l’intesa con gli altri imprenditori152 senza alcuna necessità di interventi

diretti di Cosa Nostra, in quanto questi ultimi ben sanno che esiste un

sistema di turnazione e che, comunque, l’impresa che chiede alle altre il

“pass” (cioè l’astensione dal partecipare alla gara o la partecipazione

presentando offerte di appoggio) ha avuto a monte la garanzia

151 Turone G., Il delitto…, cit., p. 243. 152 L’intesa concerne il comportamento da seguire in merito alla eventuale astensione dalla partecipazione e anche l’indicazione del ribasso da parte di ciascuna impresa partecipante.

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dell’aggiudicazione dell’appalto impegnandosi a pagare una tangente al

referente dell’organizzazione mafiosa, il quale poi provvede direttamente

a distribuire le relative quote di spettanza dei politici, dei pubblici

amministratori, della famiglia del luogo in cui devono eseguirsi i lavori e

dell’organizzazione in generale153.

Il volto mafioso dell’organizzazione emerge in modo inequivocabile nei

momenti di “crisi”, cioè nei casi in cui occorre ricondurre al rispetto

delle “regole” imprenditori che non si adeguano al contesto in atti154.

L’esclusione dalla gara si ottiene attraverso l’intervento dei referenti

territoriali dell’organizzazione, attraverso la sottrazione fraudolenta di

documenti o, in casi estremi, mediante il ricorso all’assassinio155.

Tale più marcato condizionamento si attua anche nei casi in cui

l’aggiudicazione dell’appalto vada ad una impresa diversa da quella

“prescelta”. In tale circostanza, infatti, l’impresa può essere costretta: a

versare l’intero margine del suo guadagno all’impresa predestinata; a

corrispondere l’equivalente della tangente da questa anticipata o a cedere

153 Poiché gli accordi vengono “chiusi” direttamente dall’impresa designata, le altre imprese in gara possono quindi anche restare all’oscuro del fatto che l’impresa predestinata ad aggiudicarsi l’appalto sia stata selezionata da Cosa Nostra, e ritenere che abbia invece soltanto trattato l’aggiudicazione dell’appalto direttamente con i politici erogatori del finanziamento. 154 Aliquò V., Mafia, appalti, processo penale – In attesa di nuove vie per la legalità, in www.appinter.it. 155 Accrescendo, in tal modo, la forza intimidatrice dell’organizzazione.

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parte del guadagno mediante subappalti a imprese mafiose e acquisti di

forniture dalle stesse156.

E’ evidente dunque che in tutto il descritto sistema è prioritario solo ed

esclusivamente l’interesse mafioso.

Tale interesse primeggia anche nella fase di esecuzione dei lavori e si

concretizza nel sopra visto obiettivo più immediato di lucrare tangenti,

collocare manodopera nei subappalti e far acquisire le forniture dalle

“ditte amiche”; ma anche nell’obiettivo più generale di controllare gli

aspetti essenziali della vita politica ed economica del territorio. Ciò vale,

senza dubbio, per tutte le “organizzazioni” operanti in Italia e non solo

per la mafia siciliana.

Il sistema, infine, si diversifica in tre differenti tipologie di appalti:

gestiti da Cosa Nostra; gestiti da imprenditori; gestiti da imprenditori con

richiesta di intervento a Cosa Nostra.

Nella prima tipologia, gli imprenditori si limitano a seguire le direttive

impartite dagli emissari dell’organizzazione mafiosa senza stabilire

rapporti con i politici e i pubblici amministratori percettori delle tangenti.

Gli importi globali delle tangenti, comprendenti le quote di pertinenza

156 Lembo C., Coordinamento investigativo…, cit., p. 340 ss.

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dei politici e di Cosa Nostra, vengono versate direttamente ai referenti

che provvedono poi alla ripartizione interna delle varie quote.

Invece, nella seconda tipologia di appalti, gli imprenditori, dopo avere

ottenuto dai loro referenti politici e amministrativi l’erogazione del

finanziamento dell’opera pubblica da appaltare, operano autonomamente

in modo da pilotare l’aggiudicazione dell’appalto a loro favore mediante

accordi collusivi con i politici, con i pubblici amministratori (redazione

di bandi di gara con particolari griglie di sbarramento, comunicazione di

informazioni riservate, favoritismi in sede di valutazione tecnico-

discrezionale di progetti di miglioramento tecnico, etc.), e con le altre

imprese, alle quali viene chiesto di non partecipare alla gara o di

presentare offerte concordate di appoggio. Le tangenti vengono poi

pagate al momento dell’erogazione del finanziamento e/o al momento

dell’aggiudicazione della gara.

In questi casi il rapporto con Cosa Nostra viene instaurato solo nella fase

di esecuzione dei lavori, nella forma del pagamento di tangenti e della

concessione di subappalti ad esponenti delle famiglie mafiose del luogo

di esecuzione157.

157 Uno degli strumenti più efficaci adottati dalla sistema mafioso per entrare nella gestione degli appalti è stata storicamente l’imposizione dei subappalti, soprattutto in forma occulta, imponendo alle imprese appaltatrici dei grandi lavori pubblici la presenza di piccole imprese operanti in tutti quei settori che, non necessitando di specifiche competenze tecniche e progettuali, consentono

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Infine, la terza ipotesi considerata si sostanzia in una variante di quella

appena descritta e si verifica nel caso in cui l’impresa che ha gestito

direttamente con i politici l’aggiudicazione dell’appalto a suo favore, si

trovi in difficoltà in quanto non riesce a coordinare e controllare il

comportamento di altre imprese concorrenti che si rifiutano di concedere

il “pass”.

In tale ipotesi viene richiesto l’intervento dei referenti territoriali di Cosa

Nostra, i quali rimuovono l’ostacolo utilizzando metodologie mafiose158.

Dopo l’analisi di ciò che rappresenta e di ciò che realmente è questo

“sistema” messo in atto dall’organizzazione mafiosa, è opportuno tornare

brevemente al sopra citato “Codice dei contratti pubblici” (D.Lgs. 12

aprile 2006, n. 163).

La struttura di questa norma possiede in se un excursus di elementi

positivi che vanno dall’enunciazione, nell’art. 2, dei principi da

rispettarsi nello svolgimento dell’appalto (principi di economicità,

l’inserimento di imprese ditate soltanto di beni strumentali minimi e di semplice manodopera. Si è così determinata la crescita imprenditoriale delle imprese subappaltatrici legate all’organizzazione criminale. In merito si veda: Aliquò V., Mafia…, cit. 158 E’ necessario aggiungere che le tipiche condotte poste in essere dai membri di un sodalizio mafioso al fine di condizionare i pubblici appalti comporteranno sempre anche l’incriminazione per il reato specifico di “turbata libertà degli incanti” (ex art. 353 c.p. ed aggravato ex art. 7 del D.L. 152/1991). Esse potranno altresì comportare, eventualmente, l’incriminazione per l’ulteriore reato di “illecita concorrenza con minaccia o violenza” (ex art. 513 bis c.p., con la medesima aggravante). Riguardo le posizioni giuridiche di imprenditori, pubblici amministratori e politici variamente coinvolti nel condizionamento mafioso di appalti, esse potranno consistere nella contestazione anche a costoro del reato associativo (sia in termini di “partecipazione” che di “concorso esterno”).

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efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza, parità di

trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e

pubblicità), fino alla determinazione delle procedure di monitoraggio per

la prevenzione e repressione di tentativi di infiltrazione mafiosa prevista

dall’art. 180.

Di primaria importanza sono anche la particolareggiata disciplina delle

procedure di affidamento contenuta negli articoli dal 34 al 52, nonché le

statuizioni riguardanti i criteri di selezione delle offerte indicati negli

articoli dall’81 all’89.

Essenziali sono infine le prescrizioni rispetto alla normativa antimafia ed

alla prevenzione e repressione della criminalità, rispettivamente

contenute negli articoli 116 e 176159.

Vi è dunque una ragionevole prospettiva che il nuovo testo normativo

possa rendere quanto meno più difficoltoso il controllo degli appalti da

parte delle organizzazioni mafiose160, garantendo trasparenza, corretta

gestione e particolari forme di pubblicità. Tutto ciò nella consapevolezza

degli ostacoli e delle difficoltà connaturate alla complessità del “sistema”

e del “metodo” caratterizzanti la mafia, e fin qui descritti161.

159 Borraccetti V., Gli aspetti…, cit., p. 399 ss. 160 Tutte le organizzazioni mafiose, non solo quelle siciliane. 161 Turone G., Il delitto…, cit., p. 236 ss.

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A dir poco pertinente è in proposito la massima dell’ordinanza-sentenza

emessa nel maxiprocesso “Abbate + 706”, che, in merito al

coinvolgimento di tanti imprenditori in indagini giudiziarie concernenti

la mafia, ed esplicitando la suddetta complessità di tale distorto contesto,

sostiene che, da un lato, il clima di intimidazione mafiosa è così pesante

da determinare il convincimento della incapacità dello Stato ad

assicurare le condizioni di una pacifica convivenza; dall’altro, la

“protezione” di Cosa Nostra consente di svolgere nel migliore dei modi

lucrose attività economiche.

A fronte dell’esistenza di una tale estesa area grigia di “contiguità” fra

mafia e settori del mondo economico e finanziario, concludendo, è assai

arduo stabilire, nel caso concreto, dove finisce l’azione necessitata dalla

imposizione mafiosa e dove comincia il coinvolgimento ed il

fiancheggiamento delle attività mafiose.

8. Il meccanismo della protezione-estorsione

Il delitto di estorsione è stato inserito dal legislatore del 1930 nel libro II,

titolo XIII, capo I del Codice Penale, che disciplina i delitti contro il

patrimonio commessi mediante violenza alle cose o alle persone. Il reato

è comune, perché può essere commesso da chiunque e appartiene al

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novero dei delitti di cooperazione con la vittima, essendo indispensabile

che questa compia l’atto desiderato per l’integrazione della fattispecie

normativa.

La norma incriminatrice, che interessa settori diversi, viene qui di

seguito considerata in relazione alla sua commissione ad opera di

soggetti appartenenti ad associazioni di stampo mafioso. Benché le

statistiche giudiziarie non siano rappresentative della realtà del

fenomeno estorsivo, a causa di un ricorso ancora limitato allo strumento

della denuncia, il racket delle estorsioni, nella forma della c.d.

ricompensa per la protezione (c.d. pizzo), rappresenta l’attività più

risalente delle mafie e fondamentale mezzo di reperimento di capitali e

di radicamento nel territorio162.

Infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma è duplice, da un lato la

norma tutela il patrimonio nel suo complesso contro aggressioni

compiute, nel caso che qui interessa, da appartenenti al sodalizio

mafioso; dall’altro la libertà di autodeterminazione della vittima.

La condotta penalmente rilevante consiste nell’uso di violenza o di

minaccia diretto prima a creare uno stato di costrizione psichica e ad

ottenere, poi, un profitto ingiusto per sé o per altri con correlativo altrui

162 Si veda in merito Cap. III, par. I.

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danno. Dunque le modalità alternative o congiunte della condotta sono

l’uso della violenza o la minaccia.

La violenza, quale mezzo di coazione del volere, in grado di determinare

uno stato di incapacità di volere e di agire, non deve essere assoluta,

poiché quest’ultima non lasciando al soggetto un minimum di possibilità

di volere escluderebbe la cooperazione della vittima. Il soggetto passivo

del reato, benché costretto, sceglie di compiere l’atto di disposizione

patrimoniale. La violenza può essere estrinsecata nei confronti della

persona ovvero sulle cose (c.d. violenza reale), anzi proprio questa forma

non solo distingue il reato in questione da quello di rapina, ma

costituisce uno dei modi socialmente più diffusi di intimidazione e di

coartazione dell’altrui libertà di autodeterminazione. Basti pensare ai

casi, frequenti nel Meridione, di incendi di esercizi commerciali,

danneggiamenti di porte, saracinesche o automobili163.

La minaccia, che si manifesta con la prospettazione di un male futuro,

deve essere idonea a costringere il soggetto a compiere l’atto di

disposizione patrimoniale. Essa, che può consistere in una omissione,

può anche, secondo la Suprema Corte, essere manifesta o implicita,

163 Fiandaca G., Musco E., Diritto penale – Parte speciale – vol. II, tomo II, Bologna, Zanichelli, ultima edizione, p. 143 ss.

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palese o larvata, diretta o indiretta, orale o scritta, determinata o

indeterminata, purché idonea, in relazione alla personalità dell’agente,

alle circostanze concrete e alle condizioni ambientali, a coartare la

volontà della vittima. La giurisprudenza attribuisce rilevanza persino alle

esortazioni, ai consigli e ai comportamenti apparentemente corretti,

come in relazione al caso di una colletta promossa da un gruppo di ex

detenuti in proprio favore e in danno dei commercianti di un certo

quartiere (Cass., 17 aprile 1986, Neri)164.

Affinché si integri la fattispecie di reato considerata occorre rilevare un

nesso di causalità fra la violenza o la minaccia, la coartazione della

volontà della vittima, e l’atto di disposizione patrimoniale che arreca

l’ingiusto profitto con danno altrui.

Per effetto della coazione psicologica il soggetto passivo deve fare o

omettere qualcosa. Costui, posto di fronte all’alternativa tra aderire alla

richiesta del reo o subire le conseguenze della sua minaccia, sceglie la

prima alternativa e compie sul proprio patrimonio un atto di cessione o

di rinuncia. Tale gesto procura a sé un danno di natura patrimoniale e un

ingiusto profitto al reo o ad altri. Correlativamente al danno, anche il

profitto deve essere inteso in termini esclusivamente patrimoniali: esso

164 Lattanzi G., Lupo E., Codice penale (Annotato con giurisprudenza), Milano, Giuffrè, 2008.

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ricomprende ogni forma di arricchimento o di evitato depauperamento

del patrimonio del soggetto attivo o del terzo beneficiario della condotta

del reo. Il profitto deve, altresì essere ingiusto, vale a dire non fondato su

alcuna pretesa tutelata dall’ordinamento giuridico. Ingiusto è per

eccellenza il profitto derivante dal pizzo pagato da commercianti

taglieggiati.

Circa il dolo, il reato esaminato è a dolo generico, poiché il procurare a

sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno non rappresenta

soltanto lo scopo in vista del quale il colpevole si determina al

comportamento criminoso, ma anche un elemento della fattispecie

oggettiva165. Infatti, solo con la realizzazione dell’ingiusto profitto per

l’agente o per un terzo e del danno patrimoniale per la vittima, il reato di

estorsione può dirsi consumato.

Per quel che riguarda i rapporti tra la consumazione e il tentativo,

occorre segnalare l’orientamento giurisprudenziale che tende ad

anticipare la prima al momento in cui il reo acquista la “mera”

disponibilità del prodotto dell’attività criminosa anche per un breve

periodo di tempo. In questo senso la sentenza “Panetta” (Cass. Pen.,

13/04/1995) in cui la Corte ha affermato che l’estorsione si consuma

165 Cass. Pen., sez. II, 17/03/2004 – 21/4/2004, n. 18380.

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allorché l’estorsore, nonostante il servizio di rafforzamento predisposto

dalla polizia, riesce ad impossessarsi per un breve lasso di tempo della

somma messa a disposizione dal soggetto passivo della violenza o della

minaccia.

Di opinione diversa quella parte della dottrina che, evidenziando la

struttura dell’estorsione, che è quella di reato di evento, esclude che

l’evento dannoso costituito dalla lesione patrimoniale possa ritenersi

integrato da un possesso ancora precario166.

L’estorsione mafiosa, punita con la reclusione da sei a venti anni, è

intimamente connessa con il concetto di imprenditore subordinato167.

Sin dalla fine dell’Ottocento il mafioso si specializza, in concorrenza e in

conflitto con lo Stato, nell’offerta di protezione e cerca di mantenere alta

la domanda di questa “merce” ricorrendo all’uso della violenza. Per

questa via impone una regolazione violenta del mercato e soprattutto un

controllo capillare delle transazioni economiche, che oltre a garantirgli

una costante fonte di sostentamento, usata per finanziare i costi

dell’organizzazione e per stipendiare gli operai del crimine, è misura del

potere del gruppo sul territorio. Per queste ragioni tale pratica antica

166 Lattanzi G., Lupo E., Codice…, cit. 167 Per la definizione di imprenditore subordinato e per la differenza tra estorsione diretta e estorsione indiretta si veda Cap. IV, par. I.

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rimane una costante delle attività mafiose, difficile da debellare, specie

in alcune aree del Mezzogiorno168.

Il pizzo è stato spesso considerato un fenomeno di “serie B”, marginale

rispetto ad altre manifestazioni criminali, ma tale impostazione del

problema risponde ad una visione parziale del fenomeno, dimentica delle

sue molteplici implicazioni sociali.

I comportamenti acquiescenti degli imprenditori rispetto alle richieste

estorsive mafiose non sono pregiudizievoli solo per gli operatori

economici interessati, ma anche per tutti quelli non acquiescenti e per le

stesse possibilità di sviluppo economico di intere zone, perché il pizzo è

una via d’accesso della mafia nel tessuto economico imprenditoriale, che

riduce drasticamente la libertà di impresa e induce gli imprenditori ad

assumere posizioni di immobilismo. Non solo, ma, nel frattempo che si

riduce la possibilità di crescita dell’economia legale, si rafforza

involontariamente quella illegale-mafiosa. Difatti, anche quando

l’importo economico richiesto agli imprenditori risulti modesto, la

relazione di dipendenza tra costui ed il mafioso è suscettibile di assumere

nuovi contenuti, che, attraverso svariate forme di imposizione,

favoriscono l’impresa mafiosa.

168 Sciarrone R., Mafie vecchie…, cit., p. 30 ss.

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Alle volte, poi, la dinamica estorsiva inizia con un atto intimidatorio o

con un reato patrimoniale di piccola entità nei confronti del

commerciante, cui segue la ricerca di protezione da parte dello stesso.

In tale ipotesi, in cui il servizio di protezione è addirittura sollecitato

dalla vittima, le capacità contrattuali dell’estorto diminuiscono e le

condizioni iniziali sovente peggiorano. Più spesso la mafia punta ad

estendere il numero dei soggetti da contattare, imponendo dazioni di

modesta entità; si parla di “orizzontalizzazione” della pratica estorsiva.

La riduzione dell’importo preteso rende più appetibile la proposta di

protezione e quindi, paradossalmente, pagare diventa conveniente,

resistere no. Dal punto di vista criminale l’esito complessivo delle

entrate resta invariato, ciò che si aggiunge è un più pervasivo controllo

del territorio. Inoltre questa strategia richiede un più basso livello di

violenza, che consente di attenuare la conflittualità nei confronti della

società e dello Stato.

Il tentativo della mafia di rendere il suo sistema criminale “compatibile”

con il settore economico aggredito, la diffusa reticenza dei commercianti

rispetto alla possibilità di denunciare ed una conseguente inadeguata

risposta degli organi giudiziari, determinano le difficoltà di emersione e

di contrasto del fenomeno.

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9. Segue: il contesto ambientale e il compromesso necessitato

Il concetto di ambientalità assume un rilievo decisivo ai fini della

possibilità di qualificare alcuni imprenditori come collusi con

organizzazioni di stampo mafioso o come vittime del reato di estorsione.

Tale circostanza ha assunto grande importanza all’inizio degli anni ’90,

quando un filone giurisprudenziale ha escluso, in ragione di particolari

situazioni ambientali, la responsabilità penale di alcuni imprenditori che,

in cambio della protezione avevano posto in essere condotte

collaborative nei confronti della mafia. In alcune aree geografiche

caratterizzate da una presenza massiccia e pervasiva del fenomeno

mafioso, l’adeguarsi con condotte collaborative alle interferenze della

mafia sarebbe l’unico rimedio possibile per non essere ostacolati

nell’esercizio di attività economiche. In questi contesti, la contiguità alla

mafia della categoria imprenditoriale sarebbe imposta dall’esigenza di

trovare “soluzioni di non conflittualità”, e in quanto tale non perseguibile

giuridicamente169.

Due pronunce giudiziali sono riconducibili a questo orientamento

giurisprudenziale: la sentenza del giudice istruttore di Catania del 1991

169 Morosini P., Mafia e appalti – La rilevanza penale delle condotte del politico e dell’imprenditore, in Questione Giustizia, 1999, p. 1057 ss.

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relativa ai cosiddetti “cavalieri del lavoro” e la sentenza del tribunale di

Palermo del 2001 relativa ai “fratelli Cavallotti”.

Il giudice, nella prima sentenza, ricostruisce il diverso modo in cui gli

imprenditori reagiscono di fronte all’offerta di protezione da parte

dell’associazione: alcuni compiono la scelta di affiliarsi, altri adottano la

cosiddetta soluzione di non conflittualità, che sfocia nell’accettazione del

“contratto di protezione”.

Si legge nella motivazione che, l’accettazione del contratto di

protezione: “espone inevitabilmente l’imprenditore ad un rapporto di

materiale relazione con soggetti dei quali può apparire connivente o,

addirittura, complice, ma sotto il profilo giuridico, non si potrà, sic et

simpliciter, attrarre nello schema dei reati associativi previsti dagli art.

416 e 416 bis, qualunque comportamento che, pur evidenziando la fisica

contiguità tra mafia e impresa, tuttavia non esprime una scelta autonoma

dell’imprenditore, bensì una delle soluzioni di non conflittualità sopra

richiamate per una situazione non riconducibile alla sua iniziativa”.

Il giudice esclude in questo caso, la configurabilità di una partecipazione

esterna degli imputati all’associazione criminosa ritenendo che, la

contiguità degli imprenditori, nelle zone ad altissima densità mafiosa

come quella catanese, “fosse imposta dall’esigenza di trovare soluzioni

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di non conflittualità con la mafia, posto che nello scontro frontale

risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco

titolare di grandi complessi aziendali”.

Eppure dal quadro probatorio emerge una fitta e prolungata rete di

relazioni di scambio che farebbe più esattamente propendere per una

colpevole complicità. Ed infatti, in cambio della protezione ricevuta gli

imprenditori avrebbero effettuato una serie di controprestazioni:

pagamento di somme di denaro, assunzione del personale indicato

dall’associazione, preferenza accordata a taluni fornitori di materie

prime. Trascurando dunque la relazione di reciproco interesse e

convenienza del rapporto instauratasi tra l’impresa e Cosa Nostra, il

giudice poggia la sua decisione su premesse socio-criminologiche170.

Nel secondo giudizio, relativo al ruolo degli imprenditori Cavallotti,

l’attività investigativa ha condotto al possesso, ed alla successiva

acquisizione processuale, di alcune missive inviate dal boss Bernardo

Provenzano a Luigi Ilardo, affiliato a Cosa Nostra. In queste lettere, il

boss fa riferimento, fra l’altro, ad importanti gare d’appalto di cui i

Cavallotti sarebbero stati successivamente aggiudicatari

“raccomandandoli” al fine della successiva aggiudicazione, addirittura

170 Fiandaca G., La contiguità mafiosa…, cit., p. 472 ss.

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ancora prima dell’indizione della gara. Gli imprenditori, si legge ancora

nella sentenza di primo grado, erano inseriti nel cosiddetto “giro delle

buste”, e cioè partecipavano all’aggiustamento delle gare d’appalto

attraverso la “preventiva e concordata comunicazione delle offerte,

nell’ambito del sistema di controllo organizzato da Cosa Nostra”.

I collaboratori di giustizia hanno poi spiegato come l’inserimento in tale

sistema di relazioni fosse una condizione essenziale per poter svolgere

l’attività imprenditoriale171. In questo senso il giudice precisa che gli

imprenditori operanti in un contesto mafioso devono attenersi ad una

serie di regole ed imposizioni, richiedere una preventiva autorizzazione,

pagare il pizzo ed esaudire ulteriori richieste dell’organizzazione.

Su questa base il tribunale conclude che: “il coinvolgimento dei

Cavallotti nel sistema di controllo delle attività imprenditoriali

organizzato e gestito dagli esponenti di Cosa Nostra, non può essere

fondatamente valutato come prova dell’adesione al vincolo associativo

ovvero come contributo al consolidamento dell’organizzazione

criminale. Il carattere obbligatorio dell’inserimento nel predetto contesto

ambientale, in qualche modo attestato dall’imponente diffusione del

fenomeno nel mondo imprenditoriale siciliano, induce ad escludere che

171 In merito si veda ampiamente par. 7.

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il consapevole coinvolgimento…possa essere valutato quale condotta

censurabile ai sensi dell’art. 416 bis; dovendosi, se così fosse, pervenire

alla paradossale conclusione che tutti gli imprenditori operanti nelle

province siciliane sottoposte al controllo mafioso si siano resi

responsabili di analoghi comportamenti illeciti”172.

172 Visconti C., La punibilità della contiguità alla mafia tra tradizione (molta) e innovazione (poca), in Cass. Pen., 2002, p. 1854.

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