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1 Diritti della persona e contratto di lavoro Riccardo Del Punta Sommario: 1. Il paradosso. 2. Diritto del lavoro e responsabilità civile. 3. Dal diritto al danno (e ritorno). 4. Salute e sicurezza. 5. Personalità morale. 6. Eguaglianza. 7. Libertà sessuale. 8. Onore e immagine. 9. Libertà di espressione. 10. Riservatezza. 11. Professionalità. 12. Non di solo lavoro. 13. Diritti della persona e sistema. 1. Il paradosso. Quando ci si accinge a sviluppare una riflessione complessa, e si è incerti su quale sia il modo più conveniente di avviarla, è saggia massima di esperienza lasciarsi guidare da un indizio, meglio se in apparente contrasto con l’esperienza comune, ossia se evocativo di un paradosso. Quasi sempre, infatti, i paradossi racchiudono qualche segreto. Ebbene, il paradosso su cui propongo di soffermarsi è quello per cui la cultura lavoristica, che per prima è stata capace di far germinare nell’ordinamento giuridico un’idea dell’uomo non circoscritta all’avere, ma estesa all’essere della persona 1 , ha incontrato difficoltà, o ha rivelato, quanto meno, un certo imbarazzo, nel tematizzare la problematica dei danni alla persona del lavoratore 2 . Ciò al punto da rimanere quasi disorientata di fronte alla realtà, talvolta molto prosaica, di un’esperienza giurisprudenziale che è ormai divenuta, anche per la sua dilagante trasversalità, uno dei capitoli più importanti del contenzioso. La chiave risiede forse nell’aggettivo – “apparente” – che spesso, a farci caso, trovasi abbinato al paradosso. Sarà infatti dato di congetturare che tutti i paradossi, in qualche misura, sono apparenti, in quanto l’esperienza comune, rispetto alla quale la proposizione paradossale si pone in contrasto, è in realtà la rappresentazione che, di essa, ci facciamo; per cui il paradosso potrebbe essere null’altro che un indizio, che ci chiama ad alzare il livello della comprensione. E poiché per comprendere occorre prima ipotizzare, a meno di non essere baciati dalla serendipity, si proverà a formulare, non un’ipotesi, ma un mero auspicio di ricerca: quello che nell’aureo sintagma “diritto del lavoro e persona” possa esservi ancora qualcosa di nuovo da scoprire, a dispetto della classicità del tema; classico al punto da confondersi con l’essenza stessa della materia. 1 Per la sottolineatura della notevole influenza che l’evoluzione del contratto individuale di lavoro ha avuto nel promuovere la categoria dei diritti della personalità, v. Rescigno 1990, 2. 2 Sulla “refrattarietà” del diritto del lavoro al tema, v. già Pedrazzoli 1995, 27, pur esattamente cogliendo le “controspinte”, che sono nulla di meno che l’argomento di tutte le riflessioni proposte nel testo.

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Diritti della persona e contratto di lavoro

Riccardo Del Punta

Sommario: 1. Il paradosso. 2. Diritto del lavoro e responsabilità civile. 3. Dal diritto al danno (e ritorno). 4. Salute e sicurezza. 5. Personalità morale. 6. Eguaglianza. 7. Libertà sessuale. 8. Onore e immagine. 9. Libertà di espressione. 10. Riservatezza. 11. Professionalità. 12. Non di solo lavoro. 13. Diritti della persona e sistema.

1. Il paradosso.

Quando ci si accinge a sviluppare una riflessione complessa, e si è incerti su quale

sia il modo più conveniente di avviarla, è saggia massima di esperienza lasciarsi guidare

da un indizio, meglio se in apparente contrasto con l’esperienza comune, ossia se

evocativo di un paradosso. Quasi sempre, infatti, i paradossi racchiudono qualche

segreto.

Ebbene, il paradosso su cui propongo di soffermarsi è quello per cui la cultura

lavoristica, che per prima è stata capace di far germinare nell’ordinamento giuridico

un’idea dell’uomo non circoscritta all’avere, ma estesa all’essere della persona1, ha

incontrato difficoltà, o ha rivelato, quanto meno, un certo imbarazzo, nel tematizzare la

problematica dei danni alla persona del lavoratore2. Ciò al punto da rimanere quasi

disorientata di fronte alla realtà, talvolta molto prosaica, di un’esperienza

giurisprudenziale che è ormai divenuta, anche per la sua dilagante trasversalità, uno dei

capitoli più importanti del contenzioso.

La chiave risiede forse nell’aggettivo – “apparente” – che spesso, a farci caso,

trovasi abbinato al paradosso. Sarà infatti dato di congetturare che tutti i paradossi, in

qualche misura, sono apparenti, in quanto l’esperienza comune, rispetto alla quale la

proposizione paradossale si pone in contrasto, è in realtà la rappresentazione che, di

essa, ci facciamo; per cui il paradosso potrebbe essere null’altro che un indizio, che ci

chiama ad alzare il livello della comprensione.

E poiché per comprendere occorre prima ipotizzare, a meno di non essere baciati

dalla serendipity, si proverà a formulare, non un’ipotesi, ma un mero auspicio di ricerca:

quello che nell’aureo sintagma “diritto del lavoro e persona” possa esservi ancora

qualcosa di nuovo da scoprire, a dispetto della classicità del tema; classico al punto da

confondersi con l’essenza stessa della materia.

1 Per la sottolineatura della notevole influenza che l’evoluzione del contratto individuale di lavoro ha avuto nel promuovere la categoria dei diritti della personalità, v. Rescigno 1990, 2. 2 Sulla “refrattarietà” del diritto del lavoro al tema, v. già Pedrazzoli 1995, 27, pur esattamente cogliendo le “controspinte”, che sono nulla di meno che l’argomento di tutte le riflessioni proposte nel testo.

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2. Diritto del lavoro e responsabilità civile.

Benché il saggio ambisca ad una sorta di empirismo radicale, ossia a trarre

conclusioni sulla base di una ricognizione trasversale di come la materia si sta

trasformando – relativamente alla (peraltro amplissima) prospettiva tematica oggetto di

indagine - nella “vivente” evoluzione del sistema giuridico, non è possibile prescindere, a

livello di impostazione dell’analisi, da alcune anticipazioni concettuali.

La prima di esse equivale già, in verità, ad un principio di scioglimento del

paradosso che si è scelto come spunto di riflessione. Per metterla semplicemente, la

ragione per cui il diritto del lavoro rivela tuttora una scarsa familiarità con i danni alla

persona del lavoratore3, discende direttamente dalla sua familiarità con i diritti della

persona, che sono, a loro volta, un continuum logico dell’implicazione personale del

lavoratore nel rapporto di lavoro e di ciò che l’ordinamento ha fatto per reagire ad essa4.

L’affermazione, questa volta, è meno paradossale di quanto sembri, ed è

strettamente collegata all’angolatura tematica prescelta – a rispecchiamento del dibattito

dell’ultimo ventennio -, di giungere ai diritti partendo dai danni.

E’ proprio dalla difesa elementare della persona, infatti, che la storia del diritto del

lavoro, o quanto meno della sua branca legislativa, ha preso le mosse5. Il contratto di

locazione d’opere, oltre a sottostare a divieti di ordine pubblico concernenti l’impiego

della forza-lavoro6, è stato il primo contratto a veder codificato, nell’art. 3 della legge n.

80 del 18987, un dovere di protezione dell’integrità fisica del contraente “a rischio”. Tale

disposizione rappresentò, a propria volta, il frutto di un dibattito ventennale, in seno al

quale non erano mancati i fautori della teoria per cui, già in virtù del contratto, il

conduttore d’opere doveva ritenersi tenuto a fornire un ambiente sano di lavoro, e quindi

a proteggere l’incolumità dell’operaio8.

Tuttavia, è proprio con la legge evocata9 che è cominciata, a ben vedere, una lenta

ma costante deviazione del diritto del lavoro, oltre che dal diritto civile in generale, dal

sistema della responsabilità civile. Il principio del rischio professionale, nato nella teoria

3 V., in generale, Lanotte 1998. 4 V., per tutti, Smuraglia 1967, 323 ss. Per un importante approfondimento teorico sulla dimensione personale del contratto di lavoro, peraltro condizionato, a mio giudizio, da una polarizzazione eccessiva fra la “persona”, enclave dei valori umanistici, e la logica mercantile o neo-mercantile, v. Grandi 1999. Sulla “quadratura del cerchio” insita nella missione del diritto del lavoro, si tornerà nelle battute finali del saggio. 5 Su come la dinamica della disciplina, tendente verso l’autonomizzazione del contratto di lavoro da schemi qualificativi desunti dal diritto dei rapporti patrimoniali, sia stata innescata dall’impossibilità di estromettere la persona dello schema negoziale, v. Grandi 1999, 330 ss. 6 Sulla legislazione sociale delle origini, v. Castelvetri 1994. 7 Che così recitava: “I capi o esercenti delle imprese…debbono adottare le misure prescritte dalle leggi e dai regolamenti per prevenire gli infortuni e proteggere la vita e l’integrità personale degli operai.” 8 Per l’individuazione del fondamento della teoria contrattuale nell’equità ex art. 1124, ed ammettendo altresì quel concorso fra responsabilità contrattuale e aquiliana, che si è trascinato sino ai nostri giorni (cfr. infra, § 4), v. Barassi 1901, 548 ss. (ove anche una completa disamina delle posizioni dell’epoca). 9 Sulla quale cfr. le pragmatiche considerazioni di Barassi 1901, 583 ss.

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della responsabilità civile (come tensione verso un’oggettivazione della medesima), si è

inverato, infatti, soltanto nel trapasso nell’assicurazione obbligatoria (come espressione

di un’istanza di socializzazione del rischio)10.

Ciò, ad onta del fatto che il modello assicurativo, mentre ha comunque garantito al

lavoratore un ristoro dei pregiudizi patrimoniali conseguenti ad un infortunio sul lavoro o

ad una malattia professionale, non ha mai sostituito del tutto - ed anzi ha sostituito

sempre di meno11 - quello della responsabilità civile, destinato a “rivivere” (tanto a

beneficio del lavoratore, per i danni “differenziali” eventualmente rivendicabili, quanto

dell’ente assicuratore a titolo di regresso) in caso di responsabilità penale

dell’imprenditore o di un semplice dipendente di questi12.

Ma quella che, nell’epoca delle origini, nasceva dall’esperienza della difficoltà, per il

lavoratore, di dimostrare in giudizio la responsabilità dell’imprenditore13, è divenuta poi,

nella fase della crescita e poi della classicità della materia, consapevolezza

dell’insufficienza della tutela risarcitoria in vista di un’effettiva protezione dei diritti del

lavoratore subordinato.

Sarebbe riduttivo, peraltro, pensare che tale posizione fosse soltanto il riflesso

delle obiettive limitazioni che, prima della “rivoluzione” innescata dalla scoperta del

danno biologico, e culminata (per ora) nella rivisitazione “costituzionale” dell’art. 205914,

affliggevano il risarcimento del danno non patrimoniale.

L’estraneità genetica del diritto del lavoro alla tecnica risarcitoria aveva, infatti,

una scaturigine più profonda, da tempo messa in luce dalla dottrina più avvertita15, e

che non era che la proiezione delle specifiche modalità protettive della disciplina.

Il diritto del lavoro è stato, da sempre, un diritto votato alla limitazione

dell’autonomia negoziale, ivi inclusi gli atti datoriali costituenti esercizio del potere

(rectius, di diritti potestativi16) riconosciuto(i) al datore di lavoro come effetto ex lege del

10 In tal senso, ed anche per un lucido riepilogo critico, Giubboni 2005a, 33 ss. Sulla contrapposta tesi (da cui dissente Giubboni 2005a, 43 ss.) per cui il principio del rischio professionale sarebbe un “falso storico”, la cui responsabilità risalirebbe a Carnelutti, v. Castronovo 1997, 411 ss. Per un punto di vista tendenzialmente critico sulle valenze “pacificatrici” della legge n. 80/1898, e sullo snaturamento del principio del rischio professionale, che ne è derivato, v. anche Gaeta 1986, 139 ss. Sulla storia del principio in discorso, v. Balandi 1976. Per una contestualizzazione storica, v. Castelvetri 1994, 95 ss. 11 Su questo insiste particolarmente Castronovo 1997, 406 ss. 12 Sull’evoluzione della responsabilità civile fra diritto comune e diritto speciale, e in particolare sul sostanziale riassorbimento della regola dell’esonero, ivi inclusa l’azione di regresso dell’Inail, v. Giubboni 2005b. 13 Cfr. Gaeta 1986, 25 ss. 14 V. infra, § 3. 15 V., per tutti, la sofisticata disamina di Ghera 1979. Per un’analisi più recente sulle tecniche di tutela “lavoristiche”, con diversi punti di coincidenza con le riflessioni presentate nel testo, v. Napoli 2005. Per riferimenti specifici sulla nullità per violazione di norme imperative, v. Albanese 2003. 16 Per tale distinzione, v. Cerri 1990.

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contratto di lavoro subordinato17 (un potere che è, tuttavia, anche elemento di

fattispecie18).

Tali limiti, veicolati da norme (legali e collettive) dotate, in via generale,

dell’attributo dell’imperatività e dell’inderogabilità19, hanno storicamente condizionato le

scelte della disciplina in ordine alle tecniche sanzionatorie, sbilanciandole sul versante

della nullità, che è un tipo di rimedio contro l’illecito negoziale, il cui presupposto di

operatività non è la trasgressione di un obbligo, bensì la mera difformità di un dato atto o

patto dal modello prefigurato dalla fonte superiore20.

La nullità è prodromica, a propria volta, al ristoro dei danni arrecati dall’atto o

patto illegittimo, in quanto il “riallineamento” autoritativo del corso del rapporto al

prototipo normativo, effetto della declaratoria di nullità, apre la strada all’esperimento,

da parte del lavoratore, di consequenziali azioni di (pur tardivo) adempimento, miranti a

porre nel nulla i pregiudizi patiti. Come si è osservato, “si può quindi parlare di

reintegrazione dei diritti primari, anziché di risarcimento, specifico o per equivalente,

dell’interesse leso dall’inadempimento del datore di lavoro”21.

Ma tanto può darsi, per l’appunto, soltanto nell’ipotesi in cui l’atto o il patto poi

dichiarato nullo, o annullato, sia stato il mezzo col quale il datore di lavoro ha tentato di

eludere l’adempimento di un obbligo a contenuto patrimoniale, nascente dal contratto

(un inadempimento che può anche verificarsi, peraltro, “allo stato puro”). Così anche

nell’azione ex art. 18 St.lav., riconducibile al modello di cui agli artt. 1218 e 1453 c.c.22,

con in più la tensione all’esecuzione in forma specifica per il correlato obbligo di facere23.

Invece, qualora difetti un inadempimento sottostante, le conseguenze

dell’invalidazione si esauriscono (se ne troveranno esempi nella disamina che seguirà)

nella declaratoria di radicale inefficacia dell’atto illegittimo.

E’ appunto per dare più forza di impatto a tale tutela, nella sua proiezione verso il

futuro (oltre che, con uno sguardo retrospettivo, al fine della rimozione materiale degli

effetti), che un ordinamento lavoristico ormai maturo ha ritenuto necessario dotarsi, a

17 Sul tema dei limiti ai poteri del datore di lavoro v., in generale, Persiani 1995. 18 V., da ultimo, Marazza 2001, spec. 33 ss. 19 V., classicamente, De Luca Tamajo 1976. 20 V. Ghera 1979, 310 ss. (e retro, 306-307, per le essenziali premesse dogmatiche). 21 V. Ghera 1979, 317. 22 V. Pagni 2004, 91 ss., qui 95-96. La configurazione della responsabilità del datore che ha licenziato illegittimamente come responsabilità per inadempimento, con le relative conseguenze, è ormai comune nella giurisprudenza: nel senso della persistente proponibilità dell’azione risarcitoria ex art. 1218, sempre che ne ricorrano i presupposti, anche quando il lavoratore è ormai decaduto dall’impugnativa, v. Cass. 2 marzo 1999 n. 1757, LG, 1999,825 ss., con commento di Pizzoferrato. 23 Sul principio di atipicità della tutela specifica, v. la disamina trasversale di Pagni 2004, spec. 85 ss., per l’analisi del regime del licenziamento illegittimo (per una ripresa, focalizzata sull’ambito lavoristico, cfr. anche Pagni 2005). Per un richiamo alla priorità della tutela specifica, nell’ambito della pronuncia che ha definitivamente imputato al datore di lavoro l’onere di provare l’inesistenza del requisito dimensionale ex art. 18 St.lav., v., con una motivazione di ampio respiro sistematico, Cass., Sez. un., 10 gennaio 2006 n. 141.

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partire dall’art. 28 St. lav. 24 (poi imitato, come si vedrà, dalla normativa

antidiscriminatoria25),di pur circoscritte misure inibitorie, che hanno arricchito

l’apparato sanzionatorio, con una ricerca di effettività, tutta interna al micro-sistema

lavoristico26.

Il bilancio risultante, in punto di efficienza dei mezzi di tutela, era alquanto

discontinuo: soddisfacente per la tutela delle posizioni soggettive di natura patrimoniale;

buono per la possibilità di vedere eliminati atti nulli o inibiti pro futuro comportamenti

illegittimi, gli uni e gli altri lesivi di interessi personali, nonché di vedere rimossi ex post ,

purché non ancora esauriti, gli effetti materiali dei medesimi; ma insoddisfacente per il

ristoro dei pregiudizi personali ormai verificatisi, circa i quali l’ordinamento, limitandosi

al “riallineamento”27, rinunciava di fatto ad apprestare rimedi specifici.

Il paradosso si manifestava, qui, in modo vistoso: un diritto votato alla persona,

che, rincorrendo l’illusione di “battere sul tempo” tutte le possibili degenerazioni

patologiche del rapporto, sino ad affannarsi a riportare indietro l’orologio all’istante

antecedente all’illecito, lasciava prive di risposta (per quanto insoddisfacente potesse

essere28) proprio le compromissioni dei beni personali, finendo sbilanciato sul versante

della patrimonialità; e poco consolando leggere quasi ad ogni pagina che i diritti

“patrimoniali” del lavoratore hanno anche una valenza “personale”29.

All’origine della latitanza della tutela risarcitoria v’erano, quindi, risalenti fattori di

diritto speciale, che sono stati anche all’origine della latitanza della tiepida partecipazione

della cultura lavoristica ai “lavori in corso” nel campo del danno non patrimoniale di

diritto comune: giacché la tutela alla quale si tentava di facilitare l’accesso era proprio

quella risarcitoria, che i lavoristi insistevano a snobbare, forse anche per quella sottile

antipatia verso il valore di scambio, che è tanta parte del loro DNA. E, si sa, la

responsabilità civile è anche una grande “commedia” umana30, nella quale è vano, e

soprattutto ingenuo, ricercare purezze assolute.

Così, nella koinè lavoristica, il risarcimento ha finito con l’essere ingiustamente

accomunato, in un unico giudizio liquidatorio, alle vituperate “monetizzazioni”; pur

24 In argomento v., in generale, Treu 1974, e spec. 127-128: “In particolare, rileva lo spostamento d’accento della disciplina dal risarcimento del danno, elemento tipico dell’illecito civile e giustificazione fondamentale del principio generale della colpa,all’effettivo ripristino dello stato di fatto alterato dalla condotta lesiva dell’imprenditore”; sì che gli effetti da rimuovere non sono tutti quelli che si sono verificati nella sfera patrimoniale del soggetto leso, ma soltanto quelli che, se mantenuti, realizzerebbero un persistente attentato ai diritti sindacali protetti. 25 V. infra, § 6. 26 Nel senso di Irti 1989, 66 ss. 27 Cfr. Pedrazzoli 1995, 25. 28 Sui profili e problemi funzionali del risarcimento del danno non patrimoniale - non affrontati, al di là delle intersezioni tematiche, nel saggio -, v. Salvi 1989, 1099 ss. 29 Idea che è all’origine, come è noto, della relativa facilità di accesso, da parte del lavoratore, alla tutela cautelare d’urgenza. 30 Così Castronovo 1997, 165.

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essendo, queste ultime, effettivamente praticate, e finanche in forme giuridicamente

incongrue (come nel caso, paradigmatico, dell’indennità sostitutiva di ferie non godute)31,

ma soltanto a livello collettivo32.

In ogni caso, quale che ne fosse la matrice culturale, il senno di poi ci dice che la

singolare e instabile mistura fra una patrimonialità “personalizzata” e un lavoratore “in

carne ed ossa”, del quale la metafisica dell’interesse collettivo non riusciva sempre a

consolare la “solitudine” esistenziale, ha potuto reggere soltanto in virtù di una

precondizione esterna : la focalizzazione dell’ordinamento civile sul risarcimento dei soli

danni patrimoniali.

Sì che, quando il vento generale ha cambiato di direzione, cominciando a soffiare a

favore del danno non patrimoniale, si è messo inesorabilmente in moto, anche nel micro-

sistema lavoristico, un complesso processo di “riscoperta” della responsabilità civile, che

– va chiosato sin d’ora - soltanto la fedeltà ai più datati prototipi antropologici del diritto

del lavoro (quelli di un lavoratore concepito come alternativa quasi virginale all’homo

oeconomicus, e, del quale, come logico sequitur , dovrebbero essere altri e più avvertiti a

selezionare le preferenze) potrebbe indurre a screditare – in blocco - come fenomeno “di

decadenza”, o deriva “nordamericana”33.

Pare plausibile, invece, l’ipotesi che all’origine di tale evoluzione vi siano ragioni

strutturali, che hanno a che fare con un’intrinseca dinamica espansiva della logica

protettiva della materia, ma che sono pure, ad un tempo, il riflesso di tendenze macro-

sistematiche di lungo periodo.

3. Dal diritto al danno (e ritorno).

Della profonda trasformazione che il sistema della responsabilità civile ha

attraversato nell’ultimo ventennio, non serve, ai nostri fini, ricostruire da vicino i

passaggi. Ma basti il ricordo delle prime, remote, inquietudini, addensatesi attorno a

categorie come quella di danno “alla vita di relazione”34, spia di una diffusa aspirazione

all’ampliamento dell’area dei danni risarcibili, a consentirci di isolare un primo assunto.

31 Sui meccanismi di compensazione diffusi nel diritto del lavoro, evocando la categoria degli “atti leciti dannosi” v. Pedrazzoli 1995, 23 (e di rimando Franzoni 1993, 114 ss.). Ma l’indennità per ferie non godute – su cui v. anche infra, § 12 - doveva ritenersi probabilmente illecita, per contrasto con l’art. 36, comma 3, Cost., già prima dell’art. 10 del d.lgs. n. 66/2003; e, in ogni caso, è forse più appropriato parlare di dispositivi di “indennizzo”. 32 Ove sono più pericolose, anche perché sovente poco trasparenti: con riguardo alla tutela dell’ambiente di lavoro, v. i rilievi critici di Montuschi 1986, 165 ss. 33 Il che non significa abbassare la guardia sugli usi strumentali che, dei risarcimenti, sono sempre stati, sono, e sempre saranno fatti (ciò ha a che fare, soprattutto, sul controllo delle tecniche di quantificazione): ma – sarà solo una questione di parole -, da liberale anti-paternalista, non ritengo che possa parlarsi, con riferimento alle nuove propensioni risarcitorie, di “auto-mercificazione” della persona. E’ pertinente, nondimeno, quanto osservato da Mazzotta 2004,440, sul rischio di perdita della capacità di orientamento del diritto nei confronti dei consociati. 34 V. per tutti le precorritrici intuizioni di Scognamiglio 1957, spec. 286-287 (ove fini rilievi sul danno “alla vita di relazione”), e 292-293, con la proposta di assegnare piena rilevanza giuridica, in luogo dell’equivoco danno “non

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Il dibattito sui danni risarcibili è stato anche, e forse soprattutto (quanto meno nel

diritto civile), un dibattito sui diritti. E’ ovvio, infatti, che i concetti di diritto, e poi a

seguire di illecito, e poi ancora di danno, appartengano all’acqua dello stesso fiume.

Diritti “vecchi”, o comunque ormai riconosciuti (pur non senza fatica35), come il

diritto alla salute, ma la lesione dei quali è stata di fatto rimossa, sin quando la

giurisprudenza36 non ha superato il dogma per cui le possibilità di risarcimento dovevano

comunque passare dalla porta stretta, oltre che storta37, del danno patrimoniale38. Il

fiume non riusciva a scorrere, con tutta la sua portata, verso la foce.

Ma altresì, risalendo la corrente all’inverso, diritti “nuovi”, riconosciuti proprio nel

momento di risarcirli, per quanto asserito dalla teorica dottrinale, e poi esperito dalla

prassi giurisprudenziale (anche lavoristica39), del “danno esistenziale”, che ha incarnato il

tentativo più agguerrito di superare la concezione “bipolare”, inseguendo ad un tempo

un’idea di tutela “a tutto tondo” della persona, nell’a completa gamma delle prerogative e

possibilità esistenziali40.

Come è noto, il dibattito fra gli “esistenzialisti” e i difensori del sistema “bipolare”,

più o meno coretto, è stato composto dalle pronunce della Corte di Cassazione41, poi

patrimoniale”, al “danno personale”: non occorre, scriveva l’Autore, “che un siffatto danno si manifesti in specifiche conseguenze di ordine patrimoniale; si assume invece che il danno si realizza e si estrinseca proprio, ed innanzi tutto, nella lesione dei beni della persona e come tale già deve essere riparato”. E ove si badi poi al fatto che i beni allora presi in considerazione erano la vita, la salute, la libertà, l’onore e la riservatezza, si ha il senso quasi toccante di un discorso giuridico e umanistico che risale a ritroso nel tempo. 35 Per il superamento delle vecchie interpretazioni che svuotavano la portata innovativa dell’art. 32 Cost., assegnandogli un rilievo meramente programmatico, e la sottolineatura dello stretto collegamento esistente fra il diritto alla salute e i principi fondamentali della Costituzione, v., per tutti, Mortati 1961. In argomento, v. anche Alpa 1986, e Montuschi 1986. Per la prospettiva privatistica, v. già Busnelli e Breccia 1978 e 1979. 36 Per la giurisprudenza costituzionale v. soprattutto, in successione, Corte Cost. 26 luglio 1979 nn.87 e 88, FI, 1979, I, 2542-3; Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 184, FI, 1986,I,2033; Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372, FI, 1994,I,3307. Per quella ordinaria, su tutte, Cass., Sez. un., 8 ottobre 1979 n. 3172, FI, 1979,I,2304. Per le prime recezioni da parte della giurisprudenza lavoristica, v. Cass. 26 novembre 1984 n. 6134, RGL, 1985,II, 689, con nota di Poletti, e Cass. 25 maggio 1985 n. 3212, RGL, 1986,II, 199, con nota di Poletti. Per un completo riepilogo del dibattito, v. Busnelli 2001. Nella dottrina lavoristica, v. Zoppoli 2001; Pedrazzoli 2004, spec. XX ss.. 37 Per le iniquità che ne derivavano: per un viaggio nella memoria, nel vecchio mondo del danno alla persona, v. Gentile 1962. 38 Come è noto, pur essendo stata poi superata, è stata sostenuta anche la tesi per cui il danno biologico doveva essere ricondotto al danno patrimoniale, sotto l’ombrello dell’art. 2043: ove si è rivelato che ad essere messa in questione dal dibattito era la distinzione stessa fra i concetti di “patrimoniale” e “non patrimoniale”, in quanto la suddetta proposta presupponeva una lettura restrittiva del concetto di danno non patrimoniale, inteso come danno insuscettibile di un valutazione in denaro, ed una estensiva di quello di danno patrimoniale, inteso come danno suscettibile di una valutazione in denaro, anche se derivante dalla lesione di un interesse non patrimoniale (cfr. Busnelli 2001, ad es., 3 ss.). Per la piena riconduzione anche del danno biologico all’art. 2059, piuttosto che all’art. 2043, v. invece l’obiter dictum di Cass. n. 8828/2003, su cui più ampiamente infra. 39 Sulla vicenda del mobbing, v. infra, § 5. 40 V., per tutti, Cendon 2001; Cendon-Ziviz 2002; Monateri 1999 e 2000. In giurisprudenza, v. Cass. 7 giugno 2000 n. 7713. Per una critica, ma non decisiva, al danno esistenziale (del quale i critici più decisi, come è noto, sono stati gli appartenenti a quella stessa scuola che aveva scoperto il danno biologico, che però – al di là di allarmarci con la, effettivamente sconvolgente, maxitabella cendoniana dei “nuovi danni” - non sono mai riusciti a spiegare in modo risolutivo perché ciò che era stato possibile per il danno biologico, non dovesse esserlo per altre voci di danno), v. Ponzanelli 2003a. 41 V. Cass., sez.III, 31 maggio 2003 n. 8828 e 31 maggio 2003 n. 8827, FI, 2003,I, 2272-3; per un commento alle quali, e per completi riferimenti, v. Navarretta 2003b. Cfr. anche, adesivamente, Mazzamuto 2004a, 36 ss.

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“benedette” dalla Corte Costituzionale42, che hanno potentemente rilanciato la bipolarità,

ma sul presupposto di una rilettura dell’art. 2059 43, e dunque di una concezione

allargata di danno non patrimoniale, non più circoscritto al danno morale soggettivo44,

ma inclusivo anche del danno biologico45 e del danno da lesione di interessi

costituzionalmente rilevanti46.

Sarebbe quanto meno azzardato, peraltro, ritenere che il “ritorno all’art. 2059”

abbia steso un velo di pace perpetua su uno dei dibattiti più accesi che la civilistica

ricordi.

Un’incertezza di non poco momento permane, in particolare, con riguardo alla

ricostruzione degli illeciti in discorso. Posto che la Cassazione non pare spingersi ad

attribuire all’art. 2059 la natura di norma di fattispecie, configurandola pur sempre come

norma di mera selezione dell’accesso alla tutela risarcitoria, restano da individuare le

norme primarie, la violazione delle quali, eventualmente per il tramite della fattispecie

generale di illecito di cui all’art. 204347, è suscettiva di produrre conseguenze

risarcitorie48.

Nella giurisprudenza in esame si lascia cogliere, al riguardo, un’oscillazione fra

due percorsi argomentativi.

Il primo è di tipo strettamente esegetico: premesso che l’art. 2059 limita il

risarcimento del danno non patrimoniale alle ipotesi previste dalla legge, ebbene, si

afferma, la prima legge è ovviamente la Costituzione, per cui la lesione degli interessi

della persona costituzionalmente protetti (ed a loro volta assurti, in virtù di tale

protezione, a diritti), consente tale risarcimento49.

42 V. Corte Cost. 11 luglio 2003 n. 233, FI, 2003,I, 2201, su cui Navarretta 2003a, e Scalisi 2004. In argomento, v. anche Franzoni 2003. 43 Sulla quale v. già le aperture di Ponzanelli 2003b, proprio al fine di bloccare l’avanzata del danno esistenziale. Sulla “detronizzazione” dell’art. 2043, cfr. Pedrazzoli 2004, spec. XXIII ss. 44 Svincolato, a sua volta, dalla commissione di un reato: v. Cass. n. 8827/2003, cit. 45 In realtà, a ben vedere, la asserita tripartizione del nuovo danno non patrimoniale è una bipartizione, giacché il danno biologico non è altro che la specie più conosciuta di danno da lesione di interessi costituzionalmente rilevanti. 46 V. in specie Cass. n. 8827/2003, cit. 47 Secondo Cass. n. 8828/2003, cit., “il risarcimento del danno non patrimoniale postula ... la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale delineato dall’art. 2043…L’art. 2059 non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge (anche costituzionale, n.d.a.), anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a quelli patrimoniali nel caso di congiunta lesione di interessi di natura economica e non economica”. Cfr. però, sul punto, Navarretta 2003b. 48 Per condivisibili considerazioni sulla responsabilità che ne viene all’interprete, a proposito della selezione dei beni, da limitarsi ai diritti inviolabili (concetto più ristretto di quello di “ingiustizia” del danno ex art. 2043), del bilanciamento, e della soglia di offesa, v. Navarretta 2003b. 49 V. Cass. n. 8827/2003, cit.: “D’altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili attinenti alla persona non aventi natura economica implicitamente,ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.”

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Ove, a dimenticarsi per un momento del superiore rango della Costituzione nel

sistema, ci troveremmo di fronte ad un’innovazione esegetica. Infatti, che si “interpreti” il

rinvio di tale disposizione ad altre fonti legislative come postulante, non necessariamente

un rinvio a norme secondarie dalle quali sia esplicitamente prevista la risarcibilità dei

danni non patrimoniali (che pure, ormai, sono numerose), bensì anche un rimando a

norme primarie, come quelle fondative di diritti a livello costituzionale, introduce un

ulteriore varco interpretativo. In esso potrebbe infiltrarsi il principio per cui, onde

ritenere soddisfatta la condizione richiesta dall’art. 2059, è sufficiente la mera esistenza

di norme legislative primarie, qualora poste (anche se non in via necessariamente

esclusiva) a protezione di beni di natura non patrimoniale, sì da rendere ancora più

continua la catena logico-giuridica che dal bene, passando per il diritto e l’illecito, può

condurre sino al danno50.

Il secondo e parallelo (nonché, alla fine, dotato di vera forza motrice51) percorso

argomentativo52 si gioca, invece, sulla primazia delle norme costituzionali, che induce a

ritenere illegittima una lettura dell’art. 2059, che non contempli, fra le ipotesi di possibile

risarcimento del danno non patrimoniale, quella della lesione di beni costituzionalmente

protetti53.

Si trascende, in tal modo, il piano esegetico, per proiettarsi decisamente in una

prospettiva in cui, oscillando fra il fare ormai a meno del tramite dell’art. 2043, e una

lettura di tale articolo combinata con le norme costituzionali54, i diritti da esse attribuiti

sono “tutelabili”, giacché dette norme rilevano direttamente nei rapporti interprivati55.

Col quale richiamo al compimento della Drittwirkung si completa il percorso di “ritorno”

dal danno al diritto; e non è un caso che la sentenze in discorso abbiano definitivamente

50 Lo spunto sarà ripreso infra, in questo stesso paragrafo. 51 Cfr., mi sembra, Navarretta 2003b. 52 Desumibile anche dalle numerose interpretative di rigetto che hanno costellato il percorso della giurisprudenza costituzionale sull’art. 2059, delle quali l’ultimo esempio, e per quanto da un’angolatura particolare, è appunto Corte Cost. n. 233/2003, cit. 53 V. Cass. n. 8828/2003, cit.: “Una lettura della norma (l’art. 2059, n.d.a.) costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, perché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi”. 54 Il che sdrammatizzerebbe la contrapposizione fra i fautori dell’art. 2059 e quelli dell’art. 2043 (inteso come prototipo di illecito), riducendola al dissenso sulla casella giuridica in cui collocare il danno non patrimoniale, se nell’art. 2059 (“svolta” del 2003) o nell’art. 2043 (indirizzo già sostenuto, in dottrina, dalla scuola “pisana”, e recepito da Corte Cost. n. 184/1986, cit., con la combinazione fra art. 2043 e art. 32 Cost., poi riproposta, rispetto all’art. 2 Cost., da Cass. n. 7713 del 2000, cit.). Infatti, entrambi gli orientamenti sembrano accomunati dall’accettazione del principio del risarcimento del danno non patrimoniale, e dal riferimento alla Costituzione come criterio di selezione dei beni, la cui lesione è risarcibile. 55 La letteratura in argomento è,notoriamente, sterminata, tanto da indurci a ripiegare su un mero rimando alle recenti variazioni “lavoristiche” di Aimo 2003, 13 ss., Nogler 2002 e 2006, e Tursi 2003. Definisce ancora “irrisolta” la questione dogmatica, Mazzotta 2004, 445.

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ribadito il rigetto dell’equivoca categoria del danno-evento56, inteso come disvalore

immanente alla violazione di un diritto57, in virtù della quale si era predicato del danno

ciò che (l’antigiuridicità) può essere predicato soltanto dell’illecito58.

Ma col ritorno al diritto si ripropongono, altresì, tutti gli interrogativi dogmatici che

da sempre gravano sulla categoria dei diritti della persona (o della personalità59), sulla

tradizionale elaborazione civilistica della quale60 la Costituzione ha agito come un potente

additivo61, lasciando però l’interprete in una condizione di rimarchevole solitudine, di

fronte alla difficoltà di stabilire i criteri atti a determinare il valore giuridico della

persona62.

Ove non si pone soltanto la questione, pur preliminare e tutt’altro che agevole, di

un’appagante ricognizione dei diritti costituzionali della persona e della loro gerarchia.63

Gli è, più al fondo, che lo stesso medium normativo (costituzionale o ordinario che sia)

tende a proporsi, nella materia, con modalità peculiari, che fuoriescono dallo schema

fatto-effetto, sul quale si basa il consueto modello di norma giuridica64, essendo il fatto,

qui, la mera esistenza della persona.

Ne segue che tutte le tensioni problematiche si scaricano sul piano

dell’imputazione di valore, ove però l’ordinamento giuridico, quasi “intimidito” dalla

difficoltà di fissare quel valore, così cangiante come valore sociale, una volta per tutte,

sceglie di solito di limitarsi all’impiego di espressioni aperte e indeterminate (norme di

principio, clausole generali, concetti-valvola, etc.), che finiscono col “calamitare” i più

indifferenziati apporti esterni, causando così incertezza e solitudine interpretativa,

vieppiù accresciute dalla difficoltà di stabilire chiari rapporti di priorità fra i valori65.

Come è noto, uno dei più critici punti di incontro fra diritto e società è

rappresentato dalla norma-stipite proclamata dall’art. 2 Cost., della quale si tende a

predicare il carattere tendenzialmente “aperto”, o comunque ampiamente

56 Peraltro, senza affatto risolvere (come non potrà risolverlo, probabilmente, neppure Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572, che ha confermato il rigetto di tale categoria a proposito del danno “professionale” – v. infra, § 11 -, oltre che, ancora, “esistenziale”) il quasi irresolubile dilemma di come rendere accessibile la prova del danno-conseguenza, ove l’illecito abbia investito un bene (“invisibile”) della persona. 57 Per la quale v. Corte Cost. n. 184/1986, cit. Per un incisivo riepilogo, v. Pedrazzoli 2004, XXIV ss. 58 Riproducendo, in certo senso, l’errore di riferire l’”ingiustizia” all’evento di danno, piuttosto che al “fatto” (o all’”atto”) lesivo,nell’art. 2043. Per il rilievo che “danno ingiusto” è sinonimo di lesione di un interesse meritevole di tutela, v. Franzoni 1993, 103. 59 Sul senso di tale alternativa lessicale, v. infra, § 12. 60 V. tradizionalmente De Cupis 1982. 61 Come esempio di un più moderno approccio al tema, in un orizzonte costituzionale, v. Rescigno 1990. 62 V. , nell’ambito di una brillante trattazione teorica del tema, Messinetti 1983. 63 V. Mazzotta 2004, 445. 64 In quanto basato di solito sul modello del diritto soggettivo, concepito come potere di azione in vista della realizzazione di un interesse: v. ancora Messinetti 1983, 359-360. 65 Ove uno dei più importanti congegni normativi, inventati per “procedimentalizzare” sul piano istituzionale l’individuazione di tali nessi di priorità, attorno al concetto-faro di “contenuto essenziale” del diritto di matrice costituzionale, è indubbiamente la legge n. 146 del 1990.

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interpretabile66, e della quale fioriscono, infatti, le utilizzazioni dirette67. Non meno

“esplosivo” (con riguardo all’incidenza potenzialmente dannosa delle attività economiche

su tutti i cittadini, e in primis sui lavoratori) è ormai il precetto dell’art. 41, comma 268,

ove un tempo si leggeva una riserva di legge implicita, ed il cui riferimento alla “dignità

umana” può anch’esso aspirare, oggi, all’alta classifica dei richiami giurisprudenziali69.

Ma pressoché tutte le norme costituzionali “di principio” , non soltanto tollerano,

bensì richiedono, letture ampiamente “evolutive”, rivolte a garantire il costante

adeguamento del diritto ai mutevoli equilibri delle società pluraliste contemporanee70.

Sì che, pur non potendosi ancora dire sino a che punto il “nuovo” danno non

patrimoniale riuscirà a catalizzare tutte le svariate tipologie di pregiudizi già fatti valere

dalla giurisprudenza tramite la categoria del danno esistenziale o altre equipollenti, non

sembra azzardato prevedere che, grazie alle risorse dell’interpretazione, nella nuova

sistemazione concettuale riusciranno a trovare ospitalità le situazioni più rilevanti di

pregiudizio alle chance di vita della vittima dell’illecito; a cominciare dall’interesse

all’intangibilità degli affetti familiari ed all’inviolabilità della libera e piena esplicazione

della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla

famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)71.

Se l’ipotesi sarà confermata, vorrà dire che, fra le due “squadre” che hanno

entrambe cantato vittoria di fronte alla svolta del 200372,i più titolati a farlo erano forse

gli “esistenzialisti”. Più che non “esistere” più73, infatti, il danno esistenziale avrebbe

soprattutto cambiato nome, tanto da dare all’operazione una coloritura quasi

“gattopardesca” (e, come tale, non priva di fascino). Alla luce di ciò, non stupisce troppo

che nella giurisprudenza della Sezione lavoro della Cassazione (la quale non ha brillato,

nella circostanza, per capacità di dialogo con la III Sezione civile) il danno esistenziale sia

66 Per la concezione dell’art. 2 come clausola aperta, v. Barbera 1975, 84 ss.; per quella che ammette, al massimo, interpretazioni ampie o estensive dei diritti di libertà espressamente enunciati, ma restando nell’esclusivo ambito della Costituzione, v. Baldassarre 1989, e Barile 1984, 53 ss. Per un prezioso studio sul tema, v. poi Grossi 1972, e, per approfondimenti teorico-filosofici sui diritti fondamentali (termine il cui impiego tende a prevalere sul più giusnaturalistico “inviolabili”), Ferrajoli 2001; Peces-Barba 1993. Per un quadro generale, v. Caretti 2002. Nella dottrina lavoristica, per recenti riprese, v. Aimo 2003, 1 ss., e soprattutto Avio 2001, 11 ss. 67 Sin da Cass. n. 7713 del 2000, cit. 68 Sui limiti costituzionali alla libertà di iniziativa economica privata, tali da rendere impossibile l’attribuzione alla medesima della portata di diritto fondamentale, v. classicamente Baldassarre 1971, spec. 599 ss. Sulla consonanza fra art. 2 e art. 41 cpv., v. Messinetti 1983, 382. 69 Per la rigorosa dimostrazione dell’erroneità della risalente tesi di cui al testo, v. già Baldassarre 1971, 606-607. 70 E’ d’obbligo il rinvio a Zagrebelsky 1992, 147 ss. 71 Cfr. Cass. n. 8828/2003, cit., in un caso relativo al danno non patrimoniale da uccisione di congiunto. 72 Per i “bipolaristi”, v. Navarretta 2003a; per gli esistenzialisti, Ziviz 2003. 73 Così, esplicitamente, Cass. , sez. III, 15 luglio 2005 n. 15022.

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stato riproposto74, fra l’altro con una qualche sovrapposizione concettuale fra il profilo

del danno e quello del diritto75.

Con questo, non si intende escludere la probabilità, e pure l’auspicio (ove si

incarna, forse, il senso pratico della riconversione interpretativa in commento), che la

chiamata in campo della Costituzione possa avere un positivo effetto di restraint76,

rispetto all’abbrivio bagatellare che aveva preso, negli ultimi tempi, il danno

esistenziale77.

Dopo di che, per cominciare a piegare l’analisi verso il diritto del lavoro, sarà

anzitutto facile notare come entrambi i percorsi interpretativi che si è ritenuto di scorgere

nella ricostruzione della Cassazione presentino, per la materia, una pertinenza

particolare. La disciplina è infatti infarcita, ovviamente più di quella di ogni altro

contratto tipico, di norme legislative rivolte alla protezione di beni personali del

lavoratore; e, nella misura in cui esse vengono considerate tutte “coperte” dal capiente

ombrello costituzionale, il richiamo alla fonte superiore è piuttosto un rafforzativo. Là

dove non riesca ad arrivare il diritto primario può soccorrere, infine, la Drittwirkung, o

“linea diretta” con la Carta.

Quale che sia l’angolatura interpretativa prescelta, pertanto, si può comprendere

perché le sollecitazioni della giurisprudenza civile siano state raccolte quasi “in tempo

reale”, e con un certo entusiasmo “elettivo”, da quella lavoristica, che non dispone (anche

per le ragioni già evidenziate78) di un “proprio” sistema di risarcimento del danno, e che

non aveva mai “lavorato” troppo sulla specificità del danno contrattuale79, sì da ritenerlo

proiettabile anche sul versante non patrimoniale, come riflesso della omologa natura dei

beni protetti; operando, insomma, come se l’art. 2059 avesse una valenza generale.

Sì che, quando hanno cominciato a giungere segnali diversi, la giurisprudenza non

si è soffermata troppo a dubitare della possibilità di trasporre, in campo contrattuale80,

principi extra-contrattuali81. Anzi, nel recente intervento delle Sezioni unite essa è

74 V. Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572. 75 Il “danno esistenziale” è stata infatti costruito, come locuzione, a immagine e somiglianza del “danno biologico” – formula sintetica per designare il danno da lesione del bene salute, protetto dall’art. 32 Cost. -, ma senza un’identificazione altrettanto affidabile della posizione soggettiva primaria. 76 Cfr. Cass. n. 8827/2003, cit. 77 Così Pedrazzoli 2004, XXVI-XXVII. 78 V. retro, § 2. 79 V., ad es., Di Majo 2005, 253 ss. 80 Essendo il problema sdrammatizzato, peraltro, dalla corrente adesione della giurisprudenza alla tesi del possibile cumulo delle azioni di responsabilità, in specie nell’area dell’art. 2087: v. a più riprese infra, nel testo. 81 V. infatti Cass. 26 maggio 2004 n. 10157, D&L, 2004, 343, in tema di risarcimento del danno professionale: “Questi principi…possono essere agevolmente applicati anche in tema di inadempimento contrattuale, per la liquidazione dei danni conseguenti all’accertata responsabilità contrattuale del datore di lavoro.” Nel senso che l’art. 2059 non poteva comunque esercitare un’incidenza paralizzante, nei casi in cui il dovere di protezione della persona fosse inserito in un contratto, v. Cacace 2003, 161.

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persino andata oltre, adombrando un’autosufficienza dell’art. 2087 ai fini fondativi della

responsabilità de qua82.

Sospesa com’è fra la tradizione dei diritti e la fluidità del nuovo sistema dei danni,

la delineazione di uno statuto giuridico della persona nell’epoca del danno alla persona si

presenta, dunque, difficile e problematica. Essa può essere tentata a condizione di

disporre di un materiale analitico omogeneo, teso alla ricerca di ciò che è comune alle

varie fattispecie di illecito personale e alla valorizzazione dei nessi di sistema, a

cominciare dal coordinamento dei vari diritti con il sistema della responsabilità: è

l’indagine cui ci si accinge a dedicarsi.

L’analisi presuppone una classificazione. Quella presentata nelle pagine che

seguono, circoscritta alle situazioni giuridiche comunemente considerate83 (ma senza

escludere, con ciò, ulteriori sviluppi “creativi” discendenti dalla Costituzione), si incentra

sui beni protetti, onde ordinare attorno ad essi i diritti che, di quella protezione, sono lo

strumento.

Come ogni classificazione, anche questa potrà suonare, talora, artificiale, sia

perché tale è, entro certi limiti, la distinzione fra i diversi beni della vita, molti dei quali

non sono che specie del portante ed inclusivo concetto di “dignità” umana84; sia perché

le fattispecie che saranno esaminate (oltre a presiedere, spesso, alla protezione di più

d’uno dei beni in discorso) rivestono forme giuridiche anche molto diverse, ciascuna delle

quali propone propri problemi di inquadramento85.

L’ostinazione classificatoria non deve far dimenticare, peraltro, che la realtà non è

solita appassionarsi troppo alle distinzioni, tanto da rendere normale, nelle aule di

giustizia, la dimensione del concorso – in relazione ad un medesimo fatto storico – fra più

illeciti, e quindi, potenzialmente, fra più voci di danno86.

4. Salute e sicurezza.

82 V. Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572. 83 Essa aspira, come tale, alla completezza, ma senza pretendersi, con ciò (anche per quanto concerne i diritti positivamente riconosciuti), esaustiva: ne è rimasto trascurato, ad esempio, il campo della tutela delle creazioni intellettuali nel rapporto di lavoro, con particolare riguardo al diritto morale d’autore. In argomento, v. le complete ricognizioni di Martone 2002, e Pellacani 1999, spec. 185 ss. 84 Inteso (v. ad es. Rescigno 1990, 3-4) come riassuntivo delle attribuzioni di valore dell’essere umano : non è un caso che nella Carta europea dei diritti fondamentali del 7 dicembre 2000, è stata giustamente anteposta (art. 1) allo stesso diritto alla vita. 85 E’ il caso, ad esempio, delle molteplici proiezioni della normativa a protezione della salute e della sicurezza, sulle quali v. infra, § 4. 86 Del fenomeno segnalato nel testo, la giurisprudenza (v., ad es., Cass. 23 maggio 2005 n. 6326) è solita fare esperienza nel frequente (e quasi sempre confuso, e concettualmente accavallato) concorso fra illeciti “personali” (esempio paradigmatico: lesione della salute, demansionamento e mobbing), ove ad essere sacrificata è quasi sempre la pulizia concettuale, e in qualche misura anche l’equità risarcitoria. Ma tanto meno pare superfluo il richiamo ad esercitare maggiormente l’arte della distinzione, pur non di gran moda, quanto più si consideri che il danno non patrimoniale è destinato ad avere una crescente risonanza nella prassi giudiziaria, con probabili infiltrazioni anche in un dispositivo sanzionatorio precostituito e “tarato” sui soli danni patrimoniali (oltretutto, nelle piccole imprese, strettamente predeterminati), come quello del licenziamento illegittimo. Per la sollecitazione ad evitare duplicazioni risarcitorie, v. comunque Cass. n. 8827/2003, cit.

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La tutela della sicurezza87 e della salute del lavoratore può legittimamente

aspirare, e in prospettiva storica e in quella più recente dei danni alla persona, ad

un’assoluta primazia nella tematica dei diritti della persona88.

Ai primordi di quel dibattito, si è già avuto modo di accennare, trattando delle

origini stesse della “missione” del diritto del lavoro89. La protezione dell’incolumità fisica

dell’operaio è stato, in effetti, il principale motivo ispiratore di tutta la prima ondata della

legislazione sociale, della quale possiamo considerare un’epitome il R.D.L. n. 692 del

1923, che dettò limiti di ordine pubblico alla durata massima della prestazione

lavorativa90.

Lo sviluppo della legislazione speciale è poi proseguito nel secondo dopoguerra91,

potendo contare anche sul supporto sistematico delle due disposizioni, l’art. 2087 e l’art.

2110, che hanno rappresentato il tramite della penetrazione del valore salute all’interno

della nuova e “unificata” disciplina del rapporto di lavoro subordinato; un valore poi

consacrato dalla Costituzione mediante un fascio coordinato di principi, a cominciare dal

legame, comunemente rilevato dalla dottrina92, fra l’art. 32 e la “sicurezza” ex art. 41,

comma 2.

Siamo di fronte, come si vede, ad una fondamentale bipartizione di ricadute

giuridiche del diritto alla salute nel rapporto di lavoro: si profilano, da un lato, una

pluralità di diritti concernenti le modalità esecutive e temporali della prestazione

lavorativa; dall’altro, il diritto di astenersi, data l’esistenza di condizioni di inabilità

lavorativa determinate da una malattia o da un infortunio occorsi al dipendente93, dal

rendere la prestazione lavorativa94.

87 Concetto assunto qui nella sua tradizionale accezione di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, e dunque in un senso più ristretto di quello proposto dall’interessante lettura di Loi 2000. 88 Alla letteratura già citata, sul rilievo della salute nell’ambito dei diritti della personalità, adde Perlingieri 1982, e Scalisi 1990. 89 V. retro, § 2. 90 Nella prospettiva delle limitazioni all’impiego del lavoro, sono altresì da ricordare le prime leggi a protezione dei minori e delle lavoratrici madri, e la legge n. 370 del 1934, sul riposo domenicale e settimanale. 91 Sono variamente dedicate - o contengono norme variamente dedicate - alla protezione della salute e sicurezza, alla rinfusa: la legge 17 ottobre 1967 n. 977, come modificata dal d.lgs. 4 agosto 1999 n. 345, sul lavoro dei minori; la legge 12 marzo 1999 n. 68, sul lavoro dei disabili; il d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, che ha riordinato la normativa sulle lavoratrici madri; e, last but not least, il d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66, che ha rinnovato e accorpato la disciplina dell’orario e dei riposi. 92 V. Baldassarre 1971, loc.cit. 93 Come interessante esempio di intersezione fra i campi di operatività dell’art. 2087 e dell’art. 2110, si segnala l’ormai costante principio giurisprudenziale, per cui se si accerta che la malattia è stata causata dalla violazione dell’obbligo di protezione (sia fisico che morale) ex art. 2087, anche in relazione alle scelte del datore di lavoro in ordine all’assegnazione delle mansioni, a prescindere dal risarcimento del danno biologico detta malattia non è computabile ai fini del comporto (v. Cass. 23 aprile 2004 n. 7730; Cass. 7 aprile 2003 n. 5413). Tale principio, peraltro, non pare ben coordinato con la nozione di malattia professionale (tale essendo qualificabile la malattia in discorso), nel caso della quale, più che aversi uno scomputo dal comporto, si ha l’applicazione di un particolare regime di comporto, ove contrattualmente previsto. 94 La problematica della malattia, che propone una problematica prospettiva di bilanciamento fra il diritto alla salute e l’interesse datoriale all’adempimento, non sarà qui specificamente affrontata (al di là dei collegamenti con le

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Nel quadro della prima tipologia, che si insinua nel rapporto, in gran parte,

tramite limitazioni imperative alle possibilità di impiego del prestatore, campeggia pur

sempre, per rilievo sistematico (ed al di là dell’ormai vastissima normativa di

“specificazione”), l’obbligo “di sicurezza” previsto dall’art. 208795.

Ma già dire “obbligo” è cominciare il racconto dalla fine. Infatti, malgrado l’idea

dell’esistenza di un dovere contrattuale dell’imprenditore di proteggere l’incolumità del

lavoratore vantasse ormai una certa tradizione96, e l’art. 2087 (a dispetto della sua

collocazione, nel codice, nella sezione dedicata all’imprenditore), si candidasse

naturalmente ad esserne la matura espressione normativa, è accaduto che le medesime

resistenze che, nella prima fase postcostituzionale, si sono frapposte ad un pieno

riconoscimento del diritto alla salute nei rapporti interprivati hanno trovato riscontro in

interpretazioni variamente riduttive del comando contenuto nella disposizione. Forse ha

altresì giocato, in tale direzione, il convincimento, più o meno subliminale, che i problemi

della salute dei lavoratori dovessero pur sempre risolversi nel quadro del meccanismo

assicurativo, con il quale l’art. 2087 non si era minimamente coordinato97.

Peraltro, accanto a posizioni palesemente conservatrici98, almeno una delle tesi

dell’epoca (quella per cui non poteva darsi un obbligo di sicurezza, non essendovi, a

monte, un diritto del lavoratore allo svolgimento effettivo della prestazione di lavoro99) era

la spia di un’oggettiva difficoltà teorica: quella di dove collocare una posizione soggettiva

passiva, a contenuto non patrimoniale, proprio là dove si era abituati a configurare,

esclusivamente, un credito (al facere della prestazione di lavoro), e non un debito.

Poteva soccorrere la categoria dei “doveri (contrattuali) di protezione”, proposta da

Luigi Mengoni traendo argomento dal dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. e dall’art. 1175

c.c., ed anche con uno specifico riferimento all’art. 2087100, e successivamente affinata

da Carlo Castronovo101. Ma anch’essa fu oggetto di forti critiche102: il dovere di protezione

altre ipotesi sospensive, sulle quali infra, § 12), per eccedenza rispetto alla direttrice tematica del saggio: cfr. comunque Del Punta 1992 (e, per un aggiornamento, 2006), e Pandolfo 1991. 95 Sulle valenze personalistiche del quale, v. Grandi 1999, 333-334. 96 Nel senso che la novità dell’art. 2087 è stata quella di operare una piena “contrattualizzazione” della regola già posta dall’art. 3 della legge n. 80/1898, v. Castronovo 1997, 421. Per la dottrina anteriore al codice civile, sull’esistenza di un obbligo (accessorio) di tutela dell’incolumità ed igiene dei lavoratori, v. Greco 1939, 315 ss. 97 Cfr. Castronovo 1997, 421. 98 Come quella che ricavava dalla valenza pubblicistica della normativa in materia la conseguenza per cui la sicurezza costituiva oggetto di un mero interesse legittimo del lavoratore: D’Eufemia 1969, 259. Sul carattere “bifrontale” dell’obbligo di sicurezza, operante contemporaneamente sul piano pubblicistico e privatistico, v. invece, sin dai primi anni ’60, Smuraglia 1974, 58 ss., e spec. 70 e 78; cui adde Smuraglia 1967, spec. 375-376, nel quadro di uno studio ad ampio raggio sulle valenze personalistiche del contratto di lavoro subordinato. Cfr. anche Suppiej 1982, 163-165. 99 V. Pera 1967, 868 ss. Per una critica, v. Montuschi 1986, 61 ss. 100 V. Mengoni 1954, spec. 368. 101 V. Castronovo 1990, anche per l’inclusione nella categoria dell’art. 2087 (ribadita in Castronovo 1997, 421 nt.79). Per un’accettazione dell’impiego di tale categoria, v. anche Mazzamuto 2004a, 19 ss. 102 V. Montuschi 1986, 66 ss.

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non piaceva, paventandosi che potesse risolversi nella “ghettizzazione” dell’obbligo de quo

in un’area marginale del rapporto obbligatorio, che ne vanificasse la “pericolosità”

giudiziaria, e con essa la capacità di incidenza reale sull’organizzazione del lavoro.

E’ da chiedersi, in verità, se tali timori – o quanto meno i sospetti sulle valenze

“ideologiche” della teorica in esame - non fossero eccessivi103. Quella dei doveri di

protezione è semplicemente una categoria dogmatica atta a razionalizzare la

trasposizione dell’istanza di non-lesione di diritti assoluti, in ogni caso rilevante ex art.

2043, in seno al contratto (sì da svolgere il dovere di astensione in un obbligo

“preventivo”, e dai contenuti anche positivi, come si conviene in presenza di un

complesso scenario di rischi104).

E se, in effetti, l’idea della non azionabilità autonoma dei doveri di protezione era

presente nella dottrina germanica, quella italiana ha dimostrato come soltanto una

visione ingiustificatamente ristretta del sinallagma contrattuale possa giustificare tale

conclusione, dal che segue che il dovere di protezione deve ritenersi autonomamente

azionabile, ove leso, in via di tutela, così come di autotutela105 (sì da legittimare il rifiuto

della prestazione “principale” qualora la protezione non sia stata assicurata106).

Tuttavia, nella dottrina maggioritaria degli anni ’60 e ’70, il desiderio di accedere al

sancta sanctorum del contratto era più forte di qualsiasi categoria, tanto da imporre la

tesi per cui, a titolo di integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di

lavoro subordinato, il dipendente vanta un diritto soggettivo a rendere la propria

prestazione in condizioni di (massima) sicurezza, che egli è titolato a far valere in giudizio

in via (comunemente detta) “preventiva”107; in polemica contrapposizione alla tesi di chi

prospettava, in caso di violazione dell’obbligo in discorso, un rimedio esclusivamente

risarcitorio108.

Non è il caso di attardarsi oltre a stabilire se questo risultato sia poi così diverso

da quello ottenibile accettando l’inquadramento dogmatico come dovere di protezione; o a

sottolineare, col senno di poi, che l’insistenza sull’azionabilità individuale (in realtà, una

normale azione di adempimento ex art. 1453 c.c., ergo un corollario della qualificazione

della posizione soggettiva in termini di diritto) non ha mantenuto le attese, data la quasi

totale assenza di seguito nella prassi giudiziaria (che si è piuttosto incaricata di 103 Per una ripresa della configurazione dell’obbligo di sicurezza come obbligo “principale”, v. comunque (anche in riferimento a Napoli 1980, 206), Napoli 2005, 1225-1226. 104 Per la sottolineatura di tale aspetto, v. Mazzamuto 2004a, 29. 105 V. Castronovo 1990, 6-7. 106 E ciò, nello specifico, al di là dell’ipotesi di pericolo grave ed immediato, di cui all’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 626/1994: cfr. Lai 2006, 22 ss. In generale sull’autotutela nel diritto del lavoro, con peculiare sensibilità dogmatica, v. Ferrante 2004, spec. 181 ss. 107 V., oltre a Smuraglia 1974, loc.cit., Montuschi 1986, 49 ss., anche per un ampio riepilogo critico del dibattito; Spagnuolo Vigorita 1971. 108 Tesi sostenuta da Riva Sanseverino 1982, 315 ss., sulla quale v. ancora la netta critica di Montuschi 1986, 59-60.

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rivalutare, ma dopo l’invenzione del danno biologico, la via risarcitoria), ed al di là degli

importanti sviluppi normativi intervenuti nel frattempo sul terreno della prevenzione109.

Presenta un maggiore interesse sistematico, invece, osservare che l’opzione teorica

che ha prevalso110, venendo poi recepita dalla giurisprudenza, ha innescato un

sotterraneo dinamismo della posizione soggettiva implicata, che è sfociato, più tardi,

nella configurazione della prestazione lavorativa come oggetto di un diritto, oltre che

(come d’ordinario) di un obbligo111; essendo tale sviluppo logicamente implicato dalla

affermazione di un obbligo di far lavorare in condizioni di sicurezza, eccedente rispetto ad

un mero onere di cooperazione creditoria112. E’ soltanto un primo esempio delle

numerose influenze sistematiche che percorrono, in lungo e in largo, la macro-area dei

diritti della persona.

La genesi aquiliana del diritto qui discusso113 (mai obliata dalla giurisprudenza114)

consente altresì di non rimanere spiazzati di fronte a quella sorta di precessione del

concetto (sperimentata soprattutto in tema di mobbing, ma operante anche per l’altro

corno della protezione), in virtù della quale si è soliti trarre dall’art. 2087, non soltanto

un obbligo di “adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure .. necessarie a tutelare

l’integrità fisica…dei prestatori di lavoro”, ossia di difendere i lavoratori dai rischi

dell’attività d’impresa, ma anche, per un’implicazione a fortiori115, un divieto (o obbligo

negativo) di porre in essere direttamente, o tramite preposti, atti o comportamenti lesivi

dell’integrità fisica (e psichica) dei dipendenti.

In questa ulteriore proiezione semantica e giuridica non pare dubbio che l’art.

2087 non operi come fonte di un dovere di protezione in senso proprio, a meno di non

ritenere che l’imprenditore abbia il dovere giuridico di proteggere il lavoratore.. da se

stesso. Il rigetto dottrinale della categoria ha così avuto, quanto meno, il merito di tenere

assieme i due (non coincidenti, anche se legati) significati estraibili dalla disposizione.

La continuità logica fra essi, a suggello dell’unità della fattispecie, si riverbera

nella prospettiva della responsabilità ex art. 1218116, che la giurisprudenza ha

abbracciato senza esitazioni, come conseguenza della qualificazione giuridica accolta,

109 Per un inquadramento della rinnovata (dal d.lgs. n.626/1994) normativa prevenzionistica, v. Galantino 1996; Montuschi 1997; più di recente, Lai 2006. 110 Sul tema, v. anche Albi 2003 e 2004. 111 V. infra, § 11. 112 V. già, infatti, Montuschi 1986, 73, che parlava di una cooperazione creditoria ormai “doverosa”. 113 Che può tornare a rivivere pienamente, peraltro, in quei casi nei quali non si ravvisi l’applicabilità dell’art. 2087 c.c., come nell’ipotesi dei lavoratori volontari, prestanti attività a favore di organizzazioni di volontariato, alle quali la legge n. 266 del 1991 addossa soltanto un obbligo assicurativo, e non protettivo. Per quanto concerne i lavoratori “a progetto”, operanti nei luoghi di lavoro del committente, v. comunque l’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003. 114 Data la ricorrente affermazione del concorso fra le due azioni di responsabilità, su cui infra. 115 Così Smuraglia 1967, 351, pur discutendo della “personalità morale”. 116 Per buone ricognizioni del tema discusso nel testo, proiettate nella prospettiva della responsabilità, v. già Franco 1995 e Marino 1990.

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pur mai rinunciando (ma con ridotte utilizzazioni pratiche) alla “via di fuga” della

responsabilità aquiliana117.

Di base, il lavoratore che abbia subito una lesione del bene della salute, e intenda

evocare in giudizio il datore di lavoro per la richiesta di risarcimento del danno

biologico118 deve allegare e provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di

“proteggere” (nell’ampia portata semantica messa in luce) la propria salute119: id est, il

nesso di causalità materiale 120 fra la lesione subita e un fattore di insicurezza o di

nocività presente nell’ambiente di lavoro, e qualificabile nei termini dell’inadempimento

de quo121.

Che questo equivalga a ritenere necessaria la prova della “colpa” del datore di

lavoro - in vigilando o in eligendo122, o per altre negligenze -, è una ricorrente (anche se

non immancabile) affermazione giurisprudenziale123, nella quale si coglie tutto il riverbero

problematico del più classico fra i dibattiti della civilistica, in merito alla natura – per

colpa o no - della responsabilità contrattuale124.

Anche nella meno sospetta dottrina lavoristica, è frequente l’affermazione che, pur

nella massima valorizzazione possibile del diritto costituzionale alla sicurezza, la

responsabilità ex art. 2087 deve ritenersi una responsabilità per colpa, come se

l’escludere che si tratti di una responsabilità tecnicamente oggettiva (come quella dell’art.

2050) conduca per forza a tale, contrapposta, conclusione125; dopo di che, peraltro, si

registra il riavvicinamento, di fatto, ad un’”oggettivazione” della responsabilità, in virtù

dell’affermazione per cui l’unica possibilità di esimersi da essa risiede, per il datore di

lavoro, nella prova che l’evento si è verificato per un’impossibilità non imputabile, di

117 Nel senso del concorso fra le due responsabilità (del quale si sono rievocate, in esordio, le nobili ascendenze “barassiane”), v., fra le tante, Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763; Cass. , Sez. un., 14 maggio 1987 n. 4441. Per una decisa critica alla possibilità del cumulo di azioni, ritenuta priva di basi dogmatiche, v. Mazzamuto 2004a, 39 ss. V. anche, con rilievi pertinenti, Mazzotta 2004, 448 ss. In netta controtendenza, v. però Pedrazzoli 2004, XLIX-L. 118 Nei limiti di quanto ecceda, dopo l’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, le prestazioni riconosciute dall’Inail. 119 In generale sulla ripartizione degli oneri probatori nella responsabilità contrattuale, v. la messa a punto di Cass., Sez. un., 30 ottobre 2001 n. 13533. 120 Da tenersi distinto dal nesso di causalità giuridica con le conseguenze dannose dell’evento: per la distinzione fra le due “causalità” nell’illecito extra-contrattuale, v. in generale Franzoni 1993, 84 ss., cui adde , per la recezione lavoristica, Pedrazzoli 1995, 28 ss. 121 V., ad es., Cass. 25 agosto 2003 n. 12467; Cass. 3 luglio 2003 n. 10548. 122 V. ad es. Cass. 26 febbraio 2002 n. 9304. 123 V. ad es. Cass. 26 maggio 2004 n. 10175; Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763. Per l’interessante affermazione che la prova della colpa è comunque necessaria, non applicandosi la “presunzione legale” di cui all’art. 1218 a fattispecie che presuppongono la responsabilità penale del datore di lavoro, qualora si rivendichi il risarcimento del danno morale da infortunio sul lavoro, v. Cass. 25 ottobre 2002 n. 15133. 124 Limitandosi ai riferimenti classici, v. Visintini 1987. In giurisprudenza, sulla presunzione di colpevolezza dell’inadempimento ex art. 1218, v. ad es. Cass., sez. III, 18 marzo 2005 n. 5960. 125 V. Montuschi 2006, spec. 8 ss.

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solito identificata in un comportamento del dipendente, del tutto imprevedibile ed

estraneo alla prestazione lavorativa126.

Ebbene, appare forse necessario provare ad uscire dall’eterna prospettazione di

una divaricazione fra il modello e la prassi, di volta in volta variamente giudicata dai

commentatori. Così, pare che, focalizzando l’analisi su come la giurisprudenza applica lo

schema di responsabilità ex art. 1218, si finisca con lo scaricare su esso una

“responsabilità” eccessiva. Di massima, quello schema appare correttamente impiegato, e

di esso non fa parte la prova diretta della colpa, nell’accezione tecnica di elemento

soggettivo di un illecito127, se non nei limiti in cui essa è “oggettivata” nel fatto

dell’inadempimento; restando poi da stabilire – ciò attenendo, comunque, ad una

sequenza successiva della fattispecie - se la prova dell’esimente positivamente

configurata dall’art. 1218 equivalga a quella della diligenza o assenza di colpa, o non sia

invece più prossima al caso fortuito ex art. 2050128.

La vera questione non è la responsabilità, ma l’obbligo: è la latitudine sostanziale

ad esso assegnata da dottrina e giurisprudenza, in chiave di “massima sicurezza

tecnologicamente fattibile”129, con le specificazioni e ramificazioni di cui al d.lgs. n. 626

del 1994130 ed alle discipline di settore ma anche al di là di esse131, che dà l’impressione

ottica (oltre alla sensazione tangibile) di un’”oggettivazione” della responsabilità, quasi in

nome di un “rischio professionale” post litteram. Ma si tratta, nondimeno, di una

ordinaria responsabilità ex art. 1218, comunque la si voglia qualificare da un punto di

vista dogmatico.

Di ciò si ha un puntuale riscontro, in specie, nella tipica ipotesi dell’infortunio sul

lavoro, ove il fatto che l’infortunio si sia materialmente verificato equivale quasi ad una

prova (indiziaria) dell’inadempimento, nella misura in cui l’obbligo, così come interpretato,

126 Il che comporta, per semplificare, che ricadono nella sfera della responsabilità datoriale i comportamenti “imprudenti” del lavoratore (v. ad es. Cass. 8 aprile 2002 n. 5024), restandone esclusi i soli atti “inconsulti” (v. Cass. 26 giugno 2002 n. 9304). Sulla necessità che il comportamento del lavoratore, per far escludere l’inadempimento datoriale, abbia avuto il carattere dell’abnormità, v. Cass. 28 luglio 2004 n. 14270. 127 V. in generale Franzoni 1993, 126 ss. 128 Per quanto in esso si parli, alla lettera meno rigorosamente, della prova di aver adottato “tutte le misure idonee ad evitare il danno”. 129 V. ad es., e pur badando a ribadire la natura non oggettiva della responsabilità in discorso, Cass. 12 luglio 2004 n. 12863; Cass. 25 agosto 2003 n. 12467; Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763. Per maggiori riferimenti, v. Lai 2005, 11 ss. 130 Il quale non ha ancora manifestato un’apprezzabile incidenza, oltre che (purtroppo) nella prevenzione degli infortuni, nella direzione di una maggiore responsabilizzazione del lavoratore (giuridicamente consacrata dall’obbligo di cui all’art. 5, comma 1, del decreto, su cui v., anche per il persuasivo inquadramento nella categoria dogmatica degli “obblighi senza prestazione”, Corrias 2005, spec. 108 ss.) , pur incoraggiato a comportarsi da “attore” della sicurezza (e fatto oggetto di inedite posizioni attive – artt,. 21 e 22 - per ciò che concerne l’informazione e la formazione). 131 Sulle ricorrenti preoccupazioni inerenti all’indeterminatezza dei doveri previsti a carico del datore, in specie sotto il profilo dei requisiti di tassatività delle fattispecie penali, v. l’appello al restringimento della discrezionalità dell’interprete, di Corte Cost. 25 luglio 1996 n. 312, RIDL, 1997, II, 15, su cui le allarmate considerazioni di Marino 1997, e la diversa valutazione di Montuschi 2006.

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avrebbe comportato che il datore di lavoro, per adempiervi, conformasse l’organizzazione

in modo tale da escludere il verificarsi dell’evento lesivo.

I termini del problema non sono diversi nella vicenda della malattia professionale,

salvo che, mancando un evento traumatico verificatosi nel luogo di lavoro (o, più

problematicamente, in itinere), la prova dell’inadempimento è più difficile, comportando (a

prescindere dall’ausilio tuttora offerto dal sistema tabellare) quella dell’eziologia

professionale dell’evento morboso132.

Ma le proiezioni applicative della fattispecie tendono sempre più ad espandersi al

di là di quelle classiche, ove si ponga mente a quella variegata casistica

giurisprudenziale, nella quale al datore vengono imputate le più svariate lesioni

“ambientali” al bene salute.

Una fenomenologia ormai abbastanza ricorrente è quella dello stress, o addirittura

dell’infarto, derivante da un protratto superlavoro al di là dei limiti di orario o di criteri di

ragionevolezza (legati anche alle condizioni disagiate, ad es. notturne, della prestazione

lavorativa)133: ove si scorge chiaramente come la violazione di altre norme, poste pur esse

a protezione della salute (come quelle in tema di orario o di riposi), possa concretare, ad

un tempo, una violazione dell’art. 2087134.

Sempre più consueti sono, poi, i casi nei quali il lavoratore lamenta un danno alla

salute come conseguenza, più o meno immediata e diretta, di atti o comportamenti

gestionali dell’imprenditore o di suoi preposti, come un demansionamento, una molestia

o addirittura una persecuzione morale, una o più sanzioni disciplinari, un trasferimento,

un licenziamento, etc.

In queste situazioni, la prova dell’inadempimento del dovere di protezione (o di

astensione) è, concettualmente, meno afferrabile. Quand’è, ad esempio, che un

lavoratore, che ha “vissuto male” un trasferimento in una lontana località, può vantare

un danno risarcibile? E se il lavoratore si è “fatto una malattia” di una mancata

promozione, per ciò solo il datore ne è responsabile?

Sono interrogativi delicati, che la giurisprudenza tende saggiamente ad affrontare,

per ciò che concerne il criterio di qualificazione dell’inadempimento, in una logica che

sembra mutuata (limitatamente a tale aspetto) dal giudizio di responsabilità ex art. 2043,

132 V., ad es., Cass. 25 agosto 2003 n. 12467, in un caso nel quale si è cercato di porre un limite all’estensione dell’obbligo, confermandosi la pronuncia di merito che aveva escluso la derivazione causale delle patologie denunciate dal lavoratore dalle modalità di svolgimento, pur in sé usuranti, della prestazione lavorativa. 133 V., ad es., Cass. 26 giugno 2004 n. 19932, RIDL, 2005, II, 109, con nota di Brun; Cass. 26 maggio 2004 n. 10175. 134 Peraltro con la tendenza a “monetizzare” il pregiudizio: ad es., nel caso del dirigente, escluso dall’applicazione dei limiti massimi di orario, la giurisprudenza tende a recuperare le conseguenze economiche della disciplina del lavoro straordinario, qualora la durata della prestazione abbia ecceduto i limiti della ragionevolezza: v. Cass. 23 luglio 2004 n . 13882; Cass. 15 maggio 2003 n. 7577.

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ossia assumendo,a parametro dell’”ingiustizia” del danno alla salute subito dal

lavoratore135, la lesione di altri diritti, ma questa volta contrattuali.

Da qui la possibilità di evitare quel “corto-circuito” fra antigiuridicità e danno, che

è il cuore problematico del prototipo “extra-contrattuale” del danno non patrimoniale136,

ma anche – e con il concreto rischio di qualche automatismo di troppo137 - l’effetto “a

cascata”, così tipico di queste vicende giudiziarie. Infatti, una volta che gli inadempimenti

“a monte” siano stati giudizialmente acclarati, la negazione dell’inadempimento “a valle”,

o comunque la prova liberatoria, si riveleranno particolarmente difficili per il datore di

lavoro, se non, ironicamente, “impossibili”. Viceversa, difettando gli inadempimenti

“reggenti”, nessuna responsabilità sarà configurabile, pur in presenza di lesioni anche

gravi al bene della salute.

5. Personalità morale.

Secondo l’aspro giudizio di Ugo Natoli, a paragone della dizione dell’art. 41, comma

2, della Costituzione, il richiamo alla protezione della “personalità morale” del prestatore

di lavoro, contenuto nell’art. 2087 del codice civile, era angusto e manipolativo138. Gli

stessi primi commentatori, d’altra parte, si mostrarono molto incerti sulla portata da

attribuire ad esso, lasciando ben presto cadere in un meritato oblio quelle timide

suggestioni paternalistiche, secondo le quali l’imprenditore avrebbe dovuto occuparsi, in

positivo, di arricchire la personalità morale dei propri dipendenti, con non meglio

precisate iniziative educative, ricreative, etc.139

Mai rivincita interpretativa è stata più clamorosa. O, piuttosto, raramente come in

questa occasione si è confermato quanto l’interpretazione normativa non possa

disgiungersi, come ha insegnato Hans Georg Gadamer, dalla mediazione fra la storia di

un testo e la sua attualizzazione nel presente140: siamo stati in grado di elaborare una

nuova lettura dell’art. 2087 proprio perché conoscevamo (anche se per mera intuizione)

quella originaria, e abbiamo potuto misurare la distanza interpretativa che ci separa,

come uomini della nostra epoca, da essa. Il testo, d’altra parte, si è rivelato dotato di una

disponibilità pressoché illimitata a recepire valori culturali nuovi, ispirati non ad etiche

135 Sull’”ingiustizia” del danno, v. in generale Franzoni 1993, 173 ss. 136 V. l’acuto rilievo di Tursi 2003, 293. 137 Questo genere di giudizi non verte quasi mai, nel corso dell’istruttoria, sulle lamentate lesioni della salute: queste comportano soltanto un’addizione risarcitoria finale, previa valutazione peritale, nel caso in cui una responsabilità datoriale sia stata rinvenuta aliunde. 138 V. Natoli 1956. 139 V., criticamente, Smuraglia 1967, 341. 140 V. Gadamer 1988, 376 ss., ove anche le famose critiche ad Emilio Betti.

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contenutistiche fuori del tempo, ma semplicemente ad un’etica umanistica di

riconoscimento e rispetto, sempre più pieni, del valore dell’Altro141.

Così, quando ha cominciato a diffondersi il fenomeno per molti versi straordinario

del mobbing142, non originale tanto per gli abusi143, di solito a dimensione individuale144,

che ha semplicemente dischiuso, e che pure attendevano di essere oggetto di una

specifica riflessione sociologica, psicologica e medica145, quanto per il fatto di averne

promosso il riconoscimento normativo, segnando un’avanzata netta del giuridico là dove

esso non era mai riuscito a penetrare, l’art. 2087 ha rappresentato (sia pure sullo sfondo

dell’art. 2043146) un ideale e non troppo esigente ancoraggio normativo147.

E’ questo, fra l’altro, un caso in cui la trasposizione nel contratto ha forse

consentito di attingere ad un quid pluris (rispetto ad una tutela extra-contrattuale pur

costituzionalmente orientata) quanto ad intensità della protezione sostanziale, giacché il

mobbing , come tipica patologia dell’organizzazioni, può essere “trattato” soltanto da

normative mirate sulle organizzazioni e sui fattori di rischio ad esse inerenti, quale, bene

o male, è l’art. 2087 nella lettura affinata da una giurisprudenza di decenni148.

Così, purché si convenisse su tale riferimento normativo, piuttosto che interrogarsi

sul mobbing149, il giurista avrebbe dovuto chiedersi, avendo come bussola soltanto

l’individuazione normativa del bene protetto (come nell’art. 28 St.lav.), e non una

tipizzazione della condotta, come intendere il concetto, a dir poco sfuggente, di lesione

della personalità morale150. Ove si sottintende (com’è implicito, del resto, nella

classificazione qui proposta), che la possibilità che il mobbing dia luogo ad una lesione

141 V. ad es. Sparti 2003. 142 Sull’argomento, v. in generale Mazzamuto 2004a e 2004b; Monateri-Bona-Oliva 2000; Proia 2005; Scognamiglio 2004; Tosi 2004; Tullini 2000; Vallebona 2006; Zoli 2003. Per un completo riepilogo della problematica, v. Amato-Casciano-Lazzeroni-Loffredo 2002. Per una rassegna critica della giurisprudenza, v. Cumani 2004. 143 O le “angherie e inurbanità”, per dirla con il lessico volutamente non à la page – ironico contrappeso, sul filo di un richiamo alla memoria, all’anglicismo del mobbing – di Pera 2001. 144 E, soprattutto, impiegatizia e dirigenziale. Per il rilievo che l’emersione del mobbing è in qualche modo la spia di un indebolimento del ruolo sindacale, v. Monateri 2004, 85. 145 Ci risparmiamo citazioni alla vastissima e inter-disciplinare letteratura ormai esistente sul tema, salvo i riferimenti a Ege 1996, e Hirigoyen 2000. 146 Per il rilievo che l’illiceità del mobbing è già tutta nell’art. 2043, v. peraltro Monateri 2004, 83. Non sorprende, pertanto, che si sia manifestata anche in questa materia la tendenza ad ammettere il concorso fra le due azioni di responsabilità: v. ad es. Trib. Forlì D&L, 2001, 411. 147 Ciò sin dalla prima giurisprudenza in materia: v. Trib. Torino 16 novembre 1999, RIDL, 2000,II,102; Trib. Torino 11 dicembre 1999, FI, 2000, I, 1555; Trib. Milano 20 maggio 2000, OGL, 2000, 959. In dottrina, v., fra i tanti, Carinci 2004, 93; Mazzamuto 2004a, 43 ss.; Scognamiglio 2004, 498. 148 E che, una volta restituito a nuova vita, sembra promettere altro: per un’interessante applicazione “positiva”, nonché di bilanciamento col diritto alla riservatezza, in un caso in cui dall’esistenza di un obbligo di proteggere il benessere morale dei dipendenti si è tratta la facoltà del datore di lavoro di consegnare ad alcuni lavoratori scritti autografi e non, di natura riservata, di un collega, sospettato di aver inviato pesanti lettere anonime, per far svolgere una comparazione grafologica, v. App. Milano 31 maggio 2005, ADL, 2006,236, con nota di Gragnoli. 149 Sui rischi di confusione argomentativa indotti dall’uso del termine, v. Proia 2005, spec. 831 ss. 150 Cfr. Nisticò 2003.

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della salute (art. 2087, prima parte), ergo ad una malattia professionale151, non esclude

che esso integri, in primis e tipicamente, una lesione della dignità morale (art. 2087,

seconda parte).

Ma quanto il concreto contenuto delle fattispecie si rivelava difficile da afferrare,

pur con il riferimento orientativo (e, in sé, restrittivo della nozione dell’art. 2087) ai

concetti di persecuzione o vessazione psicologica152, tanto lineare ne emergeva la

fisionomia strutturale: la protezione del bene si è subito incanalata, infatti, in uno

schema logico-giuridico che, più di quanto non sia accaduto nel campo della salute e

sicurezza, ha fatto emergere la doppia valenza dell’art. 2087, come esemplificata dalla

pur descrittiva bipartizione fra mobbing “verticale” e “orizzontale”153.

Si è reso chiaro, infatti, che, in virtù del comando della disposizione, il datore di

lavoro è tenuto: a) (per implicito, operando qui la già rilevata precessione del concetto) a

non lederlo o metterlo in pericolo direttamente, o tramite preposti154; b) (per esplicito) ad

adottare tutte le misure necessarie, “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la

tecnica”, affinché esso non venga leso da altri lavoratori (violando, questi ultimi, a loro

volta, l’obbligo di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994) nell’esercizio

dell’attività d’impresa.

Un passo in avanti, questa volta anche in termini di delineazione della condotta

vietata, è stato consentito da disposizioni di legge successive, che, sia pure con

finalizzazioni specifiche, hanno introdotto nell’ordinamento una prima definizione di

“molestia morale”, per tale intendendosi “quei comportamenti indesiderati…,aventi lo scopo

o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile,

degradante, umiliante o offensivo”. Allo stato, peraltro, la legge punisce tali molestie,

qualificandole come discriminazioni, soltanto qualora siano poste in essere per ragioni

connesse al genere155, alla razza o all’origine etnica156, alla religione, alle convinzioni

personali, all’ handicap, all’età o all’orientamento sessuale157.

Al riguardo, sia sufficiente notare che, anche a limitare l’applicazione di tali

disposti ai casi da essi considerati, nulla osta ad utilizzare la relativa definizione –

151 V. la circolare INAIL 17 dicembre 2003 n. 71, peraltro annullata da TAR Lazio 4 luglio 2005 m. 5454. 152 Tale definizione generale è ripresa, con differenti sfumature, sia dalla dottrina (v., per tutti, Scognamiglio 2004, 506) che dalla giurisprudenza (per un pur laconico accenno, v. anche Cass., Sez. un., 4 maggio 2004 n. 8438, NGL, 2004, 290). 153 Cfr. anche Vallebona 2006, 10. 154 Si veda il già citato Smuraglia 1967, 351, che merita qui riportare per intero: il datore di lavoro, in quanto tenuto a tutelare la personalità morale del prestatore, “non può, per logica coerenza, incidere lui stesso, in modo negativo,sulla personalità morale dei medesimi. Se in ogni obbligo di comportamento attivo si ritiene insito anche l’aspetto contrario, consistente nel divieto di tenere un contegno con esso contrastante, ci sembra evidente che sarebbe altrettanto contraddittorio consentire la menomazione della personalità morale dell’altro contraente da parte di chi è tenuto a tutelarla e garantirla positivamente.” 155 Art. 4, comma 2-bis, legge n. 125/1991, come novellato dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n.145/2005. 156 Art. 2, comma 3, d.lgs. n.215/2003. 157 Art. 2, comma 3, d.lgs. n. 216/2003.

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identica nelle tre disposizioni – come espressione generale di ciò che, nell’ordinamento, si

intende per molestia morale, o atto lesivo della personalità morale, o (ove ancora si

voglia, ma limitatamente a quello “verticale”158) mobbing. Non sembra arbitrario,

pertanto, concludere che nelle disposizioni menzionate si rinvenga, al momento159, la più

specifica nozione legislativa di mobbing160.

Ma, ammesso che tale sia – si potrebbe obiettare -, esso trovasi contestualmente

ridislocato, a livello di fattispecie (e non soltanto di trattamento), nella normativa

antidiscriminatoria161. Tuttavia, quanto meno nelle ipotesi in esame162, l’assorbimento da

parte di tale normativa non pare realizzarsi completamente, nella misura in cui è

prospettabile una contemporanea lesione, e del bene dell’eguaglianza (protetto dalla

normativa antidiscriminatoria), e di quello della personalità morale (protetto dall’art.

2087).

Sembra innegabile, infatti, che siano autonomamente illeciti, anche a prescindere

dall’essersi basati su un fattore vietato, comportamenti molesti come quelli contemplati.

In altre parole, a differenza che nelle altre ipotesi di discriminazione, nelle quali un

trattamento altrimenti lecito diviene illecito in quanto causato dal fattore protetto, nelle

ipotesi in esame un trattamento già altrimenti illecito vede aggravarsi la propria illiceità,

per il fatto di fondarsi su un fattore proscritto dall’ordinamento.

Ma, se così è, emerge un parallelismo di illiceità, che non pare comportare

un’emarginazione dell’art. 2087, nella misura in cui tale disposizione incarna un’istanza

generale di difesa dalle molestie morali. Di guisa che il rapporto fra l’art. 2087 e le

disposizioni qui discusse sembra essere analogo a quello – da genus a species – esistente

nei confronti delle specificazioni dell’obbligo di sicurezza, contenute nel d.lgs. n.

626/1994, le quali non hanno soppiantato la norma che rimane pur sempre la “reggente”

del sistema. A maggior ragione, l’art. 2087 trova applicazione nei confronti delle tipologie

di molestia morale positivamente non contemplate.

Le disposizioni in esame ci danno anche indicazioni importanti dal punto di vista

dei contenuti della fattispecie, che si focalizzano su quei “comportamenti” (concetto da

ritenersi inclusivo di quello di “atti”, mentre non è vera la reciproca) che abbiamo come

“effetto” la lesione della dignità del lavoratore, e che si caratterizzino, per tale ragione,

come molesti o vessatori.

158 Lo fa ritenere, se non altro, la chiamata in causa della tutela antidiscriminatoria. 159 Essendo stato bloccato, nel frattempo, il tentativo della legislazione regionale di dettare, sia pure a fini limitati, una definizione giuridica del fenomeno: v. Corte Cost. 19 dicembre 2003 n. 359, in relazione alla legge n. 16 del 2002 della Regione Lazio n. 16 del 2002. 160 Cfr. Trib. Forlì 28 gennaio 2005, D&L, 2005,462. 161 Come si vedrà meglio infra, § 6-7, proprio da tale inclusione (emersa nel diritto comunitario) è stata ricavata l’ipotesi che la nozione di discriminazione tenda a sganciarsi dalla necessità di un tertium comparationis. 162 V., invece quanto si osserverà criticamente infra, § 7, con riguardo alle molestie sessuali.

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Il riferimento all’effetto sembra mettere fuori gioco la possibilità di far penetrare

nella fattispecie il dolo, tanto generico quanto, a maggior ragione, specifico163; e ciò a

prescindere dal dato fenomenico che la maggior parte degli eventi di mobbing sono il

prodotto di strategie preordinate (ad es., ad indurre il dipendente a dimettersi)164.

Il parallelo richiamo al carattere “indesiderato” dei comportamenti in discorso non

deve far ricadere, peraltro, nell’eccesso opposto di attribuire rilievo alle sole

rappresentazioni soggettive della vittima, inoltrandosi senza controllo su un terreno nel

quale, non soltanto l’istruttoria processuale, ma finanche la valutazione giuridica finale

potrebbe ritrovarsi in balia dell’oceano dei vissuti psicologici165. Nella prefigurazione

normativa, il comportamento ha pur sempre un’oggettività, che si misura sull’essersi

verificato, o no, un effetto lesivo della dignità del lavoratore, da misurare a prescindere

dalle ripercussioni che ha prodotto sullo stato psicologico, e in ultima analisi sulla

“felicità”166, della vittima.

Le disposizioni speciali richiamate (ma anche una corretta lettura dell’art. 2087)

inducono altresì ad escludere che la frequenza e la ripetitività nel tempo delle condotte

siano indispensabili al verificarsi della fattispecie illecita. Ciò implica l’idoneità lesiva, ai

fini, anche di un singolo atto o comportamento, laddove di rilevante gravità; aprendosi

con ciò uno iato, che non deve stupire né tanto meno indurre a doglianze di “infedeltà”,

con l’accezione psicologica o sociologica di mobbing167.

Fra l’altro, la stessa congiuntiva che lega la prima e la seconda parte delle

disposizioni in discorso appare un fuor d’opera, essendo da ritenere che i comportamenti

molesti siano illeciti anche a prescindere dalla creazione di un clima intimidatorio, ostile,

etc., tramite la quale si realizza la cosiddetta molestia ambientale: un’ipotesi, peraltro, di

ancor maggiore elusività, ergo di fragile autonomia sul terreno precettivo.

163 Per una netta affermazione della tesi “oggettiva”, v., per tutti, Scognamiglio 2004, 503-505. Per la rilevanza dell’elemento soggettivo, come componente unificante del coacervo di fatti che danno vita alla fattispecie, v. però Carinci 2004, 92; Mazzamuto 2004a, 31-32; Viscomi 2002, 33. Sull’alternativa fra le due concezioni, v. in generale Tullini 2000, 256 ss. 164 Né può ascriversi ad un revirement della teoria “soggettiva” la circostanza che nella nuova nozione di “molestia discriminatoria” (art. 4, comma 2-bis, legge n. 125/1991; art. 2, comma 3, d.lgs. n. 215/2003; art. 2, comma 3, d.lgs. n. 216/2003) siano state prese in considerazione, onde equipararle a discriminazioni, le molestie aventi “lo scopo o l’effetto” di violare la dignità di una persona etc. Da un lato, infatti, la presenza della disgiuntiva “o” attesta che è sufficiente che si sia prodotto l’effetto de quo; dall’altro, si potrebbe anche pensare che la menzione separata dello “scopo” implichi un ampliamento della tutela, consentendo di perseguire le molestie in discorso anche a prescindere dall’effettivo conseguimento del risultato avuto di mira. 165 Ciò nonostante, il grande merito della giurisprudenza sul mobbing è proprio quello di completare e perfezionare il processo di riconoscimento del lavoratore come soggetto psichico, cominciato con l’equiparazione della malattia, e poi della disabilità, psichiche a quelle fisiche. 166 Per l’ironica osservazione, ripresa da Enzo Roppo, che il fatto che nella Costituzione degli Stati Uniti sia iscritto il diritto alla (ricerca della) felicità non autorizza a pensare che qualunque lesione di quel diritto generi automaticamente pretese risarcitorie, v. , in una colta disamina, Agrifoglio 2004, qui 162. 167 Senza che ciò implichi negare l’utilità (ma anche i limiti) dell’apertura extra-sistematica: v. al riguardo infra, nel testo.

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Quanto esposto non è da intendersi come critica della tendenza, chiaramente

emersa nel diritto vivente168, a concepire il mobbing come un illecito a fattispecie

complessa, da un lato, ed a geometria variabile, dall’altro, non essendone predeterminati

gli elementi che la compongono.

La ragione ultima di tale propensione risiede nella difficoltà dell’indagine

sull’illecito, un modo pragmatico di alleviare la quale si è appunto rivelato quello,

echeggiante categorie penalistiche, di presupporre la necessità di una persecuzione o

vessazione “continuata”: ove la continuazione funge da pietra di paragone della rilevanza

dell’offesa al bene tutelato. Il referente definitorio è così ampio e vago, nelle nozioni legali

in circolazione (e tale probabilmente rimarrà anche nell’evenienza, meno cruciale di

quanto spesso si pensi, di una normativa legislativa “generale”), da rendere legittime

operazioni giurisprudenziali del tipo, che però non autorizzano a trasportare con ogni

crisma nella fattispecie quelli che debbono rimanere meri criteri empirici di indagine.

Incombe all’interprete, pertanto, di costruirsi criteri e modelli di ragionamento,

idonei a ridurre il più possibile l’incertezza valutativa. Il più invalso nell’uso è quello, già

riscontrato a proposito delle lesioni della salute, di ancorare la valutazione di illiceità

all’accertata commissione di altri illeciti (ad es., classicamente, una lesione della

professionalità)169. I rischi di corto circuito sono, qui, particolarmente seri, per cui

occorre insistere sul fatto che nelle molestie morali v’è una portata oggettiva dell’illecito

che eccede, per gravità, quella di altri inadempimenti a danno del lavoratore. Ne segue

che, proprio in nome dell’autonomia dell’illecito, è da accettare che la giurisprudenza

abbia reputato illeciti, in quanto vessatori, atti datoriali isolatamente legittimi, come una

sottoposizione troppo insistita del lavoratore in malattia, e pur all’interno di un

medesimo periodo di prognosi, a visite mediche domiciliari170.

I progressi dell’ordinamento sul terreno della nozione non fanno venir meno, in

definitiva, la necessità di quella innaturale somma algebrica fra atti o comportamenti

illegittimi, neutri, o persino (se pur in casi eccezionali) legittimi, grazie alla quale il diritto

vivente ha “scoperto” e sin qui disciplinato – con apprezzabile moderazione - il mobbing;

una sommatoria nella quale si insinua, altresì, un’istanza di bilanciamento con la libertà

imprenditoriale, e la posizione di potere che ne è il succedaneo giuridico, in una logica

sostanzialmente protesa alla repressione dei comportamenti “abusivi”, o, più

classicamente, contrari a buona fede171.

E proprio l’assenza di bussole affidabili riapre inevitabilmente lo spazio, com’è

giusto che sia specie in materia di diritti della persona, per la penetrazione di influssi

168 V. ad es. Trib. Forlì 28 gennaio 2005, cit.; Trib. Milano 7 gennaio 2005, D&L, 2005, 461. 169 Cfr. Mazzamuto 2004a, 46. 170 V. ad es. Cass. 19 gennaio 1999 n. 475, in OGL, 1999,295. 171 V. Mazzamuto 2004a,45.

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extra-sistematici. Non è quindi ai soli (e pur indispensabili) fini cognitivi – ossia di una

comprensione non superficiale, dal punto di vista psicologico e sociologico, dei fatti

dedotti in giudizio, come precondizione della valutazione giuridica – che saperi “altri”172

(talvolta, inevitabilmente, anche “privati”) possono essere utilizzati dall’interprete, bensì

anche allo scopo di individuare la soglia giuridicamente rilevante di offesa al bene della

dignità del lavoratore. Ma rimane essenziale che tali saperi non vengano trasportati come

tali nella dimensione giuridica173, e che l’ultima parola venga assunta, sempre e

comunque, dall’interprete174, alla cui sensibilità ermeneutica è richiesto un apporto

notevole175.

L’operata ricostruzione della fattispecie illecita consente, infine, un’agevole

riconduzione della responsabilità all’interno del modello dell’art. 1218176, sia a titolo di

responsabilità indiretta per violazione del dovere di protezione in senso proprio177 (il che

sollecita il datore di lavoro ad orientare l’organizzazione, anche con riguardo a queste

delicate tematiche organizzative ed umane, al paradigma della prevenzione, ad esempio

con l’adozione di codici di condotta; e restando tutto da affinare, in questa tematica,

l’ambito della prova liberatoria), che per responsabilità diretta, nel caso (relativamente

più frequente, pur in un coacervo giudiziario nel quale non è facile sceverare vessazioni

autentiche, strumentali, immaginarie, etc.) di un mobbing innestato nel rapporto

gerarchico.

6. Eguaglianza.

L’inclusione del diritto a non essere discriminato, nei limiti in cui esso è

riconosciuto dall’ordinamento178 (giacché è soltanto da una scelta normativa, comunque

compiuta, che può discendere l’attitudine di un dato fattore “di rischio” a connotare di

illiceità una diversificazione di trattamento), aspira ovviamente ad un posto d’onore fra i

diritti fondamentali della persona.

172 Sin dal classico Ege 1996. 173 E’ divenuta emblematica di questo “vizio” la pur importante e generosa sentenza di Trib. Forlì 15 marzo 2001, cit. Si deve riconoscere, peraltro, che la recezione di apporti non giuridici è avvenuta, nella giurisprudenza, più che altro per restringere l’impiego alla nozione di mobbing. 174 Così, con riferimento alla famosa questione della soglia semestrale del mobbing, Scognamiglio 2004, 507. 175 Per fini considerazioni al riguardo, soprattutto nella prospettiva (non affrontata nel testo), del danno, v. Tosi 2004. 176 Per un’adesione alla prospettiva della responsabilità contrattuale, sia pur con una motivazione non del tutto esaustiva, v. Cass. n. 8438/2004, cit. 177 Per uno dei pochi casi di responsabilità per mobbing “orizzontale”, per non aver l’azienda impedito che un dipendente sordomuto venisse fatto oggetto di angherie e dileggi, v. Trib. La Spezia 7 gennaio 2003, ined. Appare invece più problematico, nella circostanza, il ricorso all’art. 2049, quantomeno nel caso in cui i fatti commessi dai dipendenti siano stati di natura dolosa, con possibile interruzione del nesso di occasionalità necessaria con le mansioni di adibizione. Per un caso di ritenuta applicabilità (ma “ancillare” all’art. 2087) dell’art. 2049, v. comunque Trib. Milano 7 gennaio 2005, cit. 178 Sulla tematica antidiscriminatoria, v. in generale Ballestrero 1996 e 2004, Barbera 1991 e 2003, De Simone 2001 e 2004, Gottardi 2003, Isemburg 1984, Izzi 2005, Pessi 1986.

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Ciò, sia ad adottare una concezione formale o strutturale dei diritti fondamentali,

basata sull’universalità della loro imputazione soggettiva (che fa di essi, di conseguenza,

la base dell’eguaglianza giuridica)179, che a scendere sul terreno dell’ordinamento positivo

costituzionale (a maggior ragione se integrato con le fonti comunitarie e internazionali),

ove è facile rilevare la derivazione del diritto de quo da un principio più che

fondamentale, come quello di eguaglianza formale180, pur inteso in senso “valutativo”181.

Ove l’eguaglianza182 si intreccia con la dignità183, la quale si sostanzia, nella circostanza,

proprio nel diritto di ciascuno ad essere trattato egualmente rispetto ad altri, dai quali si

distingue soltanto in considerazione di un certo fattore.

La triade dei grandi riferimenti di principio è completata, infine, dal richiamo ai

diritti di libertà, considerato che numerosi dei fattori di discriminazione banditi

dall’ordinamento corrispondono, non soltanto a meri modi di essere della persona (come

il genere, la razza, l’origine etnica, l’età), ma all’esercizio di libertà costituzionalmente

garantite (che non sarebbero tali, quanto meno all’interno della formazione sociale

“impresa”, se fosse lecita una discriminazione sulla base di tale esercizio), come la libertà

associativa (art. 18 Cost.) e sindacale (art. 39, comma 1), la libertà religiosa (artt. 8 e 19)

e la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21, comma 1)184.

Eppure, il prepotente (pur se compensativo, in qualche modo, di altri squilibri

sistemici) sviluppo del diritto antidiscriminatorio del lavoro – che ha persino fatto parlare

di un’”età dell’oro”185 - non si era riversato, sinora (ma è lecito formulare, per il futuro,

una prognosi diversa), nel campo del danno. Ciò per ragioni, il cui respiro sistematico è

stato già illustrato186, e che hanno qui trovato il più puntuale dei riscontri.

Si allude alla scelta primigenia (operata nell’art. 4 della legge n. 604/1966, e poi, a

cascata, nell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori e nella legge n. 903/1977) nel senso 179 V. Ferrajoli 2001, 6. 180 V. per tutti De Simone 2001, 1 ss. 181 Cfr. Barbera 1991, 19 ss. 182 Le cui declinazioni non sono esaurite, comunque, dalla normativa esaminata nel testo, che rappresenta il campo tradizionale della tutela antidiscriminatoria. La crescente diffusione di forme di lavoro subordinato “atipico” ha dato luogo, infatti, all’emersione di divieti di discriminazione (alias, regole di pari trattamento) rivolti a tali categorie di lavoratori (fatto salvo, ovviamente, l’elemento di differenziazione correlato all’identità del sotto-tipo): su questa evoluzione, nel contesto dei percorsi dell’eguaglianza, v. Del Punta 2002. Per una ricognizione critica mirata sulla legislazione di riforma del mercato del lavoro, v. Ballestrero-Balandi 2005. 183 Osserva Barbera 2003, 404, commentando le direttive comunitarie di seconda generazione (che sono all’origine dei recenti provvedimenti italiani in materia), che esse si basano “su un’assunzione radicale del punto di vista dei diritti umani, che bandisce,in quanto discriminatorio,qualsiasi pregiudizio o svantaggio che derivi dal possesso di qualità costitutive dell’identità della persona,e che perciò si ponga come lesivo della sua dignità”. 184 C’è una discriminazione “dimenticata” nell’ordinamento, al di là dell’evocazione dello storico “caso Santhià”, ed è quella politica: eppure, la politica è sufficientemente infiltrata in tutti i reticoli della società italiana, dal Brennero sino a Pantelleria, per aspettarsi qualche caso emblematico al riguardo, anche se di “nuova generazione”. Resta da stabilire se possa invocare una discriminazione politica la vittima di turno (magari in esito ad uno sfavorevole risultato delle elezioni amministrative) dello spoil system occulto che inquina il paese, e che, grazie allo spoil system, aveva goduto di precedenti opportunità professionali. 185 V. Barbera 2003. 186 V. retro, § 2.

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dell’esclusivo ricorso ad una sanzione di tipo negoziale (ovviamente, dato il rilievo dei

beni protetti, la nullità), a propria volta condizionata dalla diffusa identificazione –

esplicitata dall’art. 15 - della condotta illecita con “atti” negoziali187 (in genere espressivi

di poteri, come il licenziamento188) o con “patti”. L’inclusione anche dei semplici

“comportamenti” nella sfera della normativa si è realizzata soltanto nella legge n.

903/1977 (v., ad es., l’art. 15), ed è stata poi consacrata col rinnovamento della nozione

di discriminazione, operato dall’art. 4, comma 1, della legge n. 125/1991189.

Peraltro, giacché ai meri comportamenti discriminatori (a maggior ragione se

omissivi190) il rimedio della nullità non poteva attagliarsi191, ciò ha avviato, ad un tempo,

un arricchimento dell’apparato di tutela192, che ha tuttavia imboccato, non la strada di

un ritorno all’illecito civile “comune”, bensì quella (già aperta dall’art. 28 St. lav.193) di

un’accentuazione della pressione a ripristinare lo status quo ante194, grazie alla

tipizzazione di un provvedimento giudiziario rivolto alla “rimozione degli effetti” dell’atto o

comportamento discriminatorio195.

Là dove la palpabile tensione verso una tutela che fosse, chiovendianamente, la

più “specifica” conseguibile, lasciava trasparire una contraddizione: pur essendo posta,

la normativa discriminatoria, a protezione di valori “immateriali” della persona196, la

reazione dell’ordinamento finiva col potersi dispiegare quasi esclusivamente nei confronti

dei pregiudizi di carattere patrimoniale (neutralizzati attraverso le misure restitutorie,

187 V, ad es., Isemburg 1984, p. 165. 188 Sull’evoluzione del divieto di licenziamento discriminatorio, v. De Simone 2001, 104 ss. 189 V. Barbera 1994, p. 54 ss. ; Pessi 1996, 45 ss. Ma v’erano già state anticipazioni giurisprudenziali: v. ad es. Cass. 1° febbraio 1988 n. 868, GC, 1988,I,1533, con nota di Mammone. 190 Cfr. Treu 1974, 51 ss. 191 Tanto che, in altre situazioni legislative, nelle quali la nullità era stata riferita a fattispecie che potevano essere concretate tanto da atti, quando da condotte materiali, essa è stata considerata sinonimo di una generica illiceità: v., ad es., il caso delle intese anticoncorrenziali, di cui all’art. 33 della legge n. 287/1990 (cfr. Antonioli 2001, 260 ss). 192 Ciò non significa, beninteso, che sia stata abbandonata la prospettiva della nullità: anzi, essa si è consolidata, con riguardo al licenziamento, grazie all’art. 3 della legge n. 108/1990, e poi con le integrazioni all’art. 15 St. lav., recate dall’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 216/2003, onde includere i nuovi fattori di discriminazione, proscritti da tale decreto. Il d.lgs. n. 145/2005 (art. 2, comma 1, che ha introdotto un comma 2-quater nell’art. 4 della legge n. 125/1991) ha aggiunto una nuova prescrizione di nullità anche a proposito delle discriminazioni di genere, sancendo la nullità degli atti, patti o provvedimenti concernenti il rapporto dei lavoratori o delle lavoratrici vittime di molestie di genere o di molestie sessuali, ove essi siano stati adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi. 193 Sui caratteri distintivi dell’illecito ex art. 28 St.lav., rispetto alla normale struttura dell’illecito civile, proiettata verso il risarcimento del danno, v. Ghera 1979, 340 ss.; Scognamiglio 1971; Treu 1974, 127. 194 Cfr. Ghera 1979, 348 ss. 195 L’ordine di rimozione degli effetti (oltre che di cessazione del comportamento illegittimo) è apparso nell’azione individuale ex art. 15 legge n. 903/1977, e si è consolidato nelle azioni affidate alla consigliera di parità avverso le discriminazioni individuali (art. 4, comma 10, legge n. 125/1991) e collettive (art. 4, commi 7-9) di genere (si vedano anche i più tardi art. 44, comma 1, del d.lgs. n. 286/1998; art. 4, comma 4, d.lgs. n. 215/2003; art. 4, comma 5, d.lgs. n. 216/2003), per poi tracimare nell’attribuzione al giudice dell’originale potere-dovere di predisporre “un piano di rimozione delle discriminazioni” (si vedano anche l’art. 44, comma 10, d.lgs. n. 286/1998; l’ art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 215/2003; l’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 216/2003). 196 Tanto che Ferrajoli 2001, 9 ss., costruisce la propria teoria dei diritti fondamentali, a loro volta collegati primariamente allo status di persona (oltre che, in alternativa – ma non è il caso dei diritti qui discussi –, alla capacità di agire o alla cittadinanza), in esplicita contrapposizione con la categoria dei diritti patrimoniali.

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conseguente alla declaratoria di nullità), o comunque dei soli effetti pregiudizievoli (anche

non patrimoniali) suscettibili di essere rimossi, perché tangibili e non ancora esauriti.

Ma la “lunga marcia” del ricompattamento sistematico è stata inesorabile, e prima

che la dottrina si affaticasse a scoprire l’ovvio, ossia che gli “interessi costituzionalmente

rilevanti”, dei quali si è sancita la piena risarcibilità, sono di casa nella normativa

antidiscriminatoria, il legislatore del 2003 e del 2005 – ma, ancor prima, del 1998197 - ha

generalizzato il potere-dovere del giudice di provvedere, se richiesto, anche al

risarcimento del danno non patrimoniale198, che è così entrato formalmente nell’universo

lavoristico, imponendo, a cascata, di rivisitare la responsabilità, ed ancor più a monte

l’illecito.

Un primo sguardo d’insieme sulle fattispecie fa anzitutto risaltare la cifra sempre

più unitaria della normativa antidiscriminatoria, pur se frutto di stagioni diverse. Pur

permanendo differenze interne (in specie fra la discriminazione-prototipo e le altre), sono

ormai soverchianti le corrispondenze, spesso pedisseque, fra i diversi nuclei normativi199.

In occasione del d.lgs. n. 145/2005, è persino accaduto che le discriminazioni di seconda

generazione abbiano influenzato la più “nobile” discriminazione di genere200.

Così, la proliferazione (già da prima della normativa del 2003201) dei fattori “di

rischio” – che fa supporre che, a meno di ulteriori evoluzioni interne, magari innescate

197 La prima disposizione a prevedere che, con la decisione che definisce il giudizio (in tema di discriminazioni determinate dall’appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa o ad una cittadinanza), il magistrato può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, è stata in realtà quella di cui all’art. 43, comma 7, del d.lgs. n. 286/1998. Tale disposizione, peraltro, è stata espressamente esclusa dalla formula di salvezza di cui agli artt. 4, comma 1, d.lgs. n. 215/2003, e 4, comma 2, d.lgs. n.216/2003, sì che se ne potrebbe anche sostenere (ma forse non per l’origine linguistica e la cittadinanza, trascurate dalla normativa del 2003), l’implicita abrogazione. 198 Per le discriminazioni di genere, sulle quali ha inciso il d.lgs. n. 145/2005, v. i nuovi testi dell’art. 15 della legge n. 903/1977, per l’azione individuale (ove, a proposito del risarcimento, figura anche la dicitura “nei limiti della prova fornita”), e degli artt. 4, commi 9 e 10, per le azioni della consigliera di parità, legate, rispettivamente, a discriminazioni collettive ed individuali (per queste ultime “nei limiti della prova fornita”); per le discriminazioni causate dalla razza o dall’origine etnica, v. l’art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 215/2003; per le discriminazioni causate dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dall’orientamento sessuale, v. l’art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 216/2003. 199 Cfr. Izzi 2005, 351 ss. 200 Sulla valenza di modello della tutela antidiscriminatoria per ragioni di genere, v. De Simone 2001, 50 ss.; Izzi, 25 ss. Relativamente all’argomento, è da avvertire che non si è potuto tener conto del Testo unico approvato, in materia, dal Consiglio dei ministri del 6 aprile 2006. 201 Ma essa era cominciata, in verità, con l’art. 13 della legge n. 903/1977, che aveva aggiunto, al nucleo originario dell’art. 15 St.lav., circoscritto alle discriminazioni per ragioni sindacali, politiche e religiose, le discriminazioni causate dalla razza, dalla lingua e dal sesso; era continuata con l’art. 5, comma 5, della legge n.135/1990, sul divieto di discriminare il lavoratore infetto da HIV; e aveva acquistato velocità con l’art. 43, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286/1998, in tema di discriminazioni determinate dall’appartenenza ad una razza, gruppo etnico o linguistico, confessione religiosa o cittadinanza. Ne segue che il d.lgs. n. 215/2003, riproponendo la razza e l’origine etnica come fattori protetti, è stato sostanzialmente ripetitivo (ma v. l’art. 2, comma 2, di esplicita salvezza dell’art. 43, commi 1 e 2, d.lgs. n. 286/1998), e che parzialmente tale (per la confessione religiosa, fra l’altro presa in considerazione – v. supra - sin dall’esordio statutario) è stato anche il d.lgs. n. 216/2003 (ove pure è fatto salvo – v. art. 2, comma 2 – l’art. 43, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 286/1998).

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dal “formante” comunitario202, l’immanenza del principio di eguaglianza nell’ordinamento

rimarrà affidata, nel prossimo futuro, ai divieti di discriminazione, e non all’abortito

principio di parità di trattamento, che pure aveva tratto alimento dal “terribile” diritto alla

dignità ex art. 41 cpv.203 – non si è accompagnata (soprattutto a motivo dell’identica

matrice comunitaria) ad una disarticolazione della normativa, ma ha dato corpo ad un

micro-sistema tanto coeso da sembrare, per più di un tratto, didascalico.

E’ dunque lecito parlare, al singolare, dell’illecito “di discriminazione”, il cui

basilare elemento costitutivo è rappresentato dall’essere stato praticato nei confronti di

un lavoratore, tramite atti, patti o comportamenti, un trattamento differenziato basato su

uno dei fattori “vietati” dall’ordinamento.

Secondo questa classica accezione, da sempre accolta dalla dottrina e confermata

anche dai dati positivi, la comparazione con il trattamento fatto a terzi non “marchiati”

dal fattore de quo, è un connotato imprescindibile dell’illecito204. Ciò, pur prendendosi

atto205 della tendenza a sfumare tale confronto in mere operazioni logiche, promanante

dalle indicazioni di una giurisprudenza comunitaria che, a partire da Dekker206, ha

iniziato a reputare sufficiente, date certe condizioni, la prospettazione di una

comparazione puramente virtuale (o comparabilità)207.

Per quanto già osservato in ordine all’incrocio fra i cerchi della discriminazione e

della molestia morale208, sembra quindi compatibile con tale, classica, struttura

dell’illecito (se non necessaria), la configurazione come discriminazioni, prima nei decreti

del 2003209, e poi in quello del 2005210, delle “molestie”, ovvero “di quei comportamenti

indesiderati, posti in essere (per ragioni connesse al fattore “vietato”), aventi lo scopo o

l’effetto di violare la dignità di una persona211, e di creare un clima intimidatorio, ostile,

degradante, umiliante o offensivo”212.

202 Per l’affermazione di un principio generale di parità di trattamento, come sviluppo del divieto di discriminazione per età, v. però, in motivazione, CGCE 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold. 203 Sull’effimera (per ora) stagione della parità di trattamento nel rapporto di lavoro, sia consentito rinviare a Del Punta 1998. Nel senso ormai pacifico dell’inesistenza, nel nostro ordinamento, del principio in discorso, v. Cass. 26 novembre 2002 n. 16709. 204 Per l’impostazione concettuale del problema, v. per tutti Barbera 1991, 214 ss. (ma con un’impegnata rimeditazione, alla luce dell’evoluzione del diritto comunitario, in Barbera 2003, 409 ss.). Più di recente Izzi 2005, 41 ss. Sul punto, v. ancora infra, § 7, discutendo di molestie sessuali. 205 Come ha fatto la normativa nazionale: cfr. il nuovo art. 4, comma 1, legge n. 125/1991, ove il riferimento al carattere più favorevole di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore “in situazione analoga”. 206 V. CGCE 8 novembre 1990, causa 177/88. 207 Cfr. Izzi 2005, 44 ss. 208 V. retro, § 5. 209 V. l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 215/2003, e l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 216/2003: “Sono, altresì considerate quali discriminazioni…”. 210 V. l’art. 4, comma 2-bis, della legge n. 125/1991, aggiunto dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 145/2005. 211 Ovvero, nella discriminazione di genere, di un “lavoratore” o di una “lavoratrice”. 212 Su tale nozione v. già retro, § 5, anche a proposito della correttezza dell’uso della disgiuntiva nella locuzione “lo scopo o l’effetto”, e della criticabilità, viceversa, dell’impiego della congiuntiva nel passaggio alla seconda parte del precetto.

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Se tale è la fisionomia basilare dell’illecito, è da chiedersi sino a che punto la sua

unitarietà risulti contraddetta dalla tradizionale distinzione fra discriminazione “diretta”

e “indiretta”, nel frattempo propagatasi a tutte le fattispecie discriminatorie213. Pur nella

coscienza della problematicità del tema, e dell’esistenza di un “clima” comunitario e

internazionale di segno opposto, si potrebbe infatti ipotizzare che a tale distinzione non

corrisponda una diversità di struttura214, nel momento in cui la fattispecie si focalizza, a

valle, sull’”effetto”, o risultato, discriminatorio: potrebbe anche non fare una sostanziale

differenza, che tale effetto sia prodotto da un trattamento direttamente diseguale, ovvero

da un atto o un comportamento apparentemente neutri, ma tali da (o potenzialmente

capace di) mettere i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso, gli appartenenti ad una

determinata razza, gruppo etnico o linguistico, o cittadinanza, coloro che professano una

determinata religione o ideologia di altra natura, i portatori di handicap, i lavoratori di

una particolare età od orientamento sessuale, in una posizione di “particolare

svantaggio”215 rispetto ai lavoratori non connotati dal fattore in considerazione.

Il proprium della discriminazione indiretta consisterebbe, in sostanza, nella

“copertura” dell’effetto dal velo dell’”apparente” neutralità dell’atto o del comportamento,

purtuttavia “smascherata” dalla dimostrazione del disparate impact, ossia della ricaduta

svantaggiosa su un lavoratore o una classe di lavoratori identificata da uno dei fattori di

cui sopra. Si può dubitare che questo basti, al di là della tradizionale problematicità della

distinzione fra le due “eguaglianze” dell’art. 3, a ritenere la discriminazione diretta

un’espressione di eguaglianza formale, e l’indiretta una concretizzazione dell’istanza di

eguagliamento recata dal principio di eguaglianza sostanziale216; se non nel senso, questo

sì indubbio, che ciò che contribuisce all’eguaglianza formale, specie con riguardo alla

213 Per la discriminazione di genere, v. l’art. 4, comma 2, della legge n. 125/1991, come novellato dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 145/2005; per quella collegata all’appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una data confessione religiosa o cittadinanza, v. l’art. 43, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 286/1998; ancora per quella collegata alla razza o all’origine etnica, v. l’art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 215/2003; infine, per quella causata dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dall’orientamento sessuale, v. l’art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 216/2003. Tirando le somme, e considerato che la discriminazione “politica” è stata recuperata attraverso il concetto di “convinzioni personali” (arg. anche dal riferimento all’”ideologia”, di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 216/2003), l’unica forma discriminazione rimasta tagliata fuori dall’avvento della discriminazione indiretta, è, paradossalmente, quella che ha rappresentato, a livello legislativo, il vero capostipite della categoria (pur poi venendo soppiantata, come prototipo, dalla discriminazione di genere): la discriminazione per ragioni sindacali. 214 Tanto che la formulazione concettualmente più esatta sembra ancora quella dell’art. 4, comma 1, legge n. 125/1991(che ha avuto anche il merito di lasciarsi alle spalle l’ambiguità dell’art. 1, comma 2, della legge n. 903/1977): “Costituisce discriminazione…qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso.” Cfr., in termini, anche l’art. 43, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 286/1998. 215 Nella previsione dell’art. 43, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 286/1998, è sopravvissuta la locuzione “proporzionalmente maggiore”, come attributo dello “svantaggio”, che figurava, prima della novella del 2005, anche nel testo dell’art. 4, comma 2, legge n. 125/1991. 216 V. Ballestrero 1996, 306, in apparente contraddizione con l’esatto rilievo per cui, “diversamente dal trattamento diseguale, il trattamento eguale (quello che viene in gioco in una discriminazione indiretta, n.d.a.) può risolversi in discriminazione solo se si può contestare proprio il fatto che sia effettivamente eguale”.

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condizione svantaggiata di classi di soggetti, cospira ad un tempo in favore

dell’eguaglianza sostanziale.

Se quanto ipotizzato ha una plausibilità, il rilievo della discriminazione indiretta si

coglie soprattutto nell’offrire la “sponda” sostanziale all’impiego, da parte del giudice, di

una tecnica di ragionamento di tipo presuntivo217, in virtù della quale l’allegazione, da

parte del lavoratore che si pretenda vittima di una discriminazione, di elementi di fatto –

desunti anche da dati di carattere statistico – idonei a fondare, in termini (gravi218,)

precisi e concordanti , la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti

discriminatori, comporta che si trasferisca sul convenuto l’onere di provare

l’insussistenza della discriminazione219.

Ed è pur vero che la legge non distingue, al fine, fra discriminazione diretta e

indiretta, in qualche modo a riprova dell’unitarietà della nozione; tant’è che, nella prassi,

qualsiasi giudizio di discriminazione (anche la più “diretta”) si risolve sempre sul terreno

indiziario, ergo presuntivo220.

Nondimeno, l’”arricchimento” della nozione sostanziale, realizzato con

l’introduzione del concetto di discriminazione indiretta, non soltanto abilita, ma sollecita

il giudice ad un ampliamento del novero degli indizi da prendere in considerazione onde

accertare la commissione di una discriminazione, individuale o (soprattutto, ma non

necessariamente221) collettiva. I rilievi svolti in merito all’unitarietà della nozione non

debbono intendersi, quindi, come svalutativi della novità della discriminazione indiretta,

essendosi proposti soltanto di analizzarne l’effettivo impatto sostanziale.

Ma, se di presunzione semplice si tratta, è altresì logico ed inevitabile che la

denuncia di una discriminazione indiretta lasci spazio per provare, ex adverso, che il

trattamento apparentemente neutro, ma portatore di esiti svantaggiosi per il lavoratore o

la classe di lavoratori protetta, è stato viceversa assistito da una giustificazione obiettiva,

e non può, di conseguenza, essere bollato come discriminatorio222.

217 Che la legge ha ripetutamente qualificato, peraltro, come presunzione semplice ex art. 2729, comma 1, c.c., e non legale iuris tantum. Sul punto, v. però le critiche di Taruffo 1992. Cfr. anche Pizzoferrato 2000, 122-123. 218 Il riferimento alla “gravità” dell’indizio, presente nella normativa sulle “altre” discriminazioni (attraverso il citato richiamo all’art. 2729), è invece assente per quelle di genere (art. 4, comma 6, legge n. 125/1991), essendosi quindi previsto un regime probatorio meno difficoltoso per il lavoratore. 219 Per la discriminazione di genere, v. l’art. 4, comma 6, legge n. 125/1991; per quella causata dall’appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza, v. l’art. 44, comma 9, del d.lgs. n. 286/1998; per quella collegata alla razza o all’origine etnica, l’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 215/2003; per quella causata dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dall’orientamento sessuale, l’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216/2003. 220 Cfr., ad es., Cass. 18 novembre 1997, n. 11464, ove il richiamo alla necessità di fornire elementi che vadano al di là di una mera contestualità temporale fra due fatti (il licenziamento e la pendenza di un precedente giudizio inter partes); Pret. Roma 20 novembre 1998. 221 Nel senso che anche la discriminazione indiretta può focalizzarsi sulla situazione del singolo individuo, v. Barbera 2003, 411. 222 Ove, al di là delle discussioni sull’ambito obiettivo delle varie fattispecie di giustificazione, il problema più irrisolto mi appare quello delle “organizzazioni di tendenza” (sulla nozione, v. Cass. 15 aprile 2005 n. 7837), e di

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E tuttavia, ad ulteriore indizio unitario, non v’è nulla, nella struttura intrinseca del

giudizio di discriminazione, che impedisca che, anche nella discriminazione diretta,

l’ordinamento possa conferire rilievo esimente all’esistenza di giustificazioni obiettive223.

Persino nella discriminazione-prototipo, quella di genere, e sia pure tramite la

peculiare tecnica precettiva di cui al 5° comma dell’art. 1 della legge n. 903/1977,

esistono ipotesi, pur eccezionali, di discriminazioni dirette “giustificate”224. A maggior

ragione, a fronte di denunce di discriminazione indiretta, è possibile fornire la prova che

gli atti o i comportamenti apparentemente neutri, ma in realtà comparativamente

svantaggiosi, “riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché

l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e

necessari” (art. 4, comma 2, della legge n. 125/1991, novellato dall’art. 2, comma 1, del

d.lgs. n. 145/2005)225.

Nelle “altre” discriminazioni, è invece prevista una clausola generale di

giustificazione della discriminazione “diretta”, incentrata sulla prova, della quale è

ovviamente onerato il datore di lavoro, che le differenze di trattamento “incriminate” sono

dovute a caratteristiche che, pur essendo collegate ad uno dei fattori “vietati”,

costituiscono, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene

espletata (nonché nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza), “un

requisito essenziale e determinante” ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa226; e, in

secondo luogo, un’ampia clausola liberatoria, assai ampia, per le differenze di

trattamento apparentemente neutre, ma indirettamente discriminatorie, le quali sono

restituite a liceità “qualora siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite

attraverso mezzi appropriati e necessari”227.

quanto in esse sia costretta ad “arretrare” la tutela antidiscriminatoria (in generale, v. Santoni 1983 e Pedrazzoli 1987). Non si è ancora consolidato neppure il condivisibile e pur problematico principio dell’irrilevanza, rispetto alla tendenza, dello svolgimento di mansioni “neutre” (v. Cass. 6 novembre 2001 n. 13721). 223 Né sembra producente, al fine, distinguere fra “deroghe” (alle discriminazioni dirette) e “giustificazioni” (delle discriminazioni indirette (Barbera 2003, 410), trattandosi di tecniche diverse di prefigurazione di fatti qualificati dall’ordinamento come estintivi del preteso inadempimento (o comunque rivolti a negare l’”ingiustizia” del danno addotto dal lavoratore che si assume discriminato). 224 All’ipotesi menzionata nel testo, per cui non è discriminazione condizionare all’appartenenza ad un determinato sesso l’assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, purché “ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione”, adde quella di cui al 4° comma della medesima disposizione, che ammette l’introduzione di deroghe al divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro “per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva”. In argomento, v. Izzi 2005, 131 ss. 225 Sui numerosi snodi interpretativi di tale formula, nonché sui problemi, altrettanto delicati, di compatibilità con il diritto comunitario, v. per tutti Izzi 2005, 145 ss. 226 Per le discriminazioni collegate alla razza o all’origine etnica, v. l’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 215/2003, ove però una scelta diversa da quella compiuta nel d.lgs. n. 286/1998, nel quale non v’è spazio per giustificazioni di sorta. Per quelle connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale, l’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 216/2003 (cui adde il comma 5). 227 V. rispettivamente l’art. 3, comma 4, d.lgs. n. 215/2005, e l’art. 3, comma 6, d.lgs. n. 216/2005. Nel d.lgs. n. 286/1998 (art. 43, comma 2, lett.e) figura invece, come criterio di giustificazione della discriminazione indiretta, quello dell’inerenza a requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

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Se questa è, de iure posito, la struttura minimale comune dell’illecito

discriminatorio, non vale la pena di scomodare oltre la querelle sulla natura “soggettiva”

o “oggettiva” della discriminazione, tanto essa appare risolta dalle chiare prese di

posizione della legge, sin da quando l’art. 4, comma 1, della legge n. 125/1991 (poi

seguito dalle normative del 1998 e 2003228 e dalla stessa novella del 2005, che pure ha

riscritto la disposizione) optò senza esitazioni per la teoria “oggettiva”229, a maggior

ragione in considerazione dell’inclusione del concetto di discriminazione indiretta230.

E non sarà superfluo ricordare che, allorché operò tale scelta, il legislatore accolse

il suggerimento di quella dottrina post-statutaria che, ricostruendo l’illecito

discriminatorio in stretta contiguità con l’illecito antisindacale, ne aveva identificato il

connotato strutturale, semplicemente, nell’obiettiva idoneità a ledere la situazione

protetta231, a prescindere dal rilievo del dolo o della colpa, e a maggior ragione

dell’animus nocendi232, preparando così il terreno a quella che si è delineata, col tempo,

come una vera e propria koinè dell’illecito lavoristico.

Ciò consente un’osservazione conclusiva sul modello di responsabilità. Avendo

ragionato all’interno di un apparato sanzionatorio che prescindeva - o riteneva di poter

prescindere – da una comunicazione diretta col sistema della responsabilità civile, la

dottrina ha quasi sempre trascurato il problema233; forse anche per l’imbarazzo derivante

dal fatto che i divieti di discriminazione, ponendosi come comandi di non lesione di beni

assoluti o universali234, evocano i paradigmi della responsabilità extra-contrattuale.

E, tuttavia, la ricostruzione positiva conferma per l’ennesima volta che, una volta

trasposto in un ambiente contrattuale, l’illecito subisce una torsione concettuale, che ne

favorisce una tendenziale “oggettivazione”, fatta salva la possibilità della prova

liberatoria, nei limiti in cui essa è consentita, per ciascuna fattispecie discriminatoria, da

parte dell’ordinamento.

Ne segue che il fatto che l’onere della prova della discriminazione ricada

pacificamente sul lavoratore, fatta salva l’operatività di dispositivi presuntivi, non

allontana la correlata fattispecie di responsabilità dal modello dell’art. 1218, ma, al

228 Nel senso che l’opzione di cui al testo non è contraddetta dal “ritorno di fiamma” dello “scopo”, in alternativa all’”effetto”, v. retro, § 7. E’ ancor più scontato osservare che l’irrilevanza dell’elemento soggettivo non è contraddetta dal fatto che i d.lgs. nn. 215 (art. 2, comma 4) e 216 (art. 2, comma 4) abbiano equiparato ad una discriminazione “l’ordine di discriminare persone” a causa di uno dei fattori protetti. 229 V. Barbera 1991, 218 ss., e 1994, 54 ss.; Izzi 2005, 35 ss.; Pessi 1996, 35 ss., con ampi riferimenti al dibattito precedente. 230 V. Barbera 1994, 55. 231 V. Treu 1974, 120 ss. 232 V. Treu 1974, 125 ss. 233 V. però Ballestrero 1996, 307, per il rilievo che il medesimo processo di oggettivazione, che ha caratterizzato l’evoluzione della tutela antidiscriminatoria, si è verificato anche nella zona della responsabilità contrattuale. 234 Non è stato ancora valorizzato a sufficienza, fra l’altro, il fatto che la disciplina del d.lgs. n. 216/2003 (come già, del resto, quella del d.lgs. n. 286/1998) abbia trattato nel medesimo contesto, accanto a quelle sul lavoro, anche altre discriminazioni collegate alla razza o all’origine etnica.

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contrario, ce la inserisce quasi di giustezza235. Per cui l’esplicita opzione del legislatore in

favore del risarcimento del danno, patrimoniale e no, lungi dall’apparire una concessione

allo spirito del tempo, ha colmato una lacuna sistematica, chiudendo un cerchio che si

era aperto sin dalle prime, “scandalose”, apparizioni della tutela antidiscriminatoria.

E sarebbe malinconicamente ironico, se fosse proprio il danno a far decollare una

volta per tutte la tutela antidiscriminatoria.

7. Libertà sessuale.

Il tema delle molestie sessuali sul lavoro236 si pone esemplarmente “a cavallo” fra

gli ultimi due presi in esame.

L’inquadramento giuridico del fenomeno ha infatti ripercorso, ragionevolmente, i

medesimi binari concettuali e giuridici del mobbing237. Alla luce dei primi, pionieristici,

indirizzi giurisprudenziali, l’art. 2087 si è mostrato in grado di accogliere entrambe le

proiezioni della responsabilità: quella indiretta nelle molestie che per assonanza

chiameremo “orizzontali”238 (talora con impiego ancillare dell’art. 2049239), e quella diretta

nelle molestie “verticali” (talora con concorso con l’art. 2043)240.

Data la vaghezza del concetto di protezione della “personalità morale”, non si è

peraltro risolto, con ciò, il problema della nozione, la cui soluzione teorica, una volta

ovviamente scartato (ad ennesima conferma di quanto acquisito con riguardo agli altri

istituti “di area”) ogni riferimento allo stato soggettivo dell’autore della molestia, ha

oscillato fra la nozione comunitaria241, tutta incentrata, all’opposto, sul carattere

“indesiderato” della molestia, ergo sull’“oggettivazione” dello stato soggettivo della vittima,

e l’influsso della giurisprudenza nordamericana, incline a temperare il riferimento alla

235 Cfr., nel medesimo ordine di idee, Izzi 2005, 39-40, ove l’ulteriore notazione che, quand’anche si versi al di fuori di una relazione contrattuale (come nella fase di selezione del personale), la giurisprudenza comunitaria impone ormai di prescindere dalla dimostrazione della ricorrenza di qualsiasi elemento soggettivo (e segue infatti la critica ad un obiter dictum di Cass. 25 settembre 2002 n. 13942, GC, 2003,I,1034). 236 Sul quale v., per tutti, Pizzoferrato 2000 (e, se vuoi, la recensione di Del Punta 2001). 237 Anzi, li ha leggermente anticipati: infatti, la pur non copiosa giurisprudenza in materia ha cominciato a svilupparsi sin dagli anni ’90, a cominciare da Pret. Frosinone 11 agosto 1989, RIDL, 1990,II,705, con nota di Ghinoy, pur relativa ad un caso di licenziamento per false accuse di molestie. 238 V. ad es. Cass. 17 luglio 1995 n. 7768; Trib. Milano 28 dicembre 2001, RCDL, 2002, 371; Trib. Pisa 12 ottobre 2001, LG, 2002, 456, con nota di Nunin. 239 V., ad es., Pret. Milano 14 agosto 1991, RIDL, 1992,II,403, con nota di Poso (conf. da Trib. Milano 19 giugno 1993, RCDL, 1994, 130), non riconoscendosi alla ricorrente, peraltro, anche il danno morale ex art. 2049, ritenendosi che la molestia dolosa commessa da un dipendente spezzi il vincolo che impegna il datore a rispondere degli illeciti commessi nell’esercizio delle incombenze alle quali sono adibiti i suoi “domestici”. Con riguardo alle molestie, nel complesso, le resistenze all’utilizzazione dell’art. 2049 (peraltro ora sdrammatizzate, nel senso della risarcibilità del danno morale anche ex art. 2087, dai nuovi orientamenti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) sono state frequenti (v., ad es. Trib. Venezia 15 gennaio 2002, Foro pad., 2002,I,404). 240 Cfr. Cass. Cass. 8 gennaio 2000 n. 143; Cass. 17 luglio 1995 n. 7768, cit.supra, che scolpisce la “doppia” valenza dell’art. 2087. 241 V. la raccomandazione 92/131/CEE della Commissione delle Comunità Europee del 27 novembre 1991, e quindi l’art. 2, par. 2, della direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE del 23 settembre 2002.

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vittima mediante il concetto di “ragionevolezza”, riferito ad una persona-tipo dello stesso

sesso242.

Il problema si è ulteriormente complicato, e in qualche misura intorbidato, per

l’insistente manifestarsi di pressioni (poi consacrate dalla direttiva 2002/73/CE) a far

confluire la molestia sessuale nel più ampio alveo della tutela antidiscriminatoria di

genere243. L’esito ne è stato l’art. 4, comma 2-bis, della legge n. 125/1991244, che, a ruota

delle molestie di genere, ha stabilito che sono considerate discriminazioni anche le

molestie sessuali, ovvero “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale,

espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità

di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,

umiliante e offensivo”.

Tale nozione conferma, anzitutto, il riferimento privilegiato al punto di vista della

vittima245. Ma è dubbio che esso possa ritenersi esaustivo, evincendosi anche la necessità

di una valutazione obiettiva della portata lesiva dei fatti allegati e provati, anche tramite

presunzioni, dalla predetta. Fra l’altro, al di là di un “minimo materiale” identificabile

nell’intrusione, comunque posta in essere, nella sfera privata e sessuale di una/un

dipendente, le particolari modalità delle relazioni fra i sessi (che fioriscono ovviamente,

nella vasta gamma della loro fenomenologia, anche nei luoghi di lavoro) – condizionate da

“asimmetrie informative” di partenza, fra i due soggetti e fra ciascuno e se stesso, nonché

costellate da giochi tattici e simulatori - possono rendere particolarmente difficile la

valutazione in discorso, in specie con riguardo a mere, iniziali, attenzioni a sfondo

sessuale246; ferma restando la non accoglibilità, nella fattispecie, dell’elemento della

“continuazione”247, già controverso nel mobbing248. Non meno “difficile”, come già

rilevato249, è il prolungamento della nozione, realizzato dal concetto di molestia

“ambientale”.

Se quelli rapidamente evocati sono i problemi reali, con i quali dovrà continuare a

misurarsi la giurisprudenza, il nodo teoricamente più interessante è la configurazione

legislativa della molestia come discriminazione, che certo sembra alludere (anche per la

242 V. Pizzoferrato 2000, 69 ss. 243 V. Pizzoferrato 2000, 97 ss., peraltro non sottacendo alcune perplessità (v. anche infra). 244 Recato dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n.145/2005. 245 E senza che il riferimento allo “scopo”, in alternativa all’”effetto”, possa – per la ragione già spiegata – assumere il significato di un improvvido (qui più che mai) ritorno di rilevanza dello stato soggettivo dell’autore della molestia. 246 Alcuni codici di condotta precisano, infatti, che tali attenzioni trascendono in molestie, quando sono ripetute nonostante che la destinataria abbia mostrato di ritenerle sgradite. 247 V., però, Pret. Milano 20 febbraio 1995, FI, 1995,I,1985, che, nel caso di un dipendente che aveva compiuto un atto esibizionistico, ha dato rilievo esimente (sì da giudicare sproporzionato il conseguente licenziamento) al fatto che era rimasto isolato. Per una valutazione di segno opposto, nel caso di una lavoratrice che era stata attirata con uno stratagemma in un magazzino a fini sessuali, v. Pret. Torino 26 gennaio 1991, RIDL, 1991, II, 431, con nota di Pera. 248 V. retro, § 5. 249 V. ancora retro, § 5.

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collocazione della norma) ad un’integrazione della fattispecie e non ad una mera

equiparazione di effetti250.

La novità è stata salutata con interesse, da parte di chi si è spinto ad ipotizzare –

anche in connessione con l’apertura della giurisprudenza comunitaria alla prospettiva

della “comparabilità” - lo sganciamento della discriminazione dall’esigenza di una

valutazione comparativa251.

Sembra invece, a chi scrive, che i costi, teorici e pratici, di tale operazione – della

quale, pure, è doveroso prendere atto – siano stati superiori ai benefici252.

Costi teorici, perché si è minata la tenuta concettuale della nozione di

discriminazione, sospingendola verso una terra di nessuno, nella quale, privata del

proprio connotato distintivo, essa rischia di degradare a mero equivalente semantico

dell’illiceità, inducendo confusione fra la struttura della fattispecie e la qualificazione

giuridica dell’ordinamento; e, specularmente, perché si rischia di dimenticare – e far

dimenticare - che la molestia sessuale, in quanto concretante un’offesa diretta ai beni

della dignità e della libertà sessuale (piuttosto che un peccato contro l’eguaglianza, come

avviene nelle discriminazioni, ed anche nelle molestie “discriminatorie”), non può non

conservare, in seno al contratto, quella qualificazione di illiceità come tale che si merita

ex art. 2043, e che non necessita, per farsi valere, ed a meno di sprofondare in veri e

propri paradossi logici (ogni illecito extra-contrattuale è forse una discriminazione?), del

sostegno di un’altra figura di illecito.

E pratici, potendone persino derivare una deminutio di tutela, ove ne scaturiscano

inclinazioni a limitare la medesima ai casi in cui le molestie siano una componente di

una più complessa fattispecie discriminatoria253 (il che, come è noto, accade spesso254,

ma deve dar luogo ad un cumulo di tutele, e non ad un improvvido sincretismo fra le

medesime).

Quella legislativo-comunitaria appare, quindi, come una sorta di nozione-

bandiera, nella quale il messaggio politico-culturale tende a prevalere sulla tenuta

giuridica.

A ciò si aggiunga che la scelta di inserire la fattispecie nell’apparato della legge n.

125/1991 (limitandola, quindi, alle sole molestie dette “verticali”) ha rimosso il problema 250 V. invece il distinguo di Izzi 2005, 57. 251 V. Barbera 2003, 409 ss., su cui le osservazioni critiche di Ballestrero 2004, 515-516; De Simone 2004, 535; Izzi 2005, 42 ss. (peraltro in qualche misura “dimenticate” ivi, 188 ss.). 252 L’unico beneficio della configurazione come discriminazione di genere potrebbe essere rappresentato dalla non necessità che gli elementi indiziari, in casi del tipo, siano anche “gravi”, oltre che “precisi e concordanti” (cfr. art. 4, comma 6, legge n.125/1991); pur riproponendosi, per il resto, l’ordinario modello presuntivo. 253 V., infatti, le preoccupazioni di Pizzoferrato 2000, 95,128 e 139. 254 V., ad es., Pret. Milano 15 maggio 1996, OGL, 1996,649, e soprattutto il caso esemplare deciso da Pret. Trento 22 febbraio 1993, RIDL, 1994,II,172, con nota di Poso, peraltro non confermata da Cass. 8 agosto 1997 n. 7380, RIDL, 1998,II,795, con nota di Pizzoferrato, proprio sul punto della qualificazione come molestie delle condotte datoriali, che poi erano trascese in atti gestionali illegittimi e ritorsivi.

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del collegamento sistematico con l’art. 2087, e l’istanza di protezione da esso veicolata.

Un problema risolubile, peraltro, sul terreno interpretativo, considerando quella dell’art.

4, comma 2-bis, come la nuova nozione generale di molestia sessuale sul lavoro, e come

tale esprimente, non soltanto ciò che il datore di lavoro deve astenersi dal fare, ma anche

ciò da cui (come specificazione del dovere di protezione della personalità morale ex art.

2087) deve proteggere i dipendenti affidati alla propria responsabilità.

Si pone, a tale riguardo, l’esigenza di pervenire ad un’applicazione appropriata

dell’obbligo in questione, esente da una trasposizione meccanica della concezione aperta

ed elastica dell’art. 2087, invalsa nel campo della salute e sicurezza, sì da scongiurare lo

spettro dell’avvento di una “massima correttezza organizzativamente fattibile”255. Ove

esso si profilasse, fra l’altro, il datore di lavoro potrebbe trovarsi indotto, onde adempiere

il più puntualmente possibile all’obbligo e pararsi da conseguenze patrimoniali

spiacevoli, a ingerirsi nella sfera privata dei dipendenti, e magari a inoltrarsi sulla strada

di un paternalismo soffocante e forse ancor più offensivo della loro dignità.

Ciò non toglie, naturalmente, che se il datore sapeva o doveva ragionevolmente

sapere, e non è intervenuto per far cessare le condotte moleste (per quanto allo stato

nascente), anche facendo ricorso senza esitazioni allo strumento disciplinare256, non

possa esimersi da responsabilità257; la quale, data la natura dei beni lesi, procederà

spedita verso le mete, pur spesso confuse, del danno non patrimoniale258. Anzi,

l’operazione di inserimento della molestia sessuale nella normativa antidiscriminatoria è

stata resa possibile soltanto dalla coeva previsione della riconoscibilità del danno non

patrimoniale: se c’è un’ipotesi, infatti, nella quale l’arma della nullità è “spuntata”, e

anche l’ordine di rimozione degli effetti serve a poco, per cui occorre ripiegare su altri

rimedi (l’inibitoria e il risarcimento del danno),è quella di cui si è discusso.

8. Onore e immagine.

255 Per una lettura molto estensiva dell’obbligo, sia pure filtrata attraverso i codici di condotta, v. invece Pizzoferrato 2000, 345 ss. 256 Per l’ovvio inquadramento delle molestie sessuali verso una dipendente come giusta causa di licenziamento (a prescindere dall’intervenuta assoluzione penale), v. ad es. Cass. 2 dicembre 1996 n. 10752, RIDL, 1997,II,594, con nota di Magro; Pret. Modena 29 luglio 1999, LG, 1999, 599, con nota di Lanotte. Ciò anche nel caso in cui le molestie siano state commesse nei confronti di un terzo (la figlia minore di un utente), con riflessi sull’immagine del datore di lavoro: v. Cass. 28 aprile 1995 n. 4735, RIDL, 1996,II,866, con nota di Vettor. Per un caso di ritenuta sproporzione del licenziamento, v. peraltro Cass. 2 maggio 2005 n. 9068. Nel senso, coerente col principio corrente, che deve andare esente da misure disciplinari la lavoratrice che abbia reagito a molestie: Cass. 19 dicembre 1998 n. 12717. 257 Per un caso in cui la responsabilità datoriale ex art. 2087 (oltre che ex art. 2049) è stata ravvisata in quanto la società, posta a conoscenza della condotta molesta del preposto, non aveva adottato alcun provvedimento per farla cessare, v. Pret. Milano 31 gennaio 1997, RCDL, 1997, 619. Per il rilievo che la sussistenza di una responsabilità diretta del datore di lavoro ex art. 2087 esige che la condotta illecita del dipendente sia prevedibile e prevenibile, v. Pret. Modena 29 luglio 1999, cit. 258 Cfr. Pizzoferrato 2000, 266 ss. e 409 ss., enfatizzando la tendenziale trasformazione del risarcimento in sanzione affittiva, collegata all’”immaterialità” dei nuovi beni tutelati.

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L’onore (o reputazione), come è risaputo, è uno dei più classici diritti della

personalità, definibile come il riflesso che la dignità personale, ossia il sentimento del

proprio intimo valore morale, ha nella positiva considerazione dei terzi259. Le sue basi

costituzionali, al di là del suo incarnare un antichissimo valore etico, non sono davvero

ardue da rinvenire (artt.2, 3 comma 1)260.

Nel rapporto di lavoro subordinato il diritto all’onore non si è presentato, a dir il

vero, in una veste diversa dal solito: esso vi ha mantenuto, né più né meno, la propria

consueta fisionomia di diritto assoluto, la cui lesione è risarcibile ex art. 2043 c.c.261 Non

si sono verificati, nell’occasione, anche per la relativa esiguità della casistica, tentativi

particolarmente “agguerriti” di penetrazione nel contratto.

Il discorso rimanda, soprattutto, all’ipotesi del licenziamento “ingiurioso” o

offensivo262, che la giurisprudenza ha sempre tenuto distinta, per l’esistenza di uno

specifico profilo di illiceità, da quella del licenziamento semplicemente ingiustificato263.

L’autonomia nei confronti della regola di giustificazione dovrebbe implicare che non

soltanto un licenziamento ingiustificato non sia per ciò solo ingiurioso, ma che possa

essere ingiurioso (sia pure in casi eccezionali), anche un licenziamento giustificato.

Infatti, gli elementi valutati ai fini del riconoscimento di tale illiceità – che, pur

essendo inizialmente il riflesso di quella penale264, ha poi acquisito un’ampia autonomia

anche da essa, lungo una direttrice che dell’onore tout court discende sino alla tutela

dell’onore nel campo lavorativo (e più ampiamente economico) - possono essere di varia

natura, e non concernono soltanto la causale, ma anche le modalità, ampiamente intese,

del licenziamento. Il più importante di tali elementi rimane legato, ovviamente,

all’intrinseco carattere disonorevole dei fatti contestati, di massima sub specie di giusta

causa di recesso265. Ma possono assumere rilievo anche le modalità con le quali il

provvedimento è stato irrogato266, la sua forma267, il momento prescelto per comunicare

259 V. classicamente De Cupis 1982, 250 ss. 260 V. De Cupis 1982, 256 ss. 261 V. Pret. Ferrara 25 novembre 1993, RIDL, 1994,II, 561, con nota di Tullini. Per l’esplicito richiamo al concetto di “danno ingiusto”, v. Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219. Per la possibilità di un concorso fra le due azioni di responsabilità, v. però Pret. Roma 3 ottobre 1991, RCDL 1992, 390, con nota di Muggia. 262 Per una rassegna critica della giurisprudenza, cui si debbono molte delle citazioni che seguono, v. Pasquini 2004, cui adde Paladini 2000 (con prefazione di G. Pera). 263 V. Cass. 14 maggio 2003 n. 7479; Cass. 1° luglio 1997 n. 5850; Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219. 264 Cfr. De Cupis 1982, 268 ss. 265 Per il caso di una dipendente licenziata da una base Nato in Italia perché ingiustamente accusata di frode sui giustificativi delle spese, v. Cass. 15 aprile 2005 n. 7837. Per quello di un dirigente licenziato per asserita (ma poi risultata pretestuosa) incapacità professionale, v. Pret. Parma 13 novembre 1995, LG, 1996, 476, con nota di Mannacio. 266 Per un caso (istruttivo, per l’assegnazione di rilevanza ad un elemento che difficilmente potrebbe pesare, se non ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo, in sede di controllo sulla giustificazione) in cui si è valutato, ai fini, il carattere inatteso del licenziamento, in quanto preceduto da un atteggiamento comprensivo da parte del datore di lavoro, con il quale il dipendente aveva da anni un rapporto di stretta collaborazione, v. Pret. Ferrara 25 novembre 1993, cit.

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la decisione al lavoratore268, l’indebita pubblicità data al licenziamento269, l’attitudine del

licenziamento (per il tipo di causale che lo ha determinato) a pregiudicare le possibilità di

ricollocazione del lavoratore nel mercato270.

La figura del licenziamento ingiurioso è di elaborazione ormai remota271, anche

perché è stata la prima in grado di eludere le limitazioni alla risarcibilità del danno

morale. Ciò grazie alla “linea diretta” con l’art. 185 c.p., oltre che all’emersione di profili

di danno patrimoniale indiretto, il risarcimento del quale non ha mai incontrato

obiezioni272.

Più di recente, la spinta risarcitoria ha guadagnato nuovo impulso per via della

confluenza con l’evoluzione del danno non patrimoniale (ma anche qui con una carica

pionieristica, ad esempio in virtù del diretto ricorso alla “dignità” costituzionale273),

cominciando persino ad esercitare una pressione destrutturante sul sistema legale di

tutela “patrimoniale” contro il licenziamento illegittimo: in virtù della sua elasticità, il

concetto di licenziamento ingiurioso può infatti spingersi, teoricamente, là dove non può

arrivare l’art. 8 della legge n. 604/1966.

Più di recente, una tendenza simile, con riguardo all’onore lavorativo, o (come oggi

si tende a dire) alla lesione dell’immagine professionale274, si è manifestata anche in

relazione a fatti di demansionamento, e quindi (al di là della sua riconducibilità al –

distinto – concetto qui trattato) come uno dei frutti della rigogliosa fioritura

giurisprudenziale dell’art. 2103 c.c.275. E anche lì il danno risarcito tende ad avere una

267 E’ l’ipotesi del licenziamento intimato ad horas, impedendo al direttore di un giornale di firmare l’ultimo numero del giornale da lui diretto e di fornire ai lettori la propria versione del fatto causativo del licenziamento: v. Cass. 5 novembre 1979 n. 5713, GI, 1980,I,1, 1520, con nota di Zanelli. 268 Come quando tale momento sia molto ravvicinato ad un grave evento luttuoso che abbia colpito il lavoratore: v. ancora Pret. Ferrara 25 novembre 1993, cit. Per un caso in qualche modo simile, v. Trib. Milano 30 giugno 2003, RCDL, 2003,997. 269 Come nel caso in cui un’azienda della grande distribuzione, dopo aver licenziato alcuni lavoratori per asserito furto di cibi o bevande, affigga un comunicato alla clientela per ribadire tali accuse, pur in pendenza del giudizio di impugnativa dei recessi. Per un caso di azione ex art. 28 St.lav. suscitato da una contestazione disciplinare contro alcuni dipendenti che si era rifiutati di svolgere un servizio di reperibilità durante un’azione sindacale, che era stata affissa nella bacheca sindacale, affermando il giudice che tale modalità è lesiva dell’immagine professionale, oltre che della personalità morale ex art. 2087, v. Trib. Milano 9 gennaio 2004, RCDL, 2004, 304, con nota di Beretta. 270 Come nel caso di un licenziamento per giusta causa determinato da fatti infamanti, o nei confronti di dipendenti (come i dirigenti), particolarmente esposti sul versante fiduciario, per i quali la giusta causa può rappresentare una definitiva “palla al piede”. 271 V. già Simi 1952. 272 Cfr., per riferimenti, De Cupis 1982, 268-269. 273 V. Pret. Bologna 20 novembre 1990, GI, 1991,I,2,84, con nota di Zilio Grandi. 274 La tematica cui si fa riferimento nel testo deve essere tenuta distinta (al di là delle connessioni concettuali) dalle vicende giuridiche di quel classico diritto della personalità, noto appunto come diritto all’immagine (cfr. De Cupis 1982, 283 ss.), ovverosia alla protezione ed eventualmente all’utilizzazione della propria immegine pubblica. Su alcuni riflessi lavoristici del tema (qui non trattato), relativi alla specifica situazione del lavoro sportivo, v. Martone 2002, spec. 213 ss. 275 Sull’argomento, v. più ampiamente infra, § 11. Per varia casistica, v. Cass. 10 giugno 2004, n. 11045; Cass. 26 maggio 2004 n. 10157, OGL, 2004,I,331; Cass. sez. trib. 17 febbraio 2004 n. 3082; Cass. 22 febbraio 2003 n. 2763; Trib. Roma 15 febbraio 2005, FI, 2005,I,1233, relativa al caso Santoro/Rai-Tv.

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natura ancipite, patrimoniale per il pregiudizio di carriera, e non patrimoniale per la

componente “morale” della lesione della reputazione professionale276.

Nel complesso, il governo di questi vari elementi è tutt’altro che facile per il

giudice. Di solito le difficoltà tendono a scaricarsi sul danno, dibattendosi se sia

necessaria un’autonoma prova del medesimo277 (di certo necessaria con riguardo alla

lesione della reputazione professionale), o se essa sia in re ipsa278, ma esse coinvolgono, a

monte, lo stesso evento, eternamente in bilico fra percezione soggettiva della persona

offesa e valutazione ab externo della obiettiva idoneità lesiva279.

9. Libertà di espressione.

Il tema della penetrazione nel rapporto delle libertà fondamentali, insite nello

status di cittadinanza prefigurato dalla Carta Costituzionale, conosce varie possibili

declinazioni. Una di esse (che ha, peraltro, molti punti di contatto con quella che si va a

trattare280) è stata già esaminata, con riguardo alla protezione contro le

discriminazioni281: ma essa varrebbe a poco, se non poggiasse, a monte, su un’opzione

chiara in merito al pieno riconoscimento delle libertà all’interno dei luoghi di lavoro. E’

per questo che il legislatore del 1970 tenne a mettere in risalto tale principio,

conferendogli l’onore dell’incipit282.

Già all’epoca, naturalmente, ed a maggior ragione oggi, la riflessione sui diritti

costituzionali era evoluta al punto da rendere un “di più” la formalizzazione, in una

disposizione di legge ordinaria, di un principio comunque ricavabile, in linea diretta,

dalla Carta (oltre che da note fonti internazionali). Ma ciò nulla toglie all’importanza

giuridica e simbolica della scelta allora compiuta.

L’art. 1 ha un rilievo centrale, per altro verso, perché la complessa vicenda del suo

iter parlamentare, e la formulazione che ne è risultata283, scandiscono tuttora i termini

essenziali del problema cui continua a trovarsi di fronte la giurisprudenza, allorché

esamina fattispecie, nelle quali l’esercizio concreto della libertà di manifestazione del

276 V., ad es., Trib. Roma 15 febbraio 2005, cit. 277 V. Cass. 13 giugno 2005 n. 12642; Cass. 14 maggio 2003 n. 7479; Cass. 1° luglio 1997 n. 5850; Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219. 278 V. Cass. 1° aprile 1999 n. 3147, relativa ad un caso in cui la lavoratrice era stata ingiustamente accusata di aver falsificato il contratto di lavoro, e sia pure con la limitazione di cui al testo. Si richiama all’orientamento maggioritario (v. nota precedente), ma con la precisazione che se la allegata giusta causa di licenziamento consiste nell’asserita commissione di un reato, la verificata insussistenza della stessa rende il licenziamento ingiurioso ex se, Cass. 15 aprile 2005 n. 7837. 279 Nel senso che l’ingiuriosità deve essere rigorosamente dimostrata, con riguardo tanto alla sua sussistenza, quanto al pregiudizio subito, v. Cass. 13 giugno 2005 n. 12642. 280 E che concerne estrinsecazioni ulteriori (rispetto a quelle già protette dalla normativa antidiscriminatoria) della libertà di manifestazione del pensiero. 281 V. retro, § 6. 282 Sull’art. 1 St.lav. v., per tutti, Romagnoli 1979a. 283 Cfr. Aimo 2003, 173 ss., spec. 179-181.

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pensiero, ampiamente intesa, da parte di un lavoratore, entra in contrasto con l’interesse

dell’imprenditore. Ove si tratta di stabilire, non già se tale esercizio possa costituire una

sorta di “causa di giustificazione”, rispetto ad una responsabilità contrattuale altrimenti

sussistente, bensì, più radicalmente, l’estensione da assegnare alle posizioni soggettive

passive del lavoratore subordinato, tenuto conto della libertà di manifestazione del

pensiero, della quale egli continua a godere anche nel momento e nello spazio in cui

presta la propria opera.

Il problema sorge, in particolare, perché fra tali obblighi è compreso quello di non

divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o di

non farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio (art. 2105 c.c.)284. Vi sono poi,

senza voler ripescare dall’oblio una stretta accezione di “obbligo di fedeltà”285, i principi di

correttezza e buona fede, che la giurisprudenza impiega come fonte di doveri contrattuali

sostanzialmente integrativi286. Là dove finisce la libertà, in tali ipotesi, comincia

l’inadempimento contrattuale, sub specie di reazione disciplinare alla condotta del

lavoratore, e viceversa.

Il livello del potenziale contrasto con l’interesse dell’imprenditore può, a propria

volta, variare di intensità. Esso è soltanto indiretto, nella misura in cui l’esercizio della

libertà determina un semplice ostacolo materiale all’adempimento della prestazione, da

parte dello stesso interessato, o di altri lavoratori: è il problema che lo Statuto ha risolto

con la disposizione dell’art. 26, comma 1, la quale ha riprodotto la formula dell’”intralcio

alle attività aziendali”, originariamente contenuta nel disegno di legge governativo, e poi

stralciata, da parte della Commissione Lavoro del Senato, dal testo dell’art. 1.

Il contrasto tende a farsi diretto e potenzialmente più grave, invece, nei casi in cui

il lavoratore rifiuti di adempiere la propria prestazione, proprio per esercitare un diritto di

libertà, come quello all’obiezione di coscienza “professionale”287, oppure avanzi critiche, in

specie pubbliche, all’operato del datore di lavoro.

Ed è qui che torna in causa, per l’appunto, l’art. 1, con la sollecitazione

interpretativa al bilanciamento dei diritti, campo elettivo della quale (in assenza di più

specifiche delimitazioni positive, come nel francese droit d’expression288) è stato

284 Nel senso che l’obbligo in discorso non si estende ad attività illecite dell’imprenditore, v. comunque la famosa Cass. 16 gennaio 2001 n. 519, RIDL, 2001, II, 453. 285 Per una ripresa del tormentato dibattito dottrinale sull’argomento v., per tutti, Mattarolo 2000. 286 Nel senso che, sulla base di una lettura dell’art. 2105 collegata ai principi generali di correttezza e buona fede, il lavoratore non deve astenersi soltanto dai comportamenti espressamente vietati, ma anche da qualsiasi altra condotta che risulti in contrasto con i doveri di inserimento del lavoratore nell’impresa o crei un conflitto di interessi con la medesima, v. ad es. Cass. 4 aprile 2005 n. 6957, FI, 2005,I,2018. Per l’inizio di tale orientamento, v. Cass. 1 giugno 1988 n. 3719, RIDL, 1988,II,978. 287 Per un esame delle ipotesi di obiezione di coscienza positivamente previste, ivi compresa quella – particolarmente delicata - del rifiuto di svolgere attività lavorative durante i giorni considerati festivi dal proprio credo, v. Aimo 2003, 182 ss. In generale sul “diritto alla diversità religiosa”, v. Bellocchi, 198 ss. 288 Cfr. Aimo 2003, 231-232.

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soprattutto il faticoso lavoro della giurisprudenza sui limiti del diritto di critica del

lavoratore289. A partire dalla sentenza-capostipite del 1986, tale indirizzo ha

rappresentato per alcuni (e criticati290) versi, la trasposizione “lavoristica” di principi

elaborati in tema di responsabilità del giornalista291. Ma ulteriori ramificazioni

ermeneutiche – interne alle vicende del bilanciamento - si sono poi aperte, man mano

che si è posto il problema di quanto il diritto di critica abbia ad espandersi allorché

costituisca una forma di esercizio (e ciò dicasi, in particolare, per il dipendente-

sindacalista) dell’attività sindacale292.

E’ sempre sul problematico terreno del bilanciamento293, inoltre, che la

giurisprudenza ha correttamente tentato di risolvere il problema, pur emerso ancora

embrionalmente nella nostra esperienza (in specie a paragone di quella statunitense294),

dei limiti alla libertà del lavoratore in ordine all’autodeterminazione del proprio aspetto

esteriore (che può anche avere evidenti punti di contatto con quella religiosa)295. Si è così

enucleato il principio per cui (al di là del problema, in fondo non decisivo296,

dell’esistenza o no di specifiche norme o clausole contrattuali in argomento) eventuali

limitazioni imposte dall’imprenditore al modo di presentarsi esteriore del lavoratore,

debbono essere giustificate da qualificate esigenze produttive, organizzative o di

immagine al pubblico dell’azienda, o da esigenze di sicurezza o di igiene della

lavorazione297, che possono concernere anche lo stesso lavoratore interessato298.

La rilevata contiguità giuridica fra l’area del diritto e quella dell’inadempimento

consente, infine, una riflessione di ordine sistematico. Insistendo in un’area coperta dal

principio di libertà ex art. 21 Cost. e art. 1 St.lav., i comportamenti del lavoratore che,

289 Per un riepilogo critico della tematica, v. Aimo 2003, 226 ss. 290 Per un commento problematicamente critico alla sentenza cit. nella nota che segue, v. Mazzotta 1986, ove la prospettazione delle domande tuttora cruciali: “Il lavoratore deve essere solidale con quanto di “bene” e di “male” faccia il datore di lavoro nell’impresa? La fiduciarietà del rapporto sottende anche la connivenza?”. 291 V. Cass. 25 febbraio 1986 n. 1173, FI, 1986,I,1885, in un caso in cui un tecnico di radiologia ed un’infermiera erano stati licenziati per avere denunciato a più riprese, anche ai media, deficienze di organico ed inefficienze di una struttura paraospedaliera, ed il loro licenziamento è stato ritenuto, alla fine, illegittimo, anche in considerazione del perseguimento dell’interesse, sovraordinato, alla salute pubblica. 292 V. soprattutto Cass. 6 maggio 1998 n. 4952, RGL, 1999,II,455, relativa al noto caso Basile. Nel senso della legittimità di frasi ironiche e satiriche, ancorché grevi, contenute in un volantino distribuito in un conflitto sindacale, v. Cass. 21 settembre 2005 n. 18570, ADL, 2006, 289, con nota di Greco. Per completi riferimenti, v. Aimo 2003, 254 ss. 293 Con una problematicità aggiuntiva, in nome di un “riproporzionamento” tutto da puntualizzare, nell’ipotesi che il rapporto di lavoro sia nell’ambito di un’organizzazione di tendenza. 294 Sul quale v., con un approccio classicamente (e scontatamente) da crit, Klare 1994. 295 V. Aimo 2003, 283 ss. 296 V., invece, Cass. 9 aprile 1993 n. 4307, RGL, 1994,II,224. 297 Se non, addirittura, rese “indispensabili” dalle esigenze in discorso: v., ad es., App. Milano 9 aprile 2002, RIDL, 2002, II, 658, che ha ritenuto non punibile in via disciplinare un lavoratore addetto al reparto di gastronomia di un supermercato, per l’omissione della rasatura quotidiana della barba. Per il famoso caso della “minigonna”, trattato come discriminazione di genere, v. Pret. Milano 12 gennaio 1995, GC, 1995,I,2267, con nota di Pera; D&L, 1995,349, con nota di Vettor. 298 Come specificazione del dovere di prendersi cura della propria salute, oltre che di quella altrui, di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 626/1994, sul quale v. in generale Corrias 2005, spec. 69 ss.

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per non aver travalicato i limiti di tale libertà, non sono trasmodati in inadempimento

(degli obblighi negativi di cui all’art. 2105), non possono semplicemente considerarsi

indifferenti rispetto al diritto, ma debbono qualificarsi, al contrario, come comportamenti

iure. Di guisa che, a prescindere dal loro presentarsi, di solito, nella prospettiva della

delimitazione dei presupposti di valido esercizio del potere (direttivo, e, di conseguenza,)

disciplinare, è da ammettere che un’eventuale lesione, da parte del datore di lavoro

(perpetrata anche tramite la stessa irrogazione di un provvedimento disciplinare poi

risultato illegittimo), dei diritti di libertà in discorso, possa dare titolo anche a doglianze

di tipo risarcitorio ex art. 2059 c.c.

10. Riservatezza.

Non è questa, ovviamente, la sede idonea a ripercorrere, anche sommariamente, la

complessa evoluzione, dottrinale, giurisprudenziale, e infine legislativa, che ha condotto

l’ordinamento italiano a dare riconoscimento, sempre più completo, al diritto alla

riservatezza, in quanto diritto della personalità dotato di rango costituzionale299. Ci

interessano qui, più limitatamente, le modalità e le tecniche tramite le quali tale diritto,

di natura assoluta, è penetrato nel regolamento di un rapporto come quello di lavoro,

caratterizzato da un elevato livello di contatto sociale, aggravato dallo squilibrio di potere,

e le sue ricadute sistematiche.

La prima di tale modalità, che corrisponde all’accezione più classica della

riservatezza (intesa come diritto a non subire intrusioni non desiderate nella propria

sfera privata), letta in combinazione con i valori di dignità e libertà, è un ennesimo

riscontro della forza anticipatrice del diritto del lavoro. Si fa riferimento a quelle norme

statutarie che, come esito vittorioso della battaglia condotta da un agguerrito

orientamento dottrinale nel nome di un’effettiva penetrazione nell’impresa dei valori

costituzionali di “sicurezza, libertà e dignità”, intesi come sintesi di un moderno status

civitatis300, si sono poste a custodi del diritto del lavoratore a non subire, anche in

azienda, interferenze lesive della propria dignità, mediante l’apposizione di limiti esterni

alle varie manifestazioni del potere (formalizzato) di controllo, nonché del potere (non

formalizzato) di indagine, in mano al datore di lavoro.

299 Per i vari percorsi fondativi, a livello costituzionale, di un diritto alla riservatezza, v., con riguardo all’art. 2 Cost., Barbera 1979, 66 ss.; alla libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., Cataudella 1991 e Cerri 1991, anche come riepilogo di loro precedenti contributi sul tema; alle disposizioni poste a tutela della libertà personale, del domicilio e della corrispondenza, Pace 1984, 3 ss. In generale, sul carattere fondamentale del diritto alla privacy, a fronte delle inusitate possibilità di controllo consentite dalle tecnologie dell’informazione, v. Rodotà 1992, 189 ss. Per una teorizzazione precorritrice della riservatezza nella letteratura lavoristica, ma sub specie di interesse legittimo, v. Ichino 1986, 7 ss. Per la vecchia impostazione “privatistica”, che desumeva l’esistenza di un diritto alla riservatezza dall’applicazione analogica di disposizioni dettate a tutela dell’immagine, v. invece De Cupis 1982, 283 ss. Per il ricchissimo dibattito successivo alla legge n. 675/1996, v., ex multis, Alpa 1998, e Rodotà 1997. 300 V., per tutti, Natoli 1956.

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Relativamente al primo di tali profili301, vengono in gioco i limiti cogenti, se pur

sviluppati secondo tecniche diverse, di cui agli artt. 2, 3 e 6, per i controlli “personali”, ed

all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, per quelli effettuati con mezzi non umani, secondo

una gamma procedente dai “vecchi” impianti audiovisivi sino alle apparecchiature

elettroniche ed informatiche oggi di uso corrente302.

Come è noto, le maggiori criticità, relativamente a tale “eroico” apparato di tutela,

si sono manifestate non tanto in relazione alla tecnica regolatrice impiegata, bensì come

conseguenza della propensione di alcune forme di controllo a chiamarsi fuori dall’ambito

di applicazione delle norme statutarie: quelle orientate a fini “difensivi”303, ossia

all’accertamento di condotte illecite (un ambiguo concetto giurisprudenziale che, dai

controlli “umani”304, tende a propagarsi a quelli “tecnologici”305), e quelle effettuate

tramite strumenti elettronici o informatici306, le quali sottolineano impietosamente

l’urgenza di una riscrittura, adeguata ai tempi, dell’art. 4.

Più ampio e indefinito del “controllo” (classico corollario del potere direttivo) è il

concetto di “indagine”, che l’art. 8 St. lav. ha fatto oggetto di un ampio divieto finalizzato

alla protezione della sfera privata di libertà del lavoratore307. Il riferimento espresso alle

“opinioni politiche, religiose o sindacali” del lavoratore, ossia al nocciolo di valori presi in

considerazione dal testo originario dell’art. 15, rende palese la complementarietà

sistematica con la tutela antidiscriminatoria.

Il divieto si estende, altresì, a qualunque fatto “non rilevante ai fini della

valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Là dove si riaffaccia, in qualche

misura circolarmente, l’incertezza sull’estensione di tale “rilevanza”, in nome della quale,

ad esempio, sono reputati leciti, fermo il rispetto della riservatezza “domiciliare”, i

controlli extrasanitari (e in qualche modo, anch’essi, “difensivi”) sul lavoratore in stato di

malattia308.

Peraltro, l’evoluzione avuta, nel frattempo, dalla normativa antidiscriminatoria, fa

ormai apparire necessaria (nonché agevole, in considerazione della formulazione aperta

dell’art. 8, oltre che del rango costituzionale dei valori in gioco) un’interpretazione

301 Cfr. Magnani 1994, 50 ss. 302 In argomento v. Bellavista 1995; Gragnoli 1996, 147 ss.; Ichino 1986, 57 ss. 303 Cfr. Bellavista 1995, 99 ss. 304 V., ad es., Cass. 2 marzo 2002 n. 3039, NGL, 2002, 642; Cass. 3 novembre 1997 n. 10761. 305 V. Cass. 3 aprile 2002 n. 4746, RGL, 2003,II,71, in un caso di abuso privato del telefono aziendale. In argomento, cfr. Vallebona 2001. 306 Cfr. Bellavista 2005; Stenico 2003. 307 In argomento, v. Ichino 1986, 118 ss.; Romagnoli 1979b; Sciarra 1979; più di recente, Aimo 2003, 45 ss. 308 V. Cass. 3 maggio 2001 n. 6236, RIDL, 2002, II, 345, con nota di Bartalotta; Cass. 14 aprile 1987 n. 3704. Circa la normativa in tema di malattia, un’istanza specifica di protezione della riservatezza è stata recepita ante litteram non già dall’art. 5 St.lav., bensì dall’art. 2 della legge n. 33/1980, il quale ha prescritto l’indicazione, nel certificato medico inviato ad attestazione della malattia, della sola valutazione prognostica, rendendo particolarmente difficile il controllo del datore di lavoro sull’attendibilità della certificazione: in argomento, cfr. Del Punta 1992, 116 ss. e 172; Ichino 1986, 80 ss.

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estensiva del precetto statutario, tale da inglobare la gamma, oggi molto più ampia, di

fattori protetti: sì da suggerire la possibilità di una rilettura dell’art. 8 alla luce del più

recente disposto (art. 10, comma 1, d.lgs. n. 276/2003) che ha esteso il divieto di

indagine de quo, ma ampliandone il campo obiettivo di applicazione, alle agenzie per il

lavoro.

La particolare prospettiva nella quale il diritto alla protezione della riservatezza,

dignità e libertà del lavoratore, si è “presentato” al diritto del lavoro, ha altresì

comportato che l’unica conseguenza sanzionatoria (a parte la - pur spesso obliterata -

tutela penale) ricollegata alla violazione dei limiti menzionati sia stata identificata

nell’inefficacia giuridica dei relativi atti o comportamenti di esercizio del potere, ergo

nell’inutilizzabilità probatoria delle informazioni illecitamente raccolte309. In verità, però,

considerando l’ascendenza costituzionale dei diritti lesi da condotte datoriali ormai non

iure (essendo fuoruscite dall’ambito di legittimo esercizio del potere), non sembrano

esservi difficoltà ad ammettere che il lavoratore vittima di tali illeciti possa rivendicare il

risarcimento dei danni non patrimoniali che egli possa dimostrare di aver patito.

Il descritto apparato di tutela lasciava scoperto, peraltro, il problema di come

garantire una protezione ai tantissimi dati personali dei quali il datore di lavoro (al di là

di controlli illeciti) viene comunque in possesso nella gestione del rapporto. Viene qui in

gioco una più lata accezione di riservatezza, come diritto all’autodeterminazione

informativa310.

Ebbene, come è noto, il diritto del lavoro ha mutuato il riconoscimento giuridico di

tale interesse dalla normativa generale che ha finalmente dato piena cittadinanza al

concetto di privacy (legge n. 675/1996311, successivamente riordinata dal d.lgs. n.

196/2003), con ciò riconfermando, tuttavia, che la pur ritenuta assolutezza di tale diritto

non può che “relativizzarsi”, nel quadro del bilanciamento di interessi e delle condizioni e

limitazioni di esercizio previste dalla legge.

Per quanto concerne i riflessi lavoristici, la scelta della legge è stata chiara nel

senso di non contrapporsi, ma di aggiungersi, alle regole statutarie, delle quali è stata

formalmente ribadita la vigenza312. Ciò consente di delineare una prima, approssimativa

ripartizione dei compiti fra le due normative, in base alla quale lo Statuto dovrebbe

309 V. ad es. Ichino 1986, 67 e 74. 310 Espressione già elaborata dal Bundesverfassungsericht tedesco, Decisione del 15 dicembre 1983, trad.it. in RIDL, 1987, I, 532. 311 In argomento, v. Aimo 2005, 37 ss.; Chieco 2000. Per altri contributi sul tema, v. La tutela della privacy del lavoratore, QDLRI, n. 24/2000. Per la letteratura precedente alla legge n. 675/1996, v. Bellavista 1995, 128 ss. ; Gragnoli 1996, in una prospettiva di riflessione generale sui processi informativi nell’impresa. 312 V. l’art. 113 del d.lgs. n. 196/2003, a proposito dell’art. 8 St. lav., e l’art.114, circa l’ art. 4; nonché, per i riflessi penali, l’art. 171.

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bloccare, a monte, l’illecita acquisizione di dati personali, e il Codice della privacy

dovrebbe disciplinare, a valle, il trattamento dei dati lecitamente acquisiti.

Ma gli intrecci fra le due normative sono, nondimeno, numerosi, in virtù del

rapporto di continenza, concettuale e giuridica, esistente fra la normativa generale in

tema di privacy, e le norme statutarie (non a caso fatte espressamente salve, onde

evitarne una possibile abrogazione implicita). Infatti, la “raccolta” dei dati, cui

guardavano le norme statutarie, è una delle possibili manifestazioni del più ampio

concetto di “trattamento” (cfr. l’art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 196/2003).

Ne segue, da un lato, che il Codice ha potuto integrare, anche sul loro stesso

terreno, i limiti statutari, aggiungendo ulteriori condizioni di liceità per il trattamento dei

dati313; e, dall’altro, che, in caso di raccolta di dati non rispettosa delle norme statutarie,

anche la normativa a protezione della privacy risulta, ad un tempo, violata314.

Al pari delle norme statutarie, insomma, anche quelle del Codice sembrano in

grado di inserirsi agevolmente, e pur da una prospettiva “generale”, nel regolamento

contrattuale; e, del resto, lo schema titolare/interessato, proposto dal Codice, si attaglia

perfettamente alla relazione datore/dipendente, propria del rapporto di lavoro

subordinato, al di là del fatto che essa preesista all’ulteriore rapporto che si attiva nel

momento in cui i dati personali del lavoratore cominciano ad affluire nella sfera di

conoscenza del terzo/datore di lavoro.

Ciò premesso come inquadramento sistematico, non è certo il caso di scendere ad

un esame analitico della normativa in discorso315, se non, come consueto, limitatamente

a riflessioni di “struttura”. Al riguardo, a prescindere dalla previsione di un ricco

apparato di diritti strumentali (i c.d. diritti informatici)316, l’impianto precettivo sembra

pur sempre poggiare su un divieto di base, avente ad oggetto il trattamento dei dati

personali altrui, la cui rimozione è possibile, ma soltanto all’interno di un sofisticato

dispositivo di pesi e contrappesi.

La regola generale, infatti, è quella per cui il trattamento richiede un’espressa e

specifica manifestazione di consenso da parte dell’interessato, che nel caso è il

lavoratore317; un consenso che, nel caso di “dati sensibili”318, deve essere scritto, nonché

preceduto da un’autorizzazione, pur di solito “generale”, del Garante319.

313 Così, ad esempio, il Provvedimento generale sulla videosorveglianza nei luoghi di lavoro, emanato dal Garante in data 29 aprile 2004 (ex art. 12, comma 1, d.lgs. n. 196/2003), ha aggiunto nuovi limiti sostanziali a quelli già derivanti dall’art. 4 St.lav. 314 Cfr. Aimo 2003, 148-149, argomentando correttamente dall’art. 11, comma 1, lett. a), del d.lgs. n.196/2003, su cui infra, nel testo. 315 Cfr. Aimo 2003, 133 ss. 316 V. Aimo 2003, 322 ss. 317 Art. 23, commi 1-3. V. Chieco 2000, spec. 35 ss. 318 Idonei a rivelare (art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 1967/2003) – l’elenco è considerato tassativo - “l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti,

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Ove non può non colpire, nell’ottica lavoristica, che, a differenza dei diritti di

riservatezza di “vecchia” generazione, assolutamente indisponibili, i diritti di nuovo conio

siano stati configurati come ordinariamente disponibili320, quand’anche abbiano ad

oggetto quei “dati sensibili”, il cui trattamento potrebbe essere finalizzato all’effettuazione

di atti discriminatori321. Peraltro, una meccanica estensione ai diritti in discorso

dell’ordinario regime di indisponibilità sarebbe stata impraticabile, non dovendosi

neppure dimenticare, con riguardo ai dati sensibili, la valenza integratrice (degli obblighi

legali) assolta, con riguardo ai dati sensibili, dall’autorizzazione del Garante, nonché, per

tutti i dati personali, dai Codici di deontologia e buona condotta promossi o adottati dal

medesimo Garante (art. 12, comma 1)322.

A tale regola, gli artt. 24 (per i dati comuni) e 26, comma 4 (per quelli sensibili),

apportano una serie di eccezioni, relative ai casi nei quali il trattamento può essere

effettuato anche senza consenso 323. Ma la non necessità del consenso, così come

l’espressione dello stesso ove è richiesto, non comportano, a loro volta, che al titolare

venga lasciata una totale libertà nel trattamento dei dati. Gli è, invece, che il

bilanciamento degli interessi, pazientemente perseguito dalla normativa, si ripropone ad

un ulteriore livello, caratterizzato dall’operatività, in senso limitativo della libertà di

trattamento, del generale principio di “finalità”, nelle sue diverse articolazioni324.

L’apparato è completato da norme rivolte alla tutela, che delineano una sorta di

micro-sistema di responsabilità civile325. In forza di esse, il trattamento illegittimo di dati

personali viene, anzitutto, neutralizzato, attraverso la previsione dell’inutilizzabilità dei

dati medesimi326, e, in secondo luogo, sanzionato, mediante l’affermazione della

sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale”, nonché “lo stato di salute e la vita sessuale”: ove è palese la tendenziale coincidenza delle informazioni, oggetto di tali dati, con i fattori “di rischio” protetti dalla normativa antidiscriminatoria in precedenza vagliata. 319 Art. 23, comma 4. V., da ultimo, l’Autorizzazione n. 1/2006, rilasciata con Provvedimento del 21 dicembre 2005. In argomento, v. Chieco 2000, 141 ss. 320 Cfr. infatti Chieco 2000, 19, il quale aggiunge, peraltro, che “non di meno è da rimarcare il significato di principio dell’attribuzione al lavoratore del diritto di diniego alla raccolta ed al trattamento dei propri dati”. Sulla capacità del lavoratore di poter disporre effettivamente della propria riservatezza in un rapporto caratterizzato da dislivelli di potere, v. Faleri 2000, 327-333. 321 V. Rodotà 1992,196. 322 Ed il cui rispetto è “condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali” (art. 12, comma 3). 323 Due fra essi, in particolare, sono da porre in risalto: il caso in cui (v. art. 24, lett. a-b, e art. 26, comma 4, lett. d) il trattamento è necessario per adempiere obblighi derivanti dalla legge (anche, si aggiunga, a titolo di eterointegrazione del contratto), o da un contratto del quale è parte l’interessato, ove si conferma l’intreccio sistematico col contratto di lavoro subordinato; e il caso in cui (art. 24, lett. f), e art. 26, comma 4, lett. c) il trattamento è necessario “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”, ove sembra affacciarsi, in un sostanziale parallelismo rispetto alla lettura giurisprudenziale della normativa statutaria, il concetto di trattamento “difensivo”. A tali ipotesi corrispondono le eccezioni all’obbligo di informativa, di cui all’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 196/2003. V. in argomento Aimo 2003, 147 ss. 324 Art. 11, comma 1. V. Aimo 2003, 147 ss.; Chieco 2000, 91 ss. 325 V. Aimo 2003, 336 ss., riprendendo Comandè 1999. 326 Art. 11, comma 2.

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responsabilità civile di chi (titolare o responsabile del trattamento) ha cagionato danni ad

altri (in primis, all’interessato) per effetto del trattamento di dati personali327 (art. 15,

comma 1).

E’ significativo, altresì, che detta responsabilità sia di natura oggettiva, in forza

dell’espresso richiamo dell’art. 2050 c.c. Ciò comporta che rimane addossato al datore di

lavoro, nel caso, di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (a partire

dalla prova – peraltro non sufficiente ad esonerarlo da responsabilità328 - che i dati sono

stati trattati legittimamente). Ove non può non colpire, in un’ottica di sistema,

l’occasionale penetrazione nel contratto di una regola di imputazione della responsabilità,

di solito riservata ad altri campi; l’impatto pratico di tale “anomalia” non deve essere,

peraltro, sopravvalutato, l’ambito della prova liberatoria ex art. 2050 non essendo poi

troppo dissimile da quello previsto dall’art. 1218. E, in ogni caso (per quanto

l’interrogativo rivesta un rilievo esclusivamente teorico), il richiamo formale della

disposizione sulla responsabilità per attività pericolose non pare in grado di determinare

una fuoruscita dell’apparato obbligatorio de quo dall’area del regolamento contrattuale.

Né suscita sorpresa, per motivi che ormai dovrebbero essere chiari, l’espressa previsione

di risarcibilità del danno non patrimoniale329.

11. Professionalità.

Ove si consideri che già nel remoto 1963 Gino Giugni, sviscerando la debole

disciplina dell’art. 2103 di allora, e in specie riflettendo sui limiti all’esercizio dello ius

variandi, parlava di “posizione sostanziale” o “morale” del lavoratore330, sarà difficile

stupirsi del fatto che la componente “personale” della tutela della professionalità sia

divenuta, in un’evoluzione che ha avuto per protagonista, soprattutto, la giurisprudenza,

sempre più preponderante.

Ciò è avvenuto, segnatamente, attraverso un lento ma inesorabile processo di

mutamento genetico della posizione soggettiva del lavoratore ex art. 2103, che, partendo

dal danno, ha proceduto a ritroso sino a penetrare nel cuore della fattispecie.

D’altra parte, che il sommovimento prendesse le mosse dall’apparizione del “danno

professionale”, era pressoché inevitabile. La verità è che, non producendo il

demansionamento, di norma, pregiudizi patrimoniali diretti (al fine di scongiurare i quali

l’art. 2103 ha previsto un’autonoma garanzia di irriducibilità della retribuzione), la

capacità di impatto del dispositivo protettivo è rimasta a lungo affidata alle sole, incerte,

327 Art. 15, comma 1. 328 V. Comandè 1999,493, secondo cui la mera . 329 Art. 15, comma 2. 330 V. Giugni 1963, 103.

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potenzialità della tutela specifica, che però, quand’anche sia coronata da successo pro

futuro331, nulla può, per definizione, per il passato.

Di conseguenza, quando, sulla scia della “scoperta” del danno biologico, la

giurisprudenza ha preso a forzare i blocchi che le avevano reso difficile l’accesso al danno

non patrimoniale332, la giurisprudenza sul “demansionamento” ha rappresentato uno dei

capitoli più importanti, in ambito lavoristico, di tale indirizzo, dal quale è poi germinata,

come frutto della riflessione giurisprudenziale sulle ipotesi più gravi di lesione della

professionalità, e quindi in un contesto di forte (e talora, come già denunciato, confusa)

integrazione sistemica fra le varie figure di illecito, la stessa fattispecie del mobbing333.

Lungi da noi seguire, in questa sede, le complicate vicende del danno non

patrimoniale alla professionalità334, e in specie quelle, assai controverse e fra loro

intrecciate, legate alla necessità o no di un’autonoma prova del medesimo ed ai criteri di

quantificazione335. Interessa piuttosto riflettere, come già notato, su come il vento della

monetizzazione, scatenato – per ironico paradosso – dalla scoperta dei profili non

patrimoniali della tutela, ha retroagito sulla connotazione strutturale della fattispecie.

Infatti, accanto ai limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale, un ulteriore

(e seppur più teorico) ostacolo alla praticabilità della tutela risarcitoria in questa materia,

era rappresentato dalle incertezze esistenti in ordine alla natura della posizione

soggettiva. Il fatto che qui, come altrove, il diritto del lavoratore si “nascondesse” in seno

ad un limite, pur inderogabile, apposto all’esercizio del riconfermato ius variandi, non gli

faceva perdere forza sostanziale, ma ne rendeva forse più problematica – a livello di

mezzi di tutela - la trasposizione nel diritto secondario al risarcimento del danno.

Ciò anche perché, non diversamente da quanto era successo con l’art. 2087, la

persistente convinzione circa l’inesistenza, a monte, di un diritto del lavoratore

all’effettiva esecuzione della prestazione di lavoro, con il conseguente “confinamento” di

331 Sul tema, a favore del principio di atipicità della tutela specifica, Pagni 2004, spec. 85 ss. 332 Il che è avvenuto, peraltro, con continue oscillazioni concettuali sulla natura del danno: ad es., per un caso di ricorso alla categoria del danno alla vita di relazione, v. Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727. 333 V. retro, § 5. 334 Rectius, della componente non patrimoniale del danno professionale, avendo esso una natura tipicamente ancipite (v. ancora infra, nel testo). 335 Circa la quantificazione, la giurisprudenza non può che fare ricorso, alla fine, al criterio equitativo (di massima rapportato ad una percentuale variabile della retribuzione), ma dal modo in cui ne argomenta l’impiego, si riesce a capire, sia pure a fatica (la massima essendo spesso traditrice), quanto essa sia vicina ad una logica di automatismo del danno (concepito come mera conseguenza della accertata lesione del diritto), o quanto, invece, essa sia protesa alla ricerca di quell’araba fenice, che non molti hanno sinora avuto la ventura di trovare, che è la prova del danno professionale, rigorosamente inteso come danno-conseguenza. Per esplicitazioni, o quasi, della tesi del danno in re ipsa, v. ad es. Cass. 16 agosto 2004 n. 15955; Cass. 26 maggio 2004 n. 10157, D&L, 2004,343; Cass. 6 novembre 2000 n. 14443; Pret. Firenze 8 aprile 1994, Toscana lavoro giur., 1994, 381. Per la diversa tesi (ma della quale, come si accennava, non è sempre facile intendere gli effettivi risvolti pratici), della necessità di una dimostrazione (anche presuntiva) del danno, fatta salva l’alea della quantificazione giudiziale, v. ad es. Cass. 28 maggio 2004 n. 10361; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199; Trib. Milano 10 giugno 2000, OGL, 2000,I,367; Pret. Roma 10 giugno 1999, LPO, 1999,1888. Il prevedibile accoglimento di quest’ultima tesi, da parte di Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572, non sopirà, probabilmente, le inquietudini suscitate da questo arduo nodo ricostruttivo.

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tale vicenda dell’obbligazione nell’area della cooperazione creditoria336. E anche se il

creditore in mora sarebbe stato pure tenuto, in teoria, a risarcire i danni derivanti dalla

mora medesima (art. 1207, comma 2), la convinzione sottostante era che, una volta

assicurata la permanenza dell’obbligo retributivo (art. 1207, comma 1), tali danni non

fossero in radice configurabili. Ciò, con una certa circolarità fra le vicende genetiche e

funzionali del rapporto obbligatorio.

Ma, da allora in poi, la dinamica interna della posizione soggettiva del lavoratore,

innescata dalle nuove opportunità risarcitorie, è stata inesorabile.

Anzitutto, la prospettiva del risarcimento ha dato occasione alla giurisprudenza di

precisare la qualificazione di tale posizione in termini di diritto soggettivo ex contractu,

dal cui inadempimento, per l’appunto, si fa discendere la pretesa secondaria337.

Di tale diritto, la giurisprudenza tende costantemente ad enfatizzare – tessendo un

filo diretto fra l’art. 2103 e l’art. 2 Cost. - la componente non patrimoniale, ovvero la

natura di diritto fondamentale, avente ad oggetto la libera esplicazione della personalità

del lavoratore nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per

legge o per contratto338. Ciò non significa che le conseguenze dell’illecito si esauriscano

su tale terreno: anzi, lo “sblocco” della via risarcitoria ha permesso di isolare nuovi profili

di danno (in tutto o in parte) patrimoniale, come quello derivante dall’impoverimento

della capacità professionale acquisita dal lavoratore, il danno da perdita di chance e il già

menzionato danno all’immagine professionale339.

In secondo luogo, l’enucleazione di un diritto, risarcibile in caso di lesione, ha

inevitabilmente condotto la giurisprudenza, attraverso un’operazione esemplificabile

nell’impiego dell’argomento a fortiori, a configurare il medesimo danno, oltre che nelle

ipotesi di assegnazione a mansioni non equivalenti alle ultime effettivamente svolte340,

anche in quelle in cui il prestatore di lavoro, anziché essere semplicemente

demansionato, è lasciato inattivo, o è comunque emarginato (in odore di mobbing) dalla

vita lavorativa ed aziendale341.

336 V. classicamente Grezzi 1965. Sul tentativo di porre a carico del datore di lavoro un obbligo a far lavorare, anziché l’onere di porre in essere quell’attività di cooperazione necessaria a rendere possibile l’esecuzione della prestazione, v., più di recente, le conclusioni negative raggiunte da Speziale 1992. 337 Cfr. ad es., in motivazione, Cass. 14 novembre 2001 n. 14199. 338 V. Cass. n. 10157 del 2004, cit. 339 Cfr. ancora, ex multis, Cass. n. 10157 del 2004, cit.; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199. 340 L’analisi della nozione di “equivalenza” professionale non è qui oggetto di specifica analisi. Nondimeno, non sembra superfluo osservare, riprendendo una delle linee tematiche della trattazione, che attraverso la nozione “soggettiva”, o “dinamica”, di equivalenza professionale (v., ad es., Cass. 11 aprile 2005 n. 7351; Cass. 30 luglio 2004 n. 14666; Cass. 11 giugno 2003 n. 9408),la giurisprudenza si è aperta un qualche varco nei confronti di elementi conoscitivi esterni al sistema giuridico. Ciò in quanto il “valore” di una posizione professionale è difficilmente accertabile, prescindendo dal concreto contesto organizzativo, nonché dal “sapere” organizzativo, che di quel contesto è la linfa. 341 V., ad es., Cass., sez. III, 27 aprile 2004 n. 7980; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199..

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Tanto non equivaleva ancora a configurare un diritto all’esecuzione della

prestazione lavorativa, bensì soltanto il suo (e pur non del tutto corrispondente, in

quanto, ad esempio, un minimo periodo di inattività comporta, a rigore, una lesione

dell’ipotetico diritto, ma non anche un danno342) riflesso rovesciato. Ma, per giungere a

tale conclusione, il tratto era ormai breve, e non stupisce che la giurisprudenza di

legittimità l’abbia compiuto, affermando in numerose occasioni che la prestazione

dell’attività lavorativa deve considerarsi oggetto, non soltanto di un obbligo, ma anche di

un diritto343.

La tenuta dogmatica di tale costruzione attende ancora di essere sottoposta ad

una rigorosa verifica. Ma ci si accontenti, in questa sede, di aver ricostruito la dinamica

essenziale della posizione soggettiva in esame, e di aver posto in evidenza come la vera

forza propulsiva di essa sia stato un valore personale, che ha trovato nell’art. 2103, letto

in chiave costituzionale, uno scorrevole canale di espressione giuridica.

Ma l’analisi non sarebbe completa, se non si tenesse conto di un’ulteriore

tendenza evolutiva del sistema, che, in verità, si è manifestata soltanto debolmente sul

terreno positivo, ma in direzione della quale cospirano una serie di indizi precisi e

concordanti (oltre che gravi, ove si pensi alla drammaticità del problema occupazionale).

Si allude a una teorizzazione dottrinale che, rivisitando in qualche modo la vecchia

lettura “propulsiva” dell’art. 13 St.lav.344, ha cercato di far “reagire” sul concetto di

professionalità, previa collocazione del medesimo nel cuore dell’obbligazione lavorativa, e

un’interpretazione evolutiva della garanzia costituzionale del diritto al lavoro (la cui

premessa è appunto la riaffermazione delle valenze personalistiche del lavoro), e il nuovo

rilievo assunto, nell’ambito delle organizzazioni post-fordiste, dall’adattabilità del

lavoratore, e quindi della formazione come strumento principe della medesima345. Ciò con

l’obiettivo di dimostrare, attraverso riferimenti positivi incentrati (oltre che sull’art.

2103346) su quella norma dalle “nove vite”, che ormai si è rivelata essere un art. 2087

rilanciato dal mobbing347, l’esistenza (non già di un diritto incondizionato alla formazione,

bensì) di un misurato dovere di “manutenzione” della professionalità, a fronte di

modifiche introdotte dall’imprenditore nell’organizzazione del lavoro.

La tesi ricordata (che rovescia lo schema per cui l’esistenza di un contratto con

causa formativa, come l’apprendistato, implicherebbe a contrario l’inesistenza “normale”

di un diritto alla formazione) interessa soprattutto come indizio di un processo di

342 Per un caso del genere, v. Pret. Milano 28 marzo 1997, D&L, 1997,791. 343 V., ad es., Cass. 14 novembre 2001 n. 14199; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405; Cass. 15 luglio 1995 n. 7708. 344 Per la quale v. Romagnoli 1972. 345 V. Alessi 2004. 346 V. Alessi 2004, 107 ss., e ivi, 117 ss., sui profili della tutela. 347 V. Alessi 2004, 123 ss.

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crescente rilevanza giuridica dell’interesse alla formazione, del quale hanno

rappresentato un primo riconoscimento positivo i congedi di cui agli artt. 5 e 6 della legge

n. 53/2000.

Rimane incerto, peraltro, sino a che punto il rapporto di lavoro sia in grado di

reggere il peso di queste nuove imputazioni giuridiche, potendosi invece pensare che esso

debba essere spostato, oltretutto più efficacemente rispetto agli odierni fattori generatori

di bisogno, sul versante di diritti sociali “di nuova generazione”, orientati ad una “vera”

protezione del lavoratore nel mercato del lavoro348. E’ una prospettiva suggestiva, della

quale, però, rimangono ancora sfuocati, anche alla luce della realtà istituzionale del

mercato del lavoro italiano, i contorni.

12. Non di solo lavoro.

Una ricognizione delle valenze personalistiche inerenti al rapporto di lavoro

sarebbe, più che incompleta, concettualmente contraddittoria, se si limitasse a concepire

la persona attraverso la lente del dovere di astensione, ossia come un’entità che deve

essere oggetto di rispetto assoluto anche nel lavoro e nonostante esso (e ciò pure come

espressione – nel caso della tutela della riservatezza – di una garanzia di libertà

negativa349). Tale istanza di rispetto è, ovviamente, preliminare, ma già il tema della

libertà di espressione350 ci ha ricordato come la persona (o il liberale, e per questo da

molti non amato, “individuo”) sia anche un soggetto di scelte, molte delle quali sono

scelte fondamentalmente libere.

E’ in questa proiezione esistenziale del concetto di “persona” che si radica, del

resto, la tradizionale opzione lessicale (per tale aspetto moderna) di imputare i diritti in

discorso alla “personalità”, intesa come lo svolgersi della persona351.

Si è consapevoli che evocare il concetto di libertà potrebbe condurci molto, troppo,

lontano, e precisamente nel cuore del dibattito, peraltro discontinuo, in merito alla

ridiscussione dei valori fondativi del diritto del lavoro. Chi scrive è da tempo persuaso,

infatti, che il valore “libertà” sia destinato ad acquisire, nel patrimonio assiologico della

materia, una crescente importanza, non in antitesi, ma accanto – in una relazione,

peraltro, assai più problematica, in quanto anche potenzialmente conflittuale, di quanto

talora venga ritenuto352 – al principio di eguaglianza353, né tanto meno in antitesi ai

348 Sul tema, anche in chiave risarcitoria (argomentando dalla risarcibilità degli interessi legittimi), v. Pedrazzoli 2004, XXXIII ss. 349 Cfr. la sistematica proposta da Aimo 2003, 37 ss. 350 V. retro, § 5. 351 V. Rescigno 1990, 3. 352 Ad esempio, con la riproposizione, analiticamente e storicamente non soddisfacente (v. Ballestrero 2004, pp. 502-503; e cfr. anche Izzi 2005, 4-6, ove l’evocativo appellativo di “revisionista”, a proposito della diversa tesi proposta da chi scrive), per cui “nessuna contrapposizione è immaginabile fra libertà ed eguaglianza”, trattandosi dei valori “che

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diritti, che la libertà, intesa in senso “sostanziale”354 (cfr., pur sempre, l’art. 3 cpv.),

presuppone355. Tale nuova centralità trova la sua giustificazione di fondo nei processi di

individualizzazione del lavoro postfordista, che tendono a fare uscire dall’orizzonte

antropologico di riferimento il “lavoratore subordinato” come figura quasi

metaindividuale, e talvolta appesantita da valenze esterne, e mettono al suo posto, forse

per la prima volta, il lavoratore-uomo o donna, aspirante a una capacità di scelta, che

riguarda anzitutto la sfera delle sue decisioni economiche356.

Ma perché evocare, in questo stadio della ricerca, la libertà? Perché un concetto

evoluto di tutela della persona non può comprendere soltanto le garanzie di rispetto e

pure di libertà (di manifestazione del pensiero, religiosa, sindacale) della medesima nel

lavoro, ma deve estendersi anche alla libertà di compiere scelte che escludano, più o

meno temporaneamente, il lavoro, e si rivolgano – condizioni materiali permettendolo - ad

altre mete esistenziali.

Non si sta parlando, sarà superfluo precisarlo, dell’amara “libertà” del

disoccupato, bensì del fatto che, se il lavoro viene riguardato dalla prospettiva delle

libertà e delle vite individuali, non può non risaltare che esso è, non esclusivamente ma

forse prima di ogni altra cosa, la fonte di produzione di un reddito, e quindi, in primis,

un’attività economica. E’ in questa aspirazione al reddito che il lavoratore deve essere

primariamente tutelato, oltre che nei confronti di possibili lesioni ed invasioni della sfera

personale. Giacché, se la tutela si focalizza sulla persona, non potrà che esserne oggetto

il lavoro come mezzo, e non il lavoro come fine.

La dimensione della realizzazione di sé attraverso il lavoro, sulla quale sono stati

versati fiumi di parole, rimane invece una dimensione prevalentemente personale ed

esistenziale. Sarà l’individuo, nel contesto della propria individuale esistenza, ad

attribuire al lavoro il suo appropriato valore. Ciò non significa per nulla, beninteso,

mettere in questione indirizzi come quello sulle protezione della professionalità come

prerogativa tesa all’esplicazione della persona357; bensì che ciò di cui l’ordinamento deve

preoccuparsi, il più estesamente ed efficacemente possibile, è che le condizioni

stanno a fondamento della democrazia”. Al che mi sento di replicare con le parole di Veca 1991, 196-197: “L’idea che la libertà non fosse in tensione con l’eguaglianza e la fraternità è stata propria delle tradizioni socialiste e comuniste che hanno reagito alla lacerazione individualistica. Noi sappiamo, ora, che ciò non è vero.” Il che non significa proporre il ritorno ad un’eguaglianza in senso meramente formale, bensì semplicemente non cessare di ricercare accettabili combinazioni fra libertà ed eguaglianza. 353 Per l’illustrazione generale di tale prospettiva, mi permetto di rinviare a Del Punta 2004a. 354 Su tale concetto, v. la riflessione di Mari 2002. 355 V. Mari 2002, 236. E’ mia opinione, fra l’altro, che proprio in una prospettiva di integrazione concettuale fra libertà e diritti potrebbe essere ritematizzato quello iato fra “libertà” ed “autonomia”, che costituisce uno dei grandi punti di criticità della riflessione liberale (si veda, al riguardo, l’impegnativa riflessione di Santoro 1999), e potrebbero darsi le condizioni di una riconciliazione fra il diritto del lavoro e gli indirizzi più maturi e socialmente sensibili del pensiero liberale moderno. 356 Il riferimento è, ovviamente, a Sen 2000. 357 V. retro, § 11.

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complessive entro le quali il lavoro viene prestato siano (non soltanto compatibili col

rispetto minimale della persona, ma anche) quelle più favorevoli a tale attribuzione di

senso.

E tanto implica,ex multis, riscoprire un’”idea” di lavoro esente da appesantimenti

metafisici358, e aprirsi alla riflessione filosofica359 e sociologica360 sul disincanto del lavoro

e sulla riscoperta del tempo di vita; nonché, nel più limitato orizzonte del presente

saggio, e all’interno del quadro di riferimenti delineato, capire con quali aperture e

modalità (certo ancora deludenti, se rapportate al rilievo dei valori implicati361)

l’ordinamento tenga conto della più ampia “proiezione” esistenziale del lavoratore.

La prima di tali modalità è ovviamente quella del diritto alle varie forme di “riposo”

previste dall’ordinamento (riordinate, allo stato, dal d.lgs. n.66 del 2003), alle quali è

sottesa non soltanto una finalità di tutela della salute, ma anche l’esigenza di garantire

al lavoratore “la libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana”362. Di

tale istanza “esistenziale” la riflessione giuslavoristica è stata sempre consapevole, pur

tradizionalmente ravvisandola più garantita nel caso delle pause giornaliera e

settimanale, che in quello delle ferie363.

Eppure, è stato proprio per le ferie, che la Corte Costituzionale ha consentito di

compiere, nella sentenza dichiarativa della parziale illegittimità dell’art. 2109 c.c.364, un

importante salto di qualità, che si è condensato in due passaggi logico-giuridici

strettamente consequenziali365: il primo è stato l’insistenza sull’effettività della protezione

del diritto alla reintegrazione delle energie fisiche e psichiche, inteso come ratio

dell’istituto feriale, sì da farlo evolvere nel diritto (non già ad un “riposo”, bensì) ad un

tempo “privato”, id est libero dal lavoro; il secondo è stato la traslazione sul datore di

lavoro del rischio inerente ad un evento tipico, come la malattia, nella misura in cui esso

è suscettivo di minare la suddetta effettività366.

Analoghe valenze protettive sono sottese agli altri riposi previsti dall’ordinamento,

dei quali la giurisprudenza ha cercato di tutelare in vario modo l’effettività, e la cui 358 V. Arendt 1989. 359 V. Méda 1997; Totaro 1998. 360 V. De Masi 1999 e 2003. 361 Ma non è solo questione di valori “contrapposti” alla libertà d’impresa, bensì anche di provare a dirigersi verso una nuova e comune (o comunque più cooperativa) idea del rapporto fra lavoratore e impresa: si provi a guardare, in questa ottica, al grande tema della conciliazione fra il lavoro e la maternità. 362 Così Cass. 3 luglio 2001 n. 9009. 363 Ciò (si veda Mancini 1957, 155-156),a motivo della previsione di sanzioni penali (successivamente derubricate ad amministrative). 364 V. Corte Cost. 30 dicembre 1987 n. 616, RIDL, 1988,II, 297, con osservazione di Pera. 365 Nella stessa direzione di cui al testo, ha proceduto il pur diverso principio, affermato da Cass., Sez .un. ,12 novembre 2001 n. 14020, RIDL, 2002, II, 557, con nota di Santoni) a composizione di un annoso contrasto, in virtù del quale il diritto alle ferie non si contrae proporzionalmente in ragione dei giorni di malattia intervenuti durante l’anno. 366 V., in argomento, Del Punta 1992, 89 ss. Più di recente, l’ordinamento si è spinto ancora oltre su questa strada, trasferendo sul datore di lavoro anche il rischio inerente alla malattia del figlio di età non superiore a otto anni (art. 47, comma 4, d.lgs. n. 151 del 2001).

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lesione, non per caso, ha cominciato ad attirare (e nulla fa pensare che ciò non accadrà

anche per le ferie) nell’orbita del danno già esistenziale, e ora non patrimoniale367. Ciò,

peraltro, senza alzare la guardia sul fronte del divieto di monetizzazione (che oggi, sempre

per le ferie, può contare su un risolutivo supporto legislativo368), nonché, a mali estremi,

sulla priorità del risarcimento in forma specifica369.

Anche il diritto ai “riposi” è dunque entrato, sia pure con discontinuità, nella

corrente trasversale del danno non patrimoniale. E ciò, in ultima analisi, proprio in virtù

della sua natura assoluta370, la percezione della quale ha consentito la messa da parte

dei pur persistenti dubbi sulla possibilità dogmatica di inserire il riposo all’interno di una

visione contrattualistica del rapporto di lavoro. Il riposo, infatti, non è oggetto di una

posizione debitoria del datore di lavoro, ma si profila piuttosto come un limite esterno

all’estensibilità temporale della prestazione lavorativa.

Eppure, l’ordinamento si è espresso ripetutamente, ad ogni livello, in termini di

diritto, essendo ciò giustificato, sul piano della struttura obbligatoria del contratto, e

quanto meno per le ferie, anche dalla ripresentazione sotto forma di pretesa creditoria del

limite esterno in discorso, nel momento in cui la fruizione del riposo presuppone un atto

datoriale di individuazione del relativo periodo, che diviene oggetto, quindi, di uno

specifico obbligo.

Ma, quale che sia l’inquadramento prescelto, che cioè si concepisca l’eventuale

illecito come inadempimento dell’obbligo a proteggere il bene del riposo, o come lesione di

tale bene, le prospettive di tutela non sembrano divaricarsi particolarmente, considerata

la crescente contaminazione, sotto l’egida costituzionale, fra i campi della responsabilità

contrattuale ed extra-contrattuale.

L’altra e più dinamica proiezione del tema è quella delle ipotesi di legittima

sospensione della prestazione lavorativa, che rappresentano il limite della penetrazione,

all’interno del regolamento contrattuale, di interessi legati a scelte o situazioni personali

del lavoratore371.

Al di là della malattia372, “laboratorio” quotidiano della categoria, e per limitarsi

alle figure di fonte legale, si distende una gamma ormai vasta di altre ipotesi, dalle quali

si desume – e pur nel costante bilanciamento con l’interesse datoriale – il riconoscimento

367 V., ad es. , Cass. 3 luglio 2001 n. 9099. Sulla natura risarcitoria, e non retributiva, dell’attribuzione patrimoniale riconosciuta al lavoratore per il lavoro prestato nel settimo giorno consecutivo, v. Cass. 26 gennaio 1999 n. 704. 368 Sull’art. 10 del d.lgs. n. 66/2003, v. , anche per gli indispensabili riferimenti, Del Punta 2004b. 369 V. Cass. 21 febbraio 2001 n. 2569, RIDL, 2002,II, 87, con nota di Lazzeroni, che si è richiamata all’art. 2058 c.c. 370 Cfr. già Smuraglia 1967, 176 ss., e, con riferimento specifico alle ferie, Sandulli 1989, 3. 371 In generale sul tema, v. Calafà 2004, 123 ss.; Cinelli 1984; Dell’Olio 1998; Del Punta 1992. 372 Sulla quale v. pur succintamente retro, § 4.

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giuridico di una variegata serie di interessi, peraltro tutti connotati, in qualche modo, dal

crisma costituzionale373, e sia pure con diversi livelli di protezione374.

La fotografia “dall’alto” è quella di un rapporto men che mai chiuso in un recinto,

ma che contempla, viceversa, crescenti livelli di interscambio con altri valori

costituzionalmente tutelati375. Pare ormai da superare, alla luce di tale dato di tendenza,

la risalente separazione teorica, intessuta di una presunta diversità (manco a dirlo)

“ontologica” 376, fra il tema delle “sospensioni” e quello delle “pause” dal lavoro. In realtà,

soprattutto alla luce dell’evoluzione “causale” registrata dai (tradizionalmente detti)

“riposi”, v’è in entrambe le situazioni un denominatore comune, rappresentato dalla

permeabilità del rapporto ad interessi diversi da quelli inerenti all’esecuzione della

prestazione di lavoro.

Ed è da domandarsi, altresì, se sia ancora pertinente ritenere, dal punto di vista

teorico, che tali contenuti siano riassorbiti all’interno di un’accezione ampia del

“programma” contrattuale377, o non vederli, invece, per quello che esteriormente

sembrano, ossia contenuti radicalmente e irriducibilmente personali, che non ampliano

l’ambito del contratto, ma che, piuttosto (e pur dall’interno), si impongono ad esso.

13. Diritti della persona e sistema.

Questa relazione ha proceduto sulla base di un’ipotesi metodologica in qualche

misura “inattuale”: quella che, a dispetto di ogni deriva postmoderna, non sia affatto

tramontato il tempo della riflessione sistematica. Al contrario, proprio la grande 373 Ciò, ovviamente, a partire dalla normativa (in sé esaustiva, ma bisognosa di ulteriori implementazioni in una logica di azioni positive mirata sulle diverse realtà aziendali) rivolta a conciliare il diritto alla maternità ed alla paternità, anche non naturali, e le conseguenti esigenze di protezione della salute del bambino, con il diritto al lavoro (art. 31, comma 2, e 37, comma 1, Cost.), per proseguire con le aspettative e i permessi per lo svolgimento di funzioni pubbliche elettive (art. 51, comma 3), i permessi per motivi elettorali, i congedi per eventi e cause particolari di natura personale (artt. 29-31), e infine, nel capitolo dei doveri di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., i riposi giornalieri per i donatori di sangue, i permessi per i donatori di midollo osseo, e la poco nota aspettativa per lo svolgimento di attività di volontariato nei paesi in via di sviluppo. 374 Come può trarsi da uno sguardo sinottico alle diverse componenti strutturali della fattispecie sospensiva (per un panorama aggiornato, v. Del Punta 2006): modalità di produzione dell’effetto sospensivo, se sulla base di una mera attestazione dell’evento tutelato nella sua oggettività, ovvero dell’esercizio di un diritto potestativo condizionato alla sussistenza del presupposto, e talvolta anche all’inesistenza di esigenze aziendali ostative; intensità della protezione dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, limitato alla (doverosa) giustificazione dell’astensione dal lavoro, ovvero esteso (come nel caso della lavoratrice madre) ad un vero e proprio divieto di recesso nel periodo protetto; estensione temporale di tale protezione; riconoscimento o no della retribuzione, pur in assenza della prestazione corrispettiva, e/o di una prestazione previdenziale integrativa o sostitutiva. 375 Un’altra ipotesi significativa è quella del contratto a tempo parziale (d.lgs. n. 61 del 2000, come novellato dall’art. 46 del d.lgs. n. 276 del 2003), per ciò che concerne la protezione dell’interesse del lavoratore alla predeterminazione del proprio impegno orario, realizzata attraverso la regola di cui all’art. 2, comma 2, e le limitazioni – per quanto attenuate dalla novella del 2003 (cfr. soprattutto l’art. 8, comma 2-ter) – alla stipulazione di clausole elastiche o flessibili (art. 3, commi 7-9). Che l’interesse protetto, nella circostanza, sia anche “esistenziale”, si desume, se non da altro, dalla previsione di uno specifico risarcimento del danno (nel caso di un impiego del lavoratore non rispettoso dei limiti di cui sopra), che ha tutte le stimmate (arg. ad es. dal riferimento ad una valutazione equitativa) del danno non patrimoniale (art. 8, commi 2 e 2-bis). 376 Per la critica di tale distinzione, e sia pure in vista di una personale classificazione, v. già Ichino 1984,73 ss. 377 V. ad es. Cinelli 1984, 203 ss.

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precarietà che affligge numerose aree del sistema giuridico – e il diritto del lavoro in

modo particolare – rappresenta un motivo in più per tornare a coltivare tale dimensione.

In un’epoca in cui intere branche del diritto si stanno profondamente riorganizzando, è

solamente alzando lo sguardo, più di quanto non siamo soliti fare, che possiamo sperare

di cogliere, nel disordine, le tracce di nuove logiche ordinatrici.

Per il diritto del lavoro, una riscoperta della prospettiva macro-sistematica implica,

anzitutto, una nuova tematizzazione del rapporto col diritto civile. E chissà se questo,

pressoché obbligato, confronto col sistema della responsabilità civile, che si è realizzato

nel campo dei diritti della persona, non si rivelerà una “prova generale” di un altro ancor

più delicato, quello col diritto dei contratti378.

Nelle riflessioni preparatorie si era osservato che il dibattito civilistico sui nuovi

danni è stato, in primis, un dibattito sui diritti. Tanto più esso si è rivelato tale, o è

tornato ad esserlo, dopo la rivisitazione “costituzionale” dell’art. 2059, che ha riportato in

primo piano, con le implicazioni problematiche che sono state esaminate, il tema della

selezione e della gerarchia dei beni rilevanti.

Si sarebbe allora tentati di osservare, in prima battuta, che il diritto del lavoro non

aveva nulla da imparare a proposito di diritti, in virtù della sua tradizione culturale e

dell’imponente apparato normativo passato in rassegna, e che l’unica vera novità “di

importazione” – una novità, peraltro, non da poco - è stata quella di affrancare la tutela

risarcitoria dalle pastoie del “vecchio” art. 2059.

Il rilievo non sarebbe, però, esaustivo, e forse neppure giusto, essendovi segnali

del verificarsi, all’interno del sistema in senso vasto (oltre che, come si è visto, nei

continui rimandi reciproci del micro-sistema), di una crescente circolazione dei diritti.

Anzitutto, ha questa implicazione il fatto che la proposta di stabilizzazione del sistema,

provenuta dalle Alte Corti, al di là della difficoltà di determinarne esattamente l’area di

ricaduta, sia stata incentrata sul compimento della valorizzazione privatistica dei diritti

fondamentali, o umani379.

Difatti, nel momento in cui il valore giuridico di persona si rivela tramite il filtro

del diritto fondamentale, le distanze sistemiche interne tendono a ridursi, e tale riduzione

“passa sopra” le peculiarità dei differenti contesti legislativi, specie laddove essi

rappresentano l’espressione di quei diritti. Gli stessi processi argomentativi della

giurisprudenza tendono ad omogeneizzarsi, nella misura in cui le norme legislative –

come, d’altra parte, è doveroso – vengono lette per mezzo di quelle costituzionali. In altre

378 Se così accadrà, sarà difficile non ripartire da riflessioni come quelle di Mengoni 2004, 53 ss. 379 Nella misura in cui il primo attributo dei diritti fondamentali è l’universalità: v. Ferrajoli 2001, 6-7. Sulle ragioni della preferenza terminologica per l’aggettivo “fondamentale”, v. Peces-Barba 1993, 23-24. Sulle basi filosofiche dei diritti umani, v. Viola 2000.

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ipotesi ancora (come nell’elaborazione sulle “libertà” del lavoratore380), l’argomentazione

è, senza mediazioni (tale non è l’art. 1 St.lav.), di natura “costituzionale”, specie nel

ricorso a quella navigazione “a vista”, che è la tecnica del bilanciamento.

C’è chi si preoccupa che l’invasione dei diritti fondamentali “non-specifici”, o “non-

sociali”, faccia perdere alla materia la propria “diversità”381. E’ una preoccupazione che

tendo a non avvertire382, essendo convinto che il lavoratore abbia titolo, secondo

Costituzione, ad essere protetto meglio, in relazione ai fattori di rischio che lo sovrastano,

ma non di più, di qualsiasi cittadino. Il diritto del lavoro deve far valere il proprio

inarrivabile know-how personalistico, ad esempio continuando a spiegare quanto il

“personale” si infiltri nel “patrimoniale” (come dimostrato anche dalla diffusione di danni

“misti”, come quello professionale), ma non aspirare ad un differenziale di protezione

“umana”.

Guai, poi, a sottovalutare la forza d’impatto del danno che, in omaggio a Renato

Scognamiglio, si chiamerà “personale”, essendovi stato almeno un caso, quello del

mobbing, nel quale il danno, se si passa l’espressione, ha “creato” il diritto, contribuendo,

più che a far “rivivere” una disposizione dimenticata, a farla vivere per la prima volta383.

Per non dire degli altri diritti pur già riconosciuti, come quelli alla salute384 e alla

professionalità385, ai quali soltanto l’offerta di un mezzo di tutela tanto prosaico quanto,

finalmente, tangibile e concreto, ha permesso di acquisire una piena consistenza

giuridica.

Inoltre, nel caso della privacy386, si è data per la prima volta, se non ci si inganna,

l’emanazione di una normativa legislativa destinata indifferentemente (al di là

dell’esistenza di sezioni particolari) a tutti i cittadini, come è accaduto anche con il d.lgs.

n. 215 del 2003387.

Non è quindi nel processo di “creazione” dei diritti della persona che deve più

essere ricercata la vera specificità della materia, bensì nella speciale attitudine del

contratto di lavoro a metabolizzarli nella relazione obbligatoria, resa a sua volta possibile

dall’affinità elettiva fra la genesi assoluta e indisponibile di tali diritti e il carattere

380 V. retro, § 9. 381 V ad es. Avio 2001, 186 ss. 382 V., anzi, l’acuto rilievo di Del Rey Guanter 1994, 41, secondo cui – non si potrebbe dir meglio – “i diritti fondamentali non lavoristici sono, paradossalmente, quelli che servono da filo conduttore a tutto l’ordinamento giuslavoristico, essendo più “comuni” dei diritti lavoristici stessi.” 383 V. retro, § 5. 384 V. retro, § 4. 385 V. retro, § 11. 386 V. retro, § 10. 387 V. retro, § 6.

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imperativo e inderogabile delle norme alle quali si deve l’integrazione dei medesimi nel

regolamento contrattuale388.

Per quel che si è potuto osservare attraverso l’analisi condotta, l’inserimento nel

contratto dell’istanza protettiva (con l’art. 2043 a far da utile “riserva”, come nel caso del

licenziamento “ingiurioso”389, e eventualmente, a seconda delle opzioni qualificatorie

accolte, anche in altri) è avvenuto secondo due schemi fondamentali.

Il primo è quello per cui il generale dovere di astensione, che è la forma base del

comando giuridico nel quale ha base la tutela della persona umana390, si è sottoposto ad

una torsione logico-semantica, dapprima specificandosi in un più puntuale obbligo

negativo, a sua volta ulteriormente sviluppato (ove l’esito di tale sviluppo, pur

campeggiando nel precetto dell’art. 2087, è, in realtà, un posterius logico), e al di là delle

polemiche sull’uso della relativa categoria dogmatica, in termini di obbligo

(essenzialmente positivo) di protezione391. In questo caso, grazie alla lettura in termini di

obbligo, prima da parte della dottrina, e poi della giurisprudenza, della posizione

soggettiva descritta dalla disposizione, l’inserimento nel modello di responsabilità

contrattuale si è dimostrato agevole. Lo sblocco delle porte del danno non patrimoniale

ha fatto il resto.

Semmai, la segnalata differenza fra i due modi d’essere dell’obbligo ha continuato

a riverberarsi, pur restando all’interno dello schema dell’art. 1218, in una diversa

estensione degli oneri probatori: quanto l’azione per danno biologico intentata da un

lavoratore infortunato è esemplificativa di una responsabilità quasi-oggettiva, tanto

quella di un lavoratore che si pretenda vittima di una lesione (staremmo per dire

“dolosa”) della salute a causa di comportamenti vari, o di un mobbing “verticale”, tende a

somigliare, nella sostanza, ad un’azione ex art. 2043, e la pur ufficiale irrilevanza

dell’elemento soggettivo non impedirebbe all’indagine sul dolo o persino sulla

preordinazione del datore di lavoro di farla da padrone nel processo (come, non di rado,

accade), se non fosse per lo spregiudicato ricorso alla “bussola” della connessione

funzionale fra i vari inadempimenti concretati da un medesimo fatto storico (ove quelli

più “visibili” riescono, un po’ per magia, a far acquistare visibilità anche agli altri).

Nel secondo degli schemi enucleati, invece, l’istanza della protezione di beni

assoluti si è tradotta dapprima nella predisposizione normativa di limiti all’autonomia

negoziale dell’imprenditore392 e/o al suo potere direttivo. Queste ipotesi, terreno elettivo

388 Sulle valenze personalistiche dell’inderogabilità della norma lavoristica, v. per tutti De Luca Tamajo 1976. 389 V. retro, § 8. 390 V. Messinetti 1983, 361. 391 V. retro, § 4-5-7. 392 Come nel caso dei limiti all’estensione temporale della prestazione: v. retro, § 12.

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(con riguardo ad atti o poteri tipici) della tecnica dell’invalidità393 e/o dell’inefficacia394,

hanno manifestato però una carenza a livello sanzionatorio, che è divenuta non più

sostenibile allorché, nel paesaggio circostante, ha cominciato a prendere piede il danno

non patrimoniale.

Si è così innescato un processo di mutazione delle posizioni soggettive in esame,

sempre più tese a distendersi, non senza qualche forzatura concettuale, anche sulla

direttrice diritto/obbligo: quello che era un limite allo ius variandi è divenuto un vero e

proprio diritto soggettivo a vedersi assegnate mansioni professionalmente adeguate395, e

quest’ultimo, a propria volta (anche, per quanto si è ipotizzato, come conseguenza

“carsica” di una certa lettura dell’art. 2087396), un diritto “al lavoro”; i limiti all’estensione

temporale della prestazione lavorativa sono divenuti fonte di un non meglio identificato

“diritto” ai riposi397; la violazione del divieto di discriminazione (oltre che delle garanzie di

riservatezza398) è stata dichiarata, dallo stesso legislatore, produttiva di un possibile

diritto secondario al risarcimento del danno non patrimoniale399.

Un’importanza particolare è rivestita da queste ultime disposizioni, essendosi

positivamente realizzata, grazie ad esse, la grande “contaminazione” fra la tecnica

dell’invalidità e quella dell’illiceità, qui assunta come l’indicazione sistematica più

importante emersa dall’analisi, a guisa di scioglimento del paradosso dal quale si sono

prese le mosse. Ove con la suddetta espressione, è appena il caso di ribadirlo, si intende

semplicemente che l’atto invalido si apre ad un’ulteriore possibile qualificazione in termini

di illiceità400.

Un’illiceità, per quanto descritto, fondamentalmente ex contractu. In generale,

infatti, ha accomunato le posizioni soggettive in esame una propensione a evolversi

conformandosi al prototipo dell’obbligo, quasi concepito come un titolo di “cittadinanza”,

ossia come possibilità di accesso allo schema di responsabilità fondato sull’art. 1218,

nella sua faccia risarcitoria. Sì che, per singolare eterogenesi, la pressione proveniente

dal campo della responsabilità extra-contrattuale si è tradotta in una rivalutazione

sistematica dell’art. 1218: e ciò, prima che sul terreno probatorio, su quello della

delimitazione sostanziale delle fattispecie, giacché la comune natura “oggettiva” di tutti

gli illeciti considerati (ferma la rilevanza, come nella normativa antidiscriminatoria401, di

393 Ad esempio per le discriminazioni (retro, § 6) o i limiti ex art. 2103 (retro, § 11). 394 Ad esempio per l’illecito esercizio del potere di controllo o la violazione delle regole a protezione della riservatezza (retro, § 10). 395 V. retro, § 11. 396 V. retro, § 4. 397 V. retro, § 12. 398 V. retro, § 10. 399 V. retro, § 6. 400 Per la piena configurabilità dogmatica di tale doppia qualificazione, v. Irti 2005, spec. 1059-1060. 401 V. retro, § 6.

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eventuali “cause di giustificazione”, che tengono luogo della prova liberatoria) ben si

attaglia al modello di responsabilità prefigurato da tale norma.

Ciò non comporta, di per sé (come non l’ha comportata, mediante la conservazione

delle relative norme sostanziali, in materia di privacy402), alcuna rinuncia alle tecniche

sanzionatorie tipicamente lavoristiche; è questo, fortunatamente, un settore nel quale le

addizioni di tutela sono più semplici, pur dovendosi stare attenti a monitorare eventuali

squilibri sistemici (come quelli che potrebbero essere innescati da una corsa incontrollata

ai risarcimenti).

Ve n’è abbastanza per concludere che siamo di fronte ad un importante riassetto

“di sistema”, che è germinato nell’unica area della disciplina che, anche in questi anni

difficili, e quasi come contrappeso al diritto “della flessibilità”, ha continuato a proporre

avanzamenti dal punto di vista dei livelli di protezione o, quanto meno, di tutela (nel

senso proprio del termine).

Di tale riassetto il tratto saliente sembra essersi concretato, ma in una dimensione

che sarebbe riduttivo circoscrivere al danno, avendo coinvolto anche le dinamiche

evolutive delle posizioni soggettive, in una nuova e inusitata saldatura col sistema della

responsabilità civile, dalla quale è però scaturito – sorprendentemente - un complessivo

rafforzamento della protezione della persona. E’ pur vero, si potrà obiettare, che il diritto

del lavoro ha qui preso senza dover dare (a meno che non si consideri uno snaturamento

la maggiore apertura alla tutela risarcitoria). Ma è difficile negare, comunque, la novità

dei segnali che il sistema giuridico ha cominciato a lanciare, che parrebbero confermare

l’ipotesi403 che l’acquisita specialità della materia non sia riuscita ad assurgere al

superiore stadio dell’autonomia sistematica.

Parallelamente, proprio la materia qui trattata ci consegna, per un’implicazione

discendente dalla conformazione interna delle fattispecie considerate, una forte

indicazione di apertura extra-sistematica , rivolta a saperi scientificamente sistematizzati,

saperi tecnici, o meri saperi-esperienza. Se ne hanno riscontri, pur alla rinfusa,

nell’esigenza di un più sofisticato orientamento delle “precomprensioni” a proposito di

fenomeni come il mobbing o le molestie sessuali sul lavoro, nella difficoltà di delimitare

(senza risalire dal diritto alla società) concetti come quello di licenziamento “ingiurioso”,

nella dipendenza del giudizio sulla lesione della professionalità da una comprensione

delle moderne logiche organizzative d’impresa, nelle indagini sul rispetto degli standard

tecnici di sicurezza, e, in fondo, nello stesso accertamento (oltre che nella misurazione)

della malattia e della disabilità.

402 V. retro, § 10. 403 La cui dimostrazione necessiterebbe, peraltro, di un’approfondita riflessione ex professo.

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Ovunque, segnatamente in questo campo, alle valutazioni giuridiche tendono ad

intrecciarsi e sovrapporsi valutazioni non giuridiche, che debbono essere valorizzate, ma

ad un tempo mediate ai fini della loro trasposizione nell’ordinamento. La necessità di tale

mediazione sollecita, peraltro, procedimenti argomentativi sempre più affinati, e segnala

l’esigenza di uno spazio comunicativo pubblico nel quale questa “cifra” - che ritengo

strutturale -, del diritto contemporaneo, possa essere adeguatamente tematizzata e

discussa.

Nondimeno, quanto più si approssima la conclusione, tanto più si acuisce la

sensazione dell’inadeguatezza del diritto ad esaurire in sé un concetto illimitatamente

aperto, come quello di persona, e a rispondere ai grandi interrogativi su dove debbano

tracciarsi le linee ultime di non “contatto” fra i consociati, e su quale prezzo possa darsi

alle lesioni del valore uomo. E’ come se la persona, nella complessità della sua

dimensione esistenziale, sfuggisse sempre al tentativo di afferrarla una volta per tutte.

Ma, pur nella coscienza dei propri limiti, il diritto ha il grande merito di aver accettato la

sfida di accompagnare la persona nella selva delle sue avventure umane, con i

compromessi che inevitabilmente ne sono discesi.

Proprio a tal proposito, una volta segnalata l’esigenza che il diritto del lavoro si

disponga di buon grado ad accogliere gli apporti di chi, sebbene con un secolo di ritardo,

ha imparato ad apprezzare quel valore, si lascerebbe un non detto, se non si aggiungesse

che a nessuno dovrebbe essere concesso di dimenticare o sottovalutare l’importanza

attuale della battaglia giuridica che esso ha condotto in nome della persona.

Non è stata, né ancora sarà, una battaglia facile. Se, come scriveva nel 1797

Immanuel Kant, “l’umanità in se stessa è una dignità, poiché l’uomo non può essere

trattato da nessuno.. come un semplice mezzo, ma deve sempre essere trattato nello stesso

tempo come un fine, e precisamente in ciò consiste la sua dignità, o la sua personalità”404,

converrà ricordare che nessun altra disciplina giuridica si è cimentata di più, e con

maggiore ostinazione, nella sfida, a suo modo “paradossale”, di portare il regno dei fini là

dove è il diritto stesso a consentire che l’uomo possa essere trattato come mezzo.

404 Kant 1991 (ma 1797), 333-334.

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BIBLIOGRAFIA

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