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Gruppo Interstizi&Intersezioni Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano N N N e e e w w w s s s M M M A A A G G G A A A Z Z Z I I I N N N E E E I I I n n n t t t e e e r r r s s s t t t i i i z z z i i i & & & I I I n n n t t t e e e r r r s s s e e e z z i i i o o o n n n i i i n n n . . . 2 2 2 9 9 9 - - - A A A u u u t t t u u u n n n n n n o o o 2 2 2 0 0 0 1 1 1 3 3 3 Nevica. Sotto i fiocchi la porta Apre infine al giardino Che è più del mondo. Avanzo. Ma s’impiglia La mia sciarpa nel ferro Arrugginito, e si strappa In me la stoffa del sogno. (Yves Bonnefoy) Editoriale - Uscire dai sentieri battuti Ho visitato recentemente a Bolzano, come oramai più di 3 milioni di persone, il museo che ospita la mummia di Otzi, il misterioso attraversatore delle Alpi di oltre cinquemila anni fa che venne ritrovato nel 1991 ai bordi del ghiacciaio del Similaun, in Alto Adige a pochi metri dal confine austriaco. Le circostanze particolarmente favorevoli che hanno consentito il ritrovamento – come lo scioglimento dei ghiacciai – non sarebbero bastate se i due coniugi tedeschi che si trovavano in vacanza nella zona non si fossero allontanati dal sentiero che saliva a un passo di oltre 3200 metri. In altri termini, questo ritrovamento che si può considerare unico più che eccezionale, di enorme importanza da parecchi punti di vista, è avvenuto perché qualcuno è uscito da una via già tracciata. Questo episodio mi ha fatto riflettere per analogia sul fatto che non solo nel mondo delle scienze pure, ma anche in quello delle scienze umane e della vita sociale, così come in letteratura e in arte, possono avvenire scoperte e innovazioni allorchè ci si pone in posizione periferica, marginale o deviante rispetto alle conoscenze acquisite e consolidate. E questo mi sembra anche, se mi è consentito, l’atteggiamento di chi concepisce la realtà sociale attraverso il filtro prevalente dei fenomeni interstiziali – specialmente di quelli ai margini, poco visibili o emergenti - e delle intersezioni tra discipline e approcci, allorché si tratta di attraversare le zone aride o desertiche di una no man’s land o di sfidare i paradigmi dominanti di una disciplina, di una accademia, di una corporazione che difende i suoi privilegi anche attraverso acquisizioni concettuali e metodologiche considerate come le uniche ortodosse. In anni di crisi acuta quali stiamo vivendo, e con i dati drammatici attuali sulla disoccupazione in Italia, viene da chiedersi se proprio per far fronte all’emergenza non sarebbe proficuo assumere anche in sede economica e socio-politica un atteggiamento che si ponga nella deriva indicata. Vale a dire, uscire deliberatamente dai sentieri battuti e mettersi a ricercare nuove vie che siano “sostenibili”, esercitando la creatività e più ancora quella fiducia negli esiti positivi della creatività che è forse la risorsa estrema per un sistema stremato. Giovanni Gasparini neXus

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                       Gruppo  Interstizi&Intersezioni Dipartimento di Sociologia                                                       Università Cattolica 

                 del Sacro Cuore – Milano                                                  

      

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Nevica.

Sotto i fiocchi la porta Apre infine al giardino

Che è più del mondo. Avanzo. Ma s’impiglia

La mia sciarpa nel ferro Arrugginito, e si strappa

In me la stoffa del sogno. (Yves Bonnefoy)

Editoriale - Uscire dai sentieri battuti Ho visitato recentemente a Bolzano, come oramai più di 3 milioni di persone, il museo che ospita la mummia di Otzi, il misterioso attraversatore delle Alpi di oltre cinquemila anni fa che venne ritrovato nel 1991 ai bordi del ghiacciaio del Similaun, in Alto Adige a pochi metri dal confine austriaco. Le circostanze particolarmente favorevoli che hanno consentito il ritrovamento – come lo scioglimento dei ghiacciai – non sarebbero bastate se i due coniugi tedeschi che si trovavano in vacanza nella zona non si fossero allontanati dal sentiero che saliva a un passo di oltre 3200 metri. In altri termini, questo ritrovamento che si può considerare unico più che eccezionale, di enorme importanza da parecchi punti di vista, è avvenuto perché qualcuno è uscito da una via già tracciata. Questo episodio mi ha fatto riflettere per analogia sul fatto che non solo nel mondo delle scienze pure, ma anche in quello delle scienze umane e della vita sociale, così come in letteratura e in arte, possono avvenire scoperte e innovazioni allorchè ci si pone in posizione periferica, marginale o deviante rispetto alle conoscenze acquisite e consolidate. E questo mi sembra anche, se mi è consentito, l’atteggiamento di chi concepisce la realtà sociale attraverso il filtro prevalente dei fenomeni interstiziali – specialmente di quelli ai margini, poco visibili o emergenti - e delle intersezioni tra discipline e approcci, allorché si tratta di attraversare le zone aride o desertiche di una no man’s land o di sfidare i paradigmi dominanti di una disciplina, di una accademia, di una corporazione che difende i suoi privilegi anche attraverso acquisizioni concettuali e metodologiche considerate come le uniche ortodosse. In anni di crisi acuta quali stiamo vivendo, e con i dati drammatici attuali sulla disoccupazione in Italia, viene da chiedersi se proprio per far fronte all’emergenza non sarebbe proficuo assumere anche in sede economica e socio-politica un atteggiamento che si ponga nella deriva indicata. Vale a dire, uscire deliberatamente dai sentieri battuti e mettersi a ricercare nuove vie che siano “sostenibili”, esercitando la creatività e più ancora quella fiducia negli esiti positivi della creatività che è forse la risorsa estrema per un sistema stremato.

Giovanni Gasparini

neXus

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SOMMARIO

1. Incontri - Ivana Pais, Sharitaly - Giovanni Gasparini, Il terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto al Louvre - Nicoletta Pavesi, Nelle “pieghe” di una mostra

2. Libri & Scritti

- Alida Airaghi, Ascoltare il silenzio di E. Ferrari - Alida Airaghi, Portatori di silenzio di S. Raimondi - Francesco Mazzucotelli, Gerusalemme senza Dio: ritratto di una città crudele

3. Arte & Comunicazione - Giovanni Gasparini, Sacro G.R.A., un film di G.Rosi - Giovanna Mascheroni, Net Children Go Mobile

4. Vita quotidiana

- Matteo Colleoni, La vivibilità del tempo urbano - Roberto Diodato, Ricordo di Paolo Rosa - Cristina Pasqualini, L’impresa dei giovani

Rubrica “Le città interstiziali”

- Francesco Mazzucotelli, Yerevan: vetrina dell’Unione Sovietica (ma non ditelo troppo in giro)

- Claudia Mazzucato, Gerusalemme, dove l’impossibile incontra il necessario Pubblicazioni recenti

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1. Incontri Sharitaly Collaborare e condividere: sono i due concetti intorno a cui si gioca la traduzione di “sharing economy”. Un movimento che sta prendendo corpo attorno alla creazione e all’utilizzo di piattaforme digitali basate sullo scambio tra pari di conoscenze, oggetti, servizi e denaro. Oltre alla condivisione in senso stretto (di abitazioni, passaggi in auto, capi d’abbigliamento e accessori…), si possono ricondurre a questo modello anche il bartering, inteso come baratto tra privati (swapping) o tra aziende, in un’ottica di reciprocità diretta o indiretta e il crowding, quando più persone contribuiscono alla creazione di un bene o un servizio, attraverso risorse creative (crowdsourcing) o finanziarie (crowdfunding). Dopo aver iniziato a utilizzare le piattaforme straniere, gli italiani ne stanno creando di proprie: nate a partire dal 2012, se ne contano oggi più di 120, a cui si aggiungono 43 piattaforme di crowdfunding e oltre 100 spazi di coworking. Le questioni aperte da queste iniziative sono numerose: dal posizionamento rispetto all’economia tradizionale, agli aspetti regolativi e le dinamiche sociali, fino alla sostenibilità economica. Per questo, il Centro per lo Studio della Moda e della Produzione Culturale dell’Università Cattolica, con Collaboriamo e Fondazione Eni Enrico Mattei, ha organizzato Sharitaly (www.sharitaly.com), una giornata di riflessioni e dibattito sulla sharing economy che si terrà a Milano il 29 novembre. Un’occasione per fare il punto sull’economia della condivisione in Italia, ma soprattutto per mettere a confronto startup collaborative, grandi aziende e pubbliche amministrazioni su questi temi. Ivana Pais, Università Cattolica, Milano, [email protected]

Il terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto al Louvre

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Michelangelo Pistoletto, uno degli artisti contemporanei più versatili e apprezzati a

livello internazionale, ha avuto nel 2013 l’onore di una mostra a lui dedicata che si è realizzata nelle sale del Louvre, dove una ventina di sue opere e installazioni sono state esposte accanto ai capolavori di pittura e scultura del museo parigino. L’impressione che credo si ricavi da questa singolare esposizione è quella di una riuscita: probabilmente pochi altri autori viventi sarebbero stati in grado di riempire in modo così appropriato e sinergico, oltre che decisamente diversificato, parecchie sale del Louvre, tra cui la Galleria di pittura degli italiani e l’altissima Cour Marly dedicata alle sculture neoclassiche, dove campeggiava “Obelisco e terzo paradiso”: qui un obelisco specchiante era sormontato dal simbolo di quello che Pistoletto chiama da alcuni anni “il terzo paradiso”, una sorta di sintesi ideale e spirituale del mondo della natura e di quello della tecnologia-cultura. Il simbolo è derivato da quello geometrico dell’infinito e n questo caso era costituito da tre grandi anelli sospesi, realizzati con stracci colorati. Tra le altre opere esposte colpisce “Autoritratto di stelle 1973”, dove attraverso uno dei suoi consueti specchi levigati l’artista fa del proprio corpo il microcosmo dell’universo, e del mondo il macrocosmo del proprio essere: il risultato è ottenuto con una fotografia di galassie che delimita la silhouette del corpo dell’artista. Un’altra installazione significativa realizzata con le superfici specchianti, “Il tempo del giudizio 2009”, pone a confronto in modo essenziale, attraverso una tenda e quattro specchi ciascuno recanti un simbolo, le quattro grandi religioni dell’islam, cristianesimo, ebraismo e buddismo. La dimensione umanistica o filosofica e non solo estetica emerge continuamente, anche in quella “Venere degli stracci” che fa da pendant alle sculture greco-romane. Pistoletto è un vero artista – mi sentirei di affermare – non solo perché sa unire nelle sue opere e installazioni essenzialità, semplicità ed efficacia comunicativa, ma anche perché non si limita ad operare sul piano estetico-espressivo: il suo messaggio tocca, pur con sobrietà e con i mezzi consentiti da espressioni dell’arte contemporanea, il livello dei valori e

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l’impegno o il sogno di costruire una società diversa. Giovanni Gasparini, Università Cattolica, Milano, [email protected] Nelle “pieghe” di una mostra A fine estate si è chiusa la mostra “Homo sapiens” accolta nelle sale del Broletto di Novara: una esposizione che, negli intenti degli organizzatori, intendeva “ricostruire le origini e i percorsi del popolamento umano, per scrivere l’atlante del grande viaggio umano sulla Terra”. Indubbiamente un obiettivo molto ambizioso, oltre che interessante: l’idea di mettere insieme e far dialogare discipline che spesso si sono guardate con sospetto, la genetica, la linguistica, l’antropologia, la paleoantropologia, la climatologia, è indubbiamente meritevole oltre che foriero di un sapere che sia sempre più capace di guardare alle molte e diverse dimensioni dell’essere umano. Ma non è della mostra che intendo scrivere: cercando su Google “Homo sapiens Novara” escono 115.000 risultati, mi sembrano più che sufficienti per chi volesse informarsi. Vorrei invece raccontare quello che è successo, in una piccola e tendenzialmente sonnolenta città di provincia, intorno a questo evento. Anzitutto il “movimento” creato per sostenere economicamente la mostra: non soltanto le fondazioni bancarie e di comunità (fortunatamente numerose sul territorio) e le istituzioni pubbliche, ma anche le aziende, di tutte le dimensioni, che hanno contribuito finanziando il progetto od offrendo gratuitamente le competenze tecniche, ad esempio per l’allestimento. Si è poi creato un link più stretto fra comune e diocesi per consentire l’apertura (solo nei week end, purtroppo) di monumenti che solitamente sono chiusi, come il battistero che ospita un fonte battesimale paleocristiano ad immersione: magari, un esperimento che si potrebbe ripetere, se non si può rendere stabile. Insomma, una palestra per imparare o consolidare la logica del networking, strategia oggi sempre più necessaria in tanti campi, dalla cultura alle politiche sociali,

all'istruzione. Non solo si sono riusciti a creare 15 posti di lavoro per altrettanti giovani, ma, grazie alla collaborazione con alcune scuole superiori, sono stati coinvolti diversi studenti come custodi volontari dei monumenti finalmente aperti al pubblico, implementando così anche la sensibilità verso una forma di volontariato, quella culturale, che non è così diffusa come quella socio-assistenziale. Le numerose iniziative collaterali destinate a tanti target diversi hanno rivitalizzato una città che per molti anni in passato si era addormentata avvolta nella nebbia. Certo, non sono mancati i problemi: quanti amici si sono lamentati perché alla domenica trovare un ristorante aperto in centro è un’impresa, o perché i cartelli turistici sono pochi e insufficienti e soprattutto sono limitati alla cerchia dei baluardi, o perché, in fondo in fondo, chi ha girato un po’ di musei dell’uomo, in questa mostra non ha trovato chissà quali novità. Ma per molti, per i ragazzi delle scuole che si sono calati nei panni di paleontologi o antropologi in erba, per i genitori che hanno vissuto un'esperienza di laboratori insieme ai figli, per chi, comunque, sa ancora stupirsi di fronte all'affascinante storia dell'uomo, un'esperienza da custodire con cura nel bagaglio della vita. Nicoletta Pavesi, Università Cattolica, Milano, [email protected] 2. Libri & Scritti

Ascoltare il silenzio, di Emanuele Ferrari (Mimesis, 2013)

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Secondo il pianista e musicologo Emanuele Ferrari (Milano,1965), il silenzio è un elemento cruciale e imprescindibile di qualsiasi creazione ed esecuzione musicale. Nel breve saggio pubblicato da Mimesis, l'autore afferma che “la musica è in rapporto costante col silenzio: anche quando non è materialmente presente esso agisce come sfondo, come rimando implicito, come dimensione di senso. Tra i due elementi esiste un'intera gamma di relazioni che vanno dall'evocazione al rimando implicito, dall'allusione al comando.” Nella prima parte

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del suo scritto, Ferrari invita il lettore all'ascolto attento di diverse atmosfere musicali, confrontando un Notturno di Chopin con una Fantasia di Bach: la poetica emozionale e interiore del primo con “lo stupefacente vortice di forme sonore” del Cantor di Lipsia. E ancora di Bach sottolinea “il silenzio evocato” in un clima “di intensa, quieta devozione ed elevazione spirituale” nel corale “Vieni ora, salvatore dei pagani”, o l'ascetismo di fondo espresso dalla “Prima Sonata in sol minore per violino solo”, in cui la musica esprime “il fluire del pensiero nel silenzio”. E sempre in Bach, nella “Passione secondo Matteo”, mette in luce il senso di abbandono reso evidente dal tacere di Gesù interrogato da Pilato, o dal silenzio che segue il suo grido “Eli, Eli” sulla croce. In una prosa appassionata ma mai pedantesca, Ferrari ci guida a riflettere sul silenzio squarciato, lacerato dalle fanfare in Mahler, che poi si inabissa in “una melodia struggente e carica di nostalgia”. O sulla “memoria del silenzio” rievocata dalla musica nell'apostrofe straziata della Elizabeth wagneriana nel Tannhauser. E ancora sulla diversità di interpretazione che grandi pianisti danno alle pause in Beethoven, nella ricerca di “un equilibrio quasi utopico fra pieno e vuoto, transitorietà e permanenza”. Una guida preziosa e competente per chi voglia lasciarsi penetrare dalla musica anche nelle sue sospensioni, rarefazioni, attese. Alida Airaghi, scrittrice, [email protected]

Portatori di silenzio, di Stefano Raimondi (Mimesis, 2013) Chi sono, per il poeta e critico letterario milanese Stefano Raimondi (tra i fondatori dell' Accademia del Silenzio), i “portatori di silenzio”? I poeti, i filosofi, gli artisti, gli emotivi, gli scalfibili, gli ultimi, i vinti, i malati? Coloro che non fanno chiasso, che non si impongono, che non urtano imperiosamente gli spazi altrui: forse... Certo chi sa “concentrarsi maggiormente sull'eleganza e la grazia del proprio portarsi nella vita e nel proprio irrefutabile passare nel mondo della vita”; chi è “in grado di abitare per silenzio il mondo ammutolito e

afasico dei rumori, della celaniana 'chiacchiera comune' che violenta, stupra e offende chiunque, mediante i suoi carichi di disattenzione, indifferenza coatta e berciante”. Nei tre brevi interventi che compongono questo libriccino, sospesi tra meditazione filosofica e poesia, prosa lirica e illuminazione, Raimondi affronta teoricamente senso e significato del silenzio, inteso come “luogo di rivelazione”, forma concreta di attesa, attenzione, possibilità epifanica. “Al silenzio si arriva per atteggiamento e propensione dunque! Si giunge concedendogli spazio e dignità: afferrandolo quasi per commozione!”. Modo di essere, modo di porsi tra gli altri e per gli altri: “è la postura di un pensiero, è la deambulazione di un'insistenza incastonata nel proprio stile di vita... da qui, da questo punto di coincidenza di sé con sé, si riparte per iniziare altro, per diventare Altri”. E forse silenzio per eccellenza è quello offerto dalla parola poetica, a cui “non si addice lo spreco e neppure la superficialità dell'uso”: il bianco “dicente” e silente dei versi appuntiti e contratti di Celan, di Ungaretti: “bianco... assoluto, rarefatto. Quel bianco della decifrazione, dell'ermeticità, del fraintendimento”. Nel suo ultimo saggio, Raimondi suggerisce poeticamente di imparare il silenzio, coltivandolo “come si coltiva un orto”, disponendosi ad ascoltarlo, finché diventi “orizzonte, realtà, deserto, oceano, isola e meta”. Alida Airaghi

Gerusalemme senza Dio: ritratto di una città crudele

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Paola Caridi, giornalista e storica che ha vissuto per dieci anni a Gerusalemme, torna a scrivere per Feltrinelli a quattro anni di distanza da “Hamas. Chi è e cosa vuole il movimento radicale palestinese”, una delle più acute e approfondite inchieste sulla situazione politica e sociale della Striscia di Gaza. Nel suo nuovo libro, frutto di dieci anni di vita vissuta, di incontri, di relazioni umane, di sensazioni vissute sulla propria pelle, di emozioni rielaborate con la necessaria distanza, Caridi racconta il paradosso di Gerusalemme. Città tre volte santa, eppure descritta nel suo aspetto

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meschino e cupo, fatto di conflitti per nulla santi che riguardano il potere e il controllo del terreno. Il libro è un sapiente alternarsi di storia internazionale e di microstoria a livello di quartiere, di correnti di pensiero e di storie di vita di persone in carne e ossa, di avvenimenti episodici e di quella che Bloch chiama “lunga durata”. Caridi restituisce così una vera e propria storia urbana che non inizia né con la guerra del 1948 né con la guerra del 1967, bensì con la metà dell’Ottocento, quando Gerusalemme, una piccola città di provincia all’interno di un impero ottomano vasto e in profonda trasformazione, si affaccia alle soglie della modernità. È la storia di una grande e ricca complessità sociale, confessionale, geografica che si somma a millenni di civiltà e dominazioni, dando forma a un’identità urbana che non può essere considerata come patrimonio esclusivo da parte di alcuno dei gruppi che vivono nella città. Che vivono, ma non convivono, perché l’affresco di Paola ci restituisce l’immagine di una Gerusalemme che è un mosaico, simile a quello che la raffigura nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, ma in cui ogni tassello rimane separato dagli altri. Una città in cui gli spazi, i tempi, i suoni e persino gli odori diventano marcatori di identità separate e in contrasto, e in cui un orrendo centro commerciale, un non luogo per definizione, diventa l’unico luogo in cui ebrei e palestinesi si trovano gomito a gomito tra le corsie del supermercato, gli scaffali, la coda alle casse. Per il resto, la geografia di Gerusalemme emerge come un arcipelago di isole fortemente caratterizzate dal punto di vista etnico-confessionale, sociale, politico. Un arcipelago, però, a geometria variabile, in cui alcune enclaves godono del diritto alla mobilità, mentre altre rimangono segregate dal muro di separazione e dai posti di blocco delle forze armate israeliane. Un arcipelago dove il colore della copertina della carta d’identità può fare la differenza tra ore di umiliazioni a un posto di blocco e la possibilità di vivere e di lavorare in condizioni dignitose. Un arcipelago dove le strategie urbanistiche, dal sindaco Teddy Kollek in poi, sono strumenti politici di controllo del territorio e di modifica degli equilibri demografici secondo

una politica dei fatti compiuti. Scritto con passione, rispetto, profonda empatia verso la sofferenza e le vicissitudini di tutte le parti coinvolte, il libro di Caridi si conclude sostenendo pienamente che Gerusalemme non può che essere una, perché nessuna divisione della città potrà mai avere senso, ma che potrà essere una solo riconoscendo il diritto all’esistenza dignitosa ed egualmente libera di tutte le sue componenti. Città tre volte santa e spesso considerata come riflesso sulla terra del mondo ideale, Gerusalemme emerge come una città dove qualcosa è andato profondamente storto. Dove, a furia di parlare di Dio, ci si è dimenticati dell’Essere umano, e dove ci si è dimenticati che l’Altro, anche quando appartiene a un’altra etnia e un’altra religione, è il volto di Dio. Per molti versi, nonostante il titolo, il libro di Caridi è un libro profondamente evangelico, ma di un evangelo che guarda alla Via dolorosa e alle tribolazioni degli esseri umani di oggi piuttosto che alle pietre di un selciato sulla strada del Calvario. Francesco Mazzucotelli, Università Cattolica,Milano, [email protected] 3. Arte & Comunicazione

Sacro G.R.A., un film di G. Rosi (Italia 2013)

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Il Grande Raccordo Anulare di Roma, 66 km., è la più lunga autostrada urbana d’Italia, quella che cinge la capitale e che milioni di persone, romani e non, ben conoscono per averla frequentata sistematicamente o per avervi transitato talvolta. L’opera di Gianfranco Rosi, vincitore recente del Leone d’oro di Venezia, è un film o un documentario? Certo il film si è scelto un oggetto quanto mai “interstiziale”, nel senso che un’autostrada, e per di più un anello autostradale periurbano, è tipicamente un luogo-percorso considerato un “in-between” provvisorio e di passaggio tra luogo di partenza e di arrivo, nonché un’esperienza marginale rispetto a quelle di chi lo percorre con il fine di raggiungere al più presto una destinazione in Roma o fuori. Il paziente

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lavoro del regista riesce a offrire frammenti apparentemente incoerenti e sminuzzati di una serie di storie veramente singolari di persone che vivono sopra o accanto al GRA: un pescatore di anguille, un botanico che si è dato la missione di salvare le palme da un parassita, un nobile decaduto che alloggia in un monolocale con la figlia perennemente occupata al computer, alcune prostitute che vivono in un camper… Le storie sono inframmezzate da inquadrature del GRA e dei suoi dintorni: l’impressione prevalente è quella di un disagio esistenziale di queste persone, delle cui storie si intuisce peraltro solo qualche frantume. Ma l’esigenza di dare senso anche ad una realtà così effimera e transitoria emerge in una delle figure su cui più volte ritorna la camera di Rosi: si tratta del lettighiere che svolge il suo lavoro proprio sul GRA, in un’ambulanza di pronto intervento, e ha continue occasioni di rendersi vicino agli infortunati negli incidenti stradali. Non solo: la sequenza finale ci mostra questo uomo maturo che va a trovare la madre affetta da Alzheimer e le parla amorevolmente. Come dire che anche per le vicende più frammentate e apparentemente prive di senso compiuto si avverte la necessità, alla fine, di trovare elementi di continuità, di spessore e di significato. In altri termini, e forzando i passaggi, credo che alla domanda iniziale si possa rispondere dicendo che questo è un film più che un semplice documentario, anche se sarebbe stato auspicabile – a mio modo di vedere- che l’approfondimento di cui Rosi ha sentito l’esigenza per l’uomo dell’ambulanza fosse stato offerto anche per alcuni degli altri casi presentati. Giovanni Gasparini

Net Children Go Mobile Il 17 ottobre, in occasione del Safer Internet Forum, sono stati pubblicati i primi risultati del progetto Net Children Go Mobile (www.netchildrengomobile.eu). Il progetto è co-finanziato dal Safer Internet Programme della Commissione Europea per comprendere in che modo le mutate condizioni di accesso alla rete - e in particolare la possibilità di accedere a internet da devices portatili come smartphone e tablet

- trasformano l'esperienza online dei ragazzi, ad esempio intensificando l'esposizione a alcuni rischi o ponendone di nuovi. I primi risultati, relativi a accesso e usi di internet, mostrano come i media mobili si inseriscano in quel processo di privatizzazione dell'uso di internet già evidenziato da EU Kids Online (www.eukidsonline.net). Infatti, gli smartphone sono i dispostivi più diffusi fra i giovani di Italia, Danimarca, Romania e Regno Unito: in questi paesi il 53% dei ragazzi di 9-16 anni possiede uno smartphone e il 48% li usa almeno una volta al giorno per andare online. gli smartphone sono, naturalmente, i media più usati per andare online fuori casa, soprattutto nei contesti di mobilità come il tragitto da casa a scuola. E, tuttavia, gli smartphone sono usati in particolare nella privacy della propria cameretta. I primi risultati mostrano anche la pervasività dei social network nella vita degli adolescenti: l'86% dei ragazzi di 13-14 anni e il 93% degli adolescenti di 15-16 anni ha un profilo su in sito di social network. Percentuale che scende al 32% dei bambini di 9-10 anni: l'uso "underage" è in calo soprattutto in Italia (15%) e Regno Unito (19%), dove i genitori proibiscono ai figli più piccoli di creare un profilo. Il report completo è scaricabile dal sito www.netchildrengomobile.euGiovanna Mascheroni, Università Cattolica, Milano, [email protected] 4. Vita quotidiana

La vivibilità del tempo urbano

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La vita urbana è sempre stata contraddistinta dalla presenza di ritmi del tempo difformi da quella rurale. In particolare la città nata con la rivoluzione industriale è stata il contesto in cui i comportamenti dei cittadini sono stati sincronizzati sui ritmi formali delle macchine del tempo, gli orologi. L’urbanizzazione delle aree rurali e la diffusione degli stili di vita urbani hanno poi portato alla scomparsa della distinzione fra città e campagna e a quella tra i tempi urbani del sistema orario e i tempi rurali dei cicli naturali. I risultati delle

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più recenti indagini sono coerenti nel parlare di convergenza nell’uso del tempo tra i gruppi sociali e, in particolare, tra chi abita le aree urbane e chi quelle rurali. Rispetto al passato vivere in campagna anziché in città sembra non diversificare più gli stili di vita né migliorare la qualità del tempo. Differenze tuttavia sussistono quando, al di là del modo in cui le attività sono ripartite nella giornata, si guarda alla vivibilità del tempo. Una recente ricerca condotta da chi scrive sui dati dell’Indagine sull’uso del tempo dell’Istat ha messo in evidenza che la qualità del tempo di chi vive nelle aree metropolitane è inferiore in termini di minore unitarietà e omogeneità. Chi vive nelle aree urbane complesse tende a svolgere le attività in modo più frammentario e più sovrapposto, privando il proprio tempo dell’unitarietà e dell’omogeneità necessarie a dare senso alle azioni. Le ragioni di ciò sono diverse e rinviano sia a dimensioni culturali sia strutturali. Le prime ricordano che viviamo in società nelle quali fare tante cose e avere poco tempo sono ancora considerati indicatori di prestigio sociale. Le dimensioni strutturali rimandano sia alla tendenza ad avere sempre più ruoli - e alla sempre maggiore difficoltà a tutelare i confini temporali delle diverse attività - sia all’iniqua distribuzione dei carichi di lavoro. Il fatto, per esempio, che il lavoro familiare sia ancora soprattutto a carico delle donne, costringe quelle impiegate e con figli a congestionare il tempo residuo con molte attività. Poiché il tempo a disposizione in una giornata è costante, la sola possibilità per fare tutte le attività è sovrapporle con il risultato di percepire il tempo, sempre più frammentato e denso, come insufficiente e privo dell’uniformità necessaria a dare significato a ciò che facciamo. Matteo Colleoni - Università di Milano Bicocca, [email protected]

Ricordo di Paolo Rosa Come molti sapranno questa estate, durante una vacanza in Grecia, è morto Paolo Rosa, artista tra i fondatori di Studio Azzurro, docente all’Accademia di Brera. Paolo Rosa era un uomo dall’animo gentile, attento alle esigenze delle persone con cui aveva rapporti

di amicizia e di collaborazione, sensibile ai drammi sociali del nostro tempo, delicato nei modi ma capace di posizioni forti e quando necessario polemiche. Della sua arte innovativa e straordinaria molti hanno scritto, soprattutto in questi mesi successivi alla sua morte; io vorrei soltanto ricordare il suo impegno per un’arte fuori di sé, come recita il titolo di un suo recente libro. L’arte va fuori di sé secondo un senso personale e secondo un senso pubblico, entrambi rilevanti e tra loro connessi in profondità. Da un lato l’arte è viaggio che procede all’incontro dei marginali e dei pazzi: “avventura condivisa di navigazione in spazi psichici molto fragili”, “delicatezza ed estrema attenzione” alla fragilità propria dell’umano, al confine sottile tra normalità e follia, viaggio come percorso e cambiamento, a volte doloroso e comunque spiazzante, che fa emergere paure, desideri, maschere anche e soprattutto di coloro che suppongono la propria normalità. Dall’altro l’arte è costruzione di utopie, di anticorpi simbolici delle patologie sociali, è movimento di opposizione ai processi di anestetizzazione contemporanei, è laboratorio in cui si costituisce un habitat sociale, una dimensione politica non nei suoi immediati contenuti, ma nella sua potenza formale di riarticolazione dell’aisthesis secondo dimensioni di libertà, di precisione dello sguardo sull’assenza di libertà, sulla sofferenza e sulla contraddizione. Tra questi movimenti trasgressivi di uscita fuori di sé si giocava l’arte e la vita di Paolo, un gioco serio la cui costante fondamentale era la ricerca della dimensione partecipativa, di quella rispettosa interattività degli attori-spettatori che per lui costituiva l’essere stesso dell’operazione artistica. Da ciò scaturiva la possibilità di un’antica e nuova memoria, insieme individuale e comune, di un abitare insieme questa terra. Roberto Diodato, Università Cattolica, Milano, [email protected]

L’impresa dei giovani

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Nell’ambito del progetto Rapporto Giovani, l’Istituto Giuseppe Toniolo di Milano ha realizzato il primo rapporto su L’impresa dei giovani in Italia e in Lombardia. Attori,

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valori e sfide tra tradizione e cambiamento (www.rapportogiovani.it), un approfondimento quali-quantitativo promosso dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza, presentato lo scorso 21 ottobre 2013 proprio a Monza. Il gruppo di ricerca – formato oltre dalla sottoscritta, anche da Fabio Introini, Mauro Migliavacca e Alessandro Rosina – ha voluto indagare con questa indagine l’idea che i giovani 18-29enni italiani hanno del mondo del lavoro e in particolare del “fare impresa”. Il dato più interessante che emerge tra le nuove generazioni è il desiderio di protagonismo, la volontà di fare, di creare un lavoro piuttosto che semplicemente cercarlo. Fare impresa diventa allora un progetto concreto per molti giovani; se il posto fisso è un miraggio, i giovani italiani fanno gli imprenditori e sono pure soddisfatti. In generale, i giovani con una propria attività sono più realizzati (91%) e di successo (80,6%) rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato (86,6% e 70,4%). E in Lombardia 2 giovani su 5 vorrebbero un lavoro autonomo. Il posto fisso resta la prospettiva “solo” per 1 su 4. In Italia le imprese gestite dagli under 35 sono circa il 10,6% delle imprese attive. Certo la crisi si è sentita, eccome. Questo è quanto emerge dall’indagine quantitativa. Inoltre, attraverso un focus group - realizzato con giovani imprenditori brianzoli under 35 - abbiamo potuto approfondire come i giovani rappresentano oggi l’imprenditore. Queste sono alcune sue caratteristiche: smart, dinamico e pragmatico, preparato e ottimo inglese, senso della sfida, capacità collaborativa, libero anche senza tempo libero, ecc. Interessanti sono inoltre le differenze generazionali, descritte mediante tre diverse metafore. Ai tempi dei loro nonni, l’imprenditore era un capitalista-monarca, al tempo dei genitori un capitano della nave, mentre oggi un giovane imprenditore è un capitano di una squadra sportiva, ovvero primus inter pares, in team ma, non per questo, spesso solo. Quelle indagate con questa ricerca sono questioni importanti, perché intercettano la problematica dei giovani, del lavoro, della disoccupazione, oltre che del precariato. Non tutti possono inventare Facebook, è vero. Non stiamo vivendo un

trend di crescita ma di decrescita, è vero. Ma è anche vero che i nostri giovani partono da un plateau molto più alto rispetto al passato, a loro viene facile mettersi in rete/Rete e partorire idee nuove, alcune addirittura geniali. Se come dicono alcuni, la crisi è un’occasione, un’occasione per innovare, di sicuro i giovani ci stanno provando. Cristina Pasqualini, Università Cattolica, Milano, [email protected] Rubrica “Le città interstiziali”

Yerevan: vetrina dell’Unione Sovietica (ma non ditelo troppo in giro)

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Si dovrebbe, forse, partire da un paradosso. Yerevan, capitale dell’Armenia e sua unica grande città, è assolutamente marginale nella storia armena. Sì, certo, ci sono i resti della fortezza urartea di Erebuni e, a poca distanza, l’antica capitale di Vagarshapat con Etchmiadzin, la residenza del catholicos della chiesa apostolica armena. Ma poi, fino al 1828, la città è stata sede di vari khanati musulmani e parte dello spazio culturale e politico persiano. L’unica moschea superstite, oggi maldestramente tollerata come centro culturale iraniano, è la testimonianza di un passato non lontano in cui Yerevan era poco più di una cittadina periferica, abitata in maggioranza da musulmani turco-azeri. Ben altri erano i centri pulsanti di una vivace cultura armena: Erzurum, Van, Tbilisi. Quella che è oggi la capitale della Georgia aveva, fino alla fine dell’Ottocento, una chiara maggioranza armena. Lì si trovavano le scuole più prestigiose, lì le reti di conoscenze della borghesia mercantile e gli ambiti intellettuali, lì è sepolto Sayyat-Nova, bardo raffinato di un Caucaso multiculturale, in cui la diversità era ricchezza e non minaccia. Oggi, nel Caucaso contemporaneo, la fine della presunta fratellanza sovietica (fatta però di politiche che hanno esasperato le rivendicazioni e i rancori di tipo etnico-territoriale) ha lasciato il posto a uno sciovinismo nazionalista e a un revival religioso spesso asfissianti e asfittici. Il comunismo è finito, ma i monumenti del

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potere continuano a essere prepotentemente privi del senso delle proporzioni. Chiese inutilmente enormi, edifici pubblici di una modernità obbligatoria (molto manierista e dunque molto provinciale), residenze dell’oligarchia dei nuovi ricchi segnano il paesaggio urbano, senza peraltro quell’eleganza formale di alcuni palazzi del neoclassicismo staliniano. Yerevan è un prodotto dell’urbanistica sovietica. O meglio, una vetrina in cui l’urbanistica sovietica ha cercato di dare il meglio di sé. Ovviamente, lasciando da parte le periferie, brutte e squallide come in ogni altro angolo dell’impero sovietico, e se possibile rese ancora più brutte e squallide da una disordinata e mai finita transizione al modello economico e sociale della globalizzazione capitalista. Ma nel centro, quello sì, l’Unione Sovietica ha cercato di fare le cose per bene. Dopo il genocidio avvenuto nell’Anatolia orientale ottomana nel 1915 e il breve biennio della repubblica democratica armena, un’effimera entità nazionalista-borghese definitivamente sconfitta dai bolscevichi armeni e dall’Armata Rossa nel 1920, Yerevan divenne la capitale dell’Armenia sovietica. Nel 1924 fu l’architetto Alexandr Tumanian a ideare una ordinata planimetria a reticolo, con grandi viali alberati che scendono in direzione del monte Ararat, abbracciati da un grande boulevard esterno. Dentro questa mappa, palazzi di cinque o sei piani in tufo locale violaceo creano una piacevole sensazione di omogeneità. Centro virtuale del disegno di Tumanian è la piazza Lenin (oggi piazza della Repubblica), con l’edificio monumentale che ospita il museo nazionale. Poco fuori dal viale esterno, il Matenadaran, la grande raccolta di preziosi manoscritti e incunaboli che racchiudono secoli di cristianità armena, e i suoi rapporti con le culture bizantina e siriaca. Una città di teatri, gallerie d’arte, fontane e piazze alberate, dotata dopo gli anni Sessanta di un aeroporto d’avanguardia e poi di una metropolitana: Yerevan era la città con cui l’Unione Sovietica cercava di dialogare con la diaspora armena, mostrando un volto benevolo e attraente. Non per benevolenza, certo, ma per un

preciso disegno politico nei confronti delle comunità diasporiche sparse per il mondo. Unico grande centro urbano di un paese piccolo e isolato dalla guerra mai formalmente finita per il possesso del vicino Nagorno-Karabakh, Yerevan ha una certa gioia di vivere che, come le altre capitali caucasiche, la distingue dalla tristezza di campagne depopolate e lasciate a se stesse; ma gli scontri che hanno contrassegnato le ultime elezioni presidenziali manifestano i sintomi di una insoddisfazione ancora tutta da risolvere. Francesco Mazzucotelli

Gerusalemme, dove l’impossibile incontra il necessario «Perché vuoi andare a Gerusalemme…? E ho risposto: non lo so». Così molte volte si è espresso Carlo Maria Martini, il quale aggiungeva, citando San Paolo, che a Gerusalemme si va mossi interiormente da qualcosa (lo Spirito, per i credenti) e si va senza sapere cosa lì accadrà1. Davanti a Gerusalemme, il «non so» è pieno, non vuoto. Pieno di un tutto ineffabile, indicibile, che rimane compagno anche quando si è giunti, infine, nella «Città di Dio» – «di te si dicono cose stupende»2 –, e quando da quel luogo incredibile si fa rientro, sentendosi subito spinti, ancora e ancora, a ritornarci. Il «non so», davanti a Gerusalemme, è apofatico, ed è un tributo dell’umiltà di chi vi si accosta alla città il cui volto è indescrivibile come quello dell’amato; la cui Storia è ulteriore rispetto alla millenaria sequenza di battaglie, conquiste, assedi, divisioni, splendori e speranze3; alla città in cui ogni cosa – le pietre, la luce, il cielo, il vento, i canti e i suoni di preghiera che si levano dai minareti nell’aria fredda della notte, dall’assolato Kotel o dal caos della Via Dolorosa – allude a una promessa che scuote e tormenta ma di cui ciascuno sente pungente il bisogno; una città i cui abitanti hanno, tutti, storie terribili e straordinarie che abbracciano 1 C.M. MARTINI, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2004, p. 11. 2 Sal 87, 3.

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3 Efficace la «biografia» di Gerusalemme di S.S. MONTEFIORE, Jerusalem. The Biography, Phoenix, London, 2012.

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in modo misterioso, anch’esso indicibile – e non si sa perché –, l’esperienza dell’umanità intera, a partire – se vogliamo – dalla storia di Gesù, o di Abramo, o di Maometto, uniti da quel piccolo monte nel deserto, nel luogo più improbabile in cui costruire una città, nel luogo meno votato a darle Storia e lustro. «E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme»4. Senza sapere che cosa lì ci accadrà. A Gerusalemme si viene rapiti da questo non sapere che impone un’apertura, dunque un’ospitalità all’imprevisto. Può essere la luce «così concentrat[a], così forte» che «piante ed edifici reagiscono con un risveglio generale, come se volessero moltiplicare la presa sui propri colori» o la «limpidezza dell’aria che viene dal deserto» che fa provare una «nostalgia dolorosa per immagini del presente, come se invece fossero ricordi»5; possono essere i contorni delle montagne - il Monte degli Ulivi, il Monte Scopus, per citare i più noti – e dei brulli rilievi che annunciano il deserto ai quali si vorrebbe provare a dire «parole come “Con tutto il calore del mio cuore e sino allo spirare dell’anima”» ma essi «scoppi[erebbero] a ridere»6. Può essere, ancora, l’incontro dei mondi che si intrecciano sui gradini affollati della Porta di Damasco o nella piazzetta della Porta di Jaffa, un incontro sempre imprevisto, eppure immancabile, mai scontato: l’anziana beduina che vende il prezzemolo, il bimbo palestinese con la cartella pesante che corre a scuola verso la Spianata, gli haredim che camminano con passo lesto verso il Kotel, il ragazzo che impasta abilmente i fellafel, il monaco etiope con il bastone cruciforme, il giovane che fa jogging attorno alle antiche mura ascoltando l’IPod, noi che guardiamo e proveniamo da tutto il Mondo. A ciascuno – dopo averne fatto esperienza – di sentirsi spettatore di un attraversamento dei «confini invisibili eppure così concreti in cui la città è divisa»7 o, come capita a me, di una promessa di convivenza e

4 Sal 122, 2. 5 A. OZ, Il monte del cattivo consiglio (1976), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 192-3. 6 OZ, Il monte del cattivo consiglio, p. 134. 7 Così Paola CARIDI nel suo bel libro Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele, Feltrinelli, Milano, 2013.

tolleranza pur nelle innegabili difficoltà. Può essere – con i versi di Yehuda Amichai – soprattutto la biancheria stesa su un tetto della Città Vecchia, il lenzuolo di una donna o l’asciugamo di un uomo: una donna o un uomo che sono i miei nemici; un aquilone nel cielo della Città Vecchia: all’estremità del filo, un bambino, che non posso vedere, per via del muro8. Perché – è questo, mi pare, lo sconcertante insegnamento di Gerusalemme che ci cattura – a Gerusalemme si concretizza, in un luogo, un’esperienza topica dell’essere umano; si rende abitabile la condizione umana dal nascere al morire, imprigionata in un qui e ora provvisorio ma spalancata verso un Oltre sconosciuto, o verso un Tu, impossibile e necessario. La condanna, la scommessa, la promessa di Gerusalemme è forse proprio questa ospitalità offerta al tumultuoso sposalizio dell’impossibile con il necessario. Il luogo/non-luogo in cui simile intreccio diventa luce e pietra e umanità sporta verso un Tu o un Oltre si dispiega sotto il nostro sguardo, con l’urto di un’esperienza che non può lasciare indifferenti, nell’indivisibile compresenza, nelle stesse pietre, del Muro Occidentale – ciò che resta del Tempio distrutto – e della Spianata delle Moschee, a pochi passi dalla pietra del Santo Sepolcro. Nell’indivisibile compresenza, impossibile e necessaria, di una sola terra, amatissima, e due popoli9. Claudia Mazzucato, Università Cattolica, Milano, [email protected] Pubblicazioni recenti

M. Cesa-Bianchi, Una tacita cura,

Mimesis/Accademia del silenzio, Milano 2013.

G. Gasparini, Bellezza e società, Nomos, Busto A. 2013.

Istituto Giuseppe Toniolo (a cura di), La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2013, Il Mulino, Bologna 2013.

8 Y. AMICHAI, Jerusalem, in The Selected Poetry of Yehuda Amichai, trad. ingl., University of California Press, Bekeley, 1996, p. 32

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9 M. BUBER, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-palestinese (1983), La Giuntina, Firenze, 1998.

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C. La Neve, Senza parole, Mimesis, Milano 2012.

E. Mancino, Il segreto all’opera, Mimesis/Accademia del silenzio, Milano 2013.

F. Rigotti, Metafore del silenzio, Mimesis/Accademia del silenzio, Milano 2013.

S. Salgado, Genesis, Taschen, Colonia 2013.

D. Sapienza, F. Michieli, Scrivere la natura, Zanichelli, Bologna 2012.

I nostri recapiti: Giovanni Gasparini (Il coordinatore) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected]. 02.7234.2547

Cristina Pasqualini (La segreteria) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected]. 02.7234.3972

Redazione:

Piermarco Aroldi, Giampaolo Azzoni, Giovanni Gasparini, Ivana Pais, Cristina Pasqualini

I corrispondenti: Stefano Albarello (Musica); Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro); Domenico Bodega, Università Cattolica – Milano (Organizzazione aziendale); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Gabrio Forti, Università Cattolica – Milano (Diritto penale e Criminologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa).

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Numero chiuso il: 14.11.2013