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1 A cura del cons. Roberto Garofoli Dispensa di diritto penale parte speciale I

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A cura del cons. Roberto Garofoli

Dispensa di diritto penale

parte speciale I

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Parte speciale I: delitti contro la personalità dello Stato, delitti contro la p.a., delitti contro l’amministrazione della giustizia.

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Indice

I. DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO

Cass., sez. VI, 27 giugno 2014, n. 28009, sui parametri interpretativi in merito alle condotte di

attentato ed alla finalità di terrorismo.

Cass., Sez. I, 9 settembre (dep. 9 ottobre) 2015, n. 40699, recante il primo approfondimento

della S.C. sul reato di arruolamento per finalità di terrorismo ex art. 270-quater cp

II. DELITTI CONTRO LA P.A.

Cass., sez. un., 2 maggio 2013, n. 19054, sulla qualificazione dell’utilizzo del telefono d'ufficio per

fini personali in termini di peculato d’uso.

Cass., sez. un., 14 marzo 2014, n. 12228, sul rapporto tra reato di concussione e fattispecie di

induzione indebita (sub art. 319 quater c.p.), sulla condotta di costrizione nella concussione, sulla

distinzione tra induzione indebita e fattispecie corruttive, sulla distinzione tra istigazione alla

corruzione e tentativo di induzione indebita.

Cass., sez. VI, 28 febbraio 2014, n. 9883, sull’applicabilità della più grave fattispecie di cui all’art.

319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. nell’ipotesi di sistematico ricorso, da parte del pubblico ufficiale, ad

atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili "ex post". Sui

rapporti tra gli artt. 318 e 319 c.p., dopo l’intervento della legge n. 190 del 2012, v. anche: Cass.,

sez. VI, 17 novembre 2014, n. 47271; Id., 26 novembre 2014, n. 49226.

Cass., sez. VI, 18 settembre 2014, n. 38357, su abuso d’ufficio e violazione dell’art. 97 Cost. (cfr.

anche Cass., sez. VI, 26 giugno 2013, n. 34086; Id., 30 gennaio 2013, n. 12370).

Cass., sez. VI, 14 gennaio 2014, n. 1247, sulla possibilità di far rientrare la condotta di “distrazione”

nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p.

Cass., sez. VI, 28 novembre 2014, n. 51688, sui rapporti tra il reato di traffico di influenze illecite

e il millantato credito.

Cass., sez. VI, 21 luglio 2014, n. 32237, sull’ambito applicativo dell’art. 353 c.p. che incrimina la

turbata libertà degli incanti (nel caso di specie, l'amministrazione, dopo aver avviato un

procedimento di gara, si è orientata formalmente per la conclusione di un accordo sostitutivo del

provvedimento finale), nonché sul concetto di “altra utilità” nel reato di concussione.

Ancora sui rapporti tra gli artt. 317 e 319-quater

Cass. Pen., Sez. VI, 10.3.2015 (dep. 28.5.2015), n. 22526, che, nel solco delle Sezioni Unite n.

12228/2014 sui rapporti tra gli artt. 317 e 319-quater, ha formulato le seguenti, rilevanti, massime i

tema di concussione: "Il timore autoindotto, di per sé, non incide sulla libertà di determinazione del

soggetto, tanto che non integra, anche sul piano civilistico, un vizio della volontà, quale causa di

annullamento del contratto (art. 1437 cod. civ.)"; "L'effetto coartante o induttivo sulla libertà di

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determinazione del soggetto rivestito di qualifica pubblicistica deve essere apprezzato con particolare

prudenza, in considerazione dell'elevato grado di resistenza che da lui ci si aspetta e che, secondo la

fisiologica dinamica che connota lo specifico rapporto intersoggettivo, deve rendere recessiva la forza

intimidatrice o persuasiva di cui è destinatario".

All. 1

III. DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

Cass., sez. VI, 1 agosto 2014, n. 34173, sul dolo nel reato di calunnia.

Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 51824, sulla configurabilità del reato di cui all’art. 377 c.p.

nel caso di offerta o promessa di denaro al consulente tecnico del P.M. non ancora citato come

testimone. Sulla questione era già intervenuta Cass., sez. un., ord., 23 ottobre 2013, n. 43384, che

aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, decisa con la pronuncia Corte cost., 11

giugno 2014, n. 163.

Cass. pen., Sez. II, 21-30 aprile 2015 (dep. 4 agosto 2015), n. 34147, sull’estensione dell’art. 384

cp ai conviventi more uxorio.

Vedi dispensa n. 6 L. PRUDENZANO, Riflessioni a margine di una recente estensione della causa di

non punibilità prevista dall’art. 384, co. 1, c.p. ai conviventi more uxorio. Nota a Cass. pen., sez. II, 4

agosto 2015, n. 34147, in www.penalecontemporaneo.it

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Selezione giurisprudenziale

I. DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO

Cass., sez. VI, 27 giugno 2014, n. 28009, sui parametri interpretativi in merito alle condotte di

attentato ed alla finalità di terrorismo.

1(omissis)

Si può dunque procedere all'esame delle critiche "sostanziali" al deliberato del riesame. A parere della Corte, tali

critiche implicano la necessità di fissare tre profili essenziali della disciplina applicata al caso di specie, per

verificarne la corretta interpretazione e per misurare l'adeguatezza della relativa motivazione.

Da un lato occorre discutere la nozione di "finalità di terrorismo", alla luce della "nuova" disciplina

introdotta, al proposito, nel corso del 2005. (omissis)

Per un secondo verso, la struttura delle fattispecie contestate sub A evoca la problematica tipica dei reati

di attentato, che richiedono precisi criteri per la determinazione del fatto tipico punibile, e nel

contempo pongono questioni in merito alla struttura del dolo.

I problemi indicati saranno trattati sul piano generale, a titolo di premessa per il successivo controllo circa la

legittimità del provvedimento impugnato.

4. Nel dibattito (anche giurisprudenziale) sulla identificazione della "finalità di terrorismo", per lungo tempo

circoscritto essenzialmente dal riferimento alternativo allo spargimento del "terrore" ed all'eversione dell'ordine

costituzionale, l'introduzione nel codice penale dell'art. 270-sexies (operata con il D.L. n. 144 del 2005, o meglio

con la relativa legge di conversione, L. n. 155 del 2005) ha segnato indubbiamente una cesura. Intervenuta sulla

spinta dei gravissimi fatti appena accaduti in Gran Bretagna ed altrove, la novella è valsa ad adeguare

l'ordinamento interno alle indicazioni della decisione quadro 2002/475/GAI (oltre che alla Convenzione del

Consiglio europeo sulla prevenzione del terrorismo, adottata dal Comitato dei ministri e sottoscritta dall'Italia il

14/06/2005), ed è stata preceduta dalla ratifica, con clausola di esecuzione, di numerose convenzioni

internazionali in materia, tra le quali rileva in modo particolare la Convenzione sul finanziamento degli atti di

terrorismo fatta a New York nel 1999 e ratificata in Italia con la L. n. 7 del 2003.

La norma dell'art. 270-sexies presenta una struttura complessa, nella quale, pur essendo la norma stessa dedicata

alla descrizione di una finalità, sono certamente compresi elementi di carattere obiettivo, quali misuratori della

specifica offensività dei fatti contemplati, e quali garanzie d'un ordinamento che, per necessità costituzionale,

deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell'intenzione e del tipo d'autore.

A livello soggettivo, sul piano della rappresentazione e della volizione, l'agente opera in una duplice direzione.

In primo luogo vuole un "grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale", o almeno vuole

creare condizioni che seriamente conducano in quella direzione. In secondo luogo, persegue un fine alternativo,

fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche

fondamentali, o infine costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o a non

compiere un qualsiasi atto.

4.1. Subito si evidenzia la particolare struttura del dolo. Salva ogni osservazione in punto di idoneità dell'azione

al fine, quale profilo strutturale dei casi di dolo specifico, la prima parte della norma descrive un evento di

pericolo, che deve concretamente profilarsi e che, nei riflessi soggettivi, deve pienamente riprodursi.

La legge non si limita ad esigere il fine di produrre un "grave danno", ma esige l'obiettivo compimento di

condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso).

Il punto è centrale, e merita di essere ribadito. Già il tenore letterale della norma implica che non basta

l'intenzione del danno, posto che la condotta deve creare la possibilità che si verifichi.

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Un evento di pericolo concreto, dunque, da valutare secondo l'ordinario paradigma della prognosi postuma.

Un segnale particolarmente rilevante in questo senso viene anche dal riferimento alla "natura o contesto" della

condotta, quali elementi indefettibili della valutazione in punto di pericolosità.

La previsione svolge certamente quel ruolo di "allargamento" che le viene assegnato nel provvedimento

impugnato, e che d'altronde è indispensabile per il ragionevole bilanciamento tra principio di personalità della

responsabilità penale ed efficienza dell'azione repressiva (e preventiva) nei confronti di gravi fatti illeciti.

Quando la caratteristica di tali fatti risieda proprio (ed anche) nella macrodimensione dell'evento

temuto, è consentito al legislatore il ricorso esplicito a segnali che valorizzino il contributo individuale

alla produzione, effettiva o potenziale, dell'evento medesimo, per evitare che tale contributo resti

annullato dalla serie coordinata di forze che, nei fatti, è necessaria per esplicare concretamente l'effetto.

Non v'e dubbio che, nel caso in esame, il riferimento al "contesto" serva appunto ad evidenziare come la

possibilità dell'evento dannoso posto sullo sfondo della fattispecie rilevi anche quando non dipenda in

via esclusiva dall'azione considerata, ma sia piuttosto il frutto dell'innesto del contributo in una più

ampia serie causale, non necessariamente controllata dall'agente. Si tratta del resto d'una applicazione

delle regole comuni in materia di causalità e concorso di persone (artt. 41 e 110 cod. pen.), ove vige il

principio dell'equivalenza, anche tra condizioni riferibili a comportamenti umani, con il limite esclusivo

delle cause "da sole" sufficienti a produrre l'evento.

E' però altrettanto chiaro - sempre in applicazione dei principi generali - che l'interazione tra condotta

individuale e contesto deve segnare il momento rappresentativo e quello volitivo nella determinazione

dell'agente. In particolare, se la possibilità dell'evento dannoso grave dipende da tale interazione, è ovvio che

l'agente dovrà rappresentarsi gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta

l'efficienza peculiare sanzionata dalla norma, e dovrà volerne l'influsso sulla serie nella quale il suo

comportamento confluisce.

Una implicazione ovvia, dell'ovvio principio, è che il "contesto" non può essere ricostruito tenendo conto di

condotte ed avvenimenti successivi al comportamento del reo, non potendo questi farne oggetto di

rappresentazione e di pianificazione. A meno che, naturalmente, non si riscontri la pertinenza del fatto ad una

programmazione che comprenda ab initio futuri elementi di contesto utili ad interagire con l'azione commessa. Si

tratta per altro, a questo punto, d'una mera questione di prova e motivazione.

4.2. Dunque, un dolo generico comprendente il pericolo d'un grave danno per un Paese od una organizzazione

internazionale.

Tuttavia, l'azione deve essere anche finalizzata ad uno di tre ulteriori eventi, che non deve

necessariamente verificarsi, secondo lo schema tipico del dolo specifico.

Nella sede presente interessa l'evento di "costrizione" del potere pubblico a fare o non fare qualcosa. Ma non va

trascurata, naturalmente, la "qualità" dei due fatti ulteriori, poichè l'accostamento dei tre eventi e la loro

parificazione a fini di trattamento sanzionatorio costituisce un fattore irrinunciabile per l'esatta ricostruzione delle

rispettive fisionomie.

Ecco dunque che alla "costrizione" si affianca, in primo luogo, lo scopo terroristico "classico"

("intimidire la popolazione"), cioè portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la

collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza.

Questa Corte ha già identificato una sostanziale continuità, sotto questo limitato profilo, tra la nozione di

"spargimento del panico tra la popolazione" individuata dalla giurisprudenza più risalente (Sez. U, Sentenza n.

2110 del 23/11/1995, Fachini, rv. 203770) e quella di grave intimidazione nei confronti della popolazione, fissata

nell'art. 1, comma 1, della Decisione quadro n. 2002/475/GAI, sostanzialmente ripresa con il D.L. n. 144 del

2005, art. 15 e, dunque, con l'art. 270-sexies cod. pen.: "... è comunque presente la connotazione tipica degli atti

di terrorismo individuata dalla più autorevole dottrina nella "depersonalizzazione della vittima" in ragione del

normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di

seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un'organizzazione internazionale a

compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto" (Sez. 1, Sentenza n. 1072 del 11/10/2006, rv.

235288).

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In secondo luogo rilevano la destabilizzazione o la distruzione delle strutture istituzionali fondamentali di un

Paese o di una organizzazione internazionale: una finalità più prossima allo scopo tradizionale dell'eversione

dell'ordine costituzionale e democratico, spinta fino alla "destabilizzazione" delle istituzioni più essenziali dal

punto di vista politico, costituzionale, economico o sociale.

4.3. L'identificazione dell'evento "costrizione", che costituisce il principale elemento di novità della nozione

vigente di finalità terroristica, rappresenta a parere della Corte l'aspetto più delicato della regiudicanda.

E' appena il caso di notare come l'essenza della politica, e della stessa forma democratica dello Stato (art. 1 Cost.,

comma 2 e art. 49 Cost.), consista nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare e, in certo

senso, di imporre le scelte rimesse agli organi del potere pubblico, interagendo con essi anche attraverso la

partecipazione dei cittadini ad attività sviluppate fuori dalle istituzioni rappresentative (partiti, associazioni,

movimenti, di carattere politico, sindacale, culturale). Il fine di condizionamento politico è quindi del tutto

inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche. E la possibilità di interferenza rende conto, senza

inutili spiegazioni, della delicatezza estrema dell'operazione cui la legge chiama gli interpreti e gli operatori

giudiziari.

Un primo elemento per l'actio finium regundorum, necessario ma non certo sufficiente, consiste nella "scala"

della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico. Dovrà trattarsi di un affare particolarmente rilevante,

capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l'implicazione che ne deriva in

punto di "tenuta" delle attribuzioni costituzionali. Non sono solo il buon senso, ed il valore semantico e storico

delle parole, ad escludere che possa e debba parlarsi di terrorismo per qualunque pressione esercitata su di un

pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione di un reato. Se la "costrizione" è evento paragonabile al

dissesto delle istituzioni od alla intimidazione della popolazione nel suo insieme, se la "costrizione" è comunque

perseguita dall'agente nella consapevolezza e nella volontà di provocare il rischio di un "grave danno" per il Paese

intero, allora detta "costrizione" non potrà che avere ad oggetto una decisione che incida significativamente su

una scala sociale ed istituzionale corrispondente.

L'interferenza tra "costrizione" e "grave danno" pone poi in evidenza un secondo elemento di delimitazione della

fattispecie, capace di imporre una "macrodimensione" del fenomeno, ma a sua volta insufficiente, da solo, per

una delimitazione del fatto che risulti compatibile con il principio di determinatezza (e con le implicazioni da

questo sortite in punto di colpevolezza).

I commentatori hanno posto in luce la scarsa capacità descrittiva della parola "grave", ma la stessa nozione di

"danno", quando si parla di obiettivi politicamente qualificati, può risultare opinabile. Ciò che una parte può

considerare dannoso per il Paese, altra parte può considerare conveniente.

Il discrimine in proposito non può derivare (solo) da un terzo elemento definitorio, essenziale per quanto

implicito, e cioè la illegittimità del metodo utilizzato per perseguire il fine di "costrizione".

Se ottenuta mediante comportamenti leciti, massime attraverso il libero dispiegarsi del dibattito sociale e del

conflitto politico, anche la più pressante influenza sul procedimento di formazione della volontà delle istituzioni

pubbliche non può assumere rilevanza. Lo stesso ricorso al termine "costrizione", del resto, evoca in qualche

modo l'idea di una pressione indebita e nel contempo capace (almeno nelle intenzioni dell'agente) di alterare le

regole ordinarie del procedimento decisionale. Non v'è dubbio insomma che la costrizione debba essere attuata

"indebitamente", anche se la norma nazionale non ha ripreso la specifica qualificazione che segna invece il suo

corrispondente nella Decisione quadro ormai più volte citata.

Sennonchè il fine di "costrizione" non può assumere dimensione terroristica per il sol fatto che la condotta

strumentale contrasta con un precetto penalmente sanzionato. Si guardi alla categoria dei reati "politici" (secondo

la definizione giuridicamente rilevante che discende dall'art. 8 cod. pen., comma 3): non ogni atto penalmente

illecito, che sia politicamente orientato in senso obiettivo o soggettivo, può integrare la nuova nozione di

terrorismo.

Ancora una volta, la soluzione è suggerita anzitutto dal senso delle parole e dalla valenza "sociale" del concetto di

terrorismo (dunque dalla portata tipizzante della sua evocazione). Una ipotetica deriva dell'ordinamento verso la

qualificazione "terroristica" di ogni reato politicamente motivato sarebbe inammissibile, in virtù di ragioni troppo

evidenti, ancora una volta, per richiedere una particolare illustrazione.

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La giurisprudenza di questa Corte si è occupata del tema principalmente allo scopo di distinguere tra

"sovversione" e "terrorismo", ma ha comunque chiarito "che non qualsiasi azione violenta può farsi

rientrare nel concetto di eversione, previsto dal codice penale, ma solo quella che miri al sovvertimento

dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell'assetto ordinamentale", aggiungendo

che, quando praticata a scopi eversivi, la "violenza terroristica" provoca un più intenso allarme sociale

ed un maggior rischio istituzionale, il che legittima la sua più severa punizione (omissis). In altri casi, pare

che la distinzione tra finalità eversiva (come stigmatizzata dal D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 1, comma 1) e

finalità terroristica (l'unica che segna le fattispecie degli artt. 280 e 280-bis cod. pen.) non abbia rivestito

particolare importanza ai fini del decidere: ma anche in fattispecie del genere (ove si è confermata la

qualificazione ex art. 280-bis per un attentato definito "dimostrativo") mai è venuta meno, naturalmente,

l'esigenza di una particolare conformazione del finalismo politico sottostante alla condotta (Sez. 1, Sentenza n.

8069 del 11/02/2010, rv. 246123).

Insomma, l'equiparazione tra condotta illecita politicamente motivata e terrorismo è improponibile.

4.4. Ritiene allora la Corte che la soluzione del problema interpretativo, necessariamente orientata verso una

riduzione degli spazi di indeterminatezza della fattispecie, in armonia con l'assetto costituzionale dei valori in

gioco, possa essere trovata nel collegamento tra i vari elementi evocati dalla norma. Un collegamento utile ad

assicurare, tra l'altro, la conformità della scelta legislativa ai termini essenziali del dibattito sull'offensività nei

delitti di attentato, che ha largamente interessato anche la definizione giuridica del concetto di terrorismo

(interno).

Esiste anzitutto un finalismo tipico dell'azione, secondo lo schema del dolo eventuale, e dunque costruito su

eventi che risiedono fuori della fattispecie. Come detto, qui interessa la "costrizione" del potere pubblico a tenere

od omettere un determinato comportamento, ma lo stesso discorso potrebbe valere per i due scopi alternativi,

come delineati dalla legge. Al tempo stesso, poichè è avvertita la necessità, da più parti evidenziata, di assicurare

la specifica offensività dei comportamenti terroristici, escludendo dalla previsione progettazioni deliranti o

palesemente inadeguate, è fissato un evento di pericolo, cioè il rischio di un "grave danno" per il Paese.

A parere del Collegio può e deve guardarsi a quell'evento come alla definizione sintetica del rischio che

tipicamente (e concretamente) il "terrorista" produce coltivando, con una qualunque azione delittuosa,

una delle tre finalità indicate nel prosieguo della norma. Al tempo stesso, la motivazione individuale

qualifica il fatto come terroristico proprio in quanto suscettibile di creare il rischio di una grave lesione

degli interessi presi di mira (il sereno svolgimento della vita pubblica, il fisiologico esercizio del potere

pubblico, la stabilità e l'esistenza stessa delle istituzioni di una società pluralistica e democratica).

Privata del riferimento ai fini tipici del terrorismo, la nozione di danno, da riferire oltretutto ad ogni genere di

possibile comportamento criminoso, resterebbe priva di adeguata parametrazione:

non v'è nozione giuridicamente accettabile di "danno" sanzionabile se non rispetto ad un interesse

giuridicamente protetto.

Non a caso il tema in esame è risultato assai discusso tra i commentatori, e per l'identificazione del danno

rilevante si è spaziato tra la dimensione patrimoniale (come si è fatto, nel caso di specie, anche dai Giudici della

cautela) ed altro genere di prospettazioni (ad esempio, sempre ad opera dei Giudici a quibus, relativamente al

danno da immagine).

Sennonchè il soggetto passivo del "danno" viene dalla legge indicato nel Paese, lasciando intendere l'irrilevanza

dei patrimoni privati in quanto tali, e nel contempo definito "grave", assumendo quindi una dimensione di scala,

la quale per un verso non potrebbe che essere enorme (finendo paradossalmente per restringere l'ambito della

tutela), e per altro verso sembra incompatibile con la fisionomia patrimoniale dell'offesa, per la sua entità e per la

stessa sua natura.

E' dunque il collegamento con il carattere lato sensu politico - istituzionale del finalismo terroristico a qualificare

e rendere accettabilmente determinato il "grave danno per il Paese" che la condotta di volta in volta considerata

deve rendere possibile (un collegamento siffatto sembra implicitamente evocato anche dalla decisione di questa

Corte che ha escluso l'integrazione dell'art. 270- sexies per gravi fatti di devastazione commessi dai tifosi di una

squadra calcistica: Sez. 1, Sentenza n. 25949 del 27/05/2008, rv. 240465).

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4.5. Una conferma della necessità di una relazione tipica ed attendibile tra finalismo dell'azione ed oggetto del

danno viene dalla considerazione degli strumenti internazionali che regolano il contrasto ai fenomeni terroristici e

che esplicano effetti diretti nell'ordinamento nazionale.

Già se ne è fatto cenno. La convenzione fatta a New York nel 1999 per la repressione del finanziamento del

terrorismo, che contiene un vasto apparato definitorio, è stata resa esecutiva in Italia con la legge n. 7/2004.

Appartiene al diritto dell'Unione, al quale l'ordinamento interno deve conformarsi, la Decisione quadro n.

2002/475/GAI, per la cui attuazione l'art. 270-sexies è stato appositamente introdotto nel codice penale. E

d'altra parte proprio quest'ultima norma nazionale contiene una clausola di chiusura, estendendo la nozione di

terrorismo alle altre "condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre

norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia".

Se appare chiaro come la clausola sia stata appunto concepita in chiave estensiva, altrettanto ovvia sembra la sua

funzione di orientamento nell'interpretazione complessiva della fattispecie, sia per l'esigenza di una ermeneusi

che assicuri coerenza interna alla disciplina, sia per evitare il rischio d'un disallineamento tra la nozione

"nazionale" di terrorismo e quella internazionalmente accolta, la cui prevenzione costituisce uno degli scopi

essenziali della normativa pattizia.

Ora, la norma eurounitaria presenta una struttura ancora più complessa di quella interna, visto che - ferma

restando la potenzialità di danno per un paese o un'organizzazione internazionale - il fine alternativo di

intimidire, costringere o destabilizzare rileva solo se perseguito mediante specifiche tipologie di condotte

criminose. La relativa disamina evidenzia un criterio misto di selezione. Dagli attentati alla vita od alla libertà delle

persone al sequestro di mezzi collettivi di trasporto ed alla disponibilità di armi pericolose, sono state in primo

luogo individuate condotte storicamente proprie del terrorismo, a livello nazionale ed internazionale, e

strutturalmente idonee a generare intimidazione a livello individuale e collettivo. In secondo luogo, ed avuto

particolare riguardo al danneggiamento di cose, sono stati individuati solo comportamenti capaci di provocare

conseguenze disastrose, e dunque, nuovamente, idonei nella stessa direzione sopra indicata ("distruzioni di vasta

portata", "diffusione di sostanze pericolose", "cagionare incendi, inondazioni, esplosioni", "manomissione o

interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali").

Il legislatore europeo, cioè, ha tarato l'offesa con un criterio misto di descrizione dell'evento di pericolo e di

indicazione delle condotte in astratto idonee a provocarlo, confermando la gravità del fatto terroristico e la sua

tipicità: terrore indiscriminato, costrizione ("indebita") di un potere pubblico; destabilizzazione ("grave") delle

istituzioni.

E' stato anche osservato come un ulteriore tratto comune fra le condotte indicate sia costituito dalla

potenzialità lesiva per i beni primari dell'incolumità e della libertà personale: le ipotesi concernenti

attacchi alle cose sarebbero conformate in guisa da creare tipicamente rischio per le persone, non foss'altro che

per la scala dell'aggressione portata ai beni strumentali.

Questa era del resto la cifra della Convenzione Onu del 1999, che costituisce per esplicito una delle matrici dalle

quali è nata la Decisione del Consiglio europeo ed ha orientato le legislazioni nazionali e le relative interpretazioni

(compresa quella della giurisprudenza italiana) prima del 2002 (anno della Direttiva) e del 2005 (anno della

relativa trasposizione).

Ebbene, la tecnica definitoria adottata nella sede ONU è ben nota.

Da un lato si era fatto ricorso alle definizioni contenute in una lunga serie di convenzioni e trattati aventi ad

oggetto il terrorismo, elencati nell'allegato alla stessa Convenzione. Per altro verso, era dettata la norma di

chiusura, che varrebbe ad illuminare il contenuto più essenziale della nozione comunemente accolta di

terrorismo: "ogni altro atto destinato ad uccidere o a ferire gravemente un civile o ogni altra persona che non

partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato quando, per sua natura o contesto, tale

atto sia finalizzato ad intimidire una popolazione o a costringere un governo o un'organizzazione internazionale a

compiere o ad astenersi dal compiere, un atto qualsiasi" (art. 2, comma 1, lett. a) della Convenzione).

Anche da questi rilievi, e senza trarre conclusioni radicali (che qui non sono necessarie) sulla rilevanza terroristica

di attentati portati esclusivamente a beni materiali, si deduce agevolmente come detta rilevanza non possa che

essere subordinata, comunque, alla capacità di determinare l'effetto di intimidazione o costrizione che

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normalmente si connette alla minaccia di pregiudizio per i beni più essenziali della persona e dunque

della comunità civile.

4.6. La Corte ritiene, in definitiva, che la norma in commento abbia esplicitato come il finalismo

terroristico non sia un fenomeno esclusivamente psicologico, ma si debba materializzare in un'azione

seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma medesima. Secondo alcuni autorevoli

orientamenti dottrinali, l'idoneità della condotta a realizzare il fine perseguito dall'agente sarebbe

requisito comune a tutte le fattispecie segnate dal dolo specifico. In ogni caso - data la pressante esigenza

di delimitare il fatto tipico evitando un effetto di dilatazione della nozione di terrorismo tale da includere ogni

reato politicamente motivato, quale che sia la "scala" degli interessi in gioco - il legislatore ha espressamente

introdotto la previsione di un evento di pericolo, di portata tale ("grave") da incidere sugli interessi dell'intero

Paese, e di natura corrispondente alla realizzazione del fine perseguito dall'agente.

5. Passando alle caratteristiche oggettive e soggettive dei delitti di attentato, conviene anticipare come, a

parere della Corte, gli stessi siano segnati sul piano materiale dalla univoca direzione degli atti verso un evento

determinato e dalla idoneità degli atti medesimi a produrre la relativa lesione, con la conseguenza che la loro

integrazione, sul piano del dolo, resta esclusa nel caso di mera accettazione del rischio che il bene giuridico

subisca l'offesa.

5.1. In giurisprudenza, le questioni in esame sono state affrontate soprattutto con riguardo alla materia del

tentativo.

Anche l'incriminazione del delitto non compiuto, in effetti, risponde ad una logica di avanzamento della tutela

dei beni giuridici, fino a situazioni di mera creazione del rischio d'una lesione dei beni medesimi.

Per il tentativo, in verità, la compatibilità con i principi di offensività e legalità è assicurata, già sul piano letterale,

attraverso l'interazione tra le disposizioni degli artt. 56 e 49 cod. pen.. Il carattere concreto ed effettivo del

rischio, in particolare, è richiesto attraverso il parametro della idoneità, che la giurisprudenza definisce ancor oggi

con qualche dissonanza, ma sempre cura di connettere alle caratteristiche del caso di specie, analizzato secondo

un criterio ex ante ed in base alle circostanze conosciute dall'agente o conoscibili mediante l'esercizio di diligenza

e competenza ordinarie (di recente, Sez. 1, Sentenza n. 32851 del 10/06/2013, rv. 256991). Può escludersi certo

la necessità che l'evento perseguito risulti all'analisi fortemente probabile, ma è sicuramente esigibile una seria

esposizione a pericolo del bene.

Il requisito di idoneità concorre anche a circoscrivere il fatto punibile secondo il principio di tassatività, poichè in

sostanza inserisce nella previsione di legge il divieto di creare situazioni pericolose per un determinato interesse.

Ma per lo stesso scopo è indispensabile che il criterio concorrente dell'univocità sia inteso quale essenza del fatto

criminoso, e non semplicemente quale tema di prova o caratteristica dell'elemento psicologico. Occorre cioè, sul

piano obiettivo, che le condizioni in cui matura l'azione denuncino univocamente l'orientamento causale della

condotta verso un evento dato, tipicamente previsto dalla legge penale e diverso da ogni altro. Solo a queste

condizioni la tecnica di tipizzazione del tentativo si accosta ad altre, fondate appunto sull'orientamento e non

sulla descrizione (è il caso ad esempio del reato concorsuale ex art. 110 cod. pen.), e con esse condivide, secondo

l'opinione ampiamente maggioritaria, uno status di compatibilità con l'art. 25 Cost.. La giurisprudenza recente

conferma il cd. criterio di essenza sia quando ne desume la rilevanza dei soli atti esecutivi (Sez. 1, Sentenza n.

40058 del 24/09/2008, rv. 241649; Sez. 1, Sentenza n. 9411 del 07/01/2010, rv. 246620), sia quando nega

l'efficacia della distinzione tra preparazione ed esecuzione, ma esige, appunto, che il fatto risulti oggettivamente

diretto alla produzione di un evento dato (Sez. 2, Sentenza n. 36283 del 04/07/2003, rv. 228310; Sez. 4, Sentenza

n. 7702 del 29/01/2007, rv. 236110; Sez. 2, Sentenza n. 40702 del 30/09/2009, rv. 245123; Sez. 2, Sentenza n.

18196 del 04/03/2010, rv. 247045).

Dal punto di vista pratico, del resto, la corrispondenza tra il fine concreto di un determinato agire e la

congruenza allo scopo degli atti compiuti, secondo un criterio di comune apprezzamento, rappresenta la

modalità di gran lunga più frequente di accertamento del dolo punibile. Se la univocità "obiettiva" è elemento

costitutivo della fattispecie, l'atteggiamento della volontà non può che conformarsi sulla medesima. A maggior

ragione, l'unidirezionalità del momento volitivo risulta indefettibile qualora il requisito dell'univocità venga invece

concepito in termini essenzialmente soggettivi.

11

E' per queste ragioni che tutta la giurisprudenza recente, superando orientamenti più risalenti, ravvisa

incompatibilità tra il delitto tentato ed il dolo eventuale (da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 14342 del 20/03/2012, rv.

252565; Sez. 1, Sentenza n. 25114 del 31/03/2010, rv. 247707; Sez. 1, Sentenza n. 44995 del 14/11/2007, rv.

238705;Sez. 1, Sentenza n. 5849 del 18/01/2006, rv. 234069). E conviene subito mettere in evidenza il rilievo

particolare che l'enunciato, cui il Collegio aderisce pienamente, è destinato ad assumere nella prospettiva di un

superamento della tradizionale nozione di dolo eventuale quale mera "accettazione del rischio". Basti qui

ricordare come sembri orientato in questa direzione un recente deliberato delle Sezioni unite di questa Corte,

almeno stando alla relativa comunicazione provvisoria: "nel dolo si è in presenza di organizzazione della

condotta che coinvolge, non solo sul piano rappresentativo, ma anche volitivo la verificazione del fatto di reato.

In particolare, nel "dolo eventuale", che costituisce la figura di margine della fattispecie dolosa, un atteggiamento

inferiore assimilabile alla volizione dell'evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l'agente prevede

chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell'evento e, ciò non ostante, si determina ad

agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi. Occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia

confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta. A tal fine è richiesto

al giudice di cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo

sviluppo della condotta illecita al fine di ricostruire l'iter e l'esito del processo decisionale" (Sez. U, Sentenza

24/4/2014, in attesa di deposito).

5.2. Questa Corte ritiene - ed è la ragione dei rilievi fin qui svolti - che la categoria dei delitti di attentato

proponga questioni del tutto analoghe a quelle che hanno dovuto essere affrontate e risolte in materia di

tentativo.

Tale categoria è segnata dalla tecnica normativa utilizzata per anticipare la soglia di tutela del bene preso in

considerazione, punendo appunto condotte che mettano anche solo in pericolo il bene medesimo. La tecnica

consiste nell'indicazione dell'evento posto sullo sfondo delle singole fattispecie, e nel rinvio a tutte le condotte

"dirette a" provocarlo. Talvolta, si registra addirittura un ricorso diretto (ed ancor meno stringente) alla

definizione di sintesi del modello ("chiunque attenta").

Nei delitti di attentato manca, in realtà, il riferimento esplicito a quei fattori tipizzanti che invece

caratterizzano la previsione dell'art. 56 cod. pen., cioè l'idoneità e l'univocità degli atti.

Se si guarda per altro al panorama dottrinale recente, è comune l'opinione che si tratti di requisiti necessari anche

per le figure in questione. L'assunto, talvolta motivato in base ad una pretesa sovrapponibilità fra tentativo e

attentato, è oggi generalmente giustificato quale implicazione essenziale del principio di offensività, e comunque

quale condizione necessaria per la tassatività delle fattispecie.

Anche in giurisprudenza, poi, si è affermata stabilmente l'esigenza che la condotta di attentato presenti un

connotato di idoneità, anche se le variazioni dovute alla pluralità delle fattispecie ed al correre del tempo

varrebbero ad evidenziare, in esito ad un esame approfondito, concezioni non del tutto omogenee del relativo

concetto (omissis).

Il principio è stato affermato anche con specifico riguardo al delitto di cui all'art. 280 cod. pen.: "trattasi di

condotta che pone in essere un reato di pericolo attraverso una complessità di atti predisposti al fine, sicchè il

risultato è la conseguenza di una più o meno lunga serie di concatenate azioni umane, ognuna delle quali, se

suffragata dall'indispensabile elemento soggettivo, concorre alla realizzazione della condotta tipica di attentato,

pur se trattasi di un anello iniziale, semprechè l'azione nel suo complesso risulti idonea, giusta i principi generali

sanciti nell'art. 49 cod. pen., da valutare diversamente rispetto ai reati di danno appunto perchè si tratta di reato

di pericolo e quindi tenendo conto - ai fini della idoneità -anche del concorso di fattori eventuali, atteso il fine

della norma, mirata a prevenire non solo il danno bensì l'insorgenza di una semplice situazione di pericolo" (Sez.

1, Sentenza n. 10233 del 18/12/1987, rv. 179470).

Caratteristiche analoghe presenta il tema dell'univocità quale elemento essenziale del tipo nei reati in questione:

"ai fini della configurabilità dei delitti di pericolo e di attentato vi deve essere almeno un'estrinsecazione della

condotta, tale da rivelare in modo inequivoco nella sua oggettività l'intenzione dell'agente di raggiungere il fine

che si è prefisso: in essi devono pertanto essere necessariamente presenti i requisiti di idoneità degli atti e di

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univocità della loro direzione teleologica" (così, in relazione al delitto di strage, Sez. 1, Sentenza n. 3150 del

05/03/1991, rv.

186975; nello stesso senso, incidentalmente, Sez. 1, Ordinanza n. 995 del 19/05/1976, rv. 134302). Il concetto è

stato espresso anche con specifico riguardo al delitto che direttamente interessa in questa sede: occorre che "gli

atti, pur se meramente preparatori, siano tuttavia tali da dimostrarsi, in linea di fatto, come idonei ed

inequivocabilmente diretti alla realizzazione di quello che, in assenza della specifica previsione, sarebbe il reato

consumato" (Sez. 1, Sentenza n. 11344 del 10/05/1993, rv. 195756).

Ciò detto, deve necessariamente concludersi, in armonia con l'opinione dottrinale più autorevole e prevalente,

che la forma eventuale del dolo sia incompatibile anche con i delitti di attentato. Non si tratta di postulare

una piena sovrapposizione tra tentativo ed attentato. Si è già visto come, in una prospettiva di apprezzamento

"essenziale" dell'univocità, la forma del dolo non potrebbe che allinearsi sulla struttura oggettiva del fatto, e cioè

sulla percezione e sulla volizione di una destinazione univoca del proprio agire verso la produzione di un evento

dato. A maggior ragione, lo stesso risultato si imporrebbe nel contesto d'una considerazione del requisito in

termini essenzialmente soggettivi.

6. Possono essere tratte, a questo punto, alcune rapide conclusioni circa la struttura dei delitti contestati ai

ricorrenti mediante i capi A e B della rubrica del provvedimento restrittivo.

Per l'integrazione dei reati puniti agli artt. 280 e 280-bis cod. pen. è necessario il compimento, per finalità di

terrorismo o di eversione dell'ordine democratico (dunque costituzionale), di atti idonei diretti in modo non

equivoco a provocare gli eventi posti sullo sfondo delle rispettive fattispecie, con un atteggiamento della volontà

direttamente mirato alla produzione degli eventi medesimi.

In particolare, il delitto di Attentato con finalità terroristiche o di eversione è segnato, sul piano

soggettivo, da un doppio finalismo dell'agente. L'azione deve essere anzitutto ispirata dal fine di

eversione dell'ordine democratico o da quello, qui rilevante, di terrorismo (che a sua volta si sostanzia

nella consapevolezza di creare il rischio di un grave danno al Paese in conseguenza della possibile realizzazione di

uno tra gli scopi tipici indicati nell'art. 270-sexies cod. pen.). Al tempo stesso, l'azione deve mirare a

provocare morte o lesioni in danno di una persona, quali avvenimenti strumentali allo scopo. La morte

o le lesioni sono dunque gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica.

E' rispetto a tali esiti che va misurata l'idoneità e la univocità degli atti compiuti dall'agente. Ed è

rispetto a tali esiti, per tutto quanto si è detto, che deve direttamente (e non eventualmente) dirigersi la

volontà dello stesso agente.

Analoghe considerazioni vanno svolte, mutatis mutandis, quanto al delitto previsto e punito dall'art.

280-bis cod. pen., cioè l'Attentato di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi. Qui l'evento che la

condotta deve essere idonea a produrre, e verso il quale deve essere univocamente orientata, è il

danneggiamento di cose mobili o immobili altrui.

(omissis)

Cass., Sez. I, 9 settembre (dep. 9 ottobre) 2015, n. 40699, recante il primo approfondimento

della S.C. sul reato di arruolamento per finalità di terrorismo ex art. 270-quater cp

“Pur non potendosi certo equiparare il termine ‘arruolamento’, scelto dal legislatore, al diverso e più ampio

concetto di ‘reclutamento’, è necessario affermare che il significato è qui equiparabile alla nozione di

ingaggio, intesa come raggiungimento di un ‘serio accordo’ tra soggetto che propone (il compimento, in

forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo) e soggetto che

aderisce. … non può, peraltro, escludersi in via generalizzante e dogmatica l’ipotesi del tentativo punibile in

rapporto a condotte poste in essere dal soggetto proponente e tese, con i caratteri di cui all’art. 56 c.p., (ed in

presenza dei descritti presupposti di contesto e finalistici) al raggiungimento del suddetto accordo. Non è

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infatti la particolare natura del reato (di pericolo) ad impedire - di per sé - l’applicazione della generale

previsione estensiva di cui all’art. 56 c.p., quanto la struttura della singola fattispecie”

Omissis… 2. Nell'affrontar e i temi posti dal ricorrente e relativi al contenuto del provvedimento impugnato, vanno operate alcune premesse in diritto relative alla stessa previsione incriminatrice di cui all'art. 270 quater c.p., oggetto di diversa lettura da parte dei diversi attori intervenuti nella procedura incidentale di merito. 2.1 Detta disposizione, introdotta dal D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 15, (conv. con mod. in L. n. 155 del 31.7.2005), va considerata quale frammento di un più ampio sistema di tutela (oggetto di ulteriore intervento ampliativo con il recente D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modificazioni dalla L. 17 aprile 2015, n. 43) teso a realizzare forme di incriminazione in larga misura derivanti dai contenuti della Convenzione del Consiglio d'Europa per la prevenzione del terrorismo redatta a Varsavia il 16 maggio del 2005 (firmata dall'Italia in data 8 giugno 2005 ma a tutt'oggi non ratificata dal nostro paese). Con il detto decreto legge ..ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto nei confronti del terrorismo internazionale, anche alla luce dei recenti gravissimi episodi con l'introduzione di ulteriori misure preventive e sanzionatone., venivano introdotte - per quanto qui rileva - le fattispecie che seguono: art. 270-quater (Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale). (omissis) Art. 270-quinquies. (Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale). (omissis) La legge di conversione n. 155 del 31 luglio 2005, oltre a modificare il contenuto delle previsioni incriminatrici testè formulate introduceva - tra l'altro - l'ulteriore art. 270 sexies teso a normativizzare la nozione della finalità di terrorismo. Ne deriva il seguente assetto normativo, vigente al momento dei fatti oggetto del procedimento incidentale (senza tener conto della modifica operata con il citato D.L. del febbraio 2015): (omissis) E' necessario ricordare, inoltre, che già a seguito dei contenuti del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374 (conv. con mod. con L. n. 438 del 15 dicembre 2001) la finalità di terrorismo caratterizzante la fattispecie associativa di cui all'art. 270 bis c.p. ricorre anche quando gli atti di violenza (di cui il gruppo si propone il compimento) sono rivolti contro uno stato estero, una istituzione e un organismo internazionale, così come con la medesima novellazione del 2001 è stata introdotta - in tale settore - la fattispecie incriminatrice di assistenza agli associati di cui all'art. 270 ter. Trattandosi, peraltro, di delitti inclusi nel capo primo (delitti contro la personalità internazionale dello Stato) del titolo primo del libro 2^ c.p. vanno ritenute applicabili - salva la particolare natura delle fattispecie e la compatibilità di sistema - le previsioni degli articoli 302 (punibilità della mera istigazione) e 304 (punibilità del mero accordo) derogatrici delle regole ordinarie poste in tema di concorso di persone nel reato (art. 115). 2.2 Il sistema di tutela in esame, pur senza includere l'analisi delle ulteriori modifiche apportate di recente (il D.L. del 2015, per quanto di interesse, introduce la punibilità del soggetto arruolato con doppia clausola di riserva espressa sia in rapporto alla fattispecie di cui all'art. 270 bis che a quella del art. 270 quinquies e pena inferiore nel massimo a quella relativa al partecipe dell'associazione o all'addestrato, nonchè incrimina - art. 270 quater 1 - in via autonoma l'organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo realizzata anche tramite propaganda, oltre a punire l'autoaddestramento caratterizzato da univoca finalizzazione al compimento di atti di terrorismo..) appare dunque decisamente orientato a realizzare una tipizzazione di figure delittuose autonome rispetto quantomeno alla prova della partecipazione (o del concorso esterno) ad una associazione avente i caratteri di cui all'art. 270 bis , in un contesto non scevro da valorizzazioni della categoria del pericolo quale fonte di legittimazione della risposta punitiva. (omissis) 3. Per quanto rileva ai fini della decisione del presente ricorso, va pertanto realizzata - date per acquisite le linee fondanti il complesso sistema di tutela sin qui brevemente ricordato - una preliminare verifica del significato della espressione utilizzata dal legislatore nel corpo della disposizione di cui all'art. 270 quater. Nel compiere tale operazione - in ossequio al generale principio di cui all'art. 12 c.d. preleggi (peraltro rafforzato nella sua valenza dalla materia penalistica) - va tenuta presente la collocazione "topografica" della norma incriminatrice e va altresì operata una lettura non limitata al singolo termine utilizzato (chiunque ..arruola) ma estesa all'intera proposizione (..per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo..).

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La connessione delle parole (per stare nel solco tracciato dal citato articolo 12) è infatti spesso rivelatrice del reale significato del termine prescelto per descrivere una condotta, lì dove - come nel caso in esame - il dato semantico può di per sè essere polisenso. Come è dimostrato non solo dagli atti del presente procedimento ma dalla varietà di opinioni espresse - sul tema - in dottrina, l'utilizzo del termine "arruola" non appare, nel contesto di riferimento, dei più felici, posto che lo stesso evoca - in prima approssimazione - il "fatto" dell'inserimento effettivo del soggetto arruolato in un "ruolo" militare, in modo non dissimile da quanto previsto dalla diversa fattispecie di cui all'art. 244 c.p. (atti ostili verso uno stato estero che espongono lo stato italiano al pericolo di guerra, ove è punita la condotta di chi, senza l'approvazione del governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno stato estero, in modo da esporre lo stato italiano a pericolo di guerra). E' evidente che la nozione di arruolamento - inserita nel corpo dell'art. 244 -implica non solo la stipulazione di un contratto ma l'inquadramento dell'arruolato in una struttura di tipo militare in senso effettivo (così Sez. 6^ n. 36776 del 1.7.2003, rv 226050). Depone in tale direzione interpretativa lo stesso presupposto dell'assenza della 'approvazione del governo", così come la condizione di punibilità rappresentata dal "pericolo di una guerra", il che sottende scenari (si spera superati) di potenziale belligeranza tra eserciti regolari (la norma è figlia dell'epoca di redazione). Ma, ed è questo il punto, nessuna similitudine di contesto e di finalità è dato riscontrare tra le due norme qui in rilevo (art. 244 e art. 270 quater) il che autorizza - in effetti - a ritenere che, ferma restando l'identità lessicale, il termine sia stato utilizzato dal legislatore del 2005 in senso parzialmente diverso. Il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo (e ancor di più il sabotaggio) non implica nè presuppone l'esistenza di un regolare esercito, quanto di formazioni organizzate di tipo paramilitare, anche con ristretto numero di aderenti, a composizione mobile, necessariamente idonee alla mimetizzazione, fermo restando che nei casi di maggior gravita - come quello oggetto del procedimento qui scrutinato - possono riscontrarsi forme organizzative dotate di tendenziale stabilità e rilevanza locale che ne accentuano il carattere militare. Nessun riferimento all'ingresso formale in formazioni militari, del resto, è dato rinvenire nella citata fonte sovranazionale (fermo restando il valore solo orientativo del richiamo), che - di contro - valorizza l'aspetto finalistico della partecipazione al (previsto) atto di terrorismo o la stimolazione all'ingresso nel gruppo organizzato avente tali finalità. Appare dunque necessario - ad avviso del Collegio - esplorare la nozione di arruolamento di cui all'art. 270 quater calando l'utilizzo del termine nel contesto espressivo globale della disposizione, tenendo presente la forte valorizzazione normativa dello scopo dell'atto qualificato come illecito. In tal senso, pur non potendosi certo equiparare il termine "arruolamento", scelto dal legislatore, al diverso e più ampio concetto di "reclutamento", è necessario affermare che il significato è qui equiparabile alla nozione di ingaggio, intesa come raggiungimento di un "serio accordo" tra soggetto che propone (il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo) e soggetto che aderisce. 3.1 Ritiene, infatti, il collegio che tale conclusione sia imposta da più considerazioni, esprimibili nel modo che segue : a) la differenza obiettiva tra i concetti di reclutamento e arruolamento è presente nella legislazione italiana in virtù dell'avvenuta ratifica, con L. 12 maggio 1995, n. 210, della convenzione internazionale contro il reclutamento, l'utilizzazione, il finanziamento e l'istruzione di mercenari adottata dall'assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 4 dicembre 1989. Detta convenzione internazionale mira a reprimere il fenomeno dell'ingaggio, in formazioni militari o paramilitari, caratterizzato non già da adesione ideologica a scopi latamente politici o religiosi quanto dal vantaggio economico che ne deriva per il soggetto reclutato, in presenza delle condizioni e finalità dell'azione descritte nel testo dell'atto. Ora, all'art. 4 della legge di ratifica si punisce espressamente la condotta del "reclutare", intesa - come precisato da Sez. 6^ n. 36776 del 2003 - come comprensiva di ogni attività di reperimento di persone disponibili ad operazioni militari mercenarie e di raggiungimento di un accordo, finalizzato al loro impiego. Trattasi pertanto di condotta inclusiva - sotto il profilo del rilievo penale - della fase che precede l'accordo (oltre che l'effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato. b) la scelta, da parte del legislatore nel 2005, del termine "arruola" (in luogo di recluta) non può pertanto ritenersi priva di valore, nel senso che è da ritenersi espressiva - fermo restando quanto detto in precedenza - della volontà di "fissare" il momento consumativo del reato in una fase più avanzata rispetto a quella della mera proposta (da parte del reclutante) o trattativa, anche in ragione del particolare settore in cui è

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collocata la norma (la finalità di terrorismo) e del relativo rischio di confondere l'attività di mero proselitismo ideologico con il fatto tipico di reato; c) ciò, tuttavia, non consente di affermare che la consumazione del delitto di arruolamento debba essere collocata "oltre" rispetto al momento del raggiungimento del "serio accordo" tra arruolante e arruolato, ove l'accordo risulti qualificato dalla "doppia finalità" prevista dalla norma incriminatrice (compimento di atti di violenza o sabotaggio con finalità di terrorismo) e ciò in virtù del fatto che, oltre a quanto già detto, è il raggiungimento dell'accordo (nei suddetti termini) ad integrare il disvalore del fatto ed a porsi come momento di raggiungimento dell'elevato pericolo (in tesi presunto) cui è correlata la punibilità. In effetti, ciò che la norma intende reprimere è l'accrescimento umano (anche un di un solo soggetto) della potenzialità di offesa del sottostante gruppo (militare, paramilitare, semplice cellula operativa) avente la finalità "specializzante" di cui all'art. 270 sexies - in ragione del particolare valore dei plurimi beni giuridici protetti - e tale effetto si raggiunge in virtù della conclusione dell'accordo, al di là degli eventi successivi, che non appaiono presi in considerazione da tale segmento del più ampio sistema di tutela. E' stato, tra l'altro, evidenziato che la mancata punibilità nella previsione originaria della norma (oggi significativamente emendata con il d.l. del febbraio 2015) dell'arruolato, ben può essere dipesa dalla considerazione (lì dove gli atti programmati siano stati dal medesimo realizzati con inserimento effettivo nella struttura operativa) della sua possibile punibilità ai sensi dell'art. 270-bis (Sez. V n. 39430 del 2.10.2008, rv 241742) in una logica legislativa di estensione dell'area di punibilità incentrata, all'epoca, sulla condotta "concludente" dell'arruolante. Del resto, l'assetto che qui si ricostruisce - con identificazione del momento consumativo del reato in quello del serio accordo - appare rafforzato, sul piano logico, proprio dalla recente introduzione della punibilità dell'arruolato, peraltro prevista con pena inferiore rispetto al massimo edittale stabilito per il partecipe, posto che viene valorizzato il semplice effetto di incremento della potenzialità di offesa del gruppo. Ciò che rileva, a parere del collegio, è che l'accordo di arruolamento abbia non solo il carattere della serietà - intesa da un lato come autorevolezza della proposta (il proponente deve avere la concreta possibilità di inserire l'aspirante nella struttura operativa una volta concluso l'ingaggio) e dall'altro come fermezza della volontà di adesione al progetto - ma soprattutto sia caratterizzato in modo evidente dalla doppia finalizzazione prevista dalla norma (con relativa pienezza dell'elemento psicologico) il che giustifica la sua incriminazione, per quanto sinora detto. Una volta raggiunto tale assetto - relativo alla consumazione del reato - non può, peraltro, escludersi in via generalizzante e dogmatica l'ipotesi del tentativo punibile in rapporto a condotte poste in essere dal soggetto proponente e tese, con i caratteri di cui all'art. 56 c.p., (ed in presenza dei descritti presupposti di contesto e finalistici) al raggiungimento del suddetto accordo. Non è infatti la particolare natura del reato (di pericolo) ad impedire - di per sè -l'applicazione della generale previsione estensiva di cui all'art. 56 c.p., quanto la struttura della singola fattispecie (il che rende non pertinenti i richiami esposti dal Tribunale ad arresti di questa corte relativi a reato del tutto diverso) e la possibilità o meno di identificare in concreto una "progressione della esposizione a pericolo" dei beni giuridici protetti, come ritenuto - pur nell'ovvio contrasto di opinioni - da autorevole dottrina. Nel caso in esame, essendo il reato consumato incentrato su un evento (per quanto detto, il serio accordo) altamente pericoloso, è da ritenersi tollerabile ed identificabile in concreto (ferme restando le complessità probatorie) una progressione (nell'attività tesa alla promozione e realizzazione dell'accordo) tale da integrare la soglia di punibilità della condotta, con l'ovvia necessità di distinguere i caratteri del tentativo punibile rispetto alla attività di mero proselitismo o libera manifestazione del pensiero (circa tali aspetti Sez. 1^ n. 4433 del 6.11.2013, dep. il 30.1.2014) e con l'altrettanto avvertita necessità di confrontarsi con le scelte di incriminazione operate dal legislatore e relative a fattispecie analoghe (art. 302 c.p., art. 414 c.p.). Va evidenziato, sul punto, che la recente tendenza normativa - pur non ricadente sul caso in esame ratione temporis - appare essere proprio quella della tipizzazione (con tutta la complessità interpretativa che il tema pone) di ipotesi di tentativo punibile, lì dove - ad esempio - si considerino le condotte descritte all'art. 270 quater 1, ed in particolare quella del propagandare viaggi in territorio estero finalizzati al compimento di condotte con finalità di terrorismo. 4. (omissis)

II. DELITTI CONTRO LA P.A.

16

Cass., sez. un., 2 maggio 2013, n. 19054, sulla qualificazione dell’utilizzo del telefono d'ufficio per

fini personali in termini di peculato d’uso.

1. La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è "se l'utilizzo per fini personali di

utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l'appropriazione richiesta per la

configurazione del delitto di peculato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrattiva o

fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a

danno dello Stato".

2. L'approccio e le soluzioni ad essa dati da parte della giurisprudenza sono variati nel tempo.

2.1. Un primo e più remoto orientamento ha ritenuto che la condotta in questione integri il reato di peculato

d'uso ex art. 314 c.p., comma 2.

Essa, infatti, non realizzerebbe un'appropriazione degli impulsi elettronici (gli "scatti"), ma un'interversione

momentanea del possesso (seguita da restituzione immediata) dell'apparecchio (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996,

Catalucci, Rv. 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746; Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep.

2001, Veronesi), per la quale non sarebbe necessaria la fuoriuscita della cosa dalla sfera di disponibilità e

controllo del proprietario, essendo sufficiente che l'agente si comporti nei confronti della cosa medesima, sia

pure in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio, uti dominus, realizzando finalità estranee agli

interessi del proprietario (Sez. 6, n. 788 del 14/02/2000, Mari, Rv. 217342).

Il percorso giustificativo di tale approdo ermeneutico muove dal rilievo generale (v. Sez. 6, n. 7364 del 1997,

Guida, cit.) che, se il pubblico agente possiede in nome e per conto della pubblica amministrazione gli arredi e le

attrezzature dell'ufficio nella loro materiale disponibilità proprio in ragione delle sue mansioni, non par dubbio

che un'aversione dal loro uso conforme alla destinazione data dalla pubblica amministrazione per il

perseguimento del pubblico interesse, con correlativo volgimento a estranei fini di personale vantaggio in un

tempo dato e in modi apprezzabili, comporta un'inammissibile interversione del possesso e quindi

un'appropriazione. La reversibilità dell'interversione, alias la possibilità di restituire il bene impropriamente

utilizzato alla normale destinazione d'uso, e quindi la durata dell'interversione predetta, sono in sè irrilevanti

perchè l'uso "momentaneo", purchè apprezzabile, della cosa e la sua restituzione "immediata", cioè omisso

medio, delimitano appunto e caratterizzano la nuova figura di reato del peculato d'uso rispetto alla fattispecie più

grave, e ben più gravemente sanzionata, disciplinata dal comma primo del medesimo art. 314 c.p., nella formula

introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 1. Nell'ipotesi in esame, dunque, il reato si realizza non già in

relazione alla fruizione di un servizio non dovuto, insuscettibile, per la sua immaterialità, di essere inquadrato

nella fattispecie astratta, bensì in relazione all'interversione del possesso correlata all'uso deviato, imprescindibile

per fruire di quel servizio, dell'apparecchio telefonico affidato alla disponibilità materiale dell'agente. In altri

termini, a configurare il reato nel caso in questione è l'esercizio di un possesso a fini propri e, quindi, in nome

proprio, che, caratterizzato da un animus rem sibi habendi diverso da quello dovuto, denunzia l'appropriazione

di un bene pubblico, destinata a breve durata perchè connotata appunto dal fine di "fare uso momentaneo della

cosa" (affidata all'agente in ragione del suo ufficio o servizio), ma pur sempre di rilevanza penale.

2.2. Secondo il più recente, e prevalente, orientamento giurisprudenziale, la condotta in esame integra, invece, gli

estremi del peculato comune. Si osserva in proposito che l'uso del telefono si connoterebbe non nella fruizione

dell'apparecchio telefonico in quanto tale, ma nell'utilizzazione dell'utenza telefonica, e l'oggetto della condotta

appropriativa sarebbe rappresentato (non già dall'apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì) dall'energia

occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l'oggetto

materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione ope legis alla cosa mobile. Così individuata la

"cosa mobile altrui", vi sarebbe da parte dell'intraneus una vera e definitiva appropriazione degli impulsi

elettronici occorrenti per la trasmissione della voce e non restituibili dopo l'uso (di tal che l'eventuale rimborso

delle somme corrispondenti all'importo delle telefonate può valere solo come ristoro del danno cagionato). In

sostanza, il pubblico agente, attraverso l'uso indebito dell'apparecchio telefonico, si approprierebbe delle energie,

entrate a far parte della sfera di disponibilità della p.a., occorrenti per le conversazioni (omissis).

17

Si precisa peraltro che in tanto è configurabile il peculato ordinario, in quanto possa riconoscersi un apprezzabile

valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l'insieme di più telefonate,

quando queste siano così ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come un'unica condotta (Sez. 6, n.

25273 del 09/05/2006, Montana, Rv. 234838; v.anche, sul punto, Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 2011, Di

Maria, Rv. 249201). Sul piano della applicazione concreta possono segnalarsi casi di chiamate a linee telefoniche a

contenuto erotico dall'importo assai elevato (Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, Maggiore e altro, Rv.236627; Sez.

6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 2005, Aiello, Rv.231032), ovvero a Paesi esteri per scopi ludici (Sez. 6, n. 21165

del 29/04/2009, G.A.), o comunque personali (Sez. 6, n. 2525 del 04/11/2009, dep. 2010).

Il rigore di questo orientamento giurisprudenziale viene mitigato anche con il rilievo che nel concreto assetto

dell'organizzazione pubblica è possibile riscontrare, talora, una sfera di utilizzo della linea telefonica dell'ufficio

per l'effettuazione di chiamate personali che non può considerarsi "esulante del tutto dai fini istituzionali" e nella

quale, quindi, non si realizza l'evento appropriativo (Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.). Si tratta di quelle

situazioni in cui il pubblico dipendente, sollecitato da impellenti esigenze di comunicazione privata (durante

l'espletamento del servizio), finirebbe - ove non potesse farvi rapidamente fronte tramite l'utenza dell'ufficio - per

creare addirittura maggior disagio all'amministrazione sul piano della continuità e/o della qualità del servizio: in

questi casi, verificandosi una convergenza fra il rispetto di importanti esigenze personali e il più proficuo

perseguimento dei fini pubblici, è la stessa amministrazione ad avere interesse a consentire al dipendente l'uso

della linea dell'ufficio per fini privati.

Un preciso e significativo riscontro formale di tale realtà è stato rinvenuto nel decreto del 31 marzo 1994 del

Ministro per la Funzione pubblica (G.U., n. 149 del 28 giugno 1994), che, nel definire il codice di

comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ha specificamente previsto che "in casi

eccezionali", dei quali va informato il dirigente dell'ufficio, il dipendente possa effettuare chiamate personali dalle

linee telefoniche dell'ufficio (v. la prima parte dell'art. 10, comma 5, del D.M. citato): statuizione nella quale, fra

l'altro, all'informativa al dirigente dell'ufficio viene attribuita natura di mero adempimento formale, che - al di là

delle possibili conseguenze disciplinari della sua violazione - non condiziona l'autonoma e sostanziale "rilevanza

derogatoria" del "caso eccezionale".

(omissis)

2.3. L'orientamento da ultimo illustrato trova seguito anche in relazione all'affine questione del computer in

dotazione all'ufficio del pubblico funzionario, utilizzato per navigare in internet su siti non istituzionali (Sez. 6, n.

20326 del 15/04/2008, D'Alfonso). In tal caso non si manca peraltro di sottolineare la necessità di verificare il

tipo di convenzione che lega l'ente al gestore del servizio di internet, e cioè se l'ente paghi una somma forfettaria

al mese (c.d. tariffa flat), per cui è economicamente indifferente il numero e la durata delle connessioni ad

internet eseguita dall'ufficio (e non vi è danno economico anche a fronte di connessioni illegittime), o se, di

contro, l'ente paghi in funzione della durata delle singole connessioni, caso in cui la condotta illegittima del

dipendente provocherebbe un immediato danno patrimoniale all'ente (Sez. 6, n. 41709 del 2010, Ermini, cit.).

Distinzione analoga potrebbe evidentemente farsi anche per le tariffe telefoniche. Invero, se con la tariffa "a

consumo" ogni scatto in più, effettivamente, non fa altro che aumentare il danno patrimoniale della p.a., dato che

ogni telefonata per scopi privati determina un indebito accrescimento di quanto dovuto al gestore telefonico, al

contrario con la tariffa c.d. "forfettaria" o "tutto- incluso", grazie alla quale l'utente corrisponde al gestore

telefonico un canone mensile fisso, indipendentemente dalle telefonate e dagli scatti realmente effettuati, non vi

sarebbe alcuna forma di deminutio patrimonii, dato che - indipendentemente dalla realizzazione di una o più

telefonate a scopi privati - la p.a. pagherebbe al gestore telefonico sempre lo stesso importo predeterminato, a

prescindere quindi dal traffico telefonico realizzato.

2.4. Talora l'uso indebito del telefono è stato ricondotto alla fattispecie dell'abuso d'ufficio (v. Sez. 6, n. 20094 del

04/05/2011, Miscia, Rv. 250071, relativa alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che utilizzava

l'apparecchio telefax in dotazione dell'ufficio, per procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al coniuge), anche

se in genere questa possibilità viene esclusa, in ragione della impossibilità di configurare, in tale comportamento,

una "violazione di norme di legge o di regolamento", quale requisito essenziale per l'integrazione del delitto

18

punito dall'art. 323 c.p., quale risultante della nuova formulazione della fattispecie introdotta dalla L. 16 luglio

1997, n. 234.

(omissis)

2.5. Per completare la rassegna di giurisprudenza, bisogna anche dar conto di un orientamento, sporadicamente

emerso nella giurisprudenza di merito (Trib. Trento, 29 marzo 2000, Zanlucchi; Trib. Sanremo, 19 ottobre 1995,

X), che ritiene che l'uso privato del telefono d'ufficio sia sempre penalmente irrilevante, non potendosi

equiparare il semplice "uso" alla "appropriazione".

Si osserva, a supporto della tesi, che l'uso del telefono da luogo soltanto ad un addebito a carico della pubblica

amministrazione delle somme corrispondenti all'entità delle utilizzazioni di volta in volta effettuate, con la

conseguenza che parrebbe inopportuno parlare di "appropriazione". L'oggetto materiale della condotta, infatti, è

rappresentato nella specie dal telefono come strumento di utilizzazione dell'utenza telefonica d'ufficio, e, siccome

tale apparecchio rimane sempre nella disponibilità della pubblica amministrazione di appartenenza, la condotta di

indebita utilizzazione da parte del pubblico funzionario dell'utenza telefonica intestata all'amministrazione per

l'effettuazione di conversazioni personali non può integrare nè gli estremi del peculato comune, nè quelli del

peculato d'uso.

In altri termini, viene negata la stessa configurabilità di una condotta di appropriazione, stante il mancato

perfezionamento "negativo" della stessa, consistente nell'esclusione totale del proprietario dal rapporto con la

cosa.

3. La disamina del panorama dottrinale mostra analoga varietà di vedute, con una sensibile divaricazione di

indirizzi interpretativi, connotati, talora, da sostanziali analogie con il ragionamento sotteso al discorso

giurisprudenziale, e, in altre occasioni, da una vera e propria originalità di impostazioni sul piano dogmatico.

3.1. Alcuni Autori ritengono sussumibile la fattispecie in esame nel paradigma dell'art. 314 c.p., comma 1,

aderendo sostanzialmente alla tesi accolta dal più rigoroso orientamento giurisprudenziale, secondo cui

l'appropriazione non riguarda l'apparecchio in sè e per sè, ma le energie che danno luogo al colloquio telefonico e

che, pertanto, non possono essere mai oggetto di restituzione se non sotto il riflesso del risarcimento del danno

provocato alla pubblica amministrazione.

Secondo tale impostazione, al pubblico agente non interessa lo strumento telefonico, ma il servizio che esso

rende, che si identifica nella telefonata, e il danno cagionato alla p.a. è costituito dal consumo degli "scatti", cioè

delle energie necessarie per la effettuazione della conversazione.

All'interno dell'orientamento in discorso, e focalizzando maggiormente l'attenzione sui profili economici della

fattispecie, si è proposta l'opportunità di una distinzione di carattere preliminare, a seconda che l'amministrazione

interessata abbia o meno un piano telefonico a forfait, in modo tale che il numero delle singole telefonate non

incida sull'ammontare di spesa.

Nel caso in cui ogni telefonata abbia un singolo costo, sembra infatti ragionevole ritenere che il pubblico agente

che impiega indebitamente il telefono d'ufficio debba rispondere di peculato comune, essendosi in sostanza

appropriato delle risorse economiche della pubblica amministrazione (di cui disponeva per ragioni d'ufficio)

impegnate per il pagamento delle telefonate.

In caso, invece, di contratto telefonico a forfait, l'impiego del telefono d'ufficio per ragioni personali potrà

configurare peculato comune, se il pubblico agente ne faccia uso in modo prolungato (impedendo ad es. l'uso ad

altri o occupando le linee telefoniche d'ufficio), ovvero peculato d'uso, se l'uso sia momentaneo.

In entrambe le ipotesi considerate, esulerebbero peraltro dalla punibilità le situazioni connotate da episodicità o

sporadicità, per difetto del requisito implicito del danno al patrimonio e al buon funzionamento della p.a., ovvero

per l'esercizio di un diritto (arg.ex art. 51 c.p.), espressamente conferito ai pubblici dipendenti dall'art. 10, comma

5, del codice di comportamento approvato con il D.M. 31 marzo 1994.

Nel commentare criticamente l'orientamento giurisprudenziale che non inquadra nel peculato, ma nel reato di

abuso d'ufficio, la connessione abusiva ad internet da parte del pubblico ufficiale, altra opinione dottrinale si

colloca sostanzialmente nella medesima prospettiva ermeneutica sopra delineata, rilevando che l'autore della

condotta incriminata non farebbe solo un uso momentaneo del computer e della linea telefonica (rectius del

modem), ma si approprierebbe delle energie - impulsi elettronici - relative alle connessioni ad internet. Tali

19

energie sarebbero oggetto di un'appropriazione vera e propria da parte dell'agente, con correlativa definitiva

perdita per l'amministrazione, non essendone possibile la restituzione.

Muovendo dall'ampiezza del fenomeno dell'utilizzo delle nuove tecnologie sui luoghi di lavoro, pubblici e privati,

un'altra posizione dottrinale ritiene che il fatto di impegnare una linea telefonica non per comunicazioni

conformi al servizio, ma per frequentare chat line o per sbrigare la propria corrispondenza, può costituire, per il

pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, un'ipotesi di peculato ordinario non solo sotto il profilo

dell'appropriazione degli impulsi elettronici veicolati dall'apparecchio telefonico ed entrati a far parte della sfera

di disponibilità della p.a., ma anche sotto quello della sottrazione di risorse lavorative altrimenti impiegabili per il

lavoro dovuto.

La qualità ordinaria del peculato si evidenzierebbe così anche per la non restituibilità delle risorse lavorative

distratte e reindirizzate verso un impegno extralavorativo: a poco rileverebbe, in questa ottica, che il dipendente

utilizzi un sistema non comportante di fatto un aggravio di spesa per il datore di lavoro, poichè egli, oltre a

procurarsi un vantaggio lucrativo non spettantegli, certamente sottrae tempo ed energie alla sua attività per tutta

la durata della connessione, impegnando la linea dalla sua postazione per scopi estranei al lavoro.

Analoga soluzione interpretativa sarebbe, sia pur parzialmente, proponibile anche nel settore privato, dove tali

comportamenti potrebbero ritenersi sussumibili nell'ambito dello schema descrittivo delineato dall'art. 646 c.p., e

art. 61 c.p., n. 11: l'utilizzo inappropriato del modem, della linea telefonica, della postazione telematica nel suo

complesso, durante l'orario di lavoro, costituirebbe infatti una perdita irreversibile, non tanto degli strumenti in

questione, che verranno restituiti giocoforza al termine dell'attività, quanto delle risorse ed energie lavorative che

altrimenti sarebbero state impiegate più proficuamente dal dipendente per il disbrigo delle mansioni che gli erano

state affidate.

3.2. Parte della dottrina ha sottoposto invece a critica stringente la soluzione interpretativa che riconduce alla

fattispecie del peculato comune il comportamento del pubblico dipendente che indebitamente utilizzi il telefono

dell'ufficio per comunicazioni personali.

Muovendo dal duplice rilievo che, ove il possesso dell'energia dipenda dal possesso del bene da cui essa

promana, la configurabilità del peculato va valutata in rapporto non all'energia in quanto tale, bensì alla cosa che

la produce, e che il pubblico funzionario, per poter disporre dell'utenza telefonica, deve avere il possesso o la

disponibilità dell'apparecchio telefonico, si perviene alla conclusione che l'utilizzo a scopi personali dello stesso,

che viene così distratto dalla originaria destinazione, è riconducibile propriamente alla figura del peculato d'uso,

nel quale il fatto lesivo è costituito proprio dall'utilizzo non conforme alle finalità istituzionali e volto al

conseguimento di un vantaggio personale.

Non varrebbe in contrario l'obiezione che il concetto di restituzione non si attaglierebbe ai casi in cui l'uso del

bene avvenga senza la sua fuoriuscita dalla sfera di controllo del legittimo titolare.

Posto infatti che la specifica ratio dell'introduzione della nuova fattispecie del peculato d'uso è quella di evitare

un'impropria utilizzazione dei beni della pubblica amministrazione, il concetto di appropriazione momentanea

che in esso viene in rilievo appare omologo a quello della distrazione, nella quale non rileva che il bene sia o

meno sottratto alla sfera di disponibilità e controllo del legittimo proprietario, ma solo che venga distolto dalla

originaria destinazione pubblicistica. La restituzione del bene, in tale ipotesi, consisterebbe nella cessazione

dell'uso arbitrario, contrario all'interesse pubblico, e nella "riconduzione" del bene alla sua normale destinazione.

Allo scopo di evitare che la finalità attenuatrice della pena assegnata alla previsione di cui all'art. 314 c.p., comma

2, si converta in una eccessiva dilatazione della responsabilità, si è peraltro rimarcata la necessità che l'uso

momentaneo si risolva in un'apprezzabile offesa degli interessi del proprietario del bene, non potendosi dunque

ritenere configurabile il reato nelle ipotesi di uso economicamente e funzionalmente non significativo (anche al di

fuori dei casi d'urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3).

Di converso, non basterebbe un uso non momentaneo, ovvero non seguito dall'immediata restituzione della

cosa, a far rifluire automaticamente il fatto nell'ambito applicativo dell'art. 314 c.p., comma 1, apparendo

comunque assai problematica in tal caso la ravvisabilità del dolo della condotta appropriativa, e residuando

piuttosto, nella presenza dei previsti requisiti, la possibilità di una incriminazione della condotta a titolo di abuso

d'ufficio ex art. 323 c.p..

20

3.3. In una prospettiva affine ma non sovrapponibile si muove altro orientamento dottrinale, che, assimilando

l'uso indebito del telefono a quello dell'autovettura ed escludendo che l'oggetto della condotta, ricadente

palesemente in entrambi i casi sul bene fisico impiegato, possa identificarsi con l'energia in sè e per sè considerata

che ne esprime il funzionamento, rileva che non sussiste alcun valido motivo per escludere a priori che l'uso

possa costituire, nello schema del novellato art. 314 c.p., una forma di manifestazione della condotta

appropriativa, richiedendosi solo, a tal uopo, che la condotta di abuso possessorio si estrinsechi attraverso i due

momenti realizzativi dell'espropriazione (ossia, l'estromissione totale - ma non necessariamente definitiva - del

legittimo proprietario dal rapporto con la cosa) e dell'impropriazione (ossia, il disconoscimento dell'altrui signoria

attraverso atti dominicali incompatibili con l'interesse del vero avente diritto). In presenza di siffatti presupposti,

opererebbe come criterio di distinzione "interna" tra il peculato comune e il peculato d'uso l'elemento della

definitività dell'esclusione del dominus dal rapporto con la cosa: l'uso protratto per un tempo limitato e seguito

dall'immediata restituzione sarà riconducibile al capoverso dell'art. 314 c.p., mentre quello prolungato o

comunque non seguito dalla restituzione della res rientrerà nella più grave fattispecie del peculato comune.

In tale prospettiva ermeneutica, la linea di demarcazione "esterna", rispetto alla contigua fattispecie di abuso

d'ufficio, è segnata dalla completa estromissione del proprietario dal rapporto con il bene medesimo, solo in

mancanza della quale, restando inconfigurabile il delitto di peculato, potrà trovare applicazione, nella ricorrenza

di tutti gli altri presupposti, la fattispecie di cui all'art. 323 c.p..

3.4. Alla tesi della configurabilità del peculato d'uso, altra posizione dottrinale perviene attraverso un percorso

differente, che muove dal rilievo, contrario all'opinione dominante, che oggetto di tale figura di reato non sono

solo le cose infungibili ma anche quelle fungibili, come il denaro. La previsione della restituzione della "stessa"

cosa, recata dalla norma codicistica, andrebbe infatti letta in relazione alla natura della cosa stessa, nel senso che,

in caso di beni infungibili, ne esigerebbe la piena identità fisica, mentre, in caso di beni fungibili, quale il danaro,

richiederebbe solo che si tratti di cose della stessa specie e quantità.

Partendo da tale presupposto, si rileva che, quando il pubblico dipendente effettua chiamate personali dal

telefono dell'ufficio, non si appropria, definitivamente, delle energie che consentono la trasmissione della voce, e

neppure, momentaneamente, del mezzo fisico del telefono, ma si appropria invece, momentaneamente,

dell'utenza telefonica pubblica e, più precisamente, delle somme di denaro corrispondenti al costo delle

telefonate indebitamente effettuate, che distrae nell'immediato in suo favore, provvedendo poi a rifonderle.

3.5. Una diversa ricostruzione viene suggerita, infine, da quella dottrina, secondo la quale l'uso indebito del

telefono pubblico non ha ad oggetto l'impulso elettrico che consente la trasmissione della voce e non realizza

alcuna appropriazione di "energia", ma investe propriamente un "diritto di utenza", rientrante nel novero dei

beni immateriali e, come tale, insuscettibile di apprensione. Con la consegna e la conseguente concessione della

facoltà di utilizzo di un apparato telefonico, si trasferisce in sostanza a un soggetto il diritto di usufruire del

servizio telefonico. L'oggetto della condotta resta, quindi, il solo uso dell'utenza telefonica e non l'energia che ne

permette il funzionamento.

Nella prospettiva in discorso, chi si avvale in modo improprio del telefono in dotazione dell'ufficio, limitandosi

solo a disporre abusivamente di un diritto che gli è stato concesso, oltre a non realizzare alcuna appropriazione di

energia, non si appropria neppure, agli effetti dell'art. 314 c.p., comma 2, del mezzo fisico del telefono, in quanto

non ne sottrae la disponibilità alla pubblica amministrazione, e ciò anche se l'uso indebito avvenga con assiduita e

in via continuativa.

La condotta in esame resterebbe poi fuori anche dall'ambito applicativo del diverso reato di abuso d'ufficio, non

potendovisi allo stato ravvisare il necessario presupposto della violazione di una norma di legge o di regolamento

di carattere precettivo, considerato in particolare che il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche

amministrazioni (che vietando, all'art. 10, l'uso del cellulare e degli altri beni strumentali per fini privati, viene

senz'altro violato dal pubblico agente nell'uso improprio del telefono), non è stato emanato nelle forme previste

per i regolamenti governativi dalla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, e dunque non può rientrare fra le "fonti

normative" previste dall'art. 323 c.p. (come rilevato anche da Sez. 6, n. 45261 del 24/09/2001, NiCita, Rv.

220935).

21

Per poter attingere la soglia della sanzionabilità penale, l'uso indebito del telefono dovrebbe assumere modalità e

intensità tali da sottrarlo effettivamente e stabilmente alla disponibilità della pubblica amministrazione. In tal

caso, si realizzerebbe l'effetto appropriativo nella sua forma più grave delineata nell'art. 314, comma 1.

4. Per risolvere compiutamente la questione sottoposta alla Corte, è indispensabile tracciare, nei limiti di

pertinenza, un, sia pur rapido, profilo di alcuni tratti salienti del delitto di peculato, nelle due forme previste

dall'attuale testo dell'art. 314 c.p..

4.1. Nella sua originaria formulazione, la condotta di peculato si articolava in due forme, l'appropriazione e la

distrazione. Con la riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, si è: a) formalmente soppressa l'ipotesi

della distrazione a profitto proprio o di altri; b) abrogato il delitto (di cui all'art. 315 c.p.) di malversazione a

danno di privati (rifluito nella modificata fattispecie di peculato); c) introdotto, al comma secondo dell'art. 314,

l'ipotesi del peculato d'uso.

La introduzione del peculato d'uso come figura autonomamente disciplinata è stata in particolare spiegata con

l'intento sia di superare le precedenti incertezze sulla rilevanza penale delle condotte ad essa riconducibili, sia di

colmare possibili vuoti di tutela al riguardo.

La riforma del '90, pur se ha tendenzialmente accentuato l'aspetto del disvalore in sè dell'abuso qualificato e

interessato del possesso, rispetto alla protezione del patrimonio, non ha sostanzialmente inciso sul carattere

plurioffensivo del reato, quale tradizionalmente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza, in relazione alla

duplice tutela del buon andamento dell'attività della pubblica amministrazione (sotto i profili della legalità,

efficienza, probità e imparzialità) e del patrimonio della stessa o di terzi (v., fra le tante, Sez., 6, n. 8009 del

10/06/1993, n. 8009, Ferolla, Rv. 194921): plurioffensività ritenuta peraltro, generalmente, alternativa, con la

conseguenza, in particolare, che l'eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato,

in presenza della lesione dell'altro interesse, protetto dalla norma, del buon andamento della pubblica

amministrazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, Aiello,

Rv. 231032; Sez. 6, n. 4328 del 02/03/1999, Abate, Rv. 213660).

4.2. Il costante orientamento della giurisprudenza, in conformità al tenore letterale del dato normativo di cui

all'art. 314 c.p., interpreta la nozione del previo rapporto del pubblico agente con la res in senso più ampio del

possesso civilistico (Sez. 6, n. 396 del 06/06/1990, Di Salvo), ricomprendendovi, oltre alla detenzione materiale,

anche la (mera) disponibilità giuridica della cosa (Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, Rv.

211008), intesa come concreta possibilità del soggetto agente di inserirsi, con un atto dispositivo - derivante dalla

sfera di competenza o comunque da prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, anche se in contrasto con norme

giuridiche o atti amministrativi -nelle operazioni finalizzate alla concreta apprensione (v. al riguardo Sez. 6, n.

11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146).

Anche in dottrina si aderisce ad una nozione di possesso in senso lato, sganciata dalla visione civilistica di

possesso ex art. 1140 c.c., ritenendosi che il possesso, e la disponibilità, sono poteri giuridici che attribuiscono

all'agente pubblico la possibilità di operare sulla destinazione della cosa mobile, per distoglierla dal fine tutelato

dal diritto ed avviarla indebitamente verso una finalità propria del soggetto attivo.

4.3. Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. L'espressione "cosa mobile" denota

ogni entità oggettiva materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasportata da un luogo all'altro.

Secondo la più recente giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell'11/05/2010, Corniani, Rv, 247271) in tema di reati

contro il patrimonio, per "cosa mobile" deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione,

sottrazione, impossessamento od appropriazione e che possa essere trasportata da un luogo ad un altro,

compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l'avulsione o l'enucleazione dal

complesso immobiliare di cui faceva parte.

Alla "cosa", inoltre, è parificata ex art. 624 c.p., comma 2, "l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un

valore economico" Da tale ambito si ritengono però generalmente escluse le energie umane, o muscolari,

inscindibili dalla persona e insuscettibili, come tali, di autentica appropriazione.

Il requisito del valore economico - presunto per l'energia elettrica, da dimostrarsi per le altre energie - definisce

l'ambito di applicabilità della disposizione, in cui rientrano solo le energie che vengono captate dall'uomo,

mediante l'apprestamento di mezzi idonei, in modo tale da essere impiegate a fini pratici, distribuite, scambiate,

22

etc.: deve trattarsi, dunque, di una forza della natura misurabile in denaro, per cui deve esservi sia un soggetto che

la controlla, sia un soggetto disposto normalmente a versare un corrispettivo per averla in godimento.

Si ritiene in dottrina che l'equiparazione dell'energia alla cosa mobile sussiste solo se l'energia possa venire

posseduta separatamente dalla cosa da cui promana. Di conseguenza, tutte le volte che il possesso dell'energia

dipenda e sia inseparabile dal possesso della cosa da cui promana (es., possesso di animali, macchinari), la

configurabilità del reato deve essere giudicata in rapporto alla cosa, non in rapporto all'energia; con la

conseguenza che, in tali ipotesi, si applicheranno, se del caso, i principi validi per il peculato d'uso.

Sia in dottrina che in giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell'11/05/2010, Comiani, Rv. 247270; Sez. 2, n. 36592 del

26/09/2007, Trementozzi, Rv. 237807) si esclude che i beni immateriali - sia personali (vita, onore, prestigio,

etc.), che patrimoniali (opere dell'ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio, etc.) - possano costituire

oggetto di peculato, perchè non sono cose.

Tradizionalmente si esclude anche che possa costituire oggetto di possesso e, quindi, di appropriazione, un

diritto.

4.4. La condotta di "appropriazione" identifica il comportamento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il

possesso, con il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al

proprietario. Essa si articola in due momenti: il primo, negativo (c.d. "espropriazione"), di indebita alterazione

dell'originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. "impropriazione"), di strumentalizzazione della res

a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.

Con l'interversio possessionis, il soggetto inizia a trattare il denaro o la cosa mobile come fossero suoi,

compiendo su di essi uno o più atti di disposizione - comportamenti materiali o atti negoziali - che, incompatibili

con il titolo del possesso, rivelano una signoria che non gli compete e che egli indebitamente si attribuisce.

Nell'esercizio effettivo di una o più facoltà spettanti solo all'autentico dominus si realizza quella "conversione

della cosa a profitto proprio o altrui" che, tradizionalmente indicata come ricompresa nel concetto stesso di

appropriazione, non può non emergere anche là dove, come nell'art. 314 c.p., e diversamente da quanto avviene

per il delitto di appropriazione indebita (dove, previsto come "ingiusto", compare quale finalizzazione del dolo

specifico), il profitto proprio o altrui non risulti testualmente menzionato dalla norma.

Secondo la giurisprudenza, la nozione di appropriazione nell'ambito del delitto di peculato - realizzantesi con

l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e

soggettivamente, uti dominus nei confronti della res posseduta in ragione dell'ufficio, che viene,

correlativamente, estromessa in toto dal patrimonio dell'avente diritto - è rimasta invariata anche dopo l'entrata in

vigore della L. n. 86 del 1990 (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194923).

L'espunzione della distrazione dal nuovo testo dell'art. 314 c.p., ha reso particolarmente delicato il problema dei

rapporti tra le nozioni di "appropriazione" e "distrazione".

In giurisprudenza si ritiene che l'eliminazione della parola "distrazione" dal testo dell'art. 314 c.p., operata dalla L.

n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in

essere dall'agente pubblico nell'area di rilevanza penale dell'abuso d'ufficio. Qualora, infatti, mediante la

distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed

indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato

il delitto di peculato. La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d'ufficio nei casi in cui la

destinazione del bene, pur viziata per opera dell'agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a

favorire interessi estranei alla p.a. (Sez. 6, n. 17619 del 19/03/2007, Porpora; Sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002,

Gennari).

E' interessante notare che anche in relazione al delitto di appropriazione indebita di cui all'art. 646 c.p., che non

ha mai incluso formalmente la condotta di distrazione, prevale l'opinione che ritiene tale condotta - intesa nel suo

significato di "deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla dall'uso legittimo"- riconducibile

sostanzialmente a quella appropriativa (omissis).

Discorso analogo, per il delitto di cui all'art. 646 c.p., si fa anche per l'uso indebito della cosa, ove esso si connoti

per l'eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l'agente deteneva in custodia la stessa, di modo che l'atto

compiuto comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene (omissis).

23

La nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all'art. 646 c.p. (il quale, com'è noto, ove

aggravato ex art. 61 c.p., n. 9, si distingue dal peculato in ragione del titolo del possesso: Sez. 6, n. 34884 del

07/03/2007, Rv. 237693; Sez. 6, n. 377 del 08/11/1988, Rv. 180167), ha, dunque, finito per assumere, con il

passare del tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell'appropriazione in senso stretto (di cui

le più tipiche forme di manifestazione sono l'alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione,

sia dell'uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile.

4.5. Quanto in particolare al peculato d'uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto

d'uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall'altro, a

reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento

sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto.

Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente, il peculato d'uso previsto dal comma secondo

dell'art. 314, non costituisce un'attenuante del delitto di peculato, bensì una figura del tutto autonoma, per

impianto strutturale, rispetto al reato di peculato di cui al comma 1. I due commi prevedono, pertanto, due

diverse ipotesi di reato (Sez. 6, n. 6094 del 27/01/1994, Liberatore, Rv. 199187; Sez. 6,, n. 8156 del 29/04/1992,

De Bortoli, Rv. 191407).

In effetti, la previsione contenuta nel secondo comma, connotata dalla finalità dell'agente quale elemento

specializzante, delinea una condotta intrinsecamente diversa da quella del primo comma, in quanto l'uso

momentaneo, seguito dall'immediata restituzione della cosa, non integra un'autentica appropriazione,

realizzandosi, quest'ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa.

Per la giurisprudenza nettamente prevalente (contrastata da parte della dottrina), l'ipotesi lieve di peculato

prevista dal capoverso dell'art. 314 cod. pen. non è configurabile rispetto al denaro (Sez. 6, n. 27528 del

21/05/2009, Severi, Rv. 244531; Sez. 6, n. 3411 del 16/01/2003, Ferrari, Rv. 224060; Sez. 6, n. 8286 del

03/05/1996 Galdi, Rv. 205928) - bene fungibile per eccellenza, menzionato in modo alternativo solo nell'art.

314, comma 1 -, nè, analogamente, in relazione a cose di quantità, per le quali non sarebbe possibile la

restituzione della eadem res, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell'integrazione del reato de quo (Sez. 6, n.

8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194925; Sez. 6, n. 12218 del 17/10/1991, Bulgari, Rv. 189004; in senso

contrario, isolatamente, con riferimento a cose fungibili e, quindi, anche al denaro, Sez. 6, n. 4195 del

14/03/1995, Greco, Rv. 201264).

La nozione di restituzione viene intesa in modo assai rigoroso dalla giurisprudenza (Sez. 6, n. 4195 del

14/03/1995, Greco, Rv. 201264), per la quale tra la cessazione dell'uso momentaneo e la restituzione deve

intercedere il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la restituzione medesima; al riguardo non è

possibile fissare un rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività (ossia, l'uso e la restituzione) si

pongano in un continuum dell'operato dell'agente: occorre, cioè, che egli, dopo l'uso, non compia altre attività

che non siano quelle finalizzate alla restituzione.

Resta fermo poi che l'intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l'uso momentaneo deve esser

presente sin dall'inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che successivamente si trasforma, per effetto

dell'uso momentaneo e della restituzione della cosa, in peculato d'uso, bensì, sin dall'origine, di un fatto

caratterizzato dal contenuto intenzionale del reo.

Si ritiene comunque che non integri alcun reato l'utilizzo a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando

la condotta non leda la funzionalità dell'ufficio nè causi un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 6, n. 5010 del

18/01/2012, Borgia, Rv. 251786).

5. Traendo ora le fila dalla esposizione che precede, occorre passare anzitutto a esaminare le tesi che hanno, sotto

vari profili, ritenuto di ravvisare nell'uso indebito del telefono d'ufficio da parte del pubblico agente, una ipotesi

di peculato ordinario ai sensi dell'art. 314 c.p., comma 1.

5.1. Partendo, al riguardo, dall'indirizzo, oggi dominante in giurisprudenza, che sostiene che con il detto uso si

realizza la appropriazione, necessariamente definitiva (non potendosi configurare una restituzione successiva al

consumo), delle energie costituite dalle onde elettromagnetiche che permettono la trasmissione della voce, si

osserva che esso non è condivisibile.

24

In primo luogo, infatti, le energie in questione non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, in

quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell'utente del telefono. E questo perchè

non preesistono all'uso dell'apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione. Oltre a ciò, sul piano

intrinseco, esse si caratterizzano per il fatto di "propagarsi", e non si può, quindi, procedere al loro concreto

immagazzinamento, funzionale a un impiego pratico misurabile in termini economici, sì da rispondere

all'esplicito requisito di cui all'ultima parte dell'art. 624 c.p., comma 2.

E' noto, del resto, che il costo delle singole chiamate, anche nei contratti a consumo, non è il riflesso diretto delle

onde elettromagnetiche attivate, bensì il frutto di una complessiva valutazione del budget del sistema di

comunicazione gestito, in base alla quale si determina, secondo i parametri del numero e della durata, il prezzo,

economicamente congruo, della fruizione del servizio.

Se poi si vuoi vedere nel riferimento alle onde elettromagnetiche un implicito richiamo anche all'energia elettrica

(rilevante ex se ai sensi del comma secondo dell'art. 624 c.p.) necessaria ad attivarle, l'esclusione della sua

supposta definitiva appropriazione discende dalla considerazione che tale energia viene nella specie in rilievo

quale entità di consumo inscindibilmente connessa al concreto funzionamento dell'apparecchio e non può

costituire, quindi (come puntualizzato da accorta dottrina: v. sopra par. 4.3.), diretto, specifico e autonomo

oggetto della condotta dell'utente.

5.2. Il rilievo sopra svolto sul costo delle chiamate sollecita l'immediata presa in esame della prospettazione che

sposta l'oggetto della ravvisabile appropriazione definitiva, rilevante ai sensi dell'art. 314 c.p., comma 1, dalle

energie consumate alle somme al cui esborso l'indebito uso del telefono d'ufficio espone la pubblica

amministrazione.

Tale ricostruzione - che sarebbe comunque applicabile alle sole situazioni regolate da tariffe a consumo e non

anche a quelle c.d. "tutto incluso" - non è accettabile, non corrispondendo alla realtà del fenomeno in discorso,

in quanto posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita

condotta, al momento successivo, ed effetto di questa, in cui la p.a. ne sostiene l'onere economico. Le somme di

cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all'infedele funzionario, nè il loro esborso

è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta

fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la p.a. e il gestore di telefonia.

Parimenti inaccettabile è l'opinione che ravvisa l'oggetto dell'appropriazione definitiva nelle stesse energie

lavorative che il pubblico agente, con la condotta in discorso, dirotterebbe verso fini difformi da quelli

istituzionali. Qui è evidente che si è del tutto fuori dallo schema del rendere "proprio" un qualcosa che solo si

possiede, verificandosi al contrario l'inadempimento dell'obbligo di mettere a servizio altrui un qualcosa che è

proprio.

6. Occorre ora passare ad esaminare gli ipotizzabili inquadramenti dell'indebito uso del telefono d'ufficio in

fattispecie diverse da quella del peculato ordinario.

6.1. Al riguardo, bisogna anzitutto farsi carico della prospettazione, avanzata nell'ordinanza di rimessione, della

riconducibilità del fenomeno alla ipotesi della truffa aggravata.

Per la verità, nell'ordinanza si fa riferimento alla eventuale esistenza di una inveritiera dichiarazione, che

arricchisce in qualche modo la situazione base di cui ci si sta occupando.

In relazione a questa, la tesi della riconducibilità alla truffa non appare sostenibile. Nella truffa, invero, l'ingiusto

profitto è frutto della induzione in errore, laddove, quando il pubblico agente adopera per fini privati il telefono

assegnatogli per le esigenze d'ufficio, la realizzazione, da parte sua, di un indebito vantaggio è immediata e non è

in sè dipendente dalla induzione in errore di alcuno. Il conseguente danno per l'amministrazione (sussistente

peraltro solo nei casi regolati da contratto a consumo) deriva direttamente dal vincolo che la lega al gestore e

l'eventuale silenzio del funzionario infedele interviene in relazione a una condotta ormai consumata e che egli

non era in radice autorizzato a porre in essere.

6.2. C'è poi da esaminare la questione della riconducibilità dell'uso indebito del telefono d'ufficio alla

fattispecie del peculato d'uso, di cui all'art. 314 c.p., comma 2.

A tale quesito deve darsi, ad avviso della Corte, risposta positiva (con conseguente ritorno a quello che

era stato l'iniziale orientamento della giurisprudenza).

25

Si è sopra visto (par. 4.4.) che la nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all'art. 646 c.p.,

ha assunto, nel tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo anche dell'uso indebito della cosa, ove esso

si connoti per l'eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l'agente la detiene.

Naturalmente, in quell'ambito, nel quale non è prevista l'ipotesi dell'uso momentaneo, si richiede l'effetto della

perdita della cosa stessa da parte dell'avente diritto. Questa conseguenza è chiaramente incompatibile con un uso

strutturalmente e programmaticamente (come sottolineato anche da Corte cost., n. 2 del 1991) momentaneo,

quale quello previsto nel capoverso dell'art. 314 c.p.; il quale, quindi, non potrà mai integrare un'appropriazione,

nel senso specifico di cui al primo comma della norma codicistica, consistendo ed esaurendo la sua portata nel

fatto di distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali.

Si tratta, in altre parole, di un abuso del possesso, che non si traduce, e non può per definizione tradursi, nella sua

stabile inversione in dominio. La ratio dell'introduzione della fattispecie in esame è stata in effetti proprio quella

di impedire, con una repressione di tipo penale, il grave fenomeno dell'utilizzo improprio dei beni della pubblica

amministrazione. Ma se così è, e se non si vuole vanificare tale ragione storica e logica della fattispecie, è

giocoforza ritenere che, per la sua integrazione, l'elemento qualificante e sufficiente è dato dalla violazione del

titolo del possesso, che l'agente compie distraendo il bene dalla sua destinazione pubblicistica e piegandolo verso

fini personali. In questo modo egli si rapporta con esso, in pendenza dell'utilizzo indebito, in veste di dominus

(per quanto provvisorio e funzionale), con contestuale disconoscimento dell'altrui maggior diritto. In tale schema

ricostruttivo si palesa all'evidenza non essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal

legislatore, l'elemento della "fisica" sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica

amministrazione. E quando tale sottrazione manchi, la "restituzione" della cosa si risolverà logicamente nella

cessazione del suo uso arbitrario, con la conseguente riconduzione della stessa alla sua destinazione normale

(come già efficacemente rilevato da Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746).

Così correttamente puntualizzata la portata e la natura del peculato d'uso, è evidente che l'utilizzo per fini

personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze dell'ufficio, vi diviene

pienamente sussumibile. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito

dall'apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d'ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo

a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria.

E rimane irrilevante, per quanto detto, la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di

disponibilità della p.a..

Ciò chiarito, non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell'analisi generale del peculato (ma la

sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale

presuppone comunque l'offensività del fatto, che, nel caso del peculato d'uso, si realizza con la produzione di un

apprezzabile danno al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero (ricordando la plurioffensività alternativa del delitto

di peculato: v. sopra par. 4.1.) con una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio: eventualità quest'ultima che

potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. "tutto

incluso". L'uso del telefono d'ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo,

deve considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d'urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre

2000, art. 10, comma 3, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni), penalmente irrilevante.

Considerata, poi, la struttura del peculato d'uso (che implica l'immediata restituzione della cosa), la valutazione in

discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l'unitario

contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile.

Il principio di diritto che si può enucleare da tutto il discorso che precede è il seguente:

"La condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono

assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica

amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio, è sussumibile nel delitto

di peculato d'uso di cui all'art. 314 c.p., comma 2".

6.3. (omissis)

26

Cass., sez. un., 14 marzo 2014, n. 12228, sul rapporto tra reato di concussione e fattispecie di

induzione indebita (sub art. 319 quater c.p.), sulla condotta di costrizione nella concussione, sulla

distinzione tra induzione indebita e fattispecie corruttive, sulla distinzione tra istigazione alla

corruzione e tentativo di induzione indebita.

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente: "quale sia, a

seguito della L. 6 novembre 2012, n. 190, la linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione

(prevista dal novellato art. 317 c.p.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista

dall'art. 319 quater c.p., di nuova introduzione) soprattutto riferimento al rapporto tra la condotta di

costrizione e quella di induzione e alle connesse problematiche di successione di leggi penali nel

tempo".

2. Si contrappongono al riguardo, come rileva l'ordinanza di rimessione, tre diversi orientamenti della

giurisprudenza di legittimità nell'individuazione degli elementi che differenziano la concussione per costrizione,

prevista dal nuovo art. 317 c.p., dalla induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all'introdotto art. 319

quater c.p..

2.1. Un primo indirizzo interpretativo, nell'affrontare la questione, dopo avere rilevato che i due delitti previsti

dalle nuove norme citate sono l'effetto di una mera operazione di "sdoppiamento" dell'unica figura di

concussione disciplinata dal previgente art. 317 c.p., senza l'integrazione di ulteriori elementi descrittivi, recupera

gli approdi cui era pervenuta la pregressa giurisprudenza di legittimità, nel distinguere le "vecchie" ipotesi di

concussione per costrizione o per induzione, ritenendoli ancora validi per individuare la linea di confine che

separa le attuali ipotesi di concussione e di induzione indebita: la costrizione è ravvisabile nel comportamento del

pubblico ufficiale che, ricorrendo a modalità di pressione molto intense e perentorie, ingenera nel privato una

situazione di metus, derivante dall'abuso della qualità o della pubblica funzione, sì da limitare gravemente la libera

determinazione del soggetto, ponendolo in una situazione di minorata difesa rispetto alla richiesta, esplicita o

larvata, di denaro o di altra utilità; l'induzione, elemento oggettivo della nuova fattispecie di cui all'art. 319 quater

c.p., si manifesta in un contegno del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, abusando della

sua qualità o dei suoi poteri, attraverso forme più blande di persuasione, di suggestione, anche tacita, o di atti

ingannatori, determini il soggetto privato, consapevole dell'indebita pretesa e non indotto in errore dal pubblico

agente, a dare o promettere a lui o a terzi denaro o altra utilità.

In sostanza, secondo tale orientamento esegetico, ciò che continua a distinguere la condotta induttiva da quella

costrittiva è l'intensità della pressione prevaricatrice, non disgiunta dai conseguenti effetti che spiega sulla psiche

del destinatario.

Nella prima, tale pressione si concretizza in una più tenue attività di suggestione, di persuasione o di pressione

morale, che non condiziona gravemente la libertà di determinazione dell'indotto, il quale conserva - ed è per tale

ragione punibile - un ampio margine di libertà di non accedere alla richiesta indebita proveniente dal pubblico

agente; mentre, nella seconda, l'attività di pressione viene posta in essere con modalità più marcatamente

intimidatorie, tali da provocare uno stato di soggezione in cui la libertà di autodeterminazione del concusso, pur

non del tutto eliminata, finisce per essere notevolmente compressa, sì da rendere il destinatario dell'indebita

pretesa "vittima" e, in quanto tale, non punibile.

In questa prospettiva, sia la condotta costrittiva che quella induttiva cagionano un danno al destinatario e nessun

rilievo ha la circostanza che il pregiudizio negativo prospettato sia o meno conforme all'ordinamento giuridico.

Questa conclusione è ritenuta in linea con la voluntas legis, desumibile dalla utilizzazione, nelle due nuove e

autonome disposizioni incriminatrici, delle identiche parole presenti nella fattispecie originaria, il che non

consente di attribuire ad esse un diverso significato giuridico, dovendosi escludere che il legislatore possa avere

trascurato il diritto vivente formatosi nella vigenza della fattispecie unitaria. In assenza, nelle nuove norme, di una

espressa previsione circa il diverso significato da attribuire ai termini "costrizione" e "induzione", non è

consentito all'interprete discostarsi dagli approdi ermeneutici maturati al riguardo. La punizione dell'indotto,

prevista dall'art. 319 quater c.p., non legittima l'abbandono della pregressa impostazione, proprio perchè trova la

sua ragion d'essere nel carattere più blando della pressione su di lui esercitata dall'agente pubblico, il che gli

27

consente di resistere e, se non lo fa, è giusto che venga punito, anche se in modo più lieve rispetto all'induttore

(omissis).

2.2. Altra opzione ermeneutica, dando atto della difficoltà di individuare un preciso significato della parola

"induzione", sottolinea che, sotto il profilo linguistico, mentre il verbo "costringere" è descrittivo di un'azione e

del suo effetto, la voce verbale "indurre" connota soltanto l'effetto e non anche la maniera, che può essere la più

varia, attraverso la quale questo effetto viene raggiunto. Evidenzia poi, sotto il profilo sistematico, che il termine

induzione è presente in diverse fattispecie delittuose previste dal codice penale proprio per indicare il solo

risultato dell'azione, che si concretizza attraverso le più diverse modalità, alternative e a volte incompatibili tra

loro, quali la violenza, la minaccia, l'offerta o la promessa di una qualche utilità (art. 377 bis c.p.) ovvero la

propaganda (art. 507 c.p.) o l'inganno (art. 558 c.p.). Aggiunge che la distinzione tra la disposizione dell'attuale

art. 317 c.p., e quella del nuovo art. 319 quater c.p., è data dall'uso del termine "costringe" nella prima e del

termine "induce" nella seconda: tali termini, già impiegati nel previgente art. 317 c.p., non erano stati oggetto di

una approfondita riflessione circa il loro significato, data la loro equipollenza ai fini del trattamento della

condotta di concussione, tanto che si ricorreva spesso, nell'articolazione dei capi d'imputazione, alla formula

"costringeva o comunque induceva"; oggi la scissione delle due ipotesi criminose e il loro diverso trattamento,

con particolare riferimento alla punibilità dell'indotto, impongono di superare l'evasivo criterio di verifica

"soggettivizzante" del diverso grado di pressione morale e di ricercare un elemento oggettivo che sia in grado di

offrire ai due concetti un tasso di maggiore determinatezza.

Sulla base di tale ricostruzione esegetica, si precisa testualmente che "compie il reato di cui all'art. 317 c.p., chi

costringe e cioè chi, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, prospetta un danno ingiusto per ricevere

indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità. Di converso,... compie il reato di cui all'art.

319 quater c.p., chi per ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa che

non sia contraria alla legge. Nella prima ipotesi il pubblico ufficiale prospetta che egli, violando la legge, recherà

un detrimento, nella seconda che questo detrimento deriva o è consentito dall'applicazione della legge". Nell'un

caso, la costrizione consegue alla minaccia, intesa, secondo il linguaggio tecnico-giuridico (art. 612 c.p.), come

prospettazione di un male ingiusto; nell'altro, non può parlarsi tecnicamente di minaccia, perchè il danno non è

iniuria datum, manca quindi la costrizione, anche se il risultato viene comunque raggiunto, in quanto il soggetto

privato è indotto alla promessa o alla consegna dell'indebito.

Tale interpretazione sarebbe legittimata inoltre da "un razionale assetto dei valori in gioco che non può essere

trascurato": è ragionevole, infatti, la più severa punizione di chi prospetta un danno ingiusto rispetto a colui che

prospetta un pregiudizio conseguente all'applicazione della legge; e, in questa ultima evenienza, è ragionevole la

punizione anche del soggetto privato che, aderendo alla pretesa dell'indebito avanzata dal pubblico agente,

persegue un proprio interesse ed orienta il suo agire nell'ottica del tornaconto personale, ponendo così in essere

una condotta rimproverabile.

Conclusivamente, la linea di discrimine tra le due ipotesi delittuose risiederebbe nell'oggetto della prospettazione:

danno ingiusto e cantra ius nella concussione; danno legittimo e secundum ius nella fattispecie dell'art. 319 quater

c.p. (omissis).

2.3. Un terzo orientamento giurisprudenziale, pur condividendo in premessa il primo indirizzo interpretativo,

riconosce - nella consapevolezza della varietà delle dinamiche criminologiche - che non sempre è agevole

differenziare nettamente la costrizione dall'induzione sulla base della maggiore o minore pressione psicologica

esercitata dal pubblico agente e del grado di condizionamento dell'interlocutore, in quanto vi sono situazioni al

limite (c.d. "zona grigia") nelle quali "non è chiaro nè è facilmente definibile se la pretesa del pubblico agente,

proprio perchè proposta in maniera larvata o subdolamente allusiva, ovvero in forma implicita o indiretta, abbia

ridotto fino quasi ad annullarla o abbia solo attenuato la libertà di autodeterminazione del privato".

S'impone quindi, secondo tale orientamento per così dire "intermedio" - che finisce col recepire anche il punto

più qualificante del secondo indirizzo ermeneutico - la necessità di fare leva su un ulteriore elemento, che, con

effetto integrativo, sia in grado di delineare una più netta linea di demarcazione tra i concetti di costrizione e di

induzione. Tale indice integrativo va colto nel tipo di vantaggio che il destinatario della pretesa indebita consegue

nell'aderire alla stessa.

28

Costui è certamente persona offesa di una concussione per costrizione se il pubblico ufficiale, pur non

ricorrendo a forme eclatanti di minaccia diretta, lo abbia posto di fronte all'alternativa "secca" di condividere la

richiesta indebita oppure di subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto; non gli è lasciato, in concreto, alcun

margine apprezzabile di scelta, è solo vittima del reato perchè, senza essere motivato da un interesse al

conseguimento di un qualche vantaggio, si determina alla promessa o alla dazione esclusivamente per scongiurare

il pregiudizio minacciato (certat de damno vitando).

Al contrario, il privato è coautore del reato ed è punibile nel caso in cui conserva un margine apprezzabile di

autodeterminazione sia perchè la pressione del pubblico agente è più blanda, sia perchè ha interesse a soddisfare

la pretesa del pubblico funzionario per ottenere un indebito beneficio, che finisce per orientare la sua decisione

(certat de lucro captando).

In sostanza, il criterio discretivo tra la fattispecie di concussione e quella di induzione indebita è da individuare

nel diverso effetto che la pressione del soggetto pubblico spiega sul soggetto privato, con la precisazione che, per

le situazioni dubbie, deve farsi leva, in funzione complementare, anche sul criterio del vantaggio indebito

perseguito dal secondo (omissis).

3. Le diverse e contrastanti opzioni ermeneutiche, innanzi sintetizzate, sulla questione di diritto rimessa all'esame

delle Sezioni Unite impongono di fare chiarezza sul punto, seguendo un percorso metodologico che colga, nella

loro essenza, le novità introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in relazione al reato di concussione.

L'attenzione va concentrata sulla ratio complessiva della riforma, per coglierne gli aspetti più rilevanti sia dal

punto di vista sostanziale che da quello processuale.

E' necessario, quindi, riflettere sulla riformulazione dell'art. 317 c.p., che ha circoscritto il reato di concussione

alla sola condotta di costrizione posta in essere dal pubblico ufficiale; sulla nuova figura, scorporata dal

previgente art. 317 c.p., della induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all'art. 319 quater c.p., la quale,

palesandosi come fattispecie intermedia tra la concussione e la corruzione, configura il margine di confine tra

condotta sopraffattrice e scambio corruttivo; sulle inevitabili conseguenze della riforma in materia di diritto

intertemporale, con riferimento ai processi pendenti nei vari gradi di giudizio.

E' in questa ottica concreta e pragmatica che va letta, per la parte che qui interessa, la novella del 2012.

Tutte le opzioni interpretative su di essa - ad oggi - maturate hanno approfondito la questione dibattuta,

seguendo però percorsi argomentativi diversi nella scelta della formula delimitatrice tra costrizione ed induzione.

Ciascuno di tali orientamenti evidenzia aspetti che sono certamente condivisibili, ma non autosufficienti, se

isolatamente considerati, a fornire un sicuro criterio discretivo.

Ed invero, il primo modello esegetico, pur delineando correttamente, dal punto di vista teoretico, le nozioni di

"costrizione" ed "induzione", non ne coglie i reali profili contenutistici ed affida la sua scelta ad un'indagine

psicologica dagli esiti improbabili, che possono condurre ad una deriva di arbitrarietà.

Il secondo ha indubbiamente il pregio di individuare indici di valutazione oggettivi e sicuramente utilizzabili ai

fini che qui interessano, ma incontra il limite della radicale nettezza argomentativa che lo contraddistingue, la

quale mal si concilia con l'esigenza di apprezzare l'effettivo disvalore di quelle situazioni "ambigue", che lo

scenario della illecita locupletazione da abuso pubblicistico frequentemente evidenzia.

Il terzo, nel tentativo di ricondurre ad unità gli altri due orientamenti, mostra passaggi argomentativi che possono

creare qualche equivoco, soprattutto nella parte in cui, pur sostenendo che, in situazioni "al limite", il criterio

tradizionale della intensità della pressione deve essere integrato da quello del vantaggio indebito, sembra

comunque riservare, in relazione ad altre non meglio specificate situazioni, un'autonoma valenza alla verifica

"soggettivizzante", replicando così, per questa parte, i limiti del primo orientamento.

A superamento del rilevato contrasto, l'operazione ermeneutica deve essere orientata, come più diffusamente si

preciserà in seguito, verso approdi più sicuri, che colgano gli aspetti maggiormente convincenti della elaborazione

giurisprudenziale innanzi sintetizzata e, senza discostarsi dal significato intrinseco del dato normativo,

individuino parametri di valutazione, per quanto possibile, più nitidi.

4. Rileva, in via preliminare, la Corte che il delitto di concussione ha sempre rappresentato - sia storicamente che

sistematicamente - una delle peculiarità della normativa del nostro ordinamento, in una prospettiva di specifica

stigmatizzazione del fatto, considerata la sua plurima essenza lesiva, che incide non solo sul buon andamento e

29

sull'imparzialità della pubblica amministrazione ma anche sulla libertà di autodeterminazione della vittima, sì da

non risultare comprimibile, come accade per altri ordinamenti (quello tedesco e quello spagnolo), all'interno di un

reato contro il patrimonio, qual è l'estorsione.

Ciò posto, s'impone un'analisi, sia pure sintetica, della regolamentazione normativa succedutasi nel tempo,

orientata costantemente alla individuazione del disvalore tipico dell'illecito di cui si discute, che, incidendo sul

modo di intendere il rapporto tra Autorità e cittadini, non poteva non risentire delle dinamiche socio-culturali

connesse al passaggio da uno Stato liberale ad uno autoritario e, quindi, ad uno democratico e repubblicano,

considerato quest'ultimo anche nella sua dimensione europea, a seguito del successivo processo d'integrazione in

tale realtà sovranazionale.

5. Il codice Zanardelli del 1889, ispirandosi al codice toscano del 1853, disciplinava il reato di concussione agli

artt. 169 e 170, prevedendo due diverse forme di tale illecito, differenziate anche sul piano sanzionatorio.

Nella prima disposizione veniva contemplata la concussione mediante costrizione, detta anche "esplicita" o

"violenta", che puniva, con pena più severa, la condotta del pubblico ufficiale che, abusando del proprio ufficio,

costringeva taluno a dare o promettere indebitamente, a sè o ad un terzo, denaro o altra utilità.

La seconda disposizione, al comma primo, regolava, con sanzione meno rigorosa, la concussione per induzione,

detta anche "implicita" o "fraudolenta", il cui tratto distintivo era costituito dall'assenza di una condotta

costrittiva posta in essere dal pubblico ufficiale, il quale, abusando sempre del proprio ufficio, si limitava ad

indurre il privato alla dazione o alla promessa indebita.

Era prevista, inoltre, dal comma secondo dell'art. 170 una ulteriore ed ancora meno grave figura concussiva, detta

"negativa", configurabile nel caso in cui il pubblico ufficiale - senza costringere o indurre il privato alla dazione o

promessa indebita - si limitava a ricevere ciò che non gli era dovuto, giovandosi dell'errore altrui.

Per tutte queste diverse ipotesi di concussione era prevista, infine, l'attenuante della lieve entità della somma o

dell'utilità data o promessa.

Il reato risentiva chiaramente della impostazione liberale della società di fine Ottocento, nel senso che gli

interessi dei singoli assumevano carattere centrale, pur fondendosi con essi l'interesse alla correttezza dell'azione

amministrativa.

La dottrina dell'epoca, nel delineare l'oggetto giuridico del reato di concussione, sottolineava che le

corrispondenti norme incriminatrici erano rivolte essenzialmente "ad evitare lo spoglio dell'altrui patrimonio

mediante incussione di timore ed inganno".

Ciò è tanto vero che il codice del Regno Unito, per i fatti di concussione, non prevedeva un trattamento

sanzionatorio più rigoroso rispetto a quello contemplato per le analoghe fattispecie commesse da privati: la

concussione "violenta" e quella "implicita" erano punite in modo similare rispettivamente alla estorsione e alla

truffa.

6. Con il codice Rocco del 1930, la concussione veniva inserita all'interno di un'unica norma, l'art. 317 c.p., che

contemplava sia la concussione per costrizione che quella per induzione: "Il pubblico ufficiale che, abusando

della sua qualità o delle sue funzioni, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un

terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa non inferiore a lire

seicentomila".

E' agevole rilevare che la norma, a differenza di quanto previsto dal codice del 1889, non operava alcuna

distinzione tra le due forme di concussione, tanto che sia la condotta costrittiva sia quella induttiva del pubblico

ufficiale erano sottoposte agli stessi limiti edittali di pena, che erano ben superiori a quelli previsti per la

fattispecie di concussione più grave disciplinata nel codice Zanardelli. Veniva soppressa la circostanza attenuante

della lieve entità della somma o dell'utilità data o promessa dal soggetto passivo. La così detta concussione

"negativa" trasmigrava nell'autonoma fattispecie di cui all'art. 316 c.p., il peculato mediante profitto dell'errore

altrui.

Con tale disciplina, mutava, in coerenza con l'ideologia del regime fascista, il modo di concepire i rapporti tra

Autorità statale e cittadino.

Lo Stato assumeva un ruolo sovraordinato rispetto ai singoli cittadini, considerati non più nella loro individualità,

bensì quali membri della collettività, "annullati", per così dire, nella comunità statuale; veniva riservata ai pubblici

30

ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio una posizione di privilegio, nel senso che venivano inasprite le

sanzioni previste per i reati commessi in loro danno (oltraggio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale), veniva

introdotta l'aggravante comune di avere commesso il fatto in danno di un soggetto rivestito di qualifica

pubblicistica (art. 61 c.p., n. 10) e veniva eliminata la causa di non punibilità della reazione legittima ad atti

arbitrari del pubblico ufficiale.

Per converso, a detti soggetti pubblici - proprio per la posizione di "privilegio" di cui godevano e perchè investiti

di particolari responsabilità - era riservato un trattamento sanzionatorio più rigoroso in caso di commissione di

illeciti qualificati, come il peculato (rispetto all'appropriazione indebita) o la concussione (rispetto all'estorsione).

In sostanza, la condotta prevaricatrice del soggetto pubblico, ancor prima di ledere l'interesse del singolo, era

l'espressione della infedeltà dell'agente ai valori e ai principi ritenuti primari dall'ordinamento dell'epoca.

7. Con la L. 26 aprile 1990, n. 86, la norma incriminatrice di cui all'art. 317 c.p., che originariamente si riferiva

soltanto al pubblico ufficiale, veniva estesa anche all'incaricato di un pubblico servizio, recependo cosi, per

esigenze di politica criminale, le indicazioni di una parte consistente della dottrina, che aveva ritenuto non

giustificata la disciplina riservata, nell'ambito del delitto di concussione, alla posizione del solo pubblico ufficiale.

In coincidenza, infatti, del sempre più frequente sviluppo dei servizi pubblici, numerosi e diffusi erano i casi di

concussione commessi da incaricati di un pubblico servizio, cioè da persone anch'esse investite di prerogative

pubbliche rilevanti e, come tali, idonee ad incidere sulla libera determinazione del privato nei rapporti dal

medesimo intrattenuti con la pubblica amministrazione.

Ed invero, la logica sottesa a tale estensione della soggettività attiva non può che essere ravvisata nel fatto che

l'abuso, quale elemento primario caratterizzante la concussione, non rinvia necessariamente a condotte

coincidenti con l'esercizio dei poteri autoritativi, propri della pubblica funzione, ma anche a comportamenti

condizionanti comunque la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.

La riforma del 1990 coerentemente sostituiva l'espressione "abusando (...) delle sue funzioni" con quella

"abusando (...) dei suoi poteri", considerato che gli incaricati di un pubblico servizio non possono certo abusare

delle funzioni, essendo queste - come noto - riservate al solo pubblico ufficiale, ma soltanto dei "poteri"

corrispondenti alle loro attribuzioni specifiche.

Il legislatore del 1990, al di là dell'ampliamento del novero dei soggetti attivi del reato, della eliminazione della

pena pecuniaria e della reintroduzione della circostanza attenuante, già prevista dal codice Zanardeli, della

particolare tenuità del fatto (art. 323 bis c.p.), optò per una scelta conservatrice, nel senso che, ignorando il vivace

dibattito sulle diverse proposte di soluzione (progetto Azzaro n. 1780/'85; progetto Vassalli n. 1250/'85;

progetto Martinazzoli n. 2844/'85) e tradendo ogni aspettativa di effettiva innovazione, non incise sul tessuto

strutturale dell'art. 317 c.p., rimasto - quanto alla definizione della condotta - invariato, e si pose, pertanto, in una

logica di sostanziale continuità col codice del 1930.

8. La cosiddetta "legge anticorruzione" n. 190 del 2012, nel perseguire l'obiettivo di dare una risposta alla diffusa

richiesta di un intervento riformatore, si è fatta carico non solo di introdurre all'interno della pubblica

amministrazione una disciplina preventiva per scongiurare situazioni favorevoli alla consumazione di illeciti,

prevedendo, in caso di violazione da parte della persona individuata come responsabile del piano di prevenzione,

corrispondenti misure sanzionatorie amministrative, ma anche di innovare la normativa relativa ai reati contro la

pubblica amministrazione, revisionando l'entità delle sanzioni, introducendo nuove fattispecie criminose e - per

quanto qui interessa - modificando profondamente il reato di concussione.

A tale approdo il legislatore del 2012 è pervenuto sotto la spinta di due fondamentali ragioni.

L'una di carattere interno, avente connotati emergenziali e rappresentata dalla necessità di contrastare più

efficacemente l'esponenziale diffusività del fenomeno della corruzione a tutti i livelli della nostra pubblica

amministrazione.

L'altra di carattere internazionale, imposta dalla esigenza di adeguare la normativa interna agli obblighi

internazionali assunti dal nostro Paese con la Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione (Convenzione di

Merida), adottata dall'Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e ratificata in Italia con la L. 3 agosto 2009, n. 116, e

con la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio di Europa del 27 gennaio 1999, ratificata in Italia con

la L. 28 giugno 2012, n. 110. Non vanno - peraltro - sottaciuti i penetranti rilievi formulati sull'Italia, sin dal 2001,

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dal Working Group on Bribery (WGB) dell'OCSE, rilievi ripresi dal rapporto di valutazione redatto dal Group of

States against corruption (GRECO) nella riunione plenaria svoltasi a Strasburgo il 20-23 marzo 2012: si

osservava, in quest'ultimo rapporto, che l'allora vigente art. 317 c.p., può "portare a risultati irragionevoli, in

quanto colui che offre la tangente ha il diritto insindacabile di essere esentato dalla sanzione" e si invitava il

nostro legislatore ad "esaminare in modo approfondito la pratica applicazione del reato di concussione (...) al fine

di accertare il suo eventuale uso improprio nelle indagini e nell'azione penale nei casi di corruzione".

Con la L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, lett. d) ed i), il legislatore ha modificato profondamente, come si

diceva, il reato di concussione disciplinato dall'art. 317 c.p., e, tornando all'antica previsione normativa contenuta

nel codice Zanardelli, ha separato le condotte tipiche, che erano accomunate in via alternativa sotto la stessa

rubrica, della costrizione e della induzione.

Il novellato art. 317 c.p., - la cui rubrica è rimasta inalterata - punisce con la reclusione da sei a dodici anni "il

pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere

indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità".

Si è proceduto, quindi, non solo alla rimozione dell'incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi,

ma anche alla espunzione della condotta di "induzione".

Quest'ultima condotta è stata fatta confluire nell'autonoma figura di reato, rubricata come "Induzione indebita a

dare o promettere utilità" e disciplinata dall'art. 319 quater c.p., inserito ex novo, che testualmente recita: "Salvo

che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della

sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra

utilità, è punito con la reclusione da tre a otto anni. Nei casi previsti dal comma 1, chi da o promette denaro o

altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni".

Tale nuova norma, pur forgiata - quanto alla descrizione della condotta - sullo stesso paradigma del previgente

art. 317 c.p., sanziona, oltre il comportamento del pubblico ufficiale e dell'incaricato di un pubblico servizio,

anche quello dell'extraneus, aspetto quest'ultimo di significativa novità sostanziale, considerato che il privato, non

essendo stato "costretto" dal pubblico funzionario alla promessa o alla dazione dell'indebito ma soltanto

"indotto", conserva pur sempre un ampio margine di libertà nell'assecondare o meno la richiesta del soggetto

qualificato e non può, quindi, considerarsi "vittima" del reato ma "concorrente" nello stesso.

La nuova normativa ha inteso differenziare nettamente il comportamento, ritenuto più grave, integrato

dall'atteggiamento prevaricatore dell'agente nella sua forma più aggressiva della costrizione del soggetto passivo e

inquadrabile nello schema della concussione di cui al novellato art. 317 c.p., rispetto a quella forma più sfumata

di condotta attuata mediante un'attività di persuasione, di suggestione o di inganno e che è ora confluita nella

fattispecie della induzione indebita di cui all'introdotto art. 319 quater c.p..

Si è inteso, in sostanza, bilanciare i diversi valori tutelati dalle due norme è proporzionare le corrispondenti pene,

come espressamente affermato dal Guardasigilli, in risposta alla presentazione di emendamenti, nella seduta del

10 maggio 2012 delle Commissioni riunite 1^ e 2^ della Camera dei Deputati: "...la concussione è stata

circoscritta ai soli casi in cui la condotta dell'autore del reato abbia determinato una vera e propria costrizione in

capo al privato, e quindi la soggettività attiva e la conseguente punibilità sono state limitate al pubblico ufficiale in

quanto titolare dei poteri autoritativi atti ad incutere il metus publicae potestatis. Le condotte di induzione (...)

sono state invece scorporate in un'autonoma fattispecie di reato, quella di indebita induzione a dare o promettere

denaro o altra utilità, nella quale sono soggetti attivi tanto il pubblico ufficiale quanto l'incaricato di pubblico

servizio e la punibilità è estesa anche al privato, in quanto questi non è costretto, ma semplicemente indotto alla

promessa o dazione, cioè mantiene un margine di scelta tale da giustificare l'irrogazione di una pena nei suoi

confronti, seppure in misura ridotta rispetto a quella prevista per il pubblico agente"; ed ancora, intervenendo

nella seduta del 29 ottobre 2012 della Camera dei Deputati in occasione della discussione del disegno di legge, il

Guardasigilli sottolineava, tra l'altro, che "...nel nostro ordinamento si può creare una certa confusione tra chi è

certamente vittima del reato e chi in qualche modo ha contribuito allo stesso.

E' per questo che abbiamo introdotto la fattispecie intermedia della concussione per induzione".

La ratio della riforma sta quindi proprio nell'esigenza, ripetutamente manifestata in sede internazionale e

sollecitata anche da una situazione emergenziale interna, di chiudere ogni possibile spazio d'impunità al privato

32

che, non costretto ma semplicemente indotto da quanto prospettatogli dal pubblico funzionario disonesto,

effettui in favore di costui una dazione o una promessa indebita di denaro o di altra utilità. In questo contesto ha

trovato la sua genesi il reato di induzione indebita di cui all'art. 319 quater c.p., il cui inserimento nel nostro

ordinamento non può prescindere dal confronto con altre contigue previsioni delittuose.

9. Ed invero, la scelta del legislatore del 2012 pone l'interprete di fronte al problema, di non agevole soluzione, di

individuare affidabili criteri discretivi tra la concussione di cui al novellato art. 317 c.p., e la induzione indebita di

cui all'art. 319 quater c.p., nonchè tra queste due fattispecie e quelle corruttive.

Strettamente connessa è l'ulteriore questione, a cui pure si deve una risposta, perchè rilevante sotto il profilo del

diritto intertemporale, circa la sussistenza o meno della continuità di tipo di illecito tra la concussione così come

disciplinata dal previgente art. 317 c.p., e le due nuove fattispecie enucleate, pur con le relative modifiche o

integrazioni, dalla detta norma.

10. Devesi, innanzi tutto, prendere atto che la condotta di costrizione e quella di induzione richiamate

rispettivamente dall'art. 317 (come sostituito) e dall'art. 319 quater c.p., sono accomunate, oltre che da uno stesso

evento (dazione o promessa dell'indebito), da una medesima modalità di realizzazione: l'abuso della qualità o dei

poteri dell'agente pubblico.

E' necessario, quindi, chiarire il significato di tale locuzione, che intuitivamente si riverbera sul dato probatorio e,

quindi, sul momento più delicato per l'accertamento del reato.

Non sono mancati dubbi interpretativi sul significato del verbo "abusare", già utilizzato dalla previgente norma

sulla concussione e riprodotto all'interno delle due nuove fattispecie, e sulla funzione che ad esso compete nella

struttura degli illeciti in esame. E ciò perchè, com'è noto, non è rinvenibile, nella parte speciale del codice penale,

una definizione organica ed omogenea del concetto di abuso, essendo tale termine adoperato per descrivere

situazioni profondamente diverse tra loro.

Si pensi, esemplificativamente, al reato di abusivo esercizio di una professione di cui all'art. 348 c.p., (situazione

in cui difetta il diritto all'esercizio, ma questo viene comunque praticato), al reato di usurpazione di titoli o di

onori di cui all'art. 498 c.p., (abusivo utilizzo da parte di un determinato soggetto di una divisa o di segni distintivi

che non gli spettano), al reato di circonvenzione di incapaci di cui all'art. 643 c.p., (sfruttamento a proprio

vantaggio dello stato di minorazione psichica di un determinato soggetto, abusando, nel senso di approfittare, di

tale particolare situazione di fatto).

Il valore da attribuire al concetto di abuso evocato dagli artt. 317 e 319 quater c.p., non può che essere desunto

dalla particolare qualifica dell'agente e dall'oggetto stesso dell'abuso, nel senso che quest'ultimo deve concretarsi,

come incisivamente si è sottolineato in dottrina, nella "strumentalizzazione da parte del soggetto pubblico di una

qualità effettivamente sussistente (abuso della sua qualità) o delle attribuzioni ad essa inerenti (abuso dei suoi

poteri) per il perseguimento di un fine immediatamente illecito". In sostanza, nelle richiamate norme, l'abuso è

indicativo dell'esistenza, in capo all'agente pubblico, di un diritto all'uso della qualità o dei poteri, che viene però

deviato dalla sua funzione tipica e si atteggia come contrapposto logico dell'uso così come positivamente

delineato e, in quanto tale, inclusivo di imprescindibili limiti.

L'abuso non è un presupposto del reato ma integra un elemento essenziale e qualificante della condotta di

costrizione o di induzione, nel senso che costituisce il mezzo imprescindibile per ottenere la dazione o la

promessa dell'indebito. D'altra parte, l'uso del gerundio - "abusando" - conferma lo stretto nesso tra l'abuso e la

condotta attraverso la quale esso si manifesta.

L'abuso, quindi, è lo strumento attraverso il quale l'agente pubblico innesca il processo causale che conduce

all'evento terminale: il conseguimento dell'indebita dazione o promessa.

La condotta tipica delle due figure criminose in esame non risiede, quindi, esclusivamente nella costrizione o

nella induzione bensì primariamente nell'abuso, che è legato da nesso di causalità con lo stato psichico

determinato nel soggetto privato ed è idoneo, in ulteriore sequenza causale e temporale, a provocare la dazione o

la promessa dell'indebito.

Conclusivamente, abuso, da una parte, e costrizione o induzione, dall'altra, non sono condotte distinte, quasi che

il primo si contrapponga alle seconde, ma sono condotte che si integrano e si fondono tra loro, nel senso che la

sola costrizione o induzione determinata dall'abuso qualifica lo specifico disvalore dei corrispondenti reati di cui

33

agli artt. 317 e 319 quater c.p., rispetto ad altre fattispecie caratterizzate anch'esse da un'attività dell'agente volta a

coartare o comunque a condizionare la libera autodeterminazione di qualcuno.

10.1. L'abuso della qualità - c.d. abuso soggettivo - consiste nell'uso indebito della posizione personale rivestita

dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione

specifica, bensì della propria qualifica soggettiva - senza alcuna correlazione con atti dell'ufficio o del servizio -

così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute.

Ovviamente l'abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva, deve sempre

concretizzarsi in un tacere (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente

motivante per il soggetto privato; costui cioè deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del

pubblico agente, con conseguenze per sè pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per

scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all'indebita richiesta.

10.2. L'abuso dei poteri - c.d. abuso oggettivo - consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico

agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo

oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità,

imparzialità e buon andamento dell'attività amministrativa.

Tale abuso va individuato, come incisivamente precisa la dottrina in coerenza con la posizione della

giurisprudenza, in relazione al tipo di deviazione dalla causa tipica dei poteri conferiti al soggetto pubblico e deve

essere ricondotto alle seguenti ipotesi: a) esercizio dei poteri fuori dei casi previsti dalla legge; b) mancato

esercizio di tali poteri quando sarebbe doveroso esercitarli; c) esercizio dei poteri in modo difforme da quello

dovuto; d) minaccia di una delle situazioni descritte.

Pure questa forma di abuso deve essere ovviamente caratterizzata da una effettiva idoneità a costringere o ad

indurre il privato alla dazione o alla promessa dell'indebito.

E' riconducibile all'abuso di poteri anche l'esercizio strumentale di un'attività oggettivamente lecita e doverosa

per ottenere un'indebita utilità (si pensi all'agente di polizia giudiziaria che, avendo sorpreso una persona nella

flagranza di uno dei reati di cui all'art. 380 c.p.p., le prospetti la possibilità di non eseguire l'arresto, peraltro

obbligatorio, in cambio di una qualche prestazione indebita).

Ed invero, in tale ipotesi, non è a parlarsi di normale uso del potere, considerato che la prospettazione di

esercitarlo in modo legittimo, in quanto contestualmente affiancata dalla richiesta di indebito per scongiurare le

conseguenze pregiudizievoli a tale esercizio, qualifica come abusiva la condotta finalisticamente deviata, poichè la

stessa tradisce la funzione tipica del potere conferito nell'esclusivo perseguimento dell'interesse pubblico.

Potrà, tutt'al più, porsi il problema, del quale si tratterà in seguito, se tale tipo di abuso determini nel soggetto

privato una pressione psicologica di tipo costrittivo o piuttosto sia idoneo a generare una induzione indebita ex

art. 319 quater c.p..

L'abuso di poteri, a differenza dell'abuso di qualità, può realizzarsi anche in forma omissiva. Il pubblico

funzionario, infatti, può deliberatamente astenersi dall'esercitarli, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo, di

ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità in cambio del sollecito

compimento dell'atto richiesto.

L'abuso di poteri, infine, può profilarsi sia nell'attività vincolata che in quella discrezionale.

Nell'atto vincolato, l'abuso si concretizza nel non compiere l'atto ovvero nel compierlo in maniera difforme da

quella legalmente prescritta.

Lo stato di soggezione del privato ben può essere ravvisato anche a fronte del compimento di atti discrezionali -

tanto più se di mera discrezionalità tecnica - tutte le volte in cui non venga fatto un uso conforme della

discrezionalità agli interessi pubblici perseguiti, con conseguente deviazione dell'atto dalla sua causa tipica.

11. Ciò posto quanto all'abuso della qualità o dei poteri, elemento che come si è precisato - accumuna le due

fattispecie criminose in esame, devesi sottolineare che le stesse si differenziano per l'uso del verbo "costringe"

nella norma di cui all'art. 317 c.p., rispetto al verbo "induce" utilizzato dall'art. 319 quater c.p., norma

quest'ultima che introduce, quale elemento di assoluta novità rispetto al passato, la punizione anche del soggetto

privato che subisce l'induzione, prestandovi acquiescenza.

34

Occorre quindi affrontare, nell'ottica di una corretta applicazione della nuova disciplina, il vero cuore del

problema, che risiede proprio nella individuazione della linea di confine tra la costrizione e la induzione, termini

questi impiegati pure nella formulazione della corrispondente normativa dei codici penali del 1889 e del 1930 e

già oggetto di interventi esegetici della pregressa giurisprudenza, contraddistinti da una progressiva evoluzione

dei relativi esiti interpretativi, con particolare riferimento al significato da allegare al verbo "indurre",

caratterizzato, a differenza del verbo "costringere", da scarsa univocità semantica.

11.1. Nel vigore del Codice Zanardelli, il cui impianto era plasmato su quello del Codice penale toscano, il

significato del verbo costringere designava l'abuso dei poteri del pubblico ufficiale, che faceva ricorso all'uso

palese della violenza fisica o morale nei confronti del soggetto privato, per estorcergli denaro o altra utilità (art.

169).

Il verbo indurre, invece, quale espressione sempre dell'abuso dei poteri, veniva inteso nel senso di "circonvenire",

designava cioè la sola induzione in errore del privato, ingannato nel ritenere dovuta la prestazione richiestagli

laddove in realtà non lo era (art. 170).

Nessuna incertezza interpretativa è rinvenibile nella giurisprudenza dell'epoca zanardelliana (soltanto qualche

perplessità in dottrina) circa gli unici due modi attraverso i quali si realizzava l'iniuria insita negli illeciti

considerati: aut vi aut fraude.

11.2. Con l'entrata in vigore del Codice Rocco, le condotte di costrizione e di induzione venivano, come si è

detto, unificate in un'unica disposizione ed equiparate quoad poenam, in coerenza con l'obiettivo di politica

criminale del tempo, orientata da una rafforzata visione del prestigio della pubblica amministrazione. Si chiariva,

infatti, nella Relazione sul progetto definitivo del codice del 1930 che "...l'indurre ha una gravità non minore del

costringere. La induzione deve per necessità consistere nel trarre taluno in inganno circa l'obbligo, che egli abbia,

di dare o promettere, o nel condizionare la prestazione della propria attività ad una indebita remunerazione. In

ogni caso, la volontà dell'offeso cede all'uso dei mezzi, che intrinsecamente sono non meno efficaci e odiosi di

una costrizione morale".

Le prime applicazioni della norma (art. 317 c.p.), che unificava ed equiparava le due forme di concussione, non si

discostavano dalla So interpretazione già maturata in ordine alle corrispondenti previsioni del codice del Regno

d'Italia.

L'equiparazione delle due condotte, però, favoriva, col trascorrere del tempo e con lo smarrirsi delle radici del

concetto di induzione, una interpretazione estensiva del medesimo, riconducendolo sostanzialmente al nucleo di

quello di costrizione, dal quale si differenziava soltanto per la minore quantità di pressione psicologica esercitata

dal soggetto pubblico sulla vittima, comunque consapevole della prevaricazione subita ad opera del primo.

Il diritto vivente formatosi nella vigenza della "unitaria" fattispecie concussiva non aveva mancato comunque di

definire, sia pure senza particolari approfondimenti, i concetti di costrizione e di induzione e di individuarne le

differenze, facendo leva sulle modalità della condotta posta in essere dall'agente pubblico per il conseguimento

del risultato illecito e sul conseguente grado di coartazione morale determinato nel soggetto privato, che veniva a

trovarsi sempre nella posizione di vittima, tanto se costretto quanto se indotto.

Entrambe tali forme di pressione - si sottolineava - finiscono con l'incidere sul processo volitivo e, quindi, sulle

conseguenti determinazioni del destinatario della richiesta indebita.

La costrizione, però, presuppone una maggiore carica intimidatoria, una più perentoria iniziativa del funzionario

pubblico finalizzata alla coartazione psichica dell'altrui volontà, sì da porre l'interlocutore di fronte ad un aut-aut,

da non lasciargli alcun significativo margine di scelta e dall'obbligarlo sostanzialmente alla dazione o alla

promessa dell'indebito (voluit quia coactus).

L'induzione invece designa una più sfumata azione di pressione dell'agente pubblico sull'altrui volontà e si

concretizza, oltre che nell'inganno, in forme di suggestione o di persuasione ovvero di più blanda pressione

morale, sì da lasciare al destinatario una maggiore libertà di autodeterminazione, un più ampio margine di scelta

in ordine alla possibilità di soddisfare (coactus tamen voluit) o non la richiesta d'indebito (omissis).

Tale criterio distintivo, basato sulle differenti modalità espressive della prevaricazione concussiva, appariva - da

solo - certamente soddisfacente in un sistema nel quale la fattispecie unitaria di cui al previgente art. 317 c.p., si

atteggiava come "mista alternativa", nel senso che era indifferentemente integrata da condotta costrittiva o

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induttiva. A questa sostanziale parificazione del disvalore delle due condotte faceva da riscontro l'identico

trattamento sanzionatorio edittalmente previsto.

Il criterio utilizzato aveva - peraltro - una valenza essenzialmente teorica, con scarsi riflessi pragmatici, e poteva

rilevare tutt'al più ai soli fini di apprezzare e valutare in concreto la maggiore o minore gravità della condotta del

soggetto pubblico, il solo punibile, e di calibrare conseguentemente la misura della pena sulla base degli elementi

tipizzatori di cui all'art. 133 c.p..

Ciò è tanto vero che la prassi giudiziaria, di fronte all'equiparazione normativa delle due condotte alternative,

utilizzava in modo fungibile i due termini e, nelle contestazioni del fatto illecito, si faceva frequentemente ricorso

alla figura retorica dell'endiadi, secondo formulazioni del tipo: "costringeva o comunque induceva" ovvero

"costringendo... induceva".

11.3. Nel contesto del nuovo assetto normativo introdotto dalla legge n. 190 del 2012, però, gli approdi cui era

pervenuta la pregressa giurisprudenza per distinguere la costrizione dalla induzione, integranti - all'epoca - la

medesima fattispecie unitaria, mostrano tutti i loro limiti e non sono idonei - da soli - a tracciare, in modo chiaro

ed esaustivo, la linea di confine tra gli artt. 317 e 319 quater c.p., le cui previsioni incriminatrici sono ben distinte,

perchè differente è il trattamento sanzionatorio riservato all'agente pubblico; perchè il soggetto privato continua

a rivestire il ruolo di "vittima" nella concussione, mentre assume - ed è questo l'aspetto più innovativo - quello di

"concorrente" nella induzione indebita e viene quindi ritenuto meritevole di sanzione penale;

perchè i beni giuridici tutelati dalle due nuove norme non sono integralmente sovrapponibili, essendo la figura

delittuosa di cui all'art. 317 c.p., caratterizzata da una dimensione plurioffensiva (aggressione all'imparzialità e al

buon andamento della pubblica amministrazione, nonchè alla libertà di autodeterminazione e al patrimonio del

privato), laddove il reato di cui all'art. 319 quater c.p., ha natura monoffensiva, presidia soltanto il buon

andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione e si pone, pertanto, in una dimensione esclusivamente

pubblicistica.

12. S'impone quindi una più attenta operazione ermeneutica, finalizzata a definire, in maniera più netta e precisa,

la linea di demarcazione tra le due condotte dell'agente pubblico, comunque penalmente rilevanti sia prima che

dopo l'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, senza quindi alcun problema, come più diffusamente si preciserà

in seguito, di possibile vuoto sanzionatorio.

Pur condividendosi le nozioni di base di costrizione e di induzione, elaborate dalla pregressa giurisprudenza e

imperniate sulla maggiore o minore gravità della pressione psichica esercitata sul privato, è necessario ampliare

l'angolo di osservazione, al fine di individuare, per quanto possibile, un più affidabile ed oggettivo criterio

discretivo tra le due condotte, non trascurando di considerare che quella induttiva postula - alla luce della novella

del 2012 - il concorso necessario del soggetto privato.

Tale criterio non può essere affidato esclusivamente alla ricostruzione del formale atteggiamento soggettivo delle

parti, vale a dire alle modalità espressive dell'abuso esercitato dall'intraneus e ai riflessi che queste modalità, di per

sè, spiegano sulla psiche dell'extraneus. Non può avallarsi, in sostanza, un'opzione interpretativa che, basata su

nozioni generiche e con elevato tasso di indeterminatezza, è disattenta nel cogliere i dati di fatto oggettivi, dotati

di maggiore tipicità, che attribuiscono concretezza probatoria alle medesime nozioni.

E' necessario, invece, polarizzare l'attenzione sugli aspetti contenutistici di quanto il pubblico agente prospetta al

soggetto privato e quindi sugli effetti che a quest'ultimo derivano o possono derivare in termini di danno o di

vantaggio, ove non aderisca alla richiesta alternativa di dazione o promessa di denaro o di altra utilità.

La maggiore o minore gravità della pressione, quindi, deve essere apprezzata in funzione, più che della

forma in cui viene espressa, del suo contenuto sostanziale, il solo idoneo ad evidenziarne

oggettivamente la natura costrittiva o induttiva, a valutare la qualità della scelta davanti alla quale

l'extraneus viene posto e a consentire conseguentemente il corretto inquadramento della vicenda.

13. La scelta del legislatore del 2012 di circoscrivere il delitto di concussione alla sola condotta di costrizione

posta in essere, con abuso della qualità o dei poteri, dal pubblico ufficiale è derivata dall'esigenza di contenere, in

linea con le sollecitazioni internazionali, l'eccessiva dilatazione che del concetto di induzione era stata fatta nella

prassi applicativa, sino quasi a smarrire i confini rispetto alla corruzione, e di conferire conseguentemente piena

autonomia al concetto di costrizione, non più considerato alternativo al primo.

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La condotta induttiva, in quanto inserita nella struttura della nuova fattispecie, normativamente plurisoggettiva,

di cui all'art. 319 quater c.p., ha assunto anch'essa una sua autonoma valenza.

Si è rimossa, in sostanza, la vecchia previsione di rimandare, per la configurabilità della concussione, a modalità

comportamentali differenziate ma alternative e fungibili tra loro e, per ciò, soggette edittalmente allo stesso

trattamento sanzionatorio.

13.1. Il verbo "costringe" utilizzato nell'art. 317 c.p., non pone seri dubbi interpretativi e, benchè indichi il

risultato della condotta del pubblico ufficiale, svolge - all'evidenza - anche una funzione tipizzante della condotta

medesima, in quanto evoca comunque modalità di comportamento che, pur non esplicitate, a differenza di

quanto avviene - ad esempio - per i reati di violenza privata (art. 610 c.p.) o di estorsione (art. 629 c.p.), sono

intuitivamente classificabili sotto il profilo criminologico.

La costrizione indica, in via generale, una "eterodeterminazione" dell'altrui volontà, nel senso che si obbliga

taluno a compiere un'azione che altrimenti non sarebbe stata compiuta o ad astenersi dal compiere un'azione che

altrimenti sarebbe stata compiuta.

Più in particolare, il significato che il termine "costrizione" assume nella fattispecie di cui all'art. 317 c.p., non va

inteso in senso meramente naturalistico, anche se ovviamente tale aspetto conserva comunque una sua valenza,

ma va ricavato, stante il silenzio della disposizione codicistica, dal sistema normativo, vale a dire dai principi

fondamentali del diritto penale e dai principi e valori costituzionali (artt. 54 e 97 Cost.) che devono guidare, in

uno Stato democratico, i doveri dei pubblici ufficiali ed informare i rapporti tra costoro e i cittadini.

Deve rilevarsi che la richiamata norma incriminatrice istituisce uno stretto collegamento funzionale tra l'esito

della coazione e l'abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico ufficiale e denuncia correlazioni con il

delitto di estorsione aggravata ex art. 629 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9, con l'effetto che la costrizione va

intesa come costrizione psichica relativa (vis compulsiva), in quanto, mediante la condotta abusiva, si pone la

vittima di fronte all'alternativa secca di aderire all'indebita richiesta oppure di subire le conseguenze negative di

un suo rifiuto, restringendo così notevolmente, senza tuttavia annullarlo, il potere di autodeterminazione del

soggetto privato.

La vis absoluta, invece, rendendo il soggetto passivo strumento nelle mani del soggetto attivo, determina il totale

annullamento del potere di autodeterminazione del primo (non agit sed agitur), non può essere considerata

espressione dell'abuso, al quale è collegata - al più - da un nesso di mera occasionalità, e non può integrare,

pertanto, il delitto di concussione ma altra figura criminosa, quale la rapina (si pensi al poliziotto che con la

pistola di ordinanza costringe la vittima a consegnargli il portafoglio).

La fattispecie di cui all'art. 317 c.p., è caratterizzata, come si è innanzi precisato, più che dalla costrizione in

quanto tale, dall'abuso costrittivo, nel quale, pur mancando nella citata norma una esplicita menzione, è implicito

il riferimento, quale tipico mezzo di coazione particolarmente insidioso e p carico di disvalore, alla violenza o, più

frequentemente, alla minaccia, uniche modalità realmente idonee ad "obbligare" il soggetto passivo a tenere un

comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto.

Non può ignorarsi che speculare al delitto di concussione, con protagonisti in posizione invertita, è quello di cui

all'art. 336 c.p., che punisce "Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale..., per costringerlo...". In

tale norma, come si vede, sono espressamente indicate le modalità della condotta finalizzata alla costrizione.

13.2. La violenza è concepibile come mezzo di realizzazione del reato in esame nell'ipotesi in cui il soggetto

attivo disponga di poteri di contenzione o di immobilizzazione (si pensi alle forze di polizia), ipotesi questa - in

verità - di rara attuazione, come dimostra la copiosa casistica giurisprudenziale relativa a fatti di concussione

realizzati normalmente con minacce.

Del resto, ove, facendo ricorso alla violenza, questa cagioni l'effetto di ottenere dalla vittima quanto impostole

senza annullarne del tutto la libertà di autodeterminazione (vis compulsiva), tale modalità di condotta tende, nel

reato di cui all'art. 317 c.p., a confondersi per lo più con una minaccia particolarmente efficace, esercitata - per

così dire - in re e non in verbis.

13.3. La minaccia è presente nel nostro ordinamento in due modelli: minaccia - fine e minaccia - mezzo.

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La prima è sanzionata penalmente e civilmente dall'ordinamento per l'offesa che reca, a prescindere da un

eventuale effetto di coartazione della vittima, all'integrità psichica della medesima: il riferimento è all'art. 612 c.p.,

e all'illecito aquiliano di cui all'art. 2043 c.c..

La seconda, detta anche minaccia condizionante, è una tipica modalità della condotta che l'ordinamento valuta

negativamente non soltanto per l'offesa all'integrità psichica, ma anche e soprattutto per l'offesa alla libertà di

autodeterminazione del destinatario, la cui volontà è coartata dalla intimidazione che subisce.

In questa seconda variante deve essere inquadrata quella minaccia che assume rilievo, nel settore penale, quale

tipica modalità della condotta comune a diverse figure di reato (ad es., violenza privata, estorsione, violenza

sessuale e, per quanto qui si sostiene, concussione) e, nel settore civile, quale vizio del consenso e causa di

annullamento del contratto e dei negozi giuridici in genere.

L'autore della minaccia condizionante prospetta alla vittima un'alternativa secca:

sottomettersi alla volontà del minacciante o subire il male indicato, il che realizza la coercizione.

E' necessario però cogliere la reale dimensione offensiva della minaccia, ritenuta da sempre, accanto alla violenza

da cui trae origine, tipico strumento di coazione, vale a dire forma di sopraffazione prepotente, aggressiva ed

intollerabile socialmente, la quale incide sull'altrui psiche e sull'altrui libertà di autodeterminazione (vis moralis

animo illata).

S'impone quindi di definire, sulla base del diritto positivo, i contorni del concetto giuridico di minaccia, per porre

un argine ad interpretazioni troppo estensive e per non correre il rischio, nella prospettiva penalistica che qui

interessa, di eludere il principio di tipicità.

13.4. A differenza della violenza, che contiene già di per sè un male, l'essenza della minaccia, quale forma di

violenza morale, risiede nella prospettazione ad altri di un male futuro ed ingiusto, che è nel dominio dell'agente

realizzare.

La dottrina più recente, nel lodevole tentativo di individuare una nozione unitaria di minaccia, che spiega una

funzione selettiva della modalità della condotta, ha evidenziato che l'art. 1435 c.c., definisce i "caratteri della

violenza", stabilendo testualmente che questa "deve essere di tal natura da fare impressione sopra una persona

sensata e da farle temere di esporre sè o i suoi beni a un male ingiusto e notevole". Per "male" deve intendersi,

argomentando a contrario dall'art. 1322 c.c., comma 2, la lesione di un interesse meritevole di tutela secondo

l'ordinamento giuridico. La violenza, quale vizio del consenso che invalida il contratto, quindi, è la minaccia di un

male ingiusto.

Nel codice penale, pur mancando una norma che, analogamente all'art. 1435 c.c., offra una definizione legale del

concetto di minaccia, assume certamente rilievo la norma incriminatrice della minaccia-fine (art. 612 c.p.), il cui

oggetto è individuato in "un ingiusto danno" e non v'è alcuna ragione giuridicamente plausibile per ritenere che

questo sia estraneo alla minaccia-mezzo. La circostanza, poi, che la norma penale parli di "danno" e non di

"male" non altera, in sostanza, l'identità dell'oggetto della minaccia rilevante sia ai fini della responsabilità civile

che di quella penale. Il male ingiusto evocato dall'art. 1435 c.c., determina infatti, se realizzato, un danno ingiusto

rilevante ai sensi dell'art. 2043 c.c., e, quindi, dell'art. 612 c.p..

Il danno oggetto della minaccia, per essere ingiusto in senso giuridico, deve essere contra ius, vale a dire contrario

alla norma giuridica e lesivo di un interesse personale o patrimoniale della vittima riconosciuto dall'ordinamento.

Il parametro sulla base del quale deve valutarsi l'ingiustizia del danno deve essere oggettivo, così come

chiaramente si evince dalle richiamate disposizioni del codice civile e del codice penale, le quali evocano

l'ingiustizia come attributo del male o del danno minacciato.

Il danno ingiusto concretamente può assumere varie forme: perdita di un bene legittimamente acquisito; mancata

acquisizione di un bene a cui si ha diritto; omessa adozione di un provvedimento vincolato favorevole; anche

ingiusta lesione di un interesse legittimo (si pensi all'arbitraria ed ingiustificata esclusione da una gara pubblica di

appalto).

Soltanto così intesa, si è osservato in dottrina, "la minaccia può reggere il parallelo con la violenza che di per sè

implica un male, quale strumento alternativo di coazione".

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Il concetto giuridico di minaccia, pertanto, deve essere circoscritto all'annuncio da parte dell'agente di un male o

danno ingiusto, vale a dire di un sopruso, di un illecito che abbia idoneità ad incutere timore, paura in chi lo

percepisce, sì da pregiudicarne l'integrità del benessere psichico e la libertà di autodeterminazione.

E' il caso di precisare che la minaccia non necessariamente deve concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali,

ma potrà essere anche implicita (si pensi ai casi di ostruzionismo a mezzo del quale il soggetto attivo fa

comprendere che solo con la dazione o con la promessa dell'indebito una richiesta legittima del privato potrà

essere esaudita), velata, allusiva, più blanda ed assumere finanche la forma del consiglio, dell'esortazione, della

metafora, purchè tali comportamenti evidenzino, in modo chiaro, una carica intimidatoria analoga alla minaccia

esplicita, vi sia cioè una "esteriorizzazione" della minaccia, pur implicita o sintomatica, come forma di condotta

positiva.

E' un dato ormai acquisito anche dagli approdi giurisprudenziali in tema di estorsione quello secondo il quale la

minaccia estorsiva deve ravvisarsi anche nell'ipotesi in cui assuma toni apparentemente "morbidi" e "concilianti",

quando sia comunque idonea ad incutere timore nella persona offesa in relazione a tutte le circostanze del caso

concreto e alla personalità dell'agente (Sez. 2, n. 19724 del 20/05/2010, Pistoiesi, Rv. 247117; Sez. 5, n. 41507 del

22/09/2009, Basile, Rv. 245431; Sez. 2, n. 37526 del 16/09/2004, Giorgetti, Rv.

229727). Ne consegue che la minaccia, anche se espressivamente meno brutale, rilevante per l'estorsione non può

non esserlo anche in relazione al reato di concussione, che è una forma di estorsione qualificata.

13.5. A superamento di ogni dubbio interpretativo e semantico, la modalità costrittiva rilevante nel delitto di

concussione va enucleata dalla combinazione dei comportamenti tenuti dall'intraneus, con il risultato che i

medesimi producono, e trova la sua genesi nell'abuso della qualità o dei poteri.

E' il contenuto di tale abuso, che si concretizza, al di là del dato formale, nel prospettare alla vittima un danno

ingiusto Scontra ius), a integrare la costrizione ed a porre il soggetto passivo in una condizione di sostanziale

mancanza di alternativa, vale a dire con le spalle al muro: evitare il verificarsi del più grave danno minacciato, che

altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità

(danno minore) che sa non essere dovuta (certat de damno vitando).

Una simile situazione intuitivamente giustifica, in base ai valori e ai principi che ispirano l'ordinamento penale, il

ruolo di vittima che la parte esterna all'amministrazione assume: in uno Stato democratico di diritto, infatti, non

può pretendersi che i cittadini ingiustamente prevaricati e coartati dai detentori dei pubblici poteri sprigionino

risorse inesigibili di resistenza, per scongiurare la deviazione dell'attività amministrativa dalle finalità di

imparzialità e di corretto funzionamento che devono guidarla.

Deve rimanere estranea alla sfera psichica e alla spinta motivante dell'extraneus qualsiasi scopo determinante di

vantaggio indebito, considerato che, in caso contrario, il predetto non può essere ritenuto vittima agli effetti

dell'art. 317 c.p., perchè finisce per perseguire, con la promessa o con il versamento dell'indebito, un proprio

tornaconto, divenendo co-protagonista della vicenda illecita.

Antigiuridicità del danno prospettato dal pubblico ufficiale ed assenza di un movente opportunistico di vantaggio

indebito per il privato sono i parametri di valutazione che denunciano lo "stato di costrizione" ex art. 317 c.p..

13.6. Va aggiunto, inoltre, che il metus publicae potestatis, da sempre ritenuto elemento trainante della

concussione, malgrado non positivizzato all'interno della norma, finisce per tipizzare, sia pure indirettamente, la

fattispecie concussiva. Va tuttavia chiarito che il timore del privato verso la publica potestas a causa della

posizione di supremazia dell'intraneus non integra un elemento strutturale dell'illecito, ma rappresenta la

manifestazione dello stato di soggezione psicologica della vittima come l'altra faccia dell'abuso della qualità o dei

poteri da parte del pubblico agente, il che nulla aggiunge alla struttura del reato così come innanzi delineata. Il

metus, in definitiva, è l'espressione dell'oggettivo e stringente condizionamento della libertà di determinazione del

soggetto passivo, il quale, per il timore del danno ingiusto minacciato dal pubblico ufficiale, è deprivato di ogni

capacità di resistenza ed è costretto a soccombere - senza alcuna sostanziale alternativa - di fronte alla indebita

pretesa di quest'ultimo.

13.7. In questo contesto si giustifica il riferimento esclusivo al pubblico ufficiale, il solo rientrante, secondo la

visione del legislatore del 2012, nella categoria di soggetti detentori di poteri realmente autoritativi e costrittivi.

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Tale scelta limitativa dell'aspetto soggettivo rispetto alla previsione più ampia della L. n. 86 del 1990 (che

prevedeva anche l'incaricato di pubblico servizio) rappresenta un ritorno alla formulazione adottata dal legislatore

del 1930 e desta, invero, qualche perplessità, considerato che la concussione, vista da parte della vittima, è

prevaricazione e questa ben può essere posta in essere anche dall'incaricato di un pubblico servizio, il quale, pur

privo di poteri autoritativi, può comunque attuare, nell'odierna realtà variegata della pubblica amministrazione e

con l'esponenziale sviluppo dei servizi pubblici, condotte costrittive tali da ingenerare uno stato di integrale

soggezione del privato.

La scelta di escludere che soggetto attivo del reato in esame possa essere anche l'incaricato di pubblico servizio

comporta che la costrizione da costui eventualmente realizzata non può che essere ricondotta, ove ne ricorrano i

presupposti, nel paradigma della estorsione aggravata di cui all'art. 629 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9, cui si

accompagnano però rilevanti effetti in tema di consumazione (la concussione si consuma anche con la sola

promessa dell'utilità, l'estorsione esclusivamente con la realizzazione del profitto) e di trattamento sanzionatorio,

potenzialmente più elevato rispetto a quello riservato al pubblico ufficiale concussore. L'abuso costrittivo

dell'incaricato di pubblico servizio, come si preciserà in seguito, può anche integrare, se difettano gli estremi del

richiamato reato contro il patrimonio, altre fattispecie criminose.

13.8. In sintesi: la costrizione evoca una condotta di violenza o di minaccia. La minaccia, in particolare, quale vis

compulsiva, ingenera ab extrinseco il timore di un male contra ius, per scongiurare il quale il destinatario finisce

con l'aderire alla richiesta dell'indebita dazione o promessa. E' in tal senso che deve essere intesa la nozione di

minaccia, tendenzialmente unitaria all'interno dell'intero ordinamento giuridico, considerato che la stessa per

definizione, sia sotto il profilo civilistico (art. 1435 c.c.) che sotto quello penalistico (art. 612 c.p.), aggredisce la

persona e ne offende l'interesse all'integrità psichica e alla libertà di autodeterminazione.

La minaccia, quindi, quale modalità dell'abuso costrittivo di cui all'art. 317 c.p., presuppone sempre un autore e

una vittima, il che spiega il ruolo di vittima che assume il concusso.

14. Quanto al reato di cui all'art. 319 quater c.p., si pone il problema di chiarire il significato del termine "induce"

in esso presente, sì da tracciare la linea di confine tra tale fattispecie e il delitto di concussione.

14.1. Il concetto di induzione, per la sua polivalenza semantica e per la sua connotazione eclettica, è spendibile

certamente come "condotta-evento", in quanto idoneo a descrivere sia comportamenti profondamente diversi tra

loro, la cui specificazione non sempre è contenuta nelle singole fattispecie, sia il risultato dei medesimi

comportamenti.

Deve rilevarsi, infatti, che il nostro codice prevede fattispecie di reato che disciplinano casi di induzione

"semplice", in cui cioè il termine compare in modo esclusivo (art. 600 bis c.p., comma 1, n. 1, art. 600 ter c.p.,

comma 1, n. 2), e casi di induzione "combinata", nei quali si descrivono determinate modalità di comportamento

che caratterizzano l'induzione in vario modo: quella "abusiva", in quanto espressione dell'abuso di poteri o

qualità (art. 319 quater c.p.) ovvero dell'abuso delle altrui condizioni di inferiorità fisica o psichica (art. 609 bis

c.p., comma 2, n. 1); quella "fraudolenta", incentrata sull'inganno e sull'effetto di errore (artt. 494, 558, 601 e 640

c.p., art. 609 bis c.p., comma 2, n. 2); quella "corruttiva", attuata mediante offerta o promessa di denaro o di altra

utilità (art. 322 c.p., comma 2, artt. 377 e 377 bis c.p.); quella "violenta", che si realizza con violenza o minaccia

(art. 377 bis c.p.).

E' agevole constatare che il termine "induzione" connota, all'interno delle varie disposizioni incriminatrici,

condotte profondamente diverse tra loro, le cui modalità sono specificate, nella maggior parte dei casi, a livello di

singola fattispecie, anche se non sempre sono coerenti con il significato comunemente attribuito al termine:

si pensi alla c.d. induzione "violenta", che più propriamente va ricondotta nell'alveo della costrizione.

Le diverse ipotesi tracciate dal legislatore sono, tuttavia, accomunate, ove si eccettui la induzione "impropria"

(recte costrizione), da uno stesso risultato: quello induttivo, che, secondo il linguaggio comune, si differenzia da

quello costrittivo per il diverso e più tenue valore condizionante che spiega, in termini di comunicazione non

solo espressiva ma contenutistica, sull'altrui sfera psichica.

14.2. Ma al di là di tale affermazione generica e scarsamente designante, la nozione di induzione, alla quale il

legislatore fa ampio ricorso come modello di condizionamento psichico, rimane contrassegnata, se isolatamente

considerata, da margini di incertezza sul versante epistemologico prima ancora che su quello giuridico. Non può

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essere sottaciuto però che le disposizioni innanzi richiamate contemplano una condotta a forma non

completamente libera, in quanto prevedono, in particolare nella induzione c.d. "combinata", elementi di tipicità

aggiuntivi che concorrono a chiarirne il significato e che non possono essere sottovalutati.

E' necessario, pertanto, in aderenza al principio irrinunciabile di legalità e di certezza del diritto, individuare il

significato preciso che la nozione assume all'interno della singola fattispecie incriminatrice, tenendo conto che

comunque viene in rilievo una relazione intersoggettiva con connesso problema di causalità psichica.

La prospettiva è quella di pervenire ad un esito interpretativo che, a superamento della scarsa selezione

tipizzatrice evincibile apparentemente dal dato normativo e senza provocare una tensione di questo sino al punto

di rottura, garantisca il principio di determinatezza, considerato che, in caso i contrario, l'incriminazione affidata

esclusivamente al concetto vago di induzione si esporrebbe ad evidenti censure di illegittimità costituzionale.

14.3. Con specifico riferimento al reato di cui all'art. 319 quater c.p., il verbo "indurre" spiega una funzione di

selettività residuale rispetto al verbo "costringere" presente nell'art. 317 c.p., nel senso che copre quegli spazi non

riferibili alla costrizione, vale a dire quei comportamenti del pubblico agente, pur sempre abusivi e penalmente

rilevanti, che non si materializzano però nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono il

destinatario di essa di fronte alla scelta ineluttabile ed obbligata tra due mali parimenti ingiusti. Ciò trova

riscontro nella clausola di riserva contenuta nell'art. 319 quater c.p., comma 1, il cui incipit testualmente recita:

"Salvo che il fatto costituisca più grave reato".

La funzione di questa clausola di progressività di disvalore, anche se di non agevole intelligibilità, non può che

essere quella di fare riferimento - per il pubblico ufficiale - al reato di concussione e - per l'incaricato di pubblico

servizio - eventualmente a quello di estorsione aggravata. Il legislatore, infatti, seguendo una tecnica di

codificazione alquanto approssimata, sembra essere stato ancora condizionato - nonostante la piena autonomia

conferita, per i tratti peculiari che la caratterizzano, alla fattispecie delineata - dalla polivalenza semantica che la

nozione di induzione, intesa in senso generico, assume, ricomprendendovi impropriamente sia condotte che

determinano una costrizione, sia condotte che tale effetto non producono; ha inteso quindi, con la clausola di

riserva, tracciare il confine che separa la condotta di induzione in senso proprio da quella di costrizione,

sottolineando che la prima deve concretizzarsi in atteggiamenti non inquadrabili nella seconda.

14.4. La nozione di induzione, al pari di quella di costrizione, non va intesa in senso meramente naturalistico, ma

ne va apprezzato il significato, senza porsi al di fuori del perimetro tracciato dal segno linguistico, anche e

soprattutto sul versante normativo, utilizzando i parametri dell'abuso di qualità o di poteri da parte del pubblico

funzionario e della prevista punibilità del soggetto privato.

E' in base a tali coefficienti normativi che si deve cogliere, sul piano assiologico e su quello politico-criminale, la

ratio della norma incriminatrice ed allegare conseguentemente al termine "induzione" il preciso significato di

alterazione del processo volitivo altrui, che, pur condizionato da un rapporto comunicativo non paritario,

conserva, rispetto alla costrizione, più ampi margini decisionali, che l'ordinamento impone di attivare per

resistere alle indebite pressioni del pubblico agente e per non concorrere con costui nella conseguente lesione di

interessi di importanza primaria, quali l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.

La previsione della punibilità del privato è il vero indice rivelatore del significato dell'induzione.

L'indotto è complice dell'induttore, il che non può non incidere, come è stato osservato in dottrina, "sulla

dimensione teleologica della fattispecie, confinandone il raggio in ambito strettamente pubblicistico".

Occorre orientare il fascio di luce, oltre che sulla condotta del pubblico agente, anche sugli effetti che si

riverberano sulla volontà del privato e verificare se quest'ultima, nel suo processo formativo ed attuativo, sia stata

"piegata" dall'altrui sopraffazione ovvero semplicemente "condizionata" od "orientata" da pressioni psichiche di

vario genere, diverse però dalla violenza o dalla minaccia e prive del relativo carattere aggressivo e coartante: nel

primo caso, è integrato il paradigma della concussione; nel secondo, quello della induzione indebita.

La minaccia (o la violenza nei limiti più sopra precisati) evocata dal concetto di costrizione è modalità della

condotta tipica della concussione ed è estranea alla induzione indebita.

Il concetto di minaccia, come già precisato, presuppone un autore e una vittima e mai nell'ordinamento penale -

rilievo che, di per sè, ha carattere dirimente - il destinatario di una minaccia, intesa in senso tecnico-giuridico, è

considerato un correo. L'ordinamento anzi, con la disposizione di cui all'art. 54 c.p., comma 3, che qui si

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richiama solo per assimilazione alla coazione morale, esclude che colui che commette un reato nello stato di

necessità determinato dall'altrui minaccia possa rivestire il ruolo di concorrente nell'illecito. Argomentando a

contrario, dove non vi è vittima non può esservi per definizione minaccia.

Ed allora, il criterio discretivo tra il concetto di costrizione e quello di induzione, più che essere affidato alla

dicotomia male ingiusto-male giusto (Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, dep. 2013, Roscia, cit.), la quale può creare,

come si preciserà in seguito, qualche equivoco interpretativo, deve essere ricercato nella dicotomia minaccia-non

minaccia, che è l'altro lato della medaglia rispetto alla dicotomia costrizione-induzione, evincibile dal dato

normativo.

14.5. Le modalità della condotta induttiva, pertanto, non possono che concretizzarsi nella persuasione, nella

suggestione, nell'allusione, nel silenzio, nell'inganno (sempre che quest'ultimo non verta sulla doverosità della

dazione o della promessa, del cui carattere indebito il privato resta perfettamente conscio;

diversamente, si configurerebbe il reato di truffa), anche variamente e opportunamente collegati e combinati tra

di loro, purchè tali atteggiamenti non si risolvano nella minaccia implicita, da parte del pubblico agente, di un

danno antigiuridico, senza alcun vantaggio indebito per l'extraneus.

E' proprio il vantaggio indebito che, al pari della minaccia tipizzante la concussione, assurge al rango di "criterio

di essenza" della fattispecie induttiva, il che giustifica, in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale e

con i valori costituzionali (colpevolezza, pretesa punitiva dello Stato, proporzione e ragionevolezza), la punibilità

dell'indotto.

Da costui, non vittima di costrizione, è certamente esigibile il dovere di resistere alla pressione induttiva

dell'intraneus, considerato che l'obiettivo primario perseguito dalla norma in esame, come si è sottolineato in

dottrina, è quello di "disincentivare forme di sfruttamento opportunistico della relazione viziata dall'abuso della

controparte pubblica" e di lanciare, quindi, un chiaro messaggio sull'illiceità del pagare pubblici funzionari, salvo

il caso di costrizione scriminante. L'extraneus riceve una spinta motivante di natura utilitaristica e, ponendosi

nella prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale, si determina coscientemente e volontariamente

alla promessa o alla dazione dell'indebito.

In sostanza, nel percorrere una linea ermeneutica costituzionalmente orientata, è necessario farsi guidare

dall'esigenza, imposta dall'art. 27 Cost., comma 1, di giustificare la punibilità del privato per il disvalore insito

nella condotta posta in essere, disvalore ravvisabile, più che nella mancata resistenza all'abuso esercitato dal

pubblico agente (aspetto, questo, "derivato"), soprattutto nel fatto di avere approfittato di tale abuso per

perseguire un proprio vantaggio ingiusto.

A questo criterio designante fa riferimento, in tema di corruzione internazionale, anche l'art. 322 bis c.p., comma

2, n. 2, che, richiamando espressamente l'art. 319 quater c.p., comma 2, prevede la punibilità del privato che da o

promette denaro o altra utilità a pubblici ufficiali o a incaricati di pubblico servizio stranieri o appartenenti a

organizzazioni internazionali, sempre che il fatto sia commesso "per procurare a sè o ad altri un indebito

vantaggio in operazioni economiche internazionali ovvero al fine di ottenere o di mantenere un'attività

economica o finanziaria".

La tipicità della fattispecie induttiva è quindi integrata dai seguenti elementi: 1) l'abuso prevaricatore del pubblico

agente; 2) il fine determinante di vantaggio indebito dell'extraneus.

14.6. Conclusivamente, il funzionario pubblico, ponendo in essere l'abuso induttivo, opera comunque da una

posizione di forza e sfrutta la situazione di debolezza psicologica del privato, il quale presta acquiescenza alla

richiesta non certo per evitare un danno contra ius, ma con l'evidente finalità di conseguire un vantaggio indebito

(certat de lucro captando).

Mutuando una felice espressione di autorevole dottrina, può affermarsi che l'induzione "non costringe ma

convince". Il soggetto privato cede alla richiesta del pubblico agente non perchè coartato e vittima del metus

nella sua espressione più forte, ma nell'ottica di trarre un indebito vantaggio per sè (scongiurare una denuncia, un

sequestro, un arresto legittimi; assicurarsi comunque un trattamento di favore), attivando così una dinamica

completamente diversa da quella che contraddistingue il rapporto tra concussore e concusso e ponendosi, pur

nell'ambito di un rapporto intersoggettivo asimmetrico, in una logica negoziale, che è assimilabile a quella

corruttiva - sintomatica la collocazione topografica dell'art. 319 quater c.p., in calce ai delitti di corruzione - e

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conduce, se non ad escludere, quanto meno ad attenuare notevolmente anche il metus publicae potestatis,

concettualmente poco conciliabile con la scelta opportunistica ed avvertito solo come oggettiva "soggezione" alla

posizione di preminenza del funzionario pubblico.

L'induzione indebita a dare o promettere utilità si colloca figurativamente in una posizione intermedia tra la

condotta sopraffattrice, propria della concussione, e lo scambio corruttivo, quasi a superamento del cosiddetto

canone della mutua esclusività di questi due illeciti. La fattispecie di cui all'art. 319 quater c.p., infatti,

sembrerebbe configurarsi, con riferimento al soggetto pubblico, come una "concussione attenuata" e, con

riferimento al soggetto privato, come una "corruzione mitigata dall'induzione", ma, in realtà, non tradisce la sua

peculiare specificità unitaria di reato plurisoggettivo a concorso necessario, stante la previsione, per l'integrazione

dello stesso, della combinazione sinergica delle condotte delle due parti protagoniste.

Il legislatore del 2012 ha inteso soltanto dare autonomo rilievo a situazioni che si pongono a metà strada tra i due

estremi e di calibrarne il regime sanzionatorio, anche se, in relazione a quest'ultimo aspetto, si colgono una

qualche approssimazione ed una conseguente scarsa coerenza della riforma, aspetti questi ai quali è auspicabile

che lo stesso legislatore ponga rimedio, prevenendo l'eventuale intervento sussidiario del Giudice delle leggi.

15. Il "danno ingiusto" e il "vantaggio indebito", quali elementi costitutivi impliciti rispettivamente della condotta

costrittiva di cui all'art. 317 c.p., e di quella induttiva di cui all'art. 319 quater c.p., devono essere apprezzati con

approccio oggettivistico, il quale, però, deve necessariamente coniugarsi con la valutazione della proiezione di tali

elementi nella sfera conoscitiva e volitiva delle parti. L'accertamento cioè non può prescindere dalla verifica del

necessario intreccio tra gli elementi oggettivi di prospettazione e quelli soggettivi di percezione, per evitare che la

prova si fondi su meri dati presuntivi.

Ed invero, la netta differenza, normativamente delineata, tra la posizione del concusso, che è vittima del reato, e

quella dell'indotto, che concorre nel reato, impone l'indagine sulle spinte motivanti che hanno sorretto, in

particolare, la condotta di tali soggetti. Proprio da tale condotta è agevole partire, per stabilire sussistenza e natura

del condizionamento psichico subito e ricostruire, sulla base dell'elemento oggettivo del danno ingiusto o del

vantaggio indebito, il rapporto intersoggettivo tra i protagonisti.

Si consideri che destinatario dell'abuso costrittivo o di quello induttivo può essere, oltre al soggetto privato,

anche un soggetto titolare di una qualifica di natura pubblicistica, con l'effetto che l'intrinseca potenzialità

coattiva o persuasiva della condotta abusiva non può che essere apprezzata in correlazione con la peculiare

posizione rivestita da quest'ultimo.

16. Devesi, tuttavia, rilevare che il percorso argomentativo sin qui sviluppato nel tracciare il discrimen tra i

concetti di costrizione e di induzione è certamente fruibile, senza alcuna difficoltà, in quei casi in cui la situazione

di fatto non evidenzia incertezze di sorta, nel senso che appare chiaro, sul piano probatorio, l'effetto

perentoriamente coartante ovvero quello persuasivo che l'abuso del pubblico agente cagiona sulla libertà di

autodeterminazione della controparte.

Non possono però sottovalutarsi casi più ambigui, border line, che si collocano al confine tra concussione e

induzione indebita, per i quali non sempre è agevole affidarsi, quasi in automatico, al modello interpretativo qui

privilegiato.

Nel settore in esame, la realtà empirica è molto variegata, in quanto caratterizzata da situazioni relazionali che,

proprio perchè maturano in contesti tendenzialmente propensi all'illegalità, presentano aspetti di ambiguità e di

opacità.

In tali casi, il giudice dovrà procedere, innanzi tutto, alla esatta ricostruzione in fatto della vicenda portata alla sua

cognizione, cogliendone gli aspetti più qualificanti, e quindi al corretto inquadramento nella norma incriminatrice

di riferimento, lasciandosi guidare, alla luce comunque dei parametri rivelatori dell'abuso costrittivo o di quello

induttivo, verso la soluzione applicativa più giusta.

Tali parametri (danno contra ius e vantaggio indebito) possono trovare entrambi riscontro in una determinata

situazione fattuale o evidenziare, se isolatamente considerati, una scarsa valenza interpretativa, sicchè, onde

evitare soluzioni confuse, devono essere apprezzati, come si è sottolineato in dottrina, non nella loro staticità, ma

nella loro operatività dinamica, enucleando, sulla base di una valutazione approfondita ed equilibrata del fatto, il

dato di maggiore significatività.

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A maggior chiarimento di quanto affermato, s'impone una riflessione sui casi più problematici, qui si seguito

esemplificati.

17. Si pensi all'abuso di qualità, in cui il pubblico funzionario fa pesare, per conseguire la dazione o la promessa

dell'indebito, tutto il peso della sua posizione soggettiva, senza alcun riferimento al compimento di uno specifico

atto del proprio ufficio o servizio.

L'abuso soggettivo, evidenziando indici di equivocità, si presta ad una duplice plausibile lettura, in quanto può

porre il privato in una condizione di pressochè totale soggezione, determinata dal timore di possibili ritorsioni

antigiuridiche, per evitare le quali finisce con l'assecondare la richiesta; ovvero può indurre il privato a dare o

promettere l'indebito, per acquisire la benevolenza del pubblico agente, foriera potenzialmente di futuri favori,

posto che il vantaggio indebito, sotto il profilo contenutistico, può consistere, oltre che in un beneficio

determinato e specificamente individuato, anche in una generica "disponibilità clientelare" del pubblico agente.

Un esempio tratto dalla realtà è quello di un appartenente a una forza di polizia che, dopo avere consumato un

pranzo con amici in un ristorante, facendo valere il suo status, pretenda di non pagare il conto o di saldarlo in

maniera quasi simbolica.

In tal caso, è necessario contestualizzare la complessiva vicenda, apprezzare e valutare ogni particolare delle

modalità comportamentali del pubblico ufficiale e del ristoratore, per stabilire se il primo abbia veicolato un

univoco messaggio di sopraffazione verso il secondo, sì da porre quest'ultimo in una condizione di vera e propria

coercizione (concussione), ovvero se tra i due interlocutori, nonostante la posizione di preminenza dell'uno

sull'altro, si sia comunque instaurata una dialettica utilitaristica, eziologicamente rilevante sotto il profilo

motivazionale (induzione indebita).

18. Problematica è anche la situazione che si verifica con la prospettazione implicita da parte del pubblico agente

di un danno generico, messaggio che il destinatario, per autosuggestione o per metus ab intrinseco, può caricare

di significati negativi, paventando di potere subire un'oggettiva ingiustizia.

Anche in questo caso non si può prescindere da una approfondita valutazione del concreto atteggiarsi dei ruoli

delle parti nel contesto considerato, per inferirne la ricorrenza o meno di una effettiva prevaricazione costrittiva.

Il percorso valutativo, per ritenere la sussistenza di questa, deve tenere presente, in particolare, che quanto più il

supposto danno è indeterminato tanto più l'intento intimidatorio del pubblico agente e i riflessi gravemente

condizionanti - per metus ab extrinseco - l'autodeterminazione della controparte devono emergere in modo

lampante, per potere pervenire ad un giudizio di responsabilità per concussione.

19. Vi sono poi situazioni, per così dire, "miste" o "ambivalenti", di minaccia-offerta o minaccia-promessa.

Può accadere, infatti, che il pubblico agente non si sia limitato a minacciare un danno ingiusto (ad esempio,

l'illegittima ed arbitraria esclusione da una gara d'appalto), ma abbia allettato contestualmente il suo interlocutore

con la promessa di un vantaggio indebito (aggiudicazione certa dell'appalto pubblico a scapito dei concorrenti).

In questo caso, minaccia ed offerta si fondono in un'unica realtà inscindibile, che può essere fonte di una qualche

difficoltà ermeneutica nell'inquadrare la vicenda nel paradigma dell'art. 317 c.p., o in quello dell'art. 319 quater

c.p..

E' necessario, nell'ipotesi data, accertare se il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull'aspetto

intimidatorio, sino al punto da vanificarne l'efficacia, e se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur

di assicurarsi, quale ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando così

convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico. Ove la verifica dia esito positivo, è evidente che

deve privilegiarsi la logica interpretativa del comune coinvolgimento dei protagonisti nell'illecito di cui all'art. 319

quater c.p.. In caso contrario, la marginalizzazione del vantaggio indebito rispetto al danno ingiusto minacciato,

che finisce col sovrastare il primo, deve fare propendere per l'abuso concussivo.

19.1. Si immagini anche il caso in cui il funzionario pubblico subordini la tempestiva evasione di una legittima

richiesta del cittadino al pagamento dell'indebito, lasciando implicitamente intendere che, in difetto, potrebbe

sorgere qualche difficoltà. Il fatto, così schematizzato, apparirebbe inquadrabile nella coercizione psichica che

designa la concussione.

Può anche accadere, però, che la valutazione complessiva ed approfondita della dinamica relazionale

intersoggettiva denunci l'assenza di una effettiva coazione della parte privata, la quale, mostrando disponibilità

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all'interlocuzione con la controparte pubblica, per averne colto i significati sottintesi, decide di privilegiare la via

breve del pagamento illecito non soltanto per superare la difficoltà contingente, ma soprattutto per ingraziarsi la

benevolenza del funzionario e assicurarsi prò futuro la trattazione preferenziale delle proprie pratiche, finendo

così con l'inserirsi in quella logica negoziale asimmetrica che connota l'induzione indebita.

19.2. A margine, è il caso di evidenziare che, proprio in situazioni come quelle testè esaminate, la dicotomia male

ingiusto - male giusto, su cui fa leva il secondo indirizzo esegetico maturato dopo la riforma del 2012, mostra il

suo limite.

Ed invero, nella minaccia-promessa viene in rilievo soltanto l'alternativa tra minaccia di un male ingiusto ed

offerta di un vantaggio indebito; quest'ultimo però non fa da contraltare alla mancata adozione di un atto

legittimo della pubblica amministrazione e pregiudizievole per il privato. E' evidente l'equivoco che può derivare,

nella valutazione di una tale situazione, dalla utilizzazione del parametro interpretativo privilegiato dal detto

indirizzo.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento al secondo caso ipotizzato, in cui il danno contra ius

prospettato risulta, per così dire, sfumato nella sua portata intimidatoria e sovrastato dalla "soggezione

compiacente" manifestata opportunisticamente dal soggetto privato.

20. Profili particolarmente delicati evidenziano le contingenze relazionali connesse all'esercizio del potere

discrezionale del pubblico agente.

Il prospettare costui, in maniera del tutto estemporanea e pretestuosa, l'esercizio sfavorevole del proprio potere

discrezionale, al solo fine di costringere il privato alla prestazione indebita, integra certamente la minaccia di un

danno ingiusto, in quanto non funzionale al perseguimento del pubblico interesse, ma chiaro indice di sviamento

dell'attività amministrativa dalla causa tipica. In questa ipotesi, il privato è certamente vittima di concussione, in

quanto si "piega" all'abuso, proprio per scongiurarne gli effetti per lui ingiustamente dannosi (si pensi al

preannuncio di una verifica fiscale in carenza dei presupposti di legge ed a fini meramente persecutori ed illeciti).

Diversamente, se l'atto discrezionale, pregiudizievole per il privato, è prospettato nell'ambito di una legittima

attività amministrativa e si fa comprendere che, cedendo alla pressione abusiva, può conseguirsi un trattamento

indebitamente favorevole, obiettivo questo condiviso e fatto proprio dal soggetto privato, è evidente che viene

ad integrarsi il reato di induzione indebita.

21. Non mancano casi in cui, per assicurare la corretta qualificazione giuridica del fatto come concussione

piuttosto che come induzione indebita, non si può prescindere dal confronto e dal bilanciamento tra i beni

giuridici coinvolti nel conflitto decisionale: quello oggetto del male prospettato e quello la cui lesione consegue

alla condotta determinata dall'altrui pressione.

Può accadere, infatti, che il privato, nonostante abbia conseguito, prestando acquiescenza all'indebita richiesta del

pubblico agente, un trattamento preferenziale, si sia venuto sostanzialmente a trovare in uno stato psicologico di

vera e propria costrizione, assimilabile alla coazione morale di cui all'art. 54 c.p., comma 3, con conseguente

decisiva incidenza negativa sulla sua libertà di autodeterminazione.

Il riferimento è a quelle situazioni in cui l'extraneus, attraverso la prestazione indebita, intende soprattutto

preservare un proprio interesse di rango particolarmente elevato (si pensi al bene vita, posto in pericolo da una

grave patologia); oppure, di fronte ad un messaggio comunque per lui pregiudizievole e al di là del danno

ingiusto o giusto preannunciato, sacrifica, con la prestazione indebita, un bene strettamente personale di

particolare valore (libertà sessuale), e ciò in spregio a qualsiasi criterio di proporzionalità, il che finisce con

l'escludere lo stesso concetto di vantaggio indebito.

A maggior chiarimento, si pensi - per esempio - al caso, già esaminato in giurisprudenza, del primario dell'unità

operativa di cardiochirurgia di una struttura pubblica, il quale, per operare personalmente e con precedenza su

altri un paziente, pretenda dal medesimo, allarmandolo circa l'urgenza dell'intervento "salvavita", una certa

somma di denaro. E' indubbio che il paziente, accondiscendendo alla richiesta del medico, si assicura un

trattamento di favore rispetto ad altri pazienti non disposti a cedere all'abuso. In realtà, però, non è questa finalità

a guidare il suo processo volitivo, che rimane invece gravemente condizionato dalla componente coercitiva

evincibile dall'intero contesto: intervento al cuore potenzialmente salvifico, condizionato al pagamento indebito,

omettendo il quale, il paziente avverte di esporre a grave rischio la propria vita.

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Tale ipotesi non può che essere ricondotta nel paradigma della concussione.

Altro caso sintomatico è quello del poliziotto che avvicina una prostituta extracomunitaria, che, priva di

permesso di soggiorno, esercita per strada il meretricio, e, dopo averle chiesto i documenti, la invita

perentoriamente a seguirlo per consumare un rapporto sessuale gratuito. In tale situazione, l'esercizio dei poteri

di polizia si appalesa deviato dal fisiologico schema funzionale ed assume evidenti connotati di prevaricazione

costrittiva per il coinvolgimento nella pretesa indebita di un bene fondamentale della persona (libertà sessuale) ed

in assenza di sintomi di adesione, sia pure "indotta", della donna, e ciò a prescindere dalla natura ingiusta o giusta

del danno oggetto del messaggio veicolato dal poliziotto.

22. I casi testè esaminati in via esemplificativa evidenziano che il criterio del danno-vantaggio non sempre

consente, se isolatamente considerato nella sua nettezza e nella sua staticità, di individuare il reale disvalore di

vicende che occupano la c.d. "zona grigia".

Il detto parametro, pertanto, deve essere opportunamente calibrato, all'esito di una puntuale ed approfondita

valutazione in fatto, sulla specificità della vicenda concreta, tenendo conto di tutti i dati circostanziali, del

complesso dei beni giuridici in gioco, dei principi e dei valori che governano lo specifico settore di disciplina.

Tanto è imposto dalla natura proteiforme di particolari situazioni, nelle quali l'extraneus, per effetto dell'abuso

posto in essere dal pubblico agente, può contestualmente evitare un danno ingiusto ed acquisire un indebito

vantaggio ovvero, pur di fronte ad un apparente vantaggio, subisce comunque una coartazione, sicchè, per

scongiurare mere presunzioni o inaffidabili automatismi, occorre apprezzare il registro comunicativo nei suoi

contenuti sostanziali, rapportati logicamente all'insieme dei dati di fatto disponibili.

23. La ulteriore riflessione deve mirare a stabilire se vi sia o no continuità di tipo di illecito tra la fattispecie legale

astratta delineata dal previgente art. 317 c.p., e il nuovo assetto normativo venutosi a cristallizzare, in relazione

agli aspetti penali che qui rilevano, con la novella legislativa n. 190 del 2012.

E' necessario cioè chiarire se l'avvicendarsi nel tempo delle norme penali regolanti lo specifico settore renda

operativa la disposizione di cui all'art. 2 c.p., comma 4, con conseguente applicazione della disciplina più

favorevole, ovvero se ricorra eventualmente una qualche ipotesi di abolitici criminis, soggetta alla previsione del

secondo comma del citato articolo.

23.1. Le Sezioni Unite hanno già avuto modo di puntualizzare che il legislatore individua, attraverso la fattispecie

legale astratta, i fatti meritevoli del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più

considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea col giudizio di disvalore astratto espresso dalla legge

precedente. La fattispecie legale è strumento di "selezione" o di "de-selezione" dei fatti penalmente rilevanti.

L'interprete, nel condurre l'operazione di verifica circa la sussistenza o no di continuità normativa tra leggi penali

succedutesi nel tempo, deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte, quelle precedenti e

quelle successive, al fine di stabilire se vi sia o no uno spazio comune alle dette fattispecie, senza la necessità di

ricercare conferme o smentite al riguardo nei criteri valutativi del bene giuridico tutelato e delle modalità di

offesa, inidonei ad assicurare approdi interpretativi sicuri. E' il solo confronto strutturale a consentire, in via

autonoma, l'individuazione della continuità o della portata demolitoria che l'intervento legislativo posteriore ha

eventualmente spiegato sugli elementi costitutivi del fatto tipico previsto dalla normativa precedente (Sez. U, n.

24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv.243585; Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224607).

Se l'intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che ne sopprime un elemento

strutturale, si versa nella ipotesi della abolitio criminis; il fatto cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente

irrilevante proprio per la soppressione di quell'elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore

insito nella scelta di politica criminale. Diversamente, se la fisionomia della fattispecie, nella sua struttura, non

viene alterata, ma il novum incide soltanto sulla sua regolamentazione, si è in presenza di successione di norme

meramente modificative della disciplina della fattispecie, con la conseguenza che deve essere applicata la norma

nel complesso più favorevole al reo.

Può accadere anche che il sistema giuridico risultante dopo l'abrogazione di una norma incriminatrice (nella

specie, la concussione per costrizione commessa dall'incaricato di pubblico servizio) continua ad allegare

rilevanza penale al fatto in essa descritto, in quanto inquadrabile in altra fattispecie che, già prevista

dall'ordinamento giuridico, diviene applicabile, nel caso considerato, solo dopo la modifica legislativa. In tale

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evenienza, si parla comunemente di abrogatio sine abolitione, fenomeno che si verifica quando ad essere

abrogata è una norma incriminatrice in rapporto di specialità con altra norma avente regolare efficacia operativa,

perchè preesistente a quella abrogata.

23.2. Ciò posto, ritiene la Corte che, ai fini delle implicazioni di carattere intertemporale, v'è totale

continuità normativa tra presente e passato con riguardo alla posizione del soggetto qualificato,

chiamato a rispondere di fatti già riconducibili, in relazione all'epoca di commissione degli stessi, nel

paradigma del previgente art. 317 c.p..

La previsione della punibilità, ex art. 319 quater c.p., comma 2, del soggetto indotto, in precedenza

considerato vittima, sarà operativa, ovviamente, solo per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore della

detta norma, in applicazione dell'art. 2 c.p., comma 1.

23.3. Con riferimento, in particolare, alla concussione per costrizione di cui al novellato art. 317 c.p., nulla è

mutato quanto alla posizione del pubblico ufficiale. I "vecchi" fatti di abuso costrittivo da costui commessi

continuano a dover essere puniti, sia pure con il più favorevole corredo sanzionatorio previgente. La

formulazione testuale del nuovo art. 317 c.p., infatti, è assolutamente sovrapponibile, nella indicazione degli

elementi strutturali della fattispecie, al testo della norma ante riforma.

Da questa è stata espunta la categoria soggettiva dell'incaricato di pubblico servizio, il quale, però, ove abbia

posto in essere una condotta costrittiva, qualificata dall'abuso di poteri, continua a dover essere punito,

considerato che tale condotta, nella sua struttura, rimane comunque inquadrabile in altre fattispecie incriminatrici

di "diritto comune".

L'abuso costrittivo dell'incaricato di pubblico servizio certamente sfugge allo statuto penale della pubblica

amministrazione, ma non v'è dubbio che può integrare il reato di estorsione aggravata (art. 629 c.p., e art. 61 c.p.,

comma 1, n. 9) in presenza di deminutio patrimoni ovvero, difettando questa, il reato di violenza privata

aggravata (art. 610 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9) od ancora, se la vittima è stata costretta a prestazioni

sessuali, il reato di cui all'art. 609 bis c.p., illeciti - questi - che strutturalmente condividono la stessa fisionomia

della vecchia fattispecie di concussione per costrizione. Ovviamente, in sede di diritto intertemporale, deve essere

individuato e applicato il regime sanzionatorio più favorevole.

Rimane il fatto che il quadro sanzionatorio, una volta "a regime", presenta, come già rilevato, aspetti paradossali

ed irragionevoli per le sproporzioni in eccesso o in difetto che lo attraversano a seconda che il fatto incriminato

sia commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio.

23.4. Sussiste continuità normativa, limitatamente alla posizione del pubblico agente, anche tra la

previgente concussione per induzione e il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità.

Una parte della giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 17285 dell'11/01/2013, Vaccaro, Rv. 254620) e della

dottrina ha risolto positivamente il problema della continuità, facendo leva sul rilievo che l'art. 319 quater c.p.,

integrerebbe una "norma a più fattispecie", nel senso che prevedrebbe due autonome figure di reato

monosoggettivo: l'induzione qualificata dell'intraneus, in tutto identica, nella sua formulazione testuale, alla

corrispondente parte del previgente art. 317 c.p.; la promessa o la dazione indotta di utilità da parte

dell'extraneus.

Tale orientamento, apprezzabile per la sua chiarezza intuitiva, non si concilia però con il dato normativo, che

postula, per l'esistenza del reato, la necessaria convergenza, sia pure nell'ambito di un rapporto "squilibrato", dei

processi volitivi di più soggetti attivi e la punibilità dei medesimi.

Trattasi quindi di reato plurisoggettivo proprio o normativamente plurisoggettivo.

Nè vale a contestare tale conclusione la diversità di pena prevista per il pubblico agente (reclusione da tre a otto

anni) e per il privato (reclusione fino a tre anni), considerato che tale previsione, di per sè, non esclude l'unitarietà

della fattispecie: lo dimostra il fatto che, anche per i reati di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., (pacificamente a

concorso necessario), il legislatore differenzia le pene per le diverse figure di capo, promotore, dirigente,

organizzatore o mero partecipe.

La correità necessaria insita nell'illecito di cui all'art. 319 quater c.p., ha certamente innovato, sotto il profilo

normativo, lo schema della vecchia concussione per induzione, che tuttavia, con riferimento alla posizione del

47

pubblico agente, trova continuità nel novum, venendo così scongiurata l'operatività della regola di cui all'art. 2

c.p., comma 2.

Molteplici ragioni militano per tale continuità: a) il volto strutturale dell'abuso induttivo è rimasto immutato; b) la

prevista punibilità dell'indotto non investe direttamente la struttura tipica del reato, ma interviene, per così dire,

solo "al suo esterno"; c) la vecchia descrizione tipica già contemplava, infatti, la dazione/promessa del privato e

delineava un reato plurisoggettivo improprio o naturalisticamente plurisoggettivo, inquadramento dogmatico

quest'ultimo che non incide sulla ricognizione logico- strutturale; d) finanche sotto il profilo assiologico, la nuova

incriminazione è in linea con quella previgente, anche se ne restringe la portata offensiva alla sola dimensione

pubblicistica del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione.

Ritenuto il rapporto di piena continuità normativa, compito del giudice intertemporale, per la valutazione dei fatti

pregressi, deve essere solo quello di applicare, ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4, la lex mitior, che va individuata

nella norma sopravvenuta, perchè più favorevole in ragione dell'abbassamento di entrambi i limiti edittali di pena.

24. Le argomentazioni sin qui sviluppate chiariscono il rapporto che intercorre tra il delitto di concussione e

quello di induzione indebita a dare o promettere utilità e ne individuano il discrimen, oltre che nella diversa

soggettività attiva, nelle modalità sostanziali di perseguimento del risultato o della promessa di utilità, sia con

riferimento all'azione dell'intraneus che all'intensità dell'effetto di condizionamento psicologico, nel senso

diffusamente chiarito, che la stessa azione determina sull'extraneus.

24.1. La riforma del 2012 ha reso più netta e chiara la distinzione tra il reato di concussione e le fattispecie

corruttive.

Il novellato art. 317 c.p., infatti, delineando un'unica fattispecie delittuosa modulata esclusivamente sulla condotta

di costrizione, ha conferito maggiore determinatezza all'illecito, nel senso che i suoi connotati - l'abuso e la

violenza/minaccia da parte del pubblico ufficiale - lo differenziano univocamente dalla corruzione: si configurerà

quest'ultimo illecito in presenza di una libera contrattazione, di un accordo delle volontà liberamente e

consapevolmente concluso su un piano di parità sinallagmatica; si profilerà, invece, il primo illecito quando la

volontà dell'extraneus è causalmente coartata dalla condotta abusiva del pubblico ufficiale, attuata con le citate

modalità.

24.2. Più delicata appare la distinzione tra il delitto di induzione indebita e le fattispecie corruttive, in

considerazione del rilievo che il primo occupa una posizione intermedia tra la concussione e l'accordo corruttivo

vero e proprio.

Per una corretta soluzione del problema, l'elemento differenziatore tra i due illeciti deve essere apprezzato

cogliendo le connotazioni del rapporto intersoggettivo tra il funzionario pubblico e l'extraneus e, segnatamente,

la presenza o meno di una soggezione psicologica del secondo nei confronti del primo.

Ciò che rileva è il diverso modo con cui l'intraneus, nei due delitti, riesce a realizzare l'illecita utilità: la corruzione

è caratterizzata, come si è detto, da un accordo liberamente e consapevolmente concluso, su un piano di

sostanziale parità sinallagmatica, tra i due soggetti, che mirano ad un comune obietti illecito; l'induzione indebita,

invece, è designata da uno stato di soggezione del privato, il cui processo volitivo non è spontaneo ma è

innescato, in sequenza causale, dall'abuso del funzionario pubblico, che volge a suo favore la posizione di

debolezza psicologica del primo.

Indice sintomatico dell'induzione è certamente quello dell'iniziativa assunta dal pubblico agente. Il requisito che

contraddistingue, nel suo peculiare dinamismo, la induzione indebita e la differenzia dalle fattispecie corruttive è

la condotta comunque prevaricatrice dell'intraneus, il quale, con l'abuso della sua qualità o dei suoi poteri,

convince l'extraneus alla indebita dazione o promessa.

E' vero che anche le condotte corruttive non sono svincolate dall'abuso della veste pubblica, ma tale abuso si

atteggia come connotazione (di risultato) delle medesime e non svolge il ruolo, come accade nei reati di

concussione e di induzione indebita, di strumento indefettibile per ottenere, con efficienza causale, la prestazione

indebita.

24.3. Ancora più difficoltoso è distinguere la istigazione alla corruzione attiva (art. 322 c.p., commi 3 e 4) dalla

induzione indebita nella forma tentata, posto che entrambe tali fattispecie implicano forme di interazione

48

psichica, nel senso che sia l'una che l'altra si configurano attraverso comportamenti di "interferenza

motivazionale sull'altrui condotta".

Sotto il profilo linguistico, il concetto di "induzione" presuppone un quid pluris rispetto al concetto di

"sollecitazione" di cui all'art. 322 c.p., commi 3 e 4, e deve essere colto nel carattere perentorio ed ultimativo della

richiesta e nella natura reiterata ed insistente della medesima. Sul piano strutturale, la condotta induttiva,

diversamente dalla sollecitazione, deve coniugarsi dinamicamente con l'abuso, sì da esercitare sull'extraneus una

pressione superiore rispetto a quella conseguente alla mera sollecitazione. Rimane integrata quest'ultima, invece,

nell'ipotesi in cui il pubblico agente propone al privato un semplice scambio di favori, senza fare ricorso ad alcun

tipo di prevaricazione, sicchè il rapporto tra i due soggetti si colloca in una dimensione paritetica.

25. Le argomentazioni sin qui sviluppate impongono, a norma dell'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3,

l'enunciazione dei seguenti principi di diritto:

- "il reato di cui all'art. 317 c.p., come novellato dalla L. n. 190 del 2012, è designato dall'abuso

costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o - più di frequente - mediante minaccia,

esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione, senza tuttavia

annullarla del tutto, della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza alcun vantaggio

indebito per sè, è posto di fronte all'alternativa secca di subire il mah prospettato o di evitarlo con la

dazione o la promessa dell'indebito";

- "il reato di cui all'art. 319 quater c.p., introdotto dalla L. n. 190 del 2012, è designato dall'abuso

induttivo del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, vale a dire da una condotta di

persuasione, di suggestione, di inganno (purchè quest'ultimo non si risolva in induzione in errore sulla

doverosità della dazione), di pressione morale, con più tenue valore condizionante la libertà di

autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col

prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perchè motivato dalla prospettiva di

conseguire un indebito tornaconto personale, il che lo pone in una posizione di complicità col pubblico

agente e lo rende meritevole di sanzione";

- "nei casi c.d. ambigui, quelli cioè che possono collocarsi al confine tra la concussione e l'induzione

indebita (la c.d. zona grigia dell'abuso della qualità, della prospettazione di un male indeterminato,

della minaccia-offerta, dell'esercizio del potere discrezionale, del bilanciamento tra beni giuridici

coinvolti nel conflitto decisionale), i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio

indebito, che rispettivamente contraddistinguono i detti illeciti, devono essere utilizzati nella loro

operatività dinamica all'interno della vicenda concreta, individuando, all'esito di una approfondita ed

equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti";

- "v'è continuità normativa, quanto al pubblico ufficiale, tra la previgente concussione per costrizione e

il novellato art. 317 c.p., la cui formulazione è del tutto sovrapponibile, sotto il profilo strutturale, alla

prima, con l'effetto che, in relazione ai fatti pregressi, va applicato il più favorevole trattamento

sanzionatorio previsto dalla vecchia norma";

- "l'abuso costrittivo dell'incaricato di pubblico servizio, illecito attualmente estraneo allo statuto dei

reati contro pubblica amministrazione, è in continuità normativa, sotto il profilo strutturale, con altre

fattispecie incriminatrici di diritto comune, quali, a seconda dei casi concreti, l'estorsione, la violenza

privata, la violenza sessuale (artt. 629, 610 e 609 bis, con l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n.

9);

- "sussiste continuità normativa, quanto alla posizione del pubblico agente, tra la concussione per

induzione di cui al previgente art. 317 c.p., e il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere

utilità di cui all'art. 319 quater c.p., considerato che la pur prevista punibilità, in quest'ultimo, del

soggetto indotto non ha mutato la struttura dell'abuso induttivo, ferma restando, per i fatti pregressi,

l'applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma";

- "il reato di concussione e quello di induzione indebita si differenziano dalle fattispecie corruttive, in

quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario

pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l'extraneus, comunque

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in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l'accordo corruttivo

presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l'incontro assolutamente libero e consapevole

delle volontà delle parti";

- "Il tentativo di induzione indebita, in particolare, si differenzia dall'istigazione alla corruzione attiva

di cui all'art. 322 c.p., commi 3 e 4, perchè, mentre quest'ultima fattispecie s'inserisce sempre

nell'ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici

poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri,

ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta

perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera

sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di favori".

26. (omissis)

Cass., sez. VI, 28 febbraio 2014, n. 9883, sull’applicabilità della più grave fattispecie di cui all’art.

319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. nell’ipotesi di sistematico ricorso, da parte del pubblico ufficiale, ad

atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili "ex post". Sui

rapporti tra gli artt. 318 e 319 c.p., dopo l’intervento della legge n. 190 del 2012, v. anche: Cass.,

sez. VI, 17 novembre 2014, n. 47271; Id., 26 novembre 2014, n. 49226.

(omissis)

4.2. Il primo motivo di ricorso, con cui si invoca la riconducibilità della condotta antidoverosa dell'imputato nel

paradigma dell'art. 318 c.p., in luogo di quello contestato ex art. 319 c.p., è infondato e contraddetto dalle

emergenze processuali ripercorse, con accurata analisi dei momenti e dell'evoluzione del contegno del T., dalle

due conformi decisioni di merito.

L'assunto, che valorizza la riduttiva affermazione del coimputato corruttore per cui le remunerazioni versate al

geometra comunale sarebbero state determinate dalla correttezza e scrupolosità nella sua trattazione delle

pratiche d'interesse della società Kreiamo o di altre strutture a questa collegate, già di per sè rende palese la

patente violazione del dovere di imparzialità e terzietà del pubblico ufficiale. Dato che già vale ad inscrivere la

condotta del T. nell'area della antidoverosità apprezzabile ai sensi dell'art. 319 c.p.. Area in cui si collocano per

intero i suoi contegni concernenti le corpose prebende natalizie del 2006 e del 2007 e la più lucrosa esecuzione

gratuita dei lavori di ristrutturazione della sua casa, siccome specificamente correlati (a nulla rileva, in termini di

corruzione propria antecedente, la posteriorità dell'illegittima azione del T.) agli interventi sviluppati dall'imputato

in favore dello I. in rapporto alla pratica edilizia del piano di lottizzazione (OMISSIS). In alcun modo l'operato

del T. può, in tali vicende, essere espressione di corretta amministrazione o di scrupolo amministrativo, come

incautamente si sostiene nel ricorso.

L'attività di fraudolenta sostituzione della relazione tecnica a corredo della richiesta di concessione edificatoria

per la progettata imponente lottizzazione dell'area (OMISSIS) del Comune di (OMISSIS) diviene emblematica,

anche alla luce delle captazioni foniche richiamate nella sentenza di appello, dell'arbitrarietà e deliberata volontà

manipolatoria del T., sol che si osservi - come non mancano di sottolineare le due sentenze di merito - che la

regolarità e pertinenza della relazione in parola (per le problematiche idrogeologiche dell'area) costituisse una

condizione determinante e irrinunciabile dell'accoglimento della domanda della società Minoco s.r.l. e per essa (in

via mediata) dello I., al quale direttamente si rivolge in prima battuta il T. per segnalargli il verificato

"inconveniente" (a tacere del significativo dato consequenziale che la "nuova" consulenza tecnica a corredo della

domanda di lottizzazione sarà redatta, non a caso, da un architetto della Kreiamo S.p.A. di I. e non della formale

interessata Minoco s.r.l.).

4.3. Manifesta è l'infondatezza dei rilievi critici (terzo motivo di ricorso), replicanti omologhi motivi di appello

adeguatamente vagliati e disattesi dalla Corte territoriale, formulati sulla supposta irrilevanza o innocuità delle

50

falsità compiute dal T. per far apparire la ridetta nuova consulenza, "corretta", come pervenuta in Comune il

22.1.2008 e non (come avvenuto nella realtà) il 29.1.2008.

L'attività manipolatoria dell'imputato, da questi ammessa nella sua materialità, si è dispiegata su atti univocamente

pubblici, in quanto già facenti parte (relazione sostituita) o destinati a far parte pur surrettiziamente (relazione

sostitutiva) del subprocedimento amministrativo pertinente al piano di lottizzazione (OMISSIS) e sulle

corrispondenti registrazioni del protocollo degli atti dell'ente pubblico, che li ha resi atti "interni" al

procedimento medesimo (Sez. 5, 21.2.2011 n. 14486, Marini, rv.

249858). Non è dubitabile che la fraudolenta azione di falsità dell'imputato non si è limitata, come si afferma nel

ricorso, ad integrare una pratica sostanzialmente già completa, tanto più che la commissione tecnica del Comune

di Trezzano che pochi giorni dopo ha esaminato il p.l. (OMISSIS) ha richiesto all'impresa istante tutta una serie

di previ adempimenti tecnico-documentali. Tale ultima evenienza è irrilevante (un post factum rispetto ai già

consumati falsi) e l'azione contraffattrice dell'imputato non si è limitata ad una mera aggiunta o correzione di

documenti già acquisiti dal Comune, atteso che la sostituzione della relazione tecnica ha alterato decisive

componenti contenutistiche del documento dotate di essenziale rilievo per la pratica di lottizzazione edilizia.

Merita soltanto aggiungere, con riguardo al registro di protocollo, che l'analisi in proposito svolta dai giudici di

merito (sent.Tribunale, p. 35: "...la relazione idrogeologica ha assunto la natura di atto pubblico una volta

presentata presso gli uffici del Comune e regolarmente protocollata in allegato alla richiesta di permesso di

costruire relativo al p.l. (OMISSIS)"), sono in tutto conformi alla giurisprudenza di legittimità sul tema della

natura di atto pubblico munito di fede privilegiata del registro di protocollo di un ufficio pubblico (ex plurimis:

Sez. 5, 23.1.2004 n. 8684, Bertucci, rv. 228752; Sez. 5, 22.9.2010 n. 39623, Trinci, rv. 248654; Sez. 5,16.1.2013 n.

9840, Caminiti, rv. 255224).

4.4. (omissis)

4.6. Le deduzioni enunciate con i motivi aggiunti di ricorso, secondo cui l'illecita condotta di corruzione passiva

dell'imputato andrebbe ricondotta, anche ai fini sanzionatori, nell'ambito della fattispecie della corruzione per

l'esercizio della funzione, nel testo dell'art. 318 c.p., novellato dalla L. n. 190 del 2012, non hanno pregio.

4.6.1. Innanzitutto è agevole osservare che, sebbene l'imputazione mossa al T. rechi traccia di un generico

asservimento delle sue funzioni pubbliche "agli interessi privati di I.A.", la concreta accusa mossagli è per intero

costruita sulle descritte vicende relative al piano di lottizzazione (OMISSIS) del Comune di (OMISSIS). La

contestazione accusatoria è modulata su tali fatti e su di essi, e non su altri evanescenti o non meglio precisati

contesti, sono imperniate le decisioni di condanna di primo e di secondo grado. Delle ripetute prebende o

piccole "regalie" (somme di 50,100 Euro) erogate al geometra, di cui ha fatto cenno lo I., non solo non è fatta

menzione nella formale accusa elevata contro T. (imputazione), ma di esse le sentenze di merito (pur non

ignorando le affermazioni di I.), non tengono alcun conto, circoscrivendo l'analisi delle condotte del prevenuto

agli specifici episodi correlati al piano di lottizzazione (OMISSIS). Nè è casuale che nei due gradi di giudizio di

merito l'imputato abbia concentrato i propri sforzi difensivi solo su tali temi di accusa.

4.6.2. Di poi appare comunque almeno discutibile che la fattispecie o categoria criminosa dell'asservimento

dell'intera funzione (pubblico ufficiale corrotto posto a c.d. libro paga del privato corruttore), disegnata

dall'evoluzione giurisprudenziale e pacificamente sussunta nell'ipotesi di corruzione propria (antecedente o

successiva) ex art. 319 c.p., possa o debba essere oggi ricondotta nella previsione del novellato art. 318 c.p.

(prima intestato alla corruzione per un atto di ufficio), come apparirebbe ad una prima lettura (cfr. Sez. 6, 11, 1,

2013 n. 19189, Abbruzzese, rv. 255073).

Pur sottacendo le discrasie logiche e concettuali che paiono opporsi alla configurabilità di un asservimento delle

funzioni pubbliche volto al compimento di atti conformi alle funzioni e ai doveri del pubblico ufficiale (cioè atti

di corruzione c.d. impropria antecedente), ciò che di per sè già vale a declinare una patente violazione dei canoni

di fedeltà e imparzialità che infrange lo statuto deontologico del pubblico funzionario, atteso che - come noto - il

criterio distintivo tra corruzione propria e corruzione impropria non è dato dalla mera legittimità o meno dell'atto

o delle attività compiuti, ma dalle modalità e dagli scopi sottostanti o strumentali con cui l'uno o le altre sono in

concreto realizzati, non sembra incongruo un semplice rilievo che offre la misura della problematica suscitata

dalla novellata normativa.

51

In vero, da un lato, il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica "per", all'esercizio delle

funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale espresso dal nuovo art. 318 c.p., non consente una immediata

decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri possa assumere in

concreto.

Da un altro lato appare ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla L. n. 190 del 2012)

tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più

agevole l'accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione

dell'offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Rilievi non privi di

spessore allorchè si consideri che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità

("venda") un solo suo atto contrario all'ufficio (ad esempio rilasci un permesso di accesso in z.t.l. non consentito,

ecc.) sia punito con una cospicua pena oscillante tra i quattro e gli otto anni di reclusione (come da novellato

incremento delle pene dell'art. 319 c.p.). Laddove un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga

l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di

infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili

ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell'art. 319 c.p.), si vedrebbe oggi -

secondo la tesi del ricorrente - irrazionalmente punito con una pena assai più mite, quale quella prevista dal

riformato art. 318 c.p., (da uno a cinque anni di reclusione). E ciò malgrado appaiano in tutta evidenza

indiscutibili la ben maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale della seconda condotta,

integrata appunto dall'asservimento costante e metodico dell'intera funzione del pubblico ufficiale ad interessi

personali di terzi privati.

4.6.3. A tutto concedere, infine, l'assunto del ricorrente non sembra sorretto da concreto e attuale interesse alla

soluzione della prospettata questione di diritto, focalizzata sulla supposta applicabilità - per gli effetti di cui all'art.

2 c.p., comma 4 - della disciplina sanzionatoria prevista dal nuovo art. 318 c.p., rispetto a quella prevista dalla

contestata fattispecie di cui all'art. 319 c.p.. Nel caso di specie trova applicazione, proprio per il disposto dell'art.

2 c.p., comma 4, la anteriore e più favorevole disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 319 c.p., vigente all'epoca

di commissione dei fatti corruttivi attribuiti all'imputato (quella che è stata applicata al T. dai giudici di merito).

Disciplina che risulta omologa (massimo edittale) a quella dell'odierno art. 318 c.p. (cfr. Sez. 6, 24.1.2013 n. 9079,

Di Nardo, rv. 254162).

CASS., SEZ. VI, 17 NOVEMBRE 2014, N. 47271

(omissis)

Detto altrimenti, il flusso di denaro pervenuto all'amministratore regionale costituiva il corrispettivo della vendita

della sua funzione, messa al servizio dei soggetti corruttori, che in tal modo ne avevano acquisito la disponibilità,

presente e futura, a soddisfare le rispettive esigenze.

In tal modo inquadrata la fattispecie, deve rilevarsi che, secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza di

questa Corte e di questa Sezione, essa ricadeva già nel fuoco della previsione dell'art. 319 c.p., nella versione

antecedente la novella rappresentata dalla L. n. 190 del 2012, essendosi infatti stabilito che dinanzi ad una

condotta prolungata nel tempo di un pubblico ufficiale (nella specie: un primario ospedaliero) il quale, dietro

pagamento, vanificava la sua funzione di controllo nell'acquisizione di forniture pubbliche, correttamente il

giudice di merito aveva ravvisato una vendita della funzione, nel senso di mercimonio della discrezionalità da

parte del soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di corruzione uniti in continuazione, derivandone la

correttezza della mancata dichiarazione di prescrizione per alcune porzioni della condotta medesima,

erroneamente ritenute singoli reati (Cass. Sez. 6 sent. n. 34735 del 14/06/2011, Anzillotti e altri).

Principio ribadito da Sez. 6 sent. n. 9079 del 24/01/2013, Di Nardo e altri, Rv. 254162 in cui si è affermato che

la messa a disposizione del proprio ufficio corrisponde oggi alla fattispecie di cui al nuovo testo dell'art. 318 c.p.,

e che tale condotta, peraltro, già rientrava nell'art. 319 c.p., costituendo atto contrario ai doveri d'ufficio e atteso

che le due norme prevedono la medesima pena (massima), stante l'evidente continuità normativa tra le stesse,

52

appare irrilevante chiedersi se una condotta pregressa rientri nell'una o nell'altra disposizione; nonchè da Sez. 6

sent. n. 9883 del 15/10/2013, Terenghi, Rv. 258521 la quale ha stabilito che la riconduzione della vendita della

funzione all'attuale art. 318 c.p., non incide sulla natura del fatto pregresso, che resta riconducibile all'art. 319 c.p.,

vigente all'epoca dei fatti, anche sotto il profilo della sanzione in quanto norma più favorevole dell'attuale art. 319

c.p..

La giurisprudenza di questa sezione ha, inoltre, affermato gli altri principi secondo cui i fatti di corruzione

impropria per atto conforme ai doveri d'ufficio continuano ad essere penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 318

c.p., per come novellato dalla L. n. 190 del 2012, che, nella sua ampia previsione, li ricomprende integralmente

(Cass. sez. 6 sent. n. 19189 dello 11/01/2013, Abruzzese, Rv. 255073) ed anzi che la nuova norma ha allargato

l'area di punibilità ad ogni fattispecie di monetizzazione del munus publicus, pur se sganciata da una logica di

"formale sinallagmaticità" (Sez. 6 sent. del 13/01/2014, Menna).

La fattispecie considerata dalla prima delle citate pronunzie appare del tutto sovrapponibile a quella in esame,

con l'aggiunta che - al pari di quanto già rilevato con le successive decisioni - devesi oggi prendere atto

dell'intervenuta trasposizione normativa da parte del legislatore di quell'orientamento giurisprudenziale, mediante

la previsione del nuovo art. 318 c.p., che sanziona espressamente la corruzione per la funzione, rompendo con

l'impostazione propria del dispositivo normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto dell'ufficio

(contrario o dovuto) ed accettazione di promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico agente.

Trattasi, invero, di impostazione che ancora permane nel sistema, dal momento che la L. n. 190 del 2012, non ha

eliminato l'ipotesi di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (nuovo art. 319 c.p.), il quale è però

sanzionato in maniera più grave rispetto alla figura di reato di cui all'art. 318 c.p..

Ad avviso di questo Collegio, anzi, la stessa collocazione topografica delle due norme, in rapporto di

progressione sanzionatoria tra loro, evidenzia che alla luce della revisione normativa la previsione di base è

appunto costituita dall'art. 318 c.p., la cui presenza infatti ha eliminato la necessità non solo di prevedere

un'espressa sanzione per la corruzione collegata al compimento di atti dell'ufficio non contrari a legge ma anche

di stabilire il compimento o meno di un atto dell'ufficio e la relativa natura, mentre il nuovo art. 319 c.p.,

contempla i casi di maggiore gravità, in cui il pubblico ufficiale omette o ritarda un atto di sua competenza o ne

compie di addirittura contrari ai doveri d'ufficio, situazioni che come tali esigono una risposta più rigorosa da

parte dell'ordinamento.

Non v'è dubbio, tuttavia, che come nella fattispecie, possano darsi casi in cui all'accettazione di indebite

promesse o (evenienza più verosimile) alla percezione di indebite utilità collegate semplicemente all'esercizio della

pubblica funzione si accompagnino situazioni in cui è, invece, riconoscibile il sinallagma tra quelle ed il

compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio ovvero l'omissione o il ritardo di un atto dovuto.

In tali casi, si pone il problema di definire i rapporti tra le due figure di reato di cui agli artt. 318 e 319 c.p., al fine

di stabilire se debbano applicarsi congiuntamente o meno.

A tale riguardo, ritiene il collegio, in linea di continuità con la richiamata giurisprudenza, che l'art. 318 c.p., non

abbia coperto integralmente l'area della vendita della funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto il

finalismo del suo mercimonio o in cui l'oggetto di questo sia sicuramente rappresentato da un atto dell'ufficio.

Residua, infatti, tuttora un'area di applicabilità dell'art. 319 c.p., quando la vendita della funzione sia connotata da

uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio, accompagnati da indebite dazioni di denaro o prestazioni d'utilità, sia

antecedenti che susseguenti rispetto all'atto tipico, il quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più alto

di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente.

Deve, pertanto, essere riaffermata la perdurante validità della citata giurisprudenza (su tutte Sez. 6 n. 34735/11

Anzillotti e al.) che, alla luce del mutato quadro normativo determinato dalla L. n. 190 del 2012, finisce per

costituire applicazione della categoria dogmatica della progressione criminosa, che consente di individuare un

unico reato (e un'unica pena) in fattispecie, come quella in esame, al confine tra l'applicabilità del concorso di

norme sullo stesso fatto ed il concorso materiale di reati.

6. (omissis)

CORTE DI CASSAZIONE, 26 NOVEMBRE 2014, N. 49226

53

(omissis)

Sono invece senza dubbio ammissibili i motivi di ricorso che sollevano le questioni della rilevanza penale dei fatti

contestati, della loro qualificazione giuridica e degli effetti di diritto intertemporale prodotti dall'entrata in vigore

della L. n. 190 del 2012.

Affrontando subito l'esame delle anzidette questioni, si rileva che il giudice a quo, considerato che il flusso di

denaro e gli altri favori sistematicamente convogliati verso l'assessore C. rendevano evidente la sua

subordinazione agli imprenditori privati, ha concluso che lo stesso, a prescindere dall'individuazione di quali atti

contrari ai doveri di ufficio avesse compiuto, era "finito a libro paga di Ba. e M.", mettendosi a completa

disposizione dei loro interessi. E, di seguito, appellandosi alla consolidata giurisprudenza di legittimità, ha

disatteso le doglianze dell'indagato che negavano la possibilità di ravvisare nell'asservimento della funzione

pubblica il reato previsto dall'art. 319 c.p., aggiungendo che, entrata in vigore la novella, i fatti contestati

integrano ora il reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., che, essendo punito con la

reclusione da uno a cinque anni, legittima tuttora l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere.

Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale sono soltanto in parte corrette.

L'interpretazione giurisprudenziale dell'art. 319 c.p., cui si è attenuto il giudice del riesame e che questo collegio

condivide e ribadisce, è costante e consolidata nel tempo, a partire dalle prime decisioni risalenti agli anni

Novanta (Sez. 6, 17.2.1996, Cariboni, rv 204440; idem, 5.3.1996, Magnano, rv 205076; idem, 5.2.1998, Lombardi,

rv 210381; idem, 13.8.1996, Pacifico, rv 206122; idem, 25.3.1999, Di Pinto, rv 213884) fino alle più recenti (Sez.

F., 25.08.2009 n. 34834, Ferro, rv 245182; Sez. 6, 16.05.2012 n. 30058, Di Giorgio, rv 253216). Attraverso

un'interpretazione estensiva della relazione tra promessa-dazione e atto di ufficio, si è affermato che ricade nel

reato di corruzione propria non solo l'accordo illecito che prevede lo scambio tra il denaro o altra utilità e un

determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri di ufficio, ma anche l'accordo avente per oggetto una

pluralità di atti, non preventivamente fissati, ma pur sempre "determinabili per genus mediante il riferimento alla

sfera di competenza o all'ambito di intervento del pubblico ufficiale" o - più schiettamente e senza perifrasi - i

pagamenti eseguiti "in ragione delle funzioni esercitate dal pubblico ufficiale, per retribuirne i favori", così da

ricomprendervi l'ipotesi del c.d. asservimento della funzione pubblica agli interessi privati.

Valutando poi gli effetti dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, questa Corte ha affermato che "il nuovo

testo dell'art. 318 c.p., non ha proceduto ad alcuna abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste

dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato un'estensione dell'area di punibilità, configurando una

fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma

e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un'interpretazione ragionevolmente

estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento

pubblico oggetto di mercimonio" (Sez. 6, 11.01.2013 n. 19189, Abbruzzese, rv 255073).

In effetti la riscrittura dell'art. 318 cod.pen. ha portato nell'assetto del delitto di corruzione un'importante novità:

il baricentro del reato non è più l'atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l'esercizio della funzione

pubblica. Dalla rubrica nonchè dal testo dell'art. 318, è scomparso ogni riferimento all'atto dell'ufficio e alla sua

retribuzione e, a seguire, ogni connotazione circa la conformità o meno dell'atto ai doveri d'ufficio e, ancora, alla

relazione temporale tra l'atto e l'indebito pagamento. Ciò significa che è stata abbandonata la tradizionale

concezione che ravvisava la corruzione nella compravendita dell'atto che il pubblico ufficiale ha compiuto o deve

compiere, per abbracciare un nuovo criterio di punibilità ancorato al mero ^esercizio delle sue funzioni o dei suoi

poteri", a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia

necessario accertare l'esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell'ufficio.

La riforma ha inteso adeguare il nostro ordinamento penale ai superiori livelli di tutela raggiunti da altri

ordinamenti Europei (in particolare, quello tedesco) e al contempo colmare lo iato tra diritto positivo e diritto

vivente formatosi per l'interpretazione estensiva data dalla giurisprudenza di legittimità al concetto di atto di

ufficio, dilatato fino al punto di ritenere sufficiente, per la sua determinabilità, il solo riferimento alla sfera di

competenza o alle funzioni del pubblico ufficiale che riceve il denaro.

Il comando contenuto nella nuova fattispecie è estremamente chiaro:

54

il pubblico funzionario in ragione della funzione pubblica esercitata non deve ricevere denaro o altre utilità e,

specularmente, il privato non deve corrisponderglieli. Tali divieti, secondo la logica del pericolo presunto, mirano

a prevenire la compravendita degli atti d'ufficio e fungono da garanzia del corretto funzionamento e

dell'imparzialità della pubblica amministrazione.

Il nuovo reato di cui all'art. 318 c.p., in forza della novità del riferimento all'esercizio della funzione, ha esteso

l'area di punibilità dall'originaria ipotesi della retribuzione del pubblico ufficiale per il compimento di un atto

conforme ai doveri d'ufficio a tutte le forme di mercimonio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale,

salva l'ipotesi in cui sia accertato un nesso di strumentante tra dazione o promessa e il compimento di un

determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio, ipotesi, quest'ultima, espressamente

contemplata dall'art. 319 c.p., modificato dalla novella soltanto nella parte attinente alla misura della pena.

Ne deriva che i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall'esperienza giudiziaria come "messa a libro paga

del pubblico funzionario" o "asservimento della funzione pubblica agli interessi privati" o "messa a disposizione

del proprio ufficio", tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico

ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora

sussunti - alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato - nella fattispecie prevista

dall'art. 319 c.p., devono ora, dopo l'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, essere ricondotti nella previsione

del novellato art. 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più

atti contrari ai doveri d'ufficio.

In altre parole, considerato che la nuova figura di reato prevista dall'art. 318, e quella di cui all'art. 319 c.p., sono

caratterizzate l'una dall'assenza l'altra dalla presenza di un atto contrario ai doveri di ufficio, volendo individuare

quale sia la norma penale applicabile, occorrerà previamente accertare se l'asservimento della funzione sia rimasto

tale o sia sfociato nel compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio.

Nella prima ipotesi il fatto sarà sussunto nella nuova fattispecie di reato descritta dall'art. 318 c.p., che, elevando a

fatto tipico uno dei tanti fenomeni di corruzione propria prima compresi nell'art. 319 c.p., ha assunto - rispetto ai

fatti commessi ante riforma - il ruolo di norma speciale destinata a succedere nel tempo a quella generale, perchè

la pena comminata dall'art. 318, è, nel minimo edittale (un anno di reclusione, anzichè due), più favorevole al reo.

Nell'ipotesi, invece, che l'asservimento della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai

doveri d'ufficio, il fatto resterà sotto il regime dell'art. 319 c.p., e sarà punito, ove commesso prima dell'entrata in

vigore della novella, con la pena - più lieve - prevista ante riforma, in ossequio alla regola dell'art. 2 c.p., comma

4.

Questa soluzione è stata criticata, rilevando che, in tal modo, verrebbe irragionevolmente punito con pena meno

grave il pubblico ufficiale che vende l'intera funzione rispetto a colui che vende soltanto un singolo atto (Cass.,

Sez. 6, 15.10.2013 n. 9883, Terenghi, rv 258521). L'argomentazione però non è condivisibile, perchè non

rispecchia la realtà normativa come sopra ricostruita.

Invero l'art. 318 cod.pen., in quanto punisce genericamente la vendita della funzione, si atteggia come reato di

pericolo, mentre l'art. 319 c.p., perseguendo la compravendita di uno specifico atto d'ufficio, è reato di danno.

Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità del pubblico ufficiale che si mette

genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione;

nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai

doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa.

Per completezza va detto che, nel nuovo regime, il rapporto tra art. 318 c.p., e art. 319 c.p., da alternativo che era

(cioè fondato sulla distinzione tra atto conforme o atto contrario ai doveri d'ufficio), è ora divenuto da norma

generale a norma speciale. Si tratta di specialità unilaterale per specificazione, perchè, mentre l'art. 318 c.p.,

prevede e punisce la generica condotta di vendita della pubblica funzione, l'art. 319 c.p., enuclea un preciso atto,

contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio.

Va precisato, infine, che la nuova figura di reato prevista dall'art. 318 c.p., può atteggiarsi, sotto il profilo della

consumazione, come reato eventualmente permanente. Invero, se a realizzare la fattispecie penale è sufficiente

l'azione istantanea dell'accettazione della promessa del denaro (o di altra utilità) o della sua ricezione, nell'ipotesi

che le dazioni indebite siano plurime, trovando esse ragione giustificativa nel fattore unificante dell'esercizio della

55

funzione pubblica, non si realizzeranno tanti reati quante sono le dazioni, ma un unico reato la cui consumazione

comincia con la prima dazione e si protrae nel tempo fino all'ultima.

(omissis)

Cass., sez. VI, 18 settembre 2014, n. 38357, su abuso d’ufficio e violazione dell’art. 97 Cost. (cfr.

anche Cass., sez. VI, 26 giugno 2013, n. 34086; Id., 30 gennaio 2013, n. 12370).

1. Il ricorso non è fondato e deve essere pertanto rigettato.

In primo luogo, va rilevato che i motivi di ricorso - con i quali si contesta, da un lato, la sussistenza del

presupposto della illegittimità dei provvedimenti adottati e fatti adottare dal Sindaco M. di esautoramento di

D.G. e di nomina degli Ing.ri C. e P., dall'altro lato, l'integrazione dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art.

323 c.p. - si connotano per la prospettazione di una ricostruzione alternativa dei fatti emergenti dall'istruttoria

dibattimentale. Il che, secondo il costante orientamento di questa Corte, rende inammissibile il ricorso per

cassazione, in quanto fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio,

e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E),

riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (Cass. Sez. 6, n. 43963 del

30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).

Ed invero, per espressa volontà del legislatore, anche a seguito della novella operata dalla L. n. 46 del 2006, il

sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato a riscontrare l'esistenza di un logico apparato

argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle

argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza

alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di legittimità quello di una rilettura degli elementi

di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice di merito,

senza che possa integrare un vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa - e per il ricorrente più

adeguata - valutazione delle risultanze processuali (ex plurimis Cass. Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv.

253099; Sez. 2, n. 23419 del 23/05/2007, Rv. 236893).

2. In secondo luogo, deve essere ribadito il principio più volte espresso da questa Corte secondo cui, ai fini del

controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con

quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del

gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed

operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella

valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013,

Argentieri, Rv. 257595).

Ne discende che la valutazione circa la fondatezza o meno del dedotto vizio di motivazione deve essere

compiuto operando una valutazione congiunta dell'apparato argomentativo della sentenza impugnata e della

sentenza di primo grado cui questa abbia fatto richiamo.

3. Tanto premesso, ritiene il Collegio che alcuna violazione di legge nè vizio di motivazione sia ravvisabile nel

percorso argomentativo seguito dai giudici di merito per confermare la condanna di M. M. in ordine al reato

ascrittogli ed, in particolare, che essi abbiano esaminato in modo accurato ed approfondito tutti gli elementi

probatori rilevanti ed abbiano argomentato in ordine alle specifiche censure mosse nell'atto d'appello, con

motivazione completa e coerente, giuridicamente corretta ed indenne da contraddizioni e da vizi logici.

La Corte d'appello ha evidenziato come, da quando si era insediato il Sindaco M.M., l'amministrazione del

Comune di (OMISSIS) aveva adottato diversi provvedimenti che avevano comportato un demansionamento

dell'Ing. D.G., responsabile dell'Area Tecnico Manutentiva, che veniva privato di tale ruolo di responsabilità e

destinato a svolgere funzioni di collaboratore tecnico nell'ambito del neo costituito ufficio di staff del Sindaco,

demansionamento riconosciuto anche dal Giudice del Lavoro che ha accolto i ricorsi presentato da D.G.. La

Corte territoriale ha rimarcato come i provvedimenti adottati o fatti adottare dal M. avevano una valenza

ritorsiva, in quanto l'ing. D.G. si era occupato della pratica di sanatoria edilizia riguardante l'abitazione di

residenza dello stesso Sindaco, rigettando le richieste tese ad evitare che si desse esecuzione all'ordinanza di

56

demolizione dell'immobile. Rimosso D.G. dall'incarico, con conferimento del ruolo di responsabile dell'U.O.

Edilizia, Urbanistica e Assetto del territorio da parte dell'Ing. C., la pratica riguardante l'abitazione del Sindaco

aveva preso una piega favorevole ed era stato avviato un procedimento teso a garantire il mantenimento

dell'abitazione.

Con specifico riguardo alla dedotta legittimità dei provvedimenti adottati dall'amministrazione comunale, il

giudice d'appello ha diffusamente argomentato sul punto concernente la violazione di legge ed, in particolare, ha

posto in risalto come i provvedimenti adottati e fatti adottare dal ricorrente abbiano violato sia il D.Lgs. n. 267

del 2010, art. 110, comma 2, (che prevede la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato di dirigenti,

altre specializzazioni, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe all'interno

dell'ente), sia il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 10, comma 5, (che prevede che il responsabile del procedimento delle

procedure di affidamento esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture debba essere, in via

preferenziale, un soggetto da individuarsi ai propri dipendenti in servizio). L'affidamento agli Ing.ri P. e C. della

responsabilità delle unità operative costituenti posizioni organizzative autonome era infatti avvenuto in evidente

violazione della prescrizione secondo la quale ciò è possibile "solo in assenza di professionalità analoghe

all'interno dell'ente", laddove nella specie l'amministrazione comunale poteva contare sulla specifica

professionalità dell'Ing. D.G..

Inoltre, non era stata osservata la procedura di evidenza pubblica e, soprattutto, non era stata data una congrua

motivazione delle eventuali eccezionali ragioni giustificative, laddove le condizioni di salute dell'Ing. D.G. non

avevano mai comportato una riduzione del suo complessivo orario di lavoro; la necessità di rimuoverlo

dall'incarico non nasceva neanche dall'esigenza di dare maggiore impulso all'attività di progettazione dell'Area

Vasta che, come anche riconosciuto dal Giudice del Lavoro, comportava un impegno limitato per D.G. (di quale

ora al mese) e non lo avrebbe distolto dalle proprie responsabilità (cfr. pag. 20 della sentenza impugnata).

D'altra parte, il giudice di secondo grado ha rimarcato come, nella specie, non si era trattato - come dedotto

dall'appellante - della mera violazione di norme del contratto di lavoro di natura privatistica. D.G. ricopriva,

infatti, la veste di responsabile di posizione organizzativa con funzioni e poteri di natura prettamente

pubblicistica, sicchè la nomina come la sua revoca - in quanto strettamente connesse al miglior perseguimento di

finalità istituzionali - erano da considerare atti direttamente riferite alle esigenze organizzative dell'ente pubblico:

l'esautoramento di D.G. dalle proprie funzioni aveva dunque integrato, oltre che una violazione delle su indicate

norme, anche una palese violazione dell'art. 97 Cost., contravvenendo alle regole della imparzialità e della buona

amministrazione, laddove aveva comportato la nomina di soggetti privi di legittimazione a ricoprire

responsabilità di posizioni organizzative.

Infine, la Corte ha posto l'accento sul fatto che i suddetti provvedimenti venivano assunti a fronte di uno

specifico interesse personale del M. in relazione alla sanatoria edilizia e paesaggistica della sua abitazione di

residenza. Ed invero, una volta rimosso l'ing. D.G. dalla responsabilità dell'Area Tecnico Manutentiva, la pratica

edilizia che riguardava l'abitazione di M. veniva risolta in senso favorevole, in quanto non si dava corso al

procedimento di demolizione totale dell'immobile ed il procedimento veniva definito in modo tale da garantire il

mantenimento dell'abitazione.

4. Il tema dell'integrazione del presupposto dell'illegittimità dell'atto - oggetto dei motivi di ricorso di cui ai punti

2.1. e 3.3.

del ritenuto in fatto - è stato trattato dalla Corte con motivazione lucida, coerente alle risultanze processuali e

conforme a consolidati principi di diritto.

4.1. Corretta e ampiamente argomentata è la trattazione del punto concernente il conferimento degli incarichi

dirigenziali a contratto agli Ing.ri C. e P. in assenza dei presupposti previsti dalla legge.

A tale proposito, mette conto evidenziare che l'art. 110 del T.U. Enti Locali prevede, in materia di incarichi a

contratto, prevede che "il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le

modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità

analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari

dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire".

57

Come bene evidenziato dai giudici di merito, l'incarico di responsabile della Unità Operativa Edilizia, Urbanistica

e Assetto del territorio veniva affidato all'Ing. C., soggetto estraneo al comune di Vernole, nonostante il Comune

potesse contare fra i propri dirigenti l'ing. D.G., persona con specifiche competenze tecniche. Il rende manifesta

la violazione della indicata disposizione.

D'altra parte, l'art. 10 del Codice degli Appalti prevede - quanto alla figure del responsabile delle procedure di

affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture che, "in caso di accertata carenza di

dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate, le amministrazioni aggiudicatrici nominano il

responsabile del procedimento tra i propri dipendenti in servizio.

Gli incarichi di responsabile dell'Unità Operativa Lavori Pubblici e Manutenzione del Patrimonio e di

Responsabile Unico del Procedimento venivano affidati all'Ing. P., soggetto con il quale il Comune di (OMISSIS)

aveva un rapporto di collaborazione esterna, dunque oltre i limiti dell'oggetto di tale rapporto e nonostante

l'amministrazione comunale potesse contare su dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate, id est

lo stesso Ing. D. G..

4.2. In ogni caso, condivisibile è il richiamo compiuto dalla Corte territoriale alla violazione dell'art. 97 Cost..

Secondo la ricostruzione della vicenda compiuta dai giudici di merito conformemente alle risultanze della

istruttoria dibattimentale, la revoca nei confronti della persona offesa delle funzioni di responsabile del servizio e

la contestuale divisione in due parti del servizio e nomina a capo di ciascuno di esse dei due tecnici esterni

all'amministrazione comunale sono avvenute in palese violazione dei principi di imparzialità e di buon

funzionamento dell'amministrazione, codificati nel dettato costituzionale dell'art. 97.

In primo luogo, quanto alla natura del rapporto intercorrente fra l'ing. D.G. e l'amministrazione comunale, in

linea con quanto argomentato dai giudici di merito, si deve invero affermare che i provvedimenti di nomina e di

revoca di posizione organizzativa sono strettamente connessi al migliore perseguimento delle finalità istituzionali

dell'ente e comportano il conferimento in capo al dirigente di funzioni e poteri di natura squisitamente

pubblicistica, di tal che debbono ritenersi atti di natura pubblicistica e non meramente privatistica (come

sostenuto dal ricorrente).

In secondo luogo, va rimarcato che, come questa Corte ha avuto di chiarire in tema di abuso di ufficio, il

requisito della violazione di legge può consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 Cost., nella parte

immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio delle sue funzioni, di non

usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero

per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni (Cass. Sez. 6, n. 41215 del

14/06/2012, R.C. e Artibani, Rv. 253804;

Sez. 6, n. 34086 del 26/06/2013, Rv. 257036). Come si è chiarito nella appena ricordata pronuncia, nella

fattispecie di cui all'art. 323 c.p., il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche soltanto

dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per la parte in cui esprime il divieto di

ingiustificate preferenze o di favoritismi che impone al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio una

precisa regola di comportamento di immediata applicazione (Cass. nn. 2745372011, Rv. 250422, Acquistucci e

25162/2008, Rv. 239892, Sassara) ed ovviamente tale principio, già affermato per l'ipotesi di favoritismo, deve

applicarsi anche al caso di vessazione, emarginazione e discriminazione motivata da ritorsione e finalizzata a

procurare un ingiusto danno.

Tornando al caso di specie, l'adozione di provvedimenti, di per sè, contrastanti con specifiche norme di legge e,

nel contempo, finalizzati a danneggiare ed a rendere inoperativo l'ing. D.G. G.O. - quale ritorsione per avere

questi, quale responsabile del Servizio Lavori Pubblici, Urbanistica ed Assetto del territorio, adottato

provvedimenti contrari agli interessi squisitamente personali del Sindaco, concernenti gli abusi edilizi presenti

nella sua abitazione di residenza -, rendono palese la violazione dell'art. 97 della Carta Fondamentale, in quanto

in evidente contrasto con i principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione.

D'altra parte, come ben evidenziato dai giudici di merito con motivazione adeguata e pertanto non sindacabile

nella sede di legittimità, le condizioni di salute di D.G. e la circostanza che egli ricoprisse il ruolo di Referente

Tecnico per il Comune di (OMISSIS) nelle fasi del programma "Piano Strategico dell'Area Vasta Lecce

58

2005/2015" non erano tali da giustificarne la rimozione dall'incarico di responsabile dell'Area Tecnico

Manutentiva.

Va, dunque, richiamato l'insegnamento di questa Corte - reso in un caso del tutto sovrapponibile a quello di

specie -, secondo cui integra il delitto di abuso d'ufficio la condotta del Sindaco che, mero spirito di ritorsione,

revochi l'incarico di un dirigente di un settore comunale: anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei

pubblici dipendenti, non è infatti mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai

dirigenti amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai fini dell'art. 357 c.p. (Cass. Sez. 6,

n. 19135 del 02/04/2009, Rv. 243535).

4.3. Nella fattispecie sono dunque ravvisabili tutti i presupposti oggettivi del reato in oggetto ed, in particolare,

ricorre il requisito della doppia ingiustizia, alla stregua del quale deve essere contra legem non solo la condotta,

ma anche il fine perseguito dall'agente, sicchè il reato de quo non sussiste quando, pur essendo illegittimo il

mezzo impiegato, il fine di danno o di vantaggio non sia di per sè ingiusto. In altri termini, ai fini della

integrazione del reato di abuso d'ufficio, occorre che l'ingiustizia del vantaggio o del danno sia tale a prescindere

dall'abuso perpetrato, che insomma il risultato corrisponda di per sè ad una situazione antigiuridica, senza

considerare il mezzo con cui questa è stata posta in essere (Cass. Sez. 6, n. 7069 del 06/06/1996, Scoduto, Rv.

206022).

Doppia ingiustizia sostanziatasi, nel caso in oggetto, da un lato, nella illegittimità delle delibere

adottate o fatte adottare dal Sindaco in danno del responsabile del servizio, in quanto emesse in difetto

dei presupposti di legge o comunque in violazione dei canoni di buon andamento e di imparzialità

della pubblica amministrazione;dall'altro lato, nella ingiustizia del danno arrecato alla persona offesa,

esautorata dal ruolo apicale ricoperto per ritorsione (quale reazione del Sindaco ai provvedimenti adottati dal

dirigente contro i propri interessi personali) e/o per il perseguimento di interessi squisitamente personali

(al fine di definire con esito per sè favorevole la pratica di sanatoria di un abuso edilizio della propria abitazione).

Realizza infatti l'evento del danno ingiusto ogni comportamento che determini un'aggressione non iure

alla sfera della personalità per come tutelata dai principi costituzionali e, segnatamente, l'ordine di

servizio emesso dal pubblico ufficiale, con il quale sia revocato ogni incarico ad un dipendente, in

modo indebito e come ritorsione, in quanto ciò determina, oltre che un danno economico, anche una

perdita di prestigio e decoro nei confronti dei colleghi di lavoro (Cass. Sez. 6, n. 4945 del 15/01/2004,

Ottaviano, Rv. 227281).

5. Manifestamente infondato è il motivo di ricorso teso a dimostrare l'insussistenza di un ingiusto vantaggio per il

Sindaco, rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p., sulla base della (dedotta) legittimità della procedura avviata

dall'amministrazione dopo la rimozione dall'incarico dell'Ing. D.G. e la nomina dell'Ing. C., che applicava, in

luogo della già disposta demolizione di parte del manufatto, una sanzione pecuniaria (motivo di cui alla seconda

parte del punto 2.1. del ritenuto in fatto).

Come si evince dal chiaro tenore della imputazione, l'abuso di ufficio è stato contestato a M.M. con riguardo alla

finalità di arrecare un danno ingiusto e non di procurarsi un ingiusto vantaggio patrimoniale, di tal che le censure

de quibus concernono un aspetto non oggetto di contestazione e, dunque, irrilevante ai fini della integrazione

della fattispecie.

Le argomentazioni svolte dai giudici di merito in merito alla sussistenza di un interesse esclusivamente personale

sottostante ai provvedimenti adottati in danno di D.G. - correlato all'ottenimento di vantaggi nella pratica edilizia

cui M. era personalmente interessato - risultano invero svolte per corroborare l'intenzionalità del dolo e l'assenza

di un interesse pubblico sottostante all'adozione dei provvedimenti di rimozione dall'incarico nei confronti della

persona offesa.

Del tutto impropriamente, il ricorrente ha dunque spostato il baricentro del processo dall'abuso d'ufficio

all'abuso edilizio. La decisione del Tar di Lecce del 26 febbraio 2014 di annullamento del provvedimento assunto

in autotutela dal Comune di (OMISSIS) (che revocava la determina n. 83/2012, con la quale veniva applicata la

sola sanzione pecuniaria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 34, in luogo della demolizione) è quindi del tutto

irrilevante, laddove - come sopra chiarito - il conseguimento di un ingiusto profitto non è oggetto di

59

contestazione ed, in ogni caso, è del tutto latente nella vicenda, essendosi semmai realizzato soltanto nell'attualità

(con la definizione del vicenda in sede giustizia amministrativa).

(omissis)

Cass., sez. VI, 14 gennaio 2014, n. 1247, sulla possibilità di far rientrare la condotta di “distrazione”

nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p.

11.-. La prima questione da affrontare concerne la qualificazione giuridica da attribuire ai fatti rubricati ai capi E),

D1, B2) e A4).

Come si è visto, le sentenze di primo grado e di appello presentano una assoluta coincidenza nella ricostruzione

di tali fatti e nel giudizio sulla prova specifica, giungendo alla conclusione che doveva ritenersi dimostrato che gli

imputati avevano commesso i comportamenti illeciti loro ascritti nelle suindicate contestazioni con le modalità in

esse delineate. Nè, d'altra parte, queste conclusioni risultano contraddette dai ricorsi proposti dalle odierne parti

private, essendo la impugnazione del G. sostanzialmente incentrata sul ruolo defilato da lui avuto nella vicenda e

sulla natura non a rischio degli investimenti posti in essere, ed essendo le impugnazioni di B. e S. necessariamente

impostate su diverse tematiche. Anche le memorie depositate nell'interesse del P. e le conclusioni dei difensori in

pubblica udienza sono state, in realtà, tutte dedicate alla problematica relativa alla qualificazione giuridica dei fatti

rubricati nei predetti capi di imputazione. Ne deriva che tali fatti, così come riassunti nelle imputazioni, e

concordemente ricostruiti nelle sentenze di primo e di secondo grado, devono ritenersi incontestabilmente

accertati nella loro realtà storica. Deve di conseguenza ritenersi dimostrato che gli imputati utilizzarono i capitali

degli Enti da loro gestiti per acquistare quote di fondi comuni di investimento (spesso di composizione in gran

parte azionaria) collocati, quale soggetto intermediario, da Banca Fideuram s.p.a., per conto di altro soggetto di

diritto lussemburghese. Si trattava in tutti i casi di prodotti finanziari proposti dalla promotrice r.m.g., legata da

un rapporto di agenzia senza rappresentanza alla Banca Fideuram. Tali investimenti erano stati attuati mediante

complesse operazioni che avevano comportato la perpetrazione di numerosi reati di falso e di altrettante

irregolarità, in evidente violazione della normativa sugli investimenti degli enti pubblici e degli enti regionali. Era

stato così possibile attuare, in spregio di tutte le regole, ingenti investimenti aleatori, che non garantivano

rendimenti certi, essendo soggetti all'andamento di Borsa senza che vi fosse per l'investitore alcuna garanzia di

salvaguardia del capitale investito.

Il Tribunale ha ritenuto che tali comportamenti integravano il reato di peculato. La Corte di Appello di Cagliari è,

invece, pervenuta ad una diversa soluzione giuridica in riferimento alla qualificazione della condotta posta in

essere dai prevenuti, riconducendola alla fattispecie dell'abuso di ufficio.

12.-. A seguito della riforma del 1990 l'unica condotta rilevante nell'ambito dell'art. 314 c.p. è quella che consiste

nell'appropriarsi del denaro o della cosa, nel possesso del soggetto agente. E' stata, pertanto, esclusa la rilevanza,

nel quadro del peculato, delle condotte riconducibili alla c.d. distrazione, che in precedenza rappresentava la

condotta alternativa all'appropriazione contemplata dall'art. 314 c.p. nella versione originaria.

Il problema più delicato posto dalla riforma è costituito, tuttavia, proprio dalla esatta delimitazione della condotta

di appropriazione. Prima della modifica dell'art. 314 c.p. l'esigenza di puntualizzare la distinzione tra

appropriazione e distrazione era meno avvertita, trattandosi di condotte equivalenti ai fini della configurazione

del peculato; dopo la riforma la necessità di un chiarimento si è fatta impellente al fine di comprendere quali

condotte diano luogo al delitto in esame e quali siano invece eventualmente riconducibili all'abuso di ufficio o

siano penalmente irrilevanti. In realtà alcune tipologie di condotte, in precedenza qualificate di "distrazione"

senza particolari approfondimenti per le ragioni anzidette, danno luogo ad una vera "appropriazione" in quanto

espressione di un comportamento uti dominus da parte del soggetto qualificato nei confronti del denaro o della

res oggetto del reato.

La nozione di "appropriazione" accolta nell'art. 314 c.p. ha, infatti, un significato più ampio di quello che aveva

prima della riforma del '90 e più ampio anche di quello che lo stesso termine possiede, secondo l'orientamento

60

tradizionale, nel delitto di appropriazione indebita, dove l'appropriazione, ad esempio, non abbraccia qualsiasi

forma di uso delle cose possedute. Nel delitto di peculato l'appropriazione può, invece, essere integrata anche

dall'uso della cosa che avvenga con modalità e intensità tali da sottrarla alla disponibilità del legittimo proprietario

o della p.a.; in tali casi, verificandosi la "impropriazione" del bene, il pubblico funzionario finisce per abusare del

possesso, impedendo alla p.a. di poter utilizzare la cosa per il perseguimento dei suoi fini.

Una conferma sistematica del fondamento di questa interpretazione si trae dall'art. 314 c.p., comma 2: il

legislatore ha espressamente represso, con una sanzione più lieve, una meno grave forma di peculato di "uso",

ossia la condotta del pubblico agente che agisce "al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa", restituendola

immediatamente dopo averla usata. Ne segue che il peculato sarà integrato nella forma più grave di cui all'art. 314

c.p., comma 1, quando la cosa venga usata non momentaneamente - e quindi definitivamente - o anche

momentaneamente ma senza restituirla dopo l'uso. In ogni caso la previsione in seno all'art. 314 c.p. del peculato

d'uso rende evidente che l'appropriazione, che costituisce l'azione tipica del peculato, consiste in una condotta

che realizza l'inversione del titolo del possesso, senza che ne debba necessariamente conseguire la perdita totale e

definitiva della cosa ai danni della pubblica amministrazione. Commette, pertanto, peculato, il pubblico agente

che, esercitando arbitrariamente i poteri di disponibilità della cosa di cui per ragioni di ufficio ha il possesso, la

sottrae, anche solo temporaneamente, alla destinazione istituzionalmente assegnatale.

In definitiva, sul piano letterale, non v'è dubbio che l'art. 314 c.p., nel testo complessivo risultante dopo la

riforma, quando parla di "appropriazione" intende riferirsi non soltanto alla condotta di colui che, in qualsiasi

modo, fa "sua" la cosa, ma anche, come si è visto, all'azione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico

servizio che usa non momentaneamente (e quindi definitivamente) o anche momentaneamente senza restituirla

dopo l'uso, la cosa mobile o il denaro altrui di cui ha il possesso o comunque la disponibilità per ragioni del suo

ufficio o servizio. Si tratta di ipotesi in cui, pur mancando nel pubblico agente la volontà di "appropriarsi", la

condotta (e cioè il semplice uso non momentaneo o anche momentaneo, ma non seguito dalla restituzione della

cosa) non può non ricondursi all'ipotesi di cui all'art. 314 c.p., comma 1, visto che l'uso momentaneo seguito

dalla immediata restituzione della cosa integra gli estremi del reato di cui al comma 2 dello stesso articolo.

Ne deriva che nel testo attuale dell'art. 314 c.p. "appropriarsi" non vuoi dire soltanto far propria la cosa, ma

anche usare illecitamente in modo non momentaneo, o anche momentaneo, ma senza restituirla immediatamente

dopo l'uso, la cosa e/o il denaro di cui si ha la disponibilità per ragioni di ufficio o di servizio.

E d'altra parte queste conclusioni risultano confermate se si pone attenzione agli interessi tutelati dalla norma

incriminatrice del peculato, in quanto in essa la cosa mobile e/o il denaro oggetto materiale del reato acquista

rilevanza non soltanto di per sè ma anche e soprattutto in ragione della particolare funzione che le è stata

assegnata all'interno della pubblica amministrazione, con la conseguenza che sul piano dell'offesa non può non

considerarsi rilevante anche l'uso penalmente illecito della cosa, e cioè il togliere alla pubblica amministrazione la

possibilità di disporre della cosa per il perseguimento di pubbliche finalità. Anche in ragione degli interessi

tutelati, quindi, deve concludersi che sussiste "appropriazione" non soltanto quando il pubblico agente fa "sua" la

cosa, ma anche quando lo stesso abusa dell'uso della cosa e/o del denaro di cui ha il possesso per ragioni di

ufficio o di servizio, togliendo così alla pubblica amministrazione la possibilità di utilizzare la stessa per il

perseguimento di pubbliche finalità.

Appare quindi necessario, in tema di peculato, formulare una nozione ampia di "appropriazione", la quale

comprenda anche l'uso. D'altra parte, anche volendo fare riferimento, per intendere il significato del termine

"appropriarsi" di cui all'art. 314 c.p., comma 1, all'istituto della appropriazione indebita (art. 646 c.p.), non può

non rilevarsi che in riferimento a tale reato la distrazione è stata considerata, in dottrina e in giurisprudenza,

come una species dell'appropriazione (della quale comprende quelle forme che non sono ritenzione nè

alienazione nè consumazione): si tratta di altri modi di comportarsi, sia pure per un momento, come proprietari

nei confronti della cosa, senza che abbia importanza che l'appropriazione sia commessa a vantaggio proprio o

altrui. E su questa via si è posta la giurisprudenza di questa Corte nel punire come appropriazione indebita quei

fatti di distrazione che, a seguito del venir meno delle qualifiche soggettive (di pubblico ufficiale o di incaricato di

pubblico servizio) negli operatori bancari, non potevano, già prima della riforma, essere inquadrati nel peculato o

nella malversazione (S.U., sentenza n. 1 del 28-2-1989, RV 181792, Cresti)). Ne discende che, poichè il soggetto

61

che devia la cosa da una finalità ad un'altra si comporta, per un momento, sulla cosa stessa come se ne fosse il

proprietario, molte di quelle forme di peculato che prima erano considerate peculato per distrazione sono ora

divenute peculato per appropriazione. In buona sostanza, con la riforma del '90, la condotta distrattiva risulta

declassata da componente tipizzata ed autonoma del delitto di peculato a semplice modalità di condotta

riscontrabile in una pluralità di reati contro la pubblica amministrazione, sicchè non sussiste alcuna

incompatibilità normativa e neppure logica tra condotta distrattiva e reato di peculato, ben potendo, a date

condizioni, la condotta in esame integrare anche il delitto previsto dalla nuova formulazione dell'art. 314 c.p. Con

la soppressione del riferimento alla condotta distrattiva, il legislatore non ha, quindi, inteso togliere rilevanza a

tale condotta rispetto alla configurabilità del peculato, ma ha semplicemente eliminato l'unico dato testuale che

qualificava la condotta distrattiva come diversa ed alternativa rispetto a quella appropriativa, dovendosi invece il

rapporto tra appropriazione e distrazione inquadrare come legame tra genus e species (Sez. 6, sentenza n. 40148

del 24-10-2002, Gennari, su DeG n. 5 del 2003).

Ne deriva che la distrazione altro non è che una particolare forma di appropriazione, dal momento che chi

imprime alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, non fa altro che

appropriarsi della stessa.

Conseguentemente il pubblico amministratore che, invece di investire per le finalità cui erano destinate le risorse

finanziarie di cui ha la disponibilità, le impiega per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote

di fondi speculativi, attua quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione.

Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, esercita una facoltà tipica del proprietario, agendo animo

domini. Si impadronisce - e, quindi, si appropria - del denaro posseduto, esercitando poteri tipicamente

proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando

danno al buon andamento della pubblica amministrazione (omissis).

D'altra parte deve rilevarsi come argomento aggiuntivo che il peculato d'uso è configurabile solo in relazione a

cose di specie e non al denaro, menzionato in modo alternativo solo nel primo comma dell'art. 314 c.p. (Sez. 6,

Sentenza n. 12368 del 17/10/2012, Rv.

255997, Medugno). Ne deriva che la disposizione uti dominus del denaro pubblico da parte dell'agente realizza di

per sè la consumazione del reato istantaneo di peculato, dal momento che l'eventuale restituzione di una cosa

non di specie come il denaro, subito dopo l'avvenuto momentaneo uso dello stesso, non è idonea a degradare la

condotta appropriativa del pubblico agente nella meno grave ipotesi del peculato d'uso di cui all'art. 314 c.p.,

comma 2, che è applicabile soltanto a cose mobili e non anche al denaro (secondo quanto previsto dal comma 1

della disposizione), in relazione al quale la riconsegna del tantundem alla P.A. non muta la rilevanza penale della

condotta nei termini di cui all'art. 314 c.p., comma 1 (ex plurimis: Cass. Sez. 6, 21.5.2009 n. 27528, Severi, rv.

244531).

13.-. In applicazione dei principi sopra esposti, la sentenza impugnata deve essere annullata, legata com'è ad una

nozione di "appropriazione" assai ristretta e non recepita dalla norma incriminatrice.

(omissis)

Cass., sez. VI, 28 novembre 2014, n. 51688, sui rapporti tra il reato di traffico di influenze illecite

e il millantato credito.

(omissis)

p.3. Il terzo motivo di ricorso, che censura la qualificazione giuridica attribuita al fatto, è fondato.

Preliminarmente è opportuno ribadire che il delitto di corruzione appartiene alla categoria del reati c.d. propri,

con la peculiarità che, a integrare il fatto tipico, non è sufficiente che l'autore abbia la qualifica di pubblico

ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ma è necessario che sfrutti o comunque strumentalizzi funzione o

potere connessi all'ufficio per ricevere denaro o altra utilità non dovuti. Occorre cioè che l'atto o comportamento

che forma oggetto del mercimonio rientri nella competenza o sfera di influenza dell'ufficio ricoperto dal soggetto

62

corrotto, nel senso che sia espressione della pubblica funzione dallo stesso esercitata, con la conseguenza che

non ricorre il delitto di corruzione se l'intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non

comporti l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questo

ricollegabile, e sia invece destinato a incidere nella sfera di competenza di pubblici ufficiali terzi, rispetto ai quali il

soggetto agente è privo di potere funzionale (v. per tutte Cass., Sez. 6, 4.5.2006 n. 33435, Battistella, rv 234359).

Ciò premesso, si rileva che l'ordinanza impugnata ravvisa in capo all'indagato la qualifica di pubblico ufficiale

principalmente per il fatto che è stato designato dal Ministro T. come suo "consigliere politico" e, in secondo

luogo, che individua l'attività illecita da lui compiuta in adempimento dell'asserito accordo corruttivo nell'avere

esercitato "pressioni sui funzionari tecnici del ministero" preposti all'elaborazione del testo della delibera del

CIPE e poi del D.L. n. 78 del 2010, affinchè favorissero il Consorzio Venezia Nuova, inserendo nelle delibere lo

stanziamento di fondi per la prosecuzione dei lavori del MOSE. Orbene, a prescindere dal rilievo che non è

allegato al fascicolo l'atto formale della nomina dell'indagato a "consigliere politico" e che l'ordinanza impugnata

non specifica quali sarebbero poteri e funzioni di rilevanza pubblicistica con tale nomina conferiti, si osserva che

la figura del "consigliere politico" non è prevista da alcuna norma giuridica: egli non compone l'organico

ministeriale nè fa parte della segreteria particolare o dell'ufficio di gabinetto del Ministro. In base a una prassi

recentemente introdotta e tutt'altro che consolidata, è un parlamentare che, grazie al rapporto di fiducia con un

determinato Ministro, viene da costui discrezionalmente designato come suo consigliere personale sui temi

concernenti la politica. Considerato, dunque, che il "consigliere politico" non ricopre un incarico

istituzionalizzato e che la somministrazione fiduciaria di consigli politici non è riconducibile all'esercizio di alcuna

delle pubbliche funzioni tipizzate dall'art. 357 c.p., comma 1, ne discende che non può essergli attribuita, nè sotto

il profilo formale nè sotto quello sostanziale, la veste di pubblico ufficiale.

Alle anzidette considerazioni, che già di per sè portano a escludere la possibilità di configurare il delitto di

corruzione, va aggiunto, alla luce del principio di diritto sopra enunciato, l'ulteriore argomento che l'indagato, nel

premere sui funzionari ministeriali affinchè soddisfacessero le esigenze di finanziamento del Consorzio Venezia

Nuova, non esercitava certamente le prerogative connesse al ruolo di "consigliere politico" del Ministro, ma

piuttosto coglieva l'occasione, offertagli dal possesso di quel titolo prestigioso che gli consentiva l'accesso

quotidiano alla sede del Ministero, per avvicinare i funzionari che ivi operavano.

Ma la questione della configurabilità del delitto di corruzione non è ancora risolta, posto che il capo

d'imputazione contesta all'indagato anche la qualifica di componente delle Commissioni parlamentari Bilancio e

Finanze, qualifica che, però, nel caso concreto, è irrilevante, perchè non vi fu alcuna strumentalizzazione delle

funzioni di componente di Commissione parlamentare; basta il richiamo al principio della divisione dei poteri per

rendere manifesta la separazione tra gli atti di Governo che qui vengono in rilievo (le delibere del CIPE e del

Consiglio dei ministri) e la funzione legislativa spettante al Parlamento.

Appurato dunque che l'indagato, nel promettere il proprio intervento retribuito a favore del Consorzio nelle

procedure destinate a deliberare il finanziamento di opere pubbliche, non ha messo in gioco l'esercizio di

pubbliche funzioni, per completezza si deve aggiungere che, allo stato degli atti e salva l'eventuale acquisizione di

ulteriori elementi probatori, non è neppure prospettabile ch'egli agisse, nella commissione dei fatti ascrittigli,

quale longa manus del Ministro o che ne avesse comunque il consenso; ciò perchè - come espressamente afferma

l'ordinanza impugnata - difettano "in radice elementi che supportino il sospetto di un coinvolgimento" del

Ministro del quale l'indagato era "consigliere politico".

E allora, sgombrato il campo dal presunto mercimonio di funzioni pubbliche, si deve prendere atto che il denaro

versato non è servito a retribuire il compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, ma a compensare la

mediazione svolta dall'indagato verso i funzionari ministeriali sui quali vantava capacità di influenza. Si può

dunque concludere che il fatto contestato, depurato dell'elemento - allo stato non accertato - del mercimonio di

una funzione pubblica, va sussunto nella fattispecie di millantato credito descritta dall'art. 346 c.p., comma 1,

tenendo presente che il concetto di "millantato credito" comprende anche l'ipotesi che la vantata vicinanza con il

pubblico ufficiale sia effettiva.

A questo proposito, risalendo nel tempo, occorre ricordare che il "millantare credito" veniva inizialmente

interpretato come vanteria di un'influenza inesistente, idonea a ingannare il c.d. compratore di fumo, il quale,

63

credendo alle parole del millantatore, da il denaro destinato a compensare la presunta mediazione;

successivamente, considerato che il reato di cui all'art. 346 c.p., è stato concepito per tutelare il prestigio della

pubblica amministrazione piuttosto che il patrimonio del solvens, si è focalizzata l'attenzione sulla condotta

dell'agente, che si fa dare il denaro rappresentando i pubblici impiegati come persone venali, inclini ai favoritismi,

cosicchè si è consolidato l'indirizzo ermeneutico secondo cui, per integrare la millanteria, non è necessaria una

condotta ingannatoria o raggirante, perchè ciò che rileva è la vanteria dell'influenza sul pubblico ufficiale, che, da

sola, a prescindere dai rapporti effettivamente intrattenuti, offende l'immagine della pubblica amministrazione (v.

ex plurimis, Cass., Sez. 6, 4.3.2003 n. 16255, Pirosu, rv 224872; idem, 17.3.2010 n. 13479, D'Alessio, rv 246734).

A questo punto si deve tener conto dell'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, che, senza toccare l'art. 346

c.p., ha aggiunto la nuova fattispecie di reato denominata "traffico di influenze illecite", che fissa come

presupposto della ricezione del denaro chiesto come prezzo della mediazione propria o come

retribuzione per il pubblico ufficiale "lo sfruttamento delle relazioni esistenti" con quest'ultimo. Ai

sensi dell'art. 346 bis c.p., autore del reato non è più chi millanta influenze non importa se vere o false, ma

unicamente chi sfrutta influenze effettivamente esistenti (il che giustifica il diverso trattamento riservato a chi

sborsa denaro ripromettendosi di trame vantaggio: non punibile nel primo caso, che ha per protagonista un

millantatore puro sedicente faccendiere, concorrente nel reato nel secondo caso, che vede all'opera un

faccendiere vero realmente in contatto con il pubblico ufficiale).

Ne deriva che i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, nei quali il soggetto attivo ha

ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente,

che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346 c.p., devono ora essere ricondotti nella nuova

fattispecie descritta dall'art. 346 bis c.p., che, comminando una pena inferiore, ha realizzato un caso di

successione di leggi penali regolato dall'art. 2 c.p., comma 4, con applicazione della norma più favorevole al reo;

col risultato paradossale che una riforma presentata all'insegna del rafforzamento della repressione dei reati

contro la pubblica amministrazione ha prodotto, almeno in questo caso, l'esito contrario.

Invero, mentre l'art. 346 c.p., comma 1, stabilisce la pena della reclusione da uno a cinque anni, l'art. 346 bis c.p.,

commina la reclusione da uno a tre anni, ossia una pena il cui massimo edittale, nel caso di affermazione della

responsabilità penale, comporta l'irrogazione di una sanzione meno severa e, quanto agli effetti sulla disciplina

cautelare, preclude l'applicazione di qualsivoglia misura coercitiva.

Si può dunque affermare il seguente principio di diritto: le condotte di colui che, vantando un'influenza

effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della

propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, condotte finora

qualificate come reato di millantato credito ai sensi dell'art. 346 c.p., commi 1 e 2, devono, dopo

l'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, in forza del rapporto di continuità tra norma generale e norma

speciale, rifluire sotto la previsione dell'art. 346 bis c.p., che punisce il fatto con pena più mite.

(omissis)

Cass., sez. VI, 21 luglio 2014, n. 32237, sull’ambito applicativo dell’art. 353 c.p. che incrimina la

turbata libertà degli incanti (nel caso di specie, l'amministrazione, dopo aver avviato un

procedimento di gara, si è orientata formalmente per la conclusione di un accordo sostitutivo del

provvedimento finale), nonché sul concetto di “altra utilità” nel reato di concussione.

(omissis)

Al riguardo v'è, ancora, da considerare che, secondo i principii desumibili da una linea interpretativa di recente

tracciata da questa Suprema Corte (Sez. 6^, n. 12821 del 11/03/2013, dep. 19/03/2013, Rv. 254907), il reato di

turbata libertà degli incanti è generalmente configurabile anche quando la procedura di aggiudicazione è basata su

un criterio di scelta del contraente che si riveli incompatibile con il diritto comunitario, con il logico corollario

che tale circostanza, se in concreto rilevata, può incidere, se del caso, sui soli profili inerenti alla regolarità

64

amministrativa della gara, da far valere eventualmente, da parte degli interessati, con le apposite forme di tutela

dinanzi agli organi della giustizia amministrativa.

14. Nel merito, i ricorsi proposti dagli imputati sono fondati e vanno pertanto accolti per le ragioni di seguito

indicate.

14.1. Per quel che attiene alle doglianze difensive a vario titolo mosse con riguardo alla individuazione come

"gara" della procedura ad evidenza pubblica che ha costituito l'oggetto dei temi d'accusa delineati nell'ambito del

procedimento de quo, occorre anzitutto richiamare, alla stregua di una pacifica linea interpretativa tracciata da

questa Suprema Corte, l'insegnamento giurisprudenziale secondo cui il reato di turbata libertà degli incanti

non è configurabile nell'ipotesi di contratti conclusi dalla pubblica amministrazione a mezzo di

trattativa privata che sia svincolata da ogni schema concorsuale, a meno che la trattativa privata, al di là

del "nomen juris", si svolga a mezzo di una gara, sia pure informale (Sez. 6^, n. 12238 del 30/09/1998,

dep. 23/11/1998, Rv. 213033).

Siffatta evenienza, si è affermato in questa Sede, non integra un'applicazione analogica della fattispecie

criminosa di cui all'art. 353 c.p. - vietata in materia penale - in quanto non ne allarga l'ambito di

applicazione, bensì concreta una interpretazione estensiva, sulla base dell'"eadem ratio" che la

sorregge e che è unica, volta com'è a garantire il regolare svolgimento sia dei pubblici incanti e delle

licitazioni private, sia delle gare informali o di consultazione, le quali finiscono con il realizzare,

sostanzialmente, delle licitazioni private. In difetto, però, di una reale e libera competizione tra più

concorrenti non può parlarsi di gara, come nel caso in cui singoli potenziali contraenti, individualmente

interpellati, presentino ciascuno le proprie offerte e l'amministrazione resti libera di scegliere il proprio

contraente secondo criteri di convenienza e di opportunità propri della contrattazione tra privati (Sez. 6^, n.

12238 del 30/09/1998, dep. 23/11/1998, cit.).

Dalla fattispecie incriminatrice delineata dall'art. 353 c.p. sono pertanto escluse tutte quelle ipotesi in

cui non si svolge una gara in pubblici incanti o in licitazione privata, ma all'aggiudicazione dell'appalto

o della fornitura a cui si addivenga mediante trattativa privata, proprio in quanto manca, propriamente,

una gara. Poichè questa significa competizione, deve invece ritenersi la sussistenza della gara anche in quelle

procedure amministrative cosiddette "informali" o di "consultazione" nelle quali la pubblica amministrazione fa

dipendere l'aggiudicazione di opere, forniture o servizi dall'esito dei contatti avuti con persone fisiche o

rappresentanti di quelle giuridiche le quali, consapevoli delle offerte di terzi, propongono le proprie condizioni

quale contropartita di ciò che serve alla pubblica amministrazione. In tal caso non vi è trattativa privata, perchè la

consapevolezza, per l'offerente, di non essere il solo, innesca quella contesa che è essenziale in ogni gara (Sez. 6^,

n. 4741 del 31/10/1995, dep. 10/05/1996, Rv. 204646).

Siffatto orientamento è stato, in seguito, più volte ripreso e confermato da questa Suprema Corte in relazione a

varie fattispecie concrete (omissis), ritenendo la configurabilità del reato in ogni situazione nella quale la

P.A. proceda all'individuazione del contraente mediante una gara, quale che sia il "nomen iuris"

conferito alla procedura, ed anche in assenza di formalità.

Entro tale prospettiva, dunque, le locuzioni "gara nei pubblici incanti" o "licitazione privata" non hanno,

propriamente, un significato normativo mutuato dalle procedure per l'aggiudicazione degli appalti per pubbliche

forniture e con l'osservanza dei termini e delle disposizioni legislative sulla contabilità di Stato, ma vanno riferite

ad ogni procedura di gara, anche informale ed atipica, mediante la quale la singola pubblica amministrazione

decida di individuare il contraente e concludere un contratto, assicurando una libera competizione tra più

concorrenti (Sez. 6^, n. 13124 del 28/01/2008, dep. 27/03/2008, cit.).

Il presupposto dell'interpretazione estensiva dell'art. 353 c.p., tuttavia, deve ricercarsi nella presenza di

"qualificanti forme procedimentali", nel senso che, in loro difetto, nonostante l'interpello di più soggetti, non è

prestabilito alcun meccanismo selettivo delle offerte e non viene in rilievo alcuna forma di competizione e di

concorrenza tra gli offerenti, si rimane al di fuori dello schema concettuale della "gara" e si è in presenza di una

semplice comparazione di offerte, che la P.A. è libera di valutare come meglio crede, sia pure attraverso un

contestuale esame delle stesse. La possibilità di turbare la gara, dunque, esiste solo laddove c'è la

possibilità di influenzare negativamente il regolare funzionamento di questo meccanismo; se esso

65

manca, non essendovi una gara, dovrà necessariamente escludersi una sua turbativa (Sez. 6^, n. 12238

del 30/09/1998, dep. 23/11/1998, cit.).

14.2. (omissis)

Nè, peraltro, sembra potersi ricollegare un effetto esclusivo della natura concorrenziale della procedura -

all'interno di tale impostazione ricostruttiva della sequenza e del contenuto degli atti - alla possibilità, pur prevista

nell'avviso, di un'assegnazione del relativo compendio in via parziale, o condivisa tra più concessionari:

l'eventuale ampliamento dei margini di discrezionalità nella scelta dell'amministrazione, di per sè considerato, non

è stato ritenuto idoneo a mutare le caratteristiche di fondo e le finalità dei su indicati elementi costitutivi di una

procedura ad evidenza pubblica, ove l'amministrazione era comunque tenuta a valutare in modo comparativo le

richieste di concessione demaniale ai sensi del su citato art. 37 c.n., per individuare, secondo i criteri di selezione

predeterminati nel relativo avviso, l'offerente in grado di soddisfare nel modo migliore l'interesse pubblico

all'incremento dei traffici e della produttività del porto.

(omissis)

L'evoluzione in senso consensuale della procedura, tuttavia, proprio perchè oggettivamente caratterizzata in

chiave privatistica, non consente di ritenere applicabile la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 353 c.p., non

potendo costituire propriamente una turbativa di pubblico incanto, ovvero di licitazione privata, la realizzazione

di condotte volte alla conclusione di un accordo sostitutivo del provvedimento finale della Pubblica

amministrazione, nel libero esercizio di facoltà e poteri frutto dell'autonomia negoziale dall'ordinamento riservata

alle parti.

Ne discende l'impossibilità di attribuire rilievo penale, configurandone l'incidenza nello schema descrittivo del

tipo di reato delineato dalla su indicata fattispecie, a tutti quegli atti o comportamenti posti in essere dagli organi

amministrativi o dalle parti private nell'esercizio della loro libertà negoziale, ossia al fine di pervenire alla

conclusione dell'accordo, ivi compresi, in tal senso, gli incontri, i contatti, le interlocuzioni avvenute tra la P.A. ed

i privati, la formulazione di ipotesi o bozze di accordo, ovvero tutte quelle attività, anche informali, di trattativa e

mediazione che l'amministrazione può svolgere al fine di consentire la più opportuna definizione di un

meccanismo convenzionale ispirato al pieno soddisfacimento dell'interesse pubblico nello specifico settore

considerato.

Nell'ambito della fattispecie incriminatrice in esame, peraltro, il concetto di collusione ruota attorno alla diade

formata dall'esistenza di un accordo clandestino (da ultimo, Sez. 6^, n. 26809 del 07/04/2011, dep. 08/07/2011,

Rv. 250469; Sez. 6^, n. 12298 del 16/01/2012, dep. 02/04/2012, Rv. 252555), presupponendo un concerto

occulto tra privati, ovvero tra il pubblico agente ed un privato offerente, diretto ad influire sul normale

svolgimento delle offerte, e dunque a trarre un vantaggio determinando, al contempo, la causazione di un danno

alla parte avversa: l'intesa, quindi, per tramutarsi in una collusione, deve essere mantenuta segreta, con il

dichiarato scopo di alterare un pubblico incanto, ovvero una licitazione privata.

In assenza del requisito della clandestinità, di contro, non v'è un concerto penalmente rilevante, non

presentando l'intesa i connotati necessari per essere ricondotta nel paradigma applicativo della

fattispecie di cui all'art. 353 c.p., e rimanendo la stessa assoggettata unicamente alle reazioni esperibili

in campo amministrativo.

Analogamente, secondo la linea interpretativa tracciata dal su menzionato insegnamento giurisprudenziale di

questa Suprema Corte, il "mezzo fraudolento" consiste in qualsiasi artificio, inganno o menzogna

concretamente idoneo a conseguire l'evento del reato, ossia a manomettere il genuino andamento della

gara, rimanendo pertanto escluse dal perimetro della fattispecie tutte quelle situazioni in cui possa

riscontrarsi, nei confronti degli interessati, un'adeguata informazione e pubblicità del contenuto degli

atti e comportamenti posti in essere dall'organo amministrativo che procede.

Nel caso di specie, come si è già avuto modo di osservare sulla base della stessa ricostruzione dei fatti operata dai

Giudici di merito, emergeva con evidenza, già dalla costante pubblicizzazione degli eventi attraverso il rilievo ad

essi conferito dalle informazioni giornalistiche, il dato della pubblica notorietà dell'iniziativa negoziale orientata al

raggiungimento di una soluzione complessiva idonea ad investire non soltanto il compendio c.d. "Multipurpose",

ma anche la c.d. area "Bettolo": una soluzione annunciata nella riunione del Comitato portuale dell'8 marzo, di

66

seguito progressivamente elaborata e perfezionata per via negoziale, quindi formalmente comunicata, esaminata e

discussa da parte di tutti gli interessati in occasione delle successive sedute del 7 e del 15 aprile 2004.

Entro tale prospettiva, inoltre, s'impone con pari evidenza un ulteriore rilievo: se, per un verso, la presenza di

eventuali vizi di legittimità all'interno del percorso convenzionale intrapreso dall'ente pubblico può autorizzare

un sindacato sull'azione amministrativa e determinare, quindi, l'annullamento dell'atto amministrativo non

conforme ai relativi canoni di legittimità, per altro verso essa, comunque, non potrebbe comportare un indebito

allargamento della portata applicativa della norma incriminatrice di cui all'art. 353 c.p., rendendo di per sè

penalmente rilevanti condotte che fuoriescono dall'ambito della sua tutela, in quanto non solo disciplinate da

regole privatistiche, ma dalla legge stessa consentite ai fini della ricerca per via consensuale di un obiettivo di tipo

pubblicistico.

Nell'ambito di un'attività di tipo negoziale della P.A., dunque, dal rilievo della eventuale mancanza o invalidità

della determinazione a contrarre (nel caso di specie si trattava, come si è visto, della preventiva Delib. del

Comitato portuale) non può trarsi sic et simpliciter il presupposto di un'affermazione di responsabilità penale in

merito alla fattispecie di cui all'art. 353 c.p., ma può discendere soltanto l'effetto patologico, sul piano

amministrativo, di un'invalidità derivata del successivo accordo, con la conseguente annullabilità dello stesso per

vizio del procedimento legale di formazione del consenso della parte pubblica.

Nè, sotto altro ma connesso profilo, può ritenersi che l'ingresso di momenti procedimentali nell'ambito delle

procedure negoziate, pur rilevanti a fronte dell'esigenza di mantenere un'apprezzabile salvaguardia degli obiettivi

e delle ragioni di pubblico interesse sottostanti all'azione amministrativa, possa di per sè trasformarle in

procedure ristrette, ossia in licitazioni private, permanendo comunque rilevanti elementi differenziali, sia di

ordine formale che sostanziale, tra le discipline normative di settore che regolano le rispettive procedure.

Peraltro, lungo l'intero dispiegarsi dell'arco temporale sopra delineato non erano più riconoscibili, propriamente, i

tratti identificativi di una "gara" tra soggetti concorrenti, pur considerandola nel prisma della sua possibile

conformazione in senso "atipico", ma si era di fatto aperta una fase consensuale volta alla ricerca di una

soluzione generalmente condivisa, cui risultava estranea l'adozione di atti di natura autoritativa da parte

dell'amministrazione portuale.

(omissis)

Ancora sui rapporti tra gli artt. 317 e 319-quater

Cass. Pen., Sez. VI, 10.3.2015 (dep. 28.5.2015), n. 22526, che, nel solco delle Sezioni Unite n.

12228/2014 sui rapporti tra gli artt. 317 e 319-quater, ha formulato le seguenti, rilevanti, massime i

tema di concussione: "Il timore autoindotto, di per sé, non incide sulla libertà di determinazione del

soggetto, tanto che non integra, anche sul piano civilistico, un vizio della volontà, quale causa di

annullamento del contratto (art. 1437 cod. civ.)"; "L'effetto coartante o induttivo sulla libertà di

determinazione del soggetto rivestito di qualifica pubblicistica deve essere apprezzato con particolare

prudenza, in considerazione dell'elevato grado di resistenza che da lui ci si aspetta e che, secondo la

fisiologica dinamica che connota lo specifico rapporto intersoggettivo, deve rendere recessiva la forza

intimidatrice o persuasiva di cui è destinatario".

All. 1

III. DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

Cass., sez. VI, 1 agosto 2014, n. 34173, sul dolo nel reato di calunnia.

67

1. Il ricorso è fondato, dal che consegue la necessità di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,

relativamente all'unico capo di imputazione del quale ormai si discute nell'ambito del presente procedimento.

2. La decisione della Corte territoriale muove dal presupposto dell'accertata falsità delle circostanze che l'odierno

ricorrente aveva indicato nella relazione dalla quale è scaturita l'accusa di calunnia.

In particolare è definita "oggettivamente contraria al vero" l'affermazione che il visto di congruità della parcella

predisposta da D.L. fosse stato apposto da S. senza il doveroso esame della documentazione tecnica pertinente al

caso. Detta affermazione non è operata tanto in un'ottica di accertamento della falsità dell'accusa lanciata da D.V.

(che può certamente considerarsi, almeno, sprovvista di prova), quanto al fine di stabilire se lo stesso D.V.

potesse realmente credere vere le circostanze denunciate.

Anche in questa chiave, la Corte territoriale non è giunta alla propria conclusione secondo un corretto percorso

di verifica ed argomentazione. Risulta infatti, dalla motivazione del provvedimento impugnato, che il giudizio è

dipeso da una valutazione di attendibilità, enunciata ma non adeguatamente giustificata, delle dichiarazioni rese

nel dibattimento dai due soggetti coinvolti nella vicenda, cioè i citati D.L. e S..

Le Sezioni unite di questa Corte hanno certamente stabilito che le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3,

non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a

fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato. Ma ciò deve avvenire previa verifica, corredata da

idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto. Una

verifica che deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di

qualsiasi testimone. E non basta, perchè, quando la persona offesa (come nella specie) si sia costituita parte civile

- e si profili quindi in astratto un suo interesse alla definizione del processo in senso sfavorevole all'imputato -

può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U, Sentenza n. 41461 del

19/07/2012, Bell'Arte, rv. 253214).

Nel caso in esame si registra un interesse particolarmente pregnante dei testimoni a negare il fondamento delle

affermazioni difensive, poichè si tratta di persone che, confermando quelle affermazioni, avrebbero finito con

l'accreditare una versione dei fatti per loro gravemente pregiudizievole, quanto meno sul piano della deontologia

e della diligenza professionale. Nel contempo, D.V. aveva segnalato circostanze in effetti sintomatiche - non

importa qui stabilire quanto - di una possibile deviazione del procedimento di controllo dal suo schema formale,

ed anche questo dato avrebbe dovuto imporre l'adozione del criterio di "verifica rafforzata" delle testimonianze,

che nella specie non è stato seguito (o, almeno, non è stato rappresentato). La Corte territoriale, come già si è

accennato, si è infatti limitata a riassumere le deposizioni e a dedurne la falsità delle indicazioni a suo tempo

operate dall'imputato.

2. Ciò detto, viene meno il presupposto di pertinenza degli orientamenti giurisprudenziali cui la Corte territoriale

si è ispirata, i quali si sono manifestati, in genere, riguardo a situazioni di conclamata falsità obiettiva dei fatti

riferiti con la denuncia in ipotesi calunniosa (si veda ad esempio il caso più recente: Sez. 6^, Sentenza n. 29117

del 15/06/2012, rv. 253254).

E' vero, poi, che la giurisprudenza di legittimità ha talvolta ritenuto la sussistenza del dolo punibile in situazioni

nelle quali un soggetto di media intelligenza, cultura e diligenza avrebbe ineluttabilmente percepito la falsità delle

accuse lanciate nei confronti di un altro soggetto (a parte la sentenza appena citata, si veda Sez. 6^, Sentenza n.

3964 del 06/11/2009, rv. 245849), per altro negando l'integrazione del dolo nel caso, in certo senso simmetrico,

nel quale "sospetti, congetture o supposizioni di illiceità del fatto denunciato siano ragionevoli, ossia fondati su

elementi di fatto tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte del cittadino comune che si trovi nella medesima

situazione di conoscenza" (Sez. 6^, Sentenza n. 46205 del 06/11/2009, rv. 245541).

Occorre però, a parere del Collegio, anzitutto distinguere il piano della prova da quello concernente

l'oggetto e la struttura del dolo punibile. Essendo notoriamente difficoltosa la ricostruzione degli

atteggiamenti interiori, il giudice non può che rifarsi a regole di esperienza e ad argomenti di prova logica, in

sostanza stabilendo se, in determinate condizioni (attinenti al fatto ed alla persona), sia credibile o non che la

lesione del bene giuridico sia stata prodotta senza intenzione o inconsapevolmente. E' chiaro che, a fronte di una

denuncia obiettivamente falsa, ed in assenza di particolarità del caso o della persona (in punto di intelligenza,

cultura, diligenza) che possano spiegare una percezione del fatto come vero, sarà lecito pervenire ad un giudizio

68

di sussistenza del dolo punibile. Ma si tratterà, appunto, di casi nei quali il giudice avrà stabilito che l'agente aveva

accusato altra persona "sapendola innocente".

Altra questione però è quella del soggetto che - in forza eventualmente di un atteggiamento imprudente o

negligente, o addirittura temerario - abbia prospettato circostanze poi risultate non veritiere. Ed altro discorso

ancora è quello del soggetto che abbia solo tratto inferenze, magari arbitrarie, da circostanze di fatto che alla fine,

e di per sè, non risultino false.

3. La struttura del dolo, nel delitto di calunnia, è indiscutibilmente segnata dall'intenzionalità della

lesione provocata dalla falsa denuncia ("che egli sa innocente").

Non a caso è ormai stabile l'indirizzo che esclude la sufficienza del dolo eventuale per l'integrazione del reato

sotto il profilo soggettivo (omissis).

Dalla situazione di dubbio sul fondamento dell'accusa va distinta quella di soggettiva convinzione della

colpevolezza, che però sia dovuta ad un errore, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra errore dovuto ad

imprudenza o negligenza, ed errore nel quale l'agente sia caduto in condizioni che avrebbero ragionevolmente

indotto anche altri soggetti alla medesima rappresentazione.

Il dolo punibile chiaramente difetta nell'ultima delle situazioni descritte, ma va tendenzialmente escluso anche

nella prima. Per regola generale, l'errore sul fatto che integra il reato comporta la responsabilità dell'agente solo

quando il fatto stesso sia punito a titolo di colpa (dell'art. 47 c.p., comma 1).

Nel caso della calunnia il principio vale a maggior ragione, poichè il dolo tipico consiste nella consapevole

presentazione di una denuncia contro persona positivamente percepita dall'agente come "innocente".

Parte della giurisprudenza ha espressamente escluso la punibilità quando non "si ha intenzione di

accusare una persona che si sa innocente, e ci si limita alla formulazione di addebiti temerari" (omissis).

Certo, non si tratta di un orientamento univoco, poichè male si armonizza, almeno negli enunciati astratti, con la

giurisprudenza citata in apertura, ed anche con ulteriori pronunce, nel cui ambito l'errore è stato considerato

rilevante in quanto "ragionevole" (Sez. 6^, Sentenza n. 6990 del 12/04/1995, rv. 201955), oppure frutto di

atteggiamento "non temerario" (Sez. 6^, Sentenza n. 6812 del 17/05/1985, rv. 170033), o ancora (e addirittura)

residuato ad una previa verifica di attendibilità delle circostanze rappresentate con la denuncia (Sez. 6^, Sentenza

n. 26819 del 27/04/2012, rv. 253106).

Tuttavia occorre distinguere, a parere del Collegio, tra principi del diritto sostanziale, le deroghe ai quali non

vengono adeguatamente giustificate, e regole dell'accertamento giudiziale, che ben possono fondarsi sulla

inattendibilità di una condizione soggettiva che avrebbe potuto inverarsi solo per effetto di un atteggiamento

imprudente, negligente o addirittura temerario (in questo senso, ad esempio, Sez. 6^, Sentenza 17/12/1993, ric.

Grandis).

In ogni caso - e per quanto diventi sensibilissima la tensione con il principio di irrilevanza del dolo eventuale -

potrebbe al più sostenersi (così di fatto è avvenuto: Sentenza n. 26819/2012, citata anche dalla Corte territoriale)

che un atteggiamento deliberato di somma imprudenza nella rappresentazione dei fatti coincida con la

consapevolezza del carattere arbitrario dell'accusa lanciata. E tuttavia, ove fosse ammissibile, una logica siffatta

potrebbe applicarsi alla prospettazione di fatti storicamente non avvenuti, e non alla enunciazione di inferenze

tratte da circostanze di fatto correttamente rappresentate al giudice. La distinzione è enunciata dalla stessa

giurisprudenza evocata nel provvedimento impugnato: "se l'erroneo convincimento sulla colpevolezza

dell'accusato riguarda fatti storici concreti, suscettibili di verifica o, comunque, di una corretta rappresentazione

nella denuncia, l'omissione di tale verifica o rappresentazione viene a connotare effettivamente in senso doloso la

formulazione di un'accusa espressa in termini perentori. Di contro, solo quando l'erroneo convincimento riguardi

i profili valutativi della condotta oggetto di accusa, in sè non descritta in termini difformi dalla realtà,

l'attribuzione dell'illiceità potrebbe apparire dominata da una pregnante inferenza soggettiva, come tale inidonea,

nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, ad integrare il dolo tipico del delitto di

calunnia. Ne discende che l'ingiustificata attribuzione come vero di un fatto del quale non si è accertata la realtà

presuppone la certezza della sua non attribuibilità sic et simpliciter all'incolpato".

4. Nel caso di specie, come si è visto, la Corte territoriale non ha dimostrato secondo un corretto percorso

motivazionale la falsità delle circostanze a suo tempo indicate da D.V.. D'altra parte - e risolutivamente - la

69

medesima Corte ha recepito una data ricostruzione del fatto nei suoi profili soggettivi, ed in base a tale

ricostruzione ha deliberato la condanna dell'odierno ricorrente, facendo però applicazione di un erroneo

principio di diritto.

Avuto riguardo alle prerogative del Giudice di merito, e dunque assumendo per la decisione proprio la relativa

prospettazione in fatto, questa Corte non può che annullare la sentenza impugnata.

La Corte territoriale ha infatti stabilito che D.V. non disponeva di elementi che gli consentissero

"ragionevolmente" di affermare la colpevolezza degli accusati, che il ricorrente (al più) si "trovava in una

situazione di mero sospetto non approfonditamente verificato, e, quindi, nell'ambito di un atteggiamento

psicologico inidoneo a far ritenere la mancanza di consapevolezza della innocenza". Non si fa quindi questione di

prova (almeno, non risolutivamente) in ordine all'atteggiamento della volontà dell'imputato, ma si afferma che

quest'ultimo sarebbe punibile sebbene convinto, per effetto di un atteggiamento temerario, della colpevolezza

degli accusati, e ciò in quanto li saprebbe "innocenti" nel senso indicato dalla giurisprudenza già richiamata.

Ora, in termini di principio, la presa di posizione della Corte territoriale eccede la stessa giurisprudenza cui è

ispirata, perchè finisce con l'affermare che sussisterebbe il dolo di calunnia ogni qual volta, e sia pure per effetto

di leggerezza, non consti all'agente la colpevolezza dell'accusato ("inidoneo a far ritenere la mancanza di

consapevolezza della innocenza"). La regola è evidentemente opposta, dovendo semmai constare all'agente

l'innocenza della persona offesa.

In ogni caso, e come si è visto, nella stessa ricostruzione dei Giudici di merito De.Va. si sarebbe limitato a fare

affermazioni imprudenti a partire da circostanze rappresentate al giudice (cioè ad affermare, per esempio, che la

mancata citazione di allegati nella richiesta di visto provasse che il Collegio dei geometri non avesse controllato i

documenti tecnici).

Il dolo di calunnia non può consistere, in nessun caso, nella (ipotetica) consapevolezza della opinabilità

di una inferenza rappresentata all'Autorità giudiziaria.

Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 51824, sulla configurabilità del reato di cui all’art. 377 c.p.

nel caso di offerta o promessa di denaro al consulente tecnico del P.M. non ancora citato come

testimone. Sulla questione era già intervenuta Cass., sez. un., ord., 23 ottobre 2013, n. 43384, che

aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, decisa con la pronuncia Corte cost., 11

giugno 2014, n. 163.

1. La questione devoluta alle Sezioni Unite può essere cosi enunciata: "Se sia configuratole il reato di intralcio

alla giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al

consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza".

2. E' utile preliminarmente ricordare che il delitto di intralcio alla giustizia esiste, con questa rubrica, nel nostro

ordinamento dal marzo del 2006.

Tale reato, infatti, è stato introdotto dalla L. 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione

dell'ONU contro il crimine organizzato transnazionale (cd. Convenzione di Palermo o Toc Convention), che,

all'art. 23, invita gli Stati aderenti a punire, con sanzione penale, la cd. obstruction of justice, e cioè le condotte di

violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi considerevoli per indurre alla falsa testimonianza

o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati oggetto

della Convenzione, ovvero consistenti nell'uso di violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l'esercizio

di doveri d'ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in relazione agli stessi reati.

Per adeguarsi a tale indicazione, il legislatore, preso atto che nel sistema italiano esisteva già una norma, l'art. 377

cod. pen., che puniva l'offerta o la promessa di vantaggi nei confronti del testimone e che era rubricata come

"subornazione", con la citata L. n. 146, art. 14 è intervenuto sulla disposizione vigente, rinominando il già

esistente delitto, appellandolo con il termine richiesto dalla convenzione internazionale (e cioè come "intralcio

alla giustizia") e aggiungendo al testo vigente due ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire le

condotte di violenza e minaccia.

70

I primi due commi della nuova disposizione, quindi, continuano a punire le medesime condotte del delitto di

subornazione secondo il testo che, rispetto alla stesura originaria del codice, era già stato due volte interpolato;

una prima volta con il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 11, comma 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 7

agosto 1992, n. 356; una seconda con la L. 7 dicembre 2000, n. 397, art. 22.

In particolare nel 1992 era stato completamente riscritto dell'art. 377 cod. pen., il comma 1; il testo licenziato dal

codice del 1930 stabiliva "chiunque offre o promette denaro o altra utilità a un testimone, perito o interprete, per

indurlo ad una falsa testimonianza perizia o interpretazione, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia

accettata alle pene stabilite negli artt. 372 e 373 ridotte dalla metà a due terzi"; quello modificato, invece,

stabilisce che "chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni

davanti all'autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a

commettere i reati previsti dagli artt. 371-bis, 372 e 373, soggiace, qualora l'offerta e la promessa non sia

accettata, alle pene stabilite negli artt. medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi".

L'innovazione, introdotta in un decreto-legge destinato al contrasto della criminalità mafiosa, aveva l'obiettivo di

adeguare la precedente norma della subornazione all'Introduzione, ad opera del medesimo provvedimento

d'urgenza, di una nuova fattispecie di parte speciale, quale il delitto di false informazioni ai pubblico ministero, di

cui all'art. 371-bis cod. pen.. Vi era cioè l'esigenza di inglobare nella fattispecie delittuosa il riferimento al nuovo

delitto da ultimo indicato, e ciò avvenne sostituendo la indicazione della figura del testimone - soggetto che, con

il nuovo codice di rito, assumeva questo ruolo solo in dibattimento o nell'incidente probatorio - con la più

elastica dizione di persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria. Si è inoltre aggiunto,

senza che i lavori preparatori ne spiegassero la ragione, nel novero dei possibili soggetti passivi la figura del

consulente tecnico.

Con la successiva L. n. 397 del 2000, recante la disciplina delle cd. indagini difensive, ci si è limitati, invece, ad

una mera interpolazione raccordata alla introduzione nel codice penale dell'art. 371-ter cod. pen., relativo alle

false informazioni al difensore.

Per completezza, è opportuno ricordare che con la L. 20 dicembre 2012, n. 237 (di ratifica dello Statuto di Roma,

istitutivo della Corte penale internazionale permanente competente a conoscere del crimine di genocidio, cd.

dell'Aja) si è ulteriormente interpolato l'art. 377: con l'art. 10, comma 8, della novella si è estesa la portata della

fattispecie penale in commento all'ipotesi in cui l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità sia rivolta a

persona chiamata a rendere dichiarazioni innanzi alla Corte dell'Aja.

Nessuna modifica è stata, invece, apportata dal legislatore all'art. 373 cod. pen., che, sotto la rubrica "Falsa perizia

o interpretazione", punisce unicamente il perito o l'interprete che, nominato dall'autorità giudiziaria, da parere o

interpretazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero.

3. Così ricostruito il quadro normativo, deve ribadirsi la validità del percorso argomentativo seguito

nell'ordinanza di queste Sezioni Unite in data 27 giugno 2013 e sostanzialmente condiviso, quanto meno nei suoi

iniziali sviluppi, anche dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 163 del 2014.

Come ben osservato dal Giudice delle Leggi, la problematica in esame trae origine dal difetto di

coordinamento tra le norme incriminatrici relative al delitti contro l'amministrazione della giustizia,

contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura

penale del 1988.

Le disposizioni del codice penale, in linea con l'Impianto inquisitorio delineato dal codice di rito abrogato,

presupponevano, infatti, una sostanziale equiparazione tra le prove raccolte in contraddittorio e i risultati delle

indagini dell'accusa. Il passaggio ad un sistema di tipo accusatorio operato con il nuovo codice, in assenza di

opportuni interventi di adeguamento, ha inevitabilmente messo in crisi il sistema, generando vuoti di tutela.

Risultava evidente, ad esempio, l'impossibilità di applicare la norma incriminatrice della falsa testimonianza (art.

372 cod. pen.) anche alle "persone Informate sui fatti" che rendessero dichiarazioni mendaci al pubblico

ministero, non essendo queste ultime qualificabili, diversamente che in passato, come "testimoni". Solo

l'introduzione, nel 1992, del delitto di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen., aggiunto

dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 11, comma 1, recante "Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura

penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa", convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto

71

1992, n. 356) è valso a colmare la lacuna. Un ulteriore intervento novellistico è stato, altresì, necessario per

evitare che rimanessero esenti da pena le false dichiarazioni al difensore nel corso delle indagini difensive (art.

371-ter cod. pen., aggiunto dalla L. 7 dicembre 2000, n. 397, art. 20, recante "Disposizioni in materia di indagini

difensive"). All'opera di riallineamento dei delitti contro l'amministrazione della giustizia al mutato panorama

processuale è rimasta, peraltro, estranea la figura del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ai sensi

dell'art. 359 c.p.p..

Come già rilevato da queste Sezioni Unite nell'ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità devoluta

alla Corte costituzionale, la falsa consulenza redatta dall'ausiliario dell'organo dell'accusa non integra il delitto di

falsa perizia (art. 373 cod. pen.), per la dirimente ragione che detto soggetto non è equiparabile, nell'attuale

sistema processuale, al perito nominato dal giudice (come invece lo era il perito nominato dal pubblico ministero

nel corso dell'istruzione sommaria, ai sensi dell'art. 391 c.p.p. 1930, comma 2). In questo caso, tuttavia, il

legislatore non si è premurato di introdurre una nuova norma incriminatrice ad hoc che colmasse la lacuna, tanto

è vero che, fin dai primi anni '90, il Progetto "(OMISSIS)" di riforma del codice penale elaborato dalla apposita

Commissione ministeriale nella parte relativa ai delitti contro l'amministrazione della giustizia ha previsto

espressamente il reato di "falsa perizia, interpretazione o consulenza", includendo tra i soggetti attivi di tale reato

anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.

La rilevata discrasia si riflette anche sul trattamento riservato alle condotte subornatrici. Sotto la rubrica di

"intralcio alla giustizia"" l'art. 377 cod. pen. configura, al comma 1, come reato l'offerta o la promessa di denaro o

di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l'amministrazione della giustizia: derogando,

con ciò, al generale principio per cui l'istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 cod.

pen.). Nell'attuale versione della norma (frutto degli interventi di adeguamento indicati al punto che precede), si

tratta, in specie, dei delitti di false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa

testimonianza, falsa perizia o Interpretazione (artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 cod. pen.).

Tra i possibili destinatari dell'offerta o della promessa penalmente repressa figura, in verità, grazie alla già

menzionata interpolazione operata dal D.L. n. 306 del 1992, art. 11, anche la persona chiamata a svolgere attività

di "consulente tecnico": formula che, nella sua genericità, si presterebbe a ricomprendere il consulente tecnico

del pubblico ministero. La rilevata circostanza che quest'ultimo non possa rendersi responsabile del delitto di cui

al richiamato art. 373 cod. pen. impedisce, tuttavia, di ritenere che l'offerta o la promessa a lui indirizzata, allo

scopo di orientare gli esiti della consulenza, configuri il delitto di intralcio alla giustizia In quanto finalizzata alla

commissione del reato di falsa perizia.

Si è posto, quindi, il problema di verificare se la subornazione del consulente tecnico del pubblico

ministero sia punibile a diverso titolo. All'interrogativo, come si è visto, queste Sezioni Unite hanno offerto

una soluzione, definita dalla Corte costituzionale "innovativa" rispetto al panorama ermeneutico pregresso, che,

come pure osservato dalla Consulta, coniuga, nella sostanza, due delle tesi In precedenza prospettate.

Secondo queste Sezioni Unite, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero è, in realtà, idonea

ad integrare il delitto di intralcio alla giustizia. Giova, a tal fine, non già il richiamo, contenuto nell'art. 377 c.p.,

comma 1, alla falsa perizia, che si è visto non utile, ma quello alla falsa testimonianza e alle false informazioni al

pubblico ministero (artt. 372 e 371-bis cod. pen.).

Il consulente è sentito, infatti, in dibattimento sul contenuto della consulenza nelle forme dell'esame testimoniale

(art. 501 cod. proc. pen.); prima ancora, può essere chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico ministero che

l'ha nominato. Di conseguenza, l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità per influire sui risultati della

consulenza è destinata ad incidere anche sulle dichiarazioni rese dal consulente come teste o come persona

informata sui fatti. In definitiva, anche se il consulente non riferisce su fatti, ma esprime valutazioni su materie

che richiedono specifiche competenze tecniche, egli può in ogni caso "affermare il falso e negare il vero".

D'altra parte è pur vero che il consulente tecnico chiamato a collaborare con una parte privata, è

tradizionalmente concepito come un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e

garanzie, al difensore. Anche il Giudice delle Leggi non ha mancato di ricordare (sentenza n. 33 del 1999) come

la stretta correlazione tra le funzioni del consulente tecnico e il diritto di difesa dell'Imputato sia stata

ripetutamente affermata dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 345 del 1987 e n. 199 del 1974) nel

72

contesto dell'abrogato codice del 1930, che dava ingresso al consulente tecnico della parte solo in occasione di

incarico peritale disposto dal giudice e negava autonomo rilievo alla figura del consulente extraperitale,

considerato semplice ausilio del difensore, incapace di compiere valutazioni tecniche dotate di un intrinseco

valore probatorio, sicchè le sue indicazioni si riducevano a mere sollecitazioni defensionali e non avevano la

forza di penetrare nel processo se non attraverso la mediazione del giudice, a sua volta ritenuto peritus

peritorum. E ha poi rimarcato come nell'attuale sistema quella correlazione si è vieppiù inverata. Il codice

vigente, infatti, prevede la possibilità per le parti del processo penale di nominare consulenti tecnici anche nel

caso in cui non sia stata disposta alcuna perizia (art. 233). E si tratta di previsione che, essendo consentito al

giudice, come riconosce la giurisprudenza di legittimità, trarre elementi di prova dall'esame dei consulenti tecnici,

la cui posizione viene assimilata a quella dei testimoni, vale a qualificare in modo ancor più evidente la loro

attività come aspetto essenziale dell'esercizio del diritto di difesa in relazione alle ipotesi in cui la decisione sulla

responsabilità penale dell'imputato comporti lo svolgimento di indagini o l'acquisizione di dati o valutazioni che

richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, secondo la formulazione dell'art. 220 cod.

proc. pen.. Del resto il compiuto processo di assimilazione della figura del consulente tecnico extraperitale a

quella del difensore si delinea in maniera ancor più nitida alla luce di ulteriori elementi normativi, anche se in

parte preesistenti: oltre agli artt. 380 e 381 c.p., che puniscono, insieme al patrocinio, la consulenza infedele, l'art.

103 c.p.p., che, sotto la significativa rubrica "Garanzie di libertà del difensore", vieta, al comma 2, il sequestro

presso il consulente di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa e, al comma 5, l'intercettazione relativa a

conversazioni del consulenti tecnici e loro ausiliari e a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, nonchè

l'art. 200 c.p.p., comma 1, lett. b), che assicura anche ai consulenti tecnici la tutela del segreto professionale. Un

unitario e sistematico insieme di disposizioni conduce insomma a riconoscere che la facoltà di avvalersi di un

consulente tecnico si inserisce a pieno titolo nell'area di operatività della garanzia posta dall'art. 24 Cost. e che le

prestazioni del consulente della parte privata ineriscono all'esercizio del diritto di difesa, tanto che la Consulta,

con la citata sentenza n. 33 del 1999, ha riconosciuto ai non abbienti la facoltà di farsi assistere a spese dello Stato

da un consulente per ogni accertamento tecnico ritenuto necessario.

Ma è altrettanto vero che, nel nostro sistema processuale, il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero,

sia pure prestando un'attività di ausilio a una "parte" del processo, si staglia dalla figura generale e presenta

specifiche peculiarità, ripetendo dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuva i relativi connotati. Egli

acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le

sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod.

pen. (Sez. 6, n. 2675 del 05/12/1995, Tauzilli, Rv. 204516; Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, Rv.

214142; e, argomentando a contrario, Sez. 6, n. 5901 del 22/01/2013, Anello, Rv. 254308), concorre

oggettivamente all'esercizio della funzione giudiziaria e ha il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di

obiettività e "imparzialità", nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in

primis, l'accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze

anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.). Il ruolo e la funzione rivestiti gli

impongono dunque il dovere di verità. Egli Inoltre non può rifiutare la sua opera (come testualmente recita l'art.

359 cod. proc. pen., comma 1, u.p.) ed è tra i soggetti destinatari dell'art. 384 cod. pen., che, al suo comma 2, così

recita: "Nei casi previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi

per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni al fini delle indagini o assunto come

testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o

comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere Informazioni,

testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione". E' chiaro che questa norma, nel dettare i casi di non

punibilità e nel prevedere anche la figura del consulente tecnico, non potendo questi commettere, per i motivi già

esposti, il reato di cui all'art. 373 cod. pen., riferisce al consulente proprio i residui reati di cui agli artt. 371-bis e

372 cod. pen. (essendo ad esso inapplicabile l'art. 371-ter cod. pen., che riguarda le false dichiarazioni al

difensore).

73

Per le argomentazioni sopra svolte deve concludersi che appare del tutto razionale che al consulente tecnico

del pubblico ministero siano applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni,

dall'art. 372 cod. pen. (a, in sede di indagini, dall'art. 371-bis cod. pen.).

A riprova di ciò sta, del resto, anche il dato letterale della norma: il riferimento al "consulente tecnico",

inserito nel testo dell'art. 377 cod. pen., senza ulteriori specificazioni, ad opera del D.L. n. 306 del 1992,

si presta senz'altro a essere rapportato anche alla figura di cui ci si occupa. L'opinione contraria, espressa,

come si è visto, in dottrina, e prospettata inizialmente pure dai ricorrenti, secondo cui il riferimento al consulente

tecnico inserito dal citato D.L. n. 306 riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile, si scontra sia con

un'obiezione formale (una simile specificazione non è indicata dalla norma) sia, soprattutto, con una insuperabile

considerazione sistematica (l'estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai

periti discende positivamente dalla espressa previsione dell'art. 64 c.p.c., comma 1, dovendosi essa dunque

apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si è sempre ritenuto che il riferimento

al "perito", contenuto nell'art. 373 cod. pen., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio

in forza del citato art. 64 cod. proc. civ.).

Le conclusioni alle quali si è pervenuti, contrariamente a quanto sostenuto nella memoria difensiva depositata

nell'interesse dei ricorrenti, tengono adeguatamente conto del fatto che l'art. 501 cod. proc. pen. estende ai

consulenti tecnici le regole per l'esame testimoniale "in quanto applicabili" e non ignorano le precise differenze

che intercorrono tra la posizione del consulente tecnico e quella del testimone. Del resto, come pure la difesa del

ricorrenti ammette, anche il consulente deve rispondere secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti

che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche (in quanto in relazione alla

descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone).

4. Il Collegio ritiene di confermare altresì l'impostazione adottata dalle Sezioni Unite nell'incidente di

costituzionalità promosso con l'ordinanza in data 27 giugno 2013 In riferimento alla problematica posta dal fatto

che, nel caso in esame, il consulente tecnico del Pubblico ministero non si era ancora, per così dire,

"trasformato" in testimone, non essendo ancora stato citato come tale o come persona informata sui fatti al

momento della realizzazione della condotta subornatrice.

Come si è visto, la più volte citata sentenza Pizzicaroli del 1999, pur ritenendo configurabile in una fattispecie

simile il reato di cui all'art. 377 cod. pen., ne aveva escluso la sussistenza nel caso concreto, in quanto il

consulente tecnico del Pubblico ministero, nel momento in cui era stata realizzata la condotta illecita, non aveva

già assunto "la veste di testimone per effetto di citazione a comparire".

In base all'indirizzo prevalente di dottrina e giurisprudenza (Sez. 3, n. 2055 del 13/12/1996, Elmir, Rv. 207282;

Sez. 6, n. 2713 del 11/12/1996, Samperi, Rv. 207166; Sez. 6, n. 35837 del 23/05/2001, Russo, Rv. 220593; Sez.

6, n. 35150 del 26/06/2009, Manto, Rv. 244699; Sez. 6, n. 45626 del 25/11/2010, Z., Rv. 249321; e soprattutto

Sez. U, n. 37503 del 30/10/2002, Vanone, Rv. 222347), perchè si possa configurare il delitto di cui all'art. 377

cod. pen. è necessario che i destinatari della condotta abbiano già assunto, formalmente, nel momento in cui la

condotta stessa viene posta in essere, la qualifica processuale. E la qualità di testimone, nel reato di cui all'art. 377

cod. pen., viene considerata assunta nel momento dell'autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in

questa veste, ai sensi dell'art. 468 c.p.p., comma 2, (v. in particolare: Sez. U, n. 37503 del 2002, Vanone, cit., e,

con riguardo al simile reato di cui all'art. 377-bis cod. pen., Sez. 6, n. 45626 del 2010, Z., cit.).

Tuttavia, ad avviso del Collegio, le peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero fanno

propendere, nell'ipotesi in cui sia questo il soggetto su cui si esercita l'attività induttiva o violenta, verso una

diversa soluzione.

In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione, come si è già osservato, riveste la qualità di pubblico

ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, il dovere di obiettività ed

imparzialità; e non può esimersi dal dire la verità. Proprio per queste sue caratteristiche, il consulente

tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, riveste già una precisa veste processuale,

potenzialmente destinata a rifluire sull'assunzione della qualità "testimoniale" ex artt. 371-bis o 372

cod. pen.. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente,

74

in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata ai consulente tecnico

nominato dalla parte pubblica.

In questa prospettiva e in sostanziale accordo con le conclusioni dell'ordinanza di rimessione, deve

concludersi che il reato di cui all'art. 377 cod. pen. è configurabile nella fattispecie in esame, essendo

stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a

essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) o successivamente al

giudice (art. 372 cod. pen.).

D'altra parte anche nella giurisprudenza di legittimità in materia non sono mancati recentemente segni di

revisione e approcci più "sostanzialistici", essendosi ritenuto "configurabile il delitto di subornazione anche con

riferimento alle pressioni e alle minacce esercitate su colui che abbia reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle

indagini preliminari al fine di indurlo alla ritrattazione in vista dell'acquisizione, da parte sua, della qualità di

testimone nel celebrando dibattimento" (Sez. 1, n. 6297 del 10/12/2009, Pesacane, Rv. 246107).

5. Secondo la ricostruzione operata da queste Sezioni Unite nell'ordinanza in data 27 giugno 2013, tuttavia, il

consulente potrebbe rendersi responsabile del delitto di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico

ministero solo allorchè riferisca su dati oggetti vi: non quando sia chiamato a formulare valutazioni tecnico-

scientifiche, ossia giudizi, i quali, in quanto espressivi di opinioni personali, non potrebbero essere qualificati in

termini di verità o di falsità.

Si era osservato che, in siffatta evenienza, l'unico reato configurarle, nell'ipotesi di subornazione del consulente

del pubblico ministero, sarebbe quello di istigazione alla corruzione propria, di cui al censurato art. 322 c.p.,

comma 1: figura criminosa rispetto alla quale il delitto di intralcio alla giustizia si porrebbe in rapporto di

specialità. Il consulente tecnico del pubblico ministero assumerebbe, infatti, nell'espletamento dei suoi compiti, la

qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, richiesta dalla norma denunciata, la quale

dovrebbe ritenersi, d'altra parte, applicabile anche in rapporto alla corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter cod.

pen.).

Emergerebbero, peraltro, in questo modo, i profili di illegittimità costituzionale denunciati, poi ritenuti, come si è

visto, infondati dal Giudice delle Leggi nella citata sentenza n. 163 del 2014.

6. Ritiene il Collegio che queste ultime conclusioni vadano ripensate, anche alla luce dei rilievi operati dalla Corte

costituzionale nella sentenza n. 163 del 2014.

Va in primo luogo evidenziato che, in base ad un orientamento giurisprudenziale significativamente esteso,

"quando intervengano in contesti che implicano l'accettazione di parametri di valutazione normativamente

determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi assolvono certamente una funzione informativa e

possono dirsi veri o falsi" (omissis).

In particolare, movendo dall'interpretazione dell'art. 373 cod. pen. (falsa perizia o interpretazione), si è constatato

che le norme positive ammettono talora la configurabilità del falso ideologico anche in enunciati valutativi e

qualificatori, come avviene, ad esempio, nell'art. 2629 cod. civ. (valutazione esagerata del conferimenti e degli

acquisiti della società). Si è precisato che quando fa riferimento a criteri predeterminati, la valutazione è un modo

di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione, sebbene l'ambito di una sua possibile

qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo dal grado di

specificità e di elasticità del criteri di riferimento. Si è evidenziato che la falsità della conclusione può dipendere

anche dalla "falsità di una delle premesse". Si è concluso che può dirsi falso l'enunciato valutativo che

contraddica criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili ovvero che sia posto a conclusione di un ragionamento

fondato su premesse contenenti false attestazioni (v. Sez. 5, Andronico, cit.).

Dette conclusioni sono state ribadite anche in altra vicenda in cui all'imputato era contestato il concorso in falso

ideologico in atto pubblico ex art. 479 cod. pen. con un consulente tecnico del pubblico ministero in relazione

alle valutazioni da questo esposte nel suo elaborato redatto su incarico del magistrato inquirente (v. Sez. 1,

Capogrosso, cit.). D'altra parte, in materia di reato di falsa perizia, nei pochissimi precedenti reperibili,

l'applicazione delle categorie "vero-falso" sembra essere avvenuta in linea con i principi da ultimo esposti (Sez. 5,

n. 7067 del 12/01/2011, Sabolo, Rv. 249836; Sez. 6, n. 45633 del 24/10/2013, Piazza, non mass.).

75

In applicazione di questi principi deve concludersi che anche in relazione ai giudizi di natura

squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità.

Ne discende che il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando

formula giudizi tecnico- scientifici, sicchè il caso in esame (in cui il consulente del Pubblico ministero era

chiamato ad accertamenti che postulavano sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi) deve essere

inquadrato, a seconda delle fasi processuali in cui viene fatta l'offerta (rifiutata), nel combinato disposto

di cui agli artt. 377 e 371-bis cod. pen. (intralcio alla giustizia per far rendere false dichiarazioni al

pubblico ministero) o in quello di cui agli artt. 377 e 372 cod. pen. (intralcio alla giustizia per far rendere

una falsa testimonianza).

7. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto:

"L'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero

finalizzata a influire sul contenuto della consulenza integra il delitto di intralcio alla giustizia di cui

all'art. 377 cod. pen. in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 cod. pen..

8. (omissis)

Corte Costituzionale, n. 163 del 2014 (omissis)

1.– Le sezioni unite penali della Corte di cassazione dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo

comma, del codice penale, «nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente

tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di

cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen.».

La questione trova la sua premessa ermeneutica fondante nell’assunto per cui la subornazione del consulente

tecnico del pubblico ministero – il quale sia stato incaricato, come nel caso di specie, esclusivamente di esprimere

valutazioni tecnico-scientifiche e non già di accertare dati oggettivi – non potendo integrare il delitto di intralcio

alla giustizia, di cui all’art. 377, primo comma, in riferimento agli artt. 371-bis e 372 cod. pen., ricadrebbe

nell’ambito applicativo della più generale figura criminosa dell’istigazione alla corruzione propria, delineata dal

censurato art. 322, primo comma, cod. pen.

Discenderebbe da ciò la violazione dell’art. 3 della Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento di

situazioni analoghe, sotto un triplice profilo.

In primo luogo, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per

influire sui risultati della consulenza risulterebbe punita più gravemente dell’analoga offerta o promessa rivolta al

perito – ausiliario del giudice – la quale rientra pacificamente, per il principio di specialità, nella sfera applicativa

dell’art. 377, primo comma, in riferimento all’art. 373 cod. pen. Nella prima ipotesi, infatti, in base alla

disposizione combinata degli artt. 319 e 322 cod. pen. – nella formulazione vigente all’epoca del fatto oggetto del

giudizio a quo, antecedente alla riforma operata dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la

prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – sarebbe irrogabile

la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per la disposizione

combinata degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.

In secondo luogo, poi, la proposta corruttiva rivolta al consulente tecnico del pubblico ministero nell’ambito di

un procedimento penale risulterebbe sanzionata in modo più energico rispetto all’analoga proposta diretta al

consulente tecnico del giudice civile, la quale integra anch’essa il reato di intralcio alla giustizia, a fronte

dell’espressa estensione al predetto soggetto processuale delle norme del codice penale relative ai periti (art. 64,

primo comma, del codice di procedura civile).

In terzo luogo, e da ultimo, l’offerta corruttiva indirizzata al consulente tecnico del pubblico ministero sarebbe a

sua volta soggetta ad un trattamento sanzionatorio irragionevolmente differenziato a seconda che il suo

destinatario sia chiamato ad esprimere valutazioni tecnico-scientifiche (ipotesi inquadrabile nel più grave

76

paradigma punitivo dell’istigazione alla corruzione), ovvero semplicemente a descrivere i fatti accertati (fattispecie

integrativa del delitto di intralcio alla giustizia, meno gravemente punito).

Le sezioni unite denunciano, altresì, il «paradosso» sistematico per cui solo la particolare e neppure giù grave

forma di intralcio alla giustizia di cui si discute rimarrebbe estranea alla specifica partizione del codice penale

dedicata ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, rimanendo «confinata» tra i delitti contro la pubblica

amministrazione.

2.– Il problema sottoposto all’esame di questa Corte trae origine dal difetto di coordinamento tra le norme

incriminatrici relative ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il

nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988.

Le disposizioni del codice penale, in linea con l’impianto inquisitorio delineato dal codice di rito abrogato,

presupponevano, infatti, una sostanziale equiparazione tra le prove raccolte in contraddittorio e i risultati delle

indagini dell’accusa. Il passaggio ad un sistema di tipo accusatorio operato con il nuovo codice, in assenza di

opportuni interventi di adeguamento, ha inevitabilmente messo in crisi il sistema, generando vuoti di tutela.

Risultava evidente, ad esempio, l’impossibilità di applicare la norma incriminatrice della falsa testimonianza (art.

372 cod. pen.) anche alle «persone informate sui fatti» che rendessero dichiarazioni mendaci al pubblico

ministero, non essendo queste ultime qualificabili – diversamente che in passato – come «testimoni». Solo

l’introduzione, nel 1992, del delitto di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen., aggiunto

dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di

procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dalla

legge 7 agosto 1992, n. 356) è valso a colmare la lacuna. Un ulteriore intervento novellistico è stato, altresì,

necessario per evitare che rimanessero esenti da pena le false dichiarazioni al difensore nel corso delle indagini

difensive (art. 371-ter cod. pen., aggiunto dall’art. 20 della legge 7 dicembre 2000, n. 397, recante «Disposizioni in

materia di indagini difensive»).

All’opera di riallineamento dei delitti contro l’amministrazione della giustizia al mutato panorama processuale è

rimasta, peraltro, estranea la figura del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 359

del codice di procedura penale.

Come rilevato dalle sezioni unite nell’ordinanza di rimessione, la falsa consulenza redatta dall’ausiliario

dell’organo dell’accusa non integra il delitto di falsa perizia (art. 373 cod. pen.), per la dirimente ragione che detto

soggetto non è equiparabile, nell’attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice (come invece lo era il

perito nominato dal pubblico ministero nel corso dell’istruzione sommaria, ai sensi dell’art. 391, secondo comma,

cod. proc. pen. del 1930). In questo caso, tuttavia, il legislatore non si è premurato di introdurre una nuova

norma incriminatrice ad hoc che colmasse la lacuna.

La rilevata discrasia si riflette anche sul trattamento riservato alle condotte subornatrici. Sotto la rubrica di

«intralcio alla giustizia» – che, per effetto dell’art. 14 della legge 16 marzo 2006, n. 146 (Ratifica ed esecuzione

della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati

dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001), sostituisce quella originaria di «subornazione»

– l’art. 377 cod. pen. configura, al primo comma, come reato l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità,

non accettata, per commettere taluni delitti contro l’amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al

generale principio per cui l’istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 cod. pen.).

Nell’attuale versione della norma (frutto di una serie di interventi di adeguamento), si tratta, in specie, dei delitti

di false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o

interpretazione (artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 cod. pen.).

Tra i possibili destinatari dell’offerta o della promessa penalmente repressa figura, in verità – grazie

all’interpolazione operata dall’art. 11 del d.l. n. 306 del 1992 – anche la persona chiamata a svolgere attività di

«consulente tecnico»: formula che, nella sua genericità, si presterebbe a ricomprendere il consulente tecnico del

pubblico ministero. La rilevata circostanza che quest’ultimo non possa rendersi responsabile del delitto di cui al

richiamato art. 373 cod. pen. impedisce, tuttavia, di ritenere che l’offerta o la promessa a lui indirizzata, allo

scopo di orientare gli esiti della consulenza, configuri il delitto di intralcio alla giustizia in quanto finalizzata alla

commissione del reato di falsa perizia.

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3.– Si è posto, quindi, il problema di verificare se la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero

sia punibile a diverso titolo.

All’interrogativo le sezioni unite offrono una soluzione innovativa rispetto al panorama ermeneutico pregresso,

che coniuga, nella sostanza, due delle tesi in precedenza prospettate.

Secondo la Corte rimettente, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero sarebbe, in realtà,

idonea ad integrare il delitto di intralcio alla giustizia. Gioverebbe, a tal fine, non già il richiamo, contenuto

nell’art. 377, primo comma, cod. pen., alla falsa perizia – che si è visto non utile – ma quello alla falsa

testimonianza e alle false informazioni al pubblico ministero (artt. 372 e 371-bis cod. pen.).

Il consulente è sentito, infatti, in dibattimento sul contenuto della consulenza nelle forme dell’esame testimoniale

(art. 501 cod. proc. pen.); prima ancora, può essere chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico ministero che

l’ha nominato. Di conseguenza, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità per influire sui risultati della

consulenza sarebbe destinata ad incidere anche sulle dichiarazioni rese dal consulente come teste o come persona

informata sui fatti.

Tali qualità sarebbero, d’altro canto, «immanenti» alla figura dell’ausiliario tecnico dell’organo dell’accusa,

costituendo un «prevedibile e necessario sviluppo processuale» delle funzioni che gli sono assegnate. Non

occorrerebbe, pertanto – diversamente che negli altri casi – che il consulente sia già stato citato formalmente

come testimone o come persona informata sui fatti al momento dell’offerta o della promessa.

Il consulente – sempre secondo la ricostruzione operata dalle sezioni unite – potrebbe rendersi, tuttavia,

responsabile del delitto di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero solo allorché riferisca

su dati oggettivi: non quando sia chiamato a formulare valutazioni tecnico-scientifiche, ossia giudizi, i quali – in

quanto espressivi di opinioni personali – non potrebbero essere qualificati in termini di verità o di falsità.

In siffatta evenienza, l’unico reato configurabile, nell’ipotesi di subornazione del consulente, sarebbe quello di

istigazione alla corruzione propria, di cui al censurato art. 322, primo comma, cod. pen.: figura criminosa rispetto

alla quale il delitto di intralcio alla giustizia si porrebbe in rapporto di specialità. Il consulente tecnico del pubblico

ministero assumerebbe, infatti, nell’espletamento dei suoi compiti, la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato

di pubblico servizio, richiesta dalla norma denunciata, la quale dovrebbe ritenersi, d’altra parte, applicabile anche

in rapporto alla corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter cod. pen.).

Emergerebbero, peraltro, in questo modo, i profili di illegittimità costituzionale denunciati (profili in

considerazione dei quali la sesta sezione della Corte di cassazione, nel rimettere la questione alle sezioni unite,

aveva ritenuto, per converso, di dover scartare l’ipotesi dell’applicabilità dell’art. 322, primo comma, cod. pen.).

In sostanza, nella prospettiva della Corte rimettente, il mancato adeguamento del sistema dei delitti contro

l’amministrazione della giustizia rispetto alla figura del consulente tecnico del pubblico ministero avrebbe

determinato non già un deficit di tutela penale, ma, tutt’al contrario, un “eccesso di protezione”. Stante, infatti, la

maggiore asprezza della pena comminata dalla norma censurata rispetto a quella prevista dall’art. 377, primo

comma, in riferimento all’art. 373 cod. pen., l’offerta corruttiva indirizzata all’ausiliario tecnico del pubblico

ministero finirebbe per essere trattata in modo irragionevolmente più severo rispetto all’analoga offerta rivolta al

perito nominato dal giudice penale, ovvero al consulente tecnico del giudice civile, ad esso equiparato (art. 64,

primo comma, cod. proc. civ.). Altrettanto irragionevole sarebbe, inoltre, lo scarto sanzionatorio riscontrabile a

seconda che la condotta subornatrice miri ad alterare i risultati di una consulenza “descrittiva” o “valutativa”.

4.– Ciò precisato, la questione è inammissibile.

Il Collegio rimettente fonda, infatti, la motivazione in ordine alla rilevanza della questione sull’assunto per cui

l’indagine tecnica affidata nel caso di specie al consulente del pubblico ministero – riferire se l’addestramento del

copilota, deceduto assieme al pilota in un incidente aereo, potesse considerarsi idoneo – sarebbe «di tipo

squisitamente valutativo». Tale circostanza impedirebbe, alla luce di quanto dianzi evidenziato, di sussumere

l’offerta di denaro per cui si procede nel paradigma dell’intralcio alla giustizia, con il risultato di rendere operante

la censurata norma incriminatrice dell’istigazione alla corruzione.

L’assunto non può essere condiviso.

In effetti, per poter stabilire se l’addestramento di un pilota di aereo sia «idoneo» occorre anche, e prima di tutto,

accertare un dato oggettivo: e, cioè, quale addestramento l’interessato abbia in concreto ricevuto. Il che

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presuppone l’individuazione e la verifica della concreta effettuazione di un complesso di attività di

apprendimento, teoriche e pratiche, riconducibili alla nozione di «addestramento».

Nella stessa prospettiva delle sezioni unite, dunque, il consulente tecnico del pubblico ministero si sarebbe bene

potuto rendere responsabile, nel caso di specie – alla luce di quanto riferito nell’ordinanza di rimessione – dei

reati di falsa testimonianza e di false informazioni al pubblico ministero fornendo dichiarazioni mendaci sugli

aspetti dianzi evidenziati, con conseguente rilevanza penale della condotta subornatrice sub specie di intralcio alla

giustizia.

5.– Al tempo stesso, è doveroso, peraltro, evidenziare come la pronuncia richiesta a questa Corte dal Collegio

rimettente non garantirebbe comunque il ripristino del principio di eguaglianza, che si deduce violato, ma

darebbe anzi luogo ad un assetto non in linea con le coordinate generali del sistema.

Denunciando la violazione dell’art. 3 Cost., le sezioni unite chiedono, infatti, nella sostanza, che la subornazione

del consulente del pubblico ministero venga equiparata, quoad poenam, alla subornazione del perito, sul

presupposto che si tratti di «situazioni del tutto analoghe».

Al riguardo, occorre tuttavia considerare come le false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.)

siano punite con pena sensibilmente inferiore a quella della falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.):

rispettivamente, reclusione fino a quattro anni (stessa pena prevista dall’art. 371-ter cod. pen. per le false

informazioni al difensore), contro reclusione da due a sei anni. Lo scarto si ripercuote puntualmente sul regime

sanzionatorio della subornazione, che ricalca quello delle norme incriminatrici richiamate, con riduzione dalla

metà a due terzi (art. 377, primo comma, cod. pen.): rispetto alle persone portatrici di “informazioni non

tecniche” il legislatore considera, quindi, notevolmente meno grave l’offerta di denaro fatta a favore di chi deve

rendere dichiarazioni al pubblico ministero, rispetto all’analoga offerta effettuata nei confronti di chi deve

rendere dichiarazioni al giudice.

Ciò risponde pienamente alla logica del processo accusatorio: l’organo dell’accusa è una parte e gli elementi dallo

stesso raccolti fuori del contraddittorio non assumono, di norma, la dignità di prove, diversamente da quanto

avviene per le dichiarazioni rese davanti al giudice, le quali hanno, dunque, un maggior “valore intrinseco”.

La stessa logica imporrebbe, dunque, che la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero fosse

punita con pena non già eguale – come chiedono le sezioni unite – ma anch’essa inferiore a quella comminata per

la subornazione del perito, ausiliario del giudice. Equiparare le due ipotesi significherebbe, in effetti, rievocare

una impostazione di tipo inquisitorio, alla stregua della quale il “sapere tecnico” acquisito dall’organo dell’accusa

nel corso dell’attività di indagine varrebbe tanto quanto il “sapere tecnico” acquisito dal giudice in dibattimento.

Si aggiunga che, sviluppando con rigore la linea interpretativa adottata dalle sezioni unite, si perverrebbe ad un

ulteriore risultato contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, non attinto né dalle censure, né

dal petitum. Nell’ipotesi ordinaria, in cui l’indagine tecnica affidata all’ausiliario del pubblico ministero postuli

tanto il riscontro di dati oggettivi che l’espressione di valutazioni – ipotesi che, per quanto detto, appare ricorrere

nel caso oggetto del giudizio a quo – il soggetto che offre o promette denaro o altra utilità al consulente per

influire sulla sua attività dovrebbe rispondere, non già di uno solo, ma di due reati, in concorso formale tra loro:

da un lato, del reato “speciale” di intralcio alla giustizia, in rapporto ai contenuti “descrittivi” della consulenza;

dall’altro, del reato “generale” di istigazione alla corruzione, in rapporto ai contenuti valutativi. Neppure tale

esito, certamente incongruo, sarebbe peraltro rimosso dall’accoglimento del petitum, che mira ad incidere sul

solo trattamento sanzionatorio dell’istigazione alla corruzione, e non sull’ipotetica duplicazione della risposta

punitiva per il medesimo fatto.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo comma, del

codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni

unite penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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Cass. pen., Sez. II, 21-30 aprile 2015 (dep. 4 agosto 2015), n. 34147, sull’estensione dell’art. 384

cp ai conviventi more uxorio.

Vedi dispensa n. 6 L. PRUDENZANO, Riflessioni a margine di una recente estensione della causa di

non punibilità prevista dall’art. 384, co. 1, c.p. ai conviventi more uxorio. Nota a Cass. pen., sez. II, 4

agosto 2015, n. 34147, in www.penalecontemporaneo.it