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Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza Centro STudi e Documentazione DIARIO DI BORDO (LO STATO DELLA SICUREZZA IN PUGLIA) 1° SEMESTRE 2008 1

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Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza

Centro STudi e Documentazione

DIARIO DI BORDO(LO STATO DELLA SICUREZZA IN PUGLIA)

1° SEMESTRE 2008

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DIARIO DI BORDO (Lo stato della sicurezza in Puglia)

a cura di Nisio Palmieri

Associazione “Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza – Centro Studi e Documentazione”

Hanno collaborato alla stesura del rapporto : Giuseppe Brunaccini e Pasquale Davide de Palma

Giugno 2008

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S O M M A R I O

Premessa Pag. 7

Rapporto Censis - Eurispes “ 11

REGIONE “ 12

Ministero dell’Interno – Rapporto sulla criminalità – Giugno 2007 “ 13

Dati del Ministero dell’Interno elaborati da ‘Il Sole 24Ore’ “ 14

Rapporto delle N. U. sulla criminalità ad est dell’Adriatico “ 18

Commissione Parlamentare Antimafia “ 19

Direzione Investigativa Antimafia “ 19

Ufficio Italiano Cambi “ 21

Una legittima domanda sull’erogazione dei fondi comunitari “ 21

I SETTORI CHE REGISTRANO GLI INTERESSI DELLA CRIMINALITA’

Cemento Pag.

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Contraffazione “ 22

Attività agricole “ 24

Impianti eolici “ 25

Ambiente-Rifiuti “ 27

Traffico di esseri umani “ 60

Estorsioni - Usura “ 65

Furti “ 71

Traffici internazionali “ 72

Pubbliche Amministrazioni “ 74

Altri campi d’intervento “ 75

Riciclaggio dei proventi “ 76

Direzione Nazionale Antimafia “ 80

Commissione Affari Costituzionale del Parlamento “ 81

BARI

Premessa Pag. 83

Rapporto sulla criminalità del Ministero dell’Interno – Giugno 2007 “ 83

Furti – Rapine “ 84

Contraffazioni “ 90

Il verdetto con gazzarra per il delitto Marchitelli “ 91

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Giustiziato nel 2000, nel 2008 il verdetto Pag. 92

Un quartiere difficile: San Pio anzi Enziteto “ 92

Droga “ 100

Il racket “ 109

Attentati “ 114

Il clan Capriati “ 116

La spavalderia “ 118

L’usura, affari e truffe “ 119

Aggressione mafiosa “ 125

Scommesse clandestine “ 126

La banda della <<Cayenne>> “ 127

Il boss Di Cosola e il racket dei funerali “ 128

La tratta delle schiave “ 130

La santa alleanza “ 133

I clan ricorrono al mutuo “ 137

Il rapporto Dia sul riciclaggio dei proventi “ 137

Il vertice in Prefettura sulla sicurezza “ 138

LECCE

Rapporto Dia – luglio/dicembre 2007 Pag. 140

Rapporto delle Questura – 17 maggio 2008 “ 141

Il racket “ 141

Usura e truffe “ 155

Il furto e la vendetta “ 157

La droga e le armi “ 158

Stridore di armi “ 164

Aggressione misteriosa “ 166

Delitti della Scu in Olanda “ 166

Il boss della droga: Giuseppe Lezzi “ 167

La banda della ‘166’ “ 167

La fabbrica dei falsari “ 168

Rapina a mano armata “ 170

Il blitz ‘Arpia’ contro i clan mafiosi “ 170

Processo ai delitti di mafia “ 171

Un delitto annunciato? “ 172

BRINDISI .

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Rapporto Dia – luglio-dicembre 2007 Pag. 174

La Scu fa sentire ancora la sua presenza “ 174

Condannato “La belva” “ 182

Scu e politica “ 183

Attentati “ 184

Delitti di mafia, parla “Bullone” “ 189

Acque poco chiare “ 193

FOGGIA

Rapporto della Questura – 16 maggio 2008 Pag. 195

Gioco d’azzardo “ 196

Droga e armi “ 197

La gang del riclaggio “ 207

I delitti di mafia “ 207

Il racket del ‘caro estinto’ e un misterioso progetto d’attentato “ 217

Reati in agricoltura

Furti di bestiame – Blitz limuosine Pag. 220

La fabbrica dell’olio sofisticato “ 221

Le rapine della <<Società>> “ 223

La vendetta “ 224

Le rapine alle banche, gioiellerie, gli assalti ai furgoni blindati e un assoluzione per vizio formale

“ 225

La sentenza d’appello sulla ‘mafia garganica’ e una giustizia che non fa il suo corso “ 230

Attentati “ 234

Due feroci assassini “ 237

La sentenza del processo <<Domus>> “ 238

TARANTO

Il Rapporto della Dia – luglio/dicembre 2007 Pag. 240

Gioco d’azzardo “ 240

Truffe “ 240

Troppi attentati, le estorsioni? “ 241

Si torna a sparare “ 249

L’usura “ 258

Maxi-processo antimafia “ 263

Droga e sangue “ 265

Vecchi omicidi di mafia “ 266

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Appendice al processo antimafia <<Cruise>> Pg. 267

Armi e munizioni “ 268

Furti di mezzi agricoli “ 268

APPENDICE

Inaugurazioni anni giudiziari Pag. 271

Anno giudiziario 2006 “ 271

Anno giudiziario 2007 “ 273

Anno giudiziario 2008 “ 275

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PREMESSA

Nel riprendere l’attività, per la verità mai interrotta, di Osservatorio per la legalità (ex Fondazione Cesar) in una nuova veste associativa, abbiamo pensato di redigere questo Diario di Bordo, in cui raccontiamo i fatti che stabiliscono lo Stato della Sicurezza in Puglia. Ed è un vero e proprio diario di una parte consistente del nostro lavoro che raccoglie quotidianamente i fatti di cronaca che disegnano la presenza criminale, la sua consistenza, i crimini commessi, i vari campi in cui si registra la sua instancabile attività, insomma tutto quello che inquina il vivere civile della nostra terra. L’abbiamo fatto, certo, per segnare una vitalità che, in tanti, ci hanno chiesto di confermare, ma anche perché, una volta deciso di non abbandonare la postazione, non volevamo, e forse non potevamo, sottrarci alla corale discussione che sull’argomento vede impegnato l’intero Paese. Il non facile contesto ha costretto le più illustri intelligenze degli operatori anticrimine, dei sociologi, psicologi, criminologi, opinionisti ad impegnarsi nell’offrirci una lettura più chiara della realtà. Ma accanto a questi si è sbizzarita la più vasta comunità dei tuttologi inventando aforismi, parole d’ordine, e sofismi non sempre trasparenti, tuttavia intriganti e affascinanti perché dal sapore esotico. Si pensi alla lunga e, spesso, stucchevole diatriba sulla insicurezza percepita e quella reale. Per non parlare di chi si basa, e lo racconta, sui sentimenti se non addirittura sulle sensazioni e, in ogni caso, non nel buon senso, trascurando il fatto che i sentimenti, per loro natura, sono transitori.Noi, da parte nostra, ci impegniamo e promettiamo di non cavalcare la confusione; racconteremo solo fatti, così come si presentano alla cronaca quotidiana nella regione e poi, più precipuamente, nelle singole cinque province, non eludendo, quando il caso lo merita e, ancor più, là dove è necessario, di esprimere sommessamente il nostro giudizio.Avevamo due strade da seguire: un’elencazione asciutta delle tipologie e numeri dei reati commessi nel nostro territorio in uno spazio di tempo ben determinato (1° semestre 2008) ovvero, sempre riferendoci al periodo preso in considerazione, soffermarci sui fenomeni più eclatanti e significativi raccontandoli così come si presentavano. Abbiamo scelto quest’ultima non mancando, in qualche caso e là dove valutavamo necessario, di soffermarci sugli antefatti.Il panorama che ne viene fuori, lo diciamo subito, non è certo paragonabile a quello dei territori occupati da una criminalità ormai storicamente radicata, ma non è

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neanche confortante. Anzi. Tanto che pensiamo, se ne avremo la forza, di rendere periodica questa fotografia della realtà criminale pugliese. Allarmante è l’insediamento criminale nel settore dello smaltimento dei rifiuti, con particolare voracità a Foggia e Bari, (e non poteva che essere così visto l’alto fatturato realizzato) o l’attenzione prestata sempre dalla grande criminalità alla costruzione dei Parchi eolici. Su tutti Torre Santa Susanna, dove boss della Scu avevano operato per proporre la propria candidatura imprenditoriale. Per fortuna l’efficienza davvero esemplare delle Forze dell’ordine ed una magistratura della Dda di primo piano hanno sventato il colpo. Qui sarà interessante seguire l’evoluzione delle indagini, per capire se e in che misura la politica presta la sua opera per rendere agevole il sentiero operativo dei boss. Non solo qui, naturalmente; stesso discorso vale per lo smaltimento dei rifiuti ad Altamura, dove dobbiamo attendere i risultati cui perverrà la Dda di Bari avendone finalmente assunto le indagini. E’ possibile, diremmo naturale, che molti degli allarmi che denunciamo siano anche il risultato di personale empiricità, ma non possiamo non fare cenno anche alla ricchezza del mercato delle droghe che caratterizza Bari, dove la situazione, a nostro avviso, è drammatica. Dobbiamo al coraggio dei giornalisti di alcune prestigiose testate locali la conoscenza dettagliata del mercato, dei prezzi praticati, della frequentazione che ormai si allarga anche a fasce di età adolescenziali, delle svariate postazioni dello smercio. C’è da far raggelare il sangue. Eppure solerte e continua è l’opera di repressione da parte degli investigatori e inquirenti. Tenuto conto poi che nel far cenno agli adolescenti baresi, abbiamo trovato immutato l’impegno della criminalità barese a reclutare nelle proprie fila, giovanissimi, ragazzi, come sua caratteristica esclusiva. Altro dato allarmante è la ripresa, a Taranto, pare in grande stile, della conflittualità sanguinosa tra vari clan. Troppi scontri a fuoco in pochi mesi. Lo scenario negativo tarantino evidenzia numerosi attentati, parte ad opera di teppisti; ma non pochi hanno chiari fini estorsivi.Questa sintesi di presentazione non deve ingannare, perché tutto quello che troverete non è consolante: racconta di una criminalità non doma, sempre alla ricerca di fonti di guadagno: in alcuni casi pare abbia scoperto anche la finanza, il credito. Insomma non c’è da star tranquilli.Ci sia permessa una nota di costume (si fa per dire). Con tutto ciò che si verifica, sembra perlomeno singolare la corsa affannosa alla ricerca di codici garantisti, che certo non garantiscono impunità a tutti, ma solo a quelli che possiedono un certo livello di censo. Un pò come ai tempi del Re Sole. Anzi no: a quei tempi il Re, esercitando la sua autorità in modo arbitrario, poteva, almeno ogni tanto, far punire anche qualche nobile. Oggi qui in Italia, non c’è più nemmeno questa possibilità C’è un’ultima cosa che vogliamo annotare. Il diario è avaro dei furti in appartamenti, in esercizi commerciali, nelle banche e farmacie, degli scippi, dei borseggi che pure sono accadimenti quasi quotidiani che allarmano i cittadini e che pesano poi nella valutazione di ogni singolo componente della comunità, specie se colpito

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direttamente, del clima di sicurezza e di vivibilità del suo quartiere, della sua città. Quindi accadimenti importanti. L’abbiamo evitato perché avrebbe comportato un’elencazione lunga e noiosa di episodi che purtroppo si ripetono con identica tecnica e temerarietà. Del resto le fonti a cui ci siamo richiamati, in particolare quelli del Ministero dell’Interno, delle locali forze dell’ordine e della stessa Magistratura, con le relazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, danno precisa contezza dei sinistri avvenimenti, con comparazioni tra anni differenti. Il lettore, in tal modo, potrà sentirsi soddisfatto di essere stato informato in maniera completa.A proposito di elencazione lunga e noiosa, dobbiamo confessare che ci siamo lasciati prendere la mano in un sol caso: la scoperta dell’arsenale della criminalità a Cerignola. Qui siamo stati puntigliosi ma con uno scopo ben preciso: volevamo che, per chi si avventura nella lettura del diario, avesse chiara la forza, la determinazione, la sete di sangue che anima la nostra criminalità. L’arsenale di Cerignola ha rappresentato un simbolo, purtroppo non è l’unico, qualsiasi arsenale fosse scoperto in qualsiasi parte del territorio interessato dal presidio della criminalità organizzata offrirerebbe un identico, se non più ricco, elenco di armi micidiali. Vi è un altro aspetto che abbiamo volutamente tralasciato: i numerosi episodi di bullismo che infestano ormai tuto il Paese e che, per questo, non hanno una loro caratterizzazione regionale e tanto meno locale. Secondo una nostra, forse presuntuosa, valutazione, l’argomento ha bisogno di un suo precipuo spazio, dove più che agli episodi bisogna dare spazio alle idee, alle proposte dei numerosi operatori della scuola, delle forze dell’ordine, della magistratura minorile e del sistema carcerario che in tanti anni di lavoro hanno messo a fuoco il problema e suggerito interventi, purtroppo inascoltati. Per questo c’è bisogno di chi, potendo operare, sia disposto ad apprendere. C’è chi è armato di tanta modestia da lasciare il suo scettro e sedersi dietro un banco per ascoltare la lezione? Permettetici di dubitarne.. Vogliamo informarvi che questo Rapporto è redatto sulla base di documenti ufficiali: il Rapporto delle Nazioni Unite sulla criminalità ad est dell’Adriatico, i Rapporti della Direzione Nazionale Antimafia, della Direzione Investigativa Antimafia, del Ministero dell’Interno, della Commissione Parlamentare Antimafia, le Relazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei Presidenti delle Corti d’Appello, in particolare, ma anche altre fonti tutte attendibili, nonché cronache di stampa.Naturalmente abbiamo saccheggiato i quotidiani locali: le varie edizioni de La Gazzetta del Mezzogiorno, la Repubblica-Bari, Il Corriere del Mezzogiorno, le due edizioni di Lecce e Brindisi del Nuovo Quotidiano di Puglia, Il Corriere del Giorno, a cui vanno aggiunti: BariSera, Il Bari, Puglia e Quotidiano di Bari.E’ doveroso avvertire che per alcuni particolari aspetti, dove si è esercitato il vero giornalismo d’inchiesta, non abbiamo osato intervenire, si è preferito riprodurre i pezzi, quasi integralmente, così come apparsi sui rispettivi fogli. Esempio, fra tutti, il lavoro di Carmela Formicola su La Gazzetta del Mezzogiorno e di Vincenzo Damiani sul Corriere del Mezzogiorno, che descrivono crudemente le condizioni di un quartiere di Bari come San Pio. Là dove abbiamo riportato le conclusioni

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processuali di particolari efferati episodi, ci siamo intrattenuti, forse a lungo, sugli antefatti, perché ci è sembrato opportuno che il lettore potesse avere miglior cognizione del contesto. Anche qui ricorriamo ad un esempio: le conclusioni del processo al clan della Scu capeggiato da Di Emidio. La cronaca secca sul verdetto non avrebbe descritto a sufficienza la figura del boss diventato, nel frattempo, collaboratore di giustizia. Ci siamo perciò soffermati sulla carriera malavitosa del Di Emidio, autore di ben 22 omicidi.Ai reati ambientali abbiamo dedicato un capitolo corposo, ritenendo che la difesa della sicurezza che immaginiamo ha un largo raggio di azione, che non può escludere la difesa della salute dei cittadini, messa molto spesso a repentaglio, purtroppo, da uomini senza scrupoli, che, pur di raggiungere significativi vantaggi economici, cavalcano anche la tigre dell’inquinamento ambientale, distruggendo risorse umane fino ad oggi incontaminate. In proposito ci siamo particolarmente intrattenuti sul caso Tradeco di Altamura perché pregno di risvolti che ci riportano alle indagini della Direzione distrettuale antimafia sugli affari: criminalità organizzata-imprese-politica. E’accaduto anche di esserci indugiati su singoli ed apparentemente secondari episodi relativi a boss riconosciuti dalla comunità in cui operano; l’abbiamo fatto non certo per offrire una nota di colore, ma perché gli atteggiamenti descritti davano l’esatta misura di come quel territorio è sottoposto al controllo ferreo del clan imperante e come quel controllo viene esercitato. Tutto questo riferiamo perché si giustifichi la prolissità e si comprenda, con generosità, l’intento di chi si è misurato nel fotografare la situazione criminale della nostra regione.Alla fine dell’elaborato abbiamo incluso, come appendice, spunti significativi delle Relazioni per l’inaugurazione degli anni giudiziari, 2006, 2007 e 2008, per favorire una visione più precisa negli andamenti degli eventi criminosi in un arco di tempo sufficiente per trarne eventuali considerazioni e valutazioni.

Nisio Palmieri

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RAPPORTI CENSIS E EURISPESIl Rapporto Censis 2007 sul Mezzogiorno, che mette in luce la grande piaga dell’intero contesto sociale meridionale, sottolinea il dilagare in Puglia della criminalità organizzata: i “segni” delle cosche sono stati evidenziati in 97 comuni.Il Censis ha calcolato il fenomeno nel Sud sulla base di tre variabili:

1. comuni con presenza di clan legati alla criminalità organizzata; 2. comuni con presenza di beni confiscati ai mafiosi; 3. comuni interessati, negli ultimi tre anni, dallo scioglimento dei consigli

municipali per infiltrazioni mafiose.In verità, nella nostra regione ed in alcune aree del Mezzogiorno, il potere criminale impatta direttamente sull’economia dell’intero territorio. Un impatto terribile soprattutto su quelle imprese sane che creano sviluppo e occupazione. Ed è così che si alterano i meccanismi di scambio di merci e servizi e si tolgono alle imprese legali importanti risorse che potrebbero essere utilizzate per nuovi investimenti produttivi. Una dinamica economica perversa che trova spazio nelle imprese prestanome, utilizzate semplicemente per riciclare denaro sporco. Gli economisti considerano la criminalità organizzata un cancro, una zavorra, un triste peso, un limite oggettivo ben chiaro. Una nemica mortale della nostra terra, perché chiude ogni speranza. Schiavizza ogni rapporto, viola ogni convivenza, distrugge il nostro territorio. E’ di certo il giogo più pesante e grave che abbiamo sul nostro futuro. Allora più è chiara questa consapevolezza, più chiara sarà la nostra denuncia contro di essa. Denunciare, quindi, è il modo più efficace contro la criminalità organizzata, senza più deleghe esclusive alle forze dell’ordine e alla magistratura spesso indebolite perché lasciate sole.L’Eurispes, da parte sua, nel Dossier “’Ndrangheta 2008”, segnala le province più permeabili ai tentacoli della criminalità organizzata secondo l’Indice di Penetrazione Mafiosa (IPM) assegnando a Napoli la maglia nera con un punteggio pari a 68,9, Bari si colloca al quinto posto con 32,2. Le altre province pugliesi: al nono posto Lecce con 27,9; decimo Brindisi con 26,0; dodicesimo Taranto con 24,9 e al quattordicesimo posto si colloca Foggia con 21,9.

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REGIONE

La presenza pervasiva della criminalità organizzata in Puglia è, dunque, pari al 37,6 per cento dei comuni pugliesi. Una percentuale alta che vede questa regione al secondo posto subito dopo la Sicilia col 50 per cento. Anche la percentuale di territorio regionale ‘coinvolto’ è allarmante: la Puglia con poco meno del 60 per cento è a un passo dalla Sicilia che detiene il primato con il 63,2 per cento. Invece per quanto riguarda la percentuale di popolazione che risiede in comuni dove si è manifestato il fenomeno mafioso, la Puglia è terza con il 72,5 per cento (la Sicilia l’82 per cento e la Campania l’81,3 per cento).Insomma complessivamente nelle quattro regioni a rischio – Sicilia, Campania, Calabria e Puglia – i comuni marchiati dalla criminalità organizzata sono complessivamente 610 e nella classifica, redatta dal Censis (su dati ufficiali del Ministero dell’Interno), la Puglia non sembra essere tanto diversa dalle altre. le percentuali dimostrano come gli insediamenti di cosche mafiose prendono piede anche nel nostro territorio e le azioni di contrasto diventano sempre più complesse e complicate. E’ pur vero che la criminalità organizzata altrove ha una sua configurazione ben delineata come può essere in Sicilia la mafia (cosa nostra) o in Campania (la camorra) oppure in Calabria (la n’drangheta), ma è altrettanto vero che la Puglia si allinea a queste regioni con una criminalità tradizionale che, pur non avendo una caratteristica ben precisa, ha pur sempre pesanti ramificazioni. E poca importa se in Puglia tale fenomeno si chiama ‘sacra corona unita’, ‘società’ o in altro modo.Intanto gli agenti di polizia, i carabinieri, tutte le forze dell’ordine non si stanno risparmiando nel cercare di assicurare la sicurezza dei cittadini, ma questa ancora non basta. E’ necessaria una manovra coordinata che sia all’altezza del rigurgito criminale con il quale la Puglia (e non solo) sta convivendo.Quello che ci preme ora sottolineare è l’apparente sottovalutazione di questo fenomeno che riscontriamo nelle ricorrenti dichiarazioni di alcuni amministratori e politici, preoccupati a rassicurare le nostre popolazioni sul reale pericolo criminale di cui, in buona sostanza, ci saremmo infine liberati.Intanto è bene riportare il quadro che della situazione criminale pugliese fa il Ministero dell’Interno nel suo Rapporto del giugno 2007.

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MINISTERO DELL’INTERNO - RAPPORTO SULLA CRIMINALITA’- GIUGNO 2007<<Il quadro della criminalità organizzata in Puglia appare così delineato:

• il barese risulta caratterizzato dall’accennata frammentazione dei gruppi criminali, dalla mancanza di un vertice comune ed aggregante e dall’insorgenza di tensioni e scontri;

• nel brindisino la capacità operativa dei gruppi delinquenziali è efficacemente indebolita dall’azione di contrasto delle Forze di polizia e dalle collaborazioni alla giustizia di numerosi affiliati. Sono ancora presenti accoliti dei clan dei mesagnesi;

• nel foggiano la situazione generale risulta destare minore allarme rispetto al recente passato, ma caratterizzata dalla presenza di una criminalità organizzata di tipo strutturato seppure in assenza di capi carismatici;

• nel leccese è presente una criminalità più strutturata rispetto a quella delle altre province, ma anche di ridotta competitività in ragione dell’attività di contrasto delle Forze di polizia. Si registra una maggiore flessibilità delle organizzazioni autoctone con l’apertura verso nuovi settori dell’illecito ed una sorta di “spaccatura generazionale” tra “vecchi” e “nuovi” affiliati all’organizzazione;

• nel tarantino lo scenario criminale appare disorganico e frammentario, tanto da consentire l’operatività di piccoli gruppi con ristrette aree di influenza.

Tra le illecite attività perseguite dai clan pugliesi, il traffico di sostanze stupefacenti rappresenta quella più remunerativa e diffusa sul territorio. Gli ingenti quantitativi di droga che attraversano la regione fanno di questa area un crocevia fondamentale per l’approvvigionamento di altre regioni italiane ed estere, ove operano le altre mafie storicamente radicate, capaci di stipulare accordi sia con le organizzazioni criminali pugliesi, sia direttamente con i trafficanti di altra etnia, soprattutto albanesi.Infatti, il rifornimento della droga avviene prevalentemente tramite le organizzazioni albanesi che, forti di una notevole flessibilità sul mercato internazionale, rappresentano il terminale della via dell’eroina proveniente dal Medio Oriente. Gli stupefacenti sono approvvigionati attraverso le normali rotte commerciali, seguendo le consolidate rotte “adriatica” e “balcanica”.Il contrabbando di t.l.e. registra una evidente flessione, pur essendo considerato una delle tradizionali attività delle organizzazioni criminali pugliesi. La regione rimane interessata dal transito di carichi di sigarette introdotti nel territorio nazionale con modalità intraispettive.

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Il racket delle estorsioni, considerato funzionale al controllo del territorio, è esercitato sotto varie forme e si manifesta attraverso attentati, soprattutto nel provincia di Foggia e, in misura minore, nella provincia di Bari. Accanto alle attività illecite tradizionali connesse al controllo del territorio, emerge il frequente ricorso alla perpetrazione di truffe, finalizzate anche all’indebita concessione di erogazioni pubbliche, alla commissione di atti intimidatori nonché l’interesse per il settore del gioco d’azzardo e del videopoker.Si segnala altresì un trend in crescita per il fenomeno dell’usura, reato gestito prevalentemente da esponenti della locale criminalità organizzata.Nel contesto delle presenze criminali di matrice straniera, vanno assumendo un ruolo importante gli albanesi. Questi sono progressivamente penetrati nel tessuto sociale pugliese e, forti di collegamenti con gruppi criminali in madrepatria, si presentano come intermediari affidabili per svariate attività illegali, risultando particolarmente idonei a compiti di controllo delle fasi più pericolose della commissione dei reati (spaccio di droga, lenocinio, intermediazione ed altro). Gli albanesi, tra l’altro, gestiscono anche il caporalato, fenomeno notevolmente presente in Puglia, soprattutto nel provincia foggiana, nel nord barese e nel brindisino; in tale settore emerge il coinvolgimento di elementi di altre criminalità straniere, quali polacchi e rumeni.La criminalità pugliese, inoltre, si pone strumentalmente al “servizio” delle attività illecite perpetrate da altre consorterie malavitose che utilizzano le coste adriatiche. In tale contesto, tende a favorire forme di ampia collaborazione con numerosi altri gruppi criminali transnazionali, tra cui gli slavi, i greci, i russi ed i cinesi. Con tale ultima etnia, in particolare, oltre alle cooperazioni mirate allo sfruttamento dei flussi migratori, si aggiungono quelle per il traffico di droga e per l’utilizzo della manodopera illegale di propri connazionali clandestini sul territorio nazionale.Proiezioni nazionali ed internazionali – I gruppi criminali pugliesi indirizzano i propri interessi anche in contesti extraregionali.<<Anche in ambito internazionale essi possono contare su agili strutture logistiche, finalizzate al traffico di droga, presenti sia nel territorio europeo (in particolare in Germania, Olanda e Spagna) che in America latina>>.I DATI DEL MINISTERO DELL’INTERNO ELABORATI DA “IL SOLE 24 ORE”Qualche indicazione concreta sulla situazione e sui trend più recenti può venire dai dati forniti dal Ministero dell’Interno – ed elaborati dal Sole 24 Ore del 2 giugno 2008 – che parlano di un bilancio 2007 di 2,9 milioni di reati denunciati. circa 143mila in più rispetto al 2006 (+5,15%), quasi 8mila al giorno o 333 ogni ora. In Puglia si registra una percentuale di aumento quasi doppia di quella nazionale, con il 9,54%, più di 432 reati al giorno.Rapportando il dato nazionale ai 59,2 milioni di italiani, si otiene una media di 4.900 delitti ogni cenmtomila abitanti: su ogni cento abitanti graverebbero insomma 4,9 crimini (appena un paio di decimi in più rispetto al 2006). Se quindi, considerando

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l’attività criminale in generale, il quadro non si presenta molto movimentato, luci e ombre emergono da un’analisi più dettagliata, scendendo cioè nelle principali tipologie e nelle performance territoriali.Più delitti ma anche più denunciati e arrestati. Il bilancio 2007 dell’andamento criminale e dell’attività di contrasto da parte delle forze dell’ordine conferma un peggioramento dei fenomeni anche sul versante delle persone oggetto di denuncia e di arresto.A fronte dei quasi tre milioni di reati denunciati, i dati forniti dal Ministero ed elaborati dal quotidiano della Confindustria evidenziano un aumento di quasi il 9% dei soggetti denunciati: complessivamente quasi 700mila (contro i 641mila del 2006). Più significativo l’incremento degli arresti, passati da 140mila del 2006 a quasi 156mila, ossia l’11,4% in più. In meno del 4% dei casi il soggetto denunciato era un minore: 23.701 gli under 18 coinvolti, un dato comunque in crescita rispetto al 2006 (+2,46%). E un ordine di arresto eseguito per 5.631 giovani (il 2,5% in meno però rispetto all’anno precedente).Com’era prevedibile sono le grandi province a evidenziare i numeri assoluti più elevati: già limitandoci a sommare i soggetti denunciati a Milano (44mila circa), Roma e Napoli (rispettivamente 34mila e 33mila) si raggiunge quota 110 mila; aggiungendo altre aree metropolitane (Torino, Firenze, Brescia, Bologna, Bari e Genova) si arriva quasi a 210mila, come si vede una consistente parte del totale.Ma l’incidenza del fenomeno (calcolata rapportando il numero assoluto alla popolazione della provincia) ci presenta un’altra fotografia. In questa classifica sono i centri di piccole dimensioni ad essere più vulnerabili: Imperia, per esempio, ha oltre 3.700 persone denunciate ogni 100mila abitanti; Vibo Valentia, Rimini e Isernia superano quasi 1.900. A stare meglio sono le province del Sud, quali Lecce, Cagliari, Enna, Messina e Catania (dove non arriva a 800 l’incidenza dei denunciati).I minori: il primato numerico di denunciati spetta sempre alle grandi province (Milano, Torino, Roma e Napoli superano tutte quota mille), mentre per il tasso ogni 100mila abitanti spiccano tre province del Nord-Est, e cioè Gorizia, Bolzano (entrambe oltre quota cento) e Trieste.Si scopre che c’è un reato assai diffuso, quello dei furti d’auto, che presenta addirittura un calo rispetto al 2006 (-5,35%), mentre quello dei furti in abitazione, è salito di quasi un quinto. Collocandosi entrambi intorno a quota 170mila, si può calcolare che ogni ora, in Italia, vengono prese di mira una ventina di auto e un numero analogo di abitazioni.

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LA MAPPA DEI RISCHIProvincia Posizione Numero Ogni 100mila

abit.Var.% 06/07

Milano 1° 306.427 7.888,5 5,4

Roma 2° 277.517 6.915,4 2,9

Torino 3° 173.160 7.699,6 2,8

Napoli 4° 145.607 4,723,3 0,5

Bologna 5° 79.468 8.324,0 5,1

Genova 6° 69.544 7.839,5 -0,9

Bari 7° 66.972 4.195,3 3,0

Firenze 8° 65.792 6.779,8 6,7

Brescia 9° 65.214 5.453,7 7,0

Catania 10° 56.904 5.283,7 12,5

Foggia 20° 30.136 4.421,7 22,1

Lecce 27° 25.772 3,185,9 5,5

Taranto 39° 20.026 3.451,6 10,7

Brindisi 54° 14.805 3.675,2 6,4

Ora vediamo per ogni singola tipologia di reato che cosa totalizzano le nostre province: (31)

Omicidi volontari

Posiz.

Num.

Ogni 100mila abitanti

Var. %

06/07

Foggia 6 22 3,23 266,7

Bari 13 9 0,56 -57,1

Lecce 15 8 0,99 _

Brindisi

45 3 0,74 50

Taranto 85 1 0,17 -75

Italia 626 1,06 0,8

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Furti in appartamento

Posiz.

Num. Ogni 100mila abitanti

Var.%

06/07

Bari 16 1.729 108,3 0,8

Foggia 36 659 96,7 -7,3

Taranto 69 267 46 -2,9

Lecce 81 168 23,2 21,3

Brindisi

82 184 45,7 -3,2

Italia 160.035 270,6 2,3

Furti d’auto

Posiz

Num. Ogni 100mila abitanti

Var. %

06/07

Bari 4 10.575 662,4 1,5

Foggia 8 4.433 650,4 19

Taranto 18 1.671 288 14,3

Lecce 23 1.401 173,2 -2,7

Brindisi

25 1.258 312,3 2,3

Italia 172.762 292,2 -5,3

Rapine

Posiz.

Num. Ogni 100 mila

abitanti

Var. %

06/07

Bari 8 1.234 77,3 12,1

Foggia 16 478 70,1 17,4

Lecce 34 204 25,2 -6

Taranto 35 199 34,3 46,3

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Brindisi

43 162 40,2 13,3

Italia 50.984 86,2 1,4

Truffe e frodi informatiche

Posiz.

Num. Ogni 100 mila

abitanti

Var. %

06/07

Bari 10 2.183 136,7 -3,6

Lecce 24 1.244 153,8 11.4

Foggia 27 1.176 172,5 12,5

Taranto 52 699 120,5 8,4

Brindisi

72 563 139,8 -11,9

Italia 118.520 200,4 8,7

Soggeti arrestati

Posiz.

Num. Ogni 100 mila

abitanti

Var. %

06/07

Bari 7 3.705 238 -14,6

Foggia 19 1.828 268 -10,4

Tarnto 30 1.414 244 -4,8

Lecce 37 1.126 139 -2

Brindisi 59 752 187 9,1

Italia 155.489 263 11,4

RAPPORTO DELLE NAZIONI UNITE SULLA CRIMINALITA’ AD EST DELL’ADRIATICOQuasi tutta l’eroina che circola in Europa è gestita da trafficanti albanesi, un giro d’affari che supera il prodotto interno lordo di molti Paesi dei Balcani, è quello che sostiene l’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite sulla criminalità ad est dell’Adriatico che non esita a definire il lato oscuro dell’Albania, ovvero la sua criminalità organizzata, una vera e propria <<minaccia per l’Unione europea>>.

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E’ la posizione geografica del Paese, spiega il Rapporto, che favorisce la crescita del business che è la maggior fonte di guadagno per la criminalità organizzata dell’area balcanica e dell’Europa sud-orientale. A metà strada tra il maggior produttore del mondo di eroina e cocaina (Afghanistan) e il mercato con la domanda più alta (l’Europa occidentale), l’Albania lascia passare ogni anno 100 tonnellate di polvere bianca, intascando dai 25 ai 30 miliardi di dollari.Un traffico simile, spiega il Rapporto, non può che esistere grazie alla complicità di parte della polizia, guardiacoste (il traffico passa soprattutto via mare), funzionari e popolazione locale, considerazione che porta ad una delle conclusioni del rapporto di legame tra crimine organizzato, politica e mondo degli affari è ancora il problema maggiore dei Balcani.L’Italia, sotolinea l’Onu, è uno dei Paesi preferiti dai trafficanti albanesi, che lavorano in tandem con la Sacra Corona Unita. Stando ai dati delle autorità di Roma, dal 1998 al 2006 sono state sequestrate 15 tonnellate di eroina, di cui 10 di provenienza albanese. Ma la matrice albanese del traffico di droga internazionale va ben al di là dei dati disponibili: assieme ai criminali con passaporto di Tirana, aggiunge il Rapporto, bisogna considerare tutti coloro che hanno cambiato nazionalità ma che sono dentro nel giro illecito perché legati ai loro connazionali grazie alla forte identità etnica.Il secondo traffico illecito dei Balcani è quello di essere umani. Epicentro della tratta di uomini e donne, così come lo definisce il rapporto dell’Onu, i Balcani introducono in Europa circa 120.000 immigrati all’anno, clandestini o meno, ma tutti destinati ad allargare le fila della prostituzione, del lavoro nero e dello sfruttamento. (31 fonte ansa)

C.P.A.Ci appelliamo a documenti e dichiarazioni ufficiali, correndo il rischio di apparire fastidiosi. Ebbene il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, in un convegno a Bari, nell’estate 2007, disse testualmente: <<il fenomeno mafioso pugliese (così lo ha appellato Forgione) che negli ultimi mesi ha guadagnato visibilità a livello nazionale è monitorato attentamente da Roma. Alla pari della camorra campana, della ‘ndrangheta calabrese e cosa nostra siciliana>>. Ed aggiunse: <<Non sottovalutiamo la mala locale anzi è oggetto delle nostre attenzioni. Sbaglia chi crede che siamo più preoccupati della camorra, per portare un esempio, rispetto alle organizzazioni mafiose pugliesi>>. (Le sottolineature in neretto sono nostre ndr)Direzione Investigativa AntimafiaLa Dia ha rilevato: <<l’insorgere nel tessuto sociale ed economico della regione di un fenomeno criminale teso alla ricerca di continui e maggiori spazi di potere, sia in termini territoriali sia economici, nella società civile e nell’industria del crimine>>.Ciò appare importante soprattutto per una regione come la Puglia che costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere le linee di tendenza e le caratteristiche evolutive del crimine organizzato.

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Va sottolineato che quello pugliese resta sempre un fenomeno criminale non riconducibile ad una struttura unitaria. Ne consegue che per la tempestiva individuazione dei settori di interesse, delle modalità operative delle organizzazioni criminali e, altresì, per le analisi delle strutture operative di esse occorrono parametri di valutazione e di intervento elastici ed adeguati alle differenti realtà.La criminalità pugliese continua ad essere contraddistinta da una significativa fluidità strutturale e da ricorrenti innovazioni delle dinamiche interne dei gruppi. La pluralità delle consorterie, i continui conflitti in seno ad esse ed i relativi riflessi nel campo dell’illecito sono l’attestazione di una situazione criminale in continua evoluzione. Il particolare attivismo che contraddistingue e caratterizza la criminalità pugliese presenta tuttavia aspetti e significati differenti.Scrive in proposito, sempre la Dia: <<La criminalità organizzata pugliese continua a caratterizzarsi per il suo spiccato dinamismo>>. Sul piano strutturale, quell’attivismo si manifesta con le continue trasformazioni delle consorterie criminali, realizzate spesso attraverso conflitti armati tra i gruppi per il controllo del territorio e dei mercati criminali.Il dato caratteristico della frammentazione delle cosche pugliesi trova origine in diversi fattori rilevabili dall’analisi degli ultimi anni: da un lato, la compartecipazione di vecchie e nuove consorterie agli affari criminali, la creazione di nuove alleanze anche tra opposte fazioni e, dall’altro, il rinnovo dei vertici criminali dettato dalle ricorrenti, incisive azioni giudiziarie e di polizia.Un’altra causa che alimenta i processi innovativi può rinvenirsi nella loro capacità di instaurare rapporti illeciti di ogni tipo, anche occasionali e transitori, con qualsiasi gruppo, italiano o straniero, sulla base della sola valutazione di convenienza economica, e non già in forza di alleanze strutturali: non a caso si è parlato di vocazione ‘commerciale’ della criminalità pugliese. Ancora, per brevità non richiamiamo gli allarmanti vari passi che la Dia ha dedicato alla Puglia e specificatamente a Bari, nella sua Relazione relativa al 2° semestre 2007.Vogliamo soltanto estrapolare una frase contenuta nel paragrafo ‘Considerazioni’, che credo dovrebbe preoccupare tutti: <<...a latere (il corsivo è della Dia) della costituzione di società commerciali e del classico processo di beni immobili, terreni, quote societarie e disponibilità finanziarie, costituite attraverso le attività di estorsione e di traffico di stupefacenti, emergono anche più complesse connessioni tra settori imprenditoriali e personaggi di rilievo nello scenario criminale>>.Ma non è finito. L’analisi dei reati spia condotta dalla Dia per monitorare l’andamento della criminalità in Puglia e il coinvolgimento della criminalità organizzata dal 2002 al 2007 ha fatto emergere che <<i porti della Puglia rappresentano un importante snodo logistico per tutti i traffici illeciti>>.Nel porto di Brindisi ci sono stati numerosi sequestri di sigarette di contrabbando provenienti dalla Grecia. Le ‘bionde’ al contrario degli anni Novanta, ora arrivano in

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Europa a bordo di tir, nascoste tra merce di altro genere destinata al mercato del Nord Europa. Nel 2007 sono stati effettuati 22 sequestri di sigarette.Anche il porto di Taranto <<si conferma crocevia del traffico di merci di contrabbando>>. In particolare nel porto di Taranto, attraverso i container imbarcati in Cina si cerca di far arrivare in Italia sigarette di contrabbando realizzate in Cina. Sui pacchetti era addirittura attaccato il simbolo del Monopolio dello Stato italiano. Insomma non sigarette di fabbricazione estera, come quelle che arrivano dalla Grecia nel porto di Brindisi, ma sigarette spacciate per prodotto del monopolio italiano, realizzate in Italia.Gli investigatori nella relazione semestrale al Parlamento hanno sottolineato la preoccupazione per la crescita del fenomeno del contrabbando di sigarette <<non solo sotto l’aspetto del danno erariale ma soprattutto per quanto attiene ai profili di sanità pubblica, a fronte della scarsa qualità dei materiali impiegati nel confezionamento dei tabacchi>>. Cioè, i rischi e i danni del fumo, con l’arrivo delle sigarette cinesi, si moltiplicano.Nel mese di luglio 2007 nel porto di Taranto furono sequestrate 17 tonnellate di sigarette contraffatte, a novembre 9 tonnellate.I sequestri sono continuati nel primi mesi del 2008.I reati spia che vengono monitorati dalla Dia sono: attentati, rapine, estorsioni, usura, associazione per delinquere, associazione mafiosa, riciclaggio, incendi, traffico di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, contraffazione di marchi e prodotti industriali. (34) UFFICIO ITALIANO CAMBIL’ultima citazione riguarda l’Ufficio Italiano Cambi che denuncia che la provincia della Puglia centrale registra il maggior numero di operazioni sospette. Sono 1.152 per la precisione.Crediamo che siano sufficienti questi documenti per smentire clamorosamente l’ottimismo di cui parlavamo.Una legittima domanda sulle erogazioni dei fondi comunitariIl principale quotidiano economico il 18 aprile 2008 ha dedicato un’intera pagina alla triste realtà delle frodi e irregolarità nelle erogazioni dei fondi comunitari.Si presta colpevolmente poca attenzione ai penalizzanti effetti di comportamenti di vere e proprie schiere di faccendieri, truffatori e lestofanti che si muovono impunemente in questa che rappresenta una nuova e munifica greppia, traendone profitti e procurando danni sul terreno della mera illegalità, affrontate con sfacciate simulazioni.Purtroppo la cronaca ci racconta, molto spesso, di imprenditori pugliesi colti con le mani nel sacco. E non ci troviamo di fronte a un problema di poco conto. Infatti, in

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base alla normativa dell’Unione europea, l’Italia rischia di dover pagare quasi un miliardo di euro per contributi e fondi indebitamente erogati e non recuperati.Con riferimento al periodo 1999-2006, nella classifica degli inadempienti, su quindici Paesi, occupiamo il secondo posto dietro alla Grecia. A livello di confini nazionali le regioni che si ‘distinguono’ sono la Calabria con irregolarità pari a 46 milioni di euro e la Puglia con 17 mila.Ci domandiamo di questo dato ne dobbiamo tener conto nel disegnare il volto illegale della regione? Di certo gli analisti economici seri ne tengono conto. (1)

I SETTORI CHE REGISTRANO L’INTERESSE DELLA CRIMINALITA’

CEMENTOLe forze dell’ordine hanno scoperto infrazioni riferibili all’intero ciclo illegale del cemento: nel 2006 ne sono state accertate 7.038 con un incremento di circa l’8% rispetto al 2005. Vi è un numero crescente di cave e attività estrattive illegali sequestrate. Quasi la metà (49%) delle illegalità “cementizie” si concentrerebbero in Campania (che poi occupa il primo posto), Calabria, Sicilia e Puglia.Sempre queste quattro regioni occupano il primo posto nell’abusivismo costiero in Italia. Qui si consuma quasi il 61% delle violazioni accertate dalle Forze dell’ordine che hanno effettuato ben il 63% dei sequestri.La Puglia totalizza 610 infrazioni accertate, 672 persone denunciate e 144 sequestri effettuati. CONTRAFFAZIONIAltro comparto privilegiato è quello delle contraffazioni. E’ stato valutato che il giro d’affari, in questo settore, è di 7 miliardi di euro, di cui il 70% si riferisce al Mezzogiorno. Nel 2006 la Guardia di Finanza ha effettuato complessivamente 15 mila interventi, sequestrando 89 milioni di articoli contraffatti (il 28% in più rispetto al 2005) e molti di questi sono stati eseguiti nel Salento che è base logistica importante soprattutto per il settore moda. Infatti è proprio la “moda” a primeggiare con un fatturato che supera i 3 miliardi e mezzo di euro annui. A seguire l’elettronica (1,4 miliardi), giocattoli, beni di consumo, farmaci, profumi e cosmetici per cifre inferiori al miliardo di euro annuo. Sono queste merci ad alimentare sempre più il contrabbando: quello delle sigarette è vero che sta tornando in auge, dopo il declino registratosi alla fine degli anni ’90, ma ormai le organizzazioni criminali hanno diversificato il mercato: si va dai prodotti petroliferi allo zucchero, dalle bevande alcoliche agli animali esotici. Insomma sui gommoni che attraccano sulle coste pugliesi o nei Tir che arrivano nei porti pugliesi si può trovare davvero tutto.

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A porre un freno al fenomeno che investe il territorio pugliese è la strategia di contrasto messa in campo dal Comando regionale della Guardia di Finanza. I risultati conseguiti in Puglia dai reparti delle fiamme gialle negli anni che vanno dal 2003 al 2007, dimostrano come non è impossibile assicurare un capillare, qualificato e incisivo controllo economico del territorio. Ma andiamo per ordine. Nel quinquennio preso in considerazione sono state sequestrate in Puglia merci contraffatte per oltre 11,5 milioni di pezzi, denunciate 2mila 858 persone e 100 arrestate.La tipologia delle merci contraffatte è varia: spiccano i prodotti di abbigliamento (1,5 milioni di pezzi), i giocattoli (400mila pezzi), i prodotti cartotecnici per la scuola (3milioni di pezzi) e i prodotti di profumeria (870milioni di pezzi). Nel solo 2007 sono stati sequestrati in Puglia 2,4milioni di pezzi contraffatti tra capi di abbigliamento, giocattoli, calzature, occhiali, orologi e prodotti vari; 687 i soggetti denunciati e 29 quelli in stato di arresto. I sequestri di merci contraffatte si sono registrati sull’intero territorio regionale e in particolare nella provincia di Taranto (un milione 285mila716 pezzi), in quella di Bari (oltre 916mila pezzi), e nella provincia di Lecce con poco meno di 290mila pezzi. Seguono le province di Brindisi (44mila 853 pezzi) e Foggia (19mila 893 pezzi).Anche sulla tutela del ‘made in Italy’ non si è andati troppo per il sottile: 941mila pezzi di importazione sequestrati nei porti pugliesi (per lo più accessori di abbigliamento e scarpe) stivati in container sotto carichi di copertura, oltre a sette container con 60 mila confezioni di piastrelle. Le violazioni non hanno risparmiato l’olio di oliva: 4mila 37 tonnellate di prodotto dichiarato di origine italiana, ma oggetto d’importazione dall’estero. Il 70 per cento della produzione mondiale di contraffazioni proviene dal Sud-Est asiatico (la Cina è di gran lunga al primo posto, seguita da Corea, Taiwan, Tailandia, Pakistan, Malesia e altri Paesi dell’area) ed è destinata principalmente ai mercati dei paesi dell’Unione europea. Il restante 30 per cento dei prodotti arriva dal bacino Mediterraneo: Italia, Spagna e Turchia.Quanto alla vendita della merce contraffatta, esistono almeno tre canali attraverso i quali avviene la commercializzazione. Il primo è costituito dai negozi, dove il prodotto contraffatto viene venduto assieme agli articoli originali; il secondo è quello dei canali ambulanti, spesso controllati da vere e proprie organizzazioni criminali che sfruttano cittadini extracomunitari e il terzo, in fase di espansione, quello del commercio elettronico (via Internet), che garantisce anonimato ed elevata capacità di transazione. La contraffazione è un fenomeno dilagante, insomma, con gravi ripercussioni sull’intero sistema economico e sociale sia territoriale sia nazionale (si ricordi che il fatturato del falso, come più sopra abbiamo detto, in Italia si aggirerebbe intorno ai sette miliardi di euro). Un vero e proprio danno economico per le imprese legali misurato dalle mancate vendite, dalla perdita di immagine e di credibilità del marchio, dalle spese legali per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale a scapito degli investimenti in ricerca e innovazione.

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Non dimentichiamo che la nostra economia, i nostri posti di lavoro e il nostro benessere si basano sulle innovazioni con elevato valore aggiunto. E che i diritti di proprietà intellettuale tutelano le innovazioni e sono dunque un incentivo importante per gli investimenti. Per non parlare del grave pericolo per il consumatore finale che è connesso alla sicurezza intrinseca dei prodotti, specie in settori come quello farmaceutico (preparati contraffatti hanno cagionato la morte di pazienti), automobilistico (ricambi non originali hanno provocato incidenti mortali), e alimentare (con intossicazioni di varia natura). Questo perché i prodotti contraffatti e pirata sono fabbricati solitamente nel più completo disprezzo delle norme a tutela della salute e sicurezza. (17)

E proprio i medicinali cercano di passare attraverso le strette maglie di sicurezza dell’aeroporto di Bari, città diventata crocevia del traffico illegali di farmaci taroccati.Dall’aprile 2007 fino all’aprile 2008, gli uomini della Guardia di Finanza barese hanno bloccato e sequestrato 85 chili di farmaci, ai quali si somma il carico fermato dai carabinieri del Nas. Complessivamente più di un quintale di medicinali taroccati e nocivi, oltre 200mila confezioni. Per avere un’idea della portata del fenomeno, basta pensare che in Italia – nello stesso periodo – sono stati 800mila i prodotti farmaceutici sequestrati alla frontiera, perché non autorizzati ad essere immessi sul mercato.Un mercato illegale ma florido, un giro d’affari stimabile in circa mezzo miliardo di euro (solo in Italia). I ‘falsi’ alimentano un mercato parallelo a quello delle farmacie, non controllato, irregolare. Spesso le prenotazioni vengono effettuate direttamente su Internet, per poi giungere in Puglia in piccole quantità alla volta, trasportati dai corrieri. Da qui prendono le strade più disparate, verso il nord Italia e il resto d’Europa.I farmaci più imitati sono gli antibiotici, i medicinali da banco (aspirina, tachipirina), anabolizzanti, pillole dimagranti e quelli contro l’impotenza (il viagra ad esempio). Grazie al boom di acquisiti sul web, il mercato è in continua crescita: si stima che nel Vecchio continente ormai il business abbia raggiunto i 23 miliardi di euro.L’Organizzazione mondiale della sanità, il 14 aprile 2008, ha lanciato l’allarme: ogni anno i medicinali truccati provocano mezzo milione di morti nel mondo. Perché se alcuni sono completamente privi del principio attivo – quindi non curano, ma sono anche innocui – altri possono uccidere. Non è un caso che le morti per overdose da medicinali siano aumentate: solamente a Bari, ogni giorno, ci sono tre avvelenamenti, più di mille all’anno. Per la precisione 1.104 stando alla lettura dei dati raccolti dai centri antiveleno d’Italia.I medici pugliesi mettono in allerta: <<Acquistare medicinali senza la prescrizione e bypassando la farmacia – avverte il segretario regionale della Fimmg (medici di base) – è una follia. Si mette a rischio la propria salute>>. (17) ATTIVITA’ AGRICOLE

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Elemento centrale di sviluppo del territorio sono, senza alcun dubbio, le attività agricole, anch’esse purtroppo colpite, come abbiamo visto, dalle contraffazioni e, in maniera non marginale dalla malavita organizzata e non. Molti produttori agricoli sono loro preda, soggetti a pressioni, minacce e ad ogni forma di sopruso. L’allarme è stato lanciato dalla Presidenza Nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori, in occasione di una conferenza stampa, svolta nei primi giorni di febbraio 2008, nella quale è stato rilevato che anche la Puglia è interessata da fenomeni di criminalità, colpita non solo nei beni degli agricoltori ma anche nella loro stessa incolumità. I reati più ricorrenti sono i furti dei mezzi agricoli, furti di prodotti, il racket. Non manca la minaccia di cedere i raccolti dei prodotti a prezzi stracciati, pena di correre il rischio di vedere compromessa l’intera produzione. L’altra piaga è rappresentata dal caporalato che sfrutta soprattutto gli extracomunitari, molti dei quali irregolari.Non solo, ma in occasione del dibattito accesosi sull’esorbitante costo degli alimenti, la Coldiretti, in suo comunicato del 27 giugno 2008, sostiene che a gonfiare i prezzi sono anche il racket, il pizzo e gli altri fenomeni malavitosi che si sviluppano a danno delle campagne italiane un giro di affari di 7,5 miliardi di euro, secondo il rapporto della Direzione nazionale antimafia (Dna). Nelle campagne, sottolinea la Coldiretti, si assiste al moltiplicarsi in agricoltura di furti di attrezzature e mezzi agricoli, racket, abigeato, estorsioni, del cosiddetto pizzo anche sotto forma di imposizione di manodopera o di servizio di trasporto o di guardiania alle aziende agricole, truffe nei confronti dell’Unione europea e caporalato. Tra i fenomeni che preoccupano ci sono soprattutto le intromissioni nel sistema di distribuzione e trasporto dei prodotti alimentari, carne e ortofrutticoli. (2) Nei capitoli dedicati alle varie provincie, abbiamo evitato di trascrivere i singoli furti compiuti nel settore. Lo abbiamo ritenuto un’operazione ripetitiva, una volta segnalato il fenomeno, così come abbiamo fatto. Ci siamo invece soffermati sugli episodi più eclatanti ed emblematici che, con quelli più anonimi e quotidiani, strangolano l’attività. IMPIANTI EOLICILa criminalità organizzata sta provando a mettere le mani sul grande business dell’eolico. Da Foggia a Lecce, infatti, le procure pugliesi (e in alcuni casi anche con l’interessamento delle Direzioni distrettuali antimafia) stanno indagando sulla compravendita di terreni e sugli iter autorizzativi che hanno portato nel giro delle pale a vento alcuni clan mafiosi. O persone dalla fedina penale non pulita. L’inchiesta madre è sicuramente quella di Lecce nata quasi per caso a marzo 2008 e che invece sta avendo sviluppi interessanti. Indagando sul clan Bruno, ci si è resi conto che la cosca aveva diversificato gli affari: recentemente aveva acquistato alcuni terreni nella zona di Torre Santa Susanna e già ottenuto le autorizzazioni (gazie a una procedura accelerata) per realizzarci un parco eolico (su questa inchiesta ci soffermiamo diffusamente nel capitolo dedicato a Brindisi). Inizialmente sembrava una questione marginale e invece andando in fondo gli investigatori si sono resi conto che i Bruno avevano puntato tanto sull’eolico. E’ stato scoperto che molti altri terreni confinanti

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erano riconducibili al clan e che per ottenere le autorizzazioni avevano offerto sponde elettorali ad alcuni politici locali: da qui la decisione della fine di maggio 2008 della procura antimafia di Lecce di aprire un fascicolo a parte, tutto incentrato sugli affari del vento. Se ne sta occupando il pm De Castris insieme con i carabinieri di Brindisi. Per il momento gli indagati sono gli uomini di Bruno, ma l’obiettivo dell’inchiesta è verificare possibili appoggi esterni.

*Gli stessi che la Guardia di Finanza di Foggia sta cercando a Deliceto, dove è previsto un importante investimento eolico. Dietro l’investimento ci sono i fratelli Bonasissa, gli stessi arrestati ai primi di giugno nell’affare della discarica abusiva più grande d’Europa (anche su questo malaffare riferiamo diffusamente nel capitolo ‘Ambiente-Rifiuti’). Ufficialmente però i Bonasissa non fanno più parte dell’affare. La società che faceva loro capo ha venduto tutto ai russi di Renova. Che ora stanno gestendo direttamente la partita. Gli uomini delle Fiamme Gialle vogliono però vederci chiaro in tutta questa storia, tant’è che dal mese di aprile stanno seguendo la vicenda. Così come hanno seguito l’altro parco eolico, quello di Ascoli Satriano. Che ha portato il 6 giugno 2008 all’arresto del sindaco, Antonio Rolla. <<Il primo cittadino – dicono i finanzieri nell’informativa inviata alla Procura – non sempre svolgeva le proprie funzioni di primo cittadino in maniera distaccata e imparziale. Il pubblico ufficiale, infatti, abusando della sua carica politica, imponeva ad alcune società, operanti nel territorio ascolano, l’impresa locale che ‘doveva’ effettuare, in subappalto, i lavori necessari per la realizzazione delle istituende strutture industriali>>. A corredo della tesi centinaia di pagine di intercettazioni telefoniche nelle quali si evince chiaramente come il sindaco Rolla seguisse direttamente tutte le fasi propedeutiche alla realizzazione dell’impianto: la scelta dei professionisti, delle imprese e degli operai <<tutti – dice la Finamnza – di fatto autorizzati dal Sindaco a prestare la loro opera in virtù della loro verosimile appartenenza politica>>.

*La Puglia produce oggi il 25 per cento dell’intera energia eolica italiana. E’ un boccone prelibato per i clan pugliesi e non solo: la Dda di Reggio Calabria teme che gli uomini della ‘ndrangheta – che in casa hanno fatto razzia di terreni e autorizzazioni – possano voler allargare gli affari. A Castellaneta, invece, il Partito Democratico e l’ex sindaco, Rocco Loreto, chiedono al comune e a tutte le istituzioni (magistratura compresa) lumi sul mega progetto eolico previsto tra Castellaneta e Laterza: la società che dovrebbe realizzare l’impianto è la campana Gec, riconducibile a quel Francesco La Marca che da anni fa affari con i rifiuti in Campania. E che nel 2004 è stato colpito da una interdittiva dell’antimafia.E’ inutile sottolineare che i pm sospettano che i clan pugliesi abbiano messo le mani sull’affare milionario dell’eolico. Del resto le mafie italiane sono la forma più spregiudicata e aggressiva di capitalismo. E la spesa pubblica, tutta la spesa pubblica

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è il bottino di guerra delle cosche. Per questo le preoccupazioni dei magistrati e delle forze dell’ordine sono più che giustificate. Del resto per i rifiuti hanno assunto analogo comportamento. I boss sono abili a individuare il business economicamente più redditizio. Come appunto i rifiuti. E non è facile arginare questa insana volontà. Si tratta di gente che ormai rappresenta un pezzo dell’economia legale: diventa perciò difficile individuare, in alcuni casi, il confine tra lecito ed illecito. Sarebbe comunque un errore di ingenuità immaginare la mafia pugliese separata da cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Queste quattro organizzazioni continuano ad avere rapporti di potere più o meno frequenti. Le relazioni con i camorristi napoletani dovrebbero essere quelli più assidui.Per fortuna nella realtà pugliese, e non solo, i magistrati hanno sviluppato una importante capacità: quella addirittura di prevenire i reati. Purché la politica si renda conto che la sfida mafiosa è una delle questioni da considerare prioritaria. (28) Intanto la Procura distrettuale antimafia ha aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta sull’affare eolico: il sostituto procuratore di Lecce ha delegato la Guardia di Finanza ad indagare: il Gico nei primi giorni di giugno 2008 è già stato negli uffici e ha acquisito tutta la documentazione utile. L’inchiesta, al momento, è ancora nella sua fase conoscitiva, gli uomini delle Fiamme Gialle stanno studiando le carte per capire se esistono profili d’illegittimità e se è vero – come denuncia il Partito Democratico di Castellaneta – che la napoletana Gec (Green Engineering & Consulting srl) abbia collegamenti con società che per anni hanno gestito alcune tra le più chiacchierate discariche campane. Cristina La Marca, amministratore delegato della Gec, da parte sua, sostiene che la denuncia contiene un cumulo di falsità per cui si riserva di querelare l’ex sindaco Rocco Loreto. Il quale aveva più volte pubblicamente accostato il nome della Gec alla discarica di Pianura. Ricordando anche il caso del comune di Vicari, 3mila e 200 abitanti in provincia di Palermo: la Gec ha realizzato un parco eolico, poi il consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. <<L’organo ispettivo – scrisse nel provvedimento il Prefetto di Palermo e l’allora ministo dell’Interno Giuseppe Pisanu – ha evidenziato diverse incongruenze nella stipula della convenzione con la società prescelta dall’amministrazione comunale per la realizzazione di un impianto eolico>>. Naturalmente l’amministratore della Gec sostiene che si tratta di sospetti strumentali. Le condotte realizzate sarebbero in danno della società e non viceversa.Resta però il fatto che su tutta quella vicenda, al di là delle responsabilità, è entrata la magistratura per fare chiarezza. E il fatto che si sia mossa l’antimafia è sicuramente significativo. Anche perché come dimostrano le altre tre inchieste aperte in Puglia (sempre l’antimafia di Lecce per un insediamento a Brindisi e due indagini della Finanza a Foggia) l’eolico è diventato uno degli obiettivi dei clan. E dei mercanti dei rifiuti. Il parco eolico tra Castellaneta e Laterza è poi un affare generoso perché sarebbe uno dei più grandi d’Italia: qualora fosse autorizzato dalla Regione (il sì delle amministrazioni comunali è già arrivato), si costituirebbero 560 torri capaci di produrre energia elettrica per 1700 megawatt. L’intero piano energetico regionale ne fissa come obiettivo massimo la produzione di 4mila, soltanto tra Castellaneta e

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Laterza se ne produrebbe il 35 per cento dell’intera regione. Proprio l’impatto ambientale – prima ancora degli intrecci societari dell’azienda che dovrebbe realizzare il parco – preoccupa una parte dei cittadini. (28) AMBIENTE - RIFIUTI Intanto cominciamo dai dati più generali. La criminalità organizzata che fa affari ai danni della salute dei cittadini, del paesaggio, del territorio, dei beni artistici, della flora e della fauna, ha un giro d’affari di 23miliardi di euro; fa sparire nel nulla una montagna di rifiuti alta come il Gran Sasso (2.600 metri), traffica ogni anno animali selvatici per un valore di oltre 3 miliardi, costruisce migliaia di case abusive (30.000 solo nel 2006). E’ quello che dice il Rapporto Economia 2007 di Legambiente.Ma il rapporto Ecomafia 2008, presentato a Roma da Legambiente il 4 giugno 2008, disegna, per la Puglia, un quadro più fosco. Intanto, per il rapporto, il 2007 è stato un anno in crescita per i reati contro l’ambiente in Italia, arrivati a quota 30.124, pari al 27,3% in più rispetto al 2006, con 22.069 persone denunciate (più 9,7% rispetto all’anno precedente), 195 arresti e 9.074 sequestri (più 19%) E la Puglia ha persino peggiorato la sua situazione salendo dal quarto al terzo posto nella classifica dei reati ambientali; infatti nel 2007 è cresciuto il numero di infrazioni rispetto al 2006: ben 2.956 con 1.304 sequestri effettuati. Mentre si colloca al primo posto per numero di persone arrestate: ben 47. Il fatturato della criminalità ambientale in Puglia è di 18miliardi e 400milioni di euro.I reati legati al ciclo illegale dei rifiuti in Italia sono stati invece 4.833 nel 2007, con 5.204 persone denunciate, 136 arrestate e 2.193 sequestri effetuati. E in questo ambito è sempre in testa la Campania, dove lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi, spesso di provenienza extraregionale, si è sommato alla catastrofica gestione commissariale di quelli urbani. Ma la situazione rimane grave anche in Puglia, che mantiene saldamente il terzo posto del 2006 con 391 infrazioni accertate, 43 arresti, 437 denunce e 265 sequestri; mentre è il foggiano la zona in cui continua a proliferare il business delle ecomafie.Inoltre, la Puglia rimane la porta d’ingresso o uscita per i traffici internazionali di rifiuti, come dimostrano i sequestri effettuati al porto di Bari di tir contenenti rifiuti pericolosi.Anche sul fronte del ciclo illegale del cemento cresce il numero di infrazioni accertate in Italia dalle forze dell’ordine (7.978, il 13% in più rispetto al 2006), quello delle persone denunciate (10.074) e dei sequestri (2.240). In Puglia, in particolare, i reati di questo tipo sono tornati in auge dopo il calo, successivamente all’abbattimento dell’ecomostro di Punta Perotti: così nel 2007 la Puglia si piazza al terzo posto con 721 infrazioni, 941 persone denunciate e 292 sequestri. E non mancano casi anche nelle aree protette. L’operazione ‘Lithos’ del corpo forestale dello Stato, in particolare, ha portato alla luce 20 ettari di cave abusive nel territorio di Minervino Murge all’interno del parco nazionale dell’Alta Murgia. Sul fronte dell’archeomafia, ovvero l’aggressione criminale al patrimonio artistico e archeologico, la Puglia è al sedicesimo posto con 16 furti nel 2007.

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Quindi la Puglia nel 2007 ha continuato a calpestare la sua terra: lo ha fatto smaltendo illecitamente rifiuti urbani speciali, costruendo cave abusive nei parchi e in riva al mare o magari bruciando i boschi per speculazione o incuria.Non è finita. Sempre Legambiente il 24 giugno 2008 ha presentato i risultati del dossier “Mare monstrum 2008”, un monitoraggio organizzato dall’associazione lungo le nostre coste. Sia che si tratti di una villetta con vista mare, di un albergo o di un nuovo porto turistico, le costruzioni illegali sul demanio marittimo sono in cima alla lista dei mali del nostro mare, riferisce il dossier. In particolare, nel 2007 intorno al ciclo del mattone selvaggio si sono registrate 4.000 infrazioni e sono scattati 1.399 sequestri e 5.066 denunce. Considerando anche le altre voci (inquinamento, depurazione, pesca di frodo, infrazione al codice della navigazione) nel 2007 i reati ai danni del mare e delle coste italiane sono stati 14.315, quasi 2 infrazioni a chilometro lungo i 7.400 di costa italiana. Diminuite rispetto all’anno precedente, (erano 19.063 nel 2006), vedono triplicare però il numero dei colpevoli (+276,8%) e salire lievemente anche i sequestri (+2,9%). A guidare la classifica delle regioni è la Campania, con 2.355 infrazioni accertate dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto, 2.697 persone denunciate o arrestate e 778 sequestri effettuati, seguita da Puglia (2.184 infrazioni) e Sicilia (2.039). Calabria 4^ con 1.675 infrazioni, Sardegna 5^ con 1.154 infrazioni. Quello che emerge dal dossier – spiegano i suoi compilatori – è che in riva al mare il business del mattone non teme confronti e ormai non riguarda più solo case di villeggiatura ma grandi speculazioni immobiliari che vanno dalle megastrutture alberghiere, ai parcheggi fino ai nuovi porti e che non risparmiano neanche le aree protette. In tal senso un caso su tutti: l’abusivismo edilizio lungo i 38 km della Riserva Marina di Capo Rizzuto in Calabria. (32) Il caos Campania e le inchieste della magistratura stanno confermando quello che da anni le associazioni ambientali stanno denuciando e cioè che il business dei rifiuti è il vero nuovo grande affare della criminalità organizzata. In Italia così come in Puglia: la procura antimafia di Bari non a caso sta indagando sui presunti affari illeciti e connivenze con i clan nella gestione della discarica di Altamura, da poco chiusa dopo 22 anni di attività (a questa discarica dedichiamo un apposito pararagrafo).Rispetto al 2006, come abbiamo letto, la Puglia è salita dal quarto al terzo posto in materia di reati contro l’ambiente, scavalcando così il Lazio. Le infrazioni accertate sono state 2.596 e se è vera la vecchia regola per la quale si riescono ad individuare il 20 per cento dei reati, significa che siamo nell’ordine dei diecimila. La Puglia è però la prima in assoluto per numero di arrestati: 47. Il business principale, leggendo i dati, è lo smaltimento illecito dei rifiuti. Lo scorso anno in Puglia sono sparite circa un milione e secentomila tonnellate di immondizia, rapporto questo che viene fuori dal totale prodotto e da quello trattato nelle discariche.Se Bari si sta muovendo sulla discarica di Altamura, secondo il governo, i centri principali dell’illegalità sarebbero i clan salentini e quelli della Capitanata, gli unici a tenere i contatti diretti con la Capitanata. A confermarsi terra di conquista sarebbe il foggiano, <<dove i traffici illeciti –si legge nel rapporto – portano i rifiuti prodotti

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dal Centro-Nord a essere scaricati direttamente nei terreni agricoli. Scorie sempre più spesso spacciate per compost>>. Il riferimento è all’operazione con la quale la Dda di Bari e la procura di Foggia hanno messo fine all’attività che il clan Gaeta svolgeva in Capitanata fin dal 1995. La magistratura ha accertato che almeno 100mila tonnellate di rifiuti, anche tossici, invece di essere portati nelle aziende di compostaggio venivano cosparsi su terreni agricoli, oppure interrati nelle cave, (anche al clan Gaeta dedichiamo più sotto un paragrafo).Una delle caratteristiche dell’ecomafia pugliese è la contiguità con la politica e la pubblica amministrazione: nelle varie operazioni tra gli arrestati ci sono sindaci, dipendenti comunali, funzionari e anche uomini delle forze di polizia. La criminalità, come abbiamo visto per il Parco della Murgia, non disdegna le aree di pregio, lì, oltre quello che abbiamo già segnalato, fu sequestrata anche una discarica abusiva, con rifiuti che uno sull’altro arrivavano sino a otto metri.Oltre i rifiuti, sono cresciuti anche nel 2007, in regione, i reati di abusivismo. Ha ragione il segretario regionale di Legambiente quanto denuncia il continuo fiorire di costruzioni nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico o idrogeologico e soprattutto sui litorali. Nel rapporto del 2007, inoltre, emergono altri argomenti nuovi per la criminalità ambientale pugliese, molto allarmanti: i crimini sull’agricoltura (le sofisticazioni alimentari, i pesticidi, lo stesso caporalato), gli incendi (il Gargano in fiamme), il traffico di specie protette. Insomma c’è molta carne al fuoco e lavoro per tutti: magistrati, forze dell’ordine, amministratori pubblici, sindacati, associazioni di categorie professionali. (28)

LA PUGLIA DELL’AMBIENTE VIOLATO

Reati e attività di contrasto da parte di Carabinieri (Noe), Corpo forestale dello Stato, Guardia di Finanza, Capitanerie di porto

Numero di violazioni accertate (anno di riferimento 2007) 2.596

Numero di arresti effettuati 47

Persone denunciate 2.285

Sequestri effettuati 1.304

Percentuali di violazioni accertate 8,6%

Gestione illegale del ciclo dei rifiuti

Infrazioni accertati (anno di riferimento 2007) 391

Persone denunciate 437

Numero di arresti effetuati 43

Sequestri effettuati 265

Casi notevoli tra le inchieste di polizia contro i trafficanti di rifiuti pericolosiOPERAZIONE VELENO (25 settembre 2007)

Arresti a carico di altrettanti componenti del clan mafioso Gaeta 52

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Volumi di rifiuti oggetto di trasferimento illecito su terreni della Campania 100 mila ton.

Giro d’affari realizzato 5 mil. euroElaborazione Gazzeta del Mezzogiorno 05/06/08

La montagna di rifiuti spariti dalla Puglia, negli ultimi dieci anni, dovrebbe raggiungere, in altezza, quota duemila metri. La stima è semplce da fare: basta rapportare i dati – forniti dai singoli comuni e messi insieme da Legambiente – sulla quantità di rifiuti prodotti con il numero di quelli smaltiti. All’appello mancano circa 26 milioni di tonnellate di immondizia, sparite e smaltite nel nulla. Dove? Spalmate sui campi, nascoste nelle cave, buttate in mare. Questo dicono le decine di indagini che in questi anni sono state avviate dalle procure pugliesi. Ultima, in ordine di tempo, quella della procura di Trani sulla discarica di Frottelline di Spinazzola, quella cioè che dovrebbe ospitare i rifiuti che prima finivano ad Altamura. Il sostituto procuratore che si occupa dell’inchiesta ha chiesto a un consulente di capire se effettivamente ci sia in zona uno scavo neolitico. Nell’indagine si ipotizza una serie di reati amministrativi nel rilascio delle concessioni ma almeno per il momento non ci sono indagati.Quello che sembra però certo è il rapporto diretto che c’è tra il business illegale dei rifiuti e la malavita organizzata. Scrive la Direzione Investigativa Antimafia: <<In alcuni casi le investigazioni hanno dimostrato che le società preposte allo smaltimento dei rifiuti pericolosi si limitano a una trasformazione degli stessi in modo puramente nominale e cartaceo, formando falsi certificati di analisi, e lo smaltimento finale avviene sui terreni non adibiti a discarica o addirittura in mare, come registrato, nel primo caso, in provincia di Caserta e, per la seconda ipotesi, in Puglia>>.Proprio lo sversamento in mare sembra una delle novità offerta dai clan degli imprenditori. A testimoniarlo alcuni valori anomali registrati dall’Arpa in zone storicamente inquinate ma che recentemente stanno segnalando la presenza particolarmente elevata di alcune sostanze pericolose. A Taranto poi nel 2006 furono arrestate 16 persone e denunciate 62 con l’accusa di aver smaltito in acqua 90mila tonnellate di rifiuti altamente inquinanti. Il pericolo poi anche via mare: sempre a Taranto una serie di inchieste hanno testimoniato un commercio di immondizia che – impacchettata nei container – viene spedita in Cina e a Hong Kong. A Bari non molto tempo addietro la Guardia di Finanza ha scoperto il contrario: sono state sequestrate 120 tonnellate di rifiuti speciali diretti in Italia dal Kosovo. La documentazione parlava di scarti di piombo, invece sui tir sono stati scoperti frigoriferi e batterie piene zeppe di liquidi e gas inquinanti. Le indagini sono ancora in corso: si sospetta un giro di rifiuti internazionali gestito dalla malavita italiana che lucrerebbe anche sui fondi comunitari.E’ il metodo della Camorra che qui in Puglia, dicono gli investigatori campani, avrebbe messo in tempo gli occhi sul sub appennino dauno: terreni incolti e lontani dai controlli; roprietari compiacenti e morfologia perfetta per nascondere quello che non si deve vedere; tanti gli anfratti e le cave abbandonate. Infine c’è sempre la

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possibilità di spalmare sui campi i fanghi tossici: è successo, prima che intervenisse la magistratura, per tanti anni nella Murgia, avvelenando le coltivazioni di grano con ferro e nichel.

*Altamura(Bari): 67 mila abitanti, città col record delle violazioni edilizie (2300). Da quella città trasmette, tra le altre la Radio “Regio Stereo”, il suo direttore, conduttore da 15 anni del programma quotidiano ‘La Cronaca’, è Alessio Dipalo.La radio va bene, finché non decide di mettere il naso nello smaltimento dei rifiuti. I temi che Dipalo affronta ogni giorno sono di quelli che scottano, soprattutto in Puglia. Dipalo si occupa di sversamento dei fanghi sulla Murgia, di inquinamento da scarichi di depuratori misti e fanghi tossici. E della discarica Tradeco, una delle più grandi d’Italia, che raccoglie un milione di metri cubi di rifiuti e che, secondo Dipalo, sarebbe un centro di potere e una ‘agenzia’ di collocamento dei politici al termine del loro mandato.Un susseguirsi di coincidenze strane, di minacce, avvertimenti e aggressioni subiti dal giornalista, finiti nelle mani della Dda di Bari.Il 2005 il Consiglio comunale, all’unanimità, approva una delibera che chiede a Procura, Questura e Prefettura di monitorare l’attività dei mezzi di informazione locale: unico nome indicato Radio Regio Stereo.Un atto senza precedenti censurato dall’Ordine dei Giornalisti che finisce al Parlamento Europeo in un’interrogazione.Il 15 settembre 2005 altro caso unico in Italia e in Europa, Radio Regio Stereo viene chiusa dai giudici di Bari per due mesi con l’accusa di diffamazione aggravata a seguito di querele presentate dal titolare della Tradeco, senza che il giornalista venisse interrogato. Tante querele, non una condanna e mai un interrogatorio, il primo il 16 febbraio 2007 quando Dipalo è stato sentito dal Pm della Dda di Bari per violenze subite.Voce cristallina Dipalo va avanti nonostante la trasmissione venga frequentemente interrotta dall’arrivo una volta dalla Guardia di Finanza, un’altra volta dai Carabinieri e un’altra volta ancora dalla Polizia Urbana che ispezionano, perlustrano lo studio lasciando attoniti i suoi ospiti. Molti collaboratori della Radio ricevono avvertimenti. I titolari delle attività commerciali, che tengono in vita la Radio con la pubblicità, consigliati a strappare i contratti.Il 15 luglio del 2006 Dipalo viene aggredito, due costole rotte, sotto casa da due pregiudicati dopo che il 2 e il 3 luglio aveva mandato in onda la registrazione di un dibattito a cui aveva partecipato assieme al collega del Corriere della Sera Carlo Vulpio, svoltosi il 29 giugno sulla discarica Grottelline, 500 mila metri cubi con possibile ampliamento a Spinazzola, provincia di Bari, autorizzazione già firmata dal Presidente della Regione su un sito archeologico neolitico, scoperto dall’Università di

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Pisa, contratto per la gestione aggiudicato alla Tradeco per 17 anni. La Procura di Trani apre un’inchiesta.Intanto, di uno dei due aggressori, Biagio Genco, si sono perse le tracce. Mentre l’altro, Laterza, poco dopo l’arresto è divenuto collaboratore di giustizia.Il 9 febbraio 2007 l’auto di Dipalo viene incendiata sotto casa. Dipalo da giornalista scomodo diventa giornalista in pericolo. Il 17 febbraio 2007 Il Sindaco di Altamura ha chiesto che venga protetto.Dipalo dal microfono della sua radio commenta: <<Trovo paradossale che il Sindaco crei le condizioni e i presupposti per le mie inchieste e poi chieda che venga scortato>>. E aggiunge: <<E pensare che per vedere riconosciuto un diritto, la caratterizzazione della discarica (collaudata nell’87) per sapere cosa c’è dentro e la capacità di non inquinare, che avrebbe dovuto fare il Sindaco, abbiamo dovuto promuovere una petizione raccogliendo 5 mila firme e ancora stiamo aspettando che il Sindaco firmi il provvedimento>>. (28)

Le indagini avviate dalla Dda di Bari sull’ipotizzato intreccio tra mafia, politica e affari ad Altamura si concentrano anche sul presunto inquinamento ambientale prodotto da una mega-discarica di rifiuti solidi urbani e sull’elevato numero di ammalati di neoplasie.Nell’inchiesta condotta dal pm della Dda e dai carabinieri del reparto operativo di Bari, vengono ipotizzati i reati di associazione mafiosa, corruzione, abuso e falso.Oltre all’analisi di una serie di atti amministrativi, gli accertamenti riguardano, per la verità allo stato embrionale , anche la natura dei rifiuti smaltiti dalla discarica della Tradeco di Altamura. In base alle testimonianze finora raccolte e agli atti acquisiti, sarebbe emerso che nel circondario di Altamura vi sia un elevato numero di persone ammalate di tumore. Già nel 2004 la Asl Bari/3 aveva diffuso dati sul triennio 1998/2000: sulle 4.565 persone morte in tutta la zona (per tutte le cause), i morti per tumore erano stati 1.097, cioè un quarto del totale. Addirittura nella fascia d’età fra i 35 e i 59 anni i tumori erano la prima causa di morte.Tuttavia, al momento è assolutamente non provato che il decesso o l’insorgere di malattie sia stato provocato da fattori di inquinamento ambientale. Già nel 2005 l’associazione “Senza rete” aveva segnalato al Sindaco di Altamura che nella falda sotterranea della discarica Tradeco, l’Arpa aveva rilevato livelli di manganese e ferro <<166 volte superiori ai limiti di legge>>. (28) Sempre la Tradeco. In qualsiasi territorio ti sposti, naturalmente tra quelli in cui compare la sua gestione dei rifiuti, la trovi invischiata in fatti certamente non limpidi. Prendiamo il Comune di Minervino Murge, in provincia di Bari. Quattro funzionari pubblici e tre amministratori della Tradeco sono accusati di falso ideologico e frode nelle pubbliche forniture.A tanto giunse il Procuratore di Trani il 23 maggio 2007 al termine di due anni di indagini condotte insieme al nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Bari.

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Che cosa accadeva nella ridente cittadina: il servizio di raccolta non veniva realizzato oppure avveniva in maniera del tutto irregolare. Eppure i funzionari del Comune non solo non applicavano le penali previste dal contratto, ma anzi attestavano che il servizio veniva realizzato in maniera soddisfacente, consentendo alla società Tradeco di Altamura di riscuotere le competenze previste dal contratto di appalto.I funzionari erano: il segretario e direttore del Comune, Leonardo Mazzone; il dirigente del settore Lavori pubblici Riccardo Miracapillo; quello del settore Urbanistica Raffaele Moretti e dell’Ufficio tecnico Vincenzo Turturro; i due amministratori unici succedutisi nella gestione Tradeco, Vincenzo Fiore e Vincenzo Moramarco e il responsabile di gestione della stessa società Leonardo Zagariello.E’ bene precisare che questa inchiesta è solo una parte di quella più generale sulla realizzazione e sulla gestione della raccolta differenziata a Terlizzi attraverso l’isola ecologica. L’impianto però non è stato mai realizzato, ma dal Comune di Terlizzi la Tradeco, la società assegnataria dell’appalto, avrebbe comunque riscosso per quattro anni quasi 300mila euro quale corrispettivo di un servizio mai eseguito.Per questo motivo beni immobili per un valore di quasi 30mila euro vennero sequestrati dalla Guardia di Finanza di Molfetta su disposizione del gip del Tribunale di Trani nel novembre 2006. A maggio 2007 il pm chiuse le indagini a carico delle tredici persone, tra gestori e dipendenti della Tradeco e responsabili del settore Polizia Municipale e Ufficio Tecnico del Comune di Terlizzi indagate – a vario titolo – per reati che vanno dalla truffa aggravata in danno di ente pubblico, al falso ideologico in atto pubblico, dalla turbata libertà degli incanti alla frode nelle pubbliche forniture, dall’abuso di ufficio alla omessa denuncia di reato. Tra questi ci sono ancora i nomi di due responsabili della Tradeco, Vincenzo Fiore e Vincenzo Moramarco: e, tra gli altri, quelli dei dirigenti della Polizia municipale Luigi Bellino e Giovanni Dicapua; del vicecomandante dei vigili Marino Santeramo; del dirigente dell’ufficio tecnico Gennaro Casciello e del presidente della commissione che aggiudicò l’appalto, Emanuele Piacente.In pratica la Procura alla Tradeco imputa di aver indebitamente percepito dal Comune somme per quasi 30mila euro, pur non avendo mai realizzato e gestito l’area attrezzata con dispositivi hardware e con specifici software per la raccolta e la selezione dei rifiuti. Il problema della mancata realizzazione e gestione dell’isola ecologica veniva considerata per la prima volta dal Comune nell’agosto 2005,quando il dirigente del settore Polizia municipale contestò alla Tradeco il fatto che le fossero stati corrisposti 70mila euro nonostante l’isola non fosse stata mai realizzata. La Tradeco si oppose immediatamente sostenendo di non aver potuto realizzare la piattaforma ecologica in quanto il Comune soltanto nel maggio 2005 aveva provveduto a indicare il sito in cui realizzare l’isola. La Tradeco inoltre faceva presente che comunque il servizio c’era stato, perché i cittadini avevano comunque potuto conferire i rifiuti in appositi container presso la propria sede. Questo servizio però, secondo la procura di Trani, era diverso da quello di gestione dell’isola

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ecologica multiraccolta per il quale la Tradeco si era impegnata contrattualmente nei confronti del Comune di Terlizzi.Ma non finisce qui. Quello dei rifiuti è un affare che non lascia in pace il Comune di Altamura.I carabinieri del Noe tra il 9 e l’11 aprile 2008 hanno consegnato una richiesta di acquisizione, firmata dal pm antimafia. Nel mirino l’incartamento della discarica di via Laterza, aperta nel 1985 e chiusa pochi giorni prima della visita dei militari dell’Arma. Argomento rovente per la politica locale.Una querelle a colpi di annunci e di manifesti. Da una parte si informa che dal primo aprile i rifiuti di Altamura sono smistati a pagamento nelle discariche di Andria e Conversano. Il solo trasporto della immondizia costa 150mila euro al mese, otto volte quanto previsto dal piano regionale. Uno scandalo, secondo questa parte, perché la ditta incaricata effettua lo stesso servizio gratuitamente nei Comuni vicini. (28)

La procura antimafia indaga sui rifiuti pugliesi. E più in particolare, come accennevamo, sulla discarica privata di Altamura chiusa a marzo 2008 per esaurimento, dopo 22 anni di attività. Anche se va ricordato che a coordinare il tutto è lo stesso pm antimafia che nel 2006 diede le mosse ad una analoga inchiesta, nella quale si ipotizzava un intreccio malavitoso all’ombra della discarica di Altamura e per la quale risultano tuttora indagati l’amministratore delegato della Tradeco, Nicola Riccaldo, e un ex amministratore della stessa società, il tributarista barese Marco Preveri.Con tutta probabilità – ma è solo una ipotesi – le due inchieste sono collegate. E a collegarle è l’improvviso impulso che il pm sembra aver dato anche all’inchiesta del 2006, nell’ambito della quale, in aprile, i carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) hanno sequestrato numerosi atti, tutti riferiti al contratto che lega il Comune di Altamura alla Tradeco; alla società che gestisce la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi di Altamura e di tanti altri comuni del barese e non solo; alla società che dal 1985 sino al 31 marzo 2008 ha gestito una megadiscarica ad Altamura sulla quale si sono susseguite decine di inchieste e che in tanti – non solo gli ambientalisti – hanno indicato come un sito all’interno del quale sono stati ammassati rifiuti di tutti i tipi; alla società che, ora, non avendo più una discarica sul posto e in virtù del contratto richiamato dal sindaco Stacca, incassa dal Comune di Altamura circa 5.000 euro al giorno per trasportare i rifiuti a Conversano; alla società che, in associazione con altre, tra le quali spicca quella che fa capo al neopresidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, avrebbe dovuto realizzare (tra gli altri in Puglia) anche l’impianto di biostabilizzazione in località Grottelline a Spinazzola; sito prescelto dall’Ato (Autorità territoriale ottimale) del bacino Bari 4, il cui presidente è proprio il sindaco di Altamura, Mario Stacca; sito al quale l’Ati-Gogeam (così si chiama l’associazione temporanea d’imprese della quale fanno parte anche la Cisa di Massafra e l’Ecomaster Atzwanger di Udine) il primo aprile 2008 (il giorno dopo la chiusura della discarica di Altamura) ha deciso unilateralmente di sospendere i lavori (motivazione ufficiale: si sono accorti della presenza in loco di rifiuti di non

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precisata provenienza; rifiuti che, invece, almeno la Tradeco, proprietaria del sito, avrebbe dovuto conoscere, visto che si tratta di quelli sversati nel 1995 dalla stessa società per conto del Comune di Spinazzola).Ce n’è abbastanza quanto meno per capire il perché di tutto questo. Non foss’altro per spiegare ai cittadini contribuenti qual’è la ragione per cui il Comune di Altamura debba accollarsi un costo aggiuntivo di 5.000 euro al giorno solo per il trasporto dei rifiuti. <<In un mese – denuncia il consigliere comunale di Altamura Enzo Colonna – si spendono centocinquantamila mila euro in più soltanto per il trasporto. Quando l’intero servizio rifiuti, tra raccolta e smaltimento, viene a costare 550mila euro al mese. Un assurdo se si pensa poi che la stessa azienda, la Tradeco, effettua il servizio di trasporto gratuitamente per il comune di Cassano>>.L’inchiesta dell’antimafia di Bari sulla discarica di un Comune barese si estende. Nel mirino degli investigatori finiscono la Provincia di Bari, la Regione e l’Ato, tutti quegli enti cioè che hanno in qualche modo contribuito all’iter autorizzativo e burocraticon nella storia della discarica: i carabinieri del Noe (Nucleo Operativo Ecologico) hanno già acquisito tutte le carte. Nella prima informativa inviata dai Noe alla Procura ci sono i nomi e i cognomi di coloro che nell’apparato burocratico in qualche maniera sono entrati nell’affare della discarica: si tratta di una trentina di persone all’incirca, divise tra i vari uffici. Coinvolti nella vicenda ci sono pure tutti gli amministratori e gli ex amministratori di tutti i comuni del bacino, tutti centri cioè che in questi anni hanno utilizzato la discarica di rifiuti solidi urbani della Tradeco.L’antimafia sarebbe stata interessata perché gli uomini del Noe sospettano che la malavita organizzata sia intervenuta nei rapporti tra le aziende e la politica. Rapporti che non riguarderebbero soltanto la gestione della discarica ma anche una serie di affari paralleli, legati principalmente alle speculazioni edilizie. Il primo filone d’indagine nasce nel 2006 e fa riferimento esclusivamente al traffico illecito dei rifiuti. A un certo punto nell’indagine vengono fuori strani possibili collegamenti con la malavita, anche non locale.Nel frattempo si susseguono all’infinito le proroghe per l’utilizzo dell’impianto da parte della Provincia, nonostante la discarica avrebbe dovuto essere chiusa già da un pezzo.Ce n’è abbastanza per scandagliare anche sulle responsabilità pregresse. (28) Ma non indietreggia Alessio Di Palo, che si definisce la voce libera della città. Quando la trasmissione cult di Radio Regio, intitolata ‘La cronaca’ non va in onda, il centralino telefonico dell’emittente va in tilt. Perché gli ascoltatori vogliono sapere se sia successo qualcosa al conduttore. E lui deve tranquillizzare il suo pubblico. L’apprensione è d’obbligo dopo che il direttore della radio è stato malmenato, bruciata l’auto e sottoposto ad una serie incredibile di consigli (di tutto questo abbiamo già raccontato).Fatto sta che i racconti di Dipalo rappresentano una delle colonne portanti dell’inchiesta della Dda di Bari, su un ipotetico comitato d’affari in grado di gestire il

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business dei rifiuti, condizionare le scelte della politica, decidere il destino di una città. Per molti chiacchiere. Qualcuno pensa di no. A cominciare dal magistrato titolare dell’inchiesta che ha ascoltato per un paio d’ore. Dipalo ha fornito spiegazioni, ha consegnato documenti, ha denunciato episodi. Secondo lui la ‘monnezza connection’ esiste. A dire la verità ha anche collezionato una serie consistente di querele.<<Di tutto di più>>, dice il radiocronista. Che conserva di tutto. Dai ritagli dei giornali alle trascrizioni delle sue trasmissioni. Linguaggio colorito e pittoresco. Ma diretto. Inevitabilmente si attira simpatie e antipatie. Le prime fanno lievitare l’audience dell’emitente, le seconde gli creano qualche problema serio, come abbiamo visto. Denuncia inevitabile. <<I miei guai sono iniziati da quando ho denunciato le irregolarità dell’affare rifiuti. I miei aggressori li ho riconosciuti. Uno è Gino Genco, personaggio emergente della malavita, caso di lupara bianca ancora da risolvere. L’altro si è trasformato in collaboratore di giustizia, Angelo Laterza. Venne bloccato con una mitraglietta Skorpion mentre doveva eliminare un boss di Gravina. Ma anche chi sono stati i mandanti, i registi occulti>>. Nella vicenda spunta un altro personaggio. Svanito nel nulla anche lui. Si chiama Paolo Loiudice. <<I parenti sostengono sia irreperibile da mesi – dice ancora il grande accusatore – per una serie di debiti. In realtà è scomparso. Cosa sapeva?>> Il Sindaco di Altamura, da parte sua, sta mettendo a punto un dossier che di giorno in giorno, anzi di minuto in minuto, diventa sempre più voluminoso.La questione è delicata. Molto delicata. Non foss’altro perché è stato convocato dalla Procura antimafia di Bari per essere ascoltato come “persona informata sui fatti”, nell’ambito di una inchiesta in cui si ipotizza un intreccio politico-imprenditorial-malavitoso all’ombra del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti di quella città. Ma mentre ad Altamura come a Gravina, Santeramo, Minervino, Cassano, Spinazzola e Poggiorsini è già iniziato il toto-indagati (in tanti si concentrano soprattutto nella lettura dei nomi che hanno materialmente prodotto nelle varie fasi i contratti che legano ogni singolo ente comunale alla Tradeco), il Sindaco Stacca si sente tranquillo. <<Io – va ripetendo – sono stato il sindaco che più di tutti si è battuto per la chiusura della discarica di Altamura. Non ne posso più di sentirmi al centro di attacchi di ogni tipo. Non ne posso più, ad esempio, di essere addittato come colui che ha contribuito a far aumentare il numero degli ammalati di tumore. Se responsabilità ci sono, vanno trovate altrove>>. Ci tiene soprattuto a rendere pubblico un telegramma del 18 marzo 2006. Un telegramma nel quale Stacca, insieme con il dirigente comunale del servizio Ambiente, arch. Giovanni Buonamassa, <<chiede a svariate autorità regionali>> (tra gli intestatari ci sono persino la Procura della Repubblica di Bari e i carabinieri del Noe) un <<immediato intervento di verifica e monitoraggio dei pozzi spia e dei pozzi di approvvigionamento idrico limitrofi alla discarica di rifiuti solidi urbani in Altamura contrada ‘Le Lamie’, gestita dalla ditta Tradeco, e di eventuali altre fonti di inquinamento connessi alla discarica>>.

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Il Sindaco sotolinea l’ultimo capoverso: <<Si precisa che è necessario procedere alla verifica del progetto della discarica e alla verifica della quantità e della qualità dei rifiuti smaltiti>>.Il Sindaco, quindi, non solo si chiama fuori da ogni responsabilità, ma chiama lui stesso in causa chi, a suo dire, avrebbe potuto e dovuto intervenire già due anni fa. E cioè tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno avuto competenze in materia. (28)

Per un’informazione obiettiva, riportiamo quanto Nicola Riccaldo e Marco Preverini, rispettivamente amministratore delegato e presidente del C.d.A. della Tradeco srl hanno scrito in una comunicazione alla Procura di Bari: <<I sottoscritti hanno appreso dalla stampa di essere indagati per reati gravissimi, tra i quali addirittura l’associazione mafiosa, che in presenza di gravi indizi imporebbero l’emissione di provvedimenti cautelari personali. Sempre dalla stampa (in particolare: La Repubblica-Bari del 22 maggio 2008), hanno appreso che nei giorni scorsi vi sarebbe stato un “..blitz dei carabinieri del Noe al comune di Altamura e negli uffici della Tradeco..” finalizzato ad acquisire la documentazione inerente tutti gli appalti affidati a quest’ultima società. Non è dato sapere chi abbia diffuso notizie e perché, né se le circostanze riferite siano vere; considerato che dell’inchiesta si parla, più o meno a sproposito, da quasi un anno, ci pare superfluo sottolineare lo stato d’animo dei sottoscritti (e delle famiglie). Con la presente, in ogni caso, i sottoscritti oltre a nominare gli avvocati....., manifestano stupore per la gravità delle accuse, assolutamente infondate, e dichiarano di essere pronti a rendere qualsiasi chiarimento sul loro operato. Sono peraltro disponibili a consegnare spontaneamente tutta la documentazione necessaria all’indagine a semplice richiesta degli inquirenti, inclusa quella relativa alla discarica in contrada ‘Le Lamie’. Confidano, pertanto, che l’indagine si possa concludere al puù presto>>. (28) L’indagine dell’antimafia si sta concentrando anche su una serie di lottizzazioni, perché il gruppo Columella, proprietario della Tradeco, ha anche molti affari nell’ambito dell’edilizia. I carabinieri del Noe hanno acquisito tutta la documentazione in Comune e la stanno esaminando. Nel frattempo i carabinieri, insieme con il pm, hanno già sentito (e continueranno a farlo) una quindicina di amministratori comunali (tra consiglieri ed assessori) in carica e non. Tra gli altri è stato ascoltato anche un commerciante, che non ha mai ricoperto alcun incarico politico, ma che nel 2006 presentò un ordine del giorno sulla presunta incompatibilità di un consigliere rinviato a giudizio per un reato urbanistico. A tutti hanno chiesto spiegazioni sui contratti siglati dalla Tradeco: in particolare stanno studiando il contratto di raccolta e trasporto dei rifiuti siglato dalla precedente amministrazione comunale.Gli investigatori poi stanno esaminando anche il caso dell’ipermercato (78mila metri cubi) che la società Setra, riconducibile alla famiglia Columella, dovrebbe realizzare nelle campagne di Altamura. (28) Intanto il 19 giugno 2008 otto sindaci dei comuni della Murgia barese si sono dimessi dall’Assemblea del’Ato (Ambito territoriale ottimale) Bari 4, e in un ordine del

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giorno hanno chiesto entro, e non oltre 48 ore, formali rassicurazioni dal commissario delegato, dalla regione Puglia e dalla Provincia di Bari, in ordine al rispetto dei tempi di consegna ed ultimazione dei lavori di realizazione dell’impianto complesso delle <<Grottelline>>.Nell’ordine del giorno si chiedono anche <<formali impegni da parte di tutte le istituzioni, affinché assicurino l’erogazione delle somme necessarie per far fronte ai maggiori costi sopportati dai comuni di Altamura, Gravina in Puglia, Poggiorsini e Santeramo in Colle per il conferimento dei rifiuti solidi urbani presso le discariche di Andria e Conversano, a far data dal 1 aprile 2008 e per tuto il periodo di durata di tale evenienza>>. (28)

*L’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ribattezzata “Chernobyl”, relativa allo sversamento su decine di terreni in Campania di un milione di tonnellate di fanghi industriali provenienti dall’attività di quattro dipendenti, ha interessato anche la Puglia. Foggia e provincia in particolare. In due terreni, il primo alla periferia della città in contrada ‘Posta’ e il secondo a Lucera, sono state abbandonate tonnellate di composti. Tra i campi dove erano stati coltivati i pomodori. I proprietari delle aziende foggiane, Achille Petito e Carmine D’Addona di Lucera, sono tra i destinatari dei 38 provvedimenti di fermo richiesti dal pm il 4 luglio 2007. L’accusa ipotizzata a carico degli indagati è associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti speciali e pericolosi, disastro ambientale, truffa aggravata e frode nelle forniture.Il compost (fertilizzante utilizzato in agricoltura quando i parametri sono nella norma) era pericoloso e in qualche caso i fanghi contenevano anche cromo esavalente, una sostanza particolarmente nociva per la salute. Sui terreni pugliesi venivano anche sversati liquidi tossici provenienti dal porto di Napoli. I carabinieri del Gruppo Tutela Ambiente di Napoli hanno, al termine delle investigazioni, sequestrato quattro depuratori: Licola, sul litorale flegreo; Orta di Atella e Marcianise, nel Casertano e Mercato San Severino in provincia di Salerno. In due anni gli inquirenti hanno accertato che la “So.ri.eco” di Castelnuovo di Conza (Salerno), la “Fra.Ma” di Ceppaloni (Benevento), la società “Agizza” di Napoli e “Naturalmente” di Castelvolturno – le quali avrebbero dovuto trasformare i fanghi prodotti dagli impianti di depurazione e di trattamento delle acque industriali in “compost di qualità” per l’agricoltura – in realtà facevano risultare solo sulla carta l’avvenuta raffinazione del prodotto. Analisi dell’Arpac, l’agenzia regionale campana dell’ambiente , hanno certificato invece che quello che è stato venduto ad agricoltori – e per il quale si è tentato anche di avere una certificazione della Coldiretti ottenendo un parere in buona fede del settore ecologia della Provincia di Salerno sul fatto che il compost poteva essere utilizzato in agricoltura – in realtà era fango altamente inquinante che è stato sversato in territori campani e della provincia di Foggia.

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In qualche caso l’organizzazione poteva anche contare sulla compiacenza di proprietari terrieri di Foggia, che in cambio di denaro permettevano uno smaltimento truffaldino. I fanghi pericolosi sono stati utilizzati anche per riempire le buche fatte durante la costruzione di un metanodotto. (28)

*All’inizio del 2008 i magistrati delle Direzioni distrettuali antimafia di Bari e Lecce, che indagano sulle ecomafie, hanno alzato il tiro. Più controlli. La preoccupazione è dei possibili strascichi criminali che in Puglia potrebbe avere l’emergenza immondizia campana. Gli impianti di Napoli e provincia hanno i fari puntati addosso: molte delle discariche sotto assedio sono o sono state direttamente gestite dalla camorra. La malavita ha perciò la necessità di smaltire quella roba da qualche altra parte e in maniera rapida. La Puglia, vicina geograficamente e negli affari sarebbe una delle location migliori.La Direzione Investigativa Antimafia (DIA), sulla Puglia, nella sua informativa scrive: <<In alcuni casi le investigazioni hanno dimostrato che le società preposte allo smaltimento dei rifiuti pericolosi si limitano ad una trasformazione degli stessi in modo puramente nominale e cartaceo, formando falsi certificati di analisi, e lo smaltimento finale avviene su terreni non adibiti a discarica o addirittura in mare, come registrato, nel primo caso, in provincia di Caserta e, per la seconda ipotesi, in Puglia>>. Sversa in mare la malavita quindi. Oppure ammorba le campagne: i fanghi della Murgia (il grano al piombo e al nichel sono ormai letteratura giudiziaria). La nuova area individuata sarebbe per il foggiano e il sub appennino dauno: è proprio in quella zona – non coltivata, difficilmente raggiungibile e dove la malavita locale può offrire una buona base logistica – che si sarebbero concentrati gli appetiti della camorra. Ed è proprio qui che le forze di polizia stanno alzando l’attenzione.

*A Bari, invece, di ecomafia si occupa da tempo la Dda. Un’inchiesta, che partendo da Altamura, toccherebbe rapporti, ne abbiamo fatto già cenno, tra imprenditori dei rifiuti, politica e criminalità organizzata con epicentro proprio Bari e provincia: associazione mafiosa, corruzione, abuso e falso i reati sui quali si sta indagando.Taranto invece il pericolo lo corre via mare: il porto, così come hanno testimoniato una serie di inchieste, è crocevia di immondizia che – impacchettata nei container – viene spedita in Cina e a Hong Kong. Non solo però: nel 2006 furono arrestate 16 persone e denunciate 62, con l’accusa di aver ‘smaltito’ nel mare di Taranto 90mila tonnellate di rifiuti altamente inquinanti. (28)

Anche per il Salento il settore del trattamento e smaltimento dei rifiuti, compresi quelli speciali e pericolosi, non si sottrae agli appetiti dei gruppi criminali pugliesi, almeno allo stato e in maniera circoscritta al suo meridione. Sono queste in sostanza,

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le valutazioni che il Dott. Cataldo Motta, Procuratore Aggiunto, coordinatore della Dda di Lecce, ha sostenuto nella audizione presso la Commissione d’inchiesta sui rifiuti. In quella stessa occasione ha tenuto, inoltre e giustamente a precisare che ciò comunque comporta l’esigenza della massima attenzione alle dinamiche delle organizzazioni malavitose.

*Per non accennare a quanto scoperto in Capitanata, sempre in tema di smaltimento dei rifiuti, dove un famigerato clan risalente al Gaeta di Orta Nova gestiva tranquillamente gli affari. E se il 24 settembre 2007 era stato il tempo degli arresti, il 3 marzo 2008 diventa il giorno in cui colpire nel portafogli: 11 persone ritenute proprietarie dei beni illecitamente acquisiti. Il gip di Bari, accogliendo le richieste del pm della Direzione distrettuale antimafia di Bari, ha disposto il sequestro preventivo di 121 beni mobili e immobili e di 14 società e/o cooperative.E tanto per apprezzare la consistenza dell’illecito arricchimento dei clan elenchiamo i beni sequestrati: 38 terreni per complessivi 465 mila ettari per un valore di 352 mila euro; 20 appartamenti per complessivi 82 vani e un valore di un milione e 582 mila euro; 10 magazzini-garage per un valore 110 mila euro; una masseria per un valore 200 mila euro; un capannone-magazzino per un valore di 800 mila euro; 29 auto per 264 mila euro; 4 “fuoristrada” per un valore di 46 mila euro; 2 moto del valore di 13 mila euro; un trattore; 5 autocarri per un valore di 325 mila euro; 15 semirimorchi del valore di 126 mila euro; un autobus del valore di 10 mila euro. Ci sono poi 6 imprese individuali (due autosaloni, una per lavorazione di pasta fresca, una per la coltivazione di cereali; una per coltivare ortaggi); 3 società cooperative (una per coltivare e conservare ortaggi); una coop agricola per la lavorazione e trasformazione di prodotti agricoli; 3 società a responsabilità limitata (due per la vendita di auto, la terza per il commercio all’ingrosso ed al dettaglio di prodotti ortofrutticoli); una società in accomandita semplice per la lavorazione di prodotti agricoli. (4)

*Sempre in Capitanata, l’inchiesta dei carabinieri, della polizia provinciale e della Procura di Foggia, sfociò il 28 giugno del 2006 nel blitz “Rabits” con l’arresto di 9 persone, ruotava intorno alla <<Ecofertil>>, una ditta, anch’essa di Orta Nova, che riceveva a pagamento rifiuti da varie zone d’Italia per trattarli e trasformarli in concimi organici (il cosiddetto <<compost>>). Secondo l’impostazione accusatoria invece i rifiuti sarebbero stati versati nei campi della ditta Ecofertil così come li riceveva, senza alcun trattamento e lucrando sui costi per il mancato <<compostaggio>>.In attesa di giudizio ci sono 24 persone di Orta Nova, Foggia, Manfredonia, Bari e Campania. Si tratta di amministratori e dipendenti dell’impresa che produce e vende concimi organici ricavati dai rifiuti; di chimici, titolari e amministratori di ditte di

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trasporti incaricate di trasportare e sversare i rifiuti, di proprietari di terreni che sarebbero stati utilizzati come discariche abusive.L’accusa contestata a sette persone è di associazione per delinquere, c’è poi una serie di violazioni di legge in materia ambientale. L’accusa ipotizza il traffico illecito di rifiuti, la gestione di rifiuti pericolosi per la presenza di oli minerali e metalli pesanti; e ancora si sostiene che i rifiuti ricevuti non sarebbero stati sottoposti a regolare processo di compostaggio per trasformare in fertilizzante i fanghi di depurazione di acque reflue e industriali; che alcuni rifiuti ricevuti non potevano comunque essere avviati a compostaggio per la loro tipologia. Nell’ottica accusatoria si tratterebbe di un affare illecito, nell’ordine di milioni di euro. Sempre secondo l’accusa la Ecofertil, che aveva la capacità di trattare 12mila tonnellate di rifiuti ogni anno, tra il 2004 e il 2005 avrebbe invece ricevuto 130mila tonnellate di rifiuti, smaltendone oltre 110mila. Il che avrebbe comportato un guadagno nell’arco di due anni superiore ai 5 milioni di euro, <<eludendo i costi richiesti dall’effettivo compimento delle operazioni di recupero>>.Il compostaggio consiste nel trasformare i fanghi di depurazione di acque reflue e industriali in fertilizzante venduto per terreni agricoli. Un procedimento che dura 90 giorni con i rifiuti miscelati con altre sostanze (paglia, segatura, raspi d’uva) per ricavarne concime. Secondo la tesi accusatoria la Ecofertil, invece di trasformare i rifiuti in concime, si sarebbe limitata a sversare i rifiuti ricevuti in vari campi del basso Tavoliere, senza alcun procedimento di compostaggio. (16)

*Inoltre a Taranto, sempre sul traffico di rifiuti pericolosi, da due anni vede nell’occhio del ciclone quattro aziende.A conclusione dell’udienza preliminare, il 17 marzo 2008, è stato disposto il rinvio a giudizio di tre indagati. Si tratta di Alessandro Etrusco, direttore dello stabilimento di Taranto della Sanac (società del gruppo Riva), Salvatore Iodice, rappresentante della Min srl (con sede a Faggiano) e Domenico Donvito, rappresentante legale delle due società, anche queste con sede a Faggiano, la Sct e la Cpm.Secondo l’accusa, le aziende finite tutte sotto sequestro hanno dato vita ad una specie di circuito nel quale rifiuti classificati come “speciali” e “pericolosi” venivano in parte riutilizzati e in parte smaltiti illecitamente.I residui della lavorazione dell’acciaio (materiale ferroso e refrattario) che la Sanac riceveva dall’Ilva, da quanto emerso dalle indagini della Guardia di Finanza, venivano trasferiti nelle altre aziende nelle quali si recuperavano per poi inviarli nuovamente alla Sanac che in parte li riutilizzava e in parte li smaltiva inviandoli allo stabilimento di Cagliari.Un sistema ideato per risparmiare sui costi di smaltimento ma, sempre secondo l’accusa, con grave pericolo per la salute pubblica e dei lavoratori, questi ultimi molto probabilmente ignari dei rischi che correvano.

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Nel procedimento si sono costituiti parte civile il Comune di Taranto e due dipendenti della Sanac. Non si è costituita, invece, la Provincia.I tre indagati sono stati rinviati a giudizio. Devono rispondere di violazione della normativa ambientale. (5)

*Il porto di Bari, inoltre, potrebbe essere il crocevia di traffici illegali e internazionali di rifiuti speciali. La conferma arriva dalle indagini della procura di Bari che tra gennaio e febbraio 2008, ha sequestrato in otto occasioni camion carichi di centinaia di tonnellate di alluminio e di batterie esauste per auto. Le batterie, provenienti dal Kosovo, erano dirette a un impianto salentino; gli altri rifiuti erano in uscita con destinazione Bulgaria. La procura ipotizza il reato di traffico internazionale di rifiuti e spedizione transfrontaliera. Nel registro degli indagati sono stati iscritti cinque autisti macedoni bloccati alla guida dei camion ricchi di rifiuti. Il sospetto è che oltre alle batterie (prive di involucri e non bonificate) e all’alluminio, esportati all’estero dove sarebbero utilizzati come materia prima dopo presunti trattamenti di recupero, ci siano anche fanghi di depurazioni provenienti dal Nord Italia che avrebbero passato la frontiera di Bari con destinazione Bulgaria dopo essere stati classificati come concimi.Le indagini sono state avviate dopo controlli casuali dai quali è emerso che, fino all’autunno 2007, dal porto di Bari non era transitato alcun rifiuto. Dato questo che ha destato qualche sospetto. In procura è stata quindi creata una task force nella quale al personale della Dogana e alle forze di polizia sono stati affiancati i tecnici dell’Arpa.Sono cominciati i primi sequestri. Il primo è stato un carico di circa 120 tonnellate di alluminio e di batterie per autoveicoli (anche pesanti) prive dell’involucro, accatastate su cinque camion che dal Kosovo erano destinate ad un impianto salentino che avrebbe trasformato il piombo contenuto nelle batterie, in pallini.Successivamente è stato sequestrato un carico di batterie diretto in Grecia e da qui in Bulgaria. Fino a fine febbraio sono stati bloccati altri camion carichi sempre di batterie.Il team di esperti ora in servizio alla Dogana di Bari ha potenziato i controlli e ad ogni carico di rifiuti o materiale sospetto viene esaminata attentamente la documentazione per verificare se dietro quel trasporto si celi in realtà materiale molto più pericoloso rispetto a quello che risulta dalle carte. (13)

*Una discarica abusiva in prossimità dell’abitato di san Pietro Vernotico, in contrada ‘Pallitica’, è stata sequestrata, nei primi giorni d’aprile 2008, dagli uomini della Guardia di Finanza della tenenza della cittadina. All’interno dell’area sono state trovate circa dodici tonnellate di rifiuti classificati pericolosi.

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C’era praticamente di tutto, dall’amianto, al ferro e plastica, dai rifiuti agrochimici agli imballaggi contenenti residui di sostanze pericolose e pneumatici.Vi sono indagini allo scopo di individuare i responsabili.La vicinanza della discarica, appena individuata, all’insediamento urbano, al di là della classificazione dei rifiuti rinvenuti, costituisce un ulteriore rischio per la salute e l’incolumità delle persone. Per questo si auspica che l’area sia al più presto bonificata.Spesso si tende a disfarsi dei rifiuti appena fuori dal perimetro urbano, in maniera selvaggia ed incontrollata, creando così vere e proprie discariche abusive sotto casa. Un fenomeno incontrollato ai danni dell’ambiente e delle persone, a fronte del quale solo l’intervento delle forze dell’ordine , con sequestri e denunce, pone un freno. Negli ultimi anni attorno all’abitato di San Pietro Vernotico sono stati individuati diversi siti trasformati in discariche a cielo aperto, su cui non si può di certo escludere l’interesse della malavita seppure non comprovata. Alcune sono di notevoli estensioni, come quella sequestrata a ridosso di contrada ‘Artisti’. Tuttavia è la campagna sempre più punteggiata di mini discariche abusive a testimoniare come l’abitudine a disfarsi dei rifiuti in maniera incontrollata è sempre forte. Per fortuna l’attenzione delle forze dell’ordine nei confronti di questa incivile usanza è sempre maggiore. Lo dimostra l’ultimo sequestro a cui abbiamo fatto riferimento. (28)

*In due distinte operazioni di polizia ambientale ad Altamura il 15 aprile 2008 sono stati sequestrati due terreni agricoli su cui si erano formate delle discariche.Un fondo agricolo di 10 mila metri quadrati è stato sequestrato in un’operazione congiunta del Corpo forestale del Coordinamento territoriale di Parco Alta Murgia e del Comando di polizia municipale. Sul terreno veniva effettuata la raccolta e gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non: autoveicoli fuori uso, macchinari e apparecchiature deteriorate ed obsolete, parti di veicoli nonché dei rifiuti di varia natura e genere. Quattro persone, tra gestori della discarica e proprietari dell’area, sono stati denunciati per violazione delle norme del testo unico dell’ambiente e dell’edilizia nonché delle norme relative al trattamento dei veicoli fuori uso.Le forze dell’ordine hanno accertato che l’attività di trattamento dei rifiuti veniva effettuata su un terreno nudo, privo di platea impermeabile per la raccolta di oli e liquidi con pericolo di grave danno all’integrità ambientale per l’inquinamento di suolo, sottosuolo ed acque superficiali.L’altro sequestro è avvenuto ad opera dei carabinieri per l’ambiente del Noe (Nucleo operativo ecologico). Si tratta di un’area di circa 131 mila metri quadrati, divenuta una discarica abusiva di rifiuti ad opera di ignoti. I carabinieri del Noe di Bari hanno riscontrato infatti la presenza di inerti da demolizione, amianto, rifiuti plastico-ferrosi, nonché di carcasse di pecore in avanzato stato di decomposizione abbandonati da ignoti. Denunciati i proprietari. (28)

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*Maxisequestro di pet coke effettuato dai carabinieri del Noe di Lecce. I militari hanno scoperto, il 24 maggio 2008, nel deposito che si trova nell’area del porto di Taranto, circa 16mila tonnellate di pet coke (un sottoprodotto della lavorazione petrolifera che può contenere alti valori di elementi cancerogeni) importato dagli Stati Uniti e destinato alla miscelazione con carbone fossile per la produzione di coke siderurgico.Il valore del pet coke sequestrato si aggira intorno ai due milioni di euro.Denunciato dai carabinieri il legale rappresentante dello stibilimento dell’Ilva, Luigi Capogrosso, per aver effetuato deposito di pet coke su area priva di autorizzazione allo smaltimento nel sottosuolo di acque di dilavamento, per assenza di autorizzazione alle emissioni in atmosfera e per gestione illecita del rifiuto destinandolo ad un impiego diverso da quello previsto.Il sequestro effettuato dai carabinieri è al vaglio dell’Autorità giudiziaria.A dicembre, sempre i carabinieri del Noe di Lecce e gli uomini della Dogani di Taranto, hanno sequestrato 6mila tonnellate di pet coke nel deposito dell’Italcave e destinato a delle aziende di Milano.Il pet coke è un sottoprodotto che si ottiene da un processo di raffineria (coking) che trasforma frazioni petrolifere pesanti in prodotti leggeri più pregiati.In base alle caratteristiche iniziali di tale processo si otengono coke diversi che possono avere utilizzi diversi, in particolare possono essere usati come combustibile nell’industria o negli impianti di produzione di energia.Ha un elevato contenuto di zolfo e metalli pesanti per cui il suo utilizzo come combustibile è dannoso per l’ambiente. Le recenti normative hanno permesso l’utilizzo del prodotto come combustibile. Tuttavia, se il prodotto non risponde a specifiche caratteristiche è da considerarsi un rifiuto speciale. (28)

*Nove tonnellate di rifiuti speciali pericolosi sono stati trovati dalla Guardia di finanza di Lecce il 26 maggio 2008 nelle campagne di San Donato. In un terreno di 31 mila metri quadri diverse persone avrebbero gettato scarti tossici di ogni tipo, dal materiale plastico a rottami auto, pneumatici e vernici. E’ stato proprio dai controlli effettuati su un commerciante di vernici di Copertino che le fiamme gialle sono riuscite a risalire alla ‘destinazione finale’ degli scarti che, anziché seguire il normale ma più costoso iter previsto dalla legge, seguivano invece la strada delle campagne abbandonate del Salento. Tra rovi e sterpaglia si gettava di tutto e chi lo faceva non si preoccupava neppure di coprire le tracce che pure lasciava, imprudenza per diverse persone che ora rischiano una pesante denuncia, come quella già formulata a carico del commerciante di Copertino.

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Purtroppo il fenomeno dei rifiuti nocivi abbandonate in discariche improvvisate non è isolato: dall’inizio dell’anno 2008 in provincia di Lecce la Guardia di finanza ha sequestrato 7 aree abusive per oltre 178 mila metri quadrati, mentre 49 sono state le persone denunciate.In azione anche il Corpo forestale dello Stato. In località Le Mude, nel Comune di Morciano di Leuca, è stata posta sotto sequestro una superficie di terreno estesa circa 800 mq e denunciato il proprietario del terreno.Sulla zona, sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale, era stata realizzata, in assenza di autorizzazione, una discarica abusiva mediante lo spianamento, il livellamento del declivio naturale del terreno, per un’altezza media di 2 metri circa, e l’accumulo con materiale proveniente presumibilmente da demolizioni edili (pilastri di cementoarmato, pavimenti, conci di tufo, lastre di eternit) ed elettrodomestici in disuso ed anche con terra e materiali provenienti da scavi sempre di terreno. (28)

*L’indagine sullo stato delle acque nei comuni dell’unione “Terre d’Oriente” rivela una situazione di grave inquinamento della falda. In particolare, è proprio l’area più pregiata, quella della costa hydruntina a presentare le maggiori criticità. L’inquinamento, infatti, è di tre tipologie diverse: salinizzazione, agenti chimici provenienti dai fertilizzanti usati in agricoltura e colibatteri fecali. Insomma è un’acqua inutilizzabile anche solo per irrigare e che potrebbe provocare gravi danni sia alle colture che alla salute umana. Tale gravissima situazione è causata direttamente dalle attività umane, infatti si nota un miglioramento dei dati nella stagione invernale ed un peggioramento in quella estiva. La salinizzazione, invece, rivela che in molti casi la falda entra in contatto diretto con la costa assorbendo acqua dal mare. Un duplice problema, quindi, che può mettere in ginocchio l’intera economia del luogo che, nella zona di Otranto, si regge sul turismo e sull’agricoltura. Proprio dall’agricoltura altamente specializzata che si pratica ad Otranto, infatti, provengono un gran numero di occupati. Le “barbatelle” di Otranto sono note in tutta Italia ed anche all’estero, ma nulla è stato fatto per portare tale preziosa risorsa verso una maggiore sostenibilità.Dal rapporto su ‘agenda 21 locale’ emerge che ad Otranto si utilizza una quantità di fertilizzanti chimici enormemente superiore ad ogni altro centro del Salento. L’analisi compiuta ora dall’Università del Salento rivela che tali agenti chimici usati in agricoltura penetrano nella falda avvelenandola. La stessa ricerca evidenzia i rischi connessi a tale situazione che – è utile sottolinearlo – si aggrava proprio nel periodo in cui ci sono numerosissimi turisti: diffusione di malattie a trasmissione oro-fecale quali febbre tifoide, epatite A, salmonellosi non tifoidee, diarrea infettiva ed altre. Ciò crea un rischio serio per la salute, in quanto proprio d’estate si consumano frutta e verdure crude, abitudine alimentare direttamente connessa, ad esempio, in relazione al consumo crudo dei prodotti. Uno dei dati correlati a tale inquinamento, ad esempio, rivela che, per quel che riguarda la febbre tifoide, i dati relativi al 2001-

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2005 indicano nel Salento tassi di incidenza di tale patologia pari al 12,11 su 100.000 abitanti contro il 10,94 della Puglia e addirittura al 2,91 presente a livello nazionale.La Commisione Ambiente della Provincia di Lecce ha già in agenda un incontro con i sindaci interessati, in particolare con quelli di Otranto ed Uggiano i cui depuratori, in estate, appaiono ancora insufficienti. Tuttavia, il dato è di quelli che fanno molto riflettere, perché si somma ad una situazione deficitaria anche per quel che riguarda la raccolta differenziata che ad Otranto è al 3,7 per cento ed al numero veramente esiguo di aziende che si sono riconvertite all’agricoltura biologica. Insomma nel silenzio totale delle associazioni ambientaliste del territorio, una grave forma di inquinamento, quella delle falde acquifere, rischia di bloccare lo sviluppo della zona che ha raggiunto importanti traguardi in campo turistico proprio vantandosi della sua qualità ambientale. Insomma, gli agriturismo e le strutture che scaricano in falda, il carico antropico, l’uso smodato di agenti chimici in agricoltura, l’insufficienza dei depuratori e l’inesistenza della differenziata (che andrebbe effettuata soprattutto nelle strutture turistiche) potrebero distruggere il nome che nel campo turistico la città Otranto si è faticosamente conquistato.La situazione generale della falda acquifera nei comuni delle Terre D’Oriente, ed in particolare ad Otranto è, come abbiamo visto, critica, ma non irreversibile, almeno per quanto assicurano i tecnici che hanno effettuato lo studio. In particolare, per quel che riguarda l’inquinamento chimico. Il professor Francesco Paolo Fanizzi presidente della Società Chimica Italiana sezione Puglia, spiega che <<la situazione non è affatto irreversibile e lo studio segnala anche elementi positivi come l’assenza di metalli pesanti. L’inquinamento chimico, del resto, comprende una serie vasta di elementi e qui tale inquinamento è molto relativo. Ci sono soprattutto – continua Fanizzi – ammonio e nitrati elementi che vanno collegati ai pozzi neri a perdere ed all’attività agricola. In particolare, abbiamo visto che l’inquinamento di ammonio aumenta d’estate quando si riempiono le case coloniche di turisti ed in primavera per colpa dei concimi. Ma la fortuna è l’assenza di metalli pesanti quindi basterebbe mettere a norma gli impianti fognari, magari creare condotte sottomarine e soluzioni simili, ciò del resto va fatto in tutto il Salento, Infine, occorre il monitoraggio continuo della risorsa che è, tra l’altro, un bene preziosissimo>>.Soluzioni percorribili, dunque, che salverebbero l’avvelenamento della falda ed il suo degrado. Lo conferma anche la dottoressa Antonella De Donato, la quale spiega il fatto che <<la situazione possa migliorare lo indicano gli stessi risultati. Ad esempio, il dato sulla salinizzazione delle acque indica un eccessivo emungimento dai pozzi, basterebbe controllare i prelievi ed attendere il ‘tempo di ravvenamento’, basterebbe monitorarli e tenerli sotto controllo per evitare tale fenomeno. Allo stesso modo, basterebbe controllare il corretto uso dei pozzi neri per evitare che inquinino la falda, occorre intervenire con controlli e sensibilizzazione>>.Il punto è proprio qui, basti pensare che solo due aziende su centinaia a Otranto usano sistemi alternativi, come l’esempio della ‘Grotta dei Cervi’ a Badisco che ha la

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fitodepurazione ad impatto zero e Masseria Montelauro che usa la sub-irrigazione. Esempi virtuosi che dovrebero far scuola, si spera, nell’immediato futuro. (28)

*Spuntano dappertutto nascoste, alcune più, altre meno, tra gli ulivi secolari: sono sempre di più le discariche abusive a cielo aperto che deturpano i diversi angoli della campagna copertinese. Restano immutate, tranne quando qualcuno non contribuisce con il proprio gesto di inciviltà ad aumentarne la quantità di rifiuti già presente; nessuno che da palazzo ‘Briganti’ si adoperi con interventi di bonifica nonostante l’allarme ambiente cresca di giorno in giorno. Quali le strategie dell’amministrazione per limitare la continua crescita dei siti inquinanti? Quali le figure preposte al controllo successivo alla bonifica? Quante le denunce? Neanche a fronte di cittadini che a novembre 2008 rinunceranno a parte del raccolto d’olive, perché a ridosso di un’altra discarica già più volte denunciata, si è aperto un tavolo di discussione sull’argomento. Tanto nonostante la ‘percentuale di successo raggiunta dalla raccolta differenziata’ le discariche abusive continueranno ad esistere, come se queste non rappresentassero comunque una cocente sconfitta in tema di rifiuti.Ecco spuntare l’ennessima ‘bomba ecologica’ in un’altra area della zona industriale di Copertino, non lontana dall’isola ecologica della società Multiservizi: sacchetti di spazzatura sparsi ovunque a ridosso del ciglio della strada comunale, rottami di auto, frigoriferi, televisione, materiale elettrico, edile e di risulta, carcasse fatiscienti di mobilia, bidoni arruginiti, resti di cassette di frutta in plastica, batterie d’auto, pezzi di pneumatici, lamiere per arredamenti da esterno, pezzi di materasso e voluminosi sacchi di rifiuti perfettamente annodati che si offrono ogni giorno alla vista di quanti si recano al lavoro, ma anche abitano, nei pressi della zona industriale. Impossibile descrivere il lezzo nauseabondo che proviene da quei rifiuti, che si accentua con l’aumento delle temparature estive, che rende l’aria irrespirabile ad ogni cambio di vento e che attira nugoli di insetti. Inutile far presente la pericolosità delle lastre di eternit sparse lungo quel ciglio della strada: la discarica abbonda di fogli di amianto scaricati tra il resto dei rifiuti. Questo è solo quanto però emerge ad un primo sguardo, perché con una tale quantità e varietà di rifiuti, non si può non supporre anche un inquinamento del sottosuolo. Si era parlato di potenzialità progettuali su territorio comunale intendendo ampliare le attività svolte proprio nell’ambito Ambiente e Territorio: tra i potenziali servizi gestibili c’era proprio il monitoraggio ambientale a seguito delle opportune e quanto mai sempre più necessarie bonifiche dei siti, ma gli evidenti risultati sono del tutto scoraggianti se ancora, dopo un anno di raccolta differenziata porta a porta è possibile imbattersi in simili montagne di rifiuti. (28)

*Comune di Trani e Amiu ancora inadempienti: la discarica per i rifiuti solidi urbani di contrada Puro Vecchio, che può ospitare fino a 1,5 milioni di metri cubi di immondizia ed è al servizio di cinque Comuni, non ha ancora l’impianto di raccolta

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del biogas, che se non raccolto risulta altamente pericoloso. E così la Procura, dopo ben due sequestri preventivi dell’area con facoltà d’uso disposti tra il 2005 e il 2006, ritorna a interessarsi della questione, acquisendo la relativa documentazione negli uffici di Comune, Amiu, Ato, Provincia di Bari e Regione Puglia. L’acquisizione è stata effettuata dai carabinieri del Noe di Bari, su disposizione del pm, al fine di accertare perché degli impianti non c’è traccia. Per la verità, secondo quanto disposto dall’amministrazione commissariale l’anno scorso, doveva essere l’Amet (l’altra società comunale che si occupa di elettricità e trasporti) a realizzare e gestire l’impianto di captazione del biogas per trasformarla in energia elettrica. Ma quella disposizione commissariale è rimasta lettera morta, mentre nel frattempo la discarica si è di molto ampliata con l’entrata in esercizio del terzo lotto autorizzato dall’ex commissario per l’Emergenza ambientale Nichi Vendola.Il Comune, che condivide la proprietà dell’area con l’Amiu (la società comunale per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani, che gestisce la stessa discarica), sta cercando di correre ai ripari. L’Amministrazione cercherà di portare nel Consiglio comunale del 16 giugno 2008 la delibera per poter bandire la gara di affidamento dei lavori per l’impianto di biogas. La realizzazione degli impianti di captazione del biogas era tra le prescrizioni imposte dalla Procura quando, nel marzo 2006, accosentì il dissequestro della discarica (i sigilli erano stati apposti nel maggio 2005 dal gip del Tribunale), che all’epoca comprendeva solo due lotti. Ma nel giugno successivo arrivò un altro sequestro del gip, motivato dal presunto inquinamento della falda acquifera, ma anche perché i gas che si sviluppavano (non raccolti dagli opportuni impianti) avrebbero potuto dare origine a combustioni ed esplosioni e generare l’inquinamento dell’aria. Da allora nulla è cambiato, mentre la discarica si è ampliata e anche i rifiuti smaltiti. (28)

*Nella notte del 31 maggio 2008, a Monteroni (Lecce) è andata in fiamme la spazzatura, ad opera di ignoti. A fuoco in tutto cinque contenitori dei rifiuri sistemati in due diverse zone del paese. In un caso, sono state bruciate tre ‘campane’ piazzate tra le vie cittadine per il riciclo dei rifiuti e nell’altro, invece, sono andati distrutti due cassonetti. I contenitori di proprietà della società ‘Ecotecnica’ che gestisce il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e che ha dichiarato oltre 3mila euro di danni. Scartata, fin da subito, l’ipotesi di incendio accidentale o autocombustione, sia per la concomitanza dei due eventi e sia per la notevole lontananza dei luoghi in cui sono avvenuti. Il gesto, quindi, di chiara natura dolosa, giunge all’indomani della presentazione del servizio di raccolta differenziata ‘porta a porta’ messo a punto dall’amministrazione comunale e che prenderà il via dal 16 giugno. Su questo doppio incendio doloso indagano i carabinieri della Stazione di Monteroni, al lavoro per capire se dietro il gesto sconsiderato si nasconda solo la bravata di qualche scriteriato o, invece, si celi qualcosa di più come, ad esempio, un messaggio intimidatorio o altro ancora. Comunque qualche elemento utile potrebbe giungere dalla visione dei filmati delle

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telecamere del ‘Pon sicurezza – Progetto Grottella’ che tengono sottocchio diverse zone nevralgiche della cittadina. (28)

*Un uomo di Noicattaro (Bari) di 29 anni è stato arrestato il 1° giugno 2008 e posto ai domiciliari dai carabinieri di Triggiano per associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti. Tra l’ottobre del 2005 e il mese di gennaio del 2006, avrebbe messo su, in concorso con altre persone, un’organizzazione criminale che trafficava illecitamente rifiuti, anche pericolosi, per 2.648 tonnellate.In particolare il 29enne, impiegato e socio di due ditte, in più occasioni e in varie località della Calabria, della Campania e del Lazio, collaborava nell’avviare ingenti quantità di rifiuti speciali in Estremo Oriente e in Europa per un giro d’affari complessivo di 397mila euro. (28)

*Con l’accusa di disastro ambientale, traffico illecito di rifiuti e una serie di violazioni in materia ambientale i carabinieri del Noe di Bari e del Comando Provinciale di Foggia, nell’ambito dell’operazione <<Black river>> il 4 giugno 2008 hanno arrestato e posto ai domiciliari 12 persone tra imprenditori, direttori dei lavori, titolari di ditte di autotrasporti e di frantumazione e agricoltori. Altre 5 persone sono indagate a piede libero. Le ordinanze di custodia cautelare sono del gip del Tribunale di Foggia, in parziale accoglimento delle richieste del pm (quest’ultimo chiedeva 17 arresti domiciliari). Sequestrati anche 42 camion utilizzati per il trasporto e scarico dei rifiuti.Scaricando abusivamente 500mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi ed è stata così realizzata vicino Castelluccio dei Sauri (Foggia) – accanto al torrente Cervaro e con il letto del fiume trasformato in strada sterrata percorsa dai camion – una mega discarica abusiva di oltre 5 ettari, posta sotto sequestro dall’agosto 2007. Si è di fronte – dicono carabinieri, pm e gip – a un disastro ambientale per rimediare al quale ci vorebbero opere di bonifica del costo di 315milioni di euro.Il profitto – secondo l’impostazione accusatoria – è nei 2milioni e mezzo di euro che la <<Agecos>> di Rocco Bonassisa, titolare delle ditta vincitrice dei lavori di ampliamento della discarica di Deliceto e principale indagato del blitz, ha risparmiato evitando di mandare quei rifiuti pericolosi in siti dove dovevano essere trattati e smaltiti. <<Avviare il tutto ad una discarica autorizzata – scrive il gip nel provvedimento di cattura – avrebbe fatto lievitare i costi, tanto da assorbire l’intero contributo di 2 milioni fornito dalla Regione, e indebitare la società>>. Gli indagati respingono le accuse. In conferenza stampa il Procuratore della Repubblica di Foggia ha rimarcato: <<Giusto per dare l’idea di cosa parliamo, la Procura di Napoli ha recentemente rubricato un disastro ambientale per 58mila tonnellate di rifiuti, qui a Castelluccio dei Sauri la cifra è 10 volte superiore>>.

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morfologia del territorio per ingannare nel modo migliore le autorità di controllo che di fronte si sarebbero trovati un semplice terreno>>. Tutto parte dalla discarica di Deliceto, a 7 chilometri di distanza, dove, come negli altri siti, la pressione dei rifiuti indifferenziati, non selezionati, crea del liquido inquinante che deve essere stoccato in siti adatti. Gli autori della truffa, però, hanno Anche la Legambiente nutre qualche dubbio sulla tempistica delle operazioni sulla discarica perché mancano i controlli in sede locale, del resto i carabinieri, il Corpo forestale, la Guardia di finanza non possono oggettivamenente controllare tutto. (28)

*Per l’Italia è in arrivo una nuova procedura d’infrazione in materia di rifiuti da parte della Corte di giustizia europea. E questa volta la regione accusata è la Puglia, responsabile, secondo la Ue, del mancato rispetto delle procedure relative al rilascio della valutazione d’impatto anbientale dell’inceneritore di Massafra, nel tarantino. La Commissione europea ha annunciato il 5 giugno 2008 l’invio al governo italiano di una lettera di costituzione in mora (primo avvertimento formale della nuova procedura di infrazione), e <<in caso di un’ulteriore inadempienza – precisa la Corte europea – lo Stato membro potrebbe incorrere in un’ammenda>>.La struttura massafrese che potrebbe far pagare una forte ammenda allo Stato italiano appartiene all’Appia Energy, una Spa controllata per il 51% dal Gruppo Marcegaglia (attuale presidente nazionale di Confindustria)e per il 49% dalla Cisa dell’imprenditore tarantino Antonio Albanese. Il termovalorizzatore, in funzione da quattro anni, produce ogni anno dai rifiuti 72 milioni di Kilowattora. L’interesse dell’Unione europea per le infrazioni amministrative riscontrate nelle procedure autorizzative dell’impianto in questione, risale al 2001.Allora la Commissione chiese chiarimenti al governo italiano per il mancato procedimento della Via all’impianto Appia Energy. Il ministero dell’Ambiente italiano fece presente che l’infrastruttura, per carateristiche e finalità, godeva di speciali deroghe. Il 30 maggio del 2006, però, le conclusioni dell’avvocato generale Damaso Ruiz Jarabo Colomer stabilì l’inapplicabilità di quelle deroghe ed invitò le autorità italiane a procedere al rilascio della valutazione ambientale. Nel frattempo la regione Puglia si era attivata in tal senso e a luglio del 2007, come conferma l’imprenditore Albanese, <<fornisce il certificato Via alla Appia Energy. Per le autorità Ue, però, <<una valutazione dell’impatto a posteriori dell’incerenitore non garantisce un’efficace consultazione dell’opinione pubblica come richiesto dalla direttiva europea>>. Per questo Bruxelles ha deciso di inviare all’Italia <<una lettera di costituzione in mora (primo avvertimento) ai sensi dell’articolo 228 del Trattato Ue, che si applica quando uno Stato membro non ha dato piena esecuzione a una sentenza della Corte di giustizia europea>>. La Regione, da parte sua, assicura di aver provveduto a sanare la sentenza della Corte europea relativa all’inmpianto di Massafra, con la presentazione a Valutazione di Impatto Ambientale di quello stabilimento e che, a fronte delle nuove osservazioni della Commissione europea,

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relative a un deficit di partecipazione (osservazioni pubbliche su progetti presentati), ha chiesto alla società proprietaria dell’impianto, un atto integrativo per evitare il protrarsi dell’infrazione. (28)

*Sequestrato il depuratore comunale di Soleto (Lecce) gestito dall’Acquedotto pugliese. I sigilli sono stati messi il 7 giugno 2008 dai carabinieri della locale Stazione e del Nucleo operativo ecologico per l’inquinamento ambientale. Dalle indagini è emerso che ci siano degli sversamenti di acque reflue nella falda idrica il che potrebbe comportare dei problemi per la salute dei cittadini se le acque dovessero entrare nella catena alimentare.Il sequestro sarà sottoposto al vaglio del pubblico ministero e del giudice delle indagini preliminari di turno per le convalide. Come è avvenuto in altri casi analoghi, è previsto il ricorso a periti per stabilire quale sia il grado di inquinamento ambientale che le soluzioni da adottare per la bonifica.Quanto alle responsabilità, se ne profilano in capo agli amministratori di Soleto ed ai dirigenti dell’Acquedotto, ma se dovranno emergere lo stabilirà il pubblico ministero a cui sarà assegnato il fascicolo. (28)

*Non era certo nascosta, o alla periferia più estrema della città. Era lì all’ingresso del Villaggio artigiani con tanto di cartello che indicava che era vietato scaricare i rifiuti. Dal 7 giugno 2008 un’area di oltre 5500 metri quadrati trasformata in discarica abusiva è sotto sequestro. A mettere i sigilli i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Bari che hanno sequestrato il cantiere edile adiacente alla discarica, un suolo di 650 metri quadrati dove dovevano sorgere numerosi locali commerciali, box per auto, abitazioni e magazzini. I carabinieri hanno denunciato 6 persone, dirigenti e dipendenti delle imprese coinvolte nei lavori con l’accusa di concorso in traffico illecito di rifiuti.Nell’area adiacente al cantiere le imprese hanno riversato ingenti quantitativi di rifiuti, la maggior parte costituiti da terra e roccia presumibilmente proveniente dallo scavo. Non solo tutto ciò era illegale, secondo i carabinieri, visto che quella non era un’area destinata allo smaltimento dei rifiuti. Ma, dopo una serie di controlli, i carabinieri hanno accertato che la società a cui erano stati affidati i lavori di costruzione degli immobili era in possesso di un permesso illegittimo, ovvero sprovvisto dei documenti attestanti la caratterizzazione dei rifiuti prodotti.L’importo complessivo delle due aree poste sotto sequestro si aggira intorno al milione di euro. Come sia stato possibile che tutto ciò accadesse in una zona trafficatissima è come sempre un mistero. Ora l’amministrazione comunale corre ai ripari.

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Intanto la discarica abusiva dovrà essere bonificata, e per questo serviranno finanziamenti ad hoc. (28)

*Oltre 300mila metri quadrati, buona parte dei quali ricoperti di montagne di eternit e altri rifiuti, sembra sostanze chimiche, tutti altamente pericolosi. L’ecomostro è un ex cava del Comune di Torre Santa Susanna (Brindisi), dismessa da oltre un decennio, parcellizzata e venduta, è stata sequestrata l’8 giugno 2008 dai militari della Guardia di finanza di Francavilla Fontana. Secondo quanto accertato, la discarica abusiva, al confine tra Torre ed Erchie, conterrebbe circa 5mila tonnellate di rifiuti speciali. In particolare, una quantità enorme di eternit malridotto, di materiale plastico, di carcasse di elettrodomestici, soprattutto frigoriferi. Ma a destare maggiore allarme sono state alcune zone nelle quali sono stati trovati depositi di liquidi sospetti, forse solventi, in notevole quantità. Si teme possa trattarsi di rifiuti tossici. E’ quanto i tecnici dell’Arpa di Brindisi dovranno accertare al più presto.L’indagine è durata oltre un mese. Non è stato facile individuare gli attuali sette proprietari che, naturalmente, sono stati denunciati. Dovranno rispondere di reati ambientali.Le discariche con rifiuti speciali sono un fenomeno molto diffuso nel Brindisino, sostengono gli investigatori, intanto perché trasportare e smaltire il rifiuto pericoloso ha un costo elevato, inoltre i siti deputati alla raccolta sarebbero in numero ridotto. Ma è evidente che l’aspetto economico incide in modo significativo sulla scelta di percorrere la via dell’illegalità.I Baschi verdi hanno scoperto anche depositi immensi di materiale riveniente da demolizioni e scavi. A questo proposito, è stato ipotizzato che possa provenire dai lavori in esecuzione nelle aree vicine. Cantieri in piedi per la realizzazione di villette e capannoni. Sospetti cui si sta cercando di trovare conferme. Molto di quel materiale è stato trovato sotterrato. Gli operai, con molta probabilità, sempre secondo gli investigatori, scaricavano i camion nella cava e poi ricoprivano tutta la terra per dare l’impressione che potesse essere materiale calcareo. (28)

*Doveva essere una zona protetta anche perché fa parte del Parco Nazionale del Gargano e da anni gli ambientalisti ci stanno realizzando zone di popolamento della Gallina Prataiola.Così la Polizia Provinciale nel corso dei controlli ha trovato tre cave tufine di Manfredonia, abbandonate da alcuni anni, che erano diventate una grande discarica illegale a cielo aperto.Nel corso delle indagini della Procura di Foggia i tecnici dell’Arpa hanno effettuato diversi prelievi sia per verificare la pericolosità o meno di molti dei rifiuti trovati nella discarica abusiva ma, soprattutto, per accertare se il materiale depositato nella

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discarica abbia già inquinato il terreno circostante che, oltre a rientrare nel Parco Nazionale del Gargano, è di particolare pregio dal punto di vista naturalistico. (28)

Il Parco del Gargano non lo hanno lasciato mai tranquillo. L’11 giugno 2008 il Tribunale del riesame di Foggia ha disposto il sequestro preventivo di beni di Marco Scaramella, imprenditore napoletano e personaggio dai mille volti; Matteo Fusilli , di Monte Sant’Angelo, ex presidente del Parco del Gargano e Matteo Rinaldi, pure di Monte, ex direttore del’ente Parco e di un professionista che avrebbe comunque svolto un ruolo marginale. Sono indagati a vario titolo per truffa, abuso e falso in relazione alla modalità di conferimento dell’incarico a Scaramella, da parte dell’ente parco, titolare della Eccp, un’agenzia che si occupava di “crimini ambientali” con sede a Washington e una rappresentanza a Napoli.La magistratura ritiene che sarebbe stato omesso di verificare i requisiti prima di affidare l’incarico. Scaramella puntò direttamente su Peschici con ruspe e pale meccaniche per demolire gli imobili abusivi costruiti su aree demaniali. Il tutto sotto l’occhio dei carabinieri a difesa del funzionario del Ministero delkl’Ambiente, aveva ricevuto l’incarico di buttare giù fabbricati realizzati a Foce Varano, Rodi Garganico, Peschici e Vieste. Tutto ciò nel 2003. Due delibere finite nel mirino della Procura di Foggia e dei carabinieri del Noe di Roma. La prima è datata giugno 2002, con cui l’ente parco avrebbe liquidato 374mila euro a Scaramella – l’80% della somma gli sarebbe stato dato prima dell’inizio dei lavori – per l’abbattimento degli immobili abusivi. Era una cifra eccessiva dice la Procura: secondo il consulente dei pm quei costi non hanno superato i 30mila euro, anche perché i rifiuti prodotti con l’abbattimento dei manufatti non furono affatto smaltiti ma interrati nello stesso parco. La seconda delibera per un incarico analogo affidato a Scaramella è del dicemkbre 2003 e prevedeva il pagamento di 500mila euro, ma fu bloccata dalla nuova direttrice del parco, subentrata a Rinaldi: per questo episodio la contestazione è di tentata truffa.Come dicevamo il riesame di Foggia ha disposto il sequestro del conto corrente di Scaramella (già interessato peraltro da un’analoga inchiesta della Procura di Bari); il sequestro della quota del 50 per cento di Rinaldi di un immobile del valore di 50mila euro; il sequestro della quota del 50 per cento di Fusilli di un immobile del valore stimato in 150mila euro circa.Solo per la cronaca. Il nome di Scaramella lo troviamo nell’intricato giro internazionale che vide coinvolti addirittura il Kgb (il servizio segreto russo) e alcuni politici italiani.Il Governo italiano dell’epoca istituì una commissione di inchiesta, la nota Mitrokhin, che in verità produsse più rumore che risultati concreti. Tra i consulenti della commissione c’era lo stesso Mario Scaramella, il cui compito per gli inquirenti sarebbe stato quello di produrre vario materiale allo scopo di screditare varie personalità politiche, soprattutto in vista delle elezioni politiche italiane del 2006. (28)

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Ma vediamo di conoscere meglio questo discusso ex agente 007 Mario Scaramella (l’avvocato partenopeo, consulente di sicurezza salito alla ribalta internazionale per il caso Mitrokhin, in seguito all’avvelenamento dell’ex agente russo Aleksandr Litvinenko avvenuto a Londra il 23 novembre 2006 e rinviato a giudizio dalla procura di Foggia con le accuse di truffa ai danni dello Stato e falso) negli anni 2002 e 2003 era di casa a Monte Sant’Angelo presso la sede dell’Ente Parco del Gargano di via Sant’Antonio Abate. Già attivo al Parco Nazionale del Vesuvio, si era proposto anche a Monte Sant’Angelo per l’abbattimento di opere abusive nell’area protetta del Gargano, essendo a capo di un’organizzazione per la prevenzione di crimini ambientali. In realtà quegli abbattimenti non sono mai stati eseguiti (se non parzialmente) nell’area protetta, anche perché Scaramella non aveva né uomini né mezzi per eseguire lavori così importanti. E’ la conclusione cui è giunta la Procura di Foggia dopo lunghi mesi di indagini. Come si ricorderà negli anni 2002 e 2003 la Eccp, società riconducibile appunto all’ex 007 napoletano, ricevette l’incarico dal Parco del Gargano di esguire degli abbattimenti, a cui abbiamo già fatto cenno. Il contratto fu formalmente assegnato alla Eccp, sefinita <<organizzazione intergovernativa di diritto pubblico con sede a Washington Dc e rappresentanza a via Vetriera a Chiaia n.12, Napoli>>. Insomma il solito sottoscala del Cinema Delle Palme. Rappresentante legale dell’organizzazione Giorgia Dionisio, all’epoca compagna di Scaramella in veste di “special assistant secretary general dell’Eccp”.Si difende Fusilli. <<Fu dato un segnale molto netto, deciso, che doveva proseguire. In seguito se ci sono stati vizi formali io non lo so, ma la questione mi era sempre parsa come un’azione per il bene del Gargano e contro il dilagante fenomeno dell’abusivismo>>. <<Noi all’epoca ci informammo e prendemmo contatti con il Parco del Vesuvio, là dove un organismo riconosciuto aveva operato abbattimenti anche a strutture di proprietà della camorra. Era un organismo di diritto quello di Scaramella, partecipato dell’Università di Napoli. Scaramella era peraltro un giudice onorario, nominato dal Csm, consulente di varie procure. E proprio su queste basi si predisposero gli atti e le modalità per l’affidamento. Non si può oggi delegittimare soltanto e non mettere in risalto questa azione dimenticando il contesto in cui si agiva, si operava per il bene del Gargano>>. (28)

*Centinaia di tonnellate di rifiuti derivanti da sottoprodotti di origine animale, pericolosi per la salute e destinati ad essere smaltiti, venivano invece riutilizzati per produrre concimi, fertilizzanti e addirittura prodotti per uso alimentare. E’ quanto emerso grazie alle indagini del Corpo forestale dello Stato, che hanno portato ad indagare dodici persone (sei di queste raggiunte da ordinanze di custodia cautelare, sulle quali si dovrà però pronunciare la Cassazione) e al sequestro di automezzi, stabilimenti di trasformazione dei sottoprodotti e mattatoi, nell’ambito dell’operazione “Alto rischio”.I particolari dell’indagine, durata oltre un anno e coordinata dal sostituto procuratore di Lecce, sono stati esposti il 20 giugno 2008 in Procura, alla presenza anche del

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Procuratore capo di Brindisi. Secondo quanto rilevato dagli agenti forestali, i sottoprodotti di origine animale di categoria 1, ad alto rischio infettivo e dunque destinati allo smaltimento, venivano invece mischiati con quelli di categoria 3, per i quali era previsto – dopo un opportuno processo di trasformazione – l’utilizzo come concimi, fertilizzanti e mangimi.Per gli inquirenti è impossibile quantificare con precisione il giro d’affari attorno al quale ruotava la truffa. Di certo, erano molte centinaia di tonnellate di scarti che venivano utilizzate in questo procedimento. La truffa, dunque, viaggiava su due diversi piani: da un lato, l’abbattimento dei costi che si sarebbero dovuti sostenere per un corretto smaltimento dei rifiuti, dall’altro il guadagno dato dalla produzione di concimi e mangimi grazie anche a quegli stessi scarti. Un’attività estremamente pericolosa, visto che in questo modo è stato possibile riutilizzare scarti animali ad altissimo rischio infettivo. Gli indagati dovranno ora rispondere di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti.Apparentemente l’iter che seguivano i sottoprodotti di origine animale pericolosi era quello previsto dalla legge: arrivavano in un impianto di transito del salernitano, poi trasferiti in un’azienda di Latina, dove venivano trasformati in farine animali, destinate ai termovalorizzatori. Ma era solo un processo fittizio: in realtà, i sottoprodotti pericolosi finivano in un impianto di Napoli, dove erano trasformati in concimi, fertilizzanti e addirittura gelatine per uso alimentare.Sono sei le aziende a cui l’autorità giudiziaria ha posto i sigilli. Tra queste vi sarebbero attività della provincia di Brindisi (Francavilla Fontana). Chiusi anche tre mattatoi, due a Lecce e uno a Bari.L’operazione, condotta dai comandi di Brindisi e Lecce, ha riguardato non solo aziende pugliesi, ma molte altre dislocate anche nel resto della penisola: sequestri e perquisizioni hanno interessato ditte delle province di Napoli, Salerno, Latina e Ravenna. E’ stato grazie alle intercettazioni telefonmiche e ambientali che le indagini hanno subito un’accelerazione, permetendo di individuare i responsabili. (28)

*Un allarme incendio, il 23 giugno 2008, ha impegnato per alcune ore le squadre degli agenti del Comando Stazione Forestale di Gallipoli alle dipendenze del Comando provinciale di Lecce, che sono intervenute nello spegnimento di un incendio verificatosi in località “La Reggia – Torre Alto Lido”, agro del Comune di Galatone, in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico.Il fuoco ha devastato un’area di oltre 26 ettari di cui 12 di bosco di Pino d’Aleppo (250 piante con diametri variabili da 20 a 50 centimetri e con un’altezza media di 7 metri) e 14 ettari di terreni saldi con presenza di roccia affiorante e pietre.Segnaliamo la notizia perché si suppone che il fuoco abbia avuto inizio dal margine stradale della litoranea che collega Lido Conchiglie a Santa Maria al Bagno per cause

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presumibilmente di origine dolosa, in considerazione anche del fatto che sono stati rinvenuti alcuni resti di cumuli di rifiuti. (28)

*Cinque cave per l’estrazione del marmo e di altro materiale lapideo, estese su una superficie totale di 24 ettari, fra Minervino Muge e Andria, sono state sequestrate e 23 persone sono state denunciate da uomini del Corpo forestale dello Stato appartenenti al coordinamento territoriale per l’ambiente di Altamura.Le persone denunciate sono i titolari delle cinque imprese e gli esecutori materiali dei lavori di estrazione, vietati essendo quel territorio zona di protezione speciale e sito di importanza comunitaria, in quanto ricadente nel Parco dell’Alta Murgia.Le indagini sono state coordinate dal pm della Procura di Trani. Il provvedimento preventivo di sequestro è stato eseguito su disposizione del gip del Tribunale di Trani.Le cave sarebbero state realizzate senza autorizzazione, in violazione dei vincoli ambientali e paesaggistici previsti per le aree protette e senza valutazione di incidenza ambientale. L’Ente Parco, che rappresenta l’autorità amministrativa del territorio, autorizza esclusivamente piani di recupero e coltivazione delle cave. (28)

*Una vera e propria discarica a cielo aperto, rifiuti e scarti di ogni genere e soprattutto resti in amianto ed ternit. Il tutto in pieno parco regionale, quella della Palude del Conte e Duna Costiera di Porto Cesareo, zona sottoposta a vincolo paesaggistico.Non proprio uno spettacolo piacevole per i Cavalieri d’Arneo, gruppo che da tempo opera sul territorio, la cui associazione è stata ufficializzata ad aprile 2008 e che vede circa 25 persone, uomini e donne, provenienti dalle province di Lecce, Brindisi e Taranto e da fuori impegnate a controllare, tutelare, preservare il territorio da attacchi esterni, incuria e vandalismo. Proprio durante uno dei tanti giri di perlustrazione i Cavalieri si sono trovati di fronte la discarica, in località “Riva degli Angeli”, sulla Torre Lapillo-Torre Columena nei pressi di un canale naturale. Da lì <<è subito partita la segnalazione agli organi competenti, ad associazioni e amministratori – racconta uno degli associati – ma niente. Da allora è passato oltre un mese ma ci hanno fatto spallucce, il problema rimane irrisolto e la nostra attività viene vanificata>>.Non solo, le sentinelle a cavallo si trovano quotidianamente a dover fronteggiare musi lunghi e minacce velate da parte di quanti non vedono di buon occhio il loro operato.

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Oltre cinquemila metri quadrati pieni di eternit, materiale plastico ed edile di risulta, vetri rotti e addirittura qualche elettrodomestico. I militari del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Lecce hanno posto sotto sequestro un terreno agricolo di Squinzano pieno di rifiuti pericolosi, e hanno proceduto alla denuncia di una persona all’autorità giudiziaria.La scoperta è stata fatta il 24 giugno 2008, quando gli uomini delle Fiamme gialle hanno potuto appurare la presenza sul terreno di rifiuti speciali molto pericolosi. In particolare, sono state le lastre sfaldate di amianto a destare la maggiore preoccupazione.Una vicenda del tutto simile a quanto accadde in maggio a San Donato, in una discarica abusiva scoperta sempre dai militari della Guardia ndi Finanza: in quel caso, grazie al particolare tipo di rifiuti abbandonati in un campo, fu possibile risalire ad uno dei responsabili. (28)

*Sembra che questa sarà un’estate calda per il territorio neretino. Dopo il grave incendio che ha distrutto la zona della Sarparea, sono andati a fuoco vari ettari di terreno distribuiti nell’immenso agro di Nardò. Incendi di origine dolosa, che destano preoccupazione.Gli episodi più gravi si sono avuti in una zona accanto alla pista ‘Gioppo kart’ e in località Monteruga, al confine con Veglie.Bruttissimo l’incendio che nel pomeriggio del 24 giugno 2008 ha distrutto il giardino attorno ad una villa privata. Quasi un ettaro in fuoco, oltre al giardino con tutto il suo arredo, molti alberi, per lo più pini, e due dipendance in legno e tegole. Fortunatamente salva l’abitazione principale. Dalla villa l’incendio si è propagato al recinto della pista di go-kart ‘Gioppo’, distruggendo fra l’altro attrezzi di plastica e gomme conservate in un magazzino. Nonstante il pronto intervento dell’Ispettorato delle Foreste. dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile, lo forza del fuoco ha provocato danni per molte migliaia di euro ad entrambe le strutture. Tre ettari di terreno in fumo e rischi addirittura all’interno della pista della Prototipo sono invece le conseguenze di un incendio in località Monteruga.A bruciare stavolta è stata la macchia mediterranea insieme a campi coltivati ed alcuni alberi di ulivo. Le fiamme si sono propagate anche ad una zona interna all’anello della pista, tanto che è intervenuta l’autobotte di proprietà della saocietà Prototipo.Il pomeriggio caldo non ha risparmiato neanche le marine. Nei pressi del Villaggio Resta, ardevano tre ettari di erbacce in un terreno incolto. Un altro incendio, anche in questo caso di vaste proporzioni, si è invece verificato in contrada Torre Mozza,

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bruciate molte sterpaglie. Incendi di più piccole dimensioni si sono registrati al confine con Porto Cesareo e verso Riva degli Angeli. (28)

*Prosegue senza sosta l’attività delle Fiamme Gialle e della Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza a tutela dell’ambiente. Nell’ambitro di specifici controlli finalizzati a prevenire e a reprimere gli illeciti in materia ambientale, compiuti lungo il litorale ionico-tarantino, i militari della Sezione Operativa Navale hanno individuato, il 26 giugno 2008, una vasta area utilizzata come discarica abusiva di rifiuti classificati come speciali e pericolosi. La zona, di circa 76000 metri quadrati, è stata posta sotto sequestro ed una persona ritenuta responsabile di violazione delle norme a tutela dell’ambiente è stata denunciata alla magistratura.I militari hanno provveduto anche alla quantificazione dei rifiuti trovati, pari a circa 1.300 tonnellate. Nell’area finita sotto sequestro sono stati trovati cumuli di diversi materiali fra cui eternit, pneumatici ed elettrodomestici usati, plastica e materiali di risulta di lavori edili.L’operazione è stata condotta dai militari della Stazione Navale con i colleghi del Nucleo di Polizia Tributaria, per gli ulteriori sviluppi in materia di polizia economico-finanziaria nonché di applicazione della cosiddetta ecotassa. Questo tipo di servizi si inquadra nell’ambito di una azione a tutela dell’ambiente che in provincia ionica vede le Fiamme Gialle impegnate in prima linea, anche alla luce delle convenzioni stipulate di recente tra la Guardia di Finanza e la Regione in materia di monitoraggio dei siti inquinati nell’ambito del territorio pugliese.Com’è noto, i rifiuti vengono smaltiti spesso illecitamente per ridurre notevolmente i costi. Ma aggirare le norme che regolano questo tipo di attività significa rischiare di provocare danni ingenti all’ambiente, soprattutto quando nelle discariche abusive vengono abandonati rifiuti come l’eternit che logorato dalle intemperie libera fibre di amianto. (28)

*Una discarica abusiva di oltre 7mila metri quadri è stata sequestrata dalla Guardia di Finanza a Giovinazzo (Bari), in contrada Cappuccini. All’operazione hanno preso parte anche gli elicotteristi delle Fiamme Gialle e i volontari del Wwf. L’area era controllata nelle ultime settimane dalle guardie volontarie del Wwf per verificare eventuali e ulteriori abbandoni di rifiuti pericolosi. (28)

*Era da poco trascorsa l’una del pomeriggio del 28 giugno 2008, nella zona di Monte Cucco, a Santa Maria di Leuca. Lo spettacolo che si è presentato è stato terribile. Un inferno di fuoco e di fumo che, alimentato dal vento, si dirigeva verso alcune abitazioni. Immediatamente è scattato l’allarme, ma il fuoco non dava tregua.

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due ore per spegnere le fiamme. La conta dei danni parla di cinque ettari tra pini e macchia mediterranea inceneriti. L’origine del rogo è quasi sicuramente colposa. Le sterpaglie presenti sul ciglio stradale, probabilmente arse per un mozzicone, avrebbero originato l’incendio. (28)

TRAFFICO DI ESSERI UMANIVi è poi il traffico di esseri umani, dove dobbiamo segnalare una nuova ondata di tanti piccoli Amir, in fuga da zone di guerra, profughi in Italia, i cui nomi e relative vite riempiono scarni fascicoli, al massimo tre pagine di storia personale, sui tavoli del Tribunale per i minorenni di Bari chiamato a nominare un tutore per la loro richiesta d’asilo politico. Un fenomeno in aumento, in particolare di afgani, per il quale esistono pochi rimedi, strutture insufficienti, nessuna mediazione culturale.La storia di ciascuno di loro è simile alle altre: un prezzo da pagare ai trafficanti, dai 1.500 ai 3.000 euro, a seconda delle misure di sicurezza che si adottano durante il lungo viaggio e della destinazione finale. Il pacchetto più alto non prevede soste intermedie e l’arrivo tanto desiderato in località del nord Europa. Nessuna garanzia, per carità, solo qualche possibilità in più. I 1.500 euro, invece, non sono ritenuti cifra degna, dalle organizzazioni criminali, che per integrarla costringono i ragazzini a lavorare in Iran o Turchia, sfruttandoli per qualche mese prima di portarli a Bari.Il viaggio, poi, è un’altra terribile incognita: piazzati nel camion o assicurati sotto i mezzi con cinghie, spesso all’insaputa degli autisti, partano dai porti della Grecia. Arrivati a Bari, se va bene, proseguono la corsa su strada fin quando è possibile. Quando i camionisti se ne accorgono, sempre che nel frattempo i ragazzini (sono sempre più di uno) non muoiano durante il viaggio, chiamano la polizia o li abbandonano lungo il tragitto. In quest’ultimo caso, i clandestini chiamano i basisti dell’organizzazione e rientrano nel giro.Un destino altrettanto orribile è riservato a quelli che, scoperti al porto barese dalla polizia di frontiera, vengono rispediti in Grecia, primo Paese di arrivo. I ragazzini vengono cacciati anche da lì, perché la Grecia, in violazione della Convenzione di Dublino, ha bloccato tutte le procedure di richiesta di asilo politico. I minori afgani, quindi, ritornano a Bari e spesso nella rotta fra i due porti, spariscono. Molti di loro, raccontano gli atti giudiziari di altre Procure, vengono ritrovati alla stazione Ostiense di Roma, dove in pieno giorno alimentano la prostituzione minorile, a vantaggio di clienti della “Roma bene”. Per altri c’è lo spettro del traffico di organi.E allora diventa una possibilità di vita essere scoperti dalla polizia di frontiera, che per legge segnala la loro presenza ai servizi sociali e all’autorità giudiziaria. I minorenni stranieri, non accompagnati e richiedenti asilo, finiscono così in una comunità del barese, che purtroppo non è preparata per curarne le esigenze. Si tratta di strutture a numero chiuso, dove è una fortuna entrare e dove vivono anche minori destinatari di ordinanze di custodia cautelare.Lì proprio per scarsa preparazione specialistica, nessuno spiega a questi ragazzini spaesati che possono usufruire della tutela prevista per legge. E così loro scappano

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finendo nuovamente nelle mani dei trafficanti: l’80 per cento dei fascicoli si chiude in breve tempo per irrintracciabilità dei minorenni. Di loro non se ne sa più nulla. (6)

*Il blitz Ebano della sezione criminalità extracomunitaria della squadra mobile di Foggia è partito all’alba del 15 marzo 2008 e ha portato all’arresto di 5 nigeriani e libanesi che vivono a Stornarella (4 donne e il compagno di una di loro), accusati a vario titolo di sequestro di persona; maltrattamenti sotto forma di pestaggi e cibo negato; favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione; favoreggiamento della permanenza in Italia di clandestini.L’inchiesta è nata dalla denuncia di una nigeriana costretta a prostituirsi sulla statale 16 che nel luglio 2006 chiese aiuto alla polizia, che è andata avanti intercettando 6 mila telefonate tra Foggia, Modena, Nigeria. Una ventina le prostitute nigeriane identificate dalla squadra mobile, ma soltanto una ha deciso di parlare. Il che è indice – rimarcano gli agenti – del clima di terrore in cui vivevano le donne, per paura dei riti woodoo praticati in Africa da stregoni.Pur se non viene contestata l’associazione per delinquere, i poliziotti sono convinti di aver scoperto un giro di prostituzione internazionale che parte dalla Nigeria, attraversa la Spagna e finisce in Italia in varie regioni.L’organizzazione, è convinzione degli inquirenti, <<ha nigeriani che si occupano del reclutamento delle ragazze in Patria e lo fanno spesso con il consenso dei familiari delle ragazze. Per vincolarle vengono esercitati riti woodoo perché le prostitute si comportino bene, altrimenti ne pagheranno le conseguenze loro stesse e i familiari rimasti in Patria. Le ribellioni vengono punite. Abbiamo registrato casi, attraverso le intercettazioni delle indagate con connazionali che vivono in Nigeria, di famiglie di prostitute che si sono impegnate la casa; se le figlie non avessero riscattato il debito, che va dai 20 mila ai 50 mila euro, l’organizzazione si sarebbe rivalsa sulla famiglia>>.Il passaggio successivo al reclutamento è far arrivare le prostitute in Italia, via Spagna. Ma per dare un quadro realistico del reclutamento e del viaggio a cui sono sottoposte per raggiungere il posto di lavoro, trascriviamo i punti essenziali della descrizione rilasciata dalla donna che ha denunciato il losco traffico. A 18 anni <<in Nigeria ho conosciuto un ragazzo che guidava taxi, mi disse di avere un fratello che viveva in Europa e che c’erano persone che l’avevano aiutato ad andare lì, e che avrebbero potuto aiutare anche me. Era la fine di gennaio 2006. Il mio amico mi portò a casa di... un signore che pratica il woodoo: c’era una donna con lui che mi disse che in Europa avrei facilmente trovato un lavoro e mi chiese 50mila euro per condurmi in Europa. Non sapevo a cosa corrispondesse nella nostra moneta quella cifra e pensando che si trattasse di una cifra molto inferiore, ho accettato senza troppe esitazioni. La donna mi disse che prima di partire avrei dovuto fare il woodoo, così avrei avuto la certezza che avrei pagato il mio debito una volta in Europa>>. Chi praticava il woodoo metteva in contatto le ragazze che volevano

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andare via dalla Nigeria con donne che vivono in Europa <<e mi chiese 5mila euro per la mediazione>>.<<Il 19 marzo 2006 partii per il Laos con..., poi arrivai in Costa D’Avorio, il 20 marzo presi l’aereo per Tunisi e da lì in aereo sono arrivata in Spagna e sempre in aereo a Napoli, dove ho preso un treno per Foggia; con me c’era sempre... Era la sera del 31 marzo 2006, alla stazione di Foggia c’era ad attenderci “madam”. Il mio accompagnatore mi lasciò costringendomi a dargli il passaporto, dicendomi che non mi sarebbe più servito, né l’ho più rivisto>>.A Foggia, come abbiamo letto, venivano prese in consegna dalle protettrici – le “madame” arrestate nel blitz Ebano – alle quali consegnavano i soldi incassati, incontrando decine di clienti sulla statale 16. <<Ogni “madame” ha il proprio territorio – ha detto il capo della squadra mobile – dove le ragazze si prostituiscono, territorio che si può fittare a qualche altra protettrice. Sono emersi collegamenti con analoghi protettori che operano in Emilia Romagna per cui quando una prostituta creava problemi, o era controllata ripetutamente dalle forze dell’ordine, la si spostava. Abbiamo anche accertato l’istituzione di una cassa comune, denominata “meeting”, dove tute le prostitute sfruttate mensilmente versavano una parte dei loro guadagni sino ad un ammontare di mille euro, soldi che a turno venivano prelevati dalle “madame”>>. La versione offerta dalla ragazza agli organi inquirenti è stata ritenuta assolutamente attendibile tant’è che il gip nell’ordinanza di custodia cautelare scrive: <<la credibilità della ragazza è corroborata anche dal contegno assunto al momento della ricognizione dei luoghi effettuata con la squadra mobile: alla vista dell’abitazione ove la tenevano segregata, ha avuto un cedimento emotivo>>.

*Per avviarle alla prostituzione non vi sono soltanto le nigeriane, anche le romene attirate in Italia con la promessa di lavoro, letteralmente vendute ai protettori, violentate e costrette a prostituirsi. Colombiane che fittano periodicamente monolocali al <<Salice nuovo>> per incontrarvi i clienti, previo appuntamenti fissati sul telefonino. Una casa a luci rosse in pieno centro con cinesine in camera da letto e clienti in coda. Sono le inchieste a lungo termine (tre negli ultimi quattro anni, entrambi della squadra mobile), gli arresti in flagranza e le denunce occasionali a disegnare la mappa della prostituzione a Foggia e in provincia.Negli anni Novanta, soprattutto sul finire, la città fu ‘invasa’ da albanesi e nigeriane che si prostituivano nei pressi della stazione e che pullulavano sulla statale 16, in tutto il tratto tra Cerignola e San Severo; sulla Foggia-Manfredonia. Decine di retate, controlli pressanti, denunce, arresti, fogli di via sull’onda della protesta dei cittadini, consigliarono le <<donne allegre>> (ma conoscendone le storie di povertà, sfruttamento e violenza di allegro non c’è davvero nulla) ad una presenza meno massiccia e imbarazzante. E fu proprio sul finire degli anni Novanta che a Foggia e San Severo si registrarono gli omicidi di due prostitute dell’est europeo, i cui

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responsabili non sono mai stati identificati; delitti indicativi degli interessi dell’affare prostituzione e della spietatezza di chi lo gestisce.Adesso le prostitute sono principalmente straniere, gestite da organizzazioni di connazionali, pur se quando vengono controllate dicono sempre di ‘battere’ per conto proprio e di non avere nessun protettore. Le tre indagini a lungo termine sul fenomeno della prostituzione – tutte condotte dagli agenti della sezione criminalità straniera e prostituzione della squadra mobile – dicono il contrario. Il 6 aprile del 2004 scattava il blitz Iside con l’emissione di 7 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di 3 foggiani (arrestati) e 4 romeni (uno solo è stato arrestato, gli altri sfuggirono al blitz) accusati a vario titolo per associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, violenza sessuale e riduzione in schiavitù. Fu il dramma di una romena, ricoverata in ospedale per un tentativo di suicidio, a svelare i retroscena del giro. Era arrivata in Italia convinta dal fidanzato rumeno, che poi l’aveva venduta ad un connazionale, il quale l’aveva violentata. Se il ‘ceppo’ romeno si occupava di reclutare le ragazze da mettere su strada, i foggiani procacciavano clienti – diceva l’accusa – mostrando loro le ragazze e talvolta accompagnandole sul posto di lavoro, la circonvallazione di Foggia. Nel processo di primo grado cinque condanne.Il primo giugno del 2006 con il blitz ‘Butterfly’ e 4 ordinanze di custodia cautelare emergeva un giro di ragazze romene che si prostituivano vicino Foggia: erano sfruttate da connazionali e albanesi che spesso cambiavano le ragazze con altri gruppi e che con frequenza telefonavano in Romania per sapere quando sarebbe arrivata la nuova ‘merce’.

*Finalmente il 4 aprile 2008, “Salice nuovo”, uno spicchio a luci rosse è stato chiuso con il sequestro di 13 mini-alloggi, per la gioia dei cittadini che inondavano di esposti le forze dell’ordine (l’ultimo giunto proprio mentre i carabinieri mettevano i sigilli alle case) e per il dolore dei tanti clienti che frequentavano le prostitute colombiane e rumene pagando dai 50 ai 100 euro per ogni rapporto sessuale.L’operazione dei carabinieri del nucleo operativo della Compagnia dauna e della Procura, basata su riprese filmate e interrogatori di alcune prostitute ha portato all’arresto bis di Celestino Magnatta, imprenditore già noto alle forze dell’ordine, detenuto da una mese per una vicenda analoga. Magnatta – nel suo passato arresti e assoluzioni per estorsione e usura ed un agguato misterioso al quale sfuggì nel gennaio 2004 – è il proprietario delle case d’appuntamento. Secondo l’accusa non poteva non sapere che le inquiline si prostituivano in quegli alloggi fittati per 500 euro al mese.Magnatta è stato accusato di esercizio di casa di prostituzione, in violazione della legge Merlin che nel 1958 abrogò le <<case chiuse>>. L’ordinanza cautelare gli è stata notificata nel carcere di Foggia dove è detenuto dal 3 marzo 2008 sul provvedimento di cattura furono gli agenti della squadra mobile ad arrestarlo per

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favoreggiamento della prostituzione. L’accusa gli contestava di aver fittato le case al Salice nuovo a prostitute nel periodo che va dal luglio 2003 al novembre 2005.Sostanzialmente gli stessi fatti contestati nel nuovo provvedimento di cattura – sia pure con una diversa imputazione – per un periodo che va dal novembre 2006 al marzo 2008.La novità dell’indagine è rappresentata dal sequestro di 13 alloggi occupati da prostitute rumene, identificate e sloggiate. Il valore delle case sequestrate – hanno detto gli inquirenti durante la conferenza stampa di presentazione dell’intervento repressivo – ammonta a 2milioni di euro.L’indagine è partita nel novembre 2006, con il monitoraggio del quartierino a luci rosse, con il filmini dei carabinieri che hanno ripreso le donne mentre si mostravano ai clienti, ricevendoli in casa. Il passo successivo dell’indagine è stato quello di accertare chi fosse il proprietario degli alloggi. (19)

*A due prostitute albanesi, giunte di recente in Italia, che esercitavano il mestiere sulla statale ‘16’, all’altezza del bivio per Stornara, un cerignolano le avvertiva, minacciandole, che lì comandava Alfredo. Si tratta di Afrin Bayrakurti, albanese, nominato Alfredo, senza fissa dimora che abitava presso amici in Largo Spontavomero a Cerignola, già destinatario di un decreto di espulsione emesso dal Questore di Foggia, il 26 settembre 2007 e rimasto inosservato. Infatti Alfredo si era fatto vivo con le due ragazze (l’una di 27 anni, l’altra di 18 anni) imponendo loro il prezzo del suo ‘comando’: 150 euro alla settimana per la meno giovane, 200 per la diciottenne.La cosa è andata avanti per un po’, ma i controlli effettuati dagli agenti del Commissariato di Cerignola ha portato all’arresto dello sfruttatore. I poliziotti della giudiziaria erano riusciti a conquistare la fiducia delle due ragazze che avevano raccontato loro di essere giunte consapevolmente in Italia per prostituirsi, considerandolo un vero e proprio lavoro.Tra l’altro la 27enne aveva detto di avere quattro figli in patria e che era quello l’unico modo per mantenerli. Poi era spuntato fuori il nome di Alfredo ed il suo ruolo di sfruttatore. I poliziotti erano riusciti a convincere le due ragazze a tendere una trappola all’albanese ed erano stati attivati servizi di monitoraggio fino a quando non sono riusciti ad incastrarlo.Le due ragazze gli hanno consegnato alcune banconote da 50 euro che erano state precedentemente fotocopiate ed il giovane ha intascato il denaro. A quel punto gli agenti sono usciti allo scoperto e l’albanese è stato bloccato ed arrestato negli ultimi giorni di aprile 2008. Un episodio che conferma il controllo degli albanesi, da non molto, sulla prostituzione al punto che le donne di colore che prima lavoravano sulla

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‘16’ sono state progressivamente sostituite da giovani provenienti dal Paese delle Aquile.Nel 2006 la polizia aveva arrestato tre albanesi per lo sfruttamento di prostitute sulla statale per Foggia, senza evidentemente smantellare un’organizzazione che ancora opera in zona. (19) ESTORSIONI - USURA Il Rapporto di “Sos Impresa” della Confesercenti colloca la nostra regione tra i primi territori in Italia per numero di estorsioni ben il 30% dei nostri commercianti subirebbe la tassa imposta dai malavitosi. Altrettanto dicasi per l’attività usuraia.Non c’è settore economico che i salvi dalle mani delle mafie: persino per la vendita di frutti di mare sui banchetti napoletani si deve pagare il ‘pizzo’; persino sul pane venduto di domenica sulle bancarelle la criminalità fa affari (a Napoli si pensa ad un giro annuo di 500 milioni). Dal turismo alla moda, dall’agricoltura agli appalti, dai video-giochi alla pesca è tutto business per “Mafia spa”, come è stata definita da Confesercenti. E, infatti, con i 90,5 miliardi di fatturato, pari al 7% del Pil nazionale, pari a 5 manovre finanziarie, 8 volte il mitico ‘tesoretto’, l’Azienda mafia è la prima in Italia, alimentata da estorsioni, furti, rapine, contraffazioni, contrabbando, imposizioni di merci e controllo degli appalti. E’ una ragnatela gigantesca che strozza l’economia italiana e in particolare quella meridionale, soprattutto intorno alle grandi città. Luca Ricolfi, nel suo libro, Le tre società, valuta il fatturato delle organizzazioni criminali in 93 miliardi di euro (‘ndrangheta 35 miliardi; cosa nostra 30 miliardi; camorra 28 miliardi).Il fatturato dell’Azienda a confronto con i Grandi Gruppi (in mld di euro)

Exxon

(petrolio)

Walmart

(supermercati)

Mafia Philips Morris

(tabacco)

ENI

(idrocarburi)

Gruppo FIAT

Microsoft

(informatica)

ENEL

(energia)

270 247 90,5 90 86 52 40 38,5Fonte: l’Unità del 23.10.2007

Il quadro fornito dal rapporto è terribile, anche perché non sono soltanto le piccole o micro imprese preda delle mafie, ma anche i grandi imprenditori che investono, per esempio, nella costruzione della Salerno-Reggio Calabria e che cedono nonostante la loro forza economica spesso premiata dalla Borsa perché <<conviene così>>.Naturalmente per il settore del commercio sono il pizzo e l’usura gli strumenti con cui gli operatori vengono particolarmente strangolati. In Italia i commercianti taglieggiati sono 160.000 oltre il 20% dei negozi italiani. Cifre che in Puglia crescono: è il 30% pari a 17 mila esercizi, concentrati prevalentemente a Bari, Foggia e nord barese, dove si toccano punte del 50%. Nell’hinterland e nelle periferie dei capoluoghi paga praticamente il 100% delle imprese. Pressappoco un terzo dei colpiti è in Sicilia. In questa regione sarebbe coinvolto il 70% delle imprese, che sale all’80% a Catania e Palermo. In Calabria sarebbero

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15.000 quelli che pagano il “pizzo”, cioè la metà del totale; Reggio Calabria, poi, avrebbe il primato, perché qui la quota degli estorti raggiungerebbe ben il 70% dei commercianti. A Napoli, nel nord Barese e nel Foggiano saremmo a quota 50%, con punte, nelle periferie e nell’hinterland di queste città, per la quasi totalità delle attività commerciali, della ristorazione e dell’edilizia.In queste zone, si afferma nel rapporto, <<gli unici a non pagare il pizzo sono le imprese già di proprietà dei mafiosi o con cui essi hanno subito rapporti collusivi e affaristici>>. Molto forte la pratica del pizzo anche nel Salento, meno, invece, a Brindisi e Taranto. La mappa del pizzo del mondo del commercio sarebbe questa: in Sicilia i commercianti coinvolti sono 50.000, cioè il 70% del totale; in Calabria la percentuale scende al 50%, pari a 15.000; 40.000 sono in Campania (40%); in Puglia i commercianti coinvolti sono 17.000 (30%), in Basilicata 1.000 (10%); 6.000 nel Lazio (10%); 2.000 in Abruzzo (10%); 5.000 in Lombardia (5%); 2.000 in Piemonte (5%); 2.000 anche in Emilia-Romagna (5%); mentre nelle altre regioni i commercianti costretti a pagare sono 20.000, pari al 6% del totale.Naturalmente non tutti subiscono passivamente, senza reagire: in Puglia si registra il 10,4% (dal 10,5% del 2005) di denunce per estorsione, ma mentre la percentuale in Campania è in aumento, nel 2006 si è raggiunto il picco di denunce con il 21% , al contrario in diminuzione in Sicilia (dal 10,5% al 10,2%) e Calabria, quest’ultima con il dato più basso(dall’8,6% al 7,2%). Cifre lontanissime dalla media del resto d’Italia: 49,72% nel 2006, quasi 4 punti sotto rispetto al 2004. Incrociando i dati delle denunce con altri reati di intimidazioni di vario tipo è stato ricavato un “indice sintomatico dei fatti estorsivi” (tra denunce, incendi, danneggiamenti, attentati) che vede Foggia al primo posto nella graduatoria pugliese, ma al decimo in quella italiana (seguono Brindisi e Bari al tredicesimo e quattordicesimo posto, Lecce e Taranto al ventesimo e ventunesimo). Sos Impresa, inoltre ci fornisce i dati dell’esercito della mafia: composto da circa 20.000 affiliati. In particolare fanno parte di ‘cosa nostra’ 5.500 soggetti, alla ‘ndrangheta ne appartengono 6.000, alla ‘camorra’ 6.700 e alla ‘sacra corona unita’ 2.000. La camorra genera un giro d’affari annuo pari a 28 miliardi di euro, la ‘ndrangheta arriva a 35 miliardi e cosa nostra fattura 30 miliardi. Sarebbero, poi, 150.000 quelli coinvolti in rapporti usurai, di cui almeno 50.000 sarebbero indebitati con associazioni per delinquere di tipo mafioso. La metà del totale dei commercianti italiani, che ricorrono all’indebitamento usuraio, si concentrerebbe in Campania, Lazio e Sicilia. In rapporto al numero di attivi, la Calabria primeggerebbe con 30%, seguita da due regioni, ritenute libere da radicamento mafioso, il Molise (28%) e il Lazio (29%). In Puglia sarebbero 14.500 commercianti coinvolti in rapporti usurai, cioè il 19% sul totale dei commercianti in regione, con un giro d’affari intorno ai 1.250 euro, <<fenomeno sociale diffuso, che si espande secondo la congiuntura economica>>. Ecco perché Taranto è la prima delle città pugliesi ad esserne colpita.

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Il giro d’affari complessivo dei reati a danno dei commercianti è di 77,8 miliardi di euro. Di cui 30 mld provengono dall’usura, 10 mld dal racket, 7 mld da furti e rapine, 4,6 mld dalle truffe. Vi è poi l’impietosa fotografia che scatta lo studio di Confcommercio-Gfk Eurisko. Da questa ricerca risulta che la Puglia è una delle capitali del racket delle estorsioni. Seconda soltanto alla Campania e batte perfino regioni come Sicilia e Calabria. Il 22% degli imprenditori pugliesi si trova a versare il pizzo.Ma andiamo con ordine. Secondo lo studio citato, l’8% degli imprenditori italiani nei settori del turismo, del commercio e dei servizi dichiara di essere vittima del racket. In testa alla classifica dei taglieggiati c’è la Campania (30%). Seguono: Puglia (22%), Sicilia (15%), Basilicata e Calabria (12%). Il dato crolla al 2% in Umbria, Marche, Trentino e Friuli. Alto è anche il numero degli imprenditori (11%) che dichiara di aver avuto esperienza ‘indiretta’ del racket conoscendo colleghi vittime degli estortori. In Campania il 30% degli intervistati ha risposto affermativamente al sondaggio. In Basilicata e Calabria la percentuale scende al 24%, in Puglia al 19%, in Sicilia al 17%. Numeri più bassi in Sardegna (3%), Marche e Umbria (5%), Trentino e Friuli (6%).Si materializza così una vera e propria mappa della criminalità. La Puglia sale sul podio del malaffare, ancorché è tra le realtà ‘più reattive’ ai clan: se in Italia appena il cinque per cento dei titolari di ditte piccole o medie denuncia i ricatti, da queste parti la percentuale si raddoppia, sale cioè al dieci per cento. Sono gli stessi che cercano di difendersi come possono, al di là dell’intervento delle forze dell’ordine: essere assicurati lo considerano un salvagente (25%), oppure fanno ricorso alla vigilanza privata (28%), né disprezzano l’installazione di telecamere (19%) e di vetrine corazzate (11%). Ma c’è il 26% dei diretti interessati che veste i panni della maggioranza silenziosa e ostaggio inerme delle cosche.Proprietari e gestori di queste attività - anche in questo caso il 22% e sempre secondi alla Campania – inoltre, spesso nonché malvolentieri finiscono per essere imbrigliati nella rete degli usurai da cui non riescono più a liberarsi.Su questi dati esprime le sue perplessità il sottosegretario alla Giustizia Alberto Maritati che li considera il frutto di un inganno. Pur convenendo sulla rispettabilità delle analisi, avanza dubbi sulla classifica del malaffare così come stilata, tenuto conto che lo stesso reato in Calabria, così come in Sicilia, raggiunge livelli pazzeschi, ancorché non c’è lo straccio di una denuncia.Ciò non toglie che la situazione è tutt’altro che confortante. D’altra parte questi dati fanno il paio con una delle ultime analisi elaborata dal Ministero dell’Interno quando si trattò di mettere a punto il programma operativo destinato ad assicurare la “sicurezza per la sviluppo del Mezzogiorno”. Il Viminale marchia come <<province a forte condizionamento criminoso>> quelle di Foggia e Lecce, dove estorsori e usurai recitano il ruolo di padroni incontrastati, o quasi, del territorio. Salento e Capitanata poi fanno registrare una <<elevata mortalità e natalità di imprese>> è <<il probabile

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sintomo del tentativo di penetrazione nell’economia legale da parte della criminalità organizzata>>.Quelle di Bari, Brindisi e Taranto invece sono <<aree che un tempo presentavano significativi apparati industriali oggi in via di smantellamento>>.L’ultimo rapporto sulla sicurezza del Ministero dell’Interno informa che sono aumentati di circa il 45% in cinque anni i reati di estorsione denunciati alle autorità giudiziarie: da 3.628 casi nel 2002 si è passati a 5.288 nel 2006. Crescono anche le domande delle vittime delle estorsioni per accedere ai benefici del Fondo di solidarietà. In Italia nel primo semestre del 2007 sono state 130 in più del 2006. Il Comitato del Viminale, che gestisce il fondo, tra gennaio e agosto dell’anno in corso ha erogato complessivamente 17 milioni e 431 mila euro a chi ha subito estorsioni o usura; una cifra equivalente a circa 6 milioni e mezzo in più rispetto allo stesso arco temporale del 2006. La fetta maggiore è toccata alle vittime del racket: 10 milioni e 186 mila euro. Per le estorsioni la regione che ha ottenuto i maggiori benefici previsti dalla legge è stata la Calabria con 4 milioni e 198 mila euro. Al secondo posto, la Sicilia con 3 milioni e 326 mila euro, seguita dalla Campania (1 milione e 187 mila euro) e dalla Puglia (quasi 399 mila euro). Nel 2005 erano 155 i procedimenti penali in corso nei tribunali pugliesi per reati di estorsione.

Le tasse della mafia

Venditori e ambulanti

Commercianti al dettaglio

Commercianti all’ingrosso

Alberghi e ristoranti

Costruzioni

Appalti lavori

autostradali

Importi mensili in € 60 457 508 578 2-4 17.000Fonte: Ricerca “I costi dell’illegalità”Fondazione Chinnici, Università di Palermo, Associazioni Industriali

L’economia della mafia

Denaro movimentato

% gestita dalla criminalità organizzata

Costi per i commercianti

Commercianti colpiti

USURA in mld € 30 36 12 150.000

RACKET in mld € 10 95 6 160.000

La situazione in Puglia

Le province più a rischioIndice Ise* Indice Ise*

1 Vibo V. 16,2 11 Cagliari 5,92 Caltanissetta 15,4 12 Cosenza 5,73 Reggio C. 10,2 13 Brindisi 5,64 Messina 9,5 14 Bari 5,05 Crotone 7,3 15 Ragusa 4,8

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6 Enna 7,0 16 Agrigento 4,77 Siracusa 6,9 17 Trapani 4,58 Catanzaro 6,7 18 Caserta 4,49 Palermo 6,3 19 Benevento 4,2

10 Foggia 6,2 20 Catania 3,5Fonte: Confesercenti. (*) Ise (indice sintomatico di fatti estorsivi) è un indicatore che incrocia i dati delle denunce con il numero di intimidazioni alle aziende di richieste di pizzo, d’incendi dolosi e di attentati.

Come si è letto Foggia compare tra i primi dieci posti nella classifica delle province a rischio racket, Brindisi e Bari rispettivamente al 13° e 14° posto. Taranto non appare in questa autentica “zona rossa” delle attività estorsive, ma non per questo può dirsi al sicuro.Numerosi gli episodi, anche recenti, che segnalano la presenza sul territorio del fenomeno criminale. Il 13 agosto 2007 un blitz della polizia, effettuato tra Brindisi, Ostuni, Carovigno e San Vito, ha portato all’arresto di 12 persone, accusate di estorsione ed usura. L’operazione delle forze dell’ordine hanno portato a sgominare il clan così detto delle ‘asteggiudiziarie’. Tra gli arrestati anche un gioielliere. Alla fine di agosto 2007 un attentato è stato compito nella panetteria “Sisma” di Ceglie Messapica. Ma una serie di episodi riguardano anche Lecce e Taranto, come la distruzione di tendoni di uva a Torricella.A Bari dopo una netta flessione registrata nel 2005, il numero delle estorsioni è tornato ad aumentare. Le fonti della Corte d’Appello di Bari parlano del +18%. Così riferisce Carmela Formicola, sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 6 settembre 2007. Nel 2006 la Procura della repubblica di Bari ha accertato un numero doppio di reati: 184 rispetto ai precedenti 98. Il Presidente della Corte d’appello di Bari si dice preoccupato per come si è sviluppata, negli ultimi tempi, l’attività estorsiva. Questa è verosimilmente gestita da associazioni che ricorrono all’autofinanziamento da investire nei traffici di armi e sostanze stupefacenti. <<L’esiguo numero di denunce sporte alle autorità – aggiunge il Presidente – non consente l’effettiva percezione del fenomeno che costituisce una vera e propria piaga sociale sul territorio barese e foggiano, per essere la causa determinante del collasso delle aziende e dell’indebitamento familiare per quanti non in grado di garantire il prestito, non possono ricorrere al credito di banche ed istituti finanziari>>.I commercianti e gli imprenditori, secondo l’articolo di stampa della Gazzetta del Mezzogiorno, vivono fino in fondo il clima dell’intimidazione; nonostante il numero degli arresti, per questo reato, sono aumentati. Sono moltissimi i fascicoli di indagine aperti su iniziative delle stesse forze di polizia, a seguito di denunce delle associazioni antiracket, e varie informazioni provenienti da collaborazioni ufficiali o ufficiose. Altre inchieste rientrano nel più ampio filone di indagine sulla criminalità organizzata.La Squadra Mobile della Questura intercettò una lettera che il boss Antonio Capriati aveva spedito ad uno dei suoi luogotenenti sul quartiere, dal suo clan controllato. Il boss sollecitava di organizzare un giro di vite di richieste a commercianti ed imprenditori in occasione del periodo natalizio.

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Le vittime preferite rimangono i commercianti e i piccoli e medi imprenditori. racconta l’articolo di stampa che <<l’entità delle tangenti rimane basso: 500 euro mensili, talvolta 1000, in alcuni casi 2000. Ci sono personaggi che chiedono il pizzo una tantum, altri che non pretendono soldi ma che saccheggiano con frequenza la vittima di turno senza mai pagare la merce presa o la consumazione (è il caso dei ristoranti)>>.Da uno studio del fenomeno fatto dai poliziotti della squadra mobile di Bari, che recentemente hanno concluso alcune inchieste, riuscendo a stanare i responsabili, emergono i numeri del fenomeno e soprattutto i quartieri di Bari, dove gli imprenditori devono fare i conti con le continue richieste di pizzo. Al rione Carrassi-San Pasquale usura e pizzo sono <<in netta espansione>>. Questo genere d’affari nei clan baresi viene spesso affidato alle donne. Molto più prepotenti, arroganti, aggressive dei loro mariti o figli. A dimostrarlo è sempre un’indagine della polizia, che l’anno scorso (2007) ha smascherato nove donne appartenenti alla cosca dei Capriati che arrivarono addirittura a picchiare i commercianti che si rifiutavano di pagare la tangente. Le zone di Bari vecchia e del murattiano erano sotto il dominio dei Capriati, mentre i titolari delle botteghe pagavano in silenzio. In caso contrario venivano picchiati e mandati in ospedale.FURTIIl furto si è arricchito di una nuova mania, che dilaga in tutte le province pugliesi, ma in particolare nel Barese. Chi si cimenta in questa, apparentemente singolare, attività si è fregiato del titolo “bastardo del rame”. Finora erano noti perché rubando i cavi che alimentano il traffico su rotaie, hanno lasciato decine di treni in panne.Ora stanno mettendo in pericolo l’intero sistema regionale di gestione dell’acqua. In alcune aree la campagna irrigua non può partire a causa dei furti e degli atti vandalici.Si tratta di una emergenza senza precedenti.Sommando i dati si scopre, che solo nel Barese, dal 2007 al primo quadrimestre del 2008 sono state condotte 117 azioni predatorie, su un totale di circa 200 impianti. Siccome per pompare l’acqua dal sottosuolo o per distribuirla agli acquedotti, è necessario usare sistemi di sollevamento alimentati elettricamente, ogni colpo messo a segno, di fatto, blocca l’erogazione della risorsa idrica in una o più aree. Spiega alla Gazzetta del Mezzogiorno un funzionario del Consorzio di Bari: <<In un trasformatore ci sono 7 o 8 chili di rame che, al mercato nero, vale 4 o 5 euro al chilo. Per prelevare il metallo questi rompono il trasformatore....per cui la collettività dovrà comprare un nuovo trasformatore. Il costo è elevato...>>.Le azioni delinquenziali hanno ridotto del 50 per cento le attuali capacità di fornire risorsa idrica per irrigare. Si sarà costretti per alcuni territori di Minervino Murge a rimandare l’avvio della stagione irrigua. Un danno enorme e un’ecatombe per le vere vittime dei ladrti di rame: chi vive di agricoltura.Gli operatori addetti alla gestione dell’acqua sospettano che non si trovi di fronte a disperati od improvvisati, sa dove mettere le mani. Sono professionisti – è loro

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convinzione – hanno mestiere. Per esempio, lanciano catene sulla linea elettrica e fanno scattare un cortocircuito che attiva i selezionatori di sicurezza (che sono come dei salva-vita), poi disattivano l’alimentazione dell’impianto con attrezzatura adeguata. Così riescono a portar via pure i cavi sotteranei. Inoltre, resti di falò trovati denunciano che usano il fuoco per eliminare la guaina di plastica che ricopre i cavi. Li rendono anonimi. Infatti, su ogni guaina è stampigliata una sigla che permetterebbe di rislaire a chi li ha venduti e, quindi, a chi li ha comprati.

*Non solo furti di rame, nel Leccese, ma anche di pannelli solari. Ce ne sono stati a macchia di leopardo, in tutta la provincia, soprattutto ai danni delle scuole. La notte del 4 giugno 2008 hanno tentato il colpo grosso che, per fortuna, non è riuscito.Una banda composta da quattro, forse cinque, individui ha tentato di rubare i moduli dell’impianto in fase di ultimazione, da parte della ‘Terni energia’, nelle campagne attorno a Veglie. Si tratta di un grosso impianto, già acquistato da Enel, che dovrebbe servire per l’illuminazione della stessa Veglie e delle vicine Salice Salentino e Carmiano.Li ha messi in fuga la guardia giurata, ne avevano smontati e trasportati 37 in un casolare disabitato, ed altri 43, già svitati, erano pronti a prendere il volo.Qui ci siamo limitati a segnalare il fenomeno, esentandoci così dal trascrivere, per ogni provincia, una lunga sequela, quasi quotidiana, di furti che sarebbe risultata inutile ancorché stucchevole. (19) TRAFFICI INTERNAZIONALI Il fenomeno criminale pugliese è in una fase di ricerca di maggiori spazi di potere, sia in termini territoriali, sia economici, nella società civile e nell’industria del crimine.Le nostre organizzazioni, quindi, sia per settori di interesse che per le modalità operative vanno valutati con parametri diversi da quelli che comunemente sono utilizzati per le altre grosse organizzazioni criminali.La Dda di Lecce ci dice che esiste una sorta di internazionalizzazione di frange della Sacra corona unita, quelle ancora in libertà, con collegamenti in Olanda e Brasile, sempre per l’approviggionamento degli stupefacenti, utilizzando i latitanti trasferitisi in quei paesi.L’immigrazione clandestina è gestita con un coinvolgimento della Grecia in quanto sono trasportati con le imbarcazioni dalla Turchia in Grecia e qui imbarcati per le nostre coste.Dalle indagini condotte dalla Dda è emerso come l’Albania rappresenta una delle piattaforme per la contrattazione mondiale del traffico di cocaina.Rappresenta, o almeno ha rappresentato, una via d’ingresso in Europa, della cocaina proveniente dall’America Latina in sostituzione delle porte d’ingresso spagnole e olandesi.

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La criminalità albanese perciò ha un peso nella gestione di traffici attraverso il canale d’Otranto con trasferimento sulle coste brindisine e la distribuzione delle sostanze (marijuana, eroina, cocaina) in altre zone del territorio in collegamento con gruppi criminali di altre regioni.A conferma di quello che sostiene la Dda viene in soccorso l’operazione Skifteri (il falco che cattura la preda) conclusa il 12 marzo 2008 dalla Dia di Puglia e Basilicata che ha permesso di sgominare un’organizzazione dedita al traffico internazionale di droga (eroina, cocaina, ed ecstasy) con base operativa in Albania e diramazione in Olanda e in numerose regioni italiane. In Puglia per conto del clan operava, in veste di distributore con sede a Barletta, Roland Lame. A lui si rivolgevano alcuni grossisti, anche loro di origine albanese, da tempo domiciliati a Lecce.Nel corso delle investigazioni, che sono state avviate nel 2006, è stato possibile sequestrare 20 chili di droga tra eroina e cocaina e sventare un omicidio che era in fase di esecuzione per regolare contrasti sorti tra i diversi gruppi in Italia.Gli investigatori hanno spiegato che l’indagine ha permesso di ottenere la conferma che i gruppi albanesi hanno assunto un ruolo centrale nei traffici di ogni tipo di droga. Le difficoltà investigative sono legate alle difficoltà di comprensione dei dialetti albanesi che vengono utilizzati nelle conversazioni dai trafficanti i quali non coinvolgono mai in ruoli di responsabilità gli italiani. Alle difficoltà di comprensione si aggiungono quelle legate a sistemi di consegna della merce oltremodo sofisticati e ingegnosi.Il percorso della droga prevede che la merce arrivi dall’Albania, attraverso l’utilizzo di Tir che si imbarcano sui traghetti diretti in Italia oppure che i trafficanti albanesi organizzino il viaggio della cocaina dalla Colombia sino ad Amsterdam e Rottherdam per poi farla arrivare in Italia attraverso l’utilizzo di corrieri di ogni genere, in particolare camionisti.Il punto di riferimento pugliese dell’organizzazione, Roland Lame, si approvvigionava nelle Marche. Portava la droga in Puglia, in grandi quantità, e quindi la distribuiva ai referenti locali.Il Comandante della Dia pugliese evidenzia la necessità che si ponga grandissima attenzione a questo traffico di droga che si presenta come una vera e propria emergenza, perché non si può escludere che si ripeta in Puglia ciò che accadde negli anni Settanta e Ottanta con il contrabbando delle sigarette.Non sono poche le sentenze di condanna passate in giudicato dalle quali emerge l’esistenza di trafficanti che muovono la droga in grandi quantità verso l’Italia e la Puglia. Ma in assenza di accordi bilaterali tra l’Italia e l’Albania quei trafficanti non corrono alcun rischio e possono continuare ad organizzare traffici.Né l’Italia è l’unica area di riferimento dei trafficanti albanesi. Le indagini permettono di documentare l’ingresso di eroina in Italia attraverso i Tir o l’utilizzo di scafi sulla rotta adriatica, ma anche flussi di cocaina che partono dalla Colombia, arrivano in Olanda e da lì in Italia e anche in Grecia.

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Il Comandante della Dia ha tenuto a sottolineare che l’obiettivo principale non è quello di sequestrare la droga, ma di ricostruire i fenomeni di criminalità organizzata. Di capire e intervenire sulle cause che danno vita ai fenomeni mafiosi di criminalità organizzata. E’ importante capire com’è ramificata l’organizzazione. <<Dieci spacciatori arrestati possono essere rimpiazzati da altri 50 giovani che pensano di fare facili guadagni con lo spaccio>>.Un altro elemento caratterizzante del fenomeno è che i pugliesi, a differenza di quanto avveniva con il contrabbando delle sigarette, svolgono un ruolo da manovali, sono l’ultimo anello di una catena di una organizzazione con al vertice esponenti della criminalità albanese i quali, a loro volta, si fidano solo di altri albanesi che operano come gestori dei depositi nelle varie aree geografiche. Non è concepibile un rapporto fiduciario tra albanesi e italiani.Ancora, i grandi guadagni sia dei capi che dei rappresentanti dei clan che operano nei diversi territori vengono investiti esclusivamente in Albania. I grandi capitali accumulati in Italia vengono trasferiti in Albania e investiti in ogni tipo di attività lecita o per finanziare ulteriormente i traffici di droga. Ne è testimone il fatto che due fratelli albanesi divenuti punti di riferimento dei trafficanti a Brindisi in poco tempo avevano accumulato beni nella loro terra per 1 milione e mezzo di euro. E’ scontato che in mancanza di strumenti legislativi e di accordi bilaterali che prevedono l’estradizione dei condannati, combattere il traffico di droga è impresa titanica. La verità è che i trafficanti oltre l’Adriatico operano come manager intoccabili.(1)

*Passa per lo scalo di Bari il traffico internazionale di auto rubate, un business da milioni di euro all’anno che riguarda soprattutto le vetture di categoria superiore. Quattrocentocinquanta sone mediamente le vetture che ogni giorno spariscono in tutta Italia, secondo i dati del Ministero dell’interno. Quasi la metà viene ritrovata dopo pochi giorni ma per quanto riguarda le vetture di categoria superiore, la possibilità di essere recuperate si riduce di almeno un terzo. Molte prendono la strada dell’Albania e dell’Europa dell’Est, passando proprio per il porto di Bari. L’ultimo baluardo, per porre un argine a questo commercio illegale, è rappresentato dai controlli eseguiti proprio a Bari prima degli imbarchi. Nei giorni 26, 27, 28 maggio 2008 gli uomini della squadra della polizia giudiziaria della polizia di frontiera hanno recuperato prima una Mercedes ML rubata in Germania nel mese di marzo e poi una Mercedes Cls 320 Cdi portata via al suo proprietario di Reggio Emilia l’8 maggio 2008.Gli uomini che erano alla guida delle vetture sono stati arrestati. Si tratta di un britannico di origini albanesi Shuti Bylbyl e di un cittadino albanese Keli Elion.I detective dello scalo marittimo e aereo di Bari, dopo aver individuato le vetture hanno eseguito a tempo di record una complessa serie di riscontri e verifiche grazie alle quali sono riusciti a scoprire che i documenti di proprietà quelli di circolazione e le targhe di entrambe le vetture erano stati contraffatti.

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In base alle statistiche più recenti, riferite al 2006, (ultimo anno per quale esiste uno studio analitico del fenomeno), il record dei furti va alla Campania (31.239 furti denunciati), seguita da Lazio (30.935), Lombardia (28.606) e Puglia con 18.377 furti. (11) PUBBLICHE AMMINISTRAZIONINon va tuttavia sottovalutata l’attenzione che la criminalità organizzata pugliese viene manifestando attraverso talune strategie operative poste in essere dai gruppi più avveduti, i quali, venuti meno o ridottisi i tradizionali campi di illecito, al fine di mantenere il budget dei profitti criminali impegnano le proprie risorse in altri settori di interesse, anche secondo differenti modalità d’intervento, possibilmente incruente e scevre da clamori.In particolare l’attività e gli interessi economici che ruotano attorno alle scelte delle pubbliche amministrazioni locali possono costituire oggi un settore di puntuale interesse delle diverse organizzazioni criminali operanti in Puglia.Siffatte iniziative sono gravi e pericolose perché, quando non sono esplicitate con i tradizionali metodi intimidatori e violenti, si snodano contro i pubblici amministratori in modo subdolo, anche attraverso percorsi indiretti e utilizzando intermediari.Quella generale capacità di mimetizzazione della criminalità pugliese potrebbe dunque sperimentarsi anche sul differente terreno dell’infiltrazione nell’economia e nelle pubbliche amministrazioni.D’altro canto, anche il venir meno di una fonte di ricchezza criminale così imponente come quella assicurata dal contrabbando dei tabacchi lavorati esteri spinge i gruppi ad una riconversione verso affari altamente lucrativi con il riciclaggio delle risorse illecite nelle gestione dei servizi alle imprese e alla pubblica amministrazione, conquistati con il metodo mafioso delle intimidazioni o della collusione con i pubblici poteri. Non è un caso che episodi di tal fatta sono già nell’agenda delle autorità giudiziarie.Nella città capoluogo, poi, con l’operazione ‘Vela’ la Dda di Bari ha accertato organiche relazioni illecite tra mondo dell’imprenditoria, ambienti politici e criminalità mafiosa, ipotizzando una vera e propria associazione per delinquere di stampo mafioso.

ALTRI CAMPI DI INTERVENTO Per quello che abbiamo detto dovrebbe risultare chiaro che le organizzazioni pugliesi hanno, da tempo, interagito con gruppi di altre regioni (in particolare la ‘ndrangheta nel nord barese) o anche con clan dell’area balcanica.Hanno quindi diversificato, di volta in volta, le attività ed i servizi, sfruttando l’evoluzione dello scenario politico e criminale dell’altra sponda dell’Adriatico, ora trafficando armi per la ‘ndrangheta e cosa nostra, ora occupandosi di stupefacenti

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(dalla marijuana albanese alla cocaina colombiana stoccata in Albania) ora trafficando esseri umani o sfruttando l’immigrazione clandestina.La magistratura salentina è impegnata a delineare l’organizzazione che gestisce le attività di immigrazione dei curdi e ad accertarne le modalità. Attraverso la collaborazione di stranieri imputati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, è riuscita ad ottenere un quadro sufficientemente ampio e completo delle caratteristiche e modalità di gestione del traffico, dell’organizzazione che se ne occupa, di coloro che la dirigono. Difficoltà sono state segnalate sul piano della cooperazione internazionale da parte della Turchia, che nonostante un’apparente disponibilità manifestata in una serie di incontri a Bruxelles presso Eurojust con i magistrati leccesi e con le autorità di altri Stati Europei ha sostanzialmente trasmesso alcune rogatorie all’autorità giudiziaria di Ankara. Se dovessimo stilare una graduatoria degli interessi criminali nelle province pugliesi meridionali (in particolare Brindisi e Lecce) spicca il traffico e lo spaccio della droga. Per questo si sono instaurati rapporti operativi tra gruppi salentini e albanesi.La nostra criminalità si contraddistingue per una fluidità strutturale e per una continua innovazione nelle stesse dinamiche del gruppo. L’alta frammentazione, ad esempio, o i frequenti ricambi interni, con avvicendamenti nei ruoli apicali e grande mobilità esterna tra appartenenti a clan differenti. Gli accordi tra gruppi sono fluidi, rimodulabili di volta in volta in base a un obiettivo preciso. RICICLAGGIO DEI PROVENTI Le continue trasformazioni, invece, si possono realizzare spesso attraverso conflitti armati tra i gruppi per il controllo del territorio e le fortune, ricavate dalle loro numerose attività, sono ormai immense per alcuni personaggi della malavita. Non solo di beni individuali e societari, rilevabili nella regione, ma anche di patrimoni residenti all’estero, specialmente in Olanda e Germania. Questi paesi sarebbero stati scelti perché là si sono creati solidi rapporti con i clan, ivi residenti, in connessione con i traffici di sostanze stupefacenti.Del resto il rapporto con la criminalità albanese non si fermerebbe al traffico illecito ma proseguirebbe con un concreto rapporto sul piano del riciclaggio dei proventi.Esponenti dei clan malavitosi della provincia di Taranto avrebbero stabilito rapporti con cittadini albanesi, venezuelani, equadoregni, rumeni e peruviani, residenti in Italia e non, per la fornitura di stupefacenti e di donne da avviare alla prostituzione ma anche per concordare canali di investimenti e nella ricerca di strumenti tipici del crimine economico e finanziario.Questa necessità, riteniamo, è abbastanza generalizzabile per la nostra regione. Ma ci ritorneremo dopo, con un particolare accento, perché, a nostro modestissimo avviso, è questa oggi la nuova frontiera della lotta alla malavita organizzata.E torniamo agli investimenti dei clan. Perché crediamo che si debba aprire un nuovo fronte, e non ci riferiamo agli organi inquirenti che, per le cose che abbiamo già riferito e per quello che riferiremo, sono già impegnati in quella direzione. Con

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l’applicazione della legge Rognoni-La Torre (requisizione e confisca dei beni della mafia) i malavitosi hanno capito che devono abbandonare gli investimenti immobiliari per dirottarli in direzione di beni che possono eludere il pericolo di una requisizione: beni mobiliari, finanziari e soprattutto ricerca di mercati più tranquilli e difficilmente raggiungibili da parte degli organi investigativi. Tutto questo significa attrezzarsi di uomini che sappiano consigliare per il meglio, sappiano indicare canali più convenienti. E’ impensabile che i loro affari siano autogestiti e qui devono forzatamente entrare in campo professionisti di capace abilità, in possesso di strumenti adatti ad assicurare il buon esito degli investimenti. E’ inutile stare ad indicare di quali specialisti intendiamo parlare. Siamo presuntuosamente certi che accanto alla mafia tradizionale si sia formato un nucleo che accompagna e consiglia per il meglio. Tanto per intenderci: siamo ormai in presenza di quella che si chiama ‘la mafia dai colletti bianchi’ Ecco perché credo che la lotta alla malavita organizzata oggi si arricchisce di un altro nemico, verso cui bisogna prestare la massima attenzione ma anche la più forte denuncia.Siamo partiti ponendoci delle domande. Quanta economia legale è illegale? Quante imprese sono controllate direttamente o indirettamente dalla malavita? Quanti operai e impiegati sono a busta paga della criminalità che gestisce attività lecite in edilizia, autotrasporto, agricoltura, mercati ittici e delle carni, smaltimento dei rifiuti? Quante imprese sane non si insediano in Puglia, o se ci sono, rinunciano a crescere perché la criminalità, più o meno organizzata, esercita la sua condizionante presenza? E’ nostra comune convinzione che questa parte dell’economia locale, nera o grigia comunque la si voglia definire, deve cominciare ad essere denunciata con più determinazione.E tanto per non rimanere nel vago, ci soffermeremo su alcuni fatti. Un’operazione condotta dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza che ha permesso di notificare in otto regioni italiane 164 avvisi di garanzia ad altrettante persone rappresentanti di società di distribuzione di beni “food” e “non food”. Tutti i destinatari del provvedimento sono indagati per associazione per delinquere finalizzata all’emissione di fatture false per 190 milioni di euro, dichiarazioni di reddito fraudolente e omesse dichiarazioni dei redditi.Un meccanismo quasi perfetto che dava vita, secondo gli investigatori, al sorgere di un mercato parallelo, integralmente sommerso, grazie a 40 società “fantasma” in Paesi comunitari (dalla Grecia al Portogallo, dalla Spagna al Regno Unito, dalla Francia all’Austria). Le merci partivano dalla “Migro Cash & Carry”, colosso della grande distribuzione di Molfetta, destinate ad altri Paesi dell’Unione Europea e quindi con esenzione d’imposta. In realtà sarebbero state rivendute in nero, in particolare in Campania e Puglia a prezzi notevolmente vantaggiosi . Le province di residenza degli indagati sono Frosinone, Napoli, Catania, Brindisi, Lecce, Taranto, Caserta, L’Aquila, Roma, Campobasso, Salerno, Avellino, Potenza e Pistoia. Nelle indagini risultano coinvolte più di 100 imprese nazionali di autotrasporto, almeno metà delle quali completamente sconosciute al fisco.

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Tutto avveniva, questo è stato sempre il sospetto, con l’aiuto della Camorra e della Sacra corona unita.Per correttezza d’informazione dobbiamo però riferire che la Ingross Levante, la società che gestisce i punti vendita Migro, i supermercati leader nel cash&carry in tutto il Meridione, ricorse alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari contro l’accertamento dell’Agenzia delle entrate che intimava di restituire l’Iva evasa, a giudizio della Procura di Trani dal 1999 al 2004; secondo i magistrati (che a luglio del 2005 arrivarono anche ad arrestare i vertici della Migro con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’emissione di fatture false, alla frode fiscale e all’evasione di Iva) l’azienda aveva fondato, come abbiamo già visto, fittiziamente decine di società fantasma in tutta Europa. Ora la Commissione Tributaria ha ritenuto che ci sono vizi procedurali nel procedimento e soprattutto ha sottolineato la buona fede degli imprenditori. Cioè hanno sì evaso, ma senza esserne consapevoli.<<Gli imprenditori – ribattono i giudici della Commissione – non erano a conoscenza della truffa. E gli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate non provano che la società Ingross Levante fosse partecipe di un disegno criminoso finalizzato a una frode Iva, apparendo meri indizi nemmeno concordanti tra loro. Né – continuano i giudici – può ritenersi che lo scrupolo e la precisione negli adempimenti formali che assecondano l’applicazione dell’Iva evidenzino alcun intento di affidamento delle disposizioni in materia>>.<<Nessuna responsabilità – conclude nella sentenza la Commissione Tributaria – può quindi essere attribuita a chi vende nel rispetto delle regole formali; il venditore non ha l’obbligo di accertare la destinazione della merce pedinando il trasportatore o inseguendo la merce stessa>>. (3)

* Il sequestro nel 2008 del tesoro del clan di Eugenio Palermiti che operava in un quartiere di Bari, un patrimonio che ammonta a 15 milioni di euro. L’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo pugliese testimonia – per la prima volta in questa dimensione – che la mafia barese ha tentacoli lunghi, capaci di infiltrarsi saldamente nei gangli dell’economia pulita del territorio e di condizionarne le fortune. Non sono le automobili di lusso, le ville, gli appartamenti, le motociclette, qualche terreno gli indicatori della ricchezza reale dei clan. E non è la loro ricchezza a sollecitare la nostra attenzione. E’ la straordinaria capacità di infiltrarsi nel commercio, nell’edilizia, nella finanza e nella pubblica amministrazione.Se l’iter giudiziario dovesse procedere fino alla confisca dei beni, ora sotto sequestro, e alla conferma della trama accusatoria, emergerebbe un dato inquietante: la riconferma dell’invisibile saldatura tra economia pulita ed economia parallela. La delinquenza che diventa holding. La nuova strategia dell’inabissamento (si uccide meno) ha reso possibile lavorare nell’ombra, stringere affari, muovere denaro secondo una programmazione geometrica che destina il fiume di denaro sporco – in arrivo dal traffico internazionale di droga – al finanziamento di attività pulite, vere,

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sane. Con quali aiuti? Con quali connivenze? Con quali minacce? Sono le stesse domande che ha posto una brillante giornalista di cronaca nera. Una delle società riconducibili ad Eugenio Palermiti, la <<Tre G srl>>, le cui quote sono state sequestrate, è specializzata nel campo dell’edilizia, nel movimento terra, perfino nei lavori portuali e aeroportuali. Sarebbe davvero interessante indagare nel mondo degli appalti (e dei subappalti) e verificare in quali recenti opere sia stata impegnata la <<Tre G srl>> per scoprire, magari, il suo massiccio impegno in una delle più imponenti opere urbanistiche degli ultimi anni. E’ lecito chiedersi perché una domanda di pulizia, di trasparenza, di chiarezza non si levi dalla stessa voce di tutti quegli imprenditori che cercano, con onesta fatica, di lavorare rispettando le regole?Come pure desta curiosità quella società (anch’essa sotto sequestro) attiva nell’universo della Formazione Professionale, tra l’altro negli anni flagellato da inchieste della magistratura. La <<Jet srl>> sempre di Eugenio Palermiti. Ha forse questa società usufruito di finanziamenti pubblici? Ce lo domandiamo con la stessa forza espressa dalla giornalista e continuiamo a chiedere chi ha erogato i contributi era a conoscenza della reale appartenenza dell’azienda? Le domande sono infinite. Sono diventati i criminali troppo bravi a far soldi e a nasconderli sotto gli occhi di tutti? E perché non restino dubbi, vi è un dato, che vogliamo sottolineare, riportato nella richiesta di rinvio a giudizio, formulata dal pm antimafia per 18 presunti appartenenti ad un’organizzazione che commercializzava la sostanza stupefacente a Japigia e in altri quartieri della città. Al centro dell’indagine c’è anche Vincenzo Longobardi, barese, figlio di un grossita di carni. A lui, sostiene l’accusa, Giovannio Palermiti, figlio del presunto boss Eugenio, avrebbe fittiziamente intestato la discoteca ‘Moma’, acquistata con 132mila euro. La proprietà del locale era stata messa all’asta. Una prima offerta, secondo quanto ricostruito dalla Dda, era stata presentata dalla società che faceva capo a Palermiti e che sino a quel momento aveva gestito il ristorante, aperto nel locale. Ma alla fine, nel giorno dell’udienza dell’asta, si era presentato soltanto Vincenzo Longobardi che, così, si è aggiudicato il ‘Moma’. Un’operazione, ipotizza la Dda, non casuale, ma gestita interamente dal Palermiti al quale Longobardi, peraltro in quel periodo in una situazione finanziaria non facile, farebbe capo. Il pm ha infatti affidato uan consulenza a due archietetti, accertando come la proprietà del ‘Moma’ fosse stata acquistata ad un prezzo inferiore, rispetto al suo reale valore. Da qui la contestazione per Giovanni Palermiti e Vincenzo Longobardi dell’accusa di trasferimento fraudolento di valori. Intestando la proprietà del locale ad un giovane, non noto alle cronache criminali, il gruppo che fa riferimento ad Eugenio Palermiti ha tentato di evitare eventuali misure di prevenzione, come i sequestri patrimoniali che invece sono arrivati. E hanno interessato anche la discoteca che, come è stato annunciato nella ‘Giornata della Memoria e del Ricordo delle Vitime di mafia’ (organizzata da Libera a Bari) diventerà un centro di aggregazione giovanile.

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La Dda, intanto, partendo dal caso del locale sequestrato, approfondirà anche le dichiarazioni che il nuovo collaboratore di giutizia ha reso recentemente. L’interesse che il gruppo del quartiere Japigia, secondo il pentito, avrebbe sempre mostrato per il mondo delle aste giudiziarie, partecipando con prestanomi, che diventerà materiale di indagine. (32)

*Del resto non è la prima volta che la mala si interessa alle procedure di esecuzione immobiliare. Pare che le aste giudiziarie siano nel mirino dei boss e dei clan, come nuova occasione per il riclaggio del denaro ‘sporco’.Un avvocato di Bitonto è indagato dalla Dda di Bari per reati collegati a irregolarità nella partecipazione ad aste giudiziarie – a quanto sembrerebbe – anche per concorso esterno in associazione mafiosa. Negli ultimi giorni di giugno 2008, il professionista bitontino ha ricevuto una perquisizione, alla quale hanno partecipato due pm della Dda. I magistrati avrebbero portato via carte, computer, cd rom.La perquisizione, com’è noto, incorpora la informazione di garanzia. In concreto, alla persona viene comunicata la iscrizione nel registro degli indagati dalla Procura.Alla base della visita nello studio del professionista – del quale non si è appreso il nome – una inchiesta della Dda dalla quale sarebbe emersa una conferma chiara del nuovo ‘fronte’ del riciclaggio del denaro sporco. In questo caso, a quanto pare, da parte della malavita organizzata di Bitonto. Cioè i clan starebbero concentrando - tendenzialmente – i loro interessi nell’acquisto di beni immobili, cercando, tra l’altro, l’affare nelle aste giudiziarie. Il legale indagato sarebbe coinvolto in una operazione illecita riguardante una vendita giudiziaria. Fra i compratori – secondo le indagini della Dda – ci sarebbero stati personaggi vicini a qualche clan della malavita organizzata. I pm ipotizzerebbero, secondo indiscrezioni, che lui sia un ‘consulente’ dell’acquisto. L’indagine sarebbe ai primi passi. (32) D.N.A.Abbiamo letto quello che dicono della malavita pugliese sia la Dia che l’Uic. Ma vogliamo insistere su questo argomento. Nella “Relazione 2006” sull’attività della Direzione Nazionale Antimafia, consegnata al Parlamento l’8 febbraio 2007, è, per esempio, descritto il dilagare dell’usura, fenomeno inserito in un <<circuito criminale che riguarda il mondo bancario>>.Ancora: <<Roma è stata eletta quale sede di figure criminali legate alle varie consorterie, che svolgono funzioni ‘diplomatiche’ e di raccordo per ottenere sempre maggiori profitti dalle attività illecite>>.Sempre dalla Relazione: gli ambasciatori dei clan sfruttano nella Capitale le <<opportunità di intrecciare rapporti in ambienti affaristico-imprenditoriali che accrescono le infiltrazioni criminali, attuate, in gran parte, tramite centri di

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intermediazione formati da strutture con altissime capacità professionali in campo economico-finanziario>>. Si legge di alleanze tra clan <<nei meccanismi di reimpiego dei capitali>> (il neretto è nostro). Prestanomi, vorticosi passaggi di proprietà di negozi . Un fiume di soldi da ripulire.Dice il Procuratore Nazionale Antimafia, in occasione di una audizione in Parlamento, quello che davvero preoccupa sono <<le nuove alleanze tra i gruppi di cosa nostra con settori della Pubblica amministrazione>> e la sottoscrizione di patti con holding <<imprenditoriali di rilevanza nazionale>>. (il neretto è sempre nostro)Per cercare di dare una pallida idea della forza economica dei clan basta pensare che l’organizzazione criminale per entrare nel business legato al ponte sullo Stretto si rivolge all’ingegnere italo-canadese Giuseppe Zappia, arrestato nel 2004 per associazione mafiosa, il quale si dice disponibile. Il pm che sta curando l’indagine sta cercando di chiarire come fosse possibile alla “Zappia International” finanziare la costruzione del ponte senza stanziamenti pubblici.In un processo di mafia che vede coinvolti 38 imputati, per cui il pm Lucia Lotti ha chiesto condanne per 191 anni di carcere, ebbene tra questi imputati vi sono ben 15 direttori di banca.Sono solo alcuni esempi che confermano la nuova strategia mafiosa. Sappiamo bene che si va a scoprire sepolcri imbiancati ma anche espressioni di poteri forti, quindi superprotetti. Restiamo, tuttavia, convinti che si deve alzare il tiro, non solo da parte della magistratura che, come abbiamo visto, è ben cosciente di questo nuovo fronte, ma anche da parte di tutti quelli, associazioni, stampa, singoli opinionisti, che si sono posti come parte attiva nella lotta alla criminalità organizzata.COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALICome, però, riconoscere un’azienda pulita da una controllata dal crimine organizzato? Come dragare nell’economia sana fino a scovarne le sacche dell’illecito? Problema che si è posta la Commissione Affari Costituzionali della legislatura conclusa anticipatamente il 2008. Si prefiggeva l’obiettivo di censire lo stato della sicurezza dei cittadini e delle imprese rispetto alla criminalità organizzata. Le audizioni sarebbero terminate in gennaio, per poi presentare la Relazione, sui rischi e lo stato effettivo della sicurezza in Italia, al Parlamento.Tuttavia nei primi giorni del dicembre 2007 sono comparsi dinanzi alla Commissione i due coordinatori delle direzioni distrettuali antimafia di Bari e Lecce, Giovanni Colangelo e Cataldo Motta, nel corso di una seduta dedicata anche alle comunicazioni del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, dei rappresentanti della Confcommercio e Confesercenti e del presidente di Confindustria Luca di Montezemolo. Da Montezemolo, ad esempio, non sono mancate bacchettate a un certo modo di fare impresa nel Mezzogiorno, a quella cultura dell’assistenzialismo dura a tramontare. <<Nella nostra assemblea del maggio scorso – ha detto tra l’altro il presidente di

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Confindustria – abbiamo detto forte: basta con gli incentivi, basta con questa legge 488 che ha rappresentato in tante aree del Sud quello che io chiamo il management del sottosviluppo e della criminalità>>. Ma il problema nelle regioni dell’Italia meridionale non è soltanto quel fiume di denaro pubblico che continua ad alterare il sistema produttivo. La spina nel cuore dell’economia del Mezzogiorno ha vari nomi. Si chiama usura, estorsioni, infiltrazione, condizionamenti. Ed ancora, lavoro nero, evasione fiscale, mancanza di regole. Giovanni Colangelo ha evidenziato alcuni casi di acquisizione di imprese e comunque <<di danni conseguenti per l’economia, dato che le imprese gestite da soggetti legati al mondo criminale agiscono, come è facile intuire, con criteri molto disinvolti. Mi riferisco – ha continuato – alla mancata osservanza delle leggi sull’assunzione, sul collocamento, sull’infortunistica, su tutto il settore finanziario e sul regime delle imposte. Questo ovviamente consente un risparmio di costi ingenti ed un incremento degli utili, con danno inevitabile per la concorrenza. Infine, da parte di alcune imprese, si fa ricorso a mezzi forniti dalle organizzazioni criminali per il contenimento dei costi o per la gestione. in questo caso, non vi è una vera e propria collusione tra organizzazione criminale e impresa, ma una fornitura di beni e servizi, quasi assimilabile ad un contratto d’opera>>.Colangelo ha anche evidenziato la saldatura tra usura e racket, soprattutto nella città vecchia di Bari, e la difficoltà a svolgere indagini patrimoniali a causa di una legge che va cambiata.Tutto ciò non toglie che si creino compartecipazioni di vecchie e nuove consorterie per gli affari, e creazioni di sempre nuove alleanze anche tra opposte fazioni con il ricorrente cambio dei vertici criminali.La frantumazione sollecita una capacità di intessere rapporti illeciti di ogni tipo, occasionali e transitori, con qualsiasi gruppo italiano o straniero, alla cui base vi è solo la convenienza economica e non già alleanze strutturali.

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BARIPremessaGiustamente la Dia definisce di ‘servizio’ la criminalità barese (pronta e disponibile a temporanee alleanze con le grandi organizzazioni) o più felicemente criminalità a ‘vocazione commerciale’.Questo non autorizza a sottovalutare talune sue strategie poste in essere, come quella di impegnarsi, una volta che ritiene esauriti alcuni campi di intervento, in altri settori, modificando le proprie modalità di operare.Intanto estende i suoi tentacoli sui comuni della provincia, allarga la sua zona di influenza, infoltisce le fila dei suoi scagnozzi, assolda nuovi potenziali sicari e soprattutto aggiorna le linee strategiche di sviluppo e competitività del sistema produttivo criminale allargando il suo ‘business’ fino ad oggi concentrato sullo spaccio di sostanze stupefacenti e sulle estorsioni anche al ‘ramo’ rapine. Decimati dai blitz che hanno portato in carcere i ‘mammasantissima’ e i loro picciotti più fidati, i clan non hanno perso tempo a risistemare le fila del loro piccolo esercito di spacciatori ed estorsori, arruolando nuova manodopera. Non basta. Stando ad una analisi della evoluzione del fenomeno malavitoso condotta dagli stessi investigatori, i clan starebbero fagocitando nuovi groppuscoli, soprattutto bande di rapinatori.Rapporto sulla criminalità del Ministero dell’Interno – Giugno 2007La capitale degli omicidi, lo snodo cruciale per il traffico illegale delle sostanze stupefacenti, il fenomeno dell’usura in preoccupante ascesa. E’ questo il quadro di Bari dipinto dal Viminale, nel rapporto del giugno 2007 sulla criminalità. E’ il Ministero dell’Interno a lanciare l’allarme: <<fattori determinanti della pervasività e pericolosità della criminalità – è scritto – sono rappresentati dal crescente coinvolgimento dei minori, dall’attiva partecipazione alle scelte dei clan da parte delle donne e dai collegamenti tra soggetti detenuti ed affiliati in libertà>>. L’attività più remunerativa e diffusa sembra essere quella del traffico delle sostanze stupefacenti.<<Gli ingenti quantitativi di droga – si legge nell’analisi – fanno di quest’area un crocevia fondamentale per l’approvvigionamento di altre regioni italiane ed estere>>. Secondo il rapporto del Viminale, la criminalità locale <<si pone come organizzazione di servizio per i traffici internazionali>>. A preoccupare è la ripresa della guerra sanguinaria tra le diverse cosche. Nel 2006 – ultimo dato preso in considerazione – nel capoluogo di regione si sono registrati 3,6 omicidi volontari di

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stampo mafioso ogni 10mila abitanti (nella classifica vengono prese in considerazione solo le città oltre i 300mila abitanti). Il rapporto più alto d’Italia, più di Napoli (3,3 seconda) e di Catania (terza con 2,6 omicidi). Rispetto al 2004 (1,6) e al 2005 (0,6) si registra un’escalation; gli omicidi si sono praticamente triplicati. E nel 2008 potrebbero aumentare ancora, visto lo stato d’instabilità: secondo la Dda, infatti i clan mafiosi ‘perdenti’ si sono alleati contro la cosca più agguerrita e dominante, quella degli Strisciuglio. <<In prospettiva – è scritto nel dossier – è ipotizabbile un’evoluzione delle dinamiche criminali delle diverse consorterie. La criminalità barese è caratterizzata dall’accentuata frammentazione dei gruppi criminali, dalla mancanza di un vertice comune ed aggregante e dall’insorgere di tensioni e scontri>>. (Su questa alleanza abbiamo dedicato un paragrafo che troverete in chiusura del capitolo Bari).Ma a spaventare non è solo la macrocriminalità. C’è una recrudescenza della microcriminalità che le forze dell’ordine stanno cercando di soffocare. Ad esempio, i furti negli appartamenti sono il tallone d’Achille delle città settentrionali. Però <<Bari – è evidenziato nel rapporto – è l’unica città meridionale che presenta tassi di furto nelle abitazioni più simili a quelle del Nord, in linea con quelli di Milano>>. Dopo Bologna (516 rapine ogni 100mila abitanti) e Torino (395), il capoluogo pugliese si posiziona al terzo posto (340). A seguire Milano (336) e Roma (257). Catania (173), Palermo (120) e Napoli (92) sono in fondo alla graduatoria.La provincia barese è anche la ‘regina’ per quanto riguarda i furti di camion, con 3,5 mezzi pesanti rubati ogni 1.000 veicoli. Dimezzati, invece, gli scippi (si è passati da 341 a 138 casi ogni 100mila abitanti). Vita dura per i rapinatori: il 45,8 per cento è arrestato, si tratta della media più alta d’Italia. (2) Furti - Rapine Un tempo era solo il capo della banda criminale di paese ad avere aderenze con i clan del capoluogo, ora le cose sono cambiate. E’ l’intera banda che accetta di vestire la casacca del clan e di rappresentarlo, aumentando in questa maniera il proprio ‘prestigio’ negli ambienti malfamati. Il fenomeno, confermano gli investigatori, starebbe verificandosi in tutti i Comuni raggiunti da questa “ondata colonizzatrice” della malavita organizzata. Aggregazioni sarebbero avvenute nelle zone di Adelfia, Valenzano, Casamassima dove contemporaneamente è cresciuto il fenomeno dei ricatti e dei taglieggiamenti. Gli investigatori hanno motivo di ritenere che parte della nuova ‘forza lavoro’ sia stata impiegata nel ramo industriale delle estorsioni. Indagini importanti sono in corso nei comuni appena citati da parte dei carabinieri del Reparto operativo provinciale.Una caratteristica dei nostri clan è quella che non sono riconducibili ad una struttura unitaria, a differenza della ‘ndrangheta e di cosa nostra, ma anche della camorra, dove vi è, invece, una forte struttura unitaria, certo con forme e modi diversi. Non hanno una struttura piramidale. Il ‘capo dei capi’ non è mai realmente esistito, anche se la figura di Savino Parisi continua a rimanere l’emblema di come il carisma personale sia la cifra distintiva di un intero territorio. Forse l’egemonia di Parisi si è

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ormai ammantata anche di leggenda, mentre altri boss sono nel frattempo cresciuti e crescendo, hanno contribuito a cambiare il volto e il linguaggio del crimine barese.Un processo di inglobazione e assimilazione che non si limiterebbe, sostengono le fonti accreditate, alla cosiddetta forza lavoro ma riguarderebbe lo stesso business delle rapine. Come un parassita la mafia starebbe ora succhiando una parte dei proventi delle rapine, partecipando alle spartenze che un tempo erano riservate unicamente a chi partecipava ai colpi. E’ come se ogni banda, tra quelle che si sono piegate alla nuova politica industriale dei clan, avesse un componente in più, un nuovo socio con cui dividere il bottino. Nelle casse della ‘piovra’ entrano, sempre più in maniera sistematica, le spartenze di rapine a Tir (vi è un paragrafo che si intrattiene su questi tipi di furto), farmacie, supermercati, tabaccherie, distributori di carburante, banche. La ‘piovra’ barese ha allungato i suoi tentacoli raggiungendo ad esempio Torre a Mare, Mola, Capurso, Valenzano, Triggiano ed Acquaviva sotto l’influenza del gruppo Parisi e degli Stramaglia. Ci sono poi Ceglie, Adelfia, Bitritto, Santeramo e Cassano che orbitano in area Di Cosola. Gli Strisciuglio vengono segnalati oltre che in diversi quartieri di Bari compresi Santo Spirito e Palese, anche Giovinazzo, Bitonto, Noicattaro. I Capriati restano nella loro roccaforte di Bari vecchia e a Modugno. Non a caso in questi comuni si contano frequenti episodi anche di efferata criminalità. Si aggiungono, naturalmente, zone di radicate tradizioni criminogene quale il Nord barese, che ha come epicentri: Andria e Barletta. Il contrasto rimane, ma con connotati familistici tra i Capriati (nella configurazione Capriati/Rizzo/Lorusso) e gli Strisciuglio (nella configurazione Strisciuglio/De Felice/Caldarola); è in questo solco che il fuoco può riaccendersi.Ciò non significa che sono completamente assenti fatti di sangue. Per esempio il 10 marzo del 2008 vi è stato un agguato nel quartiere Japigia del capoluogo regionale. Il sorvegliato speciale Emilio Quarta, tornato in libertà a gennaio dopo un periodo di detenzione, è stato raggiunto da tre colpi di pistola mentre si trovava nel piccolo cortile recintato della sua abitazione. Due proiettili l’hanno raggiunto all’addome, il terzo alla coscia destra. A far fuoco, con una pistola semiautomatica calibro 9, sarebbe stata una persona scesa da una motocicletta, guidata da un complice. Immediatamente soccorso è stato trasportato al Policlinico e sottoposto ad intervento chirurgico. Dopo cinque giorni di agonia è morto.La vittima viene considerata dagli investigatori un <<pesce piccolo>>, privo di spessore criminale, non coinvolto in dinamiche di mafia. E’ possibile che abbia pestato i piedi a qualcuno e che questi si sia vendicato.Non per questo siamo autorizzati a sottovalutare, anzi è il segnale di una criminalità disposta a tutto e che quindi se il caso non si sottrae ad imbracciare le armi. (2)

Reclutamento dei minorenni da parte del clan Telegrafo per arricchire il proprio patrimonio

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C’è un’altra inquietante tipicità, unica nel panorama nazionale: l’inserimento scientifico e sistematico dei minorenni nelle organizzazioni. Ragazzini reclutati con estrema facilità. Manipolabili. Sacrificabili. I soldatini di una guerra che la criminalità organizzata nella sua interezza ha dichiarato alla società buona, all’economia sana, alle regole della convivenza civile. Quindi non solo per il trasporto delle armi appena usate per attentati o omicidi ma anche, per esempio, per liberare il terreno dai bossoli lasciati durante l’esecuzione di un omicidio, naturalmente per ostacolare le indagini. Ma non ci si ferma qui, esiste una vera e propria scuola per l’avviamento alla carriera criminale, iniziando dagli scippi che rappresentano l’avvio ad un esercizio illecito. E’ di non molto tempo addietro la scoperta di un diciottenne che impartiva, ad un gruppo di piccoli allievi, lezioni appunto di scippi.E la conferma ci viene dall’operazione dei Carabinieri portata a termine alla fine di febbraio del 2008: un gruppo (il clan Telegrafo) particolarmente agguerrito quello sgominato, che dettava legge al San Paolo con il pugno di ferro, obbligando i suoi giovani affiliati (anche ragazzi di 17 anni) a darsi anima e corpo, anche a costo di sacrificare gli affetti familiari. A parlare di ragazzi temerari e avventati ne fanno cenno proprio i capi, come risulta dalle intercettazioni dei carabinieri. Pronti a sparare e utili nello spaccio delle sostanze stupefacenti. Estorsioni ai gestori di grandi centri commerciali o imprese di costruzioni e poi il traffico d’armi e gli avvertimenti in puro stile mafioso a chi non sottostava agli ordini della cosca. Ed è proprio sulla feroce e delirante determinazione dei nuovi picciotti, disposti ad offrirsi come volontari per le spedizioni più pericolose (tanto da essere soprannominati kamikaze), se ben ricompensati con denaro ed i galloni della promozione, che il presunto clan Telegrafo è rinato nel quartiere San Paolo a cavallo tra il 2004 e il 2005, perpetuandosi fino ai giorni nostri. Il clan Telegrafo dettava legge nel San Paolo, estorceva danaro, smerciava droga, usava armi. Nel quartiere popoloso pagavano tutti, il 5 di ogni mese: le richieste oscillavano tra i 250 e i mille euro a settimana, in base al volume d’affari dell’esercizio commerciale. Di solito i negozi più grossi pagavano cache, quelli piccoli anche “in beni e servizi”, mettendo le loro capacità al servizio dell’organizzazione. Pagavano anche i venditori ambulanti del mercato del venerdì: a loro era lasciata la possibilità dell’offerta libera. E alla legge imposta dal clan Telegrafo non c’era chi si opponesse. Il dominio era incontrastato, grazie anche ai giovani adepti. L’associazione mafiosa era capeggiata – secondo l’accusa – dal quarantunenne Lorenzo Valerio e dal suo luogotenente Carlo Iacobbe di 38 anni. Aveva una organizzazione manageriale. Le competenze erano ben marcate: al livello più basso, il primo, c’erano i kamikaze; al secondo gli addetti allo spaccio della droga e alla riscossione del pizzo; al terzo i responsabili di zona, addetti alla gestione dei kamikaze e dei pusher.Disarticolato attraverso una serie di inchieste che nel 2003 culminarono con un blitz che portò in carcere ben 46 presunti mafiosi, il gruppo già capeggiato da Nicola Telegrafo detto ‘il brigante’ (morto in carcere per malattia nel giugno del 2004) è

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rinato nel tempo. Un mostro a forma di serpente dalle molte teste, gran parte delle quali vennero mozzate nel 2003, è rinato grazie a giovani virgulti innamorati della malavita.Per essere ammessi ai ruoli di vertice c’era nel clan una vera e propria cerimonia di affiliazione, un banchetto che veniva consumato in un circolo ricreativo di via Ciusa. Al picciotto ‘graduato’ veniva consegnato un anello con solitario che poteva essere ritirato in caso di condotta non soddisfacente. Erano gli interessi economici il vero collante del gruppo ma questa cerimonia era un modo di rafforzare il vincolo di appartenenza a un’unica famiglia dominante.Nel novembre del 2004 i giovani kamikaze erano stati chiamati ad aprire il fuoco contro i carabinieri per evitare che venisse scoperto un deposito di armi. Ma il piano fu fortunatamente sventato grazie alle intercettazioni. Nel corso dell’indagine – avviata tra ottobre e novembre 2004, al termine dell’operazione Iceberg, e proseguita per 18 mesi – sono state sequestrate nove pistole, un fucile a canne mozze, circa 900 munizioni, 700 grammi di cocaina e sette chili di hascisc.Ma non c’erano solo i ragazzi. Consapevoli, partecipi, praticamente complici, sono le donne del clan: le mogli, le madri, le sorelle dei presunti picciotti finiti in carcere a seguito dell’operazione dei carabinieri. Però nessuna delle donne coinvolte nell’indagine e per le quali è stata richiesta la custodia cautelare ha visto aprirsi le porte del carcere. Non è stata arrestata neppure la neo mamma, moglie di uno degli esponenti più in vista del clan (figlio di un vecchio sodale della organizzazione Telegrafo) la quale, in base alla ricostruzione dei carabinieri, non avrebbe esitato a diventare complice del consorte nel trasporto di un carico di droga. Ha affiancato il marito nel viaggio in macchina per le vie del quartiere, tirandosi dietro il figlio di pochi mesi pur di offrire una copertura e ingannare le forze dell’ordine. (2)

Il 26 maggio 2008, a tre mesi dall’arresto dei picciotti del clan, i carabinieri del reparto operativo provinciale sequestrano beni del valore complessivo di due milioni di euro gestiti – secondo la Direzione distrettuale antimafia – dalle donne dei boss.L’operazione ha portato all’esecuzione di nove provvedimenti di sequestro di beni, alla metà ‘rosa’ dei clan, gli investigatori dell’Arma ritengono di aver inferto un altro durissimo colpo allo storico sodalizio criminale, capeggiato – secondo l’ipotesi della Dda – da Lorenzo Valerio e dal suo luogotenente Carlo Iacobbe, arrestati a febbraio 2008 (con numerosi altri affiliati) con le accuse, a vario titolo, di associazione criminale di stampo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione di armi ed estorsione.Il provvedimento di sequestro preventivo è stato emesso dal giudice delle indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero.I sigilli del Tribunale sono stati apposti innanzitutto a un rilevante pacchetto di quote della società in accomandita semplice “Sogega”, avente per oggetto custodia e lavaggio di autoveicoli, trasporto di merci, rimessaggio e riparazioni di barche,

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gestione di parcheggi, servizi di pulizia e manutenzione, custodia e vigilanza di edifici e gestione e conduzione di impianti sportivi. La stessa ditta risulta proprietaria, inoltre, di un’area di circa cinquemila metri quadrati nel pieno centro cittadino, anch’essa sequestrata.Ancora sigilli giudiziari a: due appartamenti di 130 metri quadrati ciascuno, sempre in città; sei conti correnti e libretti di deposito dove, secondo l’accusa, transitavano i proventi illeciti del sodalizio criminale e dai quali, sempre in base agli accertamenti dei militari, si attingeva per le spese di qualsiasi natura dei clan, comprese quelle legali; nove fra auto e moto di grossa cilindrata, utilizzata dai componenti del clan per il traffico di droga e il trasporto di armi.L’attività investigativa, com’è stato chiarito nel corso di una conferanza stampa, ha messo in luce il ruolo centrale ricoperto dalle donne del clan, che dietro una facciata di apparente normalità costituita dal vivere all’interno di palazzine di edilizia popolare e dal mantenere un tenore di vita senza eccessi, in realtà – stando alle verifiche investigative – erano beneficiarie dei proventi dell’attività illecita dei propri mariti e familiari.In effetti, l’indagine ha evidenziato che il defunto capo storico del clan Nicola Telegrafo aveva intestato le quote societarie della “Sogega” a sua moglie. Altrettanto avrebbe fatto il suo presunto luogotenente Carlo Iacobbe, che avrebbe suddiviso i suoi guadagni in una serie di conti dei quali beneficiano anche la madre e la figlia.Intanto, sempre il 26 maggio 2008, una pattuglia delle Volanti della Polizia ha arrestato per violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, a Carbonara un altro Telegrafo, anche lui Nicola, barese. L’uomo è stato sorpreso in piazza Umberto, mentre conversava con persone conosciute alle forze dell’ordine. (2)

*Almeno dieci banditi hanno assaltato, il 15 maggio 2008 poco dopo le 15, il portavalori, un blindato che, dopo aver raccolto l’incasso dell’Ipercoop Mongolfiera ed aver attraversato Molfetta, si stava immettendo sulla statale 16 per rientrare a Bari dalla svincolo Cola Olidda di Giovinazzo.A bordo del blindato si trovavano tre vigilanti che non hanno opposto resistenza. Per questo la rapina non si è trasformata in tragedia. Prima di allontanarsi i componenti del commando hanno dato alle fiamme quattro delle auto impiegate per bloccare il blindato, tutte risultate rubate.Nel frattempo è partita la caccia all’uomo anche con l’impiego di elicotteri. Determinanti saranno le testimonianze dei tre vigilanti. Il colpo, ne sono certi gli investigatori, era stato studiato nei dettagli. E’ stato messo a segno da preofessionisti del crimine, uomini che non hanno mai perso il controllo ed hanno fatto attenzione a non lasciare scie di sangue. (2)

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In soli due mesi erano diventati il terrore della Valle d’Itria. Ma erano anche andati oltre, colpendo in almeno due occasioni le villette dell’agro monopolitano. Sono stati tutti catturati, il 20 maggio 2008, i componenti della “Banda delle ville”, dopo verifiche e pedinamenti dei carabinieri della Stazione di Locorotondo in collaborazione con il Nucleo operativo della Compagnia dei carabinieri di Monopoli.In quattro sono finiti in manette e rinchiusi nella Casa Circondariale di Bari. Sono in attesa di convalida degli arresti Francesco Conte di Locorotondo (avrebbe avuto un ruolo di basista), Giovanni Palmisano e Vito Decarolis, entrambi di Fasano, oltre all’albanese Ivi Tusha, residente da tempo a Fasano. Volti già noti ai carabinieri per alcuni precedenti penali. Sono accusati di associazione a delinquere finalizzata a rapine in villa e ad esercizi commerciali sempre con la tecnica del sequestro di persona. (2)

*E’ la Direzione Investigativa antimafia a lanciare l’allarme sull’aumento delle rapine ai tir, un fenomeno che in provincia di Bari sta assumendo proporzioni preoccupanti. Lo dimostrano i numeri: nel biennio 2006-2007, i colpi messi a segno agli autoarticolati diretti o provenienti dalla zona industriale del capoluogo pugliese sono stati 212. Un numero elevato che presuppone l’esistenza di un vero e proprio mercato parallelo dove la merce rubata viene smistata o come scrive la Dia <<una rete distributiva ramificata su varie aree del territorio pugliese>>.E proprio per fermare il fenomeno, la Procura a Bari ha istituito un coordinamento interforze che, coordinato dal magistrato della Dda, sta conducendo indagini per sgominare le bande dei tir. Gruppi che, scrive la Dia nel rapporto trasmesso alla procura di Bari, agiscono con <<inaudita efferatezza>>, utilizzando auto rubate. <<In molti casi – aggiungono i detective della Dia – i malviventi si vestono da poliziotti>> e usano auto simili a quelle in dotazione agli agenti della Questura>>. Ai camionisti impongono l’alt, poi commettono la rapina. Spesso sequestrono i camionisti, dopo aver rapinato il tir, li abbandonano in aperta campagna. Più frequenti, aggiunge la Dia, i colpi messi a segno ai danni di autoarticolati, fermi, in sosta, nelle aree di servizio. I conducenti dei tir vengono sorpresi in piena notte o meglio alle prime luci dell’alba, costretti a cedere le chiavi del camion con i quali i banditi poi scappano. Un fenomeno che allarma non solo i camionisti, ma anche gli imprenditori baresi perchè le bande scelgono autoarticolati che trasportano merce di ogni genere, come i prodotti alimentari, quelli per l’igiene della casa e della persona, l’abbigliamento o fitofarmaci, concimi cioé destinati all’agricoltura. Alla relazione, trasmessa in Procura, gli agenti della Dia hanno allegato alcuni schemi che, anno per anno, rapina per rapina, indicano la tipologia della merce sottratta. E soprattuto confermano come gli obiettivi delle bande dei tir siano diversi.Le indagini della procura che già in passato ha chiesto e ottenuto l’arresto di una ventina di rapinatori puntano non solo ad individuare i componenti dei gruppi criminali specializzati nei colpi, ma anche a risalire alle organizzazioni che smistano

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la merce rubata. Secondo gli investigatori, esiste un vero e proprio mercato parallelo: i prodotti, frutto delle rapine ai tir, vengono ceduti a commercianti che, in questo modo, possono risparmiare e soprattutto rivenderli a prezzi più bassi, alterando così il normale regime di concorrenza. (2)

*I carabinieri nella notte tra il 23 e il 24 giugno 2008, nel corso di un servizio di controllo a Bitonto, hanno individuato e sequestrato due auto di grossa cilindrata, che risultavano rubate, all’interno delle quali erano nascoste centraline per blocchi di accensione dei quadranti contachilometri e chiavi utili ad avviare il motore di diversi tipi di veicolo, per un totale di settanta pezzi, uno scanner e due radio sintonizzate sulle frequenze delle forze di polizia, quattro torce, un passamontagna, due fasce di pile, due paia di occhiali, sessantacinque arnesi da scasso flex, trapani estrattori, tenaglie, cacciaviti, martelli, chiavi inglesi, forbici, pinze, taglierini, seghe, scalpelli, tubi ed altri strumenti artigianali. Forse si stava preparando una o più azioni criminali.(2) Le contraffazioniTassello dopo tassello gli uomini della Guardia di Finanza della compagnia di Monopoli con il coordinamento del sostituto procuratore della Repubblica di Bari, hanno ricomposto il racconto di un business milionario, che prende forma nelle lontane regioni a nord di Shangai per dipanarsi lungo l’Europa, fino ai dettaglianti del Senegal che popolano le strade d’Italia.Con le operazioni <<China box>> e <<Shangai>>, l’una figlia dell’altra, con 4 arresti, 65 indagati e sequestri per 60 milioni di euro, le Fiamme Gialle hanno chiuso il cerchio intorno a una delle più complesse e ramificate organizzazioni malavitose multietniche attive nel campo della contraffazione. Borse, cinture, occhiali, scarpe, milioni e milioni di pezzi tutti rigotosamente falsi, tutti rigorosamente griffati.Gli uomini del GdF hanno avviato le indagini nel maggio del 2006. In poco meno di due anni sono stati 800mila gli articoli contraffatti sottoposti a sequestro con 11 container e 5 depositi. L’organizzazione multietnica disarticolata dai dinanzieri era specializzata nell’introduzione e commercializzazione in Italia di ingenti quantitativi di articoli di abbigliamento (soprattutto borse, cinture, calzature e altri accessori d’alta moda). Merce destinata ad alimentare un mercato parallelo dalle proporzioni vastissime.L’indagine ha permesso d’individuare anche le fabbriche di produzione della merce nella Repubblica Popolare Cinese. Così, per la prima volta, si conoscono i nomi dei produttori e quelli degli spedizionieri, le rotte, le modalità di trasporto e di cessione. Segnalazioni in tal senso sono state fatte all’Alto Commissariato contro la contraffazione. Nel corso dell’attività investigativa, viceversa, non è stato possibile accedere allo strumento della rogatoria per l’assenza di accordi bilaterali tra la Cina e l’Unione Europea sia in materia giudiziaria che amministrativa.

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Gli investigatori hanno individuato un personaggio del Senegal, che vive a Bari, perno tra i produttori cinesi e i dettaglianti senegalesi. E’ lui che acquista dagli orientali di stanza in Campania per poi rifornire i nordafricani ambulanti attivi in Puglia. Sarebbe lui, inoltre, il rifornitore di alcuni italiani attivi nel Nord Barese nella vendita on line di merce contraffatta. Quanto ai senegalesi che vendono sulle bancarelle allestite nelle feste di paese o nelle mete tutistiche tra Bari e Brindisi, l’inchiesta ha accertato il loro schieramento sul territorio di tipo militare: ognuno svolge un ruolo ben preciso. C’è il venditore, c’è la staffetta che rifornisce la bancarella di merce tenuta in automobile parcheggiata in zone; c’è il palo e ci sono le sentinelle, che in maniera diversa sorvegliano la zona per segnalare l’eventuale arrivo delle forze dell’ordine. Ci sono anche uomini nerboruti capaci di intervenire nel caso di possibili sequestri delle forze di plizia. (2) Il verdetto con gazzarra per il delitto Marchitelli Il 14 maggio 2008 è stato emesso il verdetto che ha condannato 15 dei 17 imputati nel processo per l’omicidio di Gaetano Marchitelli, il 15enne pony express di pizzeria ucciso a Carbonare il 2 ottobre 2003, perché sfortunatamente e incosapevolmente al centro dello sbarramento di fuoco indirizzato ad altri.La Corte ha condannato a 30 anni di reclusione ciascuno i quattro presunti appartenenti al <<gruppo di fuoco>>, così come identificato dalle indagini della Squadra mobile: Francesco Luigi Frasca, i fratelli Luigi e Vincenzo Guglielmi e Giovanni Partipilo, tutti oggi poco più che ventenni e tutti ritenuti vicini al clan diretto – secondo l’antimafia – da Antonio Di Cosola di Ceglie del Campo. Secondo la Dda, il <<gruppo di fuoco>>, quella sera, sarebbe entrato in azione contro due presunti esponenti del clan avversario degli Strisciuglio, Francesco e Raffaele Abbinante, condannati rispettivamente a 6 anni e a 4 anni e mezzo di reclusione per episodi minori.A 17 anni ciascuno sono stati condannati, per altri fatti di violenza: Cosimo Di Cosola, fratello del presunto boss, Andrea Caporusso, Domenico Marzullo e Domenico Masciopinto (già condannato a 30 anni per il delitto Marchitelli). Sconteranno 15 anni e 6 mesi ciascuno Salvatore Walter Arganese, Pietro Barberio e Luigi Schingarro. Ancora 4 anni e 6 mesi per Antonio Lasorsa e due anni, con il beneficio della sospensione condizionata della pena, per Angela Maria Masciopinto. Assolti da ogni accusa il calabrese Francesco Costa e Nicola Murgolo.Gli imputati ritenuti componenti del <<gruppo di fuoco>> dovranno risarcire i danni alla famiglia Marchitelli, al Comune e al ragazzo che rimase ferito. Per ora, la Corte ha fissato provvisionali di 100mila euro ai Marchitelli e al Comune e di 20mila al giovane ferito.La lettura della sentenza ha conosciuto accese proteste, offese ai giudici e assedio al palazzo di giustizia.Fra i protagonisti delle aggressioni verbali ai giudici dell’Assise (presidente De Feo, a latere Maria Scamarcio) e al pm Desireé Digeronimo, la madre dei fratelli Luigi e

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Vincenzo Guglielmi. La donna ha fatto esplodere la sua rabbia quando il presidente ha letto il passaggio del dispositivo riguardante i suoi figli. Le sue reazioni hanno costretto l’esperto magistrato a interrompere la lettura. I carabinieri di presidio hanno allontanato dall’aula la donna che è svenuta per alcuni secondi. (2)

Giustiziato nel 2000, nel 2008 il verdettoDue condanne sono state emesse il 26 maggio 2008 dalla Corte d’Assise di Bari, per l’omicidio di un giovane pregiudicato, Pasquale Sinibaldi, di 23 anni, giustiziato con un colpo di pistola alla testa a maggio del 2000 alla periferia di Sannicandro, centro a una quindicina di chilometri da BariLa pena più alta, 18 anni di reclusione, è stata decisa per Carlo Biancofiore; a 15 anni di reclusione, invece, è stato condannato il collaboratore di giustizia Angelo Bruno, che ha quindi usufruito degli sconti di pena per i ‘pentiti’ e comunque ha ottenuto la prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti. Il verdetto ha confermato sostanzialmente l’impianto accusatorio. Secondo quanto emerso dalle indagini Sinibaldi sarebbe stato ucciso materialmente da Giovanni Pinto, all’epoca 21enne, ritenuto dagli investigatori un boss emergente del quartiere Carrassi di Bari, divenuto poi collaboratore di giustizia, e morto suicida in carcere negli anni scorsi.Sinibaldi, ritenuto un piccolo spacciatore, secondo la prospettazione accusatoria fu assassinato sia perché aveva chiesto di partecipare agli utili dello spaccio di sostanze stupefacenti (anziché continuare ad avere la normale paga settimanale) sia perché fu ritenuto un ‘infame’ in quanto avrebbe riferito a un poliziotto vittima del furto della propria automobile, il nome dell’autore, Giovanni Pinto, che all’epoca dei fatti agli arresti domiciliari. Nella motivazione della sentenza, i giudici chiariranno il proprio convincimento riguardo al movente della esecuzione.La vicenda giudiziaria si ricollega, quindi, a quella personale di Giovanni Pinto. Scampato per miracolo a un attentato nell’estate del 1992, quando aveva 13 anni e mezzo (raggiunto da quattro proiettili finì in Rianimazione), negli anni successivi Pinto – stando alle risultanze di alcune inchieste sulla mala cittadina – scalò le gerarchie criminali fino ad approdare alla decisione di collaborare con la giustizia. Poi cambiò idea, fino alla crisi interiore che lo spinse al gesto estremo. (30) Un quartiere difficile: San Pio anzi EnzitetoIl quartiere S. Pio (più conosciuto come Enziteto) a nord della città, lontano e terribile nel suo cemento spietato, è l’attuale bazar della droga a cielo aperto di Bari. Come Japigia negli <<anni d’oro>> di Savinuccio Parisi. Prezzi della droga più bassi rispetto ad altre piazze cittadine dello spaccio; la vicinanza del quartiere alla statale 16, una delle strade più importanti della rete provinciale; cocaina, eroina hashish e marijuana sempre disponibili; infine una situazione ambientale favorevole tra indifferenza e omertà delle persone che vivono in quelle strade dove lo smercio di stupefacenti è più frequente.

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Sono queste le ragioni che hanno fatto del rione San Pio il nuovo quartiere dello spaccio, il luogo dove ogni giorno decine di dosi di sostanze diverse passano di mano. Sull’autobus 19 che parte da piazza Moro sale una variegata componente umana della città e dell’hinterland che si confonde tra le signore e gli studenti che rientrano nel quartiere. Questo popolo di frequentatori va a S. Pio, compra droga e torna in città.Non è un problema, perché non vi sono tracce di vigili urbani che nel quartiere hanno un loro presidio, sono chiusi nel recinto di piazzetta Eleonora e se provi a citofonare difficilmente qualcuno risponde.Quando scendi dall’autobus, al capolinea del quartiere, ci sono ragazzi che tornano in città, dopo aver comprato le dosi e altri che camminano lungo le strade vuote lentamente e spariscono.Qualcuno ha riferimenti ben precisi, sa a chi rivolgersi, sa a quale porta andare a bussare. Altri si infilano, attraverso i varchi delle scale esterne condominiali, sotto i famosi portici, quella lunga camminata pedonale che, nelle intenzioni dei progettisti, avrebbe dovuto essere la strada dei negozi e delle botteghe. Viceversa, quei locali sono stati presi d’assalto dagli abusivi che ne hanno fatto abitazioni. Lì si sono insediati uomini, donne, famiglie, bambini, ragazze madri, Un’umanità varia di margine. In quelle case, per anni, decine e decine di bambini si sono lavati nelle bacinelle e hanno usato i pitali per i bisogni. Tutti lo sapevano. Ma non hanno mai fatto niente. In silenzio le istituzioni dicevano: siete abusivi, cosa volete? Ringraziate che avete un tetto.Abusivi che nessuno manda via. In questi bassi – secondo la polizia – verrebbero nascoste discrete quantità di sostanze stupefacenti. Questo stratagemma consentirebbe agli spacciatori di avere sempre sotto mano dosi da vendere ai numerosi acquirenti in arrivo dalla città, ma di non averne addosso, nel caso dell’improvviso arrivo delle forze di polizia e di una conseguente perquisizione.Gli abusivi verrebbero costantemente intimiditi dai soldati del clan. Le famiglie, estranee ai traffici, subirebbero una sorta di condizionamento oggettivo: se uno di questi personaggi bussa alla porta e <<chiede il favore>> di custodire un pacchetto, sarebbe praticamente impossibile opporre un rifiuto. Non solo, ma è attivo anche il reclutamento. Confessa una mamma ad un inviato del più diffuso quotidiano barese: <<Mio figlio ha 16 anni. Gli hanno proposto 500 euro per vigilare i portici, dove spacciano la droga. Lo sappiamo benissimo che spacciano la droga, ma dobbiamo tenere gli occhi bassi e far finta di niente. Se no sono guai>>. E’ stato avvicinato da ‘quelli lì’, i soldati del clan Strisciuglio, come molti altri. Cinquecento euro praticamente per non far niente, per vigilare su quella striscia pedonale di cemento. <<Gli spezzo le gambe piuttosto – aggiunge la mamma coraggio – Gliel’ho detto: tu guarda a terra e fatti i fatti tuoi. Cammina con i paraocchi come i cavalli>>. (15) Ed è vero a Enziteto bisogna guardare sempre in basso. Camminare con gli occhi per terra. Anche se, osserva un giornalista di

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Repubblica, è bene anche turarsi il naso, perchè di puzzare puzza. In un pomeriggio, continua il suo racconto, caldo e afoso anche i tombini nascondono la droga, pure la fogna, è la sua amara conclusione, è in grado di dare da mangiare. E’ stato al centro sociale dove ha raccolto le confidenze delle signore che lo frequentono. <<E’ cambiato tanto in un anno emezzo. E noi abbiamo paura. Non per noi, ma per i bambini>>, in coro affidano alla stampa, il loro sconsolato lamento. La paura si tocca con mano. Esempi: la Opel Astra, di proprietà di una signora presente all’incontro, piace molto al figlio dei vicini di casa. Tutti i giorni, a partire da una settimana, gliela chiede gentilmente in prestito. <<Dammi le chiavi>>, le dice. E lei annuisce e consegna il mazzo. Conviene. Tempo fa disse di no al ragazzino, 20 anni: era un’altra occasione, il giovane le domadò gentilmente di tenere in casa una scatola. Davanti al rifiuto quello non battè ciglio. Il giorno dopo, per caso, un vetro della macchina fu ritrovato in frantumi. <<Ora se qualcuno mi chiede cosa fa quel ragazzo con la macchina, io non glielo so dire. E sinceramente non posso nemmeno chiederlo a lui. Ho paura>>. Un’altra signora racconta di sua figlia, 17 anni. <<E’ successo l’altro giorno (9 giugno 2008, nostra nota), ero fuori al balcone, qui alle palazzine dei Matarrese che non sono case popolari ma cooperative, noi siamo gente per bene. E’ arrivato uno con un macchinone, è entrato nel complesso – che è pure vietato – e gli si è avvicinato un ragazzino. Non so cosa si sono detti so che quello si è allontanato, è andato dietro a un albero, poi ha preso una bustina, gliel’ha data in cambio di soldi, ed è scappato via. Io guardavo e mia figlia mi ha urlato contro “Mamma entra subito, ancora ti vedono”. Io sono entrata e ho acceso la televisione>>. Paura appunto. Si devono guardare bene da quel signore che ieri pomeriggio (10 giugno 2008, sempre nostra nota) urlava in canottiera dal balcone (pare che la giustizia gli impedisca di uscire di casa) di non fotografare un tempio di San Pio da lui costruito su un terreno di proprietà del Comune. <<Mi dà fastidio. Non si può fotografare>>. (15) Le numerose indagini condotte dalla Squadra Mobile hanno permesso di accertare che la zona dei portici è il luogo eletto ad area di spaccio e punto di riferimento dei tossicodipendenti. La distribuzione massiva e capillare della droga a <<San Pio>>, sostengono gli investigatori, è favorita dalla particolare conformazione urbanistica di quel pezzo di rione, protetto da sentinelle e vedette sistemate nei punti strategici, a protezione di quello che gli stessi poliziotti hanno ribattezzato il <<fortino>>. In uno di questi bassi abitava la piccola Eleonora, morta di stenti, e i suoi crudeli genitori (condannati in primo grado per averne provocato la morte). Nel locale al piano terra che era un tempo l’abitazione di Eleonora, ora è sorta la ludoteca ribattezzata <<Casa Eleonora>>, che si trova, in sostanza, proprio nel cuore dello smercio al dettaglio di stupefacenti. La Ludoteca è spesso chiusa, per ragioni facilmente ipotizzabili.Sotto i portici sono invece sempre in servizio le sentinelle del quartiere, a bordo di potenti scooter, ovviamente senza casco, circolano appena qualcuno s’affaccia nel loro territorio. Verificano, controllano. All’occorrenza intervengono. L’intero quartiere è nelle mani del clan Strisciuglio. Quelli che si vedono all’opera sono i

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soldati di Mimmo <<la luna> (il riconosciuto capo-clan) che si è impossessato del controllo del mercato della droga anche in questo lembo di città.La vendita si consuma senza difficoltà, perché le strade sono vuote, perché il rione potrebbe sembrare disabitato, per questo silenzio e questo senso di vuoto che si respira lungo le strade. Sotto i portici, sugli usci dei bassi, gesti furtivi ma fin troppo chiari. Le dosi vanno a ruba, 20, 30 50 euro, a secondo del tipo di sostanza e della quantità acquistata. L’incasso della giornata è notevole.Sul quartiere, ad ogni modo, si concentra l’offensiva della Squadra Mobile. Negli ultimi mesi sono finiti in carcere in manette Giuseppe Franco, 22 anni, ritenuto responsabile di una intensa attività di spaccio condotta proprio sotto i portici. Ancora prima era stato scoperto Vincenzo Vernone , 34 enne, trovato in possesso di oltre 100 grammi di sostanza. Ed ancora nella rete degli inquirenti sono finiti uno dietro l’altro Saverio Faccilongo e Luca Spina, di 20 e 22 anni, giovanissimi, nomi noti del quartiere, Renato Mema, 32 anni e Nicola Ciaramitano 21. Ingente la quantità di droga sequestrata. Nel solo mese di febbraio sono state recuperate 58 dosi di cocaina, 29 di eroina e 60 di hashish.Il 14 marzo 2008 gli investigatori della quinta sezione della squadra mobile hanno tratto in arresto con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti un giovane di 20 anni, Piero Mesecorto, trovato in possesso di 24 grammi di eroina e cocaina già confezionate in dosi. Appena ventenne si tratta comunque di una vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, non legato comunque alla mafia barese o affiliato a clan. Secondo il racconto degli investigatori, il giovane avrebbe manifestato un innato talento a ficcarsi nei guai sin da giovanissimo. In base alla ricostruzione della polizia apparterebbe a quella schiera di ‘pusher’ che non solo vendono droga tra Catino e San Pio ma che in quella zona ci vivono, sapendo di poter contare sulla complicità di amici e vicini. Non è un caso che spesso lo smercio avviene nelle stradine più malfamate dove l’indifferenza, l’omertà a volte anche la complicità sono la regola. Il ‘fiato sul collo’ degli spacciatori le forze dell’ordine provano a farlo sentire, anche se i cervelli e i manovali dello spaccio le studiano tutte. (8) A cominciare dall’uso dei walkie talkie, ricetrasmittenti di vecchissima generazione le cui conversazioni sono difficili da intercettare, almeno con gli attuali apparati in uso alle forze dell’ordine, calibrati per le linee della telefonia fissa e mobile. Con i walkie talkie le sentinelle che presidiano il quartiere e, in particolare, la zona pedonale dei portici, si scambiano informazioni, segnalano l’arrivo di persone, si mettono reciprocamente in allerta.E’ uno degli stratagemmi individuati dal crimine organizzato che ha fatto del quartiere un fenomeno di autentico allarme sociale. Zona di riferimento dello stupefacente è il quartiere Libertà e non poteva essere altrimenti visto che quella è la zona di elezione di Mimmo Strisciuglio. I giovanissimi spacciatori da San Pio raggiungono il Libertà per acquistare notevoli quantità di cocaina, eroina e droghe leggere. Il tragitto – sempre con l’obiettivo di sfuggire alle forze dell’ordine – lo percorrono a bordo di ciclomotori scegliendo strade minori e percorsi alternativi, cambiando di volta in volta itinerario.

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Su questo fenomeno enorme e devastante è tra l’altro in fase di conclusione una robusta inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia. Ma la repressione non basta, non può bastare per mettere fine a un’attività che, oltre tutto, confina nella paura (e chiusa in casa) la gran parte dei residenti del rione. Ma Enziteto è un lembo di territorio così remoto da rendere difficile anche la repressione. E’ doveroso aggiungere che la coraggiosa campagna di stampa su Enziteto promossa da “La Gazzetta del Mezzogiorno” ha comunque prodotto i primi risultati; da giugno entrerà in funzione il sistema di videosorveglianza, voluta dall’amministrazione comunale. Sono 41, in particolare, le telecamere che l’amministrazione sta per installare nelle periferie cittadine, dal San Paolo a Carbonara fino appunto a San Pio.Non solo, sembra aver toccato un nervo scoperto delle cooperative sociali, sempre la campagna di stampa, tanto che si sono risentite perché l’inchiesta giornalistica avrebbe, secondo loro, trasmesso una immagine negativa del loro lavoro che invece con la loro azione etica e professionale sostengono con qualità di risultati in tutti i quartieri cittadini, numerosi servizi socio assistenziali rivolti a minori, famiglie, disabili, anziani, homeless. Certo però che qualcosa non sta funzionando se molti ragazzi continuano a rimanere vittime del disagio e della devianza. (11) Ma in tanto il quartiere rimane ancor più in mano alla criminalità. Per toccare con mano questa realtà riportiamo fedelmente il racconto della visita a Enziteto fatta da un giornalista del Corriere del Mezzogiorno il 9 aprile 2008:“Se ci fossimo imbattuti nei segnali di ‘Alt’ o ‘Stop’, avremmo pensato ad uno dei vecchi check point di confine. Solo il cartello stradale di benvenuto a San Pio ci ricorda che siamo in Italia, in Puglia, a Bari. Sarebbe il caso di dire ad Enziteto. E sì perché, al di là dei buoni intenti e di qualche opera meritevole, San Pio (com’è stato ribattezzato) resta Enziteto. Il quartiere – per l’appunto – al confine dove regna l’anarchia. Peggio ancora, la malavita. Spadroneggia su chi vorrebbe vivere una vita tranquilla. Si impone con la forza, con i suoi fucili e le sue pistole. Come quella che ci mostra Nicola (il nome è di fantasia, pericoloso chiedergli la vera identità) a pochi passi da piazza Eleonora...........E’ la zona pedonale il centro nevralgico dei malaffari del clan Strisciuglio, è lì che le facce devono farsi riconoscere.<<Chi sei?>> chiede Nicola - ventenne dai capelli gelatinati, fede al dito e abiti griffati - in tono minaccioso e in dialetto. E’ il primo check point che cronista e fotografo devono superare. E’ stato avvisato della mia presenza da un suo ‘collega’, una sentinella ferma in una Smart fuori dalla zona pedonale. In mano ha un walkie talkie, un ricetrasmittente per dialogare a distanza. <<Dove vai?>>, è il secondo quesito. Guai ad accennare nervosismo o mostrare troppa spavalderia, al posto di blocco bisogna fermarsi e sottostare. Le loro non sono semplici curiosità, sono lì per proteggere i propri affari (droga e armi) dalla ‘madama’ e dagli assalti dei clan rivali. <<Cosa vuoi?>>, è la terza richiesta

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d’informazione. Assodato che siamo giornalisti (il tesserino è utile quanto una carta d’identità o un pass in zona di guerra, non fosse altro per dimostrare la propria verità) e promesso che non ci fermeremo troppo tempo, la raccomandazione che ci fanno è una, ma perentoria. <<Se fotografate auto, moto o persone vi spariamo>>. Forse lo dice per incutere timore, forse no. Fatto sta che dietro la cintura, nei jeans, porta una pistola. Che ci mostra a scanso di equivoci. Siamo liberi. proseguiamo. E’ ora di pranzo, sono quasi le due. San Pio è deserto, in giro poche anime.........E le sentinelle che ci seguono con gli sguardi, senza mai perderci di vista. San Pio è il quartiere della polvere bianca, quella che spappola il cervello e ammazza.Nell’ultimo mese, polizia e carabinieri hanno fermato sette persone, poco più che maggiorenni. Sono loro i ‘portantini’, a loro è affidato anche il compito di sorvegliare il perimetro di Enziteto. Il rione dimenticato, progettato distante dalla città e pensato in maniera tale da farlo diventare una roccaforte inespugnabile. Nessuno entra o esce indisturbato. Dalle finestre dei palazzi in prefabbricato gli uomini costretti agli arresti domiciliari vigilano su ogni movimento. E segnalano. Non siamo tranquilli durante la nostra visita, l’impressione è che la sicurezza qui sia una parola sconosciuta. Al di là della sede della polizia municipale - quasi un comando in trincea – la presenza dello Stato è vaga. Spesso polizia e carabinieri provano delle incursioni, stazionano nei posti di blocco – quelli veri, quelli ‘legali’ – ma non fanno paura. Non spaventano la malavita. Non più di quanto riescano a spaventare noi. <<Ancora qui siete?>>, ci rinfaccia un’altra sentinella. Sono trascorsi non più di 15 minuti dal passaggio check point. <<Dai, la gita è finita, adesso dobbiamo lavorare>>. Ci mostra la strada: <<Andate verso la statua di San Pio. E non tornate>>. Perché qui non basta cambiare nome al quartiere. San Pio è ancora Enziteto. Quartiere di confine. (11)

C’è un po’ di tutto in questo quartiere: la convivenza difficile e scomoda tra le famiglie della malavita e quelle che con lo spaccio della droga non vogliono avere a che fare ma che per non aver problemi girano la testa dall’altra parte e fanno finta di niente. Ci sono gli spacciatori, quelli che vengono dal Libertà e quelli del posto che vendendo droga sbarcono il lunario..L’8 giugno 2008 gli investigatori della sezione antiscippo sono arrivati nel quartiere mentre si faceva giorno. Si sono nascosti nei luoghi ancora bui e hanno osservato quello che accadeva. I ‘tossici’, come li chiamano da queste parti, sono arrivati alla spicciolata. Non erano neppure le 7,30 che erano già tutti in fila, soldi bene in vista ad attendere il loro turno. Cocaina, eroina, hashish, marijuana al mercatino di San Pio c’è tutto quello che serve per un viaggio da sballo, tra l’altro a prezzi convenienti.Quando i detective della mobile sono piombati sulla scena del reato, i ‘tossici’ si sono allontanati tra mugugni di paura e di sorpresa. Il pusher è saltato via nell’aiuola dove aveva nascosto la ‘roba’ ma non ha fatto in tempo a portare via nulla che i poliziotti gli erano già addosso. Il suo nome, Cosimo Pelargonio, 25 anni, uscito dal carcere un paio di mesi orsono dopo un arresto per rapina, secondo l’accusa, aveva nascosto in una siepe 12 dosi di cocaina (peso 12 grammi) e 21 di eroina (altri 23 grammi).

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E’ il sedicesimo spacciatore che finisce in manette al quartiere dal giorno di Natale per iniziativa della Squadra mobile, un record. Riuscire ad ingannare quella strana e inquietante connivenza tra una parte della popolazione e la malavita che controlla il mercato della droga non è facile. Un tacito consenso e una tolleranza che a volte coinvolge anche i non malavitosi. Chi sa tenere la bocca chiusa viene risarcito. Duecentocinquanta euro a settimana è il prezzo del silenzio per chi, ad esempio, lascia che gli spacciatori facciano i propri comodi. Ognuno fa la sua parte, anche i più piccoli, inconsapevolmente, ma non troppo. Capita che bambini di 6, 7 e 8 anni, istruiti a dovere, riconosciuti i poliziotti in giro per il quartiere abbiano dato l’allarme. Per loro è un gioco al quale partecipano per imitare i più grandi. Non ci sono ricompense, a spingerli è la voglia di entrare a far parte del mondo degli adulti. (15)

Per i ragazzi e i giovanotti, e non solo per loro, vi è una vera e propria tabella delle retribuzioni e degli onorari, di cui un’anticipazione ci era stata offerta dalla mamma che aveva paura di un possibile coinvolgimento del proprio figliuolo nel gioco della droga. Lo stipendio settimanale per un pusher che lavora nelle strade di Enziteto va dai 700 agli 800 euro. Onorario per una vedetta motorizzata, nello stesso periodo: 500 euro. Se tutto va bene alla fine del mese un giovanotto senza troppi scrupoli e la voglia di fare soldi facili, lavorando sulla piazza di San Pio, può mettere in tasca tra i 2000 ed i 3000 euro. L’iscrizione nel libro paga della holding dello spaccio è l’alternativa alle liste di collocamento o alle agenzie di lavoro interinale. E’ questo un altro aspetto della drammatica realtà minorile e di quella di disoccupati e precari di ogni età nei quartieri San Pio, Libertà, San Paolo, Japigia, Madonnella, Carbonara.Non ci si ferma qui. La mala che controlla lo smercio adotta anche la politica dell’assistenza per i complici che vengono arrestati e del risarcimento per coloro che finiscono nei guai senza aver fatto nulla. In quest’ultimo caso si tratta di abitanti del quartiere che sono fuori dal giro e che vengono coinvolti, loro malgrado, nelle attività della organizzazione che controlla lo spaccio. Succede, ad esempio, che uno spacciatore invada una proprietà privata (un balcone, un sottoscala o altro) oppure nasconda le sue dosi nel bucato lasciato ad asciugare al sole e che questo comportamento finisca per coinvolgere e mettere nei guai l’inconsapevole proprietario del bucato o del sottoscala, che non appartiene al giro della droga e che viene risarcito tra i 200 ed i 250 euro a settimana.Per gli affiliati invece che hanno la sventura di finire dietro le sbarre, l’organizzazione assicura assistenza legale. L’omertà e la complicità nascono il più delle volte dalla paura. Chi vuole stare fuori dal giro a San Pio più che altrove deve tenere la bocca chiusa se non vuole avere seri problemi.Secondo gli investigatori, il sabato e la domenica il business raggiunge quota 10, anche 11mila euro. Nei giorni feriali non si superano il tetto dei 7000 euro. (15)

Bisogna pur dire, per obiettività, che le istituzioni non sono state completamente assenti, anzi sono state prese lodevoli iniziative, tutte volte a ripristinare la legalità nel quartiere. Certo non sono mancati i fallimenti, come quello clamoroso del

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‘dentista’. Infatti, il 17 aprile 2007 fu inaugurato, con tanto di taglio di nastro da parte del Presidente della Regione, il centro odontoiatrico di Catino ed Enziteto, il posto dove i migliori odontoiatri di Bari avrebbero offerto gratuitamente la loro professione alla povera gente, a donne, uomini e soprattutto bambini del quartiere. E’ passato più di un anno e quello studio non ha mai aperto. Nemmeno per un giorno, un’ora, mai un’estrazione, una pulizia dei denti. I dentisti si difendono scaricando la responsabilità alla dannata burocrazia. La normativa vigente, spiegano, dice che per poter funzionare uno studio deve avere l’autorizzazione sanitaria. In quel locale manca, per esempio, l’autorizzazione che specifichi la destinazione d’uso. Insomma c’è qualche carta che non permette ai medici di fare il loro lavoro come volontari. Anche, per il vero, il centro antitumori sullo screening mammario fu inaugurato, ha funzionato per un mese e mezzo. E poi ha chiuso.Più efficace l’azione delle forze dell’ordine e di quelle inquirenti. Le indagini sul clan che gestisce lo spaccio di droga in quel quartiere ci sono già ed in passato l’operazione denominata ‘Eclissi’ sono sfociate anche in numerosi arresti: più di 180 nel gennaio del 2006, i carabinieri del reparto operativo infersero un duro colpo al clan Strisciuglio. Molti spacciatori che, nel quartiere, avevano la propria base operativa, dopo il blitz, sono finiti in carcere, ma il loro posto, con il tempo, è stato preso da altri. Giovanissimi, ma non minorenni, ragazzi che passano il tempo a spacciare. Ora il pm che ha coordinato l’operazione ‘Eclissi’, ha convocato per il 12 giugno 2008 una riunione con carabinieri e polizia. Un incontro che assomiglia ad un vero e proprio vertice che è servito a fare il punto sulle indagini già avviate e a rafforzare una linea di intervento comune: i blitz di polizia e carabinieri che, in momenti e circostanze diverse, hanno permesso di portare in carcere alcuni spacciatori, confluiranno in un solo fascicolo di indagine. (15) Sappiamo che con questa notizia sforiamo il 1° semestre 2008 ma per completare in modo positivo il capitolo dedicato al quartiere San Pio non potevamo rimandare al 2° semestre l’annuncio della clamorosa e brillante retata che, all’alba del 9 luglio 2008, ha, finalmente, smantellato il bazar della droga installato in quella estrema periferia della città. Un blitz della Squadra Mobile che ha svolto le indagini sotto la guida del pm della Dda di BariI detective della sezione criminalità organizzata e quelli della sezione antirapine, autori delle indagini (nel fascicolo sono confluiti anche gli atti di una inchiesta condotta dai carabinieri) hanno notificato provvedimenti di fermo a 15 persone vicine al clan Strisciuglio con l’accusa a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droghe, spaccio di stupefacenti e detenzione di armi: è stata contestata anche l’aggravante mafiosa dell’articolo 7 per aver favorito un clan mafioso. I fermati sono: Saverio Faccilongo, di 22 anni, capo del gruppo di spacciatori, Giuseppe Caizzi, di 39 anni, il suo luogotenente, Arturo Amore di 21, Angelo Bartoli di 25, Salvatore Dimatteo di 25, Antonio Lepore di 19, Michele Patruno di 26, Pasquale Allegrini di 21 e Antonio Davide Goffredo di 24. Il decreto è stato notificato in carcere a Giuseppe Ballabene, di 26 anni, Nicola Ciaramitano di 25, Giuseppe Drago di 21, Luca Spina di 20, Gaetano Prudente di 37. L’unico agli arresti domiciliari era

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Giuseppe Franco, 22 anni. Ventuno in tutti gli indagati. Nelle 150 pagine dell’informativa della squadra mobile un capitolo a parte è dedicato alle minacce subite dal giornalista del Corriere del Mezzogiorno, e delle quali abbiamo già raccontato.Crediamo di esserci sufficientemente soffermati a descrivere questo quartiere di confine, dove gli spacciatori erano liberi di vendere cocaina, eroina e hascisc alla luce del sole, di costringere casalinghe a nascondere droga nei panni stesi o nei vasi delle piante e di rendere quasi impossibile l’attività di polizia giudiziaria. Al punto che i poliziotti sono stati costretti a nascondersi sui tetti dei palazzi per filmare scene di spaccio e restare lì fino a notte fonda prima di andar via senza farsi vedere. Dal dicembre 2007 gli investigatori della squadra mobile hanno pedinato gli spacciatori, fotografato lo scambio di denaro e droga, interrogato i tossicodipendenti per poi infine operare il bltz. (35) DrogaMa le sostanze stupefacenti non sono un mercato esclusivo di Enziteto. Anche la movida di fine settimana si muove tra le varie sostanze tanto da comparire in un fascicolo della Procura distrettuale antimafia.Lo scenario in cui si muovono gli adolescenti della Bari bene, così come descritto dai pm inquirenti, è allarmante: pasticche di droga sciolte nelle bottigliette di acqua minerale, figli di noti boss mafiosi che circolano armati nelle discoteche e l’inevitabile ‘pizzo’ per parcheggiare la macchina. I reati ipotizzati (al momento non ci sono indagati) sono associazione mafiosa, estorsione e spaccio di droga.L’inchiesta dell’antimafia abbraccia un arco di tempo a partire dall’estate del 2006 fino al marzo del 2008.L’indagine preliminare, strada facendo, si è arricchita delle conferme fornite dal racconto di un testimone di giustizia. Il quale avrebbe spiegato che l’organizzazione della serata è affidata dai gestori delle discoteche (che in realtà affittano il locale per una o due feste a sera, la prima alle 18 per i ragazzi più piccoli e la seconda dopo mezzanotte) a universitari che, a loro volta, si servirebbero di studenti di 15 e 16 anni, soprattutto dei licei che si occupano invece della prevendita dei biglietti nelle scuole. In questo modo gli organizzatori assicurano ai ragazzini guadagni fino a duecento euro a settimana. Per ogni biglietto venduto, che alla cassa ha un prezzo di 15 euro, i quindicenni riceverebbero tre euro per la prevendita.Il testimone, a quanto è dato sapere, ha spiegato lo scenario inquietante in cui si svolgono le feste; durante le serate gli studenti minorenni entrano continuamente in contatto con esponenti di clan mafiosi che gestiscono i parcheggi delle discoteche; all’interno dei locali, i figli dei boss provvedono a fornire, a chi ne fa richiesta, pasticche di droga e sarebbero in grado di vendere altri tipi di sostanze stupefacenti. I giovani perbene assisterebbero inoltre alle scorribande dei ragazzi vicino alla criminalità barese che girano con la pistola ben in vista nella cintura dei pantaloni. E, durante altre serate, non sono mancate risse e furti di giubbotti e cellulari.

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Nel mirino della magistratura sarebbero finite sei o sette discoteche di Bari. Intanto sono stati ascoltati i gestori dei night club i quali hanno detto di non sapere nulla di quanto ipotizzato dai magistrati: si limiterebbero ad affittare il locale per la serata richiesta.Ma facciamo parlare i protagonisti. Marco è uno studente del liceo Scacchi ed è uno degli organizzatori più famosi nel mondo del divertimento under 18. <<Da una serata, fatta bene, io riesco a mettermi in tasca anche mille euro>>. Come? Si affitta un locale. L’affitto si paga con il costo dei biglietti che vanno dagli otto ai dodici euro. Non tutto però. <<In media si fa cinquanta e cinquanta>> spiega Marco, metà al proprietario del locale, metà agli organizzatori. Poi c’è il bar. Di solito intasca il proprietario, che procura i baristi, i liquori del discount travasati nelle bottiglie di primo livello e sforna Mojto, Coca&Rum e Negroni sbagliati: contando che per feste di questo genere si parte da una base minima garantita di almeno 200 ragazzi scalmanati, è un affare. Affarissimo se si pensa che quasi tutti hanno tanta voglia di bere, cinque euro almeno a cocktail, la base di partenza soltanto di consumatori è di duemila euro. Poi ci sono i pr, coetanei di Marco che lavorano per Marco. A loro spetta il compito di portare più persone possibili alle feste: intascano i due euro di prevendita dei biglietti. Alcune sere fa tutti in un locale di Triggiano, garantisce Eddy, che ti dà anche la consumazione gratis.Marco nega che di mezzo ci sia la malavita come invece sostiene la Procura distrettuale antimafia molte di queste feste sono gestite dai figli dei boss. Annalisa assicura, di contro, <<i Cheyenne arrivano, eccome se arrivano>>. I Cheyenne sono truppe di ragazzini che da Bari vecchia, San Paolo ed Enziteto soprattutto si fiondano nelle feste degli under 18 (ci sarebbero anche quelle universitarie ma sono altri canali: se arriva droga, arriva con gli stessi meccanismi del resto della città). I Cheyenne hanno cognomi pesanti (mitologici sono i racconti delle feste nelle quali interveniva ‘il ragazzo con la pistola’ e la sua banda di compagni, ora tutti al minorile per una serie di rapine). I Cheyenne non fanno parte direttamente dell’organizzazione delle feste ma in parte ci entrano. Illegalmente: rubare telefonini e portafogli dai giubbotti dei ragazzini e dalle borse delle ragazzine è un classico. Oppure ‘legalmente’: si occupano dei parcheggi (la moto, due euro, euro cinque la macchina) o in alcuni casi (quando per esempio si affittano i locali) gestiscono il bar. C’è poi la droga perché c’è: a Bari città droghe sintetiche poche. Quelle vengono smistate nelle feste, nei locali di Capitolo e soprattutto del tarantino, nella zona di Castellaneta. Tanta cocaina, invece, anche agli under 18. Dice la Dda di Bari che si tratta di un fenomeno criminale da non sottovalutare. Sono d’accordo anche i gestori dei locali: in questi giorni stanno sfilando in Procura a dire che di spaccio di droga, durante queste feste, loro non ne hanno mai saputo nulla. Ma da dicembre 2007 si sono dati una regola: tutti i titolari dei più importanti locali da ballo della città (i 13 che aderiscono alla Cna) hanno firmato un patto di non belligeranza. Almeno fino ad aprile 2008 niente più feste di ragazzini, troppo pericolose. <<Noi non le faremo mai più, è incredibile quello che succede>> giura Giulio Tedone del Cafè del Mar. Non

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tutti i suoi colleghi sono però d’accordo: ad aprile arriva il sole, la bella stagione. E, insegna Marco, ad aprile cominciano gli affari. (22)

Intanto però arrivano in Procura Dda le prime conferme inequivocabili a quella che era inizialmente una ipotesi investigativa preoccupante.I gestori delle discoteche e anche alcuni organizzatori di feste private nei locali da ballo confermano: <<Sì, abbiamo il fiato sul collo della malavita>>. E aggiungono: <<Non sappiamo come liberarcene>>. E’ quanto trapelato dagli interrogatori condotti negli ultimi giorni dal pubblico ministero inquirente che ha avviato con la Squadra mobile una serie di accertamenti sulle presunte infiltrazioni malavitose negli ambienti dei ragazzi perbene.L’esperto pm ha già sentito una decina di persone, fra gestori dei locali e organizzatori di feste private, per raccogliere informazioni sufficientemente precise. Sia gestori sia promotori dei party vengono ascoltati come <<persone informate sui fatti>>, cioè come potenziali testimoni. Insomma, nessuno di loro è sottoposto a indagini.A rafforzare la convinzione degli inquirenti, comunque, c’erano le rivelazioni di un ‘testimone di giustizia’ (cioè una persona non indagata ma interna agli ambienti malavitosi) che avrebbe confermato la propensione dei clan a inserirsi il più possibile nell’orbita dei locali da ballo.Gli interrogatori da parte della Procura e della Squadra mobile, continueranno. E chiariranno meglio i contorni del fenomeno, che oggettivamente preoccupa migliaia di genitori di teen-ager e anche di giovani studenti universitari alla ricerca di un po’ di svago e invece – a quanto pare – si imbattono in personaggi, anche giovanissimi, legati ai clan della criminalità organizzata. In particolare, secondo indiscrezioni, sotto i riflettori degli investigatori ci sarebbe più precisamente un clan che da un decennio gestirebbe gli affari illeciti in parecchi quartieri cittadini e che avrebbe come caratteristica la propensione a diversificare le proprie attività e a investire uomini e mezzi nel tipo di affare che – in un determinato momento – potrebbe essere più redditizio. Gli inquirenti della Dda e la Mobile comunque si stanno impegnando a, si può ben credere, non mollare. (24) Resta comunque il fatto che il traffico di sostanze stupefacenti dilaga su tutto il territorio provinciale.

*Solo leve della criminalità, non ancora una vera organizzazione i 13 ragazzi (un quattordicesimo è ricercato) che il 27 marzo 2008 a Bisceglie sono finiti in manette nell’ambito dell’operazione <<Again>> condotta dai carabinieri di Trani su disposizione del gip del Tribunale di quella città, che contesta loro i reati di concorso in spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione, detenzione di armi e, in qualche caso, anche di violazione degli arresti domiciliari. Non una organizzazione verticistica, secondo gli inquirenti, ma a tirare le fila del gruppo c’erano i due fratelli

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biscegliesi Giuseppe e Michele Catino (rispettivamente 26 e 20 anni) e il cugino Giuseppe Catino (23 anni). E di questo facevano parte anche quattro ragazze, che spesso facevano da ‘staffetta’ della sostanza stupefacente da un posto all’altro, ma tenevano anche la contabilità.L’attività era in generale frenetica, come hanno dimostrato le lunghe intercettazioni ambientali e gli appostamenti dei militari che hanno permesso di raccogliere gli elementi alla base della poderosa ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip.Le indagini che hanno portato a smantellare sicuramente buona parte del traffico di marijuana a Bisceglie, partono dalla gambizzazione di Giovanni Leuci, pregiudicato di 45 anni, conosciuto come ‘mazzombrell’, avvenuta il 27 gennaio 2007 nell’affollata piazza del pesce della cittadina: quest’ultimo apparteneva a un gruppo opposto a quello sgominato, che si contendeva lo spaccio a Bisceglie, e finì anch’esso, nel giugno 2007, con l’operazione <<Cerbero>>.Ma fu l’incidente in cui morirono il 17enne Enrico Pasculli e il 18enne Nicola Maddalena, il primo maggio 2007, nel quartiere Sant’Andrea, a fornire ulteriori elementi agli inquirenti: i due ragazzi finirono schiantati contro un albero a bordo di uno scooter, alla presenza di alcuni passanti; ma quando i carabinieri arrivarono trovarono solo alcuni pezzi del motorino. Qualcuno lo aveva fatto sparire per evitare che i militari scoprissero che il mezzo serviva appunto per portare la droga ai tanti clienti: ragazzini ma anche professionisti, tra cui i carabinieri hanno individuato anche un infermiere e il titolare di un’attività commerciale.Il motorino fu poi rintracciato in possesso di una terza persona riconducibile al gruppo e risultò essere stato sottratto a una custodia giudiziale a Molfetta ed era appunto uno dei tanti utilizzati per smerciare la sostanza. Quasi sempre motorini proventi di furto, con cui i pusher riuscivano a muoversi con estrema disinvoltura da un posto all’altro della città e che, in qualche caso, non hanno esitato <<a carambolare contro le autovetture delle forze dell’ordine>>.A dimostrazione ulteriore della spregiudicatezza di questi giovanissimi, il gip rileva come i 14 indagati, tutti giovanissimi (hanno tra i 20 e i 26 anni, solo una delle ragazze ha poco più di 30 anni), abbiano <<tranquillamente continuato a spacciare stando agli arresti domiciliari, servendosi di familiari e minori nel confezionamento delle singole dosi>>.Per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine, era abbastanza abituale anche l’utilizzo di termini criptici per indicare la sostanza stupefacente: marmitta, giocattolo, sigarette, bicicletta, bombola, pizze. Ma anche per indicare i luoghi d’incontro per la consegna: castello, alla madonna, alla grotta azzurra, al garage azzurro, ai tre archi.Proprio in uno di questi luoghi, la cosiddetta ‘grotta azzurra’ (ovvero due stanze prese in affitto a due passi del Teatro Garibaldi), i carabinieri, durante l’irruzione del 28 marzo 2007, sequestravano oltre 30 dosi di marijuana e materiale per il confezionamento. L’intervento fu possibile solo grazie all’aiuto del servizio

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veterinario perché a guardia della ‘grotta’ c’erano due grossi pit-bull. Nel corso dell’attività investigativa dell’ultimo anno, sono stati sequestrati complessivamente un chilo di marijuana e arrestate altre sette persone. (22)

*Ma anche a Bitonto sono in forte aumento gli spacciatori minorenni ed insospettabili. La conferma si è avuta il 28 marzo 2008 quando nel sacchetto di plastica, che i carabinieri sono riusciti a recuperare, c’erano trentuno dosi di hashish e ventuno di cocaina per un totale di oltre sessanta grammi di sostanza stupefacente. Nessuna traccia del giovane pusher che, alla vista dei militari, si è allontanato in tutta fretta dopo essersi liberato delle dosi.Il sequestro è avvenuto nel corso di uno specifico servizio di controllo antidroga nella città vecchia, nei vicoli dello spaccio, in cui giovanissimi, assoldati dai clan, vendono droga a tossicodipendenti che arrivano anche da altre città del circondario.Tutto è accaduto nella tarda serata. Ad insospettire i militari era stato proprio la presenza numerosa di tossicodipendenti che si aggiravano nelle vie della città vecchia alla ricerca del pusher di turno che si è accorto della presenza dei carabinieri che ha pensato bene a guadagnarsi la fuga. (22)

*Il panorama dello sballo dei giovani è ampio. <<C’è una droga per ogni tasca>>, spiegano allarmati gli investigatori che operano in questo campo. E per l’uscita del sabato sera c’è da scegliere, tanto che anche gli spacciatori si sono adeguati, diversificando l’offerta. C’è la ketamina, polvere giallina, i granelli che avanzano dalla sniffata. E’ una delle nuove droghe che utilizzano i ragazzi baresi, giovani anche minorenni con pochi soldi nelle tasche e l’insana voglia di ‘provare’. La chiamano anche ‘cat Valium’ o in modo più innocuo come una nota marca di cereali, ‘Special K’, come se fosse di casa. In realtà è un anestetico dissociativo, utilizzato in veterinaria soprattutto sui cavalli, disponibile in farmacia in forma liquida e quindi iniettabile come l’eroina o trasformabile in polvere (basta un microonde, dicono,) e quindi inalabile come la cocaina.Circola nelle discoteche, nei locali notturni e dà quello che i ragazzi, anche minorenni, cercano: la ‘bolla’, e cioè la sensazione di essere sospesi, di fluttuare con la mente che si distacca dal corpo, attraversando esperienze fortemente dissociative, viaggio tra la vita e la morte. E’ pericolosa come tutte le altre droghe, costa poco e si sta diffondendo a macchia d’olio.Sulla bancarella clandestina c’è l’eroina, richiesta dai vecchi tossicodipendenti e quindi non può mancare. Prezzo di listino: 25-30 euro a dose. Roba da vero supermarket.Ma c’è anche la cocaina, così diffusa che Bari è stata soprannominata la ‘seconda città bianca’, naturalmente dopo Ostuni. Per la cocaina i prezzi sono calati, tanto da

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essere sempre più alla portata dei ragazzi che con 40 euro se ne portano via una dose (di circa mezzo grammo). La sniffano, ma la fumano anche, in associazione con sostanze di altro tipo come la marjuana: sigari, chiamati ‘blunt’ che hanno un costo contenuto, tanto da essere venduti anche a 10 euro. Ancor più a buon prezzo per i giovani sono le pasticche di ecstasy: se ne trovano anche a 5 euro ciascuna. E non inducano in errore i giovani abbronzati, giacca attillata e spalle muscolose, che si aggirano nei locali con la bottiglietta dell’acqua. Non è una nuova tendenza, ma semplicemente un modo per i ‘salutisti’ d’assumere ‘Mdma’ (metildiossimetanfetamina), il principio attivo dell’ecstasy comprato in polvere e sciolto in acqua o nei coktail colorati.Insapore e inodore, è ancor più pericoloso se somministrato all’insaputa di chi crede di bere bevande analcoliche.L’ecstasy, classificata tra le sostanze stimolanti (prolunga la resistenza in discoteca) e allucinogene, è anche conosciuta tra i fruitori come ‘la droga dell’amore universale’, perché chi la assume vede tutto quello che lo circonda come buono e giusto, entrando in facile sintonia con l’ambiente circostante, ma soprattutto eliminando qualsiasi barriera.Per i ragazzi baresi non è difficile, purtroppo, acquistare droga in città. E, di certo, i costi esigui danno una grossa mano alla crescita del mercato illecito. Piccoli pusher sono a disposizione nei locali della movida, a Bari vecchia, così come attorno a quasi tutte le discoteche. E il sospetto degli investigatori è che spesso a rifornire gli acquirenti sono gli stessi pr che, per conto degli organizzatori, vendono biglietti per le serate.Ma lo sballo si compra anche in altre zone, <<ovunque>>, dicono gli inquirenti: a Poggiofranco e Japigia o nei giardinetti di piazza Umberto, tra i giochini colorati, lì dove si contendono gli spazi gli extracomunitari che vendono le loro borse contraffatte e le mamme che trattengono per mano i bambini irrequieti. (22)

*Due gruppi gestivano il mercato della droga raccattando clienti tra Altamura e Matera e garantendo, al proprio interno, una rappresentanza femminile adeguata e qualificata. La prima organizzazione era addirittura capeggiata da una donna, Maria Iurlaro, detta Stefania e poteva vantare una presenza del gentil sesso vicina al cinquanta per cento, comprese una mamma di 55anni e le sue due giovani figlie rispettivamente di 25 e 29 anni.Nel secondo gruppo, invece, guidato da Antonio Francia, non si andava oltre il dieci per cento. Sono stati i carabinieri della Compagnia di Altamura a disarticolare i due sodalizi e condurre in carcere e ai domiciliari i componenti con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

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L’inchiesta ha preso il via nel 2005 ed è culminata, il 6 maggio 2008, con l’esecuzione, da parte dei carabinieri, di 35 ordinanze di custodia cautelare (19 in carcere, 15 ai domiciliari, una in comunità) sulle 40 emesse dal gip. Solo a ventiquattro delle persone finite in manette, uomini e donne, è stato contestato il reato associativo, per gli altri le accuse sono lo spaccio e il favoreggiamento. Più di cento le persone indagate negli ultimi tre anni ma il cerchio delle indagini si è chiuso intorno a quaranta imputati ai quali sono stati contestati 83 capi di imputazione. Più di 100 inoltre gli assuntori di droga identificati dei quali 57 sono stati segnalati all’autorità amministrativa. Un lavoro immane che gli investigatori hanno portato avanti su tre fronti: il primo delle investigazioni telefoniche; il secondo dei pedinamenti e delle registrazioni video e audio degli incontri per la consegna della droga; il terzo, quella della identificazione e audizione degli acquirenti e dei venditori della droga.La politica dello spaccio – secondo gli investigatori – avrebbe funzionato alla grande, incentivando il mercato, le cui fila erano saldamente nelle mani dei presunti capi dei due sodalizi e dei loro collaboratori più stretti.Stando alla ricostruzione fatta dagli investigatori, Maria Iurlaro aveva creato una specie di ‘call center’ al quale giungevano le ordinazioni di cocaina, eroina e hashish che lei gestiva direttamente insieme al suo braccio destro e attuale compagno Leonardo Paulicelli, fissando l’appuntamento per la consegna delle dosi e scegliendo il pusher al quale affidare la sostanza. Sempre per la versione dei carabinieri si alternavano all’utenza ‘call center’ le donne del gruppo, facendo credere che ci fosse sempre la Iurlaro a quel capo di telefono. La presunta ‘mammasantissima’ si aggirava per Altamura tessendo i suoi traffici e in alcune circostanze, i carabinieri, che la pedinavano, l’avrebbero vista accompagnarsi con il figlio di cinque anni. La sua posizione dominante, il suo carisma – stando ai contenuti dell’inchiesta – sarebbe il frutto della sua lunga militanza negli ambienti del malaffare altamurano essendo stato in passato compagna di due malavitosi del posto, entrambi deceduti, il primo in un agguato, il secondo per una grave malattia. I carabinieri hanno accertato che erano cinque le donne aggregate al gruppo Iurlaro e che avevano un ruolo attivo accanto alla presunta boss. Molti dei componenti della organizzazione gravitavano intorno all’abitazione della donna, un condominio nel quale avevano casa anche altri affiliati in via Buonarroti.Un gruppetto meno importante, composto da appena due donne, era invece presente all’interno del secondo sodalizio, formato da un numero maggiore di persone e capeggiato – dicono i carabinieri – da Antonio Francia con la collaborazione di Giuseppe Debenedictis. L’accorgimento dei due gruppi era quello di non pestarsi i piedi e di conseguenza di lavorare in zone diverse della città. Cosa che ha permesso ad entrambi di portare avanti il proprio business in maniera proficua e per diverso tempo. (22)

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Su alcuni appunti avevano annotato le formule chimiche che permettevano loro di sentetizzare la sostanza stupefacente con la plastica. Così riuscivano ad eludere i controlli. Le valigie che contenevano la droga superavano il sistema di vigilanza negli aeroporti, come è accaduto per un trolley che, a Bari, è arrivato, passando da tre scali internazionali, Giuseppe Pietro Spinosa di Locorotondo, con una fedina penale pulita, Francesco Pellegrino, barese e un operaio rumeno, residente a Roma, erano i componenti dell’organizzazione che importavano la sostanza stupefacente a Bari e nel quartiere Japigia in particolare. Ai tre, gli uomini Gico della Guardia di finanza, il 21 maggio 2008, hanno notificato un provvedimento cautelare, richiesto dall’apposito sostituto procuratore.L’operazione costituisce una prosecuzione di quella condotta nel 2005 e che aveva portato a cinque arresti. In carcere era finito anche il fratello di Francesco Pellegrino, Vito che aveva trasformato il sotteraneo di una clinica nel quartiere Japigia dove lavorava come custode in una raffineria. La polvere bianca, attraverso un particolare processo chimico, veniva sintetizzata nella plastica delle valige. Un sistema sofisticato che permetteva di eludere i controlli in tutti gli aeroporti. La droga, proveniva dalla Colombia, via Madrid, sfuggiva anche al fiuto dei cani antidroga e dall’estero arrivava in Italia.A Bari gli uomini dell’organizzazione, capaci di trattare con i narcotrafficanti internazionali, commercializzavano la polvere bianca, grazie ad accordi stretti con i clan egemoni in città, come quello degli eredi di Savinuccio Parisi nel quartiere Japigia. La fase della vendita sul territorio pugliese era però preceduta da un’altra operazione complessa: la sostanza stupefacente veniva estratta dalla plastica, nella quale prima della partenza era stata sintetizzata. La conferma è arrivata con i sequestri, effettuati in quella che era stata trasformata in una vera e propria raffineria: gli uomini del Gico hanno, infatti, rinvenuto provette, bilancini di precisione, sostanze da taglio e soprattutto appunti, manoscritti sui quali erano state annotate le formule chimiche, applicate per il processo di riconversione della droga. Decisivo, secondo quanto ricostruito dalla Dda, il ruolo di Giuseppe Pietro Spinosa: gestore di una ditta di trasporto e in difficoltà economiche, metteva a disposizione dell’organizzazione i propri camion perché la cocaina venisse trasportata sul territorio nazionale.Nel corso dell’inchiesta, gli uomini del Gico che hanno cominciato ad indagare seguendo un corriere colombiano, hanno sequestrato tre chili di polvere bianca, 185 chilogrammi di hascish ed una pistola. L’arma, così come una ricetrasmittente e un telefono, erano nascosti nei controsoffitti del laboratorio artigianale. Il 21 maggio oltre a notificare le tre ordinanze di custodia cautelare, i militari hanno apposto i sigilli a beni per un milione di euro, riconducibili agli indagati e ricavati dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Il sequestro, disposto per colpire il patrimonio dell’organizzazione criminale è scattato per cinque auto, due moto, dieci mezzi pesanti, due imprese (operanti nel settore ortofrutticolo e in quello dei trasporti) e per alcune quote societarie. (22)

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*Lo sballo sintetico di ultima generazione si chiama Ketamina e viaggia sulla tratta Bari-Londra. Ne sono convinti gli investigatori della Squadra mobile che indagano sul mercato della droga barese, hanno individuato le coordinate di una ipotetica rotta Bari-Londra, risalendo a tre giovani, due uomini e una donna, che presumibilmente, nel recente passato, hanno attraversato la Manica per rifornirsi del potentissimo allucinogeno in formato liquido. Una volta fatto ritorno a Bari – secondo l’ipotesi investigativa – i tre avrebbero ‘cucinato’ in padella il liquido, potente anestetico dissociativo per uso veterinario e umano, trasformandolo nella micidiale polverina che da diverse settimane sta circolando tra feste rave parties clandestini e locali alla moda. I due uomini vivono insieme in una villa di Picone, zona Santa Fara dove la polizia ha trovato 60 grammi di hashish, 141 milligrammi di Ketamina allo stato liquido, un grammo allo stato solido; 12 grammi di MDMA meglio conosciuta come Ecstasy; 7 piante di marijuana; il kit del perfetto spacciatore comprendente bilancini di precisione, cartine per il confezionamento delle dosi e la famigerata padella per la cottura.I due amici e complici sono stati arrestati e processati per direttissima. Hanno patteggiato una pena di 10 mesi e sono tornati a casa.Si tratta di un ragazzo di 27 anni, incensurato, operaio, figlio di un impiegato e del suo amico di 25 anni, anche lui sconosciuto alle forze dell’ordine, studente in biologia, madre e padre professionisti, Disk jochey per diletto, avrebbero preso parte all’organizzazione di alcuni rave-parties nella provincia barese. La terza presunta pusher di sostanza allucinogena è una studentessa di lingue orientali di 23 anni che vive da sola nel quartiere Madonnella. Le sono stati trovati in casa 200 milligrammi di un farmaco liquido con le caratteristiche della Ketamina insieme alla già citata padella. Le indagini di laboratorio stabiliranno se si trata effettivamente della sostanza incriminata. Per il momento gli agenti hanno proceduto alla denuncia in stato di libertà.L’uso di allucinogeni (Lsd, Mescalina, Psilocibina, Peyotl, e Ketamina) si è diffuso all’interno dei movimenti giovanili collegati alla cosiddetta cultuta psichedelica. Anche attraverso espressioni artistiche e letterarie, il consumo di allucinogeni, in combinazione con ecstasy e anfetamine, continua ad associarsi in certi ambienti che possono definirsi alternativi alla ricerca della esperienza percettiva e nuovi stati di coscienza. Per la prima volta gli uomini della Squadra mobile hanno scoperto e sequestrato la Ketamina i cui effetti allucinogeni peraltro sono stati descritti da ragazze baresi vittime di violenze sessuali. L’ultimo caso risale agli inizia di aprile 2008 quando una studentessa di 20 anni ha denunciato alla polizia di essere satata drogata e poi stuprata a turno da tre giovani, nella toilette di una discoteca. Per questa ragione gli investiogatori definiscono la Ketamina “la droga degli stupri”. Sulla vicenda il sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale di Bari ha aperto una inchiesta e

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iscritto nel registro degli indagati i nomi di solo due dei presunti violentatori, un ragazzo di 17 anni e di un secondo di 19. Manca all’appello il terzo. (22)

Per gli investigatori dragare nel sommerso della giovane borghesia barese è ben più difficile. Ma il giro d’affari è ampio e destinato a gonfiarsi. I canali di rifornimento della droga liquida sono gli stessi delle sostanze sintetiche e delle pasticche in generale, canali che possono anche prescindere da quelli consolidati dall’eroina e della cocaina o del ‘fumo’. I venditori dell ‘nuove’ droghe sono contigui al mondo giovanile (scolastico e universitario) e a quello del divertimento notturno. Bazzicano i locali alla moda, le discoteche, le feste private.Dove si acquista la Ketamina, dove ci si rifornisce. I canali di approvvigionamento sono sostanzialmente due. C’è un gruppo che, come abbiamo visto, va a comprarla direttamente in Inghilterra, a Londra. Un folto gruppo di ragazzi acquista la droga on line, su internet, navigando nei siti giusti (quasi tutti in lingua inglese) dove sono aperti anche forum di discussione sull’assunzione, sugli effetti, su quando si scivola nel “k hole”.Ma c’è ancora una fetta di giovani che predilige le sostanze sintetiche, le pasticche, gli allucinogeni che tuttavia non frequenta i locali modaioli o le patinate discoteche del Barese. Sono quei giovani sedotti dai rave party, dai luoghi distanti, segreti, dismessi. Sono quelli che la ketamina la assumano lentamente, leccandola, tutti insieme ma ognuno per fatti suoi. Di questi raduni, in verità, la Gazzetta del Mezzogiorno ne ha parlato in una inchiesta pubblicata l’autunno 2007, quando un cronista si mescolò tra i ragazzi e le ragazze riuniti alle cosiddette “Macerie”, una vecchia fabbrica sulla ‘16’, alla periferia di Molfetta. Venti euro a dose per ingollare ketamina e finire la notte a vomitare. (22) Il racket Non è certo più tranquillo l’affare racket. Gli episodi di violenza, che ci accingiamo a riferire, per la loro scansione dei tempi sono il segnale più chiaro che il morso della malavita non si arrende e non tralascia la strada delle intimidazioni, degli attentati per portare a più miti consigli i riottosi. Il 26 marzo 2008 a Bari, in corso Sonnino, scoppia l’incendio all’interno della pasticceria <<New Betty>>, il fuoco ha innescato una reazione a catena all’interno del locale, culminata in una deflagrazione che non può che essere il prodotto di un attentato. La forza dello scoppio ha divelto le vetrine e le saracinesche del negozio, danneggiando un furgone Fiat Doblò.I detective della questura non sono stati in grado di stabilire da subito la matrice di questa aggressione che ha un precedente inquietante in un altro fatto accaduto la settimana precedente quando il titolare della pasticceria, un uomo di 38anni, è stato rapinato degli ultimi guadagni (10mila euro) mentre rincasava, dopo aver chiuso il negozio.Anche se l’uomo e suo fratello, soci nella gestione dell’attività, giurano di non aver mai ricevuto minacce o richieste di denaro, gli investigatori non escludono che

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possano essere finiti nel mirino degli estorsori. Anzi è questa, al momento, l’ipotesi più accreditata.

*Il 29 marzo 2008 a Triggiano è andato a fuoco un bar nel centro storico della cittadina. Le fiamme hanno danneggiato l’interno del locale rovinando il bancone, la cassa, la posizione per la ricezione di schedine e scommesse. Dal soffitto sono crollati calcinacci. Il balcone dell’appartamento al piano di sopra è rimasto annerito. Inneschi non ce ne erano. I carabinieri, però, non hanno dubbi che si è trattato di un incendio doloso. Qualcuno deve aver gettato del liquido infiammabile tra le maglie larghe della parte superiore della saracinesca.Marito e moglie, titolari della caffetteria Gemma, sono amareggiati e più che preoccupati, perché non sanno da chi devono guardarsi e perché dovranno rimboccarsi le maniche, rimettere tutto a posto, pagare le ripazioni.Anche in questo caso la tesi più accreditata è quella dell’intervento della malavita che vuole imporre il ‘pizzo’.

*Il giorno successivo, 30 marzo, a Molfetta qualcuno nel silenzio della notte e lontano da sguardi curiosi, dopo aver sollevato la saracinesca di qualche centimetro, hanno sistemato una bomba-carta davanti all’ingresso del bar Venere, nella zona 167. La deflagrazione ha mandato in frantumi tutto ciò che era nelle immediate vicinanze dell’ordigno sia all’interno del bar che all’esterno.Anche qui la titolare del bar, una donna di cinquantanni, ha dichiarato di non aver mai ricevuto minacce né richieste di denaro.I carabinieri stanno vagliando tutte le piste possibili dalla vendetta privata, alla ritorsione, all’avvertimento.Sta di fatto che questa cittadina ha visto negli ultimi trenta giorni consumati tre esplosioni causate da ordigni. Il 27 febbraio fu la volta di un capannone in costruzione nella zona industriale, il 3 marzo toccò ad una salumeria, ora è andato in rovina un bar. (19)

*E’ accaduto in una sala giochi situata al confine fra i quartieri Japigia e San Pasquale. Quattro malfattori hanno fatto irruzione, chiedendo il pagamento di un ‘pizzo’ mensile al proprietario, un giovane di 28 anni. Al suo rifiuto, hanno picchiato sia lui sia il padre, di 58 anni, e hanno messo in subbuglio il locale.

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Il primo guarirà in una quindicina di giorni, il secondo ha riportato ferite lievi. I quattro aggressori sono stati sottoposti a fermo di polizia giudiziaria dalla Squadra mobile. E’ accaduto la sera del 23 aprile 2008.A conclusione di indagini rapide ed efficaci, gli uomini della Squadra mobile hanno condotto in carcere Arturo Lovecchio, sottoposto alla sorveglianza speciale, Gaetano Franco (entrambi conosciuti alle forze dell’ordine), Vittorio Lovecchio, fratello di Arturo e Carlo Ludovico, tutti residenti al quartiere Japigia.A quanto si è saputo, le indagini sono state avviate dopo la segnalazione dei medici del servizio di emergenza ‘118’, fatti intervenire dalle persone aggredite.I quattro malviventi, subito dopo il raid, si erano allontanati a bordo di una ‘Cinquecento’ di colore scuro. (19)

*Il 30 aprile 2008 a Toritto le maestranze di un cantiere nel prendere servizio hanno notato in uno scantinato la inconsueta presenza di una bombola di gas g.p.l. da cucina in un seminterrato. Allertati i carabinieri che hanno provveduto a isolare l’intera zona, gli uomini del reparto artificieri, nell’ispezionare i luoghi, hanno notato che la bombola del gas era collegata ad un conghe esplodente. Poteva finire in tragedia se non ci si fosse accorti della presenza di un ordigno all’interno del cantiere.L’episodio è ancor più allarmante se si tiene conto che quello stesso cantiere il 13 marzo fu il bersaglio di alcuni colpi di pistola esplosi da due ragazzi a bordo di uno scooter.L’imprenditore bitontino Evangelista Pastoressa, ha escluso ai carabinieri che i due gesti siano legati a forme intimidatorie di natura estorsiva. Ma per gli investigatori che pur non escludono ogni tipo di pista, quella del racket estorsivo è l’ipotesi più accreditata. Un pista che, però, porterebbe l’attenzione degli inquirenti al di fuori del territorio torittese proprio verso Bitonto, la città d’origine dell’imprenditore. (19)

*E’ la procura a lanciare l’allarme, a chiedere di blindare in un incidente probatorio le dichiarazione della vittima: un noto imprenditore, proprietario di una concessionaria. Davanti al magistrato, negli ultimi giorni di aprile 2008, ha ammesso di essere stato costretto a cedere ai ricatti di due noti pregiudicati: Nicola Vavalle e Giovanni Cassano, in carcere con l’accusa di aver fatto parte della banda della Cayenne, un gruppo specializzato, lo leggeremo nel corso di questo capitolo, nell’assalto ai bancomat, alle tabaccherie, ai supermercati. Scrive il magistrato per motivare la richiesta di incidente probatorio: <<Vi è fondato motivo che l’uomo possa essere oggetto di minacce e violenze da parte dei prevenuti o da loro emissari finalizzate a ottenere in dibattimento una deposizione falsa o reticente>>.

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La storia di cui l’imprenditore sarebbe stato vittima comincia nel settembre 2001 quando Giovanni Cassano si presenta al concessionario, pretendendo dal proprietario la cessione di una Audi ultimo modello, in cambio della sua Audi A4 che, lasciata per una riparazione nell’officina, era stata danneggiata da un incendio da lui stesso appiccato. I mesi e gli anni successivi, così come ricostruito dagli uomini del Gico della Guardia di finanza, per l’imprenditore, è stato un crescendo di minacce e ricatti. Giovanni Cassano, ad esempio, sarebbe ritornato più volte nel locale commerciale, esigendo un trattamento di riguardo.In un caso prospettando il rischio di incendi o danni al concessionario, si sarebbe fatto consegnare una ‘Audi RS6’, in un altro, invece, avrebbe preteso di pagare la metà un’altra auto, intestata poi alla moglie. E Giovanni Cassano non è l’unico protagonista di quelle che la procura considera una escalation di minacce e violenze. Nicola Vavalle, personaggio di spicco della criminalità organizzata, all’imprenditore si sarebbe rivolto per ottenere l’assunzione di quattro suoi familiari o la cessione gratuita di macchine di diverso tipo. E anche lui, racconta l’inchiesta della procura, non ha esitato a terrorizzare l’imprenditore, promettendo ritorsioni anche nei confronti dei suoi familiari. A Nicola Vavalle il magistrato contesta anche un altro episodio: la vittima è stata costretta a vendere al pregiudicato una Porsche Cayenne del valore di 65mila euro al prezzo di quindicimila euro. Somma che, dopo cinque mesi, al momento della restituzione dell’auto di grossa cilindrata, Vavalle ha trattenuto, come anticipo per l’acquisto di un’altra macchina che poi ha intestato al cognato.Dopo l’operazione della Guardia di finanza che nel febbraio 2008 ha portato all’arresto dei due pregiudicati e dei loro tre complici, accusati di aver commesso rapine con Porsche e Audi rinforzate, la procura ha scoperto le estorsioni, commesse ai danni dell’imprenditore. Il rischio, ora, è che l’imprenditore venga avvicinato, minacciato e costretto, in un eventuale processo, a fare marcia indietro, a scagionare, con il suo racconto, Nicola Vavalle e Giovanni Cassano. Il magistrato, nella richiesta di incidente probatorio, richiama l’attenzione infatti sul <<lungo periodo in cui è stato esposto e ha subito le vessazioni dei due e del timore di ritorsioni che questi ultimi incutono ancora oggi sullo stesso>>. Un pericolo fondato, dimostrato anche da alcune intercettazioni telefoniche e confermato <<dalla personalità degli indagati come emerge dai certificati penali che evidenziano il loro spessore e la loro caratura criminale>>. Ora sulla richiesta del pm si pronuncerà il gip che dovrà decidere se ascoltare l’imprenditore nel contraddittorio tra accusa e difesa. Sarà protetto l’imprenditore che ha ammesso di aver subito le pressioni e le intimidazioni da Vavalle e Cassano. La decisione è arrivata il 5 giugno 2008 nella riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ed è scatta dopo l’incidente probatorio in cui l’uomo ha confermato le dichiarazioni, già rese, come si è letto, davanti al pubblico ministero. Sono stati gli uomini del Gico, che hanno condotto le indagini, a segnalare la necessità di una misura a tutela dell’imprenditore. E il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal Prefetto, ha condiviso la posizione delle fiamme gialle. (19)

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*Condannato a tre anni di reclusione, per il reato di tentativo di estorsione, il presunto boss di Bitonto Domenico Conte. Il verdetto è stato emesso il 27 maggio 2008 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari, al termine di un processo celebrato con rito abbreviato. Condivisa sostanzialmente la tesi della pubblica accusa.I fatti risalgono ai primi di giugno del 2007. Secondo la prospettazione accusatoria della Direzione distrettuale antimafia, Conte sarebbe entrato in azione con un complice che fu ucciso in un agguato di criminalità organizzata il 20 luglio successivo. In base alle indagini, i due esercitarono opportune ‘pressioni’ su un imprenditore edile andriese che in quel periodo stava lavorando su Bitonto, allo scopo di farsi consegnare una tangente di 20mila euro. Il costruttore, però, ebbe il coraggio di non obbedire alle richieste di Conte e del complice.Conte fu arrestato nell’ambito di questa inchiesta e si trova tuttora rinchiuso in carcere ad Asti.Il gup ha invece assolto Conte dall’accusa analoga di aver tentato di estorcere una somma di denaro a un altro imprenditore edile, questa volta di Bisceglie (in quel caso si trattava di sette-ottomila euro): sul punto, il gup ha accolto in pieno la richiesta dei difensori dell’imputato.Il giudice renderà nota la motivazione della sua decisione. (19)

*Ha intascato 500 euro in cambio della restituzione di un quadriciclo rubato ed è finito in carcere. Si tratta di Vincenzo Mangione, di Gravina, noto alle forze dell’ordine, arrestato, il 28 maggio 2008, dai carabinieri della locale Stazione con l’accusa di estorsione e ricettazione, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Bari.Le indagini scaturite a seguito della denuncia di furto avvenuto in Gravina il 29 febbraio 2008 ai danni di un operaio del luogo, hanno consentito ai militari di accertare che alcuni mesi più tardi la vittima era stata avvicinata dal Mangione, il quale le aveva proposto la restituzione del veicolo in cambio di 2mila euro. Dopo una serie di ‘contrattazioni’ avvenute nel corso dei giorni successivi ed avuta prova del reale possesso del veicolo mediante visione dei documenti di circolazione, il proprietario del mezzo era riuscito ad otenere uno ‘sconto’ sulla somma da versare, sino a consegnargli definitivamente 500 euro e riuscendo ad ottenere la restituzione del maltolto.Il quadro probatorio presentato dai militari dell’Arma ha così permesso all’Autorità Giudiziaria di emettere il provvedimento eseguito, come abbiamo deto il 28 maggio. Mangione, che dovrà rispondere anche della violazione degli obblighi imposti dalla

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soreglianza speciale alla quale era sottoposto, è stato poi rinchiuso nel carcere di Bari. (19)

*Ha tentato di estorcere ai suoi ex datori di lavoro, due imprenditori edili di Andria, diecimila euro a testa. Così è finito in manette, il 30 maggio 2008, Antonio Iennariello, di Andria, già noto alle forze dell’ordine, sottopposto a fermo dai carabinieri della Compagnia di Andria con l’accusa di tentata estorsione continuata.Le indagini hanno permesso ai militari di accertare che Iannariello, dopo aver intestato una scheda telefonica a una persona del tutto all’oscuro, aveva inviato alcuni sms ai due imprenditori edili, per i quali aveva lavorato tempo prima, attraverso i quali pretendeva la consegna di 10mila euro a testa.In mancanza di soddisfazione della richiesta li aveva anche avvertiti che avrebbero potuto trovarsi con qualche bomba davanti all’azienda o all’abitazione.La perquisizione eseguita dai militari nell’abitazione del sospettato ha permesso di trovare, all’interno di una fessura del caminetto, il telefonino cellulare utilizzato per inviare i messaggi. Nella memoria del cellulare sono stati persino rintracciati i testi delle estorsioni seguite da minacce. L’uomo è finito in carcere a Trani. (19)

*Un incendio di natura dolosa è divampato, il 23 giugno 2008, nel cantiere edile della stazione delle ferrovie Nord barese, in fase di costruzione.Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e agenti della polizia della Questura di Bari che hanno trovato una tanica in ferro con all’interno residui di liquido infiammabile con il quale è stato appiccato il fuoco a due container adibiti ad uffici della ditta appaltatrice dei lavori. Indagini sono in corso per identificare i responsabili. Di certo, non si può esludere la pista estorsiva. (19)

AttentatiFrancesco Ieva, imprenditore edile di Andria, è stato vittima, il 17 maggio 2008, di un’aggressione, qualcuno ha cercato di ucciderlo, scaricandogli addosso due colpi di pistola. E’ successo nel centro della città, in via Salvator Rosa, dove l’uomo stava camminando per raggiungere alcune persone con cui aveva appuntamento, poco dopo aver parcheggiato l’auto. Mentre camminava – così come ha raccontato ai carabinieri del Comando di Andria che indagano sull’accaduto – ha sentito il rumore di un colpo di arma da fuoco alle sue spalle: a quel punto l’imprenditore si è voltato e ha visto un uomo, sicuramente giovane, con il volto nascosto da un passamontagna e armato di pistola.A quel punto il sicario ha sparato un secondo colpo, che lo avrebbe sicuramente ferito in maniera seria alla natica, se non fosse stato per il telefono cellulare che aveva nella

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tasca posteriore sinistra: l’apparecchio, che si è distrutto, ha deviato il colpo. A quel punto l’imprenditore ha cominciato a correre per mettersi in salvo. Ma girandosi, mentre correva, si è reso conto che il suo killer aveva tentato di sparargli addosso un terzo colpo, senza però riuscirci in quanto la pistola si era inceppata.Il movente dell’attentato sarebbe da ricercare sicuramente nel lavoro di Ieva. Forse un appalto conteso del quale l’imprenditore si stava occupando negli ultimi tempi. Anche se nessuna ipotesi viene ancora esclusa dagli investigatori, nemmeno quella del taglieggiamento sebbene l’interessato abbia dichiarato di non aver ricevuto minacce o richieste estorsive. Ma è una pista, quest’ultima, che, almeno al momento, non può essere esclusa, in quanto quello dei cantieri edili ad Andria rimane un settore di forte interesse per la criminalità, sempre pronta a offrire personalissime forme di protezione dietro pagamento.Sebbene gli avvertimenti per indurre i titolari a sottostare alla personale protezione di alcuni gruppi ricorra generalmente a sistemi diversi, quali le bombe davanti ai cantieri o alle sedi delle aziende, minacce telefoniche e siumili. Più difficilmente colpi di pistola. (19)

*Attimi di terrore nella notte: un lancio di molotov, le fiamme che divampano all’improvviso, poco dopo le 22 del 16 giugno 2008, in due diversi punti del campo rom nel quartiere Barberini, a Barletta, a 100 metri dalla statale 16 bis. Le urla, la sensazione di essere in trappola e di non farcela. Poi il capo, un montenegrino, che chiamano tutti Gigi, da 40 anni in Italia, urla di mettersi in salvo dalla parte del campo risparmiata dalle fiamme. Scappano tutti (in 16, compresa una bimba di 9 mesi in braccio alla madre), mentre bruciano quattro baracche e le masserizie. Nessun ferito, tutti riescono a mettrsi in salvo, ma sul campo cala l’ombra cupa della paura. Arrivano i vigili del fuoco, i carabinieri e la polizia municipale per le prime indagini e far defluire il traffico. <<Ho visto una moto con due ragazzi a bordo – racconta Gigi – ronzare da queste parti mezz’ora prima che accadesse l’incendio: hanno urlato qalche parolaccia, ma li ho lasciati peredere. Poi evidentemente sono tornati, avevano in testa il casco all’improvviso hanno lanciato due bottiglie incendiarie, scatenando l’inferno. Finora qui non abbiamo avuto problemi, ma non resteremo inermi. Se necessario, ci armeremo>>. (19)

*Ancora una notte di paura nelle strade di Modugno. Prima, un finestrino di un’auto rotto e una lattina di benzina gettata all’interno: il fatto è avvenuto alle 2 del 29 giugno 2008, in via Kennedy e i malviventi non hanno fatto in tempo ad appicare le fiamme. Poi – e siamo all’ultimo episodio – tre colpi di pistola, probabilmente calibro 7,65, sono stati esplosi in piena nottata sempre tra il 28 e il 29 giugno, nel cuore del centro storico, nei pressi della chiesa matrice non molto distante da Palazzo di Città. Nel mirino dei malviventi è finita una ‘Peugeout 307’ di colore grigio scuro

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di proprietà di un disoccupato, di origine bitontine, ma residente a Modugno. Un episodio che ha acceso la paura per una serie di dettagli: il proprietario dell’auto, Nicola Vacca, è stato recentemente impegnato in politica. Candidato alle ultime elezioni amministrative di Bitonto è risultato tra i primi dei non eletti della lista del sindaco Raffaele Valla. Gli investigatori sul posto hanno rinvenuto le parti anteriori dei tre proiettili esplosi sul marciapiedi accanto all’auto forata alla fiancata destra.Dopo una serie di accertamenti e dalla ricostruzione della dinamica del fatto, gli investigatori della locale Compagnia dei carabinieri, sono portati ad escludere che l’accaduto abbia un qualche nesso di causalità con Vacca, incensurato e i carabinieri, d’altra parte, sono convinti che la sua attività politica con l’epidosio non abbia connessioni. Probabilmente potrebbe essersi trattato di uno scambio di persona o di una euforica bravata notturna estiva di un gruppo di manigoldi. Intanto, i tre bossili recuperati sono stati inviati per gli esami balistici ai laboratori del ‘Sis’ dei carabinieri di Bari. Esami che chiariranno con certezza se si tratta effettivamente del calibro supposto e soprattutto se i tre colpi siano stati esplosi da una pistola dotata di silenziatore, visto che nessuno degli abitanti della zona, proprietario dell’auto compreso, ha udito l’esplosione di colpi di pistola nel silenzio della notte. (19) Il clan CapriatiLa famiglia Capriati è stata il primo gruppo malavitoso della città a tentare l’alchimia della trasformazione. Da banda di stile gangsterisco, la famiglia ha provato a diventare un’organizzazione mafiosa con l’inevitabile corollario di potere cinico, simbolico e, soprattutto, finanziario.Sono passati circa vent’anni da quando i Capriati hanno messo da parte il contrabbando delle sigarette per dedicarsi alla droga come alle estorsioni. Vent’anni di lutti. Vent’anni di criminalità vera. Con la città vecchia divenuta la roccaforte della famiglia, il territorio inviolabile dell’Antistato e perfino la scena della faida, quando il clan Strisciuglio ha cominciato a sparare sull’egemonia dei Capriati. Vent’anni di storia cittadina, con quell’ombra scura che si è affacciata nella politica, negli affari, nell’economia.Si celebra ora il tramonto. La scure del giudice, al termine del processo celebrato con il rito abbreviato il 1° aprile 2008 si è abbattuta sulla malavita di Bari vecchia, decapitandone i vertici e recidendo i legami con complici e sodali (salve inversioni di rotta di Corte d’Appello o Cassazione).Condanne per complessive 405 anni di reclusione in carcere, le più pesanti, 20 anni a testa, per i <<mammasantissima>> riuniti nella cupola dello ‘zio Tonino’, Francesco e Domenico, Giorgio Martiradonna alias ‘u dent’. Poi le donne del clan, capaci di gestire in autonomia il giro di usura e di estorsioni.Il pm antimafia ha ottenuto condanne per 49 imputati fra presunti capi, affiliati e fiancheggiatori del clan Capriati. Quattro le assoluzioni decise dal giudice.Costituite nel processo le parti civili fra le quali l’Amministrazione comunale di Bari, il Coordinamento provinciale antiracket, la Fondazione antiusura San Nicola e Santi

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Medici e nove vittime di usura (per la prima volta a Bari ci sono vittime che sono diventati testimoni di giustizia). Il giudice ha condannato gli imputati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili e al pagamento delle spese processuali. Alle 9 vittime è stato riconosciuto un risarcimento complessivo superiore ai 270mila euro, di cui 145mila dovranno essere liquidati immediatamente. In favore del Comune di Bari il clan dovrà versare 100mila euro, 25mila euro a testa dovranno essere invece risarcite al Coordinamento provinciale antiracket e alla Fondazione antiusura.Una pena di 4 anni e 4 mesi è stata inflitta all’avvocato Alessandra De Filippis, coinvolta in due presunti episodi di estorsione in concorso con l’attuale collaboratore di giustizia Michele Oreste, all’epoca dei fatti suo callaboratore nell’attività professionale, anche lui condannato a 5 anni di reclusione.I reati contestati al clan sono quelli di associazione criminale di stampo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti, usura, estorsione, detenzione abusiva di armi e anche un tentato omicidio. Il processo si è svolto a Bitonto per motivi di sicurezza. Le donne condannate – secondo l’impostazione accusatoria – non si sarebbero limitate ad agire per nome, per conto e in sostituzione degli uomini detenuti in carcere, ma avrebbero gestito in autonomia il giro di usura e di estorsioni del clan. Tra di loro anche Maria Faraone, moglie del boss Antonio Capriati, detenuto in carcere, a parte brevi parentesi, dal 1991. Il processo ha riunito due inchieste della squadra mobile. La prima culminata nel bltz del 27 maggio 2006 che portò in carcere 40 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, usura ed estorsioni ai danni di decine di commercianti del capoluogo. Dalla seconda indagine scaturì, il 3 agosto dello stesso anno, l’operazione <<Sine die>> con l’arresto di 6 donne, unite da vincoli di parentela, accusate di aver creato una piccola società di credito usuraio al femminile praticato tra le famiglie e le piccole attività commerciali dei vicoli della città vecchiaIntanto sui beni confiscati si procede a piccoli, ma proficui passi verso il ripristino della legalità. Certo, il braccio di ferro con le istituzioni continua. La via dello sgombero ‘concordato’, però, in alcuni casi sta dando risultati positivi, premiando così la strategia della collaborazione.Tra appartamenti e locali sono 51 i beni immobiliari riconducibili al clan Capriati confiscati in base alla legge antimafia. Di questi 11 sono già stati liberati, altri 3 lo saranno a breve, ma senza incidenti grazie alle proroghe chieste ed ottenute da alcuni nuclei familiari. C’è chi dovrebbe lasciare l’appartamento il 7 aprile dopo aver avuto il tempo di trovare una soluzione alternativa e chi (è il caso di due famiglie) ha chiesto di poter traslocare il 16 giugno in modo da far terminare l’anno scolastico ai propri figli.Ovviamente tra i casi rimasti non è detto che si possa raggiungere l’intesa. Anzi. Donne e bambini sono sempre pronti a barricarsi laddove le forze di polizia si presenteranno per sgomberare gli alloggi. Per il momento Questura, Prefettura e

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Comune, ognuno per le rispettive competenze, incassano questi risultati, frutto della linea della fermezza e del buon senso che non ignora i problemi di carattere sociale.E’ questa poi la filosofia alla base dei futuri interventi decisa dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. E’stato stabilito che i servizi sociali del Comune interverranno in modo da fornire adeguata assistenza ai bambini. Inoltre, all’atto repressivo – lo sgombero forzato dell’abitazione – si deve affiancare il momento della solidarietà, in particolar modo se nei nuclei familiari sono presenti minori, che con le donne, hanno diritto a maggiori tutele.Ad operazioni concluse l’Agenzia del demanio potrà trasferire all’amministrazione comunale i beni confiscati alle famiglie malavitose (in virtù di un recente protocollo d’intesa che assegna al Comune di Bari questi beni).Come si è visto, nella vicenda giudiziaria e sociale che ruota intorno al clan Capriati, alla sua ascesa di sangue, alla sua attuale resa, si muovono la droga, le armi, la morte, i soldi sporchi. Ma anche i vicoli, i bambini, le orecchiette, il folklore. La repressione e la prevenzione. L’indignazione, la demagogia.I Capriati, per la stessa storia sociale della città, sono infatti la più riuscita forma di criminalità di matrice familistica. Una radice potente. Il clan si è esternizzato, è disceso da se stesso, si è visceralmente rigenerato come per natura fa ogni famiglia. Le giovani generazioni sono state cresciute nella prospettiva ereditaria del passaggio di consegne; nessun minorenne di casa Capriati si è sottratto al binario deviato del suo destino. Come pure, formidabile protagonismo va riconosciuto alle donne della famiglia che hanno contribuito a tramandare e salvaguardare il cromosoma dell’illegalità, sostituendosi attivamente agli uomini (talvolta perfino con maggiore autorevolezza) nei momenti di maggiore difficoltà. (21)

La spavalderiaHanno presentato una richiesta e hanno ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio. E cioè sarà lo Stato a pagare la loro difesa, quella che è servita loro durante le indagini preliminari e nel processo abbreviato.Su 52 imputati, sono più di dieci presunti boss che hanno dichiarato di essere nullatenenti e di non avere quindi i soldi per pagare gli avvocati. C’è Luigi Martiradonna ma anche altri componenti del clan Capriati, nomi che, almeno nel passato e da quello che risulta dalla sentenza di primo grado, contavano nell’organizzazione criminale di Bari vecchia. Il gratuito patrocinio è stato concesso a Raffaele, Domenico e Pietro Capriati, giusto quelli che hanno avuto le pene più alte.Gli imputati, ammessi al gratuito patrocinio, in momenti diversi (in fase di indagini preliminari o durante il dibattimento), hanno presentato una richiesta al giudice, allegando un’autocertificazione per dimostrare di essere nullatenenti, Perché questo prevede la legge 15 del 2002.Se l’imputato, anche sospettato di mafia, è povero, allora, sarà lo Stato a sostenere le spese per la difesa e cioè per un diritto sancito dalla Costituzione, Luigi Martiradonna e i citati Capriati nell’autocertificazione, hanno dichiarato di avere un reddito non

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superiore ai 9.700 euro all’anno e di non avere in famiglia altre fonti di guadagno. E cioè di essere in possesso dei requisiti che la normativa richiede. La documentazione, così come prevede la legge, è stata trasmessa dal giudice al ministero che, per ogni singola pratica, ha avviato accertamenti, verificando la veridicità dell’autocertificazione. Sarà lo Stato, quindi, a liquidare le parcelle degli avvocati. Nel processo Capriati i presunti appartenenti alla criminalità organizzata che hanno fatto richiesta di ammissione al gratuito patrocinio sono più di dieci. Molti altri non hanno presentato alcuna domanda perché hanno quelli che i giudici della Cassazione chiamano <<redditi presunti>> e cioè perché le indagini hanno dimostrato di aver accumulato denaro con attività illecite, come l’usura e l’estorsione. Nel distretto della Corte d’Appello di Bari, solo nel periodo compreso dal primo luglio del 2006 e il 30 giugno 2007, hanno fatto ricorso al gratuito patrocinio 2724 indagati. 2159 le domande accolte. L’anno precedente invece erano stati 3233 i cittadini che, per il pagamento delle spese legali, si erano rivolti allo Stato. Secondo le statistiche, elaborate dalla Corte d’Appello di Bari, questa voce, cresciuta negli ultimi anni, <<assorbe ben oltre la metà dell’intero importo delle spese di giustizia>>. Le richieste, presentate e accolte dal primo luglio 2006 al 30 giugno del 2007, infatti, hanno comportato un esborso di più di due milioni di euro. Una cifra invariata rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.L’impudenza e la spavalderia non si ferma alle richieste burocratiche ma va oltre. E’ certo che sono queste una caratteristica, a tutto tondo, dei malavitosi baresi.

*Paolo Cassano che aveva visto suoi ben rientrati nel sequestro più generale a seguito di un’inchiesta sul clan Parisi, di cui era un addetto, il 17 gennaio 2008 pretese dall’avvocato, amministratore giudiziario dei beni, la restituzione di alcuni canoni di affitto di un autolavaggio, successivamente dissequestrato. Al diniego dell’avvocato, che non aveva ricevuto comunicazioni in tal senso dall’autorità giudiziaria, Cassano reagì con minacce e la promessa di passare alle vie di fatto qualora non fosse stata soddisfatta la sua richiesta.E’ stato arrestato il 2 aprile dello stesso anno dagli uomini della Direzione investigativa antimafia di Bari con l’accusa di violenza e minaccia aggravata a pubblico ufficiale. (21).

Usura, affari e truffeI carabinieri hanno sgominato a Molfetta una holding a gestione familiare e hanno arrestato, l’11 aprile 2008, cinque persone. Si tratta di Giacomo Germinario, di sua moglie Marianna De Bari, di Cosimo La Forgia, titolare di una tabaccheria, accusati a vario titolo di usura (Germinario è accusato anche di emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzate alla frode fiscale); Damiana De Bari, cognata di Germinario e di suo marito Michele Picaro accusati di emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzate alla frode fiscale.

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Nell’ambito della stessa operazione che i carabinieri hanno chiamato <<Black out>>, altre cinque persone risultano indagate.Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati beni immobili (6 fabbricati ad uso abitazione, uffici ed autoparchi, 2 terreni, 7 autovetture/autocarri ed un motociclo) sono tutti riferibili al capo della holding ed alla moglie, per un valore di sei milioni di euro.Secondo quanto accertato dagli investigatori a capo dell’organizzazione, c’era Giacomo Germinario, imprenditore locale, che forniva ai commercianti in difficoltà liquidità in cambio di assegni post-datati ad un mese di un valore superiore fino al sei per cento, per un interesse annuo di circa il 48 per cento.L’intermediario della holding era Cosimo La Forgia, titolare di una tabaccheria a corso Umberto, anche lui gravato da una consistente situazione debitoria nei confronti del capo della holding, tanto da cedergli la proprietà della propria abitazione. Il tabaccaio rappresentava il passaggio obbligato per poter avvicinare l’usuraio. Ruolo attivo nella holding aveva Marianna De Bari, moglie di Germinario.Gli episodi che hanno portato alla individuazione dei cinque sono sostanzialmente tre, due si riferiscono a due commercianti, un macellaio e un gommista, finiti in un vorticoso giro di assegni, l’altro si riferisce ad una coppia di giovani imprenditori denunciati a piede libero, prima aiutati a superare un momento di crisi economica con l’affidamento di alcune prestazioni d’opera nell’ambito di commesse appaltate alle aziende collegate a Germinario poi strozzate con assegni, cambiali ed emissioni di fatture per operazioni inesistenti nei confronti delle aziende controllate da Germinario. Le indagini hanno consentito di individuare 5 aziende con a capo i familiari dell’usuraio e altre 9 ditte fittizie con sede sociale in Puglia, Veneto e Friuli Venezia Giulia, tutte intestate ad un prestanome molfettese, nullatenente.Le attività d’indagine sono state svolte dai carabinieri della Compagnia di Molfetta. Per la parte fiscale ci si è avvalsi della collaborazione tecnica di un dirigente della Agenzia delle entrate.I fatti oggetto di accertamento sono riferiti al quinquennio compreso tra il 2002 e il 2007 e rappresentano il frutto di attività investigative svolto negli ultimi 10 anni.Il Gip del Tribunale di Trani ha sostanzialmente condiviso il quadro sul presunto giro d’usura molfettese tracciato dal pubblico ministero tanto da porre a base dell’ordinanza di custodia cautelare il pericolo di inquinamento probatorio e di reiterazione di reato.<<La pluralità dei reati commessi – scrive il gip nell’ordinanza – consente di effettuare una prognosi recidivante>>. Dal provvedimento di arresto emerge come le indagini siano tutt’altro prossime alla conclusione: di qui il pericolo d’inquinamento probatorio. <<Situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione e la genuinità delle prove>>. Le indagini finalizzate alla delimitazione dell’intera area interessata dall’illecita attività nonché all’identificazione di altri presumibili complici e l’approfondimento delle valutazioni sulle condotte ed i diversi ruoli degli indagati,

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potrebbero essere gravemente ostacolate dallo stato di libertà, con interferenze lesive sulle attività dirette all’acquisizione di nuove fonti di prova, anche testimoniali. ed alla conservazione del materiale probatorio già acquisito.Una esigenza sentita dal pm che ha evidenziato alcune dichiarazioni di Luigi Salvemini (indagato a piede libero) secondo cui Giacomo Germinario il 16 novembre 2007, interloquendo con lui, si sarebbe raccomandato di <<nascondere tutto e non dir niente>>. Diverse le intercettazioni telefoniche richiamate nell’ordinanza, in cui si ricostruiscono movimenti contabili, false fatturazioni ed assegni. Il gip parla di <<stretta collaborazione tra Giacomo Germinario e Cosimo La Forgia emersa da telefonate in cui si evidenzia come il La Forgia gestisca per conto di Germinario alcuni rapporti bancari, tanto che di fronte alle sollecitazioni degli istituti di credito che intimano La Forgia di coprire assegni venuti a scadenza, questi contatti il Germinario per coprirli>>.Oltre ai 5 arresti, l’inchiesta conta altrettanti indagati a piede libero a vario titolo: Michele De Bari, Giovanni Murolo, Isabella Cuocci, Luigi Salvemini e Mariangela Palumbo. Questi ultimi, marito e moglie, entrambi imprenditori, sono definiti dal gip <<complici atipici, poiché vittime del disegno criminoso>>, comunque indagati per altri profili. E proprio dalle dichiarazioni rese dal Salvemini si evince <<quale fosse la condotta criminale adottata da Giacomo Germinario: al fine di costringere le vittime, divenute di fatto insolvibili per l’onerosità dei tassi richiesti e dal debito maturato, richiedeva l’emissione di fatture per operazioni totalmente o parzialmente inesistenti che compensava col 5% dell’importo lordo riportato in fattura, che andava a decurtare con la debitoria del soggetto usurato>>.L’indagine continua, c’è tutta la documentazione sequestrata durante gli arresti dei coniugi Germinario.Particolare attenzione viene riservata alla documentazione relativa ai numerosi appalti pubblici gestiti da Giacomo Germinario, considerato il capo dell’organizzazione e dalle ditte a lui riconducibili per riuscire a definire l’esatto ammontare delle evasioni fiscali collezionate e per individuare eventuali complicità. Al momento, il danno erariale già quantificato ammonta a circa 4 milioni di euro, ma il numero delle aziende ‘fittizie’ o ‘collegate’ a Germinario è destinato a salire, con conseguente aumento del valore della frode fiscale.Sono questi il risultato di attività investigative svolte fino a dicembre 2007, mese in cui furono depositati in Procura gli atti di indagine e le risultanze investigative. Nascono da una attenta analisi del tenore di vita tenuto da Giacomo Germinario supportata anche da dichiarazioni e da attività di intercettazione telefonica ed ambientale, perquisizione e sequestri di documentazione, assegni, fatture, libri contabili, effettuati a novembre del 2007. (28)

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Il 14 giugno del 2005 l’agente immobiliare Andrea Cristiano, di San Ferdinando (Foggia), dopo aver perso l’intero patrimonio personale, preferì suicidarsi anziché sottostare ai suoi ‘cravattari’, perché vittima, secondo l’accusa, di usura ed estorsione da parte di un imprenditore barlettano, Domenico Disummo, arrestato il 4 giugno 2008 dai finanzieri della Compagnia di Barletta in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare richiesta dal pm della Procura di Trani e convalidata dal gip. L’uomo (iscritto nell’albo dei mediatori creditizi) dovrà rispondere di usura ed estorsione, mentre è indagato a piede libero per morte come conseguenza di altro reato.Secondo quanto hanno accertato le Fiamme Gialle, Andrea Cristiano chiese cinque milioni di vecchie lire in prestito all’imprenditore barlettano conosciuto agli uffici dell’Inps a Barletta, nel 2001, quando stava per avviare un’agenzia immobiliare. Quei cinque milioni di lire, tra il 2001 e il 2005, sono però lievitati, diventando 160mila euro, con interessi vertiginosi. Una cifra insostenibile.Dal giorno del suicidio i carabinieri di San Ferdinando prima ed i finanzieri di Barletta, poi, hanno avviato le indagini che si sono concluse appunto, come abbiamo detto, il 4 giugno con l’arresto del Disummo. I finanzieri, inoltre, hanno eseguito il sequestro preventivo di sue due agenzie immobiliari e di altri beni. Tra questi, un immobile, originariamente di proprietà di Andrea Cristiano, nel centro di San Ferdinando, di cui si era impossessato il suo strozzino. Durante la conferenza stampa il pm ha detto di essere convinto che Cristiano non sia stato e non sia l’unica vittima di Disummo, per cui ha invitato quelle eventuali vittime a liberarsi dal peso opprimente di queste situazioni denunciando gli usurai, potendo inoltre usufruire del fondo antiusura dello stato. (28)

*L’Associazione Provinciale Antiusura e Antiracket, il 5 giugno 2008, ha presentato il rapporto della sua attività. Il rapporto inizia con l’elencazione dei numeri: venticinque persone ascoltate solo nel Nord Barese e solo per l’usura; a cui vanno aggiunte le venti vittime di racket e le due di truffa. Di queste solo otto sono arrivate alla denuncia attraverso l’Associazione che alle vittime fornisce assistenza legale e permette l’accesso al fondo statale di solidarietà per consentire loro la ripresa dell’attività. Mentre 15 hanno presentato domanda per accedere al fondo.Le vittime di usura sono essenzialmente imprenditori, quasi sempre piccoli, che per avviare l’attività o in momenti di particolare difficoltà ricorrono a prestiti usurai. In provincia, da Nord a Sud, sono decine e decine i casi per i quali l’associazione ha fornito la sua assistenza. In genere e sulla base dei casi segnalati all’associazione, l’usura è un fenomeno veramente devastante nel Sud Barese, anche se tiene bene anche a Barletta e Corato, come ci confermano le diverse operazioni delle forze dell’ordine.

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Nel luglio 2007, a Barletta si ricorda il caso dell’usuraio Angelo Mennea che aveva strozzato un imprenditore tessile. Quando quest’ultimo vide l’usuraio davanti alla scuola frequentata dalla sua bambina di sette anni, capì di essere seriamente in pericolo e decise di chiedere aiuto facendo arrestare l’aguzzino. Mentre nel giugno del 2006, la guardia di finanza fece emergere la storia di un’imprenditrice strozzata, dopo aver deciso di aprire un asilo nido: la sua è stata una storia finita bene, con l’arresto degli estortori e il risarcimento previsto dal fondo statale. Mentre nel 2006, Sergio Dipaola e Luigi Lombardi finirono in manette per aver applicato tassi del 500% sulle somme prestate a un commerciante di Barletta, che per non aver pagato si era visto picchiare anche il fratello. A Corato, invece, l’imprenditore Flavio D’Introno era a capo di un’organizzazione che prestava denaro con tassi anche del 270% e funzionava come una vera e propria ‘banca parallela’, realizzata grazie alla compiacenza di un ex direttore di un vero istituto di credito.La situazione del Nord Barese non sarebbe molto dissimile da quella di tutta la Puglia. (28)

*Simulano incidenti in città, ricattano i malcapitati e se gli va bene fuggono via con almeno 100 euro in tasca. Truffatori ed estorsori nello stesso tempo, in azione da tempo. Questo l’allarme lanciato dal Commissariato della Polizia di Stato di Monopoli che tiene sotto controllo la situazione e invita, chi dovesse essere vittima di questi abusi, a chiamare subito le forze dell’ordine ai numeri di emergenza. E’ capitato nuovamente il 6 giugno 2008, in contrada S. Nicola a una signora che è stata tamponata mentre era alla guida della sua auto. Il conducente dell’altro mezzo è uscito e ha incominciato a inveire per uno specchietto, in realtà già rotto prima del contatto. Alla richiesta di 100 euro di risarcimento seduta stante la signora ha detto che non aveva con sé i soldi. Il giovane si è dileguato quando la signora ha deciso di chiamare il marito. Si tratterebbe, secondo gli inquirenti, di malviventi del nord barese in azione in zona. Altro episodio simile è occorso a un autotrasportatore monopolitano allo svincolo con la SS 100 sulla circonvallazione di Bari. E’ stato tamponato da una Ford Focus con due giovani a bordo che pretendevano di aver ragione e poi hanno minacciato l’uomo. Il conducente si è quindi dato alla fuga. E’ stato rintracciato e denunciato uno dei giovani. Si tratta di un pregiudicato di Triggiano. (28).

*Un grosso giro di prestiti a tassi usurai è stato scoperto dai militari della Guardia di Finanza a Bitonto. I militari del Gruppo investigativo criminalità organizzata (Gico), il 19 giugno 2008 hanno notificato sei informazioni di garanzia a un gruppo di altrettante persone le quali – secondo la tesi accusatoria – avrebbero messo su un gruppo bene organizzato che pratica prestititi a usura. Le informazioni di garanzia sono incorporate in un provvedimento di sequestro probatorio di documentazione,

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compresi effetti cambiari e assegni bancari, che – secondo gli investigatori – confermerebbero il giro di denaro, prestato a tassi esorbitanti. I presunti usurai sono quindi indagati a piede libero.Vittima dei presunti cravattari, un imprenditore edile di Bitonto, che nei mesi scorsi avrebbe accettato un primo prestito a interesse illecito, perché si trovava in gravi difficoltà economiche. A quel prestito ne sarebbero seguiti altri, fino ad accumulare un debito, verso gli usurai, dell’ammontare complessivo di alcune centinaia di migliaia di euro.I militari del Gico hanno eseguito il provvedimento (sequestro e informazione di garanzia) firmato dai pm della Dda e della Procura ordinaria di Bari, i magistrati che coordinano le indagini preliminari. A quanto pare, dal sequestro delle carte emergerebbero le prime, importanti conferme alla ipotesi accusatoria. Sui nomi degli indagati vige il più stretto riserbo. Si sa che non apparterebbero a nessuno dei clan della malavita organizzata ‘storici’ dell’area bitontina. Insomma, la Dda e la Procura avrebbero alzato il velo su un nuovo gruppo criminale, bene organizzato, specializzato nei prestiti a interessi usurai a imprenditori o comunque cittadini onesti che si trovano in difficoltà economiche.Adesso i pubblici ministeri inquirenti esamineranno la documentazione sequestrata e porteranno avanti gli accertamenti necessari a definire le dimensioni del giro illecito di affari. L’impressione è che il giro sia consistente e che coinvolga anche altri imprenditori in crisi di liquidità. I documenti, gli assegni e le cambiali acquisite dai militari del Gico potrebbero rivelarsi interessanti al fine del disvelamento di un affare molto più clamoroso di quanto inizialmente appare. (28)

*Il dibattimento sulla presunta “Farmatruffa” o “Farmacopoli” sarà inaugurato il 12 novembre 2008 davanti ai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Bari. Nell’indagine sono coinvolti professionisti – medici, farmacisti, manager e informatori medico-scientifici di case farmaceutiche – di tutta la Puglia, dalla Capitanata al Salento. Fra essi, anche esponenti ed ex esponenti politici. In particolare, Oscar Marzo Vetrugno, farmacista, è l’attuale sindaco di Novoli, in provincia di Lecce; il medico salentino Antonio Marra è stato assessore provinciale. Inoltre Giovanni Sabato, farmacista di Galatina (Lecce), è stato consigliere della regione Puglia fra il 1990 e il 1995.Tra gli imputati, inoltre, ci sono capi area e informatori scientifici di note case farmaceutiche, anche multinazionali, medici di base e farmacisti. Sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla truffa, e di singoli episodi di corruzione, falso, riciclaggio e comparaggio.Secondo l’impostazione accusatoria, con il passare del tempo, si era delineato un sistema collaudato, in base al quale i medici di base, dopo aver ricevuto denaro e altre ‘utilità’ (anche viaggi premio) dagli informatori scientifici, accettavano di

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prescrivere una quantità esorbitante di farmaci, a spese del Servizio sanitario nazionale, e soprattutto – sostengono gli investigatori – all’insaputa dei pazienti destinatari della prescrizione. Anzi, in alcuni casi i pazienti sono risultati deceduti.La complicità dei farmacisti – stando agli accertamenti coordinati dal pm – era indispensabile, perché essi, dopo aver tolto dai medicinali le fustelle (i talloncini adesivi senza i quali non si può ottenere il rimborso dal Sns), provvedevano a gettare le confezioni nella spazzatura o comunque a farle sparire: in questo modo si sarebbero sbarazzati anche di farmaci salvavita che avevano un prezzo unitario che arrivava fino a 700 euro per ciascuna confezione. In questo modo, gli indagati avrebbero danneggiato le casse del Servizio sanitario nazionale per una somma che – secondo l’ufficio inquirente – si aggira sui 20 milioni di euro. (28) Aggressione mafiosaE’ mafia anche quella che aggredisce due vigili urbani decisi a sequestrare il ciclomotore di un centauro 17enne in vena di acrobazie in mezzo al traffico, che per non rimanere appiedato si mette sotto la protezione di un caporione di quartiere, amico di Diomede, gente di ‘rispetto’ al rione Carrassi. E’ una logica tutta mafiosa, quella che alimenta la presunzione del già citato capintesta quando fa da scudo al diciassettenne con il suo fisico corpulento affrontando gli uomini in divisa li schernisce e li minaccia: <<Questo ragazzo è roba mia, ne rispondo io. Voi dovete parlare con me. Attenti a quello che fate, io vi conosco, so dove abitate, vi vengono a prendere a casa>>. E’ un clima mafioso quello in cui ci si pone al di sopra della legge, si pretende di fare i propri comodi, si prendono a calci e pugni degli agenti di polizia municipale e una folla composta da quaranta persone impedisce che il famigerato capoccia di rione venga caricato sulla macchina di servizio e condotto al comando della Polizia Municipale. E’ per questa ragione che l’indagine sull’agressione ai vigili urbani consumata la sera del 27 maggio 2008 e che ha portato alla denuncia di due ragazzi di 18 anni è diventata subito materia della Direzione distrettuale antimafia. Ecco spiegato il perché è stato un pm antimafia a coordinare il lavoro degli investigatori della squadra mobile, in un’attività di ricerca che ha permesso di risalire all’identità del caporione con pericolose frequentazioni con la malavita di Carrassi e ai due diciottenni, tra i più attivi la sera dei disordini. Il centauro acrobata era già stato segnalato al Tribunale per i minorenni. Gli investigatori sono riusciti a ricostruire le fasi dell’aggressione di gruppo, grazie ad una indagine giocata sugli elementi raccolti ascoltando alcuni testimoni, su quelli acquisiti nel corso di perquisizioni e controlli, il tutto corroborato da una serie di intercettazioni ambientali. Le accuse sono per lesioni, violenza, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, il tutto con l’aggravente mafiosa. Agli artefici dell’aggresione il conto è stato presentato la sera del 5 giugno 2008 nel corso di un blitz condotto da Polizia di Stato e Polizia Municipale che ha interessato l’intero quartiere. (31)

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Ancora un vigile urbano ferito in servizio, per la terza volta in un mese. Ancora vandali in azione a Bari. Due fatti che si intrecciano nella cronaca della città e che rilanciano l’allarme sulla questione della sicurezza. L’ultimo episodio è avvenuto la notte tra il 29 e il 30 giugno 2008, verso l’una, all’interno del Parco 2 giugno a quell’ora chiuso: una pattuglia della polizia municipale ha sorpreso una decina di ragazzi che si erano introdotti abusivamente e stavano danneggiando alcuni lampioni dell’illuminazione pubblica. Ma gli agenti erano solo in due e i vandali hanno pensato bene di nascondersi nella folta vegetazione del parco, aspettando che i vigili si stancassero di attendere e rinunciassero ad identificarli. I due agenti, invece, hanno chiamato rinforzi e poco dopo sono arrivati altre pattuglie, in ausilio alla prima, per stanare e bloccare i giovani. A quel punto, il gruppetto ha deciso di scappare, scavalcando il muro di cinta e disperdendosi per le vie limitrofe, in tutte le direzioni. I vigili si sono messi al loro inseguimento, riuscendo a intercettare uno di loro. Dopo una forsennata corsa il ragazzo è stato finalmente fermato. Ma lui, un 17enne di Bari vecchia, non si è arreso ed ha reagito con puni e calci, lottando contro uno degli agenti che nella colluttazione è caduto all’indietro e ha battuto violentemente il polso destro. Il minorenne è stato poi bloccato e accompagnato al Comando della polizia municipale, al quartiere Japigia, dove è stato denunciato all’autorità giudiziaria per i reati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e di danneggiamento dei beni pubblici. L’agente ferito è stato trasportato al pronto soccorso del Policlino di Bari. (31) Scommesse clandestineMaxi operazione della Guardia di Finanza per arginare il fenomeno legato alle scommesse clandestine. Ventidue persone sono state denunciate a piede libero. Rispondono di accettazione illegale di scommesse. Tra loro anche persone denunciate per aver violato le norme che regolamentano le intermediazioni finanziarie. In qualche modo facevano da ‘prestanome’ agli scommettitori che volevano rimanere anonimi e non si esclude che tra gli anonimi scommettitori si celassero pregiudicati.In quelle particolari agenzie telematiche sarebbe stato possibile acquistare o ricaricare le carte personalizzate e prepagate per scommettere on line: in pratica lo scommettitore gestisce in proprio le scommesse dal suo pc ed in caso di vincita vede accreditare la somma direttamente sulla sua card.Ed invece, accadeva anche che in quelle agenzie le scommesse fossero raccolte direttamente e, in caso di vincita, pagate direttamente; senza distinzione dunque coi soggetti titolari concessionari di questo tipo di servizio.Diciannove centri di raccolta scommesse sono stati sottoposti a sequestro. E sono stati sequestrati anche settantanove computer, novantuno monitor, centoventitre card prepagate, trentatre modem, seicentocinquantasette ticket per scommesse, diciannove contratti di affiliazione tra i vari punti di raccolta scommesse, e circa millecinquecento euro in contanti.L’operazione partita da Molfetta, ha interessato anche i comuni di Trani, Bisceglie, Barletta, Ruvo di Puglia, Andria e Canosa. I militari della tenenza di Molfetta si sono

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avvalsi della collaborazione dei militari del Gruppo pronto impiego di Bari, delle compagnie di Barletta e Trani e della tenenza di Andria. Tutti i centri di raccolta scommesse sequestrati non avevano le autorizzazioni previste dalla legge e, nei fatti, avevano creato un circuito parallelo di scommesse su eventi sportivi nazionali ed internazionali, che non erano sotto il controllo delle casse statali. (31)

*In un bar di via Milano, a Barletta, i carabinieri hanno scoperto tre videopoker nascosti in una sala ‘segreta’. A insospetire i militari è stata una porta che dava sul retro e che portava ad uno stanzino adibito a vera e propria sala giochi. I videogiochi, illegali e non allacciati alla rete telematica del Monopolio, sono stati posti sotto sequestro. Il titolare dell’esercizio pubblico è stato denunciato per esercizio di gioco d’azzardo. (31)

La banda della <<Cayenne>>All’alba del 14 febbraio 2008 in un blitz al rione San Paolo gli investigatori del Gico (gruppo investigativo della criminalità organizzata)della Gurdia di finanza, hanno sgominato una banda spietata e definita <<di alta pericolosità sociale>>. Sono stati arrestati Nicola Vavalle, ritenuto il capo dell’organizzazione insieme a Giovanni Cassano e poi Franco Ponarosa, Giuseppe Lupelli e Romano Straniero, tutti pregiudicati, accusati di associazione a delinquere finalizzata alle rapine a mano armata, furti con scasso, ricettazione, estorsione e un tentato omicidio. Altre tre persone sono indagate a piede libero. Il magistrato inquirente e gli investigatori delle fiamme gialle hanno lavorato un anno e mezzo per riuscire ad incastrare il gruppo criminale che riusciva a spostarsi abilmente da una parte all’altra della Puglia e talvolta anche in altre regioni seminando il terrore tra commercianti e automobilisti ai quali rubavano auto di grossa cilindrata: in particolare Porsche Cayenne e Audi A3. Ma la loro vera specialità erano i furti di bancomat che avvenivano solitamente il venerdì quando gli sportelli bancari venivano caricati di almeno 60 mila euro per il fine settimana.La banda in azione utilizzava giubbotti antiproiettili, crick, ricetrasmittenti e dissuasori di onde elettromagnetiche per disturbare l’uso di telefoni cellulari: le macchine usate avevano lastre d’acciaio sistemate dietro i sedili posteriori per proteggersi durante i conflitti a fuoco con le forze di polizia.Secondo quanto accertato dagli inquirenti, la banda sarebbe responsabile di cinque rapine di autovetture, (puntavano i fucili a pompa contro gli automobilisti che in più occasioni sono stati anche picchiati), tre rapine in una tabaccheria di Adelfia. Poi ancora hanno scardinato un bancomat a Molfetta, assaltato un discount a Bari e tentato di investire un agente di polizia.I colpi sono avvenuti nella primavera del 2007, mentre nell’ottobre dello stesso anno una pattuglia di baschi verdi si è lanciata all’inseguimento di un Audi A8 intercettata nei pressi di Stradella del Tesoro di San Paolo, ma dopo qualche chilometro i

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finanzieri hanno dovuto rinunciare perché la strada era stata disseminata di chiodi a tre punti che si sono incastrati nelle ruote. La banda – così come emerge dalle intercettazioni ambientali – era spietata.Intanto il 22 aprile 2008 i militari del nucleo di polizia tributaria del Gico della Guardia di finanza hanno sottoposto a sequestro preventivo, in esecuzione di provvedimenti emessi dal gip del Tribunale di Bari, beni appartenenti a tre dei cinque componenti della famigerata banda della Porsche <<Cayenne>>. Si tratta di 3 appartamenti (2 a Bari e uno a Modugno), 5 autovetture (Audi A3, Toyota Yaris, Lancia Lybra e Audi A4), 3 scooter di varie marche e una moto Honda <<Transalp>>, quote societarie di un ristorante pizzeria che si trova a Bitonto, nella disponibilità di Franco Ponarosa, alias <<Franchino il molese>, Giuseppe Lupelli, detto <<U’lup>> e Romolo Straniero, conosciuto come <<Roman>>, tutti del quartiere San Paolo. Agli altri due presunti componenti della banda, Nicola Vavalle, detto <<Pacchione>>, ritenuto il capo e Giovanni Cassano, alias <<U’curt>> a febbraio vennero sequestrati alcuni appartamenti, autovetture, scooter e conti correnti bancari. Il valore complessivo dei beni requisiti supera i 650.000 euro. (28)

Il boss Di Cosola e il racket dei funeraliI Carabinieri hanno stroncato quella che per la Dda e per la Procura della Repubblica era un’organizzazione tentacolare che aveva messo radici in ospedali pubblici e cliniche private con un meccanismo – secondo l’impostazione accusatoria – collaudato da anni. Fatturava centinaia di migliaia di euro, con un meccanismo che si basava sulla debolezza psicologica delle persone colpite da un lutto in famiglia, sul cordone ombelicale individuato fra alcune imprese di pompe funebri e gli infermieri necrofori e sulla regola non scritta che imponeva a imprese funebri ‘forestiere’ di pagare una specie di tassa (50 e 100 euro) ai necrofori ospedalieri, quasi fosse un dazio doganale.In più, sempre secondo l’accusa, nel caso della impresa gestita da Rosa Porcelli a Ceglie del Campo, gli affari dovevano servire anche ad arricchire il boss cegliese Antonio Di Cosola, il quale figurava come dipendente della ditta e anzi riceveva uno stipendio davvero interessante. Con le accuse, contestate a vario titolo, di associazione per delinquere, concussione, corruzione, truffa, peculato e rivelazione di segreto d’ufficio, sono state denunciate 33 persone. Di esse, tre si trovano in carcere, cioè il presunto boss cegliese Antonio Di Cosola, l’impresaria di pompe funebri Rosa Porcelli e il marito di lei, Pellegrino Labellarte. Gli altri 30 sono agli arresti domiciliari. Fra essi, tutti necrofori del Policlinico, del ‘Di Venere’ e dell’ospedale ‘San Paolo’, oltre che di alcune cliniche private cittadine. Al punto che in particolare i manager delle aziende ospedaliere pubbliche sono dovuti correre ai ripari, distaccando negli obitori personale di altri reparti. Ad altri 11 indagati è stato notificato l’obbligo di firma presso le forze dell’ordine e fra essi l’unico medico coinvolto nelle indagini, il dottor Donato Santobuono, in servizio nel reparto di Chirurgia del Policlinico e titolare di uno studio odontoiatrico a Capurso, altri sette sono completamente a piede libero.

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Stando all’ordinanza del giudice delle indagini preliminari, nella seconda metà del 2006 – questo il periodo monitorato – era stato inventato un sistema che vestiva i morti e spogliava i vivi. La vestizione, il trasporto della salma e il funerale stesso erano tre momenti strategici dai quali le organizzazioni delineate dai pm traevano soldi. Il presunto cartello criminale avrebbe anche organizzato i funerali offrendo pacchetti <<all inclusive>>. Per un funerale si pagava tra i 1.500 e i 5.000 euro. Lo snodo – secondo la Procura – era rappresentato dagli infermieri necrofori che lavoravano negli obitori del Policlinico (10) e degli ospedali Di Venere (5) e San Paolo (5), ma ci sono anche infermieri professionali (15 in totale) di tre cliniche private: Mater Dei, San Giovanni e Villa del Sole. Non mancano titolari e collaboratori di nove ditte di pompe funebri (Santa Rita, L’Umanità, Iofe Humanitas del gruppo Pacucci; Porcelli Rosa, La Cattolica, Funeral Center e Funeral Service e Abbatantuono-Mitola).Il dottor Donato Santobuono, cui è stato imposto l’obbligo di firma, è indagato per peculato perché si sarebbe appropriato, avvalendosi della complicità di due infermieri, di medicinali e materiale sanitario dalla Farmacia del Policlinico che poi avrebbe utilizzato nel suo studio privato. Alla spartizione degli affari non era estranea la mafia. A ottobre 2006, infatti, una nuova ditta di pompe funebri tentò di insediarsi al Di Venere ma sarebbe stata messa in fuga dal boss Antonio Di Cosola. Il pregiudicato è accusato di aver imposto ai necrofori del nosocomio di Carbonara la ditta Rosa Porcelli. Per essere chiaro e ottenere un risultato rapido, Di Cosola fece radunare con un pretesto i necrofori davanti all’ospedale e li raggiunse assieme ad alcuni affiliati. Quindi li minacciò: <<Se non chiamate la Porcelli scoppia la guerra>>.I Carabinieri avrebbero accertato che venivano elargiti premi in denaro ai dipendenti dei nosocomi che segnalavano in tempo reale l’avvenuto o l’imminente decesso di un paziente: in questo caso la ditta di pompe funebri versava tra i 300 e i 650 euro a chiamata, in modo da evitare contatti tra i parenti dei deceduti e le imprese concorrenti. E il ‘pizzo’ veniva caricato sul conto finale. Invece alle ditte che non facevano parte del presunto cartello criminale veniva imposta una tangente di 50-100 euro per la vestizione delle salme e per il loro trasporto dall’ospedale a casa.Della tangente e della sua entità ne è prova la telefonata intercettata dai Carabinieri il 24 ottobre 2006, fra il titolare di una impresa funebre e uno dei necrofori del Policlinico, Spiridione Caricola (ai domiciliari). Secondo i pm, comunque, una delle più importanti <<centrali operative>>, sempre nell’ottica dell’inchiesta era l’obitorio del Policlinico, dove i necrofori, come testimoniano alcune intercettazioni ambientali, avevano intuito proprio di essere intercettati. Tanto che, il 4 ottobre 2006, gli addetti Giuseppe Campanale e Francesco Perrini, commentando <<l’improvvisa interruzione della linea telefonica nella giornata precedente – scrive il gip nell’ordinanza – affermano che, probabilmente il telefono in uso all’obitorio era oggetto di intercettazione e che, pertanto, avrebbero dovuto utilizzare i cellulari>>.

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Per far luce sul fenomeno del caro estinto, che i carabinieri hanno intercettato le conversazioni degli imprenditori e degli addetti all’obitorio, come appena abbiamo letto. E poi hanno raccolto il racconto di chi ha trovato il coraggio di denunciare. Cinque titolari di agenzie funebri hanno scelto di non piegarsi a quello che era un vero e proprio sistema. E hanno parlato. Sono imprenditori che non facevano parte del cartello, vittime di un <<malcostume radicato e istituzionalizzato>>. E’ l’ottobre del 2006 quando i carabinieri ascoltano il titolare di un’agenzia che conferma quanto già emerge dalle indagini. <<Come tutti i titolari delle ditte di onoranze funebri – spiega – ogni qualvolta mi capita di trasportare una salma dall’obitorio del Policlinico, sono costretto a versare del denaro agli infermieri necrofori. Tale forma di tangente – continua – è corrisposta per evitare qualsiasi forma di ostruzionismo da parte degli infermieri>>.Il racconto è ricco di particolari. Dice ancora il testimone: <<La somma varia da 50 a 100 euro a seconda dell’infermiere di turno all’obitorio. Non mi è mai capitato di rifiutarmi di pagare in quanto nell’ambiente è arcinoto che il rifiuto comporta ritardi nella preparazione della camera ardente e della partenza della salma>>. Le ditte non facevano parte del sistema, quindi, non avevano alternative. Dovevano pagare gli addetti all’obitorio versare un compenso extra per evitare intoppi burocratici. L’ordinanza cautelare contiene il racconto di più testimoni. E cioè di titolari di agenzie costretti a pagare. Dichiarazioni convergenti.L’inchiesta che nel luglio 2005 portò ad altri arresti fece da deterrente ma solo all’inizio. Poi, <<dopo qualche mese – dice uno dei testimoni – i nuovi infermieri necrofori si sono adeguati al sistema. Pertanto, attualmente, gli infermieri di turno agli obitori, al momento del decesso, percepiscono indebitamente denaro>>. A confermare il racconto dei cinque imprenditori, anche un registro, ritrovato nell’ufficio di un’agenzia e sul quale, accanto al nome di ogni defunto, c’era anche l’importo del compenso elargito agli addetti all’obitorio del Policlinico. (28) La tratta delle schiaveLucciole con il marchio UE. Sono tornate le passeggiatrici bianche e sono comunitarie. Sono ancora poco numerose, sono soprattutto rumene. Non appartengono al mondo della ‘prostituzione invisibile’, ovvero del mercimonio in appartamento. Battano i marciapiedi tra Madonella e San Giorgio, sulle complanari della statale 100, allo svincolo della tangenziale di Poggiofranco, in via Bellomo vicino Santa Fara, sperando di non dare troppo nell’occhio. Lavorano per strada dove a comandare sono le prostitute di colore. Sono approdate a Bari con lo stesso flusso migratorio che porta collaboratrici familiari, badanti e commesse. Le rumene, lucciole con il ‘bollino’ europeo, sono destinate ad aumentare e sulla loro presenza, si sta indagando. L’inchiesta mette ora i primi passi, gli investigatori hanno cominciato ad osservare in maniera sistematica e continua il fenomeno per definire i contorni.Da una analisi del Ministero dell’Interno elaborata con il contributo delle procure antimafia, degli operatori sociali, delle prefetture e dei comuni emerge che a Bari come a Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Catania è in

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aumento il numero delle lucciole rumene e bulgare sulla strada, oggi cittadine comunitarie e non più espellibili. Inoltre il numero complessivo delle vittime della tratta e dello sfruttamento delle donne neocomunitarie provenienti dalla Romania ha superato le vittime di nazionalità italiana. Le ragazze dell’Est (rumene ma anche albanesi, moldave, russe o ucraine) reclutate con l’inganno, lasciano i loro Paesi e si accingono alla partenza con la falsa promessa di un lavoro regolare come cameriere, ballerine, baby sitter, domestiche, badanti.L’esodo delle nuove schiave bianche verso l’Italia segue principalmente tre rotte: centro-Europa partendo da Ucraina, Moldavia e Romania, quindi Ungheria e Austria. La rotta che dalla Romania prevede l’arrivo a Belgrado, via Ungheria e da lì in aereo nell’Italia del Nord. Infine la rotta via mare attraverso l’Adriatico partendo dall’Albania. Le lucciole dell’Est evitano di occupare le stesse strade, di riscaldarsi agli stessi fuochi delle nigeriane, le più presenti sul territorio barese.Una suddivisione di zone, sulla quale stanno indagando i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Bari. Un’inchiesta, abbiamo detto appena avviata, che muovendosi anche sulla base delle testimonianze di ‘schiave’ desiderose di affrancarsi, sta estendendo gli approfondimenti all’intera città. E così emerge che sono davvero tante le straniere alle quali gli uomini di Bari e provincia si rivolgono in cerca di sesso.Contano su di loro anche alcuni proprietari di appartamenti, spesso collocati in zone eleganti della città che li affittano a cifre esorbitanti, fino a 2.500 euro per abitazioni di 100 metri quadri. Munite di regolare contratto d’affitto, per un anno, le organizzazioni di prostitute sudamericane si gestiscono a rotazione le case. Funziona così: tenendosi in contatto fra loro, le giovani donne arrivano a Bari, si stabiliscono per poco tempo nell’appartamento già affittato (a volta anche solo per una settimana), dove si prostituiscono a prezzi anche molto alti. I clienti, in quei casi, vengono reperiti tramite annunci in Internet o con inserzioni sui quotidiani locali.Trascorso il tempo prestabilito, ripartono, mentre nell’abitazione subentra un’altra donna, pronta a ricominciare l’attività. A farne le spese non è l’affittuario, talvolta anche inconsapevole di quanto avviene, ma i condomini che lamentano il via vai di uomini nel palazzo. E sarebbero stati loro, in più di un’occasione, ad aver dato vita alle indagini degli inquirenti. Su tutto, in ogni caso, incombe l’ombra della criminalità organizzata barese che darebbe appoggi e coperture logistiche. (28)

*Non possono affrancarsi dalla schiavitù del corpo, neppure pagando il grosso debito del viaggio. Possono, al massimo, risalire nella scala gerarchica della prostituzione, diventando maman e gestendo a loro volta nuove schiave. Sono le nigeriane che arrivano in gruppi a Bari, che vivono in appartamenti affittati dai trafficanti che durante il giorno si vendono sulle strade periferiche della città. E che, se dovessero malauguratamente restare incinte, sono anche costrette ad abortire.

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Le stesse donne che, come è accaduto tra il 26 e il 27 maggio 2008, vengono ferocemente picchiate dai loro sfruttatori perché non rendono come dovrebbero. Questa volta però l’uomo è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Bari, che lo accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamenro della prostituzione: Peter Ekuase, nigeriano del Benin City ha numerosi precedenti penali.In giro per l’Italia con le sue ‘donne’, è stato agli arresti domiciliari a Novara, ma è stato segnalato anche a Caglari e a Roma. L’uomo compare in numerose inchieste giudiziarie, inclusa quella con cui la polizia a febbraio 2008 fece venire alla luce una brutta storia di nigeriane sfruttate e maltrattate a Bari. La sua ultima vittima è una connazionale di 24 anni, arrivata a Bari nel 2004 ma in Italia sin da quando aveva 17 anni.Per il ‘viaggio della speranza’ in cerca di una vita migliore che costa mediamente 10 mila euro, la ragazza ne aveva già pagati 25 mila, ma al suo sfruttatore non bastavano: ne pretendeva altri 20 mila, che la giovane non poteva dare, Per questo l’aveva picchiata violentemente, tanto da procurarle un buco in testa e lesioni per 10 giorni. Del fatto era stata informata la polizia che ha avviato le ricerche.Sfuggito ad un primo controllo, è stato poi bloccato nel retrobottega di un negozio di oggetti africani, in via Ravanas 63, al quartiere Libertà. Gli investigatori hanno quindi ricostruito tutti i passaggi e la storia criminale di Ekuase, che risulta avere numerose identità, utilizzate a seconda delle esigenze in giro per l’Italia. Tra le sue specializzazioni, quella di stipulare con inconsapevoli baresi il contratto d’affitto per le abitazioni, in cui far dormire le sue ‘donne’.Un ruolo evidenziato già nelle precedenti inchieste ma che finora non era bastato per far scattare le manette. (28)

*Due ragazze rumene di 18 anni sono state sequestrate la sera del 3 giugno 2008 da quattro uomini, della loro stessa nazionalità, mentre si prostituivano nella zona industriale tra Bari e Modugno. Secondo le testimonianze delle due giovani lucciole, i quattro, dopo averle costrette a salire su due macchine le hanno portate in un vecchio caseggiato di campagna e costrette ad avere rapporti sessuali per tutta la notte. All’alba, dopo aver tolto loro il denaro, 600 euro, le hanno anche obbligate a seguirli in un viaggio verso sud che si è concluso a Putignano. Qui le due ragazze intorno alle 7,30 approfittando di un momento di distrazione dei loro sequestratori, a quanto pare, sono riuscite ad allontanarsi dalle macchine e a raggiungere il primo negozio aperto, una pescheria, dove hanno pregato il titolare di aiutarle, di proteggerle e di telefonare immediatamente ai carabinieri che sono giunti dopo pochi miniti.Dei sequestratori si erano perdute le tracce. Le due donne, che si esprimono in italiano con grande difficoltà, hanno dovuto fare ricorso alle cure dei medici per una serie di contusioni al volto per le quali sono state giudicate guaribili in pochi giorni.

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L’incubo di Adriana e Melania è durato circa 12 ore ed è finito così, nel pronto soccorso di un paese a loro sconosciuto. Hanno giurato e spergiurato di non aver mai visto prima i quattro rumeni che le hanno sequestrate, violentate e rapinate. Adriana ha raccontato di essere stata aggredita, picchiata e rapinata da tre uomini solo qualche giorno prima, mentre faceva il suo mestiere stazionando al chilometro 112 della statale 96, territorio di Palo del Colle. Sono scesi in tre – ha raccontato – da una macchina azzurra, mi hanno pestato di botte e si sono presi i miei soldi, 500 euro, lasciandomi lì per terra>>. Dalla denuncia presentata ai carabinieri di Palo del Colle risulta che la prima ad aiutarla è stata una ragazza rumena, forse quella stessa Melania compagna di sventura nella note fra il 3 e il 4 giugno. A prelevarla dalla strada, in quella circostanza, è stata un autolettiga del 118 che l’ha trasportata al pronto soccorso dell’ospedale di Grumo dove è stata dimessa con una prognosi di 5 giorni. Le indagini si sono messe in moto. Com’è naturale, non ci sono ancora ipotesi ma solo i resoconti delle vittime. Ci si muove sul terreno delle congetture ed è possibile per questo immaginare che gli autori delle due violenze possano essere gli stessi. Gente senza scrupoli, un racket composto da rumeni decisi a sfruttare e sottomettere Adriana e la sua compagna. Le prostitute bianche sono tornate sulla strada. Sono le donne dell’Est, lucciole con il marchio Ue.Sono approdate a Bari con lo stesso flusso migratorio che porta collaboratrici familiari, badanti e commesse. (28) La santa alleanzaLo dicono i collaboratori giustizia. Lo confermano le indagini di polizia e carabinieri. A Bari il clan degli Strisciuglio è diventato così potente, egemone in alcuni quartieri della città, che agli altri gruppi criminali non è rimasto altro che creare un’unica alleanza. Un’unica organizzazione. La novità emerge dalle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia contenute in recentissime informative (un vero e proprio dossier dell’aprile 2008) che carabinieri e polizia hanno inviato alla Dda. Quello degli Strisciuglio, quindi, è al momento il clan che nella geografia criminale del capoluogo pugliese detiene più peso e potere. Gestisce i traffici di droga, le estorsioni e l’usura nei principali quartieri della città. Ma il gruppo di Mimmo ‘la luna’ (così è conosciuto il boss del clan) continua ad estendere il suo controllo oltre che in diversi quartieri di Bari come Palese, Santo Spirito, Enziteto, Carbonara, San Girolamo anche a Bitonto, Rutigliano, Noicataro, Palombaio e Giovinazzo.Gli altri gruppi criminali, invece, hanno ripiegato su alcuni centri della provincia come Adelfia, Ceglie, Bitritto, Santeramo e Cassano che orbitano in area Di Cosola. I gruppi di Parisi-Palermiti e Stramaglia che esercitano la loro influenza a Torre a Mare, Mola, Capurso, Valenzano, Triggiano ed Acquaviva. Questi clan una volta dettavano legge nei rioni Carbonara, Japigia e San Paolo. I Capriati restano nella loro roccaforte di Bari vecchia e a Modugno. Una situazione che ha portato alla costituzione di un’unica alleanza. Queste cosche parzialmente estromesse dai traffici illegali più redditizi della città, si dedicano principalmente allo spaccio di droghe, all’usura e alle estorsioni ai commercianti (soprattutto nel rione Carrassi ad opera di

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Diomede). Questa spartizione del territorio avrebbe favorito la pax mafiosa caratterizzata dall’assenza di contrasti tra clan che, in precedenza, anche sulla stessa piazza, spacciavano droga e ricorrevano a gambizzazioni e omicidi per risolvere anche le più banali controversie.Ora questi personaggi farebbero parte di una coalizione criminale più omogenea, nata per cercare di sopravvivere all’ascesa irresistibile degli Strisciuglio.Al gruppo che ha nel quartiere Libertà la sua centrale operativa è stato inferto un duro colpo grazie all’operazione ‘Eclissi’, conclusasi nel gennaio 2006 con più di 180 arresti. Ma il carisma di Domenico Strisciuglio, capo indiscusso del clan, è ancora molto forte, detenuto (attualmente si trova a Novara) dal ’98 in regime di carcere duro. Il boss, comunque, continua ad esercitare il suo potere sugli affiliati. E nelle carceri proseguono i reclutamenti di picciotti (i battesimi di mafia sono frequenti) che presto potrebbero tornare in libertà e imporsi sul territorio per conto di ‘Mimmo la luna’. Gli ordini arrivano dal carcere. I boss o gli esponenti di spicco dei clan dettano la linea, anche se dietro le sbarre. E lo fanno perché in cella ricevono costantemente informazioni, aggiornamenti sulla vita al di fuori delle strutture penitenziarie. Per comunicare, infatti, i gruppi malavitosi della città, gli Strisciuglio prima di tutto, hanno ideato un sistema che permette loro di eludere i controlli, di non attivare i sospetti. Il particolare emerge dalle inchieste che la Dda sta conducendo.Da una parte, in carcere, ci sono gli esponenti di rilievo del clan, dall’altra, in strade, nelle piazze dello spaccio, le nuove leve della criminalità. Si tratta di missive che sono, almeno sulla carta, intestate non agli uomini del clan, ma a piccoli pregiudicati, spesso immigrati, che in carcere si trovano per reati comuni. Usando il loro nome, immaginano i componenti dei gruppi malavitosi, sarà più semplice non attirare l’attenzione degli investigatori. La corrispondenza viene quindi indirizzata a detenuti insospettabili che dopo averla ricevuta si accorgono del reale contenuto della lettera. E capiscono che il vero destinatario della missiva (al cui interno spesso c’è un altro nome) è magari il compagno di cella, e cioè un grosso pregiudicato della malavita cittadina che in carcere attende indicazioni per poi impartire ordini.Carabinieri e poliziotti hanno sequestrato alcune lettere, accertando come l’insolito sistema di comunicazione sia sempre più diffuso tra gli esponenti del clan che, in questo modo, cercano di sopravvivere alla detenzione. E anche dall’esame della corrispondenza, intercettata dietro le sbarre, è emerso come quello degli Strisciuglio sia il gruppo malavitoso più potente e organizzato, capace di arruolare nuovi affiliati anche tra i detenuti. Nelle lettere sequestrate in carcere, gli uomini del clan, inneggiano alla famiglie degli Strisciuglio, definita <<la più forte>>, <<la più potente di tutte>> e in cui si esprime gratitudine alla figura di Mimmo ‘la luna’, considerato ancora il capo nonostante il lungo periodo di detenzione. A conferma dell’ascesa del gruppo criminale, secondo quanto emerge dalle informative, sono decine e decine i nuovi affiliati del clan e non soltanto nel quartiere

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Libertà, ma anche in altre zone della città dove gestiscono prevalentemente lo spaccio di droga ma anche le estorsioni.Si tratta di giovani, vecchie conoscenze delle forze di polizia, tornati in libertà dopo periodi più o meno lunghi di detenzione, ma anche di ragazzini, di adolescenti che sono disposti ad impugnare le armi pur di dimostrare la loro fedeltà al clan e che sono quindi pronti a prendere il posto che è stato dei componenti del gruppo, condannati nel processo ‘Eclissi’. Questi ultimi sono il nuovo punto di forza del clan e che vengono usati come spacciatori o vedette, ricevendo in cambio compensi anche settimanali. (30)

Di tutto questo troviamo una conferma negli scenari del crimine barese contenuto nell’ultima relazione semestrale (riferita al 2007), inviata al Parlamento dalla Direzione Investigativa Antimafia.Si afferma, infatti, che il tempio del crimine organizzato riconducibile al boss Savino Parisi e ai suoi feroci luogotenenti, diventa terra di conquista degli uomini del clan Strisciuglio. E’ qui che il gruppo di Mimmo ‘la luna’ avrebbe in atto una potente campagna di affiliazione. Giovani, giovanissimi reclutati per ripopolare l’esercito di sentinelle, spacciatori, autisti, killer, gregari di vario livello. I ragazzi di Japigia sarebbero il seme piantato dal clan Strisciuglio nel fertilissimo terreno malavitoso che per decenni ha fatto da sfondo all’egemonia di ‘Savinuccio’ e dei suoi accoliti.Secondo gli esperti della Dia, il ritorno in carcere di Parisi e la raffica di arresti che ha disarticolato il gruppo di Eugenio Palermiti avrebbe lasciato campo libero al più feroce dei clan baresi. La battuta d’arresto di Palermiti, in particolare, (con quei 10 milioni di euro di beni sequestrati) ha assunto una importanza simbolica negli ambienti del crimine. Il clan, nato da una costola di Parisi e poi diventato autonomo, nel 2007 aveva raggiunto una potenza straordinaria. Le indagini, infatti, hanno rivelato che se fino a qualche anno fa, nell’approvvigionamento di sostanze stupefacenti dal Sud America, gli muomini di Palermiti contavano sulla mediazione del gruppo camorristico Nuvoletta, il più recente quadro investigativo ha messo in luce <<la capacità del sodalizio indagato di stabilire dirette relazioni con cartelli sudamericani, addirittura ospitandone esponenti in Bari a garanzia delle transazioni>>.I Palermiti avrebbero trafficato droga anche dall’Olanda e dalla Spagna e avrebbero intrecciato rapporti stretti con narcotrafficanti venezuelani, accumulando capitali illegali poi ripuliti in attività legali.Negli ultimi mesi, dunque, secondo la Dia, <<la città ha vissuto una situazione di calma apparente, fatta eccezione per sporadici episodi, che possono costituire il segnale del riacutizzarsi di contrasti per l’egemonia criminale nel quartiere Libertà da parte del gruppo Strisciuglio>>. Nel dossier, riferimenti espliciti vengono fatti ai proiettili esplosi per strada il primo ottobre del 2007: nessun ferito ma gli inquirenti sanno che la sparatoria è consumata contro un bersaglio in movimento. Cinque giorni dopo, un pregiudicato viene arrestato dalla polizia di Stato per detenzione di armi mentre si nasconde all’interno di un ripostiglio nel sottoscala di un condominio del

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quartiere Libertà: l’uomo dichiara di aver trovato rifugio perché aveva temuto un agguato da parte di quattro persone con i volti coperti da caschi integrali, che aveva visto giungere a forte velocità, a bordo di due motociclette.Questi episodi e il ritrovamento di numerose armi e munizioni, secondo la Dia, <<inducono ad ipotizzare una possibile ripresa delle ‘imprese omicidarie’ da parte del gruppo Strisciuglio e di altre realtà criminali per il controllo delle attività illecite>>.E se l’organizzazione riconducibile a Domenico Strsciuglio sarebbe in fase di grande espansione, da Palese ad Enziteto, dalla città vecchia a Japigia fino al Libertà, proprio il suo capo storico starebbe vivendo la sua vera prima stagione di declino, fiaccato dalla lunghissima detenzione e dalle pesanti condanne collezionate nel corso degli anni. Chi ha raccolto la sua eredità, allo stesso modo temuto, è presumibilmente il regista delle affiliazioni nel quartiere Japigia, nonché della rinnovata strategia di conquista del potere criminale.Infatti, ha preso spazio l’associazione che si coagula intorno alla figura di Stramaglia (un tempo legato a Parisi). Il gruppo Stramaglia ha in corso un braccio di ferro con lo storico clan Di Cosola per l’egemonia nello spaccio di stupefacenti sui quartieri di Carbonara, Loseto, Ceglie e nei comuni di Triggiano, Valenzano, Adelfia e Casamassima. (30)

Intanto un ingente patrimonio del valore di 1.250.000 euro – costituito da quote societarie di aziende operanti nei settori delle scommesse e della distribuzione dei carburanti, da un appartamento, da autovetture e motocicli – è stato posto sotto sequestro dal Gico nel corso di un’operazione denominata ‘Ecclissi 2’ che ha colpito al portafoglio alcuni tra i ‘mammasantissima’, i luogotenenti e gli aggregati non solo del gruppo Strisciuglio ma anche del clan Abbaticchio.Sconfitto sul piano processuale, il clan Strisciuglio è stato attaccato su quello economico e finanziario. Gli accertamenti svolti dagli investigatori e disposti dal sostituto procuratore della Dda hanno riguardato complessivamente 44 persone.A partire dal novembre 2007 i finanzieri del Gico hanno cominciato ad acquisire una serie di documenti in ordine alla posizione contributiva, al reddito, al possesso di beni in qualche modo riconducibili, in maniera diretta o per il tramite di prestanome, agli indagati e alle loro famiglie.Gli undici malavitosi finiti sotto la lente di ingrandimento della polizia tributaria, avrebbero investito il denaro ricavato smerciando droga e ricattando commercianti, imprenditori in attività legali e in beni come macchine e motociclette.Tra gli indagati vi sono anche componenti della famiglia Strisciuglio. Cinque i membri del clan Abbaticchio al quale i militari hanno sequestrato il 50% delle quote di una società a responsabilità limitata proprietaria di una stazione di rifornimento carburanti che si trova in via Napoli e una sala scommesse di Bitritto.I finanzieri hanno notificato il provvedimento di sequestro ai componenti della famiglia Strisciuglio che occupano, essendone i proprietari, un appartamento in via

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Crispi. Si tratta di una casa di notevole valore. Nei casi appena citati la custodia giudiziaria è stata affidata agli stessi soggetti colpiti dal sequestro. Dieci le automobili requisite di marca Bmw, Audi, Smart, Lancia e Renaut. Sette invece le motociclette, quasi tutte Piaggio Beverly. Buona parte dei beni è risultata essere intestata a prestanome e familiari dei malavitosi, compresi figli e nipoti minorenni. (30) I clan ricorrono al mutuoL’inchiesta, per il momento, è sfociata in un arresto e in un provvedimento di interdizione , ma è destinata a nuovi colpi di scena. Perché nel registro degli indagati ci sono 28 nomi, insospettabili, promotori finanziari, funzionari di banca, geometri e poi pregiudicati. Secondo l’accusa facevano parte di un’associazione che, presentando alle banche atti di vendita o contratti di lavoro falsi, sarebbe riuscita a ottenere in un anno l’erogazione di mutui per un valore complessivo di cinque milioni di euro. Soldi che, è il sospetto degli investigatori, potrebbero aver dato nuova linfa alla criminalità organizzata.L’indagine è stata avviata dopo la denuncia della filiale di Triggiano di un istituto di credito che aveva rilevato anomalie nella documentazione, esibita da un cittadino per la concessione di un prestito. E l’inchiesta su un caso isolato ha permesso di scoprire una vera e propria organizzazione, composta da vecchie conoscenze delle forze di polizia, ma anche da insospettabili. Come Luigi Gervasi, ad esempio, barese, proprietario di alcuni supermercati, è ai domiciliari, Roberto Ressa, di Triggiano, commercialista e promotore finanziario, invece, è stato interdetto per due mesi dalla professione. Il meccanismo della truffa, commessa ai danni di quattro banche, era molto articolato. Gli insospetabili, gente che non aveva pendenze con la giustizia, accompagnati dai promotori finanziari, si presentavano negli uffici degli istituti bancari per ottenere un mutuo. Una richiesta, motivata con la necessità di investire nel mercato della casa, e basata su documentazione, come gli atti di vendita, le dichiarazioni dei redditi o i contratti di lavoro, rivelatisi poi falsi. Perché gli appartamenti che avrebbero dovuto acquistare in alcuni casi esistevano solo sulla carta, in altri, invece, erano abitazioni fatiscenti, il cui valore era stato sovrastimato per giustificare la richiesta di un mutuo da duecento o trecentomila euro.Cinque milioni il valore complessivo dei prestiti, concessi ai componenti dell’organizzazione. Due sono stati erogati, gli altri tre invece bloccati dopo l’avvio delle indagini. Dell’associazione facevano parte promotori finanziari, geometri che firmavano false perizie e funzionari di banca in servizio all’ufficio mutui che non hanno vigilato sulle norme antiriciclaggio. Nell’inchiesta coinvolti anche cittadini, ai quali venivano intestati falsi atti di vendita e pregiudicati di Bari e provincia. Il sospetto dei carabinieri, non ancora formalizzato nelle carte dell’inchiesta, è che i soldi servissero anche per finanziare la criminalità organizzata. (30)

Il Rapporto DIA sul riciclaggio dei proventi

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Il traffico di stupefacenti continua ad essere il filone aureo degli affari del crimine barese. La città – secondo l’incrocio delle numerose inchieste in corso – sarebbe perno del narcotraffico internazionale che mette in triangolazione il Sud America, il Nord Europa e l’area dei Balcani. Non è un caso che gli stessi vertici della Dia indichino il porto barese quale <<un importante snodo logistico per tutti i traffici illeciti>>.I cacciatori di patrimoni della Dia hanno intensificato il lavoro di intelligence per rintracciare il flusso di denaro sporco. D’altronde negli ultimi mesi del 2007 sono state numerose le operazioni finanziarie sospette sulle quali si sono accesi i riflettori degli inquirenti. L’Antimafia delle manette, come spesso rilevano gli esperti, è sostanzialmente inefficace se non si accompagna all’Antimafia dei capitali. Ai clan vanno svuotate le tasche.I cacciatori di denaro sporco hanno cominciato a dragare il terreno quotidiano della circolazione del denaro. Al setaccio sono passate operazioni sospette come l’emissione di alcuni assegni circolari e titoli similari, oppure l’addebito per estinzione assegno, i versamenti di denaro contante attraverso sportelli automatici o cassa continua. Ai ragg x anche operazioni come bonifici a favore di ordine e conto, prelevamenti con moduli di sportello, incassi di assegni circolari o di propri assegni, bonifici esteri, disposizione di giro conto tra conti diversamente intestati (stesso intermediario).Non è sfuggito al controllo della Dia nemmeno l’acquisto di oro e metalli preziosi, la conversione di banconote in euro, il versamento di contante o di titoli di credito o di assegni circolari o ancora alcuni contratti di locazione (come il fitto o il leasing) e i premi assicurativi.Il numero delle segnalazioni sospette trattenute dalla Dia negli ultimi mesi è insomma in aumento. Ed è la strada maestra per mettere le mani su quei capitali sporchi che non vengono reinvestiti in attività commerciali o proprietà immobiliari, fino a qualche anno fa uno degli strumenti preferiti dalla criminalità organizzata per ripulire il denaro di provenienza illecita. (30) Il vertice in Prefettura sulla “Sicurezza”Il 23 maggio 2008, alla presenza del sotosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, si è tenuto, in Prefettura, un vertice sulla <<sicurezza>>. Hanno partecipato, tra gli altri, naturalmente il Prefetto, il capo della Procura barese Emilio Marzano; il giudice per le indagini preliminari Jolanda Carrieri; il col. Fabrizio Carrarini, comandante provinciale della Guardia di Finanza e il Questore Vincenzo Maria Speranza.Le emergenze consegnate al sottosegretario dagli amministratori, dai magistrati, dalle forze dell’ordine sono stati i cosiddetti “reati metropolitani” che turbano i tutori dell’ordine pubblico. C’è anche, è vero, la questione dello spaccio massiccio di stupefacenti a Bari e in provincia, ma la vera preoccupazione sono i furti, gli scippi, le rapine. Sono questi i reati che – per dirla con il Prefetto - <<destano maggiore allarme sociale>>. Sfogliando il ‘mattinale’ di polizia e carabinieri, in effetti, i furti

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in appartamento, i furti d’auto, le rapine all’interno di negozi e aziende, gli scippi, i furti di rame sono una litania quotidiana.<<Sono reati – ha commentato lo stesso Mantovano – che non esauriscono il quadro delle minacce della sicurezza sul territorio. Sono gli aspetti di maggiore sensibilità. Quelli che soggettivamente, e non solo, danno maggiore fastidio alla popolazione. Quelli che richiedono una risposta immediata per aumentare la percezione di sicurezza, un elemento da non sottovalutare. E’ sulla base della percezione di sicurezza, al di là delle statistiche – ha continuato il sottosegretario – che si forma il grado di fiducia delle istituzioni che lavorano per la sicurezza. Quindi si avvia un percorso virtuoso i cui vantaggi sono poi per tutti>>.Si è parlato anche di stranieri (la cui presenza a Bari non desta l’allarme o la fobia che si registra in altre città d’Italia) e di rom. Sono 400 quelli censiti sul territorio povinciale, ma sono assai mansueti, <<solo qualcuno di loro – rassicura il Prefetto – vive di espedienti, ed è inutile nasconderlo>>. L’on. Mantovano ha sottolineato che i mezzi contro i mali della criminalità comune sono per la gran parte contenuti nei provvedimenti in materia di sicurezza approvati a Napoli dal Consiglio dei ministri che ha quindi illustrato.Tra le altre risposte possibili per arginare l’assalto quotidiano di ladri, scippatori e rapinatori, vi è l’incremento del sistema di videosorveglianza a Bari e nelle città della provincia attraverso contratti di assistenza e gestione pluriennale. Il prefetto ha anche ribadito che si proporrà ai commercianti la possibilità di installare negli esercizi commerciali il teleallarme attraverso l’impiego dei finanziamenti governativi.Questo è tutto quello che riferiscono le cronache sulla riunione in Prefettura.Ci sia permesso un commento al vertice sulla sicurezza con il dovuto rispetto per le competenze e le conoscenze indubbiamente in possesso dei partecipanti all’incontro. E in questo condividiamo molte delle cose messe a punto dalla gionalista de ‘La Gazzeta del Mezzogiorno’ a margine della cronaca dela riunione. Infatti, pochi giorni prima del vertice in Prefettura la Dia ha reso pubblico il Rapporto che periodicamente (ogni sei mesi) presenta al Parlamento (del suo contenuto abbiamo riferito in altro paragrafo). La Dia ha, infatti, ridisegnato gli scenari del crimine organizzato regione per regione, con particolare riferimento, ovviamente, a quelle del Mezzogiorno piegato dal peso mafioso. Quella barese è stata descritta come una costellazione di sodalizi (sostanzialmente di matrice familistica) non certo potente e inquientante come Cosa nostra o la ‘Ndrangheta, ma pure capace di esprimere un pericoloso potenziale criminale. Ha indicato i clan che si contendono i territori di competenza e ipotizzando gli scontri possibili per la contesa di quei territori. Inoltre la Dia ci dice che la mafia barese sa trafficare enormi quantità di droga e riciclare il denaro sporco. Come si può arguire essa esprime una pericolosità che può travolgere una parte consistente della nostra provincia. E’ possibile che non si sia espressa, nella riunione in Prefettura, neanche una parola su questo aspetto non certo secondario? Sia ben chiaro sappiamo bene che la percezione di

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insicurezza il cittadino lo avverte dai furti, rapine e scippi commessi, ma l’egemonia territoriale dei clan difesa anche con le armi è anch’essa una vera minaccia per la sicurezza dell’intera comunità provinciale. (30)

LECCE Rapporto della Direzione Investigativa Antimafia - luglio-dicembre 2007Nell’area del leccese, sostiene la Dia, si evidenziano <<segnali di attivismo nell’ambito della criminalità organizzata, pur a fronte della sostanziale stabilità degli indici dei reati-spia>>; nella città capoluogo <<si percepiscono segnali, ancora embrionali, di riorganizzazione >> e un evidente interesse della criminalità a <<concretizzare una progettualità di matrice mafiosa attraverso il reclutamento di incesurati e di giovanissimi, l’adozione di modelli organizzativi più strutturati e il mantenimento di un basso profilo di esposizione>>.Il riferimento al reclutamento di incensurati e giovanissimi era stato segnalato dalla Dia di Puglia e Basilicata già nella relazione del primo semestre del 2007. La novità rispetto al passato è legata al fatto che vi è nei nuovi gruppi criminali <<la cautela di esigere>> da imprenditori e commercianti <<modeste tangenti per evitare il fenomeno delle denunce>>. Anche il traffico della droga continua a essere centrale negli affari dei clan.Nella relazione viene segnalato il ruolo che nel Basso Salento esercita il clan Padovano, attivo a Gallipoli, che si è rafforzato a seguito dell’avvicinamento ai Tornese di Monteroni. Dopo qualche intesa <<a Casarano, un pluripregiudicato del luogo, già appartenente alla Scu dei Giannelli, avrebbe costituito un proprio gruppo autonomo>> per gestire il traffico di droga, con l’approvazione del gruppo Padovano. Personaggi vicini al gruppo Padovano/Tornese hanno mostrato di essere attivi nella zona di Matino.Anche a Galatina emerge il tentativo di soggetti vicini al clan Padovano di riempire il vuoto nella gestione dei traffici lasciato dal gruppo Coluccia, disarticolato con le operazioni di polizia degli anni scorsi.A Monteroni resta saldo il ruolo del clan Tornese, nonostante i capi siano in carcere. La Dia segnala anche gli atti intimidatori compiuti nel semestre luglio-dicembre 2007 nei confronti di Alessandro Martino, già reggente per conto del clan Tornese a Monteroni: l’affissione nel paese di manifesti di lutto che annunciavano la sua morte; il danneggiamento dell’abitazione di una parente; l’incendio dell’auto di un suo affiliato.

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Nel Nord Salento, gli investigatori della Dia segnalano che <<il gruppo De Tommasi starebbe attraversando un periodo particolarmente critico a causa della mancanza di affiliati in libertà capaci, per caratura criminale, di ricompattare il sodalizio>>.In questo contesto <<il territorio sembra subire l’influenza di realtà criminali dei confinanti comuni del Brindisino: San Pietro Vernotico, Cellino San Marco e Torchiarolo>>. I brindisini si dimostrano particolarmente attivi nel commercio degli stupefacenti a Campi Salentina, Squinzano e Trepuzzi. Alcuni attentati ad amministratori pubblici verificatisi nel periodo considerato (luglio-dicembre 2007) stando alle indagini della Dia non sarebbero riconducibili alla criminalità organizzata. (34)

Rapporto della Questura – 17 maggio 2008Nell’ambito delle operazioni di polizia sono state 250 le persone arrestate tra il 1° maggio 2007 e il 30 aprile 2008; 70 le persone rimpatriate con foglio di via obbligatorio. Si tratta soprattutto di immigrati non in regola; 235 i chili di droga sequestrati, di cui 3.901 chili di droghe pesanti e 231,430 droghe leggere.Droga, usura ed estorsione, furti e rapine, prostituzione, sequestri di patrimoni e di armi, danneggiamenti ed altri reati ancora sono stati al centro delle principali operazioni portate a termine dal personale della Questura e dei Commissariati. Per la droga ci sono, tra gli altri, gli arresti di Antonio De Vergori con 960 grammi di eroina e quello di Fernandio Elia che insieme a quasi un chilo e 400 grammi di hashish aveva anche due pistole calibro 7,62 con la matricola cancellata.Quattro le operazioni contro il racket delle estorsioni e dell’usura, una delle ultime contro i taglieggiatori della catena dei supermercati Eurospin. In tema di rapine, fra le sei operazioni segnalate anche quella in cui finì in carcere l’autore delle rapine alle farmacie durante le festività natalizie del 2007.Per quanto riguarda i danneggiamenti, nel consuntivo della Questura sono citate le tre operazioni contro le bande dei ragazzi diventati specialisti in danneggiamenti nelle scuole: nell’operazione ‘Fighetti’ dell’11 dicembre 2007 furono denunciati 18 minorenni e due maggiorenni, altri cinque il 13 marzo 2008 per nuovi assalti a scuole a Lecce. Infine per i danni e i furti alla scuola media San Donato sono stati denunciati 14 ragazzi. (30)

Il racketE l’ombra del racket continua ad oscurare anche il Salento. Cataldo Motta, coordinatore della dda di Lecce, nel corso dell’audizione alla Commissione Affari Costituzionali, ha fatto riferimento alla spinosa analisi avviata tra i commercianti e piccoli e medi imprenditori. <<Abbiamo provato ad avviare un’indagine conoscitiva senza però ottenere grossi risultati. Lo stesso è avvenuto per i concessionari, per i rivenditori di autoveicoli, e poi per le discoteche, i bar, i wine bar, i pub e le birrerie del centro storico di Lecce e delle marine, nel periodo estivo. Abbiamo notato una difficoltà dei titolari degli esercizi commerciali a riferire circostanze delle quali, in

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parte, eravamo già venuti a conoscenza tramite l’utilizzo di altri canali. Abbiamo così scoperto che sono state costituite delle vere e proprie società, non nelle forme degli istituti di vigilanza, il cui oggetto sociale è dato dal controllo interno degli accessi, cioè una sorta di vigilanza interna. Secondo la disciplina, chi opera con questo oggetto sociale, sfugge all’autorizzazione prefettizia: quindi si sono costituiti dei veri e propri istituti di vigilanza. Questo è un fenomeno che già da tempo si era rilevato in provincia di Lecce, ma che adesso si è diffuso ancora di più in città. In questo modo – ha spiegato Motta – si dà copertura all’attività di estorsione, che viene condotta proprio attraverso tali società, la cui compagine sociale è, il più delle volte, costituita da esponenti degli ambienti criminali. La stessa situazione si è sviluppata nelle città di Brindisi e Taranto. Abbiamo predisposto due indagini, concluse proprio nel 2007, le quali hanno fornito indicazioni sul controllo, direi monopolistico, da parte di due organizzazioni criminali, due clan entrambi riconducibili agli ambienti più storici e tradizionali della vecchia Sacra Corona Unita>>.E le cronache frequentemente danno ragione al Dott. Motta.

*Alla fine di marzo 2008 gli aspiranti estorsori Tommasino Delle Grottaglie e Vincenzo Ruffo sono finiti in carcere dopo una brillante operazione di polizia condotta dalla sezione reati contro il patrimonio della Squadra mobile di Lecce in trasferta a Taranto: tarantini sono infatti i due personaggi.Obiettivo la catena di supermercati Eurospin. Cinquantamila euro la prima richiesta, scesa a 30 mila dopo che le minacce all’amministratore delegato ed altri responsabili caddero nel vuoto. Uno sconto sì, ma con la prospettiva che quei 30 mila euro sarebbero diventati un versamento mensile fisso.Richieste accompagnate dalle minacce di far chiudere i punti vendita e riprendere le trattative con chi sarebbe subentrato. Ma anche con minacce esplicite alle persone e alle strutture: promessa di iniziare facendo del male ai dipendenti, risparmiando temporaneamente i locali perché assicurati.Il primo contatto risale al 14 marzo, l’ultimo il 25. Il quadro accusatorio attribuisce a Ruffo di aver fornito al complice i numeri telefonici di cellulari e le utenze private delle persone da contattare ma anche di fare la parte di mediatore come se qualcuno lo avesse costretto ad informare i vertici dell’Eurospin raggiunti dalle telefonate che si trattava di gente che non scherzava.I pedinamenti, gli appostamenti e le intercettazioni telefoniche hanno fato saltare il disegno criminoso, stabilendo, tra l’altro, che il Ruffo non era un mediatore disinteressato, bensì complice di Delle Grottaglie.I due presunti personaggi sono finiti in carcere con l’accusa di tentata estorsione in concorso, aggravata e continuata.

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Per non parlare dei frequenti inspiegabili attentati o le numerose auto date alle fiamme la cui frequenza lascia il sospetto che non siano opera di bulli o teppisti.E’ il caso delle pescheria di Vincenzo Quaranta di Lizzano. Aveva già subito un attentato all’esercizio, poi gli hanno bruciato l’auto. Il 29 marzo 2008 è tornato nel mirino. I malviventi hanno dato fuoco a una Micra di proprietà del commerciante, parcheggiata sotto casa.La direzione delle indagini è stata affidata alla compagnia dei carabinieri di Manduria, i quali non escludono che il Quaranta potrebbe essere stato vittima degli estorsori. Seguendo questa ipotesi, la prima auto bruciata potrebbe costituire un pesantissimo avviso, la seconda una vendetta.Il danneggiato, sentito dai carabinieri, non ha fornito alcun elemento. Nessuna richiesta estorsiva avrebbe ricevuto, né sarebbe finito nel mirino di qualcuno sì da far scattare il desiderio di vendetta.

*Intanto il 1° aprile 2008 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha emesso sentenza nel processo con rito abbreviato a carico del gruppo guidato da Capoccia, prima di diventare collaboratore di giustizia,per aver messo in atto una serie di attentati e di minacce allo scopo di indurre gli amministratori di Cavallino e gli imprenditori impegnati nella realizzazione del parco commerciale, a concedere all’ex assessore Roberto Baldassare la gestione dell’impianto di distribuzione di carburante che sarebbe sorto nell’area. Baldassare in questo processo risulta mandante e vittima allo stesso tempo perché è stato riconosciuto parte lesa per l’incendio della porta del suo studio professionale avvenuto il 24 giugno del 2005. Stesso orientamento per l’imprenditore Tommaso Ricchiuto e per le aziende di famiglia.Pur essendo giunto, il giudice, a condanne diverse dalle richieste formulate dal pm, il capo di imputazione non è stato sostanzialmente modificato ad eccezione dell’accusa rivolta a tre componenti del gruppo, i quali avevano scagliato una bottiglia incendiaria contro la porta dello studio di Baldassare. Le condanne ai tre autori dell’attentato tengono conto dell’aggravante delle modalità mafiose correlata all’accusa di estorsione per la bomba piazzata nella villa di Ricchiuto, per i colpi di pistola contro lo stesso imprenditore, per le pistolettate all’ex assessore Ennio Cioffi, per le minacce ai consiglieri comunali Antonio Schirinzi e Giacomo Boccadomo ma anche al progettista Cesare Barrotta.Quindi si è chiuso il primo grado per i presunti autori materiali di attentati e minacce. Tocca ora a Baldassaree nelle vesti di mandante.

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Il 1° aprile 2008 bruciata un’altra auto a Surbo. Verso l’una e mezzo di notte è andata in fiamme la Fiat Punto parcheggiata in via Volturno dove abitano Patrizia De Santis ed Antonio Pagano. Le fiamme oltre a danneggiare in modo pressocchè irreparabile l’auto si sono propagate sul prospetto dell’abitazione rischiando di causare danni gravi anche alle persone: il calore ha fatto esplodere il vetro della finestra della camera dei bambini che fortunatamente erano stati messi a dormire altrove.Vi erano state alcune iniziative della Prefettura per cercare di riportare serenità in un paese colpito da una serie di incendi di auto ma anche dai cinque colpi di pistola contro la sede della polizia municipale. Le ultime due macchine bruciate sono le Alfa Romeo 155 di un carabiniere in pensione e di un collega in servizio a Torre Santa Susanna (in provincia di Brindisi), come pure quelle dell’ex presidente del Consiglio comunale e di un dipendente dell’Ufficio Tributi.Fra le ipotesi seguite (a parte quella riferita ad atti di intimidazione nei confronti della giunta municipale per l’assegnazione di alcuni lavori) anche quella dell’assegnazione delle case popolari che ha visto sia la municipale che i carabinieri impegnati a verificare la presenza dei requisiti per entrare a far parte della graduatoria. (14)

*E ancora. Nel processo con rito abbreviato andato a sentenza il 22 dicembre del 2004 furono tutti assolti dal giudice per l’udienza preliminare. In quella pronunciata il 2 aprile 2008 dalla Corte d’Appello, sono stati riconosciuti come gli autori dell’estorsione all’enoteca Linciano, sia Francesco Portulano, che Antonio Rotondo e Carmine Mazzotta.Più precisamente Portulano è stato condannato a sei anni e due mesi di reclusione, gli altri a sei anni per l’ipotesi di reato di estorsione aggravata dall’agevolazione dell’associazione mafiosa. Assolti invece dall’accusa di aver piazzato la bomba che il 6 marzo del 2003 (stesso giorno in cui fu ammazzato dalla Scu il proprietario del bar Papaya, Antonio Fiorentino) esplose davanti all’ingresso dell’enoteca.E’ stato ritenuto motivato il teorema accusatorio basato sul presupposto che a Linciano nel 2003 fosse stato chiesto non un contributo per l’organizzazione del concerto di Gigi D’Alessio nelle cave di Cavallino. Il denaro non sarebbe dovuto andare all’agenzia teatrale di Rotundo ma sarebbe servito alla criminalità. La sentenza del 3 aprile ha modificato quella di primo grado nella parte che riguarda Nico Greco, di Lecce: i quattro anni sono passati ad un anno e quattro mesi in continuazione con la condanna nel processo “Pit”. Per gli altri imputati è stato confermato ciò che fu deciso in primo grado: sette anni ad Antonio Cannoletta ed a Nicola Montinaro; cinque anni e quattro mesi a Marco Cafiero; tre anni a Luca Spagnolo di Lecce; due anni al collaboratori di giustizia Giampaolo Monaco di Lecce.

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Questa presunta holding delle estorsioni venne scoperta dai poliziotti della Squadra mobile nell’operazione chiamata “Clear” perché fra gli sciampi di questa marca fu piazzata una telecamera che riprese alcune delle richieste di denaro. Insieme a Linciano furono presi di mira anche “La Brillante” di piazza Palio, i commercianti della Mediazione, il Racar residence. (14)

*Un incendio, nella notte tra il 2 e il 3 aprile 2008, ha distrutto il negozio di parrucchiere di Luca Metrangolo, a Nardò.Dopo aver sollevato la saracinesca i pompieri hanno rotto la porta di vetro e trovato un divano in fiamme oltre agli specchi in frantumi a causa dell’alta temperatura. Il fuoco ha distrutto anche alcuni degli strumenti di lavoro del parrucchiere.I poliziotti della Scientifica, assodata la natura dolosa del gesto, hanno accertato che della benzina era stata gettata sotto la serranda appena sollevata; la moquette che ricopriva il pavimento del negozio e la soglia di ingresso se ne sono impregnate e quindi le fiamme partendo da fuori sono penetrate all’interno, attaccando il divano. Il fuoco ha anche annerito le pareti interne della prima stanza del locale che si sviluppa in tre locali.Alla polizia Metrangolo ha raccontato di non aver ricevuto minacce estorsive, tuttavia resta la perplessità per un episodio avvenuto il 1° aprile e sul momento considerato un ‘pesce d’aprile’, un episodio che ora va interpretato sotto altra luce.A quanto pare la mattina del 1° una persona con il volto coperto da un casco integrale da motociclista è entrato nel locale chiedendo dei soldi. Metrangolo avrebbe rifiutato accennando al lancio di un oggetto che si trovava sul mobile contro l’uomo, che però è fuggito senza affermare alcuna parola.Al gesto sul momento non è stato dato grande rilievo, ma dopo quanto accaduto l’episodio assume un altro significato. Gli agenti del Commissariato di Polizia indagano a tutto campo. (14)

*La notte del 3 aprile a Novoli, località ‘Palude’, su una stradina di campagna, si è incendiato un furgone Nissan Vanette. I carabinieri di Campi e Novoli hanno individuato e hanno rintracciato solo la mattina seguente: C. F., 75 anni di Trepuzzi ma domiciliato a Reggio Emilia, che, per il vero, spontaneamente si era presentato a denunciare il furto del mezzo che si trovava parcheggiato fuori dall’abitazione di Veglie, presso il quale l’uomo è momentaneamente alloggiato (è un commerciante di ortofrutta che viene ogni tanto nel Salento per comprare prodotti di terra da rivendere al Nord). Al momento del furto il furgoncino era scarico.

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I Vigili del Fuoco hanno stabilito la natura dolosa dell’incidente. L’uomo, dal canto suo, ha detto di non aver subito minacce o richieste estorsive, ormai ricorrente la risposta che si riceve da parte di chi subisce questo tipo di attentati. (14)

*L’11 aprile 2008 sono stati arrestati tre presunti complici della banda che a Montenero di Bisaccia (in provincia di Campabasso) rapinò il Tir a un autotrasportatore di Nardò. All’uomo tenuto sotto sequestro la notte del 17 marzo per sette ore ed abbandonato nelle campagne di San Severo (in provincia di Foggia) con i piedi legati con una fascetta da elettricista ad un palo di filari di vite.L’11 aprile, appunto, era stato fissato l’appuntamento per consegnare una parte del denaro preteso per restituire il Tir da 120mila euro ed il carico di tre mezzi per la movimentazione terra del valore di 150mila. L’appuntamento per un caffè, aveva detto per telefono uno degli indagati al proprietario del Tir, un imprenditore di Avetrana. L’appuntamento per il ‘cavallo di ritorno’.Fermato con in tasca diecimila dei 30mila euro richiesti all’imprenditore, i carabinieri del Nucleo operativo radiomobile (Norm) della Compagnia di Campi Salentino hanno arrestato Costantino Errico, titolare di una impresa di lavori stradali, vecchia conoscenza delle forze dell’ordine in particolare per le truffe, insieme a ‘don Errico’ è finito in carcere anche il suo autista, Salvatore Carrozzo di Veglie. Stessa sorte per Francesco Murgolo di Gravina di Puglia (in provincia di Bari), anche lui titolare di un’impresa di lavori stradali.Per Carrozzo e Murgolo i carabinieri hanno effettuato un fermo di polizia giudiziaria ritenendoli complici di Errico nel reato di estorsione.Errico e Carrozzo erano stati notati con l’imprenditore di Avetrana il 2 aprile a bordo di una Peugeot 407 nera, mentre si dirigevano nel Nord Barese. L’auto si fermò sul piazzale di una stazione di servizio di Gravina di Puglia dove avvenne l’incontro con Murgolo. L’imprenditore, inoltre, era stato notato a Torre Lapillo in compagnia di Errico e Carrozzo come pure quest’ultimi erano stati visti ad Avetrana con il proprietario del Tir rapinato.Vista la vicinanza tra Torre Lapillo ed Avetrana certe frequentazioni sarebbero potute passare anche inosservate se non fosse che i carabinieri erano stati avvertiti di prendere nota anche del minimo movimento sospetto attorno al proprietario del Tir rapinato. E se gli incontri a Torre Lapillo ed Avetrana non avrebbero potuto dare alcuna indicazione, il viaggio a Gravina diventò l’occasione per convocare l’imprenditore e chiedergli cosa stesse accadendo: ai carabinieri del Norm l’uomo ammise di essersi ficcato nei guai. Era ‘sotto estorsione’ dopo che Errico e Carrozzo si erano offerti di fargli trovare il Tir tramite loro conoscenze baresi. Cioè Murgolo, persona con la quale Errico aveva lavorato a Gravina negli anni scorsi.Quella che sarebbe stata presentata come un’offerta di aiuto avrebbe avuto comunque un costo: 30mila euro. Se avesse rifiutato il Tir ed i tre mezzi trasportati sarebbero

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finiti nei Paesi dell’Est per essere venduti al doppio della cifra chiesta al proprietario. Pagando la metà, lui si sarebbe riappropriato di beni del valore di 270mila uro, loro invece non avrebbero corso rischi per piazzarli all’estero.Trascorsi alcuni giorni per racimolare almeno diecimila euro, venne fissato l’appuntamento per la consegna. Il denaro sarebbe stato preso in consegna da Errico in una busta, ma nemmeno il tempo di infilarla in tasca ed i carabinieri lo hanno bloccato ed arrestato. (14)

*Nella notte tra lunedì e martedì 15 aprile 2008, a Nardò ha preso fuoco, per mano di ignoti incendiari, una Nissan Vanette della ditta di pompe funebri “La Millefiori”, di proprietà del neretino Marco Vergano. I Vigili del Fuoco del distaccamento di Gallipoli, subito accorsi, in breve tempo sono riusciti a domare le fiamme.Nell’incendio, che ha completamente distrutto il furgone, sono state coinvolte anche una Fiat Panda che è stata subito avvolta dalle fiamme e due abitazioni vicine il cui prospetto è stato gravemente danneggiato.L’incendio dei due rispettivi portoni di ingresso avrebbe potuto rendere il bilancio molto più grave. A quanto è dato sapere i rilievi effettuati nella mattinata di martedì dagli uomini della Scientifica non lascerebbero dubbi sulla matrice dolosa del gesto. Gli inquirenti, infatti, avrebbero trovato un finestrino del furgoncino ridotto in frantumi; da qui, secondo le prime ricostruzioni, sarebbe stato gettato all’interno dell’auto materiale infiammabile.Intanto alle autorità intervenute sul posto l’imprenditore avrebbe dichiarato di non aver ricevuto minacce o subito estorsioni. (14)

*Il 19 aprile 2008 un’esplosione in piazza Mazzini a Lecce. Una bomba-carta esplosa sul marciapiedi, a ridosso della vetrine del negozio ‘Tuttinpelle’ che per fortuna non ha fatto danni che ha però seminato il panico nel cuore della città che brulicava di centinaia di persone.Gli agenti hanno effettuato un sopralluogo e raccolto alcune testimonianze. Una prima ipotesi, fin dall’inizio non suffragata da prove, che forse nel mirino fosse un negozio di abbigliamento.

*Bruciate le auto dei familiari del principale indiziato per le minacce al sindaco, al vice e ad un assessore di Gagliano del Capo. Verso le due e mezzo del 2 maggio 2008 sono state incendiate la Hunday Atos, la Ford Ka e la Fiat Uno della moglie, del

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fratello e del padre di Antonio Pizzolante, gestore di un bar del centro. Le macchine erano parcheggiate davanti alla sua casa e che ad innescare le fiamme sia stato un incendio doloso e non un corto circuito ne sono convinti i carabinieri della locale stazione e del Nucleo operativo radiomobile di Tricase intervenuti insieme ai vigili del fuoco. Prendendo quindi per buona l’ipotesi dell’incendio doloso, chi avrebbe voluto colpire Antonio Pizzolante? E soprattutto perché? Centra qualcosa la circostanza che il suo nome sia finito nel registro degli indagati per minaccia, violenza privata, diffamazione e molestie per le lettere minatorie e le scritte sui muri contro il sindaco Antonio Buccarello, il vice Antonio Ercolani e l’Assessore Achille Romano? L’ipotesi è stata presa in considerazione dai carabinieri non fosse altro perché da quando sono emersi i sospetti sulle minacce agli amministratori Pizzolante non sarebbe più ben visto in paese. A confermarlo sarebbe anche un volantino circolato nei giorni scorsi contenente una serie di accuse ed anche qualche litigio davanti al bar.In realtà l’uomo è solo sospettato ed al momento non c’è alcuna certezza che sia stato lui ad inviare le lettere di minaccia o a minacciare gli amministratori con scritte sui muri. L’inchiesta è ferma ai sequestri del 13 marzo 2008 quando i carabinieri acquisirono 64 copie di esposti anonimi, tre quaderni con i fogli come quelli impiegati per inviare le minacce, sei francobolli e 24 buste uguali a quelle ricevute dal sindaco. Con il ricorso al Tribunale del Riesame sono state dissequestrate le copie degli esposti perché non ritenuti pertinenti all’inchiesta.Intanto qualcuno (che nulla avrebbe a che fare con gli amministratori) potrebbe aver pensato di non attendere i tempi della giustizia e di fare giustizia da solo. (14)

*E’ stato valutato come un fatto serio e preoccupante dagli investigatori del Nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Gallipoli intervenuti la notte tra il 3 e il 4 maggio 2008 nella cittadina jonica dopo l’allarme creatosi fuori dal parcheggio della discoteca ‘Premier’ per l’incendio di una Porsche Carrera e di una Mercedes 220 station wagon. La tanica di benzina, trovata a pochi metri, è stata versata sul cofano motore posteriore della Porsche di Piero De Lorenzis di Racale, che nel suo paese gestisce una rivendita di auto di lusso usate e fa parte della famiglia di costruttori e commercianti di videogiochi, di concessionari di una sala Bingo nonché di una nota marca di caffè. Le fiamme si sono propagate sulla Mercedes di un suo amico di Specchia con il quale stava trascorrendo la serata al ‘Premier’.La constatazione che la Porsche appartenesse a Piero De Lorenzis ha fatto sì che dell’attentato fosse informata la Direzione distrettuale antimafia di Lecce non fosse altro perché l’imprenditore, fra i vari precedenti di polizia, conta anche l’arresto per associazione finalizzata al traffico di droga che poi lo ha visto assolto nel processo di primo grado; le dichiarazione del collaboratore di giustizia Filippo Cerfeda avevano accusato lui, il fratello Salvatore ed il barese di Melissano Felice Di Schiena, di aver

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fornito nel 2001 il suo gruppo di 15 chili di cocaina trasportati in cilindri metallici da un chilo ciascuno. L’ultima fornitura, disse Filippo Cerfeda, avvenne a pochi giorni dell’arresto, nell’operazione ‘Arpia’, del fratello Simone.Piero De Lorenzis, come detto, fu assolto in primo grado mentre il fratello Salvatore fu condannato a nove anni e quattro mesi. Per il primo pende processo in appello dopo il ricorso del pm, per l’altro la condanna in secondo grado è stata ridotta ad otto anni ed a giugno 2008 se ne occuperà la Cassazione.Chiuso quel capitolo finirono i guai con la giustizia dei fratelli De Lorenzis. Ma non tutti i guai: nell’estate del 2003 furono devastati i locali che impiegavano i loro videogiochi e fu bruciato anche un ristorante di Gallipoli ritenuto di loro proprietà dal gruppo criminale che urlò vendetta dopo l’ondata di arresti delle operazioni ‘Pit’.Ma questo è il passato che sta chiudendo definitivamente i conti con i processi, la novità è l’incendio del 4 maggio scorso. Ma chi può aver voluto lanciare un messaggio minaccioso ad uno dei fratelli De Lorenzis. E soprattutto per quale motivo? Le risposte le stanno cercando i carabinieri del Norm valutando anche tutte le possibili influenze criminali che oggi possono interessare Gallipoli. Un fatto è certo: l’autore ha voluto far capire che non si è trattato di un corto circuito ma di un incendio voluto. (14)

*Arrestati il 7 maggio 2008 due presunti componenti della banda specializzata nei furti di escavatori e di altri mezzi per la movimentazione della terra (in qualche caso a fine estorsivo). Nella mattinata i poliziotti delle Volanti hanno fermato sulla San Cataldo-Lecce un trattore con al traino una gru su un carrello e preceduta da una Fiat Bravo. La gru era stata rubata a San Cataldo il 21 gennaio 2008, uno degli ultimi furti dell’ondata di fine estate che aveva creato tanto allarme fra gli imprenditori da vedere la discesa in campo dell’Associazione degli industriali e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. Inoltre, nel corso delle perquisizioni nelle abitazioni e nei luoghi frequentati dai due fermati è stato trovata un escavatore rubato a Nociglia ad agosto del 1999.In manette sono finiti Bruno Vitale, di Lecce e Mario Bursomanno, di Arnesano. Per entrambi l’accusa di ricettazione in concorso che per la gran parte delle volte si definisce con una denuncia ma il comportamento tenuto dagli indagati ed i sospetti si sono fatti strada man mano nel corso degli accertamenti hanno indotto il pm di turno a dare parere favorevole agli arresti. Cosa non secondaria sebbene casuale, il magistrato di turno è il titolare dell’inchiesta sulla raffica di furti che ha colpito soprattutto le aziende edili fra Lecce e Maglie.Ad aggravare la posizione di Vitale e Bursomanno è stato innanzitutto il tentativo di prendere una strada di campagna per lasciare la San Cataldo-Lecce appena sono comparse le pattuglie delle Volanti. Le auto della polizia sono arrivate sulla via del mare dopo la telefonata giunta al 113 della centrale operativa della Questura che ha

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segnalato l’anomalia di un trattore che trasportava una gru e di un’auto che faceva strada. Appena fermati i due presunti ladri hanno sostenuto che stavano portando la gru ad una azienda di San Cesario che l’avrebbe acquistata per diecimila euro come ferro vecchio. Ma una volta che gli è stato fatto notare che il mezzo non era certo da buttare, avrebbero risposto che non doveva essere più fatto a pezzi ma consegnato in un piazzale.L’escavatore è stato trovato invece nella masseria Manzi dei Vitale di Surbo, parenti dell’arrestato, e che il Vitale l’avrebbe usata come deposito.Il sequestro dei telefonini e di altra documentazione servirà a capire se i due indagati siano legati all’organizzazione specializzata nei furti dei mezzi di lavoro e nell’usarli come cavallo di ritorno o nel farli sparire nei Paesi dell’Est. (14)

*Le fiamme appiccate nella notte tra il 7 e l’8 maggio 2008 hanno distrutto lo stabilimento balneare “Puntarenas” in località Torre Specchia lungo la costa vernolese. In pochi minuti è andato distrutto il lavoro di anni servito a trasformare uno stretto lembo di sabbia e scogli in un locale alla moda frequentato da turisti e salentini di ogni età. Il 20 novembre 2007 un altro terribile rogo aveva colpito gli stessi gestori, la famiglia Verri di Vernole, mandando in fumo il deposito di attrezzature ad Acquarica: 150mila euro di danni. Ignoti i responsabili che hanno distrutto la struttura, realizzata soprattutto in legno, utilizzando delle bottiglie piene di benzina che sono state rinvenute vuote dai carabinieri di Lecce e dai Vigili del fuoco. Insieme a queste un mozzicone di sigaretta. Il rinvenimento di questi oggetti non potrà aiutare le indagini perché è stato impossibile trovare delle impronte digitali sulla superficie sciolta a causa delle fiamme e del forte calore. Fra le piste da seguire c’è anche o soprattuto quella del racket.Un primo allarme è scattato alle 23 circa del 7 maggio: una guardia del servizio di vigilanza è accorsa immediatamente sul posto a controllare, ma non ha notato nulla di sospetto. Dopo qualche ora, il secondo allarme: questa volta non c’era più nulla da fare. Le fiamme avevano già divorato parte del locale riducendo in cenere la pedana in legno, il banco, le travi. Rapido l’intervento dei carabinieri di Lecce, di Vernole e dei Vigili del fuoco, che hanno tentato invano per ore di fermare le fiamme. La struttura ha continuato a bruciare per diverso tempo sotto gli occhi attoniti dei proprietari. I danni sono enormi ma ancora non sono stati quantificati. L’intera area è stata sottoposta sotto sequestro.Le indagini saranno condotte dai carabinieri della Stazione di Lecce e dal Norm. Gli inquirenti stanno valutando attentamente ogni elemento. Gli autori potrebbero essere gli stessi dell’incendio al deposito, attrezzi e fra le piste naturalmente non è da escludere, anzi, quella del racket. (14)

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Tre pullman ed un furgone quasi completamente distrutti dalle fiamme dell’incendio scoppiato la sera del 10 maggio 2008 nella sede di via Adriatica dell’azienda privata di trasporti “Coltellacci”. Confermata l’ipotesi dell’incendio doloso: sono stati trovati stracci imbevuti di benzina ed un foro dal muro dell’ex depositato dell’Automat. Si tratta del secondo attentato nel giro di pochi mesi: la sera del 19 dicembre 2007 ci fu un altro incendio rimasto a livello di tentativo sì, ma per il quale morì di infarto il titolare dell’azienda. Teobaldo Coltellacci di Lecce, originario di Martano subì un arresto cardiocircolatorio alla vista di una gomma di uno dei suoi pullman che andava in fiamme.I pullman danneggiati la sera del 10 maggio sono stati tre, ed anche un furgone Fiat Daily. Il sospetto che qualcuno avesse scavalcato la recinzione ed avesse appiccato le fiamme ha fatto arrivare anche i carabinieri del nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Lecce ed i poliziotti delle Volanti. Carbonazzati anche due pullman leggermente danneggiati l’altra volta: stavolta hanno completato l’opera. Con accanimento. (14)

*Appena tre giorni dopo l’incendio doloso all’Ufficio Urbanistica e Ambiente del Comune di Nardò, nella notte del 13 maggio 2008 di nuovo mani ignote hanno appiccato il fuoco. E questa volta è stato incendiato lo studio di un giovane avvocato neritino. I piromani hanno preso di mira lo studio situato nel centro storico, in corso Garibaldi. Dopo aver forzato la tapparella posta a protezione di una finestra ed aver rotto il vetro, senza entrare nello studio hanno gettato all’interno del liquido infiammabile (benzina o kerosene) dando poi fuoco. Le fiamme, che si sono propagate molto lentamente per tuta la notte a causa degli ambienti chiusi, hanno bruciato alcune pratiche poste sulla scrivania dell’avvocato e danneggiato in maniera irreparabile un computer. Mentre fumo e fuliggine hanno annerito tute le stanze dello studio.Il fortissimo odore di bruciato ha allarmato molti vicini che hanno avvertito l’avvocato che, solo intorno a mezzogiorno, ha scoperto che il proprio studio era stato incendiato.Sono intervenuti i vigili urbani e gli agenti del locale Commissariato di Ps raggiunti successivamente dai colleghi della Scientifica. Gli agenti del Commissariato stanno indagando sulla vicenda in maniera serrata e starebbero visionando le riprese delle telecamere di sorveglianza delle vicine. Poste alla ricerca di qualche indizio. Secondo alcune indiscrezioni lo studio legale già la notte precedente avrebbe subito un tentativo di scasso andato a vuto.Quello del 13 maggio è il secondo atto incendiario in pochi giorni ed il terzo in un mese. Prima l’incendio ad un salone da parrucchiere in via Volta, poi il fuoco, come abbiamo accennato, agli uffici dell’Urbanistica ed infine lo studio legale. Un

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escalation di criminalità che sembra riportare Nardò indietro nel tempo quando, a metà degli anni ’90, a cadenza quasi settimanale si registravano atti delittuosi perpretati soprattutto contro esercizi commerciali. Allora i delinquenti usavano piazzare esplosivo davanti alle serrande dei negozi, oggi danno fuoco con alcool, benzina o kerosene a uffici pubblici e studi professionali. Il clima di preoccupazione e di tensione si comincia ad avvertire tra la gente che chiede più sicurezza.Un altro episodio inquietante, infine, si sarebe registrato, sempre nella stessa via del centro storico: una mano ignota avrebbe tracciato strani segni e scritte con della vernice spray sui muri dell’abitazione di un altro noto professionista. (14)

*Ma vi sono anche le false vittime del racket delle estorsioni. Come quell’imprenditore agricolo di Copertino che a maggio del 2006 denunciò il furto ed il danneggiamento dei mezzi di lavoro seguiti da telefonate minacciose ed il 13 maggio 2008 è stato condannato per simulazione di reato e tentata truffa aggravata ai danni dello Stato. A tradirlo i tabulati telefonici. Si sarebbe inventato tutto per accedere al fondo di solidarietà destinato alle vittime del racket delle estorsioni. Presentò una istanza per ottenere circa 20mila euro ma intanto sia i carabinieri della Stazione di Galatina che l’istruttoria avviata, come di consueto, in Prefettura dimostrarono che di minacce l’imprenditore non ne avrebbe mai ricevute e quanto ai furti le indagini non sono riuscite a dimostrare quanto venne dichiarato nella denuncia.Il 13 maggio, dunque, il processo a carico del copertinese che sebbene abbia scelto la formula del patteggiamento non ha mai ammesso di aver simulato alcunché. La pena concordata: un anno e quattro mesi di reclusione, pena sospesa. L’indagine fu avviata con la denuncia presentata ai carabinieri della Stazione di Galatina ai quali l’imprenditore riferì del furto di una saldatrice, di un compressore, di un camion e di altri macchinari, nonché di presunti danneggiamenti subiti dalla sua azienda. Inoltre nella denuncia raccontò di aver ricevuto alcune telefonate di minacce durante la notte, specificando i giorni precisi e gli orari approssimativi. Per risalire agli estorsori furono acquisiti i tabulati telefonici, sarebbero serviti agli investigatori a risalire all’utenza da cui sarebbe stato contattato l’imprenditore. Ma delle telefonate non fu trovata traccia, non c’era traccia di miacce, di richieste di denaro e nemeno di riferimento ai furti.Di tanto fu informata la Prefettura che per questo bloccò la pratica con la quale si richiedeva il riconoscimento di status di vittima del racket delle estorsioni ed un riconoscimento parziale del danno subito. Ma da questa vicenda l’imprenditore n’è uscito con l’accusa di essersi inventato tutto al solo scopo di intascare i fondi antiracket. (14)

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Due auto incendiate a Taviano (Lecce) nel giro di 24 ore e cresce l’allarme in città. Il primo episodio è avvenuto intorno alle due della notte tra il 30 e il 31 maggio 2008. La vittima è un imbianchino del luogo che aveva parcheggiato la propria auto, una Bmw 320, all’esterno della propria abitazione. I soliti ignoti hanno cosparso del liquido infiammabile sulla vettura ed hanno appiccato il fuoco, danneggiandola seriamente.Il secondo episodio si è invece verificato la mattina del primo giugno 2008, verso le cinque. Nel mirino dei malviventi è finita una casalinga. Ad essere distrutta è stata stavolta una Fiat Punto. Anche in questo caso, l’incendio sarebbe di origine dolosa. Su entrambi i misteriodi atentati indagano i carabinieri della Stazione di Taviano, no trascurando – assicurano – nessuna pista compresa quella della richiesta estorsiva. (14)

Il giudice dell’udienza preliminare nel processo cion rito abbreviato del 5 giugno 2008 ha condannato l’imprenditore di Gallipoli Salvatore Capoti a sei anni di reclusione per estorsione aggravata dalle modalità mafiose.Il processo ha riguardato le accuse che il 13 febbraio 2007 costarono l’arresto all’imprenditore (ed in seguito il sequestro del suo patrimonio ad opera dei poliziotti dell’ufficio misure personali e reali della Questura) per le minacce che avrebbe rivolto ai titolari di due imprese di movimentazione della terra: non avrebbero dovuto più mettere piede a Gallipoli perché Gallipoli sarebbe stato territorio suo e di nessun altro. Tra l’altro nella penultima udienza, una delle vittime ha rischiato di finire sotto processo per reticenza: con una serie di non ricordo e non so, non ha confermato i fatti che diedero il via alle indagini dei carabinieri del Nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Gallipoli, coordinati dal pm della Dda di Lecce.I fatti contestati sono due: il primo riguarda la costruzione di Palazzo Coppola e l’altro la ristrutturazione e l’occupazione di un capannone sulla Gallipoli-Taviano. Per Palazzo Coppola l’accusa parla di minacce di Capoti ad un imprenditore del Basso Salento, se non fosse andato via gli avrebbe fatto saltare il cantiere. Salvo poi trovare l’accordo: la consegna di tutto il materiale di scavo, del carparo tufaceo. Per il capannone, invece, Capoti avrebbe impedito la trasformazione in un centro commerciale perché lo impiegò come sede della sua azienda. Siccome l’imprenditore avrebbe fatto riferimento ad amicie negli ambienti criminali e siccome ha avuto già una condanna per mafia, gli è stata contestata l’aggravante mafiosa. (14)

*Un attentato dinamitardo come tanti a danno di un esercizio commerciale, ma il primo in assoluto a danno di un’attività gestita da cinesi.E’ successo la notte tra il 16 e il 17 giugno 2008 a Lecce dove una potente bomba carta è stata fatta esplodere davanti alla saracinesca di un emporio di abiti e accessori made in China. La forte deflagrazione ha divelto la base della serranda mandando in frantumi la vetrina interna e deformando gli infissi. La polvere da sparo ha danneggiato anche alcuni vestiti che erano appesi all’ingresso del locale. I danni,

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comunque ingenti, non sono stati ancora quantificati. Il negozio preso di mira è situato in via Leuca in un quartiere alla periferia della città dove la famiglia di emigranti aveva allestito un esercizio commerciale per la vendita di prodotti a buon mercato tutti di manifattura cinese. Le indagini sono condotte dalla Squadra Mobile di Lecce che avrebbe già individuato una possibile pista su cui investigare.La Polizia, che ha raccolto le dichiarazioni dell’imprenditore cinese, vittima dell’atto criminoso, mantiene il doveroso riserbo sull’inchiesta. Anche se precisa che è da escludere <<una lotta tra cinesi>> come possibile movente dell’attentato. Rimane quindi l’ipotesi che possa essersi trattato di un avvertimento di natura estorsiva. Se tale eventualità sarà confermata, il 17 giugno sarà ricordato come il primo giorno in cui un esercizio commerciale cinese è stato preso di mira dal racket delle estorsioni.La crescita eonomica della comunità orientale non solo preoccupa la concorrenza locale, ma fa gola anche alla criminalità organizzata. Una presenza, la loro, mal sopportata dall’imprenditoria del posto che si vede defraudata di fette di mercato sempre più ampie grazie ai prezzi assolutamente concorrenziali che solo le produzioni cinesi riescono ad ottenere. Tornando alle indagini, secondo la Polizia la tecnica e il tipo di esplosivo utilizzato (<<forse polvere nera compressa>>) è tipico di chi vuole lanciare avvertimenti alle vittime che non si piegano alla richiesta estorsiva. (14)

*Da circa 4 giorni chiamava incessantemente la sua vittima, una casalinga di Castrignano dei Greci, per chiederle una somma in contanti di circa 190 euro che, a detta del malvivente, risaliva ad un vecchio debito contratto dal marito della donna, Andrea Franchina, arrestato pochi giorni prima dai carabinieri della Compagnia di Maglie per una rapina. Per questo tentativo di estorsione è finito anche lui in manette, Alessandro Conte di Otranto ma domiciliato a Lecce. Personaggio già conosciuto dalle forze dell’ordine.Ai fini della risoluzione delle indagini decisivo l’operato di un carabiniere donna che, sostituendosi alla vittima, ha collaborato con i carabinieri di Martano per consegnare il malvivente alla giustizia.L’arresto, avvenuto il 18 giugno 2008, giunge al termine di una serie di indagini iniziata pochi giorni prima quando Conte ha avanzato per telefono le prime richieste di denaro, minacciando di morte la vittima e aggiungendo che se non gli avesse consegnato la cifra richiesta entro pochi giorni, avrebbe appiccato un incendioo nell’abitazione della casalinga. La donna si è rivolta ai carabinieri di Martano, spiegando l’accaduto.Così sotto la copertura delle forze dell’ordine, la signora Franchina ha poi finito con l’accettare l’appuntamento con l’uomo, che non aveva mai incontrato di persona, nel luogo stabilito da Conte: il parcheggio di Lecce situato a pochi metri di distanza dalla caserma dei Vigili del fuoco. Dato che il Conte non conosceva la vittima, all’incontro si è presentata la donna carabiniere, mentre i suoi colleghi, appartati all’interno della

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caserma dei Vigili del fuoco, osservavano costantemente l’evoluzione dei fati. Allo scambio del deenaro, l’uomo è stato bloccato ed arrestato. (14)

*Sei colpi di pistola, nella notte tra il 23 e il 24 giugno 2008, esplosi da un’auto in corsa: E’ accaduto a Leverano, vittima dell’attentato un imprenditore del posto, Marco Frassanito, titolare con i fratelli di un’azienda loro vivaistica, la ‘Vivai Frassanito’, sulla via per Porto Cesareo. Difficile al momento stabilire il movente. Alle 23,30 del 23 giugno una utilitaria, a quanto pare una Fiat Punto di colore grigio è passata a tutta velocità da via Veglie, ha rallentato la marcia all’altezza dell’abitazione di Frassanito, una casa ad angolo a due piani. In quel momento l’imprenditore era fuori, in casa c’era la moglie. I colpi si sono sentiti all’improvviso, sordi, forti. La Punto, come avrebbero raccontato agli inquirenti alcuni testimoni, con a bordo due uomini non meglio identificati, ha decelerato e dal finestrino sono partiti sei colpi in sequenza tutti indirizzati al portone al piano inferiore della casa. Hanno frantumato i vetri. Un proiettile inoltre è passato oltre gli infissi andando ad infrangere il vetro dell’auto della padrona di casa, una Seat Arosa, parcheggiata nel garage.Il tutto è accaduto in una manciata di secondi, la Punto grigia è infatti schizzata via a tutto gas e se ne sono perse le tracce, non si sa se qualcuno abbia preso in tutto o almeno in parte il numero di targa dell’auto.Sul posto i carabinieri della locale stazione hanno ascoltato numerosi testimoni e soprattutto Marco Frassanito e la moglie. Nella ridda di ipotesi al momento formulate dagli investigatori due le piste più battute, quella che condurrebbe all’avviata attività della vittima come anche quella che porterebe ad inimicizie personali.Nulla per ora è da escludere, la vittima ha dichiarato di non aver ricevuto minacce. Quello che si può di dire è che l’attentato è stato di sicuro un avvertimento. (14)

*Ha tutto il sapore di un’operazione a fini estorsivi, l’attentato subito la notte tra il 23 e 24 giugno 2008 a Racale da un’autotrasportatore. L’uomo è proprietario di un capannone in Contrada Martini alla periferia della città dove custodisce il materiale e i mezzi occorrenti all’azienda. Qualcuno però ha scavalcato il recinto e si è introdotto nell’area antistante il deposito. Ha forzato il portone d’ingresso e, una volta dentro lo stabile, ha dato fuoco ad un montacarichi utilizzando del liquido infiammabile.Alcuni residenti della zona hanno dato l’allarme. Sul posto sono intervenuti i militari della locale Stazione dei carabinieri e i vigili del fuoco di Gallipoli.Distrutto il montacarichi, sono rimaste annerite anche le pareti interne della struttura. I danni ammonterebbero a circa 30mila euro, di cui 20mila relativi al valore del mezzo meccanico. L’imprenditore avrebbe riferito di non aver ricevuto minacce negli ultimi tempi. (14)

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Usura e truffeA processo, il legale rappresentante di una finanziaria con l’accusa di aver prestato denaro con interessi usurai ad un imprenditore. Il 22 giugno 2008 il gup del Tribunale di Lecce, ha rinviato a giudizio Franco Peschiulli, di Taviano: se la restituzione del denaro dato in prestito fra il 1999 e il 2000 ad Attilio Serravezza, di Parabita, amministratore unico, all’epoca dei fatti, dell’azienda di trattamento e distribuzione di metalli ‘Cemis’ di Specchia Preite, sia avvenuta con tassi superiori a quelli previsti dalla legge, lo stabiliranno i giudici della seconda sezione penale a cominciare dall’udienza del 10 ottobre 2008.L’imputato deve rispondere delle accuse emerse nel corso delle indagini condotte dai finanzieri della Compagnia di Gallipoli che si sono avvalsi anche di una consulenza tecnica e dell’interrogatorio della vittima. Due gli episodi contestati: i 41 milioni e 450mila lire presi in prestito dall’imprenditore a settembre del 1999 dall’”Istituto finanziaria agricola” di Taviano e per la cui restituzione Peschiulli avrebbe applicato interessi del 182,81 per cento all’anno. L’altro episodio si riferisce al prestito di giugno del 2000: 18milioni 143mila lire che Serravezza avrebbe dovuto dare indietro con il 31,82 per cento di interesse. (34)

*Un finanziere in servizio a L’Aquila e un imprenditore arrestati per una truffa da quasi 100mila euro con i fondi erogati da Sviluppo Italia. Per l’accusa, avrebbero acquistato con fatture false l’attrezzatura per una palestra. In realtà i macchinari sarebbero stati pagati solo in una piccola parte. Il 30 giugno 2008 sono stati messi ai domiciliari, con un termine di 30 giorni, il militare delle Fiamme gialle Alessandro Perrone e Massimiliano Rella, entrambi leccesi. Il gip del Tribunale di Lecce ha motivato la necessità di applicare la custodia cautelare con il pericolo di inquinamento delle prove. Un pericolo concreto: il rappresentante di attrezzature sportive che con la denuncia diede il via alle indagini, il 4 aprile del 2008 venne picchiato a sangue sotto casa da un uomo armato di bastone che poi lo costrinse a leggere ed a rileggere più volte una frase scritta su un foglio e che diceva che sarebbe dovuto andare dalla Guardia di finanza a riferirire che tutto quello che aveva denunciato era falso e che la truffa l’aveva fatta lui con l’amministratore della società dalla quale era stata acquistata l’attrezzatura, la ‘Top Fitness’ di Moglia (in provincia di Mantova).Tanto perché il rappresentante aveva intuito la truffa: per ottenere un contributo a fondo perduto di poco meno di 38mila euro ed un prestito di quasi 84mila 700 euro da restituire in sette anni con un tasso dell’1,22 per cento annuo, la società ‘Performance sas’ di Rella (amministratore) e di Perrone (socio di fatto) avrebbe consegnato a Sviluppo Italia una fattura falsa di 106mila 746 euro. Falsa perché risulta emessa dalla ‘Top Fitness’ quando poi sia i riscontri sui documenti come gli interrogatori delle persone che hanno lavorato per quella società hanno dimostrato innanzitutto che non ci sarebbero stati rapporti commerciali con la ‘Performance

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sas’. Poi, che la fattura allegata è stata sì erogata, ma non dall’azienda leccese. Infine che la vendita non è stata effettuata, come dichiarato, dal rappresentante di attrezzature sportive – che è di Poggiardo – perché aveva già smesso di lavorare per l’azienda del Mantovano.Dal punto di vista documentale si tratta di una vicenda complessa perché macchinari della Top Fitness per circa 70mila euro arrivarono nel 2003 a Lecce, ma all’associazione sportiva ‘Performance Club Us Acli’ con sede in via Buccarelli gestita anche da Perrone e da Rella. Ma non sarebbero stati tutti pagati, tanto che l’allora presidente del sodalizio e il rivenditore hanno intentato delle cause civili: il primo perché le sue cambiali intanto sono andate protestate e l’altro per recuperare 48mila euro.E’ emerso dell’altro con le indagini condotte dal pm con i finanzieri della sezione di polizia giudiziaria distaccata in Tribunale: la ‘Performance’ non ha versato la prima rata del mutuo scaduta alla fine di marzo e nemmeno gli interessi di preammortamento. Inoltre non è stato possibile stabilire che fine abbiano fatto i macchinari dopo che la palestra è stata sfrattata dalla sede di via Moricino, al 6, perché non sono stati pagati i canoni d’affitto. (34)

*Truffa aggravata ai danni dello Stato con i finanziamenti della 488, condannata coppia di imprenditori. Il 30 giugno 2008 i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce hanno inferto quattro anni e mezzo di reclusione a Massimo Danese, di Matino, ex amministratore del calzaturificio di Ruffano ‘Star Project’. Un anno di reclusione (pena sospesa) per la moglie Maria De Felice, di Matino anche lei si alternò con il marito alla guida dell’azienda.Il processo è frutto dell’inchiesta condotta dai finanzieri della Compagnia di Gallipoli con il pm sulla domanda di finanziamento della ‘Star Project’ per l’acquisto di nuovi macchinari nonché per la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’azienda. Il furto e la vendettaAggrediti e umiliati dal boss, libero per decorrenza termini. Picchiati per ben due volte per lasciare segni in viso ben visibili a tutti. Una mascella ed un braccio fratturati per aver rubato lo stereo dall’auto del figlio della ‘tabaccara’, di una conoscente del boss che gestisce il bar ‘Lecce club’ di Presicce. E per giunta i ladri dovettero pagare 700 euro a titolo di risarcimento dell’affronto, 200 dei quali furono trattenuti dal boss a titolo (simbolico) di mancia. E furono costretti a far aggiustare lo sportello che avevano forzato per mettere le mani sull’autoradio. E visto che c’erano, nel conto si aggiunse anche il rifacimento della fiancata rimasta danneggiata in un vecchio incidente. Con tante scuse per l’errore madornale e la promessa che una prossima volta sarebbero stati un po’ più accorti alle conoscenze del proprietario delle macchine da scassinare.

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Vittime due ragazzi di 21 e 23 anni, di Presicce, ai quali non passò nemmeno per un attimo per la mente di andare a farsi medicare in ospedale o di rivolgersi alla forze dell’ordine. “Se denunciano non escono più di casa”, fu uno dei commenti captati dagli investigatori. Troppo il timore che Lucio Cera, originario di Taurisano e domiciliato a Presicce, potesse fargliela pagare ancora più cara. Cera è stato arrestato il 26 maggio 2008 dai carabinieri del Nucleo investigativo, insieme a Stella Tamborrini, di Presicce, con l’accusa di concorso in estorsione aggravata dalle modalità mafiose. Stessa contestazione al marito Antonio Morciano, per il quale pendeva la richiesta di arresto del pm della Dda ma che non era stata accolta dal gip, poi firmatario dell’ordinanza di custodia cautelare. Sette in tutti gli indagati, fra questi anche i due ladri di autoradio che rispondono di furto ed altri due giovani di Presicce accusati di spaccio di droga. E di questa ipotesi di reato rispondono anche i due coniugi gestori del bar.Il nome della Tamborrini è venuto fuori dalle intercettazioni telefoniche delle indagini sulle due bombe fatte esplodere in altrettanti cantieri edili di Presicce il 22 e il 28 agosto del 2005. Fra i sospettati vi era anche Cera (ma i sospetti non hanno trovato riscontri) tornato libero ad agosto del 2007 quando un difetto di notifica causò la scadenza dei termini di custodia cautelare per i cinque arrestati con l’accusa di aver fatto parte della banda guidata da Corrado Cucurachi che mise sotto estorsione i De Lorenzis incendiando il ristorante ‘La Perla dello jonio’ di Gallipoli e dannegiando bar e sale gioco fornite con i loro videogiochi. Conosciuto anche come boss per i trascorsi di affiliato al clan di Scarlino ‘Pippi calamita’, sarebe stato contattato dalla Tamborrini il 10 setembre 2007 per chiedergli di risolverle un problema: era stata rubata l’autoradio della Lancia Y del figlio, studente universitario. E Cera, grazie alle voci raccolte in un altro bar da una persona che aveva ricevuto l’incarico di portargli notizie, rintracciò i due ladri e li picchiò in modo talmente brutale da muovere a compassione persino la mandante. Il boss risolse tutto in poche ore, un paio di setimane dopo du arrestato nell’operazione ‘Rinascita’ contro il clan mafioso dei Tornese di Monteroni.Dopo questo bltz la Tamborrini avrebbe prestato assistenza alla famiglia di Cera ed i frequentatori del suo bar sarebbero stati contattati tramite lei dalla moglie di Cera per procurare i soldi da portare in carcere. E la donna si sarebbe rivolta al boss anche quando nei primi giorni di ottobre tre uomini si presentarono al suo bar per chiedere di scontare tre cambiali perché ‘dovevano pagare l’avvocato’. Cera promise che avrebbe risolto il problema anche perché lo scopo di quel modo di dire altro non avrebe mascherato se non un tentativo di estorsione. (14)

Sia Cera che la Tamborrini sono stati interrogati il 28 maggio in carcere. Lucio Cera ha negato di ver fatto ricorso al suo spessore criminale di appartenente alla Scu per risolvere un problema che avrebbe appreso una mattina dell’agosto 2005 nel bar della Tabaccara: si sarebbe poi limitato a restituirle l’autoradio senza estorcere denaro e senza picchiarli selvaggiamente.

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Come abiamo già scritto i fatti che sono costati l’arresto a Cera e alla Tamborrini sono frutto delle intercettazioni telefoniche acquisite dall’inchiesta dei carabinieri della Compagnia di Tricase. (14)

La droga e le armiArrestati i venditori di morte. In 34 sono finiti in carcere con l’accusa di aver venduto eroina. Anche quell’eroina che causò tre decessi per overdose in quattro mesi tra la fine del 2006 e gli inizi del 2007.L’indagine, culminata con la retata del 9 aprile 2008, fu avviata per risalire al venditore della droga che il 22 gennaio 2007 ammazzò a Sternatia Renè De Pascalis. Su questa overdose il pubblico ministero aprì un fascicolo contro ignoti per l’ipotesi “morte come conseguenza di altro reato” dove, per altro reato, si intende la detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Il punto di partenza per risalire all’organizzazione finita il 9 aprile in manette con l’accusa di essersi fornita di eroina, di averla nascosta e di averla venduta al dettaglio, è stata la rubrica del telefono cellulare di De Pascalis. Numeri di telefono che tanta importanza hanno rivestito in questa indagine. Tra i tanti anche quelli di due presunti spacciatori. Anche il diminutivo di Ornella Baldi, ‘Lella’, 37 anni, di Otranto. Le indagini svolte dai carabinieri del Nucleo operativo radiomobile (Norm) della Compagnia di Maglie hanno incluso pure Giuseppe Strummiello, 39 anni, di Palmariggi, fra i probabili fornitori di De Pascalis.Ma se per un verso è stato possibile dimostrare chi abbia venduto la dose mortale, dall’altro quei nomi e i loro numeri di cellulare hanno reso possibile individuare la rete di trafficanti e spacciatori che avrebbero esaudito le richieste dei consumatori di eroina dei paesi a sud di Maglie come Scorrano, Palmariggi, Minervino di Lecce, Uggiano La Chiesa, Casamassella, Giurdignano, Nociglia, San Cassiano, Botrugno, Poggiardo, Surano, Muro Leccese, Otranto, Diso ed Ortelle ma anche Miggiano, Ruffano, Supersano, Casarano e Matino.

*“Hide and seek” il nome dell’operazione del Norm di Maglie che altro non è che la traduzione inglese del gioco del nascondino, perché lo zoccolo duro dell’organizzazione nascondeva l’eroina nei muretti a secco nelle campagne tra Giuridignano e Palmariggi, in contrada Ciuddhi. I carabinieri hanno recuperato: tre involucri da 512 grammi, 105 grammi e 66 grammi nelle prime ore del 22 aprile 2007. Abbastanza da convincere il magistrato di trovarsi al cospetto di un gruppo ben organizzato.Il gruppo è finito in carcere con l’ordinanza di custodia cautelare a firma del giudice delle indagini preliminari che lo accusa di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione ai fini di spaccio aggravata dal concorso e dalla continuazione. In altre parole vuole dire che ci sarebbe stato un gruppo capace di

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comprare eroina all’ingrosso per poi distribuirla ai sottogruppi, ognuno dei quali avrebbe avuto clienti in uno o più paesi.Dello zoccolo duro avrebbero fatto parte: Giuseppe Strummiello, Andrea Fracasso, Francesco Amato, Salvatore Annesi, Ornella Baldi, Fabio Costa, Davide De Giuseppe, Giuseppe De Maglie, Giammarco Errico, Pasquale Fino, Etilvio Greco, Salvatore Guercio, Antonio Manisco, Graziano Mariano, Emanuela Martella, Luigi Rizzo, Alfredo Ruggeri, Vito Stasi, Antonietta Trazza e Paolo Vadrucci. Il gruppo avrebbe fatto riferimento a Strumiello, sorvegliato speciale di pubblica sicurezza, che per questo avrebbe dovuto condurre una vita morigerata, e personaggio di terza fila nell’operazione <<Medusa>> ma che ora avrebbe fatto un bel salto di qualità. A Strumiello e a Fracasso quando lasciò il carcere per prendere il ruolo di grossista. Ai vertici dell’organizzazione anche Mariano e De Giuseppe come fedeli collaboratori di Strummiello.La provenienza dell’eroina non è certa, dall’imballaggio (buste per alimenti e nastro da imballaggio) sembrerebbe arrivata via mare forse dall’Albania. Ma i servizi di osservazione e pedinamento dei carabinieri del Norm, nonché i telefoni messi sotto controllo, hanno accertato anche che Mariano e De Giuseppe avrebbero comprato a Lecce un chilo di eroina, pochi giorni prima dell’arresto, la sera del 17 aprile. Che il gruppo perseguisse lo scopo comune di fare affari con la vendita della droga è stato dimostrato anche dalla consuetudine di costituire una cassa comune, hanno spiegato nella conferenza stampa il magistrato e gli ufficiali dei carabinieri: Strummiello e Mariano avrebbero messo da parte 12mila euro, seimila, 15mila e 27mila dopo aver piazzato 200, 100, 250 e 450 grammi di eroina. Un’altra partita piazzata ad una decina di spacciatori in giro fra Giuridignano, Palmariggi, Minervino, Uggiano, Corigliano e Lecce avrebbe consentito guadagni di 250 mila e 50 mila euro.Eroina tagliata male o troppo pura? Le tre morti per overdose avvenute nel circondario di Maglie, Sono diventate il punto di partenza, come abbiamo già detto, dell’indagine ‘Nascondino’ sul gruppo che avrebbe preso le redini dello spaccio di eroina. Il primo episodio risale al 3 settembre del 2006 quando morì Alessandro Botrugno, 30 anni, di Muro Leccese: fu ritrovato disteso nella sua Audi A3 lungo la Melpignano-Cursi con accanto una siringa.La seconda morte per overdose avvenne di lì a poco: il 19 dicembre del 2006 perse la vita l’operaio Roberto Frisulli, 44 anni, di Minervino. Lo ritrovò a casa il suo datore di lavoro, preoccupato dell’assenza. Sulle prime si pensò ad un malore o qualcosa di peggio perché la porta di casa ed il cancello erano rimasti aperti. Ma le analisi cliniche stabilirono in seguito che la morte era stata causata dall’assunzione di eroina.Trascorso poco più di un mese ed arrivò la terza vittima: Renè De Pascalis, di Sternatia, morì con una siringa nell’addome nella sua Fiat Tipo. L’auto fu ritrovata vicino ad una masseria tra Sternatia e Galugnano. I carabinieri del Nur della Compagnia di Maglie sequestrarono quattro siringhe, tre grammi di eroina ed un grammo di sostanza da taglio. La consulenza stabilì che la droga era un miscuglio composto da due grammi e mezzo di cocaina ed uno di eroina. E che la cocaina era

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stata tagliata per oltre il 50 per cento con la Fenacetina, ossia un analgesico ed antipiretico. L’eroina non era stata trattata meglio: la sostanza pura risultò essere pari solo al 13 per cento, il resto era caffeina.E’ convinto il coordinatore della Procura antimafia di Lecce, Cataldo Motta, che il gruppo di Giuseppe Strummiello e Andrea Fracasso non ha alcuna sudditanza alla criminalità organizzata ma si sarebbe mosso autonomamente. Ma per una sorta di riverenza verso il clan Tornese di Monteroni, Strummiello avrebbe dato la disponibilità a far arrivare della droga in carcere per Pierluigi Manisco, detenuto con l’operazione ‘Rinascita’ dei carabinieri del Ros. Il tramite per fornirgli le dosi di eroina sarebbe stato il fratello Antonio, che per questo è stato arrestato nella retata del 9 aprile con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti in concorso con Strumminiello, Graziano, Mariano e Davide De Giuseppe.Non se ne fece nulla, nel senso che l’eroina non arrivò a Borgo San Nicola perché le pattuglie messe in giro dai carabinieri avrebbero impedito che ad Antonio Manisco venisse consegnata la droga. (23)

*Dopo tante segnalazioni che denunciavano un continuo via vai di tossici, il 18 aprile 2008 è scattata l’operazione dei Baschi verdi del nucleo di polizia tributaria di Lecce. Hanno fatto irruzione nelle palazzine di via Archita da Taranto, quartiere popolare di Monteroni.La perquisizione ha rivelato un vero e proprio droga-shop allestito tra le mura domestiche. In due abitazioni è stata scovata una centrale, tutta familiare, dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare eroina e cocaina.Massimiliano Martena e la cugina Sara Caputo nei rispettivi condomini, al primo e terzo piano della stessa palazzina, avevano allestito un punto vendita. Aperto a tutte le ore. Di giorno e di notte.Per difendersi da eventuali controlli si erano muniti di una potente telecamera, piazzata sul balcone della casa al terzo piano, nascosta dietro un cassettino di legno e collegata ad un monitor sistemato nella cucina. (23)

*Storie di droga: l’operazione <<Medusa>>, a meno di un anno arriva la sentenzaAll’alba del 18 luglio 2007 scattò il blitz <<Medusa>>, i carabinieri arrestarono 14 persone accusate di aver organizzato il traffico di eroina grazie alle partite all’ingrosso fatte arrivare dagli albanesi.Il 21 aprile 2008, settantatrè anni di carcere sono stati inflitti a nove degli undici imputati dell’operazione sul traffico di eroina fra il centro e il Sud Salento negli anni 2004 e 2005. Il giudice dell’udienza preliminare ha assolto Fernando Guarini di

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Castro, mentre non si è pronunciato su Filippo Cassano di Spongano, perché deceduto.L’impianto accusatorio emerso dalle indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri ha retto tanto che ha indotto il pubblico ministero della Dda a chiedere complessivamente 126 anni di carcere per gli undici imputati.La condanna più alta è stata inflitta a Nunzio Guarini di Castro, che oltre all’accusa di associazione finalizzata al traffico di droga rispondeva pure di possesso di materiale esplosivo (in altra operazione i carabinieri della Compagnia di Tricase gli sequestrarono 27 chili di tritolo): dieci anni.Otto anni e otto mesi sono stati inflitti a: Andrea Fracasso di Scorrano; Antonio Capoccia di Martano; Piero Capoccia di Lecce, originario di Melendugno; l’albanese Shpetim Cakrani; l’albanese Argent Arapi. Otto anni ha preso Giuseppe Strummiello di Palmariggi, arrestato dai carabinieri della Compagnia di Maglie nell’operazione ‘Nascondino’ contro un’organizzazione dedita al traffico di eroina. Sette anni sono stati inflitti all’albanese Enjgellushe Arapi. E sei a Rocco Mestria di Ruffano. Per tutti è stata esclusa l’aggravnte del ruolo di promotore e di organizzatore. (29)

*Non solo droga ma anche armi. Grazie ad un controllo del “Nucleo antisofisticazioni e sanità” fatto a Castrignano dei Greci, sono stati scoperti in un bar, in un sacco di plastica, tre chili e mezzo di marijuana. Scoperto quindi, il 15 maggio 2008, un centro di stoccaggio della droga consumata in gran parte dai ragazzi. Dai fumatori di ‘canne’. Arrestato il titolare del bar ‘Berimbau’ di Largo Pozzelle: i carabinieri della Stazione di Martano hanno condotto in carcere Rocco Tanieli, con l’accusa di detenzione, ai fini di spaccio, di sostanze stupefacenti aggravata dall’ingente quantitativo.Dopo la perquisizione del bar, a casa è stata trovata altra marijuana e soprattutto un arsenale da guerra parte del quale detenuto legalmente. Quanto all’“erba” in casa ne aveva altri 13,2 grammi, quanto alle armi sequestrate per aver superato il numero massimo consentito sono le seguenti: tre fucili calibro 12, ossia una doppietta, un sovrapposto ed un semiautomatico. Una pistola Weihrauch calibro 357 magnum, una balestra ‘Panzer’ con due frecce, quattro sciabole, quattro machete da collezione, tre coltelli tipo machete e 1.347 munizioni di vari tipo e calibro. Per questo arsenale Tanieli è stato denunciato per detenzione illegale di armi bianche e munizionamento.Tutto questo è stato scoperto grazie ai controlli che i carabinieri del Nas stavano svolgendo nei paesi fra Lecce e Maglie. Il loro compito è controllare lo stato di conservazione degli alimenti, le date di scadenza, nonché le condizioni igieniche del locale, dei luoghi e dei contenitori in cui sono stipati gli alimenti. E questo era il loro compito anche per il bar ‘Berimbau’, ma che ci fosse qualcosa di poco lecito i carabinieri lo hanno capito quando Tanieli avrebbe letteralmente satrappato dalle mani del maresciallo del Nas il sacco che conteneva la marijuana. (29)

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*I carabinieri del Nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Lecce, il 21 maggio 2008, hanno tratto in arresto Giuseppe Pallara, di Lecce, mentre il figlio Rosario è stato denunciato. Se il padre o il figlio abbiano pensato che gli investigatori difficilmente avrebbero controllato la busta del pane, non avevano fatto i conti con le molliche rimaste sulla dose di cocaina venduta il pomeriggio del 20 maggio ad un consumatore. Appena uscito dalla casa di piazzale Genova dei Pallara il consumatore è stato fermato e controllato: ed ai carabinieri non è sfuggito che sulla dose ci fossero delle molliche. Di qui la scoperta che lo smercio avveniva tramite un panino imbottito.Con questo indizio sono andati diritti in cucina a cercare il ripostiglio del pane e così i carabinieri hanno sequestrato una rosetta imbottita da ben sette dosi cocaina, come se fossero sott’aceti a corredo di qualche fetta di provola e mortadella. Sentito il parere del pubblico ministero di turno il padre è stato arrestato mentre per il figlio è scattata la denuncia perché era stato visto contattare il consumatore. (29)

*Oltre un quintale e mezzo di marijuana e un kalashnikov con quasi duecento proiettili: è quanto hanno trovato in località Frassanito, ad Otranto, i carabinieri della Compagnia di Maglie. Il tutto nascosto sotto la fitta vegetazione di quel tratto di costa. Un ritrovamento che desta sicuramente preoccupazione nelle forze dell’ordine, che dovranno ora cercare di capire chi sia arrivato a bordo di quel gommone.Tutto parte nella tarda mattinata del 28 giugno 2008 co il ritrovamento di un’imbarcazione abbandonata a dieci metri di distanza dal bagnasciuga. I militari della motovedetta ‘Arena’, coadiuvati dai colleghi della Stazione di Otranto, hanno constatato che si trattava di un natante semiaffondato di marca Marshall, lungo 3 metri e 80, munito di due motori fuori bordo, vuoto. I militari hanno creduto, giustamente, che ci fosse sotto qualcosa di più grosso. Immediatamente è partita la perlustrazione della zona circostante. La fitta vegetazione che avvolge la località Frassanito è il luogo ideale per nascondere ciò che non si vuole venga trovato. Infatti, i militari hanno trovato due borsoni contenenti 157 chili di marijuana, divisi in 139 confezioni, un fucile mitragliatore kalshnukov, di fabbricazione cinese, con il relativo caricatore contenente trente proiettili, nonché altre 166 munizioni, tutte calibro 7,62x39; accanto a questo materiale anche degli indumenti bagnati e abbandonati alla rinfusa, presumibilmente indossati dai malviventi per sbarcare. Si tratta di oggetti che potranno dire molto sulla loro provenienza. Impossibile pensare che a portare e abandonare tutto quel materiale sia stata una sola persona.Il gommone recuperato e il materiale ritrovato è stato posto sotto sequestro per le successive indagini, che mirano a scoiprire chi abbia utilizzato l’imbarcazione e per quale motivo abbia abbandonato improvvisamente il suo pericoloso carico. (29)

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*Dall’arresto dei latitanti a quello dei loro presunti fiancheggiatori. Le intercettazioni telefoniche, le microspie piazzate nelle auto e i pedinamenti fatti nel 2006 dai carabinieri del Nucleo investigativo per rintracciare prima Tommaso Montedoro e poi Augustino Potenza hanno consentito di scoprire anche i traffici di droga nelle zone di Casarano, Racale e Matino. Traffici di droga ma anche di auto rubate i cui proventi sarebbero serviti per finanziare le latitanze dei due boss.A capo di questa organizzazione ci sarebbe stato Domenico Autunno, di Matino, l’uomo indicato dai collaboratori di giustizia Pantaleo Remo e Silvano Galati come vicino a Montedoro, tant’è che quest’ultimo fu arrestato la sera del 22 febbraio del 2006 dopo essere stato visto scendere dalla sua auto. Autunno avrebbe gestito i traffici di droga con Giorgio Manco, di Casarano, e con il marocchino di Parabita Mohamed Es Sabbar, soprannominato ‘Simo’. E si sarebbe messo in affari per piazzare droga ed auto rubate anche Roberto Giancane, di Monteroni, conosciuto con il soprannome di ‘Nocciolina’, ma anche per essere scampato ad un agguato, a colpi di arma da fuoco, la mattina del 20 maggio del 2002 davanti alla rivendita di frutta del suo paese e per essere stato condannato per favoreggiamento nel processo per il suo tentato omicidio (nel gruppo di fuoco c’era anche Silvano Galati che si pentì dopo l’arresto dell’ottobre 2005).Il 30 giugno 2008 Autunno, Manco, Es Sabar e Giancane sono stati arrestati dai carabinieri del Nucleo investigativo in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare del gip. La richiesta di arresto porta la firma del sostituto procuratore della Dda di Lecce che contesta ad Autunno, Manco ed Es Sabar l’ipotesi di reato di associazione finalizzata al traffico di hashish, cocaina e marijuana. Il capo e promotore dei traffici di droga all’occorrenza non avrebbe disdegnato nemmeno di vendere la droga al dettaglio perché risponde anche di tre episodi di spaccio e di un quarto che è poi più consistente: una cessione a Giancane per un importo di 28 mila euro. In questi affari fra il Basso Salento e Monteroni ci sarebbero entrati anche auto e moto. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che Autunno si sarebe adoperato per trovare acquirenti, lo scooter glielo avrebbe procurato Giancane.L’obiettivo di questi affari, hanno spiegato nella conferenza stampa il procuratore aggiunto e il capo della Dda, il colonnello ed il capitano dei Carabinieri, era fornire denaro ai due latitanti: Montedoro aveva con sé 30 mila euro quando fu arrestato a bordo di una Volkswagen Golf truccata in modo da far cadere dell’olio sul tubo di scappamento e lasciarsi dietro così una nuvola di fumo in caso di inseguimento. E 100mila euro e due chili di cocaina furono sequestrati nel blitz del 23 ottobre del 2006 che mise fine alla latitanza di Pitenza. (29) Stridore di armiQuattro colpi di pistola contro l’auto di famiglia dei fratelli Emanuele e Massimiliano Zilli, hanno interrotto a Lecce un lungo periodo in cui le armi sono restate a tacere.

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Atti intimidatori ce ne sono stati sì, ma con l’uso del fuoco e degli esplosivi. Per risalire all’ultima scarica di proiettili forse bisogna arrivare all’estate del 2004.Quello che ai poliziotti della Squadra Mobile e delle Volanti è sembrato un atto intimidatorio dovrebbe essere avvenuto tra mezzanotte e mezzanotte e mezza del 9 aprile 2008. A dare l’allarme il proprietario della Corsa, il meccanico Angelo Zilli, preoccupato dai colpi di arma da fuoco sentiti quando ormai erano tutti a letto. Le esplosioni sarebbero state udite chiaramente perché l’auto era parcheggiata accanto alla sua casa di via Ortigara, una traversa di via Leuca del rione Castromediano.Le ogive recuperate sono state tre e, sia dalla loro consistenza, che dal diametro dei fori è stato possibile stabilire che a sparare sia stata una pistola calibro 38. Resta il fatto che un foro è stato fatto esattamente sull’angolo in basso a sinistra del parabrezza: ad altezza uomo. Nell’ipotesi che ci fosse stato qualcuno alla guida sarebbe stato centrato al petto. Come non avrebbe avuto scampo dalla pistolettata esplosa sotto alla serratura dello sportello anteriore sinistro. Che poi potrebbe essere proprio questo il messaggio lasciato, ritengono gli investigatori.Ma a chi? Sembra che sia stato del tutto escluso che il destinatario fosse il meccanico Angelo Zilli visto che si tratta di una persona che ha mantenuto sempre una condotta irreprensibile. Qualche sospetto si è orientato invece verso i figli Emanuele e Massimiliano, non fosse altro perché nel passato sono stati arrestati e processati per droga. Emanuele il 21 settembre del 2005 con 100 grammi di cocaina nascosti in una confezione di purè, Massimiliano il 13 settembre del 2004 nell’operazione ‘Carioca’ sul traffico di droga gestito dal Brasile tramite le e-mail e le telefonate dall’allora boss latitante Fabio Franco. Massimiliano Zilli inoltre a novembre sempre del 2004 fu arrestato per la rapina del 31 agosto in una banca di Melendugno nella quale impiegò la Opel Corsa della madre.I colpi di pistola sembrano non c’entrare nulla con i trascorsi dei giovani Zilli. Tuttavia la polizia sta cercando di tenere sotto controllo lo spaccio di droga in città ed in questo ambito sta anche cercando di chiarire a chi fossero destinati i due chili ed ottocento grammi di cocaina sequestrati a Bolzano e costati l’arresto a Ivan Firenze. (23) Stefano Zimari di Monteroni di Lecce, personaggio già ben conosciuto alle forze dell’ordine per vecchi precedenti penali, la sera dell’ 11 giugno 2008 è giunto presso il pronto soccorso di Copertino in un lago di sangue, a causa di una ferita giustificata dallo stesso come una conseguenza dovuta ad una semplice caduta nel centro abitato del paese. Una spiegazione che non aveva convinto non solo il personale sanitario ma neanche le forze dell’ordine. Così gli investigatori hanno interrogato a lungo il ferito, mettendolo alle strette, fino a quando la mattina del giorno successivo, cioè il 12 giugno, ha ammesso di essere stato accoltellato da uno sconosciuto – almeno questa la sue versione.

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Tutto è stato affidato alle indagini che sono nelle mani dei carabinieri di Monteroni che hanno già provveduto ad effettuare i dovuti accertamenti e avviato gli interrogatori nella speranze di identificare l’autore dell’aggressione. (23)

Misteriosa aggressioneE’ giallo su un giovane di San Pietro Vernotico picchiato a sangue a Squinzano e finito in ospedale a Brindisi con una mandibola fratturata. Giuseppe M. ha raccontato alla polizia di essere stata aggredito, la sera del 17 giugno 2008, da un gruppo di giovani a causa di una mancata precedenza mentre era alla guida della sua auto. Ma il racconto non avrebbe convinto gli uomini della Squadra mobile di Brindisi, che ora stanno indagando sul caso. E qui si apre un piccolo giallo su chi poassa aver ridotto in quello stato il giovane sampietrano in trasferta nel paese vicino. E soprattutto perché. (32)

Delitti della SCU in OlandaIl pentito Filippo Cerfeda non è considerato credibile dai giudici olandesi. Non è credibile perché le accuse non hanno trovato riscontro. Con questa motivazione il 21 aprile 2008 i giudici della Corte suprema di Arnhem hanno assolto nel processo di appello Aldo Giannotta, originario di Acquarica del Capo, dall’accusa di essere stato il mandante del duplice omicidio dei brasiliani ammazzati la sera del 21 febbraio del 2002 ad Utrecht. In primo grado l’imprenditore salentino trasferitosi ad Amsterdam, dove aveva avviato un ristorante ed un negozio di specialità alimentari, era stato condannato all’ergastolo perché indicato come colui che avrebbe pianificato di uccidere Roberto De Avila Garrido e Josè Paulo Davi, allo scopo di mettere le mani su 20 chili di cocaina che avrebbe dovuto consegnare agli uomini del clan Cerfeda, Adriano Palazzo e Tiziano Greco in cambio del corrispettivo in denaro.Nel processo d’appello, quindi, non sono state individuate prove per dimostrare che fu Giannotta ad ordinare di non pagare i corrieri e di ammazzarli. I giudici della Corte suprema di Armhem hanno cercato riscontri anche in Italia nei tre giorni in cui il 2007 il processo si è trasferito nell’aula bunker del carcere di Borgo San Nicola di Lecce con la presenza del giudice delle indagini preliminari per quanto prevede la formula della rogatoria internazionale. L’unico a fare il nome di Giannotta fu Andrea Pagliara, di Lecce, ma solo per sentito dire e non per averlo appreso direttamente: ad indicargli come mandante l’imprenditore salentino ancora una volta Cerfeda. Tiziano Greco si avvalse della facoltà di non rispondere in quanto imputato di reato connesso e le dichiarazioni rese da Adriano Palazzo sembra non trovarono corrispondenza con quelle di Cerfeda.Riscontri tanto meno sono stati trovati in Olanda. Giannotta è stato, quindi, assolto dall’accusa che gli era costato il carcere a vita ma è stato condannato a sette anni di reclusione per aver organizzato il traffico di cocaina dal Brasile all’Italia attraverso l’Olanda. Le dichiarazioni di Cerfeda in questo caso sono state giudicate credibili quando ha raccontato di aver intensificato i rapporti d’affari con il ristoratore italiano che forniva cocaina a tutti quelli che la vendevano a Lecce. Arrestato il 3 febbraio del

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2004, Giannotta è rimasto interrottamente in carcere ed avendo già scontato quattro anni tornerà libero nel maggio 2008.La vicenda non è però definitivamente chiusa, Perché è legittimo prevedere che di questo caso si tornerà a parlare nella Corte di Cassazione di Amsterdam.Il problema resta l’attendibilità di Cerfeda. Nel giro di un paio di mesi per due volte le sue accuse sono state disattese. Anche le dichiarazioni autoaccusatorie: a dicembre 2007 la Procura di Amsterdam ha archiviato la parte dell’inchiesta che lo ha visto indagato come autore del duplice omicidio di due slavi ammazzati nel locale notturno ‘The News’ della capitale il 26 settembre del 2002. Cerfeda raccontò di essere stato lui a sparare i colpi di pistola e le raffiche di kalashnikov che, inoltre, ferirono un uomo ed una donna. Ma dalle indagini non sono emerse prove evidenti che il killer fosse lui: la polizia interrogò 30 persone presenti quella notte nel locale e nessuno riconobbe il volto e le fattezze fisiche dell’allora boss della Scu. Per gli inquirenti si trattò di una messa in scena per favorire un paio di amici.Inattendibile in Olanda, quindi, ma attendibile in Italia dove le sue memorie scritte su dei foglietti di carta consegnati agli inquirenti, appena nell’estate del 2003 si pentì, sono state la base di partenza di quelle che sono poi diventate le dichiarazioni che hanno contribuito ad una ventina di ergastoli inflitti negli ultimi processi mafia. E ciò che in Olanda è stato considerato privo di riscontro sarà utilizzato dalla Corte d’Assise del Tribunale di Lecce che giudicherà Adriano Palazzo e Tiziano greco nelle vesti di esecutori materiali del duplice omicidio dei due brasiliani. (23)

Il boss della droga, Giuseppe Lezzi<<Sono pronto ad accompagnare la polizia nel bosco di Bolstain>>. Il bosco dove fu seppellito Giuseppe Lezzi, il boss della droga ucciso in Olanda alla fine del 2001 dagli emergenti della Scu. A fare questa dichiarazione è stato Aldo Giannotta in un’intervista pubblicata nella prima decade di aprile 2008 dal quotidiano olandese “De Telegraaf”. Alla giornalista che lo raggiunse in carcere l’originario di Acquarica del Capo raccontò delle sue personali opinioni sulla scelta di Filippo Cerfeda di affibbiarsi anche i due omicidi del locale notturno ‘The News’ (<<credo che abbia tentato ottenere un programma di protezione anche alla donna a cui si legò in Olanda facendola credere in pericolo>>), ma parlò anche della parte dell’esecuzione di Lezzi di cui non si è fatta abbastanza chiarezza: il corpo non è stato mai ritrovato.Nel processo in corso nella Corte d’Assise di Lecce sono imputati per questo omicidio: Andrea Pagliara di Lecce, Orlando Perrone di Surbo e Ivan Vitale di Surbo. Ma anche i pentiti Fabio Franco di Surbo e Filippo Cerfeda di Lecce. Secondo quanto ha riferito quest’ultimo, il corpo di Lezzi fu portato via dalla sua casa di Amsterdam da Franco, Vitale e Perrone per seppellirlo in un terreno sabbioso di fronte al bosco di Bolstain. Franco successivamente non sarebbe stato in grado di ritrovare il punto esatto, ma quando militava ancora nelle fila della Scu lo avrebbe mostrato a Giannotta: <<Una sera mi portò a Bolstain per indicarmi dove avevano seppellito il corpo di Lezzi >>, ha riferito nell’intervista a “De Telegraaf”. (23)

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La banda della 166Nelle prime ore del 23 aprile 2008 i poliziotti della sezione “reati contro il patrimonio” della Squadra mobile di Lecce hanno arrestato con i colleghi di Brindisi: Luciano Liuzzi, originario di Brindisi ma residente a Squinzano. In manette pure il fratello Francesco, residente a Brindisi. Carcere pure per Vito Sicilia, di Brindisi. Per loro l’accusa di concorso in furto aggravato e ricettazione. In carcere è finito anche il padre dei Liuzzi, Giuseppe, residente a San Vito dei Normanni, perché sotto il tetto della sua masseria aveva nascosto un fucile a canne sovrapposte calibro 12 rubato otto anni prima in una masseria di Brindisi: risponde di detenzione di arma da fuoco.Sono i componenti della “banda della 166”, gli specialisti del furto che non hanno mai avuto remore nel mostrare le armi se qualcuno cercava di fermarli. Dopo anni di scorribande notturne e speronamenti con le forze dell’ordine, ma anche furti e rapine a ripetizione di auto e pure in negozi e tabaccherie. Gli incappucciati dell’Alfa Romeo 166 3,2 V6.Nella notte tra il 22 e il 23 aprile avevano rubato una Ford Fiesta a Cavallino ed un furgone a Monteroni. Il passamontagna non se lo sono tolti nemmeno per fare il pieno di benzina, consapevoli della presenza delle telecamere a circuito chiuso. Come nascondiglio hanno impiegato anche la masseria del boss della Scu brindisina Salvatore Buccarella. Il che lascia intuire lo spessore di questo gruppo criminale a valle fra le province di Brindisi e Lecce.Sono andati a colpo sicuro come se avessero pianificato tutto: dagli obiettivi alle difficoltà da superare e alle strade da seguire. Non avevano messo in conto, però, che questa volta erano seguiti. Dopo la sosta a Tuturano per nascondere il furgone nel pagliaio della masseria di Salvatore Buccarella (il padre Giovanni, 81 anni, è stato denunciato per ricettazione), hanno proseguito per San Vito. Della spedizione dovrebbe aver fato parte anche un quarto uomo, quello che si è messo alla guida della Fiesta rubata a Cavallino.Luciano Liuzzi e Vito Sicilia davanti al giudice delle indagini preliminari hanno ammesso i furti,escludendo di far parte della famigerata banda della ‘166’. E Giuseppe Liuzzi non ha avuto alcuna difficoltà a riconoscere di aver nascosto sotto il letto della sua masseria un fucile calibro 12, rubato. Di tutt’altro tenore, invece, le dichiarazioni rese da Francesco Liuzzi: lui non c’entrerebe nulla né con la banda delle ‘166’ e neanche coni furti del furgone e della Ford Fiesta rubati a Cavallino e a Monteroni. Si sarebbe limitato ad andare a prendere il fratello Luciano e Sicilia senza sapere cosa avessero fatto e da dove stessero arrivando. (23) Il pedinamento elettronico. Un sistema che ha segnalato gli spostamenti dell’Alfa Romeo 166 della banda dedita ai furti notturni. Eppure i malviventi qualcosa l’avevano sospettata se la 166 è stata smontata pezzo dopo pezzo per cercare una ‘cimice’ o qualsiasi altro segnalatore dei loro dialoghi o dei loro spostamenti. Evidentemente il tecnico della polizia sarà stato tanto scaltro da prevedere qualche controllo.

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La tecnologia ha trovato riscontro nei fatti. (23) La fabbrica dei falsariUna zecca clandestina in piena regola messa in piedi nel giro di un mese nella zona industriale di Melissano e all’interno della quale sono stati scoperti diversi milioni di euro. Rigorosamente falsi. Circa centosessantamila banconote da 50 euro, ancora da rifinire in alcuni particolari, ma di ottima fattura. Solo che i falsari non hanno avuto il tempo di immetterle nel mercato o di consegnarle a chi, magari, gliele aveva commissionate. I carabinieri della Compagnia di Casarano unitamente ai colleghi del Nucleo antifalsificazione monetaria di Roma (Noam) hanno sgominato la banda appena nata. Cinque gli arresti in flagranza di reato con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla falsificazione di moneta europea avente corso legale: si tratta di Giovanni Gianfreda, imprenditore di Melissano; Giancarlo Camponeschi, di Roma, tecnico tipografo con precedenti per reati specifici; Rosario Fioretti, di Carmiano (originario di Brindisi) ex ristoratore; Alberto Alfieri e Luca Manganaro, entrambi di San Cesario, quest’ultimo sarebbe stato coinvolto per la sua esperienza in campo tipografico.Il blitz compiuto il 7 maggio 2008 è il primo risultato di un’indagine del Noam di Roma coordinata dalla Procura capitolina su un giro di realizzazione e spendita di denaro falso che avrebbe confini più ampi. La stamperia della falsificazione era stata collocata all’interno di un capannone in passato adibito in oleificio di proprietà della società Gim srl di Melissano e poi ceduto in affitto alla Sud Graf, ditta che faceva capo a Gianfreda, con regolare contratto registrato (l’amministratore della Gim Francesco Montagna tiene a precisare la sua totale estraneità ai fatti) il 12 aprile 2008. Tra l’altro, l’imprenditore melissanese era già titolare dell’omonimo etichettificio sempre ubicato nella zona pip. Quando i militari hanno fatto irruzione nei locali la scena apparsa sembrava tratta da un film: macchinari e matrici in funzione, bancali banconote impresse su fogli A4, parte di esse pare riposte ad essicare e cinque persone con il capo chino sul loro lavoro. Le banconote erano ben fatte anche se mancavano ancora alcuni particolari per perfezionarle e renderle ancora più simili a quelle vere. Altri passaggi per imprimere l’oleogramma argentato posto in basso sul bordo destro della facciata frontale. (23)

Che non si tratti di un gruppo di presunti falsari che avrebbe agito in autonomia lo prova l’arrivo in Salento dei carabinieri del Ris di Roma per fare dei prelievi dell’inchiostro e della carta, nonché per fotografare, fin nei minimi dettagli, il disegno del lucido della stampa e delle banconote da 50 euro prodotte nello stabilimento Sud Graf di Melissano e che, secondo gli ultimi conteggi, ammonterebbero a circa 15 milioni di euro. L’intervento degli specialisti di rilievo serve ai carabinieri del Noam di Roma per raccogliere elementi e metterli a confronto con quelli analoghi di altre stamperie clandestine dove nei mesi scorsi sono state sequestrate banconote false.La regia dovrebbe essere unica, tant’è che l’indagine la conduce a livello nazionale la Procura di Napoli. L’intervento dei carabinieri sarebbe frutto di una segnalazione sollecitata dalla Banca centrale europea ed è stato promosso il blitz con urgenza dal

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Noam perché i 15 milioni di euro da lì a poco avrebbero lasciato Melissano per andare a finire nella rete tessuta dall’organizzazione per inserirli nel circuito economico-finanziario senza dare troppo nell’occhio. Mancava l’ultimo passaggio come abbiamo detto, per imprimere l’oleogramma argentato ed il taglio dei fogli A4 su cui erano stampate le banconote. Poi i soldi sarebbero stati messi in circolazione.Le banconote erano state impacchettate, l’arrivo dei carabinieri della Compagnia di Casarano e della Stazione di Melissano ha impedito che in Italia ed in Europa entrassero in circolazione tutti quei biglietti. Nel Sud Graf c’era anche il lucido della stampa che, secondo gli esperti è di ottima fattura. Come di livello eccelso sarebbe la mano e l’occhio di Giancarlo Camponeschi, il tipografo che ha riferito di trovarsi a Melissano solo per riparare la macchina stampatrice. Gli inquirenti, invece, lo ritengono una delle pedine di peso dell’organizzazione impiantata nel Salento insieme a Giovanni Gianfreda, come abbiamo visto, ex titolare di un’azienda di etichette, ceduta ad alcuni parenti. Ha creato quindi la Sud Graf e visto che in quei capannoni sono state trovate solo banconote false, è sospettrato di aver chiuso la precedente baracca per darsi a guadagni ben più redditizi. (23)

Rapina a mano armataLa sentenza emessa il 15 maggio 2008 dal giudice per l’udienza preliminare ha propinato dodici anni a testa ai due leccesi, Patrick Chironi ed Etrusco Ferri, che durante la rapina del 6 dicembre 2006 all’Eurospin di via Presta, avrebbero cercato di ammazzare il titolare Fabio Longo di Cellino San Marco, in provincia di Brindisi.I dodici anni tengono conto dello sconto di un terzo della pena del rito abbreviato (sarebbero stati 18 in un processo con rito ordinario) e sono relativi all’ipotesi di reato di tentato omicidio e di rapina. Le accuse emerse dalle indagini, svolte ndai poliziotti della Squadra mobile attraverso l’ascolto della vittima, dei testimoni, a visione dei filmati delle telecamere a circuito chiuso ed una perizia balistica, indicano in Chironi come colui che avrebbe cercato di ammazzare il titolare del supermercato. Longo fu afferrato e strattonato dopo avergli tolto il portafoglio con 300 euro ed aver svuotato di 800 euro le casse. Convinti forse di potere racimolare ben altro bottino ma anche timorosi di una reazione del titolare, prima lo colpirono alla testa con il calcio della pistola e poi Chironi gli avrebbe sparato un colpo che si andò a conficcarsi nel pavimento a pochi centimetri dal bersaglio. Ma non finì lì: sempre Chironi avrebbe puntato senza mezzi termini la canna dell’arma contro Longo. Il dito indice si contrasse ma non successe nulla. Nessuna esplosione. L’arma si era inceppata, un cantrattempo che salvò la vita al commerciante se si tiene conto dell’imputazione.Solo Chironi fu arrestato in flagranza dopo essere stato bloccato e gonfiato di botte da Longo. (23)

Il blitz “Arpia” contro i clan mafiosiCon gli ultimi due ergastoli, il 22 maggio 2008, si sono chiusi i processi di primo grado nati dal blitz ‘Arpia’ contro i componenti dei clan mafiosi di Surbo-Squinzano e Lecce-Campi Salentina. La Corte d’Assise ha condannato al carcere a vita Andrea

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De Santis e Valerio Paladini, di Surbo. A tre anni in continuazione con l’ergastolo rimediato nel primo processo Arpia è stato condannato Antonio Tafuro di Surbo. Quattro anni, che in continuazione con altra condanna diventano 20, per l’ex boss del clan di Surbo, diventato poi collaboratore di giustizia, Giuseppe Vincenti. Assolto Agostino Pati di Campi, originario di Squinzano.Nel processo si è tornato a parlare dei duplici omicidi di Giancarlo Fantastico e Cosimo Conversano avvenuto la sera del 5 maggio del 1999 nell’ex ristorante Duca D’Este di Squinzano, nonché di Fabrice Negro ed Antonio Della Bona del 13 marzo del 2001 in un bar di Surbo. Se n’è tornato a parlare per accertare le accuse fatte dai collaboratori di giustizia Giuseppe Vincenti e Giancarlo Mazzei nel primo processo Arpia.De Santis è stato condannato al carcere a vita perché ritenuto l’esecutore materiale del duplice omicidio nel Duca D’Este dove sarebbe giunto con Vincenzo Posa per interrompere a colpi di Kalashnikov e di pistola 357 magnum un summit degli uomini del clan avverso di Lecce-Campi guidato allora da Dario Toma: ammazzarano Fantastico e Conversano, mentre restarono feriti Giuseppe Ricciardi, Ivan Cipponi ed Ezio Immorlano. In questo contesto Pati era accusato di aver indicato al commando la presenza degli uomini di Toma, ma, come detto, è stato assolto.Paladini invece avrebbe fatto parte del commando composto anche da Vincenzo Presta e Mario Martella (per i quali si è proceduto separatamente) che uccise Negro e Della Bona a colpi di kalashnikov e di pistola calibro 7,65: Negro perché componente del clan di Toma (passato anche lui in seguito fra i collaboratori di giustizia), Della Bona nella guerra di mafia non c’entrava nulla ma ebbe la sfortuna di trovarsi nella traiettoria delle pallottole. (23)

Otto anni per un tentativo di omicidio consumato quando autore e vittima erano dei boss. Quando nella prima metà del 2000 Fabio Franco era il braccio destro di Filippo Cerfeda nel clan mafioso di Lecce e Campi Salentina. E Giuseppe Vincenti era al vertice della Scu di Surbo. Da qualche tempo sia l’uno che l’altro sono passati nelle file dei collaboratori di giustizia.Nel processo con rito abbreviato del 24 giugno 2008 davanti al gup di Lecce Franco se l’è cavata con otto anni. Franco provò ad ammazzare Vincenti non certo per la guerra in ato fra i clan di Surbo e Campi, che di morti ammazzati ne fecero tanti. Perlomeno non c’entrava direttamente: ad armare Franco, che allora aveva i soprannomi di ‘Nano’ e ‘Fritz’, di pistola e passamontagna, fu invece la volontà di far pagare a Vincenti lo smacco ricevuto qualche anno prima quando gli mollò un ceffone alla presenza di altre persone.Per questo una sera di un giorno non meglio individuato attese Vincenti nascosto nei cespugli davanti alla sua casa. Ed appena il boss di Surbo parcheggiò l’auto e scese con la moglie, Franco saltò fuori impugnando la pistola. Nonostante avesse le stampelle, Vincenti riuscì a raggiungere la porta di casa ed a chiudersi dentro

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tirandosi dietro la consorte. Franco sparò due colpi, ma senza centrare il bersaglio. Poi l’arma si inceppò. Questa vicenda non andsò a finire nei maxi blitz ‘Arpia’ e ‘Pit’ perché Vincenti si guardò bene dal presentare denuncia. Ma ne parlò quando nel 2003 decise di pentirsi di rientro in Italia dopo la latitanza in Sud America. E ned ha parlato Franco dopo che anche la sua latitanza in America Latina finì con l’arresto del febbraio del 2004 a Santos in Brasile.Otto anni, dunque, per Franco che si aggiungono ai 30 delle precedenti condanne. (23)

Processo ai delitti di mafiaL’ergastolo arriva in appello. Oronzo De Trane, di Lecce, chiamato anche Andrea, è stato condannato al carcere a vita nel processo di secondo grado delle tre operazioni ‘Pit’ contro il clan dell’ex boss mafioso Filippo Cerfeda resosi responsabile da agosto del 2001 a marzo del 2003 di sette omicidi, cinque tentati omicidi e di due gambizzazioni per affermare la supremazia del suo clan nei traffici di droga e su altre fonti illecite di guadagni. Destino agli antipodi per il compagno di De Trane, Orlando Perrone, di Surbo: l’ergastolo era stato chiesto anche per lui, ma è stato assolto.Ottanta gli imputati nel processo di primo grado andato a sentenza il 18 ottobre 2004 con il gup, 12 di questi sono stati giudicati anche in secondo grado per l’appello proposto dal pm della Dda.Per De Trane in primo grado era stato proposto l’ergastolo con l’accusa di aver guidato la Renault Scenic impiegata la sera del 16 maggio del 2002 dal commando che tese l’agguato mortale al gommista di Cavallino, Mario Caroppo, davanti a un noto ristorante de centro di Lecce. Quel Caroppo considerato dal clan Cerfeda un concorrente nello spaccio della cocaina e che tentò inutilmente di fuggire. De Trane in primo grado fu assolto dall’accusa di omicidio, mentre la Corte d’Assise d’Appello il 19 giugno 2008 ha accolto l’istanza dell’accusa di condannarlo all’ergastolo: l’accusa ha chiesto di nuovo il carcere a vita ritenendo che non si debba prescindere dalle dichiarazioni del collaboratore dei giustizia Giampaolo Monaco.Orlando Perrone, invece, ha rischiato il carcere a vita perché accusato di aver partecipato al duplice omicidio di Surbo del 24 aqgosto del 2001 di Carlo De Santis e Francesco Cillo: il suo nome era stato fatto dai collaboratori di giustizia Simone Cerfeda e Franco Vincenti, mentre il boss Filippo Cerfeda lo aveva tenuto fuori. Il gup lo aveva assolto perché ha dubitato sull’attendibilità delle dichiarazioni di Simone Cerfeda mentre per Vincenti si è posto il problema che di Perrone parlò solo in un secondo momento quando gli fu chiesto di riferire quanto sapesse su quel fatto di sangue.Per gli altri imputati il processo si è concluso in questi termini: tre anno ha preso Andrea Bisconti, di Lecce, con l’accusa di aver detenuto una delle armi del gruppo di Camillo Lorio (uomo legato a Cerfeda). Ad un anno è stato condannato Antonio Chiriatti, per aver partecipato alla distruzione della Ford Mondeo impiegata per l’omicidio di Pompeo Vitale (22 gennaio 2003, fra Porto Cesareo e Nardò). Otto anni

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ha preso Antonio Pepe, di Lecce, detto ‘Il baffo’, per spaccio di droga. Assolti dall’accusa di associazione finalizzata al traffico di droga sia Carmelo Miglietta, di Trepuzzi, che Marino Mungelli, di Lecce: in primo grado avevano preso rispettivamente sei anni e sei anni ed otto mesi. (32) Un delitto annunciato?Quindici coltellate al cuore e ai polmoni: la conferma di un agguato sotto casa che altro obiettivo non avrebbe avuto se non ammazzare il consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori, Giuseppe Basile. Non un segno sul volto o su altre parti del corpo dell’ex imprenditore edile di Ugento. Quindici colpi andati a segno e quattro a vuoto. E con una lama lunga almeno 15 centimetri che non ha lasciato scampo. La vita di Basile si è spenta nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 davanti alla sua casa. Le indagini si svolgono a 360 gradi per non tralasciare nulla e per non trovarsi semmai nell’impossibilità di cercare riscontri se la pista privilegiata dovesse poi rivelarsi infondata. Ma fra i tanti moventi, quello del denaro perlomeno non starebbe trovando riscontri: Basile non avrebbe contratto debiti importanti anche dopo la cessazione dell’impresa edile, tant’è che avrebbe pagato di tasca sua i molti impegni della campagna elettorale. Sono in piedi la pista passionale e quella politica. La sua politica fatta di battaglie in consiglio comunale con un linguaggio schietto contro quelli che considerava privilegi in barba all’interesse pubblico. L’ultima, quella intrapresa solo poche settimane prima della sua uccisione, quando chiese di acquisire copia delle concessioni demaniali delle spiagge, dei parcheggi e delle aree di sosta dei camper. Nel passato Basile aveva tuonato contro anche le costruzioni e le discariche abusive. Ad Ugento dicevano Peppino contro tutti. E che non riscuotesse sempre simpatie (ma questo non autorizza a formulare ipotesi di delitto annunciato) lo dimostrano le scritte lasciate sui muri del paese, alcune anche con minacce inequivocabili: ‘Basile muori’. E non solo, un paio di anni fa ha rinvenuto due bossoli nella sua cassetta della posta e poi, di nuovo, pochi mesi prima dell’agguato, ha ritrovato la testa recisa di un animale sull’uscio di casa.Consigliere provinciale di maggioranza e consigliere comunale di opposizione a Ugento, area del Sud Salento occidentale, a rischio criminalità secondo il sottosegretario all’Interno, Mantovano, nella sua attività di controllo politico potrebbe aver toccato interessi di un certo rilievo. Magari qualcuno ha anche provato a farlo desistere con le buone, poi con le minacce e infine passando all’azione ingaggiando qualcuno esperto nell’uso di armi da taglio.L’impeto del killer e l’arma impiegata costringono gli inquirenti a prendere in considerazione anche una seconda pista: quella passionale. Non si esclude infatti che qualche avance nal indirizzata avrebbe potuto innescare una reazione inconsulta e poi la furia omicida. Ma questo è un terreno ancora tutto da esplorare.

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BRINDISIRapporto della Direzione Investigativa Antimafia – luglio – dicembre 2007In provincia di Brindisi le indagini della Dia hanno permesso il 9 ottobre 2007, di decapitare i vertici del sodalizio dei fratelli Brandi. Proprio uno loro era stato capace di riproporre in città il modello organizzativo della sacra corona unita alla quale era stato affiliato. L’indagine ha permesso di ricostruire la gestione degli interessi del clan (traffico di droga in collegamento con gruppi albanesi, estorsioni condotte imponendo la guardiania ad alcuni imprenditori, attentati per convincere a pagare, contatti con elementi collegati all’amministrazione comunale).La droga che proveniva dall’Albania, con l’utilizzo di scafi veloci, veniva stoccata a Brindisi e poi immessa sul mercato locale o inviata a spacciatori attivi al mercato del Nord Italia.Nel mese di luglio 2007 a Mesagne, già patria della Sacra corona unita (la città di nascita del capo dei capi, Giuseppe Rogoli) si è verificato un attentato alla centrale fotovoltaica in costruzione. Gli investigatori della Dia non escludono il movente estorsivo.A Torre Santa Susanna, emerge nella relazione il ruolo dei fratelli Bruno, con Andrea capoclan. Nei primi mesi del 2008 si sono concluse le inchieste che hanno portato all’emissione di numerosi ordini di custodia cautelare in carcere proprio per esponenti del clan Bruno e per gli stessi fratelli Bruno. I reati contestati: estorsioni e traffico di droga in particolare. E’ emerso infine un collegamento tra personaggi politici e le attività della famiglia Bruno, interessata al business delle autorizzazioni per la produzione di energia eolica attraverso l’installazione di pale in terreni di cui aveva la disponibilità (di questo ne parliamo diffusamente nel successivo paragrafo). (34) La Sacra corona unita fa sentire ancora la sua presenzaA fine marzo 2008 i carabinieri del Reparto operativo di Brindisi hanno portato a termine l’”Operazione Canali” (dal nome della masseria dei Bruno) che ha visto 23 persone in cella e una ai domiciliari. Nessuno politico è indagato in questa inchiesta.

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Nell’ordinanza sono omessi tutti (o quasi) i nomi dei politici che, stando alle intercettazioni telefoniche, avrebbero trovato nelle elezioni amministrative dell’aprile 2005, le comunali di Torre Santa Susanna e le regionali una forte base elettorale tra la malavita.Il Dott. Motta, che ha presieduto la conferenza stampa illustrativa dell’operazione, ha tenuto a sottolineare che nessun politico ha avuto contatti diretti con gli elementi della criminalità organizzata.I grandi elettori erano loro, i Bruno: Andrea Bruno (latitante), fratello di Ciro (rinchiuso in una cella), capo-clan a Torre Santa Susanna, lì dove c’è ancora lo zoccolo duro della organizzazione grazie ad un patto scellerato, stando alle indagini, con ciò che rimane del clan tuturanese del vecchio Salvatore Buccarella.Come abbiamo accennato è irreperibile Andrea Bruno, mentre il fratello Ciro è in carcere anche se, grazie forse a qualche santo in paradiso, gli è stato risparmiato il 41/bis.E’ anche irreperibile il figlio di Ciro, Vincenzo. Non si trovano neanche i cugini Daniele ed Emanuele Melechì. Mancano dunque all’appello il capo e i tre luogotenenti dell’associazione mafiosa dedita al traffico di cocaina e di armi oltre che ai soliti tabacchi lavorati esteri (le bionde). Presi gli altri torresi, presi anche i tuturanesi, l’ultima generazione di Buccarella.Il clan, è stato chiarito sempre dal Dott. Motta, attraverso una ricerca sistematica dei voti da destinare ai candidati di una parte politica, cercava di creare un vincolo di sudditanza di alcuni amministratori comunali e regionali.Andrea Bruno, per conto della famiglia, aveva molto da guadagnare, soprattutto in vista della realizzazione di un parco eolico sui suoi terreni. La società che aveva acquistato il progetto avrebbe dato fior di quattrini in cambio della concessione. Guarda caso l’iter burocratico, che passa dalla Regione, è stato velocissimo. Era quindi necessario mettere gli uomini giusti al posto giusto, cioè convogliare i voti verso i candidati che sapevano dove mettere le mani, con i quali non era necessario fare tante chiacchiere. Erano già convinti.Droga, armi, contrabbando, voti in cambio di favori. Il tutto con quell’atteggiamento mafioso che non lascia equivoci.E’ stato, infatti, riferito dagli inquirenti di una donna, Cosima Guerriero, la stessa che con le sue dichiarazioni aveva permesso l’arresto di Ciro Bruno, che non riusciva a vendere le sue proprietà. Emerge così lo spessore criminale di Andrea Bruno. Un boss che aveva un tale controllo del territorio da essere in condizioni di impedire la vendita di terreni e immobili da parte di persone sgradite al gruppo, o di controllare l’esito di aste giudiziarie, o ancora di impedire che terreni limitrofi ai propri finiscano nelle mani di persone non gradite.Il caso della Guerriero è emblematico. La donna nei primi anni ’90, fu la testimone che incastrò Andrea, Antonio e Ciro Bruno, poi condannati per aver sterminato proprio la famiglia della Guerriero. Nel 2005 la donna tentò di vendere alcune

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proprietà. Vendite che non andarono a buon fine: un potenziale acquirente era stato massacrato di botte perché si convincesse che non era il caso di fare acquisti incauti. Inoltre sui muri della donna apparvero alcune scritte intimidatorie, come ad esempio “Chi compra muore”, che fecero desistere un’altra persona, interessata ad una abitazione di proprietà della Guerriero.Nello stesso anno, un’azienda di Torre acquista ad un’asta giudiziaria un capannone, al quale erano interessati anche i fratelli Torsello, figli di Damiano, fedelissimo di Andrea Bruno. Il titolare dell’azienda subisce, nel giro di pochi giorni, il danneggiamento di un vigneto, l’incendio e il conseguente crollo di due abitazioni estive, e lo sfondamento del portone d’ingresso di una falegnameria di proprietà, tanto che l’uomo accetta di rivendere il capannone in questione ai fratelli Torsello.Quanto riferito ci dice, senza alcun dubbio, che Andrea Bruno esercitava ormai un controllo totale sul territorio di Torre. Come avete potuto apprezzare, quindi, una importante operazione portata a termine che non ha quasi avuto per niente bisogno delle dichiarazioni dei pentiti. Certo non è finita, si cercano ancora il ‘capo dei capi’ e i suoi luogotenenti.Per la latitanza ha giocato a favore di Andrea Bruno la scarcerazione (sia pure in regime di libertà provvisoria in attesa della conclusione del processo) concessa al termine dell’udienza per l’incidente probatorio della Cassazione nel dicembre 2007.L’accusa era quella di aver tentato di indurre un imprenditore di San Pancrazio a ritrattare le sue accuse nei confronti di due soggetti noti alle forze dell’ordine di Avetrana e di Sandonaci che, a loro volta, gli avrebbero estorto notevoli somme di denaro e che, nel luglio 2007 (mentre si accingevano ad intascare una tangente) furono arrestati in flagranza dai carabinieri della stazione di San Pancrazio.Bruno e altri due complici tentarono il tutto per tutto con lo scopo di far cambiare all’imprenditore la sua versione dei fatti. Alla vittima furono persino promesse le scuse per quanto subito oltre alla riconsegna dei soldi versati. L’incontro avvenne presso un esercizio commerciale dove Andrea Bruno si sentiva a proprio agio. Ma in quel caso il coraggio della vittima fece saltare i suoi programmi.Per questo quando la Cassazione decise per la scarcerazione, suscitò un vespaio di veementi polemiche.Tra l’altro l’operazione di cui ci stiamo occupando ha anche il merito di aver portato alla luce tutti i rapporti esistenti tra i vari personaggi appartenenti al sodalizio, i loro ruoli e, dunque, i loro compiti.Su questo ci intratterremo, non perché improvvisamente assaliti da un raptus masochistico, ma perché crediamo che, a chi è interessato seriamente di conoscere la realtà criminale, bisogna offrire tutto quello che si riesce a carpire dalla cronaca, sapendo che solo gli atti processuali, una volta esaurite le varie istanze che portano al verdetto definitivo, possono svelare per intero il lugubre mondo del malaffare.

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Tre anni di indagini, nate dalla necessità di assicurare alla giustizia un pericoloso latitante, Cosimo Cafueri, sottrattosi alla cattura subito dopo essere stato condannato all’ergastolo. Da lì prende le mosse l’operazione: intercettazioni e pedinamenti portarono alla consapevolezza che Cafueri – elemento di spicco della Scu, facente parte del clan di Salvatore Buccarella – stava tentando di ridare vita ad un nuovo gruppo malavitoso, riunendo i diversi esponenti delle cosche ormai decapitate di Tuturano.Un ritorno in grande stile, dunque, sulle orme di Buccarella, padre fondatore e capo indiscusso della Scu. Nelle intenzioni di Cafueri c’era la necessità di convogliare tutti i proventi delle attività illecite, in particolare del traffico di droga (del quale,però, pare non fosse entusiasta il boss Buccarella, che non vedeva di buon occhio la diffusione degli stupefacenti nel paese) e di armi, ma anche del contrabbando di sigarette, nelle casse del nuovo gruppo.Le indagini successive portarono a scoprire un filone molto più interessante: un vero e proprio ‘asse’ criminale tra Tuturano e Torre Santa Susanna.L’esistenza di questo sodalizio venne riferito anche da un collaboratore di giustizia, che fece riferimento a Vito Fai, considerato dagli inquirenti un elemento di primo piano all’interno del gruppo. Fai, a sua volta, aveva stretto forti legami proprio con Andrea Bruno, all’epoca capo-zona della Scu a Torre, già membro del clan che faceva capo al fratello Ciro, e ritenuto oggi il capo indiscusso dell’organizzazione sgominata con l’Operazione Canali.Diventa quindi Torre Santa Susanna il centro di controllo delle attività illegali del gruppo mafioso. La famiglia Bruno che spadroneggia indisturbata e i Melechì che fanno da braccio destro. Il potere del gruppo cresce a dismisura: controllano il traffico di droghe pesanti, si arricchiscono grazie al contrabbando di armi (molte delle quali erano nelle disponibilità dell’organizzazione), controllano le amministrazioni locali.E proprio una conversazione intercettata la notte del 31 dicembre del 2005 tra Vincenzo Bruno (nipote di Andrea) e Daniele Melechì emerge con forza il nuovo corso della malavita torrese.La nuova Scu, dunque, è tutta in mano ai torresi. E che Andrea Bruno sia ‘il capo dei capi’ del gruppo criminale lo dimostra il fatto che nessuno, anche all’interno del gruppo stesso, possa fare alcunché senza l’autorizzazione di Bruno.L’organico. gerarchicamente definito, della più agguerrita fazione della Sacra corona unita vede a capo Andrea Bruno; luogotenenti sarebbero stati i cugini Daniele ed Emanuele Melechì e Vincenzo Bruno, figlio di Ciro e nipote di Andrea. Loro tre controllavano il territorio in modo capillare. In qualità di promotori sarebbero stati: Cosimo Berardini, Salvatore Diviggiano, detto ‘Faccia bruciata’, Damiano Cosimo Torsello, meglio conosciuto come ‘U Poppitu’, Cosimo Carluccio alias ‘Pacciani’, Vito Fai e Michele Pagano. Tutti, infatti, sono accusati di aver fatto parte di un’associazione armata di stampo mafioso che aveva come obiettivo quello di

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commettere una serie indeterminata di reati con particolare riferimento alla detenzione illegale di armi, al traffico di droga, al contrabbando di sigarette ed al controllo delle attività criminali e dei traffici illeciti realizzati nel territorio di Torre Santa Susanna e nelle zone limitrofe da altri gruppi criminali.Damiano Torsello era considerato il ‘volto pulito’ dell’organizzazione. Era il tramite per arrivare a soggetti pubblici e privati. Anche la suddivisione dei ruoli nel traffico della droga rispettava un organigramma ben preciso. Il traffico era diretto ed organizzato da Andrea e Vincenzo Bruno e dai Melechì, Emanuele, Cosimo e Daniele detto ‘zumpa nana’ o ‘il grosso’, oltre che da Cosimo Bernardini, Salvatore Diviggiano e Damiano Torsello che agivano attraverso tre diverse articolazioni.La prima, operante sul territorio di Tuturano, sarebbe riconducibile a Vito Fai (capogruppo). Ne facevano parte Mario Cafueri, Piero, Giuseppe, Andrea, Graziano e Claudio Fai, Vincenzo Schiamone, Daniele Vitale e Rosario Piccinno detto ‘Saro’. La seconda, sempre operante sul territorio di Tuturano, sarebbe riconducibile al capogruppo Juri Rosafio con il quale collaboravano Vincenzo Bleve, Gianni Sabella, Gianluca Saponaro e Laura Vitale. La terza articolazione, che operava sul territorio di Torre Santa Susanna, aveva come punto di riferimento Francesco Ammaturo che coordinava le azioni di Dario Totano, Silvio Coccioli, Cosimo Immaturo, Cosimo Carluccio ed Americo D’Abramo.Non sembra esserci alcun dubbio, secondo gli inquirenti, che il numero uno dell’associazione sia Andrea Bruno. Il quarantenne, infatti, ha fatto parte del sodalizio ed è già stato condannato per questo delitto (articolo 416 bis del codice penale) con sentenza passata in giudicato. E’ un personaggio di indubbio spessore delinquenziale – secondo gli inquirenti – insieme ai suoi più stretti collaboratori avrebbe aggregato intorno a sé un gruppo criminale divenuto con il tempo egemone sul territorio di Torre Santa Susanna.In numerose conversazioni telefoniche intercettate è chiaro il carattere associativo del vincolo e la sua natura gerarchica.Come abbiamo visto l’unica donna a far parte del gruppo di presunti appartenenti al clan di Andrea Bruno, è Laura Vitale, ventiquattrenne di Lecce ma residente a Tuturano. Come per gli altri arrestati, per lei l’accusa è di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.In particolare, la Vitale avrebbe fatto parte di un ristretto gruppo di persone chiamato ‘articolazione’ nell’ordinanza di custodia cautelare, che faceva riferimento al territorio di Tuturano. Anche la ragazza, come praticamente tutti gli altri personaggi coinvolti nella vicenda degli stupefacenti, non disdegnava di provare di tanto in tanto la droga che smerciava per conto di Andrea Bruno.Nelle numerose conversazioni intercettate il riferimento alla droga c’era ma veniva criptato attraverso un particolare linguaggio. Compaiono spesso termini come ricotta, pillole, acqua e tipi di acqua, mandorle e ceci. Il significato dei dialoghi, secondo gli inquirenti, sarebbe piuttosto univoco, avendo quasi sempre come oggetto forniture,

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quantità o pagamenti di sostanze stupefacenti (ed in alcuni casi di sigarette di contrabbando).Ma se durante le conversazioni telefoniche gli interlocutori erano più accorti, quando erano a bordo delle proprie auto non erano soliti utilizzare la stessa attenzione. Ed è proprio in queste occasioni che si sono spesso traditi. Andrea Bruno ed Emanuele Melechì si occupavano di individuare anche i luoghi dove poter nascondere la droga. Generalmente si sceglievano luoghi in aperta campagna e la droga veniva inserita all’interno di vasi di vetro.Oltre alle intercettazioni, importanti passi avanti sono stati fatti grazie ai numerosi sequestri di droga. Il 12 febbraio del 2005, Bruno e Melechì erano a bordo di un’auto in compagnia di un’altra persona. Avevano otto chilogrammi di cocaina, pronti per essere venduti. E proprio con questo scopo i tre stavano cercando un’abitazione a Torre Santa Susanna.Pochi giorni dopo, il 26 febbraio del 2005, sempre a Torre, all’interno di un muro a secco che delimitava la proprietà della famiglia Bruno, sono stati sequestrati materiale chimico, acetone ed etere etilico utilizzabile per la raffinazione e l’estrazione di sostanze stupefacenti. Sempre a Torre Santa Susanna il 17 settembre dello stesso anno, furono sequestrati 500 grammi di cocaina e una pressa idraulica per il confezionamento della droga. In questa circostanza furono arrestati Cosimo ed Emanuele Melechì, in flagranza di reato il primo, successivamente il secondo.Qualche mese dopo, nelle campagne di Mesagne, furono sequestrati insieme a pistole e fucili anche 1,7 chilogrammi di cocaina, sei grammi di hashish ed oltre un chilogrammi di eroina. Nel corso dell’operazione fu arrestato Salvatore Diviggiano.In altre conversazioni si fa riferimento ai controlli delle forze dell’ordine, ai metodi per evitare di essere colti in flagranza e a quelli per guadagnare con i traffici internazionali. In una conversazione Bruno, Berardini e Diviggiano parlano addirittura di un arresto avvenuto il 12 febbraio del 2005, nell’ambito di una inchiesta relativa ad un sodalizio criminale dedito al traffico ed allo spaccio di sostanze stupefacenti. Si tratta dell’indagine denominata “Buena Esperanza”. La persona arrestata, era il fornitore, l’intermediario di un quantitativo di 82 chilogrammi di cocaina sequestrati il 9 luglio del 2003 a Ventimiglia.I traffici dell’organizzazione sono ingenti, soprattutto perché frequenti. Difficile, allo stato, calcolare gli introiti economici che non potevano che essere anch’essi ingenti. Ad esempio il valore della droga venduta ad una decina di persone fa centomila euro.Una cifra guadagnata in meno di un anno, ma attraverso più cessioni effettuate da Cosimo Berardini e Salvatore Diviggiano. Si tratta, tra l’altro, di quantità di sostanze stupefacenti spacciate non solo a Torre Santa Susanna, ma anche in altri paesi della provincia di Brindisi.L’attività criminosa di questo clan era oltremodo variegata. Infatti tra i tanti capi di imputazione che si scorgono nell’ordinanza, anche i furti affrontavano con grande perizia.

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Si legge: articoli 56 e 328 comma 3 nr.1 c.p. <<Perché alfine di trarne un ingiusto profitto, ponevano in essere idonei atti diretti in modo non equivoco ad impossessarsi di denaro e valori nella disponibilità dell’Ufficio postale di Monteroni di Lecce>>; articolo 648 bis c.p. <<Perché procedendo allo smontaggio di un camion, provento di furto denunciato in data 14.06.2005. al quale erano stati rimossi il motore, la cabina, il cassone ribaltabile e le ruote anteriori, nonché effettuando il taglio dei longheroni riportanti il numero di telaio, compivano operazioni finalizzate ad ostacolare la provenienza delittuosa del veicolo>>. Sono numerosi gli elementi raccolti che dimostrano la natura armata del vincolo dell’associazione. Non solo il capo e i luogotenenti, ma anche gli affiliati hanno potuto contare sulla disponibilità di armi, di cui veniva testata l’efficienza prima di ogni azione delittuosa. All’occorrenza venivano distribuite con modalità tipicamente militari, come se si trattasse di un vero e proprio esercito. Tra queste vi erano fucili a canne mozze, pistole calibro 38, 9x21, 7,65 e 357 magnum.A conferma, aggiunse un tassello importante all’indagine anche l’arresto di Salvatore Diviggiano, avvenuto nel marzo del 2006, quando nelle campagne di Mesagne oltre a vari quantitativi di cocaina, hashish ed eroina, furono sequestrati anche due fucili a canne sovrapposte e quattro pistole con varie munizioni.Ma continuiamo. Le indagini hanno potuto appurare, anche grazie all’enorme mole di intercettazioni telefoniche e ambientali registrate in questi tre anni, come gli appartenenti al gruppo di Bruno tenessero sotto controllo non solo i pregiudicati della zona, ma anche i Carabinieri della stazione di Torre. Ne studiavano le mosse, li tenevano d’occhio, ne controllavano le attività, anche al fine di essere aggiornati sulle indagini che riguardavano alcuni di loro.Il capo e il suo braccio destro sono preoccupati perché i continui spostamenti delle forze dell’ordine impedisce loro di portare avanti le attività illecite. Chiedono notizie sulle indagini che li riguardano. In particolare, proprio Bruno, parlando con un uomo non ancora identificato , si dimostra infastidito dai continui controlli, e cerca di sapere se ci sono intercettazioni o dichiarazioni di pentiti a suo carico.Effettivamente, nella relazione di servizio redatta in seguito da un appuntato della stazione di Torre, quest’ultimo scrive di essere stato contattato da un uomo che gli chiedeva notizie in merito ai continui controlli subiti da Andrea Bruno.E’ comunque costante il controllo che il gruppo dei torresi esercita sui carabinieri locali: controllano dagli spostamenti agli aspetti della vita privata dei militari. Una conoscenza di certo non disinteressata, soprattutto quando si parla della moglie di uno o della casa a mare dell’altro.Intanto gli inquirenti provvedono ai sequestri. Nelle mani dell’autorità giudiziaria non finiscono solo droga e armi, ma anche auto e moto nella disponibilità degli indagati.Pare che fosse un terremoto annunciato l’attacco all’ultima roccaforte della Scu.

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Abbiamo visto come dalle indagini sono anche emersi elementi che riconducono quantomeno a un tentativo di voto di scambio tra esponenti della criminalità organizzata ed esponenti politici. Ma di questi ultimi, ribadiamo, nessuno risulta, per il momento indagato.Si presenta così un grande interrogativo: qual’è il livello di intreccio tra politica e mafia?L’inchiesta, comunque, non termina qui. <<Ci sono molti aspetti da valutare. – dice il coordinatore Dott. Motta – Ad esempio la questione delle pressioni per il parco eolico da impiantare sui terreni della famiglia Bruno, in agro torrese>>.E su questo parco ci soffermiamo brevemente perché si comprenda bene l’entità dell’affare.<<Poi quando abbiamo bisogno si deve mettere a disposizione>>, dice Andrea Bruno al suo interlocutore (in una delle intercettazioni) che gli chiede voti per un ‘nuovo’ candidato al Consiglio regionale. E non si riferiva solo ad eventuali posti di lavoro. Un altro politico regionale aveva forse già aiutato la sua famiglia accelerando l’iter per l’autorizzazione a realizzare un impianto eolico a Torre. L’affare delle ‘pale’, dell’energia del vento. Non perché i Bruno fossero ambientalisti, ma perché il terreno scelto per realizzare l’impianto era proprio il loro. E allora negli occhi di Andrea Bruno brillano immagini di centinaia di migliaia di euro che avrebbe avuto in cambio della concessione del suolo di famiglia in contrada Canali. Andò tutto liscio. L’iter fu velocissimo. Ora le pale non ci sono ancora, ma il progetto fu approvato dalla passata giunta regionale. Superficie 737.255 metri quadrati; 19 aerogeneratori; potenza complessiva 33.25 Megawatt. Nell’ottobre 2004 la Regione aveva provveduto con una determina ad escludere il parco eolico di Torre dall’applicazione delle procedure di Valutazione di impatto ambientale. E non è poco.Si parla parecchio nell’ordinanza di custodia cautelare del tentativo della Scu torrese di entrare nel tessuto connettivo delle amministrazioni locali, quella comunale in primo luogo, ma anche quella regionale dell’epoca.Si dimostra, si legge nell’ordinanza <<come il clan di Bruno Andrea sia stato capace di estendere le proprie articolazioni tentacolari non solo nei confronti del tessuto criminale locale ma anche nei confronti delle strutture amministrative comunali, adoperandosi attivamente per raccogliere voti da convogliare verso i propri candidati di riferimento in vista delle imminenti elezioni amministrative dell’epoca (il riferimento è in particolare alle elezioni amministrative regionali ed a quelle comunali di Torre Santa Susanna)>>.<<L’interessamento della famiglia Bruno si è tradotto in una ricerca sistematica di voti da destinare ai candidati di una parte politica verso i quali si sono proiettati gli sforzi di Bruno Andrea che addirittura nel corso di una conversazione ambientale con una donna non identificata indica il candidato sui far necessariamente convergere i voti della stessa>, continua l’ordinanza. <<La lettura delle conversazioni intercettate costituisce solo una piccola parte di quelle che

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comprovano il collegamento del clan Bruno con esponenti politici locali e sono particolarmente significative nella parte in cui dimostrano come il clan di Bruno Andrea abbia manifestato una forte propensione alla penetrazione del tessuto connettivo amministrativo locale con volontà di infiltrare anche quello regionale e che tale propensione abbia, almeno stando a quanto dichiarato da Bruno Andrea, creato un vincolo di sudditanza di alcuni amministratori locali. Il campo di intervento di Bruno Andrea, tuttavia, non è limitato al solo orizzonte comunale, atteso che il tentativo di sottoporre a controllo anche esponenti politici di livello regionale gli consentirebbe di tutelare da vicino tutti i suoi interessi parte dei quali, per specifica tipologia, richiedono l’intervento della Regione (la costruzione del parco eolico transita per autorizzazione della regione Puglia)>>. E ancora: <<Di qui l’interessamento verso le elezioni amministrative regionali e di qui la sempre ricorrente affermazione secondo cui appoggiando tali personaggi la propria famiglia avrebbe ottenuto favori>>.Del resto gli attentati intimidatori che si sono verificati a Torre nel corso del 2006 e 2007 contro i vigili urbani, la ditta della spazzatura e contro consiglieri comunali la dicono lunga sul clima che si respira a Torre Santa Susanna. (15)Né la provincia può dichiararsi estranea ai fatti delinquenziali.Dopo un periodo di calma, gli incendi dolosi sono tornati a movimentare la tranquillità notturna di Fasano.Nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2008, infatti, ad andare a fuoco è stato un autocarro furgone Ford Transit di proprietà di un commerciante ambulante di frutta e verdura molto conosciuto in città. L’incendio si è sprigionato nella periferia del popoloso comune brindisino nonché delle adiacenze dell’edificio popolare nel quale vive la vittima dell’attentato. Secondo la ricostruzione dei militari del Norm della compagnia di Fasano, il rogo sarebbe partito da una tavoletta infiammabile del tipo utilizzato per accendere i caminetti e in pochi istanti avrebbe avvolto non solo il mezzo commerciale, ma anche un’altra vettura di proprietà di una donna, la Renault Kangoo di colore verse parcheggiata ad un tiro di schioppo dal Ford Transit. Nell’abitacolo della Renault i carabinieri hanno rinvenuto un’altra tavoletta infiammabile, certamente messa l’ dall’attentatore. In altre parole si voleva distruggere sia il mezzo commerciale che l’autovettura. I danni, secondo una prima approssimativa stima, ammonterebbero a circa 5-6mila euro.A prescindere dai prossimi sviluppi a cui giungeranno gli inquirenti e ai possibili ed eventuali balordi, non si può escludere la mano di un esecutore criminale in cerca di estorsioni. (15) Condannato “La Belva”La sera dell’11 aprile del 2007 il colpo che ferì a morte Daniele Carella e altri tre, furono esplosi dall’interno di una Citroen C3 a bordo della quale c’erano Fabio Fornaro, detto ‘la belva’ e Gennato Giuffrida, detto ‘Gerry’.

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Il giovane fu raggiunto dal colpo di una pistola calibro 9 alla nuca, mentre si trovava al lato del passeggero, a bordo della Lancia Y guidata da Angelo Palma. Era quest’ultimo, in realtà, il destinatario di quei proiettili. Fornaro lo stava cercando da tempo per i suoi soldi, quelli che Palma non gli aveva ancora pagato per una partita di cocaina.Accortosi delle condizioni di Daniele Carella, fu lo stesso Palma ad accompagnare l’amico all’ospedale, dove morì dopo tre giorni. Da quella sera, chiunque si sia occupato del caso, ha prima di tutto cercato di stringere il cerchio attorno al responsabile. Ma che in quella vicenda fosse coinvolto Fabio Fornaro fu chiaro quasi subito agli inquirenti anche se fu necessario qualche settimana per farlo uscire allo scoperto.Infatti, Fornaro e Giuffrida furono arrestati il 6 maggio, dopo poche settimane. Si contraddicevano le loro versioni dei fatti: Fornaro aveva dichiarato di aver dato l’ordine poi eseguito materialmente (secondo il suo racconto a cui il pm non ha prestato fede) da Giuffrida.E quella notte ci sarebbe potuto essere anche un secondo morto, lo stesso Fabio Fornaro che, secondo l’accusa, sarebbe stato raggiunto sotto casa dai parenti di Carella, Maurizio e Oliver Cannalire, attualmente indagati per il tentato omicio di Fornaro.Nel fratempo ‘la belva’ aveva deciso di collaborare con la giustizia e quindi con la Procura antimafia di Lecce. Ma ciò non è servito a fargli ottenere alcuna attenuante nel processo con rito abbreviato, come richiesto da entrambi gli imputati, che si è concluso il 22 aprile 2008.Vent’anni di reclusione per Fabio Fornaro e sedici anni per Gennaro Giuffrida. Rispondevano di omicidio volontario con dolo diretto nei confronti di Daniele Carella e tentato omicidio nei confronti di Angelo Palma che, come abbiamo già scritto, era il vero obiettivo dell’agguato.Per Fabio Fornaro il pm aveva chiesto trent’anni di reclusione (ventuno per l’omicidio di Carella, otto per il tentato omicidio di Palma ed un anno per la detenzione ed il porto abusivo di arma, spari in luogo pubblico e ricettazione della pistola rubata). La richiesta di pena è stata poi ridotta di un terzo per via del rito abbreviato e quindi a vent’anni. Il magistrato non ha mai ritenuto credibile la sua versione dei fatti e, di conseguenza, non aveva concesso alcuno sconto. Il pm, tra l’altro, aveva però escluso sia per ‘belva’, sia per ‘Gerry’ la premeditazione che avrebbe portato ad una richiesta di ergastolo. Per Gennaro Giuffreda (ai domiciliari presso una comunità terapeutica dall’estate 2007) aveva riconosciuto, anche se solo parzialmente, le attenuanti generiche.C’è infine da annotare che la vicenda ha segnato di positivo: indagini lampo, arresti lampo e quindi anche processo e sentenza di condanna con tempi celeri. Forse mai in passato nessun caso di omicidio a Brindisi il verdetto è arrivato ad un solo anno di distanza dal crimine. (15)

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Scu & PoliticaSi va avanti nell’inchiesta sugli affari del presunto clan capeggiato dai fratelli Brandi, dedito al racket delle estorsioni, agli affari di droga e al contrabbando di sigarette. Si va avanti con due riti abbreviati, due patteggiamenti ed un solo prosciolto. Per tutti gli altri, e sono dodici imputati, iniziano i gradi di giudizio con il rito ordinario. Una indagine che lo scorso ottobre 2007 fece scatenare una bufera anche sul mondo politico, perché tra gli indagati compariva anche il nome del consigliere comunale Oggiano.Il 12 giugno 2008, il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Lecce, su richiesta del pm, ha rinviato tutti a giudizio nell’udienza che si terrà il 24 settembre 2008 davanti alla Prima Sezione penale del Tribunale di Lecce, tranne Tommaso Marsella che è stato prosciolto. E’ stato concesso il rito abbreviato a Mario Andriola e ad Adolfo Saponaro.Si aggiunge ad Andrea Zingarello (titolare di una società di copertura, la Icost), che già aveva patteggiato la pena, anche Cosimo Gerardi. Sconterà due anni e sei mesi con l’esclusione del 416 bis e dell’articolo 7 relativo al reato di associazione mafiosa. Ad ottobre, nell’ambito dell’inchiesta denominata “Berat-Dia” finirono in manette i fratelli Raffaele e Giovanni Brandi, il loro uomo di fiducia Giuseppe Gerardi, Cosimo Gerardi, Mario Andriola, Enrico Colucci, Antonio Lococciolo, Andrea Zingarello (che ha patteggiato), Gianfranco Contestabile, il gioielliere Fiorenzo Borselli (al quale sono stati concessi i domiciliari) e i fratelli di origine albanese Aben e Viktor Lekli, i cue uomini che per oltre dieci anni con una paletta avevano gestito il traffico sulla strada di canale Patri.Gli affari si facevano soprattutto con il racket (come la guardiania di cantieri edili e la ‘protezione’ di attività circensi e parchi divertimento, ma anche atti dolosi ai danni di imprenditori edili e agricoli, il riciclaggio di denaro sporco ed il traffico di droga tra Brindisi e Durazzo (Albania). Oltre agli arresti a fare scalpore, come abbiamo accennato, fu anche l’iscrizione nel registro degli indagati, insieme ad altre quattro persone, del capogruppo di Alleanza nazionale nel consiglio comunale, Massimiliano Oggiano.La sentenza di rinvio a giudizio era stata depositata il 21 febbraio 2008 dal pm della Direzione distrettuale antimafia. Sedici le persone coinvolte – secondo gli inquirenti – negli affari del presunto clan capeggiato dal boss Raffaele Brandi, già condannato con sentenza defiinitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso ai tempi in cui militava nella Sacra Corona Unita. Il 28 aprile 2008, in una udienza ‘tecnica’, il giudice dell’udienza preliminare, sposando la giurisprudenza del Tribunale leccese, aveva rigettato la richiesta dei difensori di fare copia delle bobine contenenti le registrazioni di alocune intercettazioni telefoniche che fanno parte del materiale probatorio acquisito.

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Delle sedici parte offese, tra cui il Ministero dell’Interno, quello di Grazia e Giustizia. Andrea e Alessandro Carrisi, si sono costituiti parte civile l’avvocato Cosimo Pagliara, ex presidente della Multiservizi, a cui bruciarono l’auto nel bel mezzo di una riunione del consiglio di amministrazione della società mista e, in particolr modo, contro il gioiellieri Fiorenzo Borselli e Giuseppe Gerardi, il signor Antonio Palumbo, titolare della ditta “Palumbo Costruzioni srl” a cui furono incendiate due autro, soto casa, a Santa Sabina di Carovigno. (15) AttentatiDue auto incendiate nella notte tra il 2 e il 3 maggio 2008 a San Pietro Vernotico e Cellino San Marco. Indagano i carabinieri di entrambe le stazioni locali nel tentativo di riuscire a risalire all’identità dei piromani.A Cellino San Marco è stata incendiata una vecchia Golf di proprietà di un operatore ecologico. L’auto era parcheggiata sotto casa del proprietario.Qualcuno nella notte aveva cosparso il vano motore dell’auto di liquido infiammabile ed ha poi appiccato il fuoco. Quasi sicuramente si tratta di un atto di ritorsione nei confronti del proprietario per questioni attinenti la sua sfera personale, contraddistinta da qualche tempo da reciproche querele con un’altra persona del posto. Pur non tralasciando alcuna altra ipotesi investigativa, per il momento resta questa la pista privilegiata dagli inquirenti.E la ritorsione nei confronti di un’altra persona pare sia stato il motivo per il quale a San Pietro qualcuno ha cercato di dare alle fiamme una Fiat Punto. Anche in questo caso i danni all’auto sembrano siano stati contenuti per via del tempestivo intervento del proprietario che è riuscito per tempo ad avere ragione delle fiamme.La pista più accreditata dagli inquirenti, porterebbe in questo caso di ritorsione per via di una testimonianza che il proprietario avrebbe reso ai carabinieri in relazione ad un tentativo di rapina, testimonianza rilevatasi successivamente determinante per arrivare poi all’identità del rapinatore.In ogni caso, anche per questo secondo incendio doloso gli inquirenti non tralasciano alcuna altra ipotesi.In entrambi i casi, però, i carabinieri escludono possa trattarsi di racket a scopo estorsivo, tuttavia preoccupa la facilità con cui si ricorra ad attentati clamorosi (si pensi che entrambi si sono verificati in piccoli centri) che ci avvicino più a realtà in stato di guerra civile che a pacifiche e significative convivenze. (15)

*Ad Ostuni torna ad infiammarsi il clima. Ancora un rogo, misterioso ed inquietante. Non è chiaro quale tipo di messaggio possa celarsi dietro l’incendio che nella notte tra il 10 e l’11 maggio 2008 ha devastato la residenza estiva dell’agente Pino Quartulli, vigile urbano in servizio presso il Comando della polizia municipale della città bianca. Il grave episodio ha destato scalpore e sconcerto, soprattutto perché

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verificatosi a poche settimane di distanza dall’attentato incendiario ai danni dell’ingegnere capo del Comune Roberto Melpignano (nel mirino la sua auto) alla testa mozzata di un cavallo recapitata al vice sindaco Vincenzo Pomes. Gli inquirenti, anche in questa circostanza, non si sbilanciano, con fermando l’avvio di un’attività di indagine che si preannuncia piuttosto complessa.Il personale del locale Commissariato Ps è stato chiamato per il 12 maggio ad eseguire un nuovo sopralluogo all’interno della villetta distrutta dalle fiamme: una costruzione nel cuore del villaggio di Fontanelle, lungo il litorale ostunese.Gli investigatori intendono in primo luogo fare luce su quanto realmente accaduto tra le mura andate in fumo. Sulla matrice dolosa, pochi dubbi. L’impianto elettrico era disattivo e l’abitazione di fatto disabitata in questo periodo dell’anno. Soltanto la mano di un ‘piromane’ poteva generare oltre l’uscio fiamme e distruzione. Il motivo è uno degli interrogativi ai quali gli inquirenti stanno cercando di dare risposta. Le indagini, curate dalla polizia, dovranno stabilire anche quale tecnica abbiano utilizzato i malviventi per generare ed alimentare le fiamme. I Vigili del fuoco del Comando provinciale di Brindisi e del Distaccamento di Ostuni, intervenuti sul posto, non avrebbero rinvenuto tracce evidenti di liquido infiammabile. Il bilancio dei danni arrecati dal fuoco è piuttosto pesante, come testimoniano le prime verifiche. Altrettanto scontata l’inagibilità dell’appartamento.Il vigile, vittima dell’attentato, non sa darsi una ragione, non sa cosa pensare. Ancora lui, come già accaduto nel passato, torna ad essere bersaglio del crimine. Era già accaduto la notte tra il 27 ed il 28 maggio 2006. La sua auto fu data alle fiamme poco prima dell’alba. In quel caso, il ritrovamento a ridosso dell’autovettura di un bidone abbandonato sul posto dagli attentatori, chiarì subito la matrice del gesto.Oscuri, invece, allora come oggi, restano i motivi che vedrebbero il vigile urbano al centro di tali attenzioni particolari. Impegnato spesso in prima linea nell’attività di controllo del traffico urbano. Quartulli era stato vittima alcuni anni fa anche di un altro grave attacco personale. In quel caso si trattò di una vera e propria aggressione, proprio mentre l’agente municipale era impegnato a dirigire la viabilità in pieno centro. (15)

*Il 17 maggio, all’alba, un cavallo è stato ucciso con colpi di fucile in un maneggio a Mesagne, vicino alla frazione brindisina di Tuturano. Non è ancora chiro se si sia trattato di una ritorsione nei confronti del titolare del maneggio o del proprietario dell’animale, un agricoltore della zona. Sull’episodio indagano gli agenti del Commissariato Ps di Mesagtne. (15)

*Da un anno Ostuni è alle prese con misteriosi e inquietanti attentati. Che colpiscono politici di destra e di sinistra, dirigenti amministrativi e vigili urbani. Nel

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campionario c’è di tutto: dalla testa del cavallo lasciata davanti allo studio del vicesindaco ai quattro colpi di pistola contro l’ambulatorio dell’assessore ai Lavori pubblici, passando per auto e ville incendiate, furti, scritte minacciose.Il Sindaco atribuisce il tutto all’infinito livello di potenziali conflittualità. I vertici amministrativi hanno raccontato agli investigatori, però risultati non si sono visti. Certo si possono avanzare supposizioni, ipotesi che tali rimangono. Si fa riferimento alle 1.500 domande di condono edilizio non accolte; alle vicende delle 90 case popolari date in custodia nel 1989, quindi non assegnate e perciò oggetto di un contenzioso infinito; ancora, all’ecomostro, quel rudere abusivo costruito sugli scogli di Villanova, che non si riesce ad abbattere da 20 anni. C’è anche chi soffia sul clima avvelenato della politica a colpi di denunce, esposti, interpellanze, comunicati. La grossa questione urbanistica: l’opposizione accusa l’amministrazione attuale di non affrontare l’argomento, favorendo chissà chi e chissà cosa. Il Sindaco assicura di aver inviato al Prefetto copie dei verbali dei consigli comunali degli ultimi due anni. Confida di aver parlato di urbanistica undici volte, l’ultima per quesi tre ore. All’unanimità il Consiglio ha riconosciuto la mancanza di qualsiasi illegittimità. Esplode, infine, in una invocazione: che chi deve indagare, indaghi.Anche il vicesindaco, vittima della testa del cavallo, afferma di aver detto tutto quello che gli veniva in testa, compresi i contenziosi storici e cronici di Ostuni. Non si possono che attendere pazientemente i risultati.La città si interroga. Vuol capire. In palio c’è la sua immagine conquistata a suon di bandiere blu e di trulli acquistati dagli inglesi. Le 500mila presenze annuali legate al turismo rappresentano il 40 per cento del movimento provinciale, il 10 per cento di quello regionale.La presenza criminali da queste parti non ha mai superato il livello di guardia. Ci fu un tentativo di infiltrazione nel tessuto commerciale da parte dei clan mesagnesi, fallito. E’ pure passato il periodo del contrabbando. Preoccupa, invece, il rischio dell’omertà. Di chi vede ma non parla. Sa, ma preferisce tacere, nella speranza che un giorno tutto finisca. (15)

*Anche Brindisi vive un momento particolare. Tanti attentati. E tutti a professionisti. Per non parlare delle pallottole che viaggiano per posta. Ogni volta che arrivano fanno altrettanto male di quando vengono sparate. Perché chi li receve non sa da chi deve difendersi. L’autore del lugubre messaggio può essere chiunque, un banale teppista che lo fa solo per creare allarme, ma anche chi vuole intimorire volutamente.Ci fu il sostituto procuratore Milto De Nozza che ricevette una pallottola in una busta. Analogo messaggio lo ricevette tempo fa il presidente dell’Amministrazione provinciale Michele Errico e poco prima delle elezioni una busta destinata

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all’onorevole Luigi Vitali fu recapitata alla redazione brindisina del ‘Nuovo Quotidiano’.Errico, sempre in periodo pre-elettorale ha subito un altro ‘avvertimento’. Qualcuno, non ancora identificato, entrò nello stabile, in pieno centro di Brindisi, raggiunse il secondo piano, dove si trova il suo studio notarile, versò dinanzi alla porta di ingresso liquido infiammabile. Ma non diede fuoco. Erano da poco passate le 2 del pomeriggio.Altro ‘messaggio’ singolare viene lasciato nella tarda mattinata di una domenica alla porta di ingresso dello studio di Aurelio Corso, direttore generale della squadra di pallacanestro ‘Prefabbricati pugliesi’ e compagno del sostituto procuratore Adele Ferraro. Fu il magistrato, rientrato a casa, a notare un pacchetto di sigarette lasciato in modo tale che fosse leggibile la scritta:’Il fumo uccide’, e accanto le sigarette messe in modo tale da dare l’idea delle pallottole. Un messaggio alla Ferraro oppure al compagno dentista?Un bottiglia incendiaria invece fu scagliata a tarda sera del 24 aprile 2008 contro l’ingresso dell’edificio che ospita gli studi degli avvocati Carlo Caniglia e Mario Rubino. L’ipotesi prevalente fu che l’autore dell’attentato potesse essere un cliente di uno dei due avvocati civilisti rimasto deluso. Ma le indagini non hanno confermato.Altro attentato incendiario la notte del 4 giugno 2008. Ancora una volta preso di mira uno studio professionale. Quello del dentista Miche Rodofili. Due bottiglie incendiarie lasciate sul davanzale della finistra dello studio situato a pianoterra. Delle due solo una si è incendiata, provocando danni alla tapparella. Il dentista ha riferito ai carabinieri di non avere idea di chi possa essere stato. (15)

*Dopo la bufera giudiziaria e il sequestro del villaggio (di cui parliamo più sotto in un apposito capitolo), su ‘Acque Chiare’ c’è ora il sospetto di un incendio doloso. Quello che il 20 maggio 2008, intorno alle 17,45, ha distrutto due gazebo (usati come magazzini) a ridosso della spiaggia, anch’essa posta sotto sequestro ma, a quanto pare, non vigilata. Nel rogo sono andate distrutte centinaia di coperture in paglia – per gli ombrelloni in stile resort – e la macchina per la pulizia dell’arenile. Scartata, dai Vigili del fuoco, la possibilità che il fuoco si fosse propagato a causa di un’autocombustione il dubbio per le numerose forze dell’ordine che hanno operato per chiarire l’accaduto, rimane l’incendio doloso. Una mano invisibile che ha forse cosparso di liquido infiammabile le due strutture in legno. A sincerarsi del sinistro è arrivato anche il Sindaco che, al momento, e dopo il sequestro dell’intero villaggio, è il custode giudiziario. ora potrebbero essere le telecamere a circuito chiuso a chiarire i fatti: se l’occhio virtuale fosse posizionato su quei gazebo anadati a fuoco. Un momento davvero terribile per un villaggio nato per rilanciare la costa nord del brindisino e che, dopo l’incendio, getta altre ombre a solo poche ore dal nuovo stop giudiziario. Eppure da quelle parti fino a mercoledì mattina 28 maggio c’erano almeno venti operai che si stavano prodigando a rimettere a posto la spiaggia.

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E’ stato il fumo ad allertare alcune persone all’interno del vicino stabilmento balneare ‘Granchio Rosso’. Senza una guardiania fissa su quell’angolo del villaggio – e dopo che le strutture erano state già tutte montate per la nuova stagione – lo sciacallaggio poterbbe essere dirompente. (15)

*Un incendio che ha tutto il sapore di un avvertimento. L’ennesimo atto intimidatorio contro chi combatte – anche con grandi rischi personali – la cultura dell’illegalità. Un incendio probabilmente di origine dolosa si è sviluppato a Torchiarolo, il 16 giugno 2008, che lo Stato ha confiscato alla Sacra Corona Unita, affidandone la gestione alla cooperativa ‘Terre di Puglia – Libera Terra’. L’incendio giunge a due anni esatti da un primo analogo attentato su quei terreni che <<rappresentano una sfida forte e continua alla violenza delle mafie locali>>.Per il vero non è ancora chiaro se si tratti di un incendio provocato da qualcuno o appicato accidentalmente. I tecnici dei vigili del fuoco lo accerteranno. I danni sono molto limitati perché sul terreno preso di mira è coltivato un vecchio vitigno destinato ad essere estirpato per fare posto ad un vitigno più pregiato che la cooperativa potrà meglio commercializzare.In ogni caso l’episodio non è da sottovalutare. Lo ha ribadito anche il Prefetto di Brindisi che ha preso parte ad un sopralluogo insieme con il Comandante provinciale dei carabinieri e il Commisario del Governo per la gestione dei beni confiscati.I dirigenti della cooperativa hanno chiesto che sull’episodio venga fatta chiarezza per dare serenità a quanti operano nell’associazione affidataria dei terreni che una volta erano dei boss, personaggi di spicco della Scu brindisina. (15). Delitti di mafia, parla “Bullone”Vito Di Emidio, detto il “bullone”, boss di un tempo, in una delle ultime generazioni brindisine della Scu, è da tempo che parla; per questo a molti vecchi sodali tremano i polsi e non solo.Sono passati più di dieci anni da quando furono giustiziati, nel quartiere Sant’Elia, Giacomo Casale, detto “Puffetto” e Lorenzo Rosselli. Li avevano attirati in una trappola perché dovevano vendicarsi di Franco De Fazio che aveva fatto uccidere Mino Truppi e Nicola Santacroce. Non erano stati i due nragazzi del Sant’Elia ad ammazzarli, ma bisognava dare una lezione a “Farfallone” facendo fuori due dei suoi ‘simpatizzanti’, scelti a caso. Casale e Rosselli furono torturati, strangolati. Ci si accanì persino sui loro corpi prima di gettarli in un pozzo. Era il maggio 1992. Sono passati dodici anni. Quel giorno erano in quattro: Di Emidio, Tedesco, detto “Capu ti bomba”, Orlando, alias “Jo Jo” e Daniele Giglio. Ad accompagnarli c’era Tonino Giglio, cugino di Daniele. Ma all’ultimo momento non se la sentì, lasciò i quattro e se ne tornò a casa.

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Il 12 maggio 2008, Daniele Giglio e Giuseppe Tedesco si sono trovati davanti i carabinieri del Reparto operativo di Brindisi, con l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip su richiesta del pm antimafia; non hanno fato una piega. Così come Pasquale Orlando che l’ordinanza gli è stata notificata in carcere dove si trova.Tedesco non l’ha fatta franca neanche per un altro omicidio commissionato da Bullone, quello avvenuto a Bar, in Montenegro, di Giuliano Maglie, avvenuto in una data non precisata nel 1999. Di Emidio diche che Maglie voleva farlo fuori. Meglio quindi giorcare d’anticipo. Che sarà stato mai per uno come Vito Di Emidio che ha confessato di aver ammazzato, quasi sempre con le sue mani, una dozzina di persone, eccellenti e non, di aver fatto saltare in aria un paio di supermercati e qualche concessionaria, di aver minacciato di morte e chiesto soldi a imprenditori notissimi, di aver dato fuoco a quella che pensava fosse l’auto del suo avvocato, di aver fatto rapine e rubato e trafficato in droga. Stupri no, quelli non ne ha fatti. Non rientra nel codice d’onore mafioso. Ma per il resto, per sua stessa ammissione, non si è fatto mancare nulla.Certo sono passati anni, tanti: il pentimento di Di Emidio potrà fare giustizia. Erano anni in cui, a Brindisi, non c’era sera in cui non saltasse in aria un negozio o un supermercato. Bombe che significavano solo una cosa: il titolare non aveva pagato e per questo andava punito. E, manco a dirlo, esperto del settore era proprio Vito Di Emidio. Nel maggio del 1998 costrinse i titolari del negozio ‘Cuba libre’ a versare cinquanta milioni di lire, non prima di aver distrutto il negozio con un ordigno esplosivo, che fece crollare parte dell’edificio a due piani. Sempre di cinquanta milioni si parla il 2 febbraio del 2001, quando a saltare in aria fu il supermercato Conad, nei pressi dell’ex pretura. A causare il disastro una bomba e ben cento litri di liquido infiammabile, che distrussero ciò che la bomba aveva risparmiato. Gli ingenti danni e l’incendio che poi si sviluppò evidentemente convinsero il titolare, che versò nelle tasche del clan Bullone l’intera somma.Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, la bomba esplode davanti al supermercato ‘Gum’. Gran parte della merce è irrecuperabile, il danno ingente. Sulla vicenda non pesa la richiesta di denaro: gli inquirenti non si sbilanciano sulla somma richiesta, ma appare chiaro il legame con gli altri fatti dei mesi e degli anni passati. Di Emidio ha bisogno di rinforzare il suo controllo del territorio, e lo fa anche attraverso queste operazioni. Che seminano il panico tra i commercianti, aumentano a dismisura il suo potere sulla popolazione e gli permettono di entrare in possesso di discrete somme di denaro, soldi che possono sempre servire ad un gruppo malavitoso particolarmente efferato come quello di Di Emidio.Giusto un mese dopo, il 23 marzo, brucia la concessionaria di Bruno Antelmi: due taniche di liquido infiammabile e il solito, immancabile ordigno causano seri danni. Molte macchine parcheggiate all’interno del perimetro di recinzione della concessionaria sono seriamente e irrimediabilmente danneggiate. La richiesta, in questo caso, era di trenta milioni di lire, dicono gli investigatori. Il 23 marzo è la notte in cui altri due esercizi commerciali ubiscono danneggiamenti: si tratta anche in

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questo caso di un supermercato, il ‘Centergross’, che si trovava nei pressi della zona industriale, e della concessionaria di motociclette ‘Zuccaro moto’, In entrambi i casi un ordigno esplosivo causa non pochi danni.In alcuni casi, Di Emidio fu solo il mandante degli attentati seguite alle richieste estorsive. A piazzare le bombe furono, secondo gli inquirenti, soggetti che tuttora sono sconosciuti. In altri casi, invece, fu proprio il temuto boss a prendersi la responsabilità di piazzare gli ordigni. Comunque gran parte degli episodi in questione furono commessi durante la latitanza di Di Emidio che, seppure nascosto, non aveva la minima intenzione di abandonare l’azione.Una carriera criminale di tutto rispetto, quella di Vito Di Emidio. Costellata soprattutto di omicidi. Morti che servivano a rafforzare il suo potere all’interno dell’organizzazione criminale, a raggiungere i suoi obiettivi, a farsi temere dagli amici e dai nemici. Gli inquirenti hanno tentato di ricostruire il curriculum di Bullone e sono arrivati ad una conclusione: Di Emidio, il super collaboratore di giustizia, a Brindisi deve rispondere di dodici omicidi e quattro tentati omicidi.Comincia giovanissimo: a 19 anni, l’11 ottobre del 1986, uccide Francesco Guadalupi, presidente di Assindustria di Brindisi e titolare dell’omonimo stabilimento di pastorizzazione del latte, da tutti conosciuto come ‘don Ciccio’. Un colpo secco di lupara, poi la fuga insieme al complice. La rapina che aveva progettato finì nel sangue e quello fu il suo battesimo del fuoco. Un mistero risolto dopo 15 anni, solo quando Di Emidio accettò di rivelare agli inquirenti tutti i particolari della sua tragica carriera di assassino.Era il fiore all’occhiello dell’imprenditoria brindisina. Guadalupi, negli anni ’70 e ’80, era sinonimo di latte. E’ quindi comprensibile l’angoscia e lo sconcerto che la sua morte violenta seminano a Brindisi. Tanto più se si rileggono i fatti di quegli anni alla luce di quello che si sa oggi. Quell’omicidio fu il primo di una lunga serie, l’entrata in scenma del killer detto ‘Bullone’.Allora diciannovenne, Vito Di Emidio aveva tentato di portare a termine una rapina all’interno dello stabilimento al rione Casale. Sono le prime ore del pomeriggio dell’11 ottobre 1986, Francesco Guadalupi – presidente dell’Assoindustria brindisina, titolare dell’omonimo stabilimento di pastorizzazione – è all’interno dell’azienda quando si trova davanti il giovanissimo killer. Di Emidio, forse a causa dell’inesperienza, appena lo vede gli scarica addosso con la sua lupara una rosa di pallini all’addome. Don Ciccio si accascia. Di Emidio scappa.E’ l’inizio di una lunga agonia per l’imprenditore, che morirà poi il 30 novembre. E’ l’inizio, invece, per Di Emidio di una lunga carriera malavitosa che, infatti, il 31 agosto 1991, insieme a Francesco Marrazza, in seguto deceduto, uccide Vincenzo Zezza. Un omicidio, dicono gli inquirenti, portato a termine per <<agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso localmente denominata Sacra corona unita>>. Stessa motivazione del tentato omicidio, avvenuto il 15 novembre del 1994, di Pasquale Orlando: un regolamento di conti tra clan rivali all’interno della Scu.

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Poi, nel 1996, gli omicidi di Casale e Rosselli, portati a termine con l’aiuto di Tedesco, Giglio e Orlando. Il 5 marzo del 1997 a San Michele Salentino, viene ucciso Michele Lerna, vittima di una rapina, raggiunto da numerosi colpi di una mitraglietta mentre si trovava nella propria camera da letto. Il 26 giugno del 1998, l’omicidio che è alla base della morte di Giuliano Maglie: a Brindisi viene ucciso Salvatore Luperti, membro di un clan rivale a capo del quale vi era il fratello, Tonino Luperti.Nicola Petrachi, contrabbandiere di sigarette, viene ucciso il 22 gennaio del 1999, sempre a Brindisi: si era rifiutato di pagare la tangente sui carichi di sigarette di contrabbando. Pochi mesi più tardi, servendosi di Tedesco, condanna a morte Giuliano Maglie, temendo che il giovane fosse a Bar per ucciderlo. Maglie, infatti, faceva capo al clan di Tonino Luperti, e molto probabilmente era stato spedito in Montenegro per vendicare la morte di Salvatore.Pochi mesi dopo, nel settembre dello stesso anno, viene sequestrato e ucciso Giovanni Maniglio, autista della Stè, legato al clan Buccarella. Per giorni non se ne saprà niente, il 24 settembre il suo corpo senza vita viene ritrovato in un pozzo nelle campagne tra Brindisi e San Vito. Responsabili di quella morte sono Di Emidio e Fabio Maggio. Sempre ad un tentativo di stabilire la propria superiorità e sempre da parte degli stessi soggetti, è da attribuirsi l’omicidio di Antonio De Giorgi, legato al clan di Maurizio Coffa, avvenuto lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Maniglio. E’ in ato una vera e propria guerra tra clan per la supremazia del territorio e il controllo di quella che è ormai la quarta mafia, la Sacra corona unita.Quella stessa sera, Maggio e Di Emidio tentano di uccidere il vice brigadiere Vincenzo Messina e il carabiniere scelto Massimiliano Bauco, in servizio a San Vito, mentre si trovavano a passare per un posto di blocco disposto dai militari.Il 12 luglio del 2000 Bullone uccide Tonino Luperti, capo dell’omonimo clan, sospettato di voler ammazzare il proprio fratello, e ferisce Giovanni Lonoce, che si trovava alla guida della vettura sulla quale era anche Luperti. Ultimo omicidio, in ordine di tempo, quello di Giuseppe Scarcia, stalliere di Buccarella, sequestrato e ucciso a colpi di pietre, e poi finito con un colpo di pistola.Questo dicono i capi di imputazione che si riferiscono a Vito Di Emidio. Almeno per quanto riguarda il versante brindisino. In territorio leccese, Bullone ha ugualmente lasciato una lunghissima scia di sangue, della quale dovrà prima o poi rendere conto. Comunque la intensa carriera malavitosa viene interrotta verso la metà del 2001, quando prende la decisione di collaborare con la giustizia e svelare i misteri sui fatti di sangue.Non ci sono solo nomi della malavita che ricorrono nell’attività criminale di Vito Di Emidio. Estorsioni ed intimidazioni erano all’ordine del giorno anche nei confronti di altri personaggi, soprattutto imprenditori brindisini.Così tra aprile e maggio 2001, Bullone chiede soldi agli imprenditori Vincenzo Romanazzi e Pasquale Giurgola. <<Al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso Sacra corona unita>>, scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare

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con la quale manda in carcere Tedesco, Orlando e Giglio. Trenta milioni di lire ciascuno è la richiesta, avanzata con minacce, ai due imprenditori. Il tentativo di estorsione ha esiti differenti: Romanazzi paga, Giurgola no, dimostrando che c’è chi riesce a dire no al sanguinario Di Emidio.A confronto con omicidi, traffico di droga e attentati, i reati minori di cui deve rispondere Bullone sembrano quasi delle ragazzate. E invece sono il segnale che il vero e temutissimo padrone a Brindisi, era proprio lui. E’ lui che controlla l’affare delle estorsioni agli imprenditori, quelli edili soprattutto, come dimostra il caso della richiesta estorsiva a Francesco Morleo, oggetto di una prima richiesta di due milioni e mezzo di lire, nell’aprile del 2001, e poi trenta milioni, circa venti giorni dopo. Kalashnikov in mano Di Emidio cercava di farsi consegnare i soldi mediante le solite minacce.Le richieste di denaro avvenivano anche all’interno dell’organizzazione mafiosa di cui Di Emidio faceva parte: nel primi mesi del 2001 chiese 140 milioni dilire a Damiano Torsello, dedito al contrabando di sigarete, minacciando di ucciderlo se non avesse acconsentito alla richiesta.Poi, negli anni, decine di episodi minori, che avevano in particolare come obiettivo le autoveture di soggetti indesiderati. Come nel mcaso dell’auto di Giovanni Faggiano, incendiata e distrutta nel 2001 perché si pensava appartenesse all’avvocato di fiducia di Di Emidio, Daniela Faggiano. O in quello di Achille Zonno, che tra il dicembre del 1993 e il gennaio del 1994 si vide sottrarre la proprio Alfa Romeo 164: costretto poi a corrispondere la cifra di dieci milioni di lire per riaverla indietro. (15)

Acque poco chiareCorruzione, falso e lottizzazione abusiva: 8 indagati e l’intero complesso turistico-alberghero di ‘Acque Chiare’ del costruttore Vincenzo Romanazzi sotto sequestro dal 29 maggio 2008 a causa di un iter autorizzativo viziato nei suoi passaggi strategici da elargizioni di denaro per 150mila euro. Comincia così l’estate brindisina, con un blitz del Nucleo di polizia tributaria; è l’impatto più pesante di questa indagine che coinvolge ancora una volta l’ex sindaco Giovanni Antonino, lo hanno subito i 173 proprietari di ville e gli altri 54 promessi acquirenti di fatto buttati fuori. Anche se gli accertamenti sulla stipula dei rogiti è in pieno svolgimento e la buona fede di chi ha comprato dal 2006 ad oggi non è scalfita.Ma il nocciolo della storia di questo villaggio a pochi chilometri da Brindisi, sulla litoranea per Apani, sta proprio nella vendita delle ville. Nato da un ‘accordo di programma’ tra amministrazione civica, Regione e Romanazzi, ratificato il 25 agosto 1999 dal Consiglio comunale, sulla base delle deroghe concesse dalle leggi regionali 34/94 e 8/98 e di una variante al Piano regolatore, il progetto aveva precisi vincoli. tra questi, la non alienabilità frazionata del lotto C, quello che comprende le 227 ville e l’albergo. Il complesso, con le sue piscine, centri commerciali e di divertimento, la spiaggia attrezzata ed i servizi sportivi dovevano essere destinati esclusivamente alloo sviluppo turistico e agli incrementi occupazionali nel settore (77 unità, per la precisione). Una griglia di condizioni confermata dalla convenzione attuativa del 9

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febbraio 2001, passata anche in Consiglio. Ma – sostengono gli investigatori – già dal 4 maggio 2001 il costruttore Romanazzi impugna davanti al Tar la clausola che blocca la vendita frazionata delle ville. Poi avrebbe congegnato assieme al sindaco pro-tempore, Antonino, una seconda convenzione attuativa, quella del 27 agosto 2002 – non portata in Consiglio – che modificò le regole del gioco e rese le ville cedibili una ad una a partire da cinque anni dalla prima convenzione. Il notaio che in seguito stipulerà i rogiti, Bruno Cafaro, stando alle intercettazioni telefoniche riceveva precise istruzioni da Romanazzi. Antonino invece, per sua stessa ammissione, avrebbe ricavato ‘utilità’ dall’appoggio all’operazione.Ma nelle 30 pagine di interrogatorio (quello del 9 marzo 2003) riportato anche nel decreto di sequestro, firmato dal gip, l’ex sindaco non ammette la circostanza della corruzione: Romanazzi avrebbe solo appoggiato le sue campagne elettorali, finanziato la Brindisi Calcio e si era parlato di un aiuto anche per la squadra di basket. Nel calderone entrano il segretario generale del Comune, Giovanni Battista De Cataldo, il dirigente dell’Ufficio urbanistico, Carlo Cioffi, il direttore dei lavori Severino Orsan. Giovanni Matichecchia, responsabile della Sovraintendenza di Bari per la pratica ‘Acque Chiare’, e un altro tecnico, l’ostunese Domenico Sasso, che secondo pm e Finanza firmò una consulenza che sarebbe servita solo a far giungere soldi allo stesso Matichecchia. (31)

FOGGIARapporto della Questura – 16 maggio 2008Nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’annuale festa della polizia, sono stati diffusi i reati relativi al 2007 confrontati con il 2006, e quelli del primo quadrimestre del 2008 rapportati allo stesso periodo del 2007.

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Nel 2007 ci sono stati 26 morti ammazzati (il dato diffuso dalla Questura parla di 22 omicidi perché non tiene conto di un caso di legittima difesa e dei tre garganici morti nel rogo di Peschici di luglio, considerato che si procede a carico di ignoti per omicidio col dolo eventuale), contro i 6 del 2006. A fronte di 26 morti ammazzati, 12 i casi scoperti. I tentativi di omicidio sono stati 35 contro i 27 dell’anno precedente, l’80 per cento dei quali scoperti. Gli omicidi colposi nel 2007 sono stati 21 contro i 22 del 2006; 2850 i casi di lesioni dolose, percosse, minacce e ingiurie contro i 2373 del 2006. I reati denunciati nel 2007 sono stati 30113 contro i 25233 dell’anno precedente, con il 23 per cento dei casi scoperti. Un capitolo a parte meritano i furti, visto che rappresentano un reato su due commessi in città e provincia. Sono stati 15693 nel 2007 contro i 12987 del 2006: soltanto 480 i casi risolti, pari al 3 per cento. I furti d’auto sono saliti dai 3743 del 2006 ai 4431 del 2007 (manca il dato sui casi scoperti). <<Molte di queste auto rubate vengono poi rinvenute dai proprietari, e spesso si tratta di restituzioni dietro il pagamento di modeste tangenti, – è stato il commento del Questore – perché si preferisce pagare dai 500 ai 2000 euro piuttosto che denunciare il ricatto subito col rischio che la macchina venga bruciata>>. Nel 2007 ci sono state 480 rapine (comprese 32 in banca e 143 in esercizi commerciali) a fronte delle 408 dell’anno precedente: le statistiche parlano di 135 casi risolti, in pratica il 28 per cento. Nel 2007 sono state denunciate 170 estorsioni contro le 140 del 2006: in 95 casi (pari al 56 per cento) si è arrivati ad individuare i ricattatori.Se il raffronto tra il 2006 e il 2007 è in negativo, va meglio il dato dei reati relativo al primo quadrimestre del 2008 rispetto allo stesso periodo del 2007. Gli omicidi sono stati 4 contro 5; 10 i tentativi di omicidio contro 9; 5 gli omicidi colposi contro 7; 695 i casi di lesioni dolose, percosse, monacce e ingiurie contro 880; 4166 i furti complessivi (contro 4856) e in particolare sono stati 947 i furti di auto a fronte dei 1429 dello stesso periodo del 2007. Le rapine sono calate da 209 a 145 (9 in banche e 40 in esercizi commerciali). Stazionario il numero delle denunce per estorsione: 47 a fronte delle 48 del primo quadrimestre del 2007. Il totale dei reati denunciati nei primi quattro mesi del 2008 è 6068 contro 7524.Quanto agli arresti sono stati complessivamente 156 nel 2007, mentre i denunciati a piede libero sono stati 9664. Altri dati riguardano le 11319 richieste d’intervento giunte al ‘113’ nel 2007 (erano state 10689 nel 2006); le 133.175 persone identificate; 55 gli avvisi orali, 129 le proposte di sorveglianza speciale, il sequestro di beni per un valore di 700mila euro, il rilascio di 9426 passaporti, di 761 porti di fucile per uso caccia, di 8486 permessi di soggiorno. Come abbiamo potuto constatare, le note positive afferiscono ad un numero più contenuto di reati nel primo quadrimestre del 2008, rispetto allo stesso periodo del 2007; l’azzeramento dei vertici della mafia foggiana; un controllo del territorio perfezionato. Le note dolenti: telecamere promesse e non installate; enti locali e associazioni di categoria quasi mai parte civile nei processi alla mafia e al racket; fenomeni, quali l’usura, che fanno registrare cifre ai minimi termini (solo 2 casi nel

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2007), a fronte di un dato molto più preoccupante ma che non emerge per mancanza di denunce delle vittime; una sicurezza partecipata che lascia ancora a desiderare, perché ci sono reati che se non vengono denunciati, non si possono certo combattere.Il Questore, nel corso della conferenza stampa, ha ribadito la volontà delle forze dell’ordine di non abbassare mai la guardia perché si opera in una realtà ad alta densità criminale. Non a caso il 2007 è stato un anno duro, con una ripresa degli omicidi e rapine, nonostante tutto questo, risposte ci son state sotto forma di arresti, di operazioni anticrimine importanti. I dati relativi al primo quadrimestre 2008 lo confermano, perché, come pure abbiamo già letto, si registrano meno reati su tutti i fronti rispetto allo stesso periodo del 2007.E’ vero, c’è stata la serrata dei commercianti della città con la chiusura dei supermercati per il rischio rapine; i ripetuti allarmi anche di addetti ai lavori sulle persone vittime di strozzini; il racket che opera sotto traccia.Ha risposto il Questore sottolineando la necessità che tutti partecipino a questa sicurezza, denunciando, per esempio, quando si subisce o si assiste ad un reato. Arresti se ne fanno (è sempre la risposta del Questore). A febbraio 2008, ha ricordato, l’operazione ‘Praedator’ ha portato all’arresto di 17 persone per 10 colpi in banca. Ha poi ricordato che la Capitanata è la principale esportatrice di rapinatori in tutta Italia, decine di cerignolani arrestati per aver svaligiato banche in tutta ItaliaQuanto poi alle estorsioni e all’usura il Questore ha detto: <<il primo passo per la conoscenza di questi reati è la denuncia. Se il cittadino non collabora, e penso soprattutto ad un fenomeno sommerso come l’usura, noi forze dell’ordine non possiamo nulla...>> <<anche se sul fronte della lotta alle estorsioni ricordo il blitz ‘Osiride’ contro la mafia del caro estinto, l’operazione ‘revolution’ che ci ha consentito di filmare prima e arrestare poi tre telefonisti del racket>>. (23) Gioco d’azzardo Intanto in Capitanata si spara. Il 15 marzo 2008 viene ferito con una fucilata alle gambe, davanti al circolo ricreativo che gestisce in pieno centro cittadino, Nicola Bevilacqua, 46enne pregiudicato cerignolano. L’uomo è stato ricoverato con prognosi di 15 giorni. Non ha fornito agli inquirenti elementi utili per l’identificazione dello sparatore (che peraltro avrebbe agito a volto scoperto), ma secondo indiscrezioni i carabinieri conoscono l’identità di chi ha compiuto l’agguato e lo stanno ricercando attivamente.Pare che all’origine dell’agguato potrebbe esservi una discussione avvenuta qualche giorno fa tra il Bevilacqua e l’uomo che gli ha poi sparato. Probabilmente per motivi di interesse legati al gioco o all’attività del ferito che formalmente non è il titolare del circolo ricreativo anche se di fatto e notoriamente lo gestisce.Di certo c’è che lo sparatore solitario non ha sparato per uccidere. Vi sarebbero infatti tutti i connotati di un’ira covata per un po’ di tempo che poi è esplosa dapprima con il colpo di fucile a canne mozze, ma caricato con cartucce a pallini, sparato contro la porta d’ingresso del circolo, nella convinzione che ciò avrebbe certamente richiamato

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di fuori il Bevilacqua. E poi con il secondo colpo di fucile esploso verso il basso, con l’intenzione di gambizzare l’uomo e di non ammazzarlo.Una volta ferito il suo bersaglio per l’uomo armato di fucile sarebbe stato, infatti, semplice ed agevole far fuoco ancora. Messa a segno la spedizione punitiva, chi ha sparato si è allontanato senza infierire, mentre già stavano arrivando sul posto l’ambulanza ed i carabinieri. (7)

Droga e armiAll’alba del 27 marzo 2008 i carabinieri del reparto operativo di Foggia facevano scattare l’operazione Shadow con l’emissione di 19 ordinanze di custodia cautelare spiccati dal gip di Bari su richiesta dei pm della Dda (18 eseguite, ci sono anche 8 donne).Per il vero, nelle indagini per catturare il presunto ‘consigliere’ del clan mafioso Ciavarella, hanno scoperto non solo la fitta rete di favoreggiatori che proteggevano la latitanza di Michele Ciavarella, ma anche un’attività di spaccio di droga che proseguiva anche dopo lo smantellamento del gruppo con l’arresto dei fratelli Matteo e Marco Ciavarella.Le ordinanze di custodia cautelare contengono le accuse a vario titolo di spaccio di droga (192 gli episodi contestati a 6 indiziati) e favoreggiamento della latitanza di Michele Ciavarella, il tutto con l’aggravante delle finalità mafiose. I fatti contestati risalgono al 2005. In concomitanza con l’esecuzione dei provvedimenti di cattura, sono state eseguite perquisizioni che hanno portato all’arresto in flagranza di un presunto spacciatore, marito di una delle donne arrestate nel blitz.La maxi-inchiesta sulla mafia garganica dimostra – nell’ottica accusatoria – come la famiglia Ciavarella, coinvolta nella faida con i compaesani Tarantino contrassegnata da 15 omicidi dall’81 ad oggi, sia poi diventato un clan mafioso che comandava nella zona di San Nicandro, occupandosi principalmente di droga e alleandosi con il ‘clan dei montanari’ riconducibili alle famiglie manfredoniane Libergolis e Romito. Al vertice del clan ci sarebbe Matteo Ciavarella, già condannato all’ergastolo per alcuni omicidi collegati alla faida sannicandrese.Un ruolo di primo piano nel clan lo avrebbe svolto lo zio Michele Ciavarella detto <<la vacca>>, che nel maxi-processo alla mafia garganica è stato condannato in primo grado a 4 anni per mafia ed assolto dalle accuse di traffico di droga, tentata estorsione e dell’omicidio di Luigi Tarantino, assassinato nel settembre 2003.La cattura di Michele Ciavarella nell’ambito dell’inchiesta sulla mafia garganica fu disposta il 22 aprile del 2005, ma il garganico si diede alla latitanza conclusasi due mesi più tardi il 26 giugno, i carabinieri lo catturarono sul Gargano.Ed è in questo scenario che si inserisce l’operazione Shadow. E’stato detto dai carabinieri e dalla Dda: <<Nel corso delle indagini finalizzate a catturare Michele Ciavarella abbiamo accertato come suoi familiari e persone a lui vicine gli fornissero aiuti, supporto logistico e ogni sorta di assistenza per favorirne la latitanza>>. In questo caso non ci si trova davanti a semplice attività di favoreggiamento, perché gli

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aiuti al ricercato <<si giustificavano e trovavano una loro logica criminale nella necessità di garantire, attraverso la latitanza di Michele Ciavarella e le attività illecite che conduceva in prima persona, l’indispensabile assistenza finanziaria e il pagamento delle spese legali ai componenti del gruppo già detrenuti>> per essere stati arrestati tra il novembre 2003 e il giugno 2004. Dalle intercettazioni telefoniche attivate per la cattura del latitante sarebbe inoltre emersa <<una florida attività di spaccio di droga da parte di una mezza dozzina degli attuali indagati. Spaccio portato avanti sia autonomamente da alcuni indagati sia in collaborazione con lo stesso Michele Ciavarella che avrebbe immesso sul mercato droga acquistata direttamente durante la sua latitanza. Le accuse si basano anche sulle dichiarazioni di alcuni pentiti.<<Ci sono costanti riscontri – spiegano i carabinieri – in materia di droga che dimostrano la reiterazione dell’attività di spaccio da parte di alcuni indagati. C’è poi il tentativo di Michele Ciavarella, durante un breve periodo di libertà, di ripristinare contatti con vecchi presunti complici, il che denota il pericolo di una riorganizzazione del clan. Non va infine dimenticata la recrudescenza della faida Ciavarella/Tarantino con l’omicidio di Michele Di Monte, imparentato con i Tarantino, ucciso il 12 settembre 2007 e il duplice omicidio dei coniugi Michele Cursio e Giuseppina Fratarolo, parenti del Ciavarella, ammazzato il 10 novembre 2007>>. (12)

*Perché si abbia un’idea di quello che produce il truce commercio dei tanti Ciavarella in termini di lacerazione sociale e di vero e proprio attentato alla salute di intere comunità, richiamiamo la mappa tracciata dai Sert sul consumo delle sostanze stupefacenti nell’intera provincia. La relazione prende a riferimento gli anni 2001 e 2005. Il primo dato riviene dal rapporto tra il numero degli utenti in carico, ogni anno, e la popolazione residente di età compresa tra i 19 e i 54 anni, dove si registrano 52 utenti ogni 10mila persone, a fronte dei 55 registrati nel 2001. Per quanto riguarda l’incidenza dei nuovi utenti si dimostra più elevata nei servizi localizzati negli ambiti di Margherita (38,4%), Cerignola (36,9%), San Marco in Lamis (35,5%), Lucera (31,9%), Troia (30%). Nel 2005, la maggior parte degli utenti ha ricevuto trattamenti per utilizzo di eroina (dal 73,5% del 2001 al 62,5% del 2005). E’ aumentata, invece, la percentuale di utenti che hanno ricevuto trattamenti per uso di cocaina (dal 12% al 19,2%) e per cannabis (dal 12,5% al 14,2%).Questi due ultimi dati evidenziano una peculiarità della Capitanata rispetto alle tendenze nazionali: un maggior utilizzo di cocaina e cannabinoidi. Se si considerano tutti i parametri (abuso primario o secondario), la percentuale di utenti di cocaina sale al 52%.La cocaina è la prima sostanza di abuso primario tra gli utenti del Sert di Cerignola (57%) e San Severo (27%). La quota più elevata di eroinomani si riscontra nel Sert di

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Manfredonia (96%) e Vico (77%). Quella di consumatori di cannabinoidi nei Sert di San Severo (21%) e Margherita di Savoia (19%).Per quanto riguarda l’uso di cocaina le incidenze più elevate, al di sopra delle medie provinciali, si riscontrano nei Sert di Cerignola (86%), Manfredonia (71%) e San Severo (60%). I maschi rappresentano il 96% dei soggetti in carico. Nel 2005, il 43% degli utenti è risultato avere una età pari o superiore ai 35 anni. Un’incidenza aumentata progressivamente nel corso degli anni. L’incidenza degli ‘anziani’ sale se si considerano separatamente gli utenti già in carico: tra questi la fascia più rappresentata è quella delle persone di età compresa tra i 35 e i 39 anni (26,2%); se consideriamo nell’insieme gli utenti già in carico di età superiore o pari ai 35 anni l’incidenza sale al 50%.Tra i nuovi utenti la fascia di età più rappresentativa è quella dei soggetti di età compresa tra i 25 e i 29 anni (28%). Nei Sert di Manfredonia, Foggia e Vico l’incidenza degli anziani supera il 50% del totale.Il ricorso al trattamento risulta essere in maggior misura una scelta volontaria per eroinomani (62%) e cocainomani (48%), Tra gli utenti di cannabis, acquista invece maggiore importanza la modalità di invio legata ad una segnalazione da parte delle forze dell’ordine (46%).Nel 2005 il numero di soggetti sottoposti a trattamento di tipo psicosociale e/o riabilitativo è pari al 58,2% del totale. I soggetti sottoposti a trattamenti farmacologici sono pari al 41,8%. Rispetto al 2001 si registra un incremento dei trattamenti farmacologici e una diminuzione di quelli di tipo psicosociale e/o riabilitativo. Tra i soggetti sottoposti a terapie prevale il metadone (96,2%). Nel 2005, il 6% di un campione di 916 soggetti testati è risultato positivo al test Hiv con una maggiore incidenza degli utenti già in carico (7,2%) rispetto ai nuovi utenti (1,2%). Le incidenze più elevate di sieropositivi si è registrata nel Sert di Lucera (18,5%), San Marco in Lamis (13,2%) e Vico (10,3%).Su 954 soggetti testati per l’epatite “B” e 928 per l’epatite “C”, sono stati riscontrati casi di sieropositività nel 25,2% e nel 49% dei casi. In entrambi i casi è risultata maggiore l’incidenza degli utenti già in carico rispetto ai nuovi sul totale (31,4% per l’epatite “B”, 51,4% per l’epatite “C”). (10)

*E tanto per restare in tema riferiamo sul processo “Chimera”. Un’assoluzione e 21 condanne per complessivi 92 anni e 8 mesi di reclusione nel processo ‘Chimera’ a 22 foggiani accusati a vario titolo di traffico e spaccio di cocaina, con pene che oscillano da un minimo di 3 anni e 4 mesi ad un massimo di 8anni. La sentenza di primo grado è stata pronunciata il 21 giugno 2008 dal gup di Bari al termine del giudizio abbreviato chiesto dalla maggior parte dei 28 imputati per i quali il 2006 la Dda aveva chiesto il rinvio a giudizio.

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Il reato più grave di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio è stato escluso per 9 imputati e ritenuto sussistente per altri 8 tra cui i fratelli Ciro e Paolo Novelli i più noti dei 22 foggiani, in attesa di giudizio, per il loro spessore criminale, per il loro presunto coinvolgimento nei giri di droga , per essere figli del sorvegliato speciale Pasquale Novelli, assassinato nel luglio del 2002nell’ambito di una guerra di mafia.Questo il verdetto: Giuseppe Caggiano, 8 anni per traffico e spaccio di cocaina, pur con l’esclusione d’essere uno dei promotori dcel clan dei trafficanti; 8 anni per Ciro Novelli per traffico e spaccio con esclusione dell’aggravante d’essere il capo del clan; a 5 anni e 8 mesi sono stati condannati, Alfonso Capotosto, Mario Esposito, Vincenzo Guerrieri, Paolo Novelli, Antonio Paciello, Michele Piserchia; 4 anni per spaccio a Francesco Cianci, con assoluzione dal traffico; Gianluca Vittozzi, 4 anni per due episodi di spaccio con l’assoluzione dall’accusa di traffico di stupefacenti; 3 anni e 4 mesi a: Antonio Aquilino, Mauro Bevilacqua, Antonio Giacomo Caiaffa, Antonio e Fabio Lioce, Lorezo Pignatiello, Pompeo Roseto, Massimiliano Sassone, Raffaele Sbarra e Luigi Speranza; assolto e scarcerato dagli arresti domiciliari Alessandro Brun, imputato di un singolo episodio di spaccio.Il blitz ‘Chimera’ della Dda e della Squadra mobile foggiana scattò all’alba dell’11 novembre del 2006 con l’arresto di 24 foggiani (20 in carcere e 4 ai domiciliari), al termine di indagini basate su intercettazioni telefoniche. L’accusa originaria ipotizzava l’esistenza <<di una complessa organizzazione di spacciatori operante in quattro squadre tutte collegate tra loro>> e ritenute vicine ad un clan mafioso. I quattro microgruppi che interagivano tra loro alternandosi nello spaccio in modo da consentire di soddisfare sempre le richieste di cocaina dei clienti che si rivolgevano ora a una squadra ora ad un’altra.Un riscontro alle intercettazioni telefoniche - andate avanti dal lugliop all’ottobre del 2006 – era rappresentato nell’ottica accusatoria da una serie di arresti in flagranza per spaccio e dal sequestro di modeste quantità di cocaina. L’ndagine, poi sfociata nel bltz ‘Chimera’, era partita nel luglio 2006 per catturare un mafioso ricercato; erano stati posti sotto controllo i telefoni di alcuni presunti fiancheggiatori ed era emerso invece il giro di spaccio di cocaina. (10)

*Nello stesso alveo l’operazione <<Carpe diem>> che il 9 aprile 2008 si è concretizzata con la sentenza della prime sezione del Tribunale di Foggia che ha deciso per cinque assoluzioni e cinque condanne a complessivi 24 anni e 2 mesi a 10 foggiani accusati a vario titolo di traffico e spaccio di cocaina e tenta estorsione. Ha disposto anche come pena accessoria – che scatterà soltanto se la condanna dovesse essere confermata nei successivi gradi di giudizio – la chiusura del noto locale ‘Carpe diem’ il cui gestore dell’epoca, Lorenzo Zinco, è stato condannato a 7 anni e 6 mesi, la pena maggiore inflitta.

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Il blitz antidroga di carabinieri e Dda, che prese il nome proprio dal locale ritenuto luogo di summit e per sniffare cocaina, scattò il 6 febbraio del 2004 con 18 arresti. L’inchiesta contava 26 imputati: 4 furono prosciolti durante l’udienza preliminare, 12 giudicati con rito abbreviato (10 condanne e 2 assoluzioni), 10 rinviati a giudizio e processati dai giudici foggiani.Ai vertici del presunto traffico di cocaina sull’asse Foggia-Cerignola ci sarebbe il mafioso Giuseppe Spiritoso detto ‘Papanonno’, condannato a 12 anni in appello con rito abbreviato per traffico di droga con assoluzione dal tentativo di estorsione al titolare di una ditta di legname. Intorno a Spiritoso – dice l’accusa – c’erano vari complici che lo aiutavano nell’illecito traffico.I giudici hanno inflitto, come abbiamo già riferito, 7 anni e 6 mesi a Lorenzo Zinco, riconosciuto colpevole di traffico di cocaina e di una serie di episodi di spaccio, con assoluzione per altri episodi di spaccio; inflitti 6 anni e 10 mesi di reclusione a Franco Benvenuto D’Avino, noto commerciante di carne, riconosciuto colpevole di traffico di cocaina e di un episodio di spaccio, con assoluzione da numerose altre singole imputazioni di spaccio e dall’accusa di aver fatto da intermediario per conto di Spiritoso nell’estorsione a un commerciante di legname, dal quale il racket pretendeva il pagamento del pizzo, dopo una serie di incendi nel 2002; la stessa pena – 6 anni e 10 mesi – i giudici l’hanno inflitta a Giovanni Domenico Cibelli, condannato per traffico e spaccio di cocaina, con assoluzione da altre singole imputazioni di spaccio; Michele Menga è stato riconosciuto colpevole di un singolo episodio di spaccio e condannato a 1 anno e 6 mesi, con assoluzione da altri episodi di spaccio e soprattutto dalla più grave accusa di traffico di stupefacenti; stessa condanna per Luciano Genzano, limitatamente ad un episodio di spaccio, con assoluzione dal traffico e altri due episodi di spaccio.Assolto Michele Murani imputato di traffico e spaccio di cocaina, Alfonso Gatta e Savino Di Biase, anche loro imputati di traffico e spaccio di cocaina e, infine, assolta anche Enrica Fabbri Calandrini, compagna di D’Avino, imputata di agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti per aver messo a disposizione un locale per sniffare cocaina. (25)

*Due presunti spacciatori Ciro Novelli e Antonio D’Elia sono stati arrestati il 7 maggio 2008 dagli agenti della sezione narcotici della squadra mobile che perquisendo due box di via Napoli hanno sequestrato 60 grammi di cocaina e il necessario per confezionare le dosi. Il più noto degli indagati è Ciro Novelli, già coinvolto in vicende analoghe. Secondo i poliziotti, Novelli – nel cui box sono state rinvenute 12 dosi di cocaina custodite in un ovulo di plastica – era il rifornitore di D’Elia, spacciato al dettaglio, nel cui garage sono stati sequestrati 50 grammi di cocaina ancora da tagliare ed un paio di dosi della stessa sostanza stupefacente, già preparate.

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L’attenzione degli agenti della narcotici – per quanto riferito da fonti investigative – da qualche tempo si era concentrata su D’Elia, proprio perché ritenuto il ‘pusher’ di Ciro Novelli, considerato un elemento di un certo peso nel mondo dello spaccio della cocaina. D’Elia era stato controllato dai poliziotti in aprile 2008 e in quella occasione segnalato alla Prefettura perché trovato in possesso di una modesta quantità di hashish detenuta per uso personale. Il 6 maggio il giovane foggiano è stato fermato per un nuovo controllo, conclusosi, dopo una serie di perquisizioni, con il suo arresto. Il passo successivo della polizia è stata la perquisizione di un altro box di via Napoli che sarebe in uso a Ciro Novelli e del quale avevano le chiavi sia il presunto spacciatore che lo stesso D’Elia. In questo secondo garage rinvenute in un ovolo di plastica 12 dosi di cocaina, confezionate come le due – dice la polizia – trovate nel box di D’Elia. Ecco perché secondo la polizia i due foggiani erano soci nello spaccio.Ciro Novelli è figlio di Pasquale assassinato la sera del 25 luglio 2002 nell’ambito della guerra di mafia tra i clan Sinesi-Francavilla e Trisciuglio-Prencipe al quale era ritenuto vicina la vittima. Ciro Novelli è stato coinvolto in un paio di blitz antidroga, oltre ad essere stato arrestato un paio di volte in flagranza per spaccio. In particolare il Novelli fu arrestato il 16 settembre 2003 nell’operazione antidroga denominata ‘Gargano’, contrassegnata da 21 arresti per due presunti distinti traffici di cocaina a Foggia e Vieste (in primo grado fu condannato a 6 anniper singoli episodi di spaccio e assolto dal più grave reato associativo). Nuovo arresto per il foggiano l’11 novembre 2006 nell’operazione ‘Chimera’ con 24 arresti, sempre per un presunto traffico di cocaina in città: per quest’ultima vicenda Ciro Novelli è in attesa di giudizio con altri 20 coimputati e il processo si celebrerà con il rito abbreviato davanti al gup di Bari il giugno 2008. (25)

*Quattro assoluzioni, due condanne per spaccio (con assoluzione dall’accusa però di aver causato la morte per overdose di un cliente) e due ‘non luogo a procedere per morte degli imputati. Si è concluso così il processo <<Pitbull>> a otto mafredoniani, coinvolti nel blitz antidroga del 5 maggio del 2007 che portò all’emissione di 22 provvedimenti di cattura. Gli imputati rispondevano a vario titolo di decine di episodi di spaccio di eroina, detenzione illegale di pistola, morte come conseguenza di altro reato (morte per overdose di Michelangelo Trimigno, manfredoniano, trovato morto nella stazione sipontina il 25 febbraio del 2006) e favoreggiamento.Il giudice monocratico della sezione distaccata di Manfredonia del Tribunale di Foggia, con sentenza del 29 maggio 2008, ha assolto l’imputato principale Salvatore Manzella, imputato di una trentina di episodi di spaccio e di dentenzione illegale di pistola. Manzella arrestato dai carabinieri il 5 maggio del 2007, è stato scarcerato. Assolta Valeria D’Alba, assolti Antonio Murgo e Matteo Paolantonio, i due imputati, detenuti agli arresti domiciliari, sono tornati in libertà.

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Condannato a 6 anni e 11 mesi Cosimo Spinelli per alcuni episodi di spaccio ma assolta dall’accusa della morte del mafredoniano, come conseguenza di altro reato. Inflitti, infine, 7 anni e 4 mesi a Temistocle Castrioti.Il cuore del processo <<Pitbull>> era rappresentato dalle intercettazioni telefoniche e ambientali che – per l’accusa – dimostravano una fitta rete di spaccio di eroina. E proprio richiamandosi a quei colloqui con termini ritenuti ‘criptici’ era stata chiesta la condanna di tutti e 6 gli imputati.Il blitz <<Pitbull>> di Procura e carabinieri scattò il 5 maggio del 2007 quando il gip del Tribunale di Foggia firmò 22 ordinanze di custodia cautelare (11 in carcere e 11 agli arresti domiciliari) per un giro di eroina, in parte spacciata anche sul molo di Manfredonia e destinata a pescatori al rientro dopo cinque giorni trascorsi in mare. La Procura aveva poi chiesto il rinvio a giudizio di 20 imputati per 1500 episodi di spaccio, per episodi avvenuti tra il febbraio e il giugno del 2006. Il processo si è poi diviso in tre tronconi. Un imputato aveva patteggiato, 8 erano stati rinviati a giudizio ed altri 11 avevano optato per il processo abbreviato davanti al gup del Tribunale di Foggia che nell’ottobre 2007 si era concluso con 11 condanne.L’imputato principale era ritenuto Salvatore Manzella, riconosciuto come uno dei fornitori degli spacciatori. A Manzella si contestava inizialmente anche l’utilizzo di un minorenne per un episodio di spaccio: da questa singola imputazione era già stato assolto nel novembre 2007. Ora è stato assolto dal ‘grosso’ delle imputazioni ed è tornato in libertà. (25)

*Che faticaccia spacciare cocaina. La stufa sempre accesa, anche d’estate, per distruggere le dosi in caso di controlli della polizia. Il conteggio delle bustine. La cocaina sepolta sotto ulivi e vigneti che talvolta non si trovava perché nessuno ricordava dove fosse stata occultata. Gli spacciatori ad alternarsi nelle 24 ore perché il cliente non rimanesse mai a mani vuote quando bussava alla villa-bunker. Sono le intercettazioni ambientali e le riprese video a raccontare il blitz <<White snake>> (serpente bianco) della squadra mobile che all’alba del 10 giugno 2008 ha portato in carcere 9 foggiani e un cerignolano, accusati a vario titolo di mafia, traffico e spaccio di cocaina, detenzione e porto di armi.Gli indagati principali sono Gianfranco Bruno, detto ‘il primitivo’, proprietario della villa-bunker di via Bari, ritenuto il covo della banda; Pasquale Moretti, al quale il padre ergastolano, Rocco, avrebbe dato in eredità le redini del clan. I due amici foggiani sono ritenuti gli emergenti del clan Moretti-Pellegrino, protagonisti (e anche vittime nel caso di Pasquale Moretti che il 16 luglio 2007 sfuggì ad un agguato) dell’ultima guerra di mafia contro i rivali del clan Sinesi, che dal maggio all’agosto 2007 ha contato un omicidio e tre tentativi di omicidio. Nella villa-bunker di Bruno, il clan Moretti non soltanto organizzava agguati contro i rivali – dice l’accusa – ma aveva messo su una centrale della cocaina, dove con la droga acquistata dai

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cerignolani veniva preparata in dosi e venduta, da una finestrella, a spacciatori e tossicodipendenti.<<La villa situata in località ‘Quadrone delle vigne’ di Bruno era la base operativa del sodalizio in cui si svolgevano le attività criminali più importanti per la vita del clan>> scrive il gip di Bari nelle 55 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare “white snake”. <<Villa che presenta caratteristiche del tutto peculiari: situata in aperta campagna, circondata da vigneti e terreni agricoli, nonché munita di un sistema di telecamere a circuito chiuso col quale venivano controllate tutte le vie di accesso (ed era rilevata immediatamente la presenza e l’avvicinamento delle forze di polizia), ulteriormente difesa da feroci cani da guardia lungo la recinzione interna ed esterna, che rendevano di fatto impossibile un blitz per sorprendere i soggetti che vi operavano. tali garanzie consentivano l’attività di spaccio senza alcun contatto telefonico preventivo, potendo gli acquirenti raggiungere la villa di Bruno e acquistare la droga al suo interno, senza alcun pericolo di controllo da parte delle forze dell’ordine>>.Gli agenti della sezione criminalità organizzata della squadra mobile hanno piazzato telecamere all’esterno della villa per vedere chi arrivava e chi usciva, dove veniva nascosta la droga nei vigneti circostanti. E sono riusciti a penetrare nel covo, piazzando microspie nel laboratorio interno alla villa <<dove i vari sodali dell’organizzazione – scrive ancora il gip – si riunivano per decidere le strategie criminali e dove provvedevano a spacciare la sostanza stupefacente>>. (25)

*I Carabinieri hanno scoperto i ‘pusher’ del presunto clan mafioso Gaeta di Orta Nova arrestando il 18 giugno 2008 18 persone. Erano quelli che – dice l’accusa – vendevano al dettaglio esclusivamente cocaina, a prezzi prefissati e con guadagni già stabiliti per evitare frizioni e contenziosi. Rivolgendosi quindi ad una clentela d’elite composta anche da Vip. Il blitz <<Millemiglia>> dei carabinieri del Reparto Operativo di Foggia, dei colleghi della Compagnia Dauna e della caserma di Orta Nova, ha portato a 26 ordinanze di custodia cautelare: carcere per 9 indagati, domiciliari per altri 9, obbligo di dimora per altre 8 persone. Complessivamente sono 32 gli indagati. Le indagini si basano su intercettazioni telefoniche e ambientali.Il gip del Tribunale di Foggia, nell’accogliere in gran parte le richieste del pm, ha anche disposto il sequestro preventivo di beni per un valore stimato dai carabinieri in 300mila euro: un maneggio, case, terreni, auto e moto che alcuni indagati avrebbero acquisito spacciando cocaina in quantità industriale, secondo l’impostazione accusatoria.Il punto di partenza del blitz è l’operazione <<Veleno>> che il 24 settembre del 2007 portò all’arresto di 52 persone a Orta Nova accusate a vario titolo di mafia, traffici di droga, ecomafia, truffe all’Inps, condizionamento della vita politico-amministrativa del paese. Al centro di quella operazione c’è il presunto clan Gaeta, accusato anche di <<controllare ad Orta Nova il mercato degli stpefacenti, adibendo allo spaccio

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manovalanza fidata>> come scrive il gip nelle pagine dell’ordinanza di custodia cautelare. Esponenti del clan Gaeta non sono stati arrestati il 18 giugno perché già accusati nell’operazione <<Veleno>> del più grave reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga: nella rete ora sono finiti i loro presunti pusher.Il blitz <<Veleno>> - di cui <<Millemiglia>> è una costola – si basa sulle dichiarazioni dei pentiti ortesi Antonio Del Nobile e Antonio Turco che avevano anche parlato delle regole dello spaccio. I Gaeta avrebbero <<imposto il monopolio nell’offerta e nella preparazione dello stupefacente, con violenze e minacce a chi tentava di rompere il regime>>; <<il divieto di spacciare eroina, vigente dal ’93 come nella vicina Cerignola, per l’inevitabile fragilità psicologica degli acquirenti, con connessi pericoli per l’impunità degli spacciatori; un prezzo imposto di 150mila lire per un grammo di cocaina, che diventavano 80mila per il mezzo grammo, un margine di guadagno prefissato sia per spacciatore al dettaglio sia per il rifornitore; una serie di luoghi topici per lo spaccio, tra cui la piazza principale del paese; le chiamate da parte dell’acquirente su numeri telefonici intestati a nomi di comodo o fittizi per rendere più difficoltosa per i carabinieri l’identificazione dello spacciatore>>.In questa cornice riassuntiva basata sul racconto dei pentiti si sono inserite le indagini della Procura e carabinieri. L’attenzione si è soffermata in particolare su Pasquale Santoro, detto ‘whisky’ e Nicola Silvestri, soprannominato ‘gamb stort’ (finiti in carcere), ritenuti tra i principali referenti del clan Gaeta. Li collega al clan mafioso <<I ripetuti colloqui tra Santoro e Silvestri – annota il gip – sui conti e gli acquisti che devono effettuare col fornitore (sarebbe Andrea Gaeta); l’utilizzo, come punto di riferimento per lo spaccio, del bar Decanter di cui è titolare la compagna di Davide Gaeta>> che non è indagata. (25) Beni per un valore stimato dalla Questura in 115mila euro sono stati sequestrati dalla polizia e dai finanzieri a Giovanni Domenico Cibelli, originario di Milano e residente a Foggia, condannato in primo grado a 6 anni e 10 mesi per traffico e spaccio di cocaina nel processo ‘Carpe diem’. Il sequestro riguarda un’auto ‘Daihatsu 32’ e l’intero pacchetto societario di attività commerciali e conti correnti bancari nella disponibilità del Cibelli per un valore, appunto, di 115mila euro. A Cibelli è stata imposta anche la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Foggia.Il sequestro di beni è una conseguenza del bltz ‘Carpe diem’ della Dda di Bari e dei carabinieri foggiani scattata il 6 febbraio dsel 2004 quando furono arrestate 18 persone (Cibelli fu posto ai domiciliari) per un giro di cocaina sull’asse Foggia-Cerignola. Principale imputato, lo ricordiamo, di quella vicenda era il mafioso Giuseppe Spiritoso, detto ‘Papanonno’ condannato a 12 anni. Cibelli è accusato d’aver custodito cocaina: in primo grado, l’8 aprile 2008, è stato condannato alla pena di cui sopra. (25)

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Un vero e proprio arsenale, in sostanza l’armeria della mala cerignolana, oltre a vario armamentario utilizzato per commettere rapine ed atti criminosi ed un sostanzioso quantitativo di cocaina e hashish. E quanto è stato ritrovato nel corso di un blitz da una task force congiunta di agenti del Commissariato di polizia di Cerignola, di carabinieri della locale Compagnia, con il supporto del reparto mobile di Bari, del reparto volo di Bari, di unità cinofile provenienti da Ancona e di unità dei Vigili del fuoco.Le forze dell’ordine hanno assediato il rione Gran Sasso, noto anche come ‘Fort Apache’, effettuando numerose perquisizioni domiciliari ed in locali pertinenti in un quartiere ad altissima densità di attività illecite quali lo spaccio di stupefacenti, le rapine e le estorsioni. L’operazione è scattata dopo che le forze dell’ordine hanno dovuto constatare una recrudescenza di episodi intimidatori ai danni di imprenditori locali (ben tre in un paio di settimane) nel corso dei quali erano state utilizzate delle armi. Ed il bltz, anche se ovviamente ciascun pezzo dell’arsenale ritrovato sarà sottoposto a perizia balistica, ha confermato che l’armeria della mala era gestita proprio dai malavitosi del Gran Sasso, un tempo roccaforte del clan Di Tommaso-Taddone.All’interno di un garage di pertinenza dell’edificio di via Gran Sasso tra i civici 2 e 12, è stata rinvenuta un’autovettura ‘Volkswagen Passat’ risultata rubata tre anni fa a Trinitapoli nella quale, in sacchi di juta, c’erano una pistola Beretta 92 S parabellum, munita di caricatore, con matricola abrasa, un fucile senza marca doppietta cal. 12 a canne mozzate, 35 cartucce per pistola calibro 9 Luger, 47 cartucce per pistola calibro 6,35 Browing, 19 cartucce per fucile calibro 16,43, cartucce per fucile calibro 12.Per quanto riguarda la droga, 211 grammi di hashish, 187 grammi di cocaina, ancora da suddividere in dosi, 13 grammi di coca in 20 dosi già confezionate. Infine, un metal detector, una paletta segnaletica simile a quella in dotazione alle Forze di Polizia ed un bilancino digitale di precisione.Nel vano alloggio ascensore del civico 22 sempre della via Gran Sasso sono stati sequestrati invece 873 grammi di hashish, costituiti da 1 panetto da 420 gr. e da 4 barrette da 100 grammi ciascuna e ulteriori 18 stecche di vario peso e un bilancino di precisione. Ed ancora: nel vano tecnico ascensore del civico 14 di via Gran Sasso è stato rinvenuto un fucile carabina marca Franchi completo di silenziatore artigianale cvalibro 22, con matricola abrasa, un fucile semiautomatico, calibro 12, senza marca con canne mozzate, 3 pistole marca Beretta modello 85 con matricola abrasa, complete di caricatore, 1 fucile mitragliatore automatico mod. T33 di fabbricazione russa con sigle XR25CJCNJ calibro 7,62 Nato, un fucile calibro 28 senza marca con matricola leggibile, un revolver senza marca e priva di matricola, una pistola marca Beretta 950 calibro 6,35 completa di caricatore e modificata con silenziatore, una pistola antica ad avancarica, 3 ottiche per fucile di precisione con relativi supporti, 2 serbatoi bifilari per fucile mitragliatore modello T33, un castello per pistola cal . 6,35 Fiocchi costituita da 2 confezioni da 50 cartucce, 150 cartucce per fucile calibro 7,62 Nato, 40 cartucce per pistola calibro 22 LR, 50 cartucce per pistola calibro 22 di

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marca ‘American Eagle’, 34 cartucce per pistola calibro 6,35 Fiocchi, 130 cartucce per pistola calibro 7,65 Browning, 100 cartucce per pistola calibro 9x21, 39 cartucce per pistola 38 special, 24 cartucce per pistola calibro 21,16, cartucce per pistola 9x19, 10 cartucce per pistola 9x17, tredici cartucce calibro 20,42 e persino una maschera da carnevale utilizzata per le rapine, 5 radio ricetrasmittenti da inserirsi sulle frequenze delle forze dell’ordine, un passamontagna, 40 cartucce per fucile cal. 12, 176 grammi dsi sostanza stupefacente verosimilmente cocaina suddivisa in tre cipollotti e tre grossi involucri sotovuoti.Ci rendiamo conto una noisa elencazione, ma abbiamo voluto essere puntigliosi e precisi perché si avesse contezza della reale forza armata di questo clan. (25) La gang del riciclaggioQuattro persone sono state arrestate l’8 aprile 2008 dai carabinieri di Cerignola in esecuzione di due ordinanze di custodia cautelare firmate dalla magistratura foggiana. L’accusa è di riciclaggio, distruzione e occultamento di prove, con l’aggravante della continuazione è stato tratto in arresto il pregiudicato Michele Cartagena,titolare di fatto della “Eurodemolizioni”, ubicata sulla statale 16 a circa tre chilometri da Cerignola in direzione Foggia.L’arresto è giunto al termine di diversi controlli, il primo dei quali risale all’agosto 2006, nel corso dei quali i militari della locale stazione avevano rinvenuto nello ‘sfascio’, numerosi autocarri o parti di essi di provenienza furtiva. Quattro diversi momenti sfociati in altrettante denunce a piede libero a carico del Cartagena (anche se la proprietà di Eurodemolizioni cambiava in continuazione, grazie a quelli che i militari considerano semplici prestanomi) che il Pm ha riunificato in un unico filone (ed ottenendo), al Gip del Tribunale di Foggia , l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Nel corso dei controlli erano risultati di provenienza furtiva ben 9 cabine di autocarri, tre cassoni, 2 gru, una cella frigorifera oltre a dieci motori, sulla cui provenienza proseguono le indagini. Gli automezzi sono risultati rubati in Abruzzo e nelle Marche e più precisamente a Porto S. Giorgio, Montesilvano, Porto S. Elpidio, S. Vito Chietino, Pescara. I delitti di mafia La provincia di Foggia si caratterizza anche per quella che una volta si definiva “faida garganica” trasformatasi poi in guerra di mafia tra le famiglie Martino di San Marco in Lamis da una parte e Di Claudio di Rignano Garganico dall’altra.Il 23 giugno 2004 scattò il blitz <<Free valley>> con 23 arresti, in concomitanza con il maxi-blitz contro la mafia garganica contrassegnato dall’emissione di 99 provvedimenti di cattura. Complessivamente sono 35 gli imputati per i quali la Dda aveva chiesto il rinvio a giudizio. In 15 furono giudicati con rito abbreviato dal gup di Bari che il 9 giugno 2006 ne assolse 3 e condannò 12 (per questi ultimi si è il 2 aprile 2008 concluso il processo di secondo grado in corte d’assise d’appello a Bari); altri 20 furono rinviati a giudizio e il processo di primo grado è ancora in corso, dal dicembre 2005, in corte d’assise di Foggia.

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Parallelo al blitz <<Free Valley>>, ma comunque estraneo alla faida tra le due famiglie, sarebbe il duplice omicidio dei coniugi Rinaldi-Mangiacotti alle porte di San Marco in Lamis la sera del luglio 2003. Marito e moglie erano in auto con i figli e tornavano a casa dal loro podere quando i killer entrarono in azione subito dopo. Da un auto fecero fuoco uccidendo Maria Rinaldi; Michele Mangiacotti scappò a piedi, ma fu inseguito e ucciso a fucilate. La Dda contesta a cinque persone, tra mandanti ed esecutori, l’accusa di concorso in omicidio collegato a rancori.I giudici della corte d’assise d’appello di Bari hanno ora assolto 3 imputati e condannato altri 9. Pena confermata – 20 anni di reclusione – per Antonio Padovano 23 anni di San Giovanni Rotondo, per il duplice omicidio dei coniugi Rinadi-Mangiacotti (in primo grado era stato assolto dall’accusa di mafia quale presunto affiliato al clan Martino). Confermati i 9 anni inflitti a Ciro Martino, 26 anni di San Marco in Lamis, imputato di mafia quale affiliato all’omonimo clan, del tentato omicidio di un rivale e di armi. Confermata la condanna a 8 anni e 4 mesi a Tommaso Martino, 42 anni, sammarchese, per mafia, estorsione e armi. Confermati anche i 5 anni per mafia a Saverio Di Claudio, 43 anni, di Rignano, quale esponente del presunto omonimo clan (in primo grado fu assolto da un duplice tentato omicio); i 9 anni sempre per mafia inflitti a Michele De Maio, 43 anni sammarchese, quale presunto affiliato al clan Di Claudio (in primo grado fu assolto da un duplice tentato omicidio); 12 anni per mafia, un duplice tentato omicidio dei rivali e furto inflitti a Tommaso Mancini, 27 anni, di Rignano, anche lui ritenuto affiliato al gruppo Di Claudio.La corte d’assise d’appello ha ridotto le pene ad altri e imputati. Severino Testa, 49 anni, sanseverese, ha patteggiato una condanna a 2 anni e 4 mesi per armi. a fronte dei 4 anni inflitti dal gup (in primo grado era stato assolto da un tentato omicidio e dall’accusa di essere affiliato al clan Martino). Angelo Martino, 40 anni, sammarchese, si è visto ridurre la pena a 2 anni e 6 mesi di reclusione per armi con l’esclusione dell’aggravante delle finalità mafiose, a fronte dei 3 anni e 4 mesi del verdetto di primo grado (quando fu assolto dall’accusa di essere un mafioso del clan Martino). Nazario Ianno, 43 anni, sammarchese, è stato riconosciuto colpevole del solo reato di detenzione illegale di una pistola e condannato ad un anno, pena sospesa; in primo grado il gup l’aveva condannato a 2 anni e 6 mesi per porto illegale di armi e assolto dall’accusa d’essere affiliato al clan Martino.Tre le assoluzioni. Leonardo Limosani, 32 anni, sammarchese, assolto dall’accusa di armi per le quali gli furono inflitti 2 anni e 8 mesi (con l’assoluzione dall’accusa d’essere affiliato al clan Di Claudio e di aver partecipato al duplice omicidio di due presunti rivali). Matteo Limosani, 43 anni, sammarchese, è stato assolto dall’accusa di mafia quale affiliato al clan Di Claudio (3 anni in primo grado). Anche Luciano Argentino, 27 anni, sammarchese, è stato infine assolto dall’accusa d’essere un mafioso del clan Di Claudio (4 anni in primo grado).Anche i giudici d’appello hanno ritenuto sussistente il reato di mafia sia per il presunto clan capeggiato da Michele Martino (per lui pende il processo in corte

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d’assise di Foggia), sia per il presunto gruppo al cui vertice ci sarebbe Matteo Di Claudio (anche lui è imputato in corte d’assise).Le due famiglie Martino e Di Claudio un tempo alleate si sarebbero scontrate – ipotizza l’accusa – sul finire degli anni Novanta e nei primi anni del nuovo secolo. Scia di sangue contrassegnata da numerosi omicidi e agguati falliti, alcuni dei quali sventati dai carabinieri. Lo scopo di questa faida trasformatasi in guerra di mafia sarebbe stato – dice l’accusa – il controllo del territorio di San Marco in Lamis e Rignano e l’alleanza con il più forte <<clan dei montanari>> riconducibile alle famiglie manfredoniane Libergolis e Romito. (20)

*La Cassazione il 12 aprile 2008 ha rigettato il ricorso della difesa, il che significa che il capo-mafia Salvatore Prencipe, si vedrà notificare in carcere un secondo provvedimento di cattura per l’omicidio di Pinuccio Laviano, il ventottenne scomparso a Foggia l’11 gennaio dell’89 nell’ambito di una guerra di mala tra il clan Rizzi-Moretti e il gruppo Laviano: il suo cadavere fu decapitato e non è stato mai rinvenuto. Precipe, che si dichiara innocente, è ritenuto uno degli amici che tradì la vittima, uccidendola e consegnando il corpo al clan rivale. Prencipe è stato condannato all’ergastolo in primo grado il 24 gennaio 2007 per l’omicio Laviano pere l’omicidio Laviano con altre 3 coimputati, ma era a piede libero dopo essere stato arrestato nel luglio 2005 e scarcerato dopo qualche settimana per insufficienza d’indizi dal Tribunale per la libertà. Prencipe, al momento della sentenza della Cassazione, è comunque detenuto perché condannato in primo grado a 13 anni e 8 mesi per traffico di droga ed estorsione nel maxi-processo Poseidon al clan Prencipe-Trisciuoglio.Giuseppe Laviano fu vittima della lupara bianca nell’ambito della prima storica guerra di mafia all’interno della “Società”, come viene chiamata la criminalità organizzata foggiana. Nella seconda metà degli anni Ottanta si fronteggiarono in città due clan: da una parte quello capeggiato dai boss Giosuè Rizzi e Rocco Moretti uscito vincente; dall’altro c’erano i fratelli Pinuccio e Nicola Laviano, sterminato dai rivali. Quella guerra di mafia fu contrassegnata da una decina di omicidi., tra cui i 4 morti della strage al circolo Bacardi del primo maggio dell’86 (Rizzi sconta 30 anni per quel massacro).Uno degli ultimi atti della guerra, fu la lupara bianca di Pinuccio Laviano. Il boss emergente era già scampato a tre agguati prima di sparire: l’11 gennaio dell’86 fu ferito in una autodemolizione di via Ascoli; l’11 marzo successivo killer, rimasti ignoti, fecero fuoco contro la porta di casa, gambizzandolo; il 14 dicembre dell’88 sfuggì ad un nuovo agguato in un bar in Macchia Gialla, nel corso del quale venne assassinato il suo amico Mario Mondelli. Vista la situazione, il Laviano decise di allontanarsi da Foggia per salvarsi la vita. L’11 gennaio dell’89 sale sull’auto guidata dall’amico Franco Vitagliani. L’intenzione era farsi accompagnare alla stazione

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ferroviaria di San Severo e da lì partire per Taranto, ma non ci arrivò mai. Da quell’11 gennaio dell’89 del giovane foggiano si persero le tracce.La svolta delle indagini arrivò l’8 luglio del 2006 quando, su ordinanza di custodia cautelare chiesta dalla Dda di Bari, la squadra mobile arrestò per l’omicio Laviano quattro esponenti di spicco della mafia foggiana: Rocco Moretti, detenuto ininterrottamente dal luglio dell’89; il suo fedelissimo Vito Bruno Lanza; Franco Vitagliani e appunto Salvatore Prencipe. Secondo la tesi accusatoria, basata sulle dichiarazioni del pentito napoletano Antonio Riccardi e dal pentito foggiano Antonio Catalano, Vitagliani e Prencipe amici di Laviano lo avevano tradito per salvarsi la vita e non essere a loro volta uccisi dal gruppo Moretti. Il prezzo del tradimento fu quindi la vita dell’amico: Vitagliani andò a prendere in auto Laviano sotto casa per portarlo a San Severo, sull’auto prese posto anche Prencipe e i due uccisero (a sparare sarebbe stato Vitagliani) l’amico, consegnando il cadavere a Moretti e Lanza ritenuti i mandanti dell’omicidio. Il corpo fu decapitato e nel corso di un summit, svoltosi nel gennaio 89 in un podere di Foggia, Moretti avrebbe mostrato – dice l’accusa – la foto che lo ritraeva con la testa mozzata di Laviano. Il 24 gennaio 2007 la Corte d’Assise di Foggia ritenne attendibile il pentito Riccardi, mentre bollò di inattendibilità il pentito Catalano e condannò all’ergastolo i 4 imputati. In particolare Riccardi ha raccontato d’aver partecipato al summit nel quale Moretti e Lanza mostrarono la foto, summit al quale avrebbe preso parte anche Prencipe che gli venne presentato con un altro nome (Ciro) e gli fu indicato come uno di quelli che avevano tradito il Laviano.Salvatore Prencipe, come accennato, si vide notificare in carcere l’8 luglio del 2005 uno dei quattro provvedimenti di cattura per l’omicidio. Il 2 agosto successivo il Tribunale della libertà di Bari accoglieva il ricorso e scarcerava Prencipe (che rimase comunque in cella per altra causa) per insufficienza d’indizi. Contro quella decisione, il pm della Dda presentò ricorso in Cassazione che il 15 dicembre del 2005 annullò il provvedimento di scarcerazione e ordinò al Tribunale della libertà di Bari (una sezione diversa da quella che aveva esaminato il ricorso della difesa contro il provvedimento di cattura) per riesaminare la posizione del Prencipe. Cosa che è avvenuta nel 2007, dopo la sentenza di condanna all’ergastolo. Il Tribunale della libertà dispose l’arresto-bis di Prencipe. Il difensore ricorse in Cassazione bloccando l’esecuzione del provvedimento. E quel ricorso è stato ora discusso e rigettato dalla seconda sezione penale della Suprema Corte. Per corollario riferiamo, che per Salvatore Prencipe arriva anche una condanna a 2 anni per calunnia nei confronti del pm Dda, per aver sostenuto in Corte d’Assise che il processo per l’omicidio Laviano era un complotto, che i penti dicevano il falso e che tutto gli era stato riferito dal pm.La sentenza di condanna è stata pronunciata dai giudici del Tribunale di Lecce, competente a pronunciarsi quando parte offesa di un reato è un magistrato di Bari. I fatti per i quali si è celebrato il processo per calunnia si riferiscono all’udienza del 3 gennaio 2007 svoltasi in Corte d’Assise per il processo Laviano. Quell’udienza fu

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destinata anche agli interrogatori dei 4 imputati (Rocco Moretti, Salvatore Prencipe, Vito Bruno Lanza e Franco Vitagliani) poi condannati all’ergastolo. Prencipe si avvalse della facoltà di non rispondere alle domande del pm e della difesa, ma rese brevi dichiarazioni spontanee. Parlò di complotto, disse che i pentiti erano falsi, che quanto raccontato gli era stato riferito dal pm.Il pm chiese la trasmissione del verbale d’udienza al suo ufficio, poi mandato per competenza alla Procura di Lecce che incriminò il mafioso per calunnia. (26)

*Eragastolo confermato anche in appello per Franco Vitagliani, sul cui capo pendono 6 condanne al carcere a vita. Assoluzione, con verdetto ribaltato, per Rocco Moretti, Vito Bruno Lanza e Salvatore Prencipe che in primo grado si erano visti infliggere a loro volta l’ergastolo. E’ la sentenza pronunciata il 12 giugno 2008 dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari nel processo-bis ai quattro mafiosi accusati dell’omicidio premeditato e aggravato dalle finalità mafiose di Pinuccio Laviano.Rocco Moretti, detto ‘il porco’, boss storico della mafia foggiana, è stato assolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio e colui che aveva decapitato il cadavere del rivale, resta comunque detenuto perché sconta tren’anni per omicidio, mafia e droga. Assolto e scarcerato Vito Bruno Lanza, detto ‘il lepre’ detenuto, per questa vicenda, dall’8 luglio 2005, ritenuto il braccio destro di Moretti e in tal veste indicato come istigatore e mandante dell’omicidio del rivale, alla cui decapitazione aveva contribuito secondo l’accusa. Assolto Salvatore Prencipe, detto ‘pie’ veloce’, che resta detenuto perché condannato a 13 anni (in primo grado) per droga ed estorsione nel processo Poseidon: era considerato uno dei due amici che avevano tradito Laviano, vendendolo al clan rivale per salvarsi la vita.Solo Franco Vitagliani si è visto confermare l’ergastolo perché se nei confronti degli altri tre imputati c’era soltanto la parola del pentito Riccardi, contro Vitagliani c’erano due testimoni pesanti: la propria moglie e la convivente di Laviano. La moglie di Vitagliani diventata testimone di giustizia protetta dallo Stato, ha raccontato che il marito le confidò d’aver ucciso l’amico Laviano. La convivente della vittima ha riferito che quando il compagno scomparve, la matina dell’11 gennaio del 1999, fu proprio Vitagliani ad andarlo a prendere sotto casa con l’auto (circostanza ammessa dall’imputato) per portarlo in stazione a San Severo.Il pentito Antonio Riccardi, camorrista napoletano che negli anni Ottanta aveva vissuto tra Foggia e il Gargano entrando in contatto con la malavita locale, è stato ritenuto inattendibile, per il suo racconto contraddittorio. Inoltre sulle presunte foto con la testa mozzata della vittima, ha fornito ben 14 versioni differenti su chi era ritratto e con chi. Per finire, sulla descrizione di Prencipe aveva fornito una descrizione che non collimava con le caratteristiche fisiche e somatiche dell’imputato. (26)

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*Nella storia giudiziaria di Donato Delli Carri, detenuto da 16 anni, ci è sempre un testimone di troppo. Una volta gli è andata bene perché il teste che disse di averlo riconosciuto mentre uccideva, al processo fece marcia indietro e l’imputato fu assolto. Una volta gli è andata male perché il teste confermò e per quel delitto – l’omicidio Panunzio – il killer sconta 26 anni. Ora la moglie di un pentito sostiene d’aver visto in faccia Donato Delli Carri la sera del 28 novembre ’90 mentre uccideva a pistolettate in via Parini Roberto Bruno.Il mafioso si è visto, infatti, notificare in carcere il provvedimento di cattura per l’omicidio Bruno. In cella è rinchiuso dal 7 novembre ’92: fu fermato dalla squadra mobile nel blitz contro 13 persone scattato subito dopo l’omicidio del costruttore Giovanni Panunzio, ammazzato la sera del 6 novembre in via Napoli: non aveva pagato i 2 miliardi pretesi e denunciato gli estorsori. Delli Carri fu fermato per mafia quale nipote e fedelissimo del capo mafia Roberto Sinesi che si dette alla fuga (fu catturato a Bologna il 13 dicembre ’93) Una settimana dopo il fermo fu accusato d’essere uno dei killer di Panunzio. Un ortese -Mario Nero che in seguito a quel riconoscimento divenne testimone protetto dallo Stato e dovette lasciare la Capitanata- aveva raccolto l’appello del figlio di Panunzio ai potenziali testimoni e si era fatto avanti. Nero raccontò che portava a spasso il cane quando vide una persona scavalcare un cancello di via Napoli, inciampare nel guinzaglio, bestemmiare, recuperare la pistola, scappare verso un auto. Qualche secondo prima era stato ucciso Panunzio e la persona vista da Mario Nero era Donato Delli Carri, che si dichiarò innocente: all’ora del delitto disse che era a casa con la fidanzata poi sposata. In base a quella testimonianza Delli Carri fu riconosciuto colpevole di omicidio e mafia, condannato all’ergastolo nel maxi-processo Panunzio, pena ridotta in appello a 26 anni.Per il vero, il Delli Carri era già passato per una situazione simile, ma gli era andata molto meglio. Il 31 marzo ’91, la sera di Paqua, in viale Ofanto 33 fu ucciso il macellaio Vincenzo Lioce. Parcheggiò la Fiat127, s’avviò verso il portone di casa quando un killer gli sparò 4 colpi di pistola in faccia. Il 6 maggio ’91 Delli Carri (all’epoca aveva 22anni) fu arrestato dalla squadra mobile quale killer di Lioce, un giovane aveva detto d’averlo riconosciuto. Al processo in corte d’assise, un anno dopo, il teste ritrattò e disse d’essersi confuso. Delli Carri fu assolto e scarcerato. Di lì a qualche mese sarebbe stato riarrestato per l’omicidio Panunzio: da 16 anni è rinchiuso in cella.Ma guardiamo più da vicino il capo mafia Roberto Sinisi: becchino sospettato d’essersi fatto strada nella “Società”, la mafia foggiana, grazie alla sua violenza e furbizia, l’inchiesta sul “caso Bruno” comporta il primo arresto per omicidio, insieme al nipote (figlio della sorella) suo fedelissimo.Per tentato omicidio Roberto Sinesi era già stato arrestato vent’anni fa. Il malavitoso fu infatti sospettato d’essere coinvolto nel ferimento di Eliseo Zanasi, il costruttore

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foggiano attuale presidente di Confindustria colpito dalle pistolettate al petto la sera del 29 aprile dell’88 mentre rincasava, per aver rifiutato di pagare il mezzo miliardo di lire preteso dal racket delle estorsioni. Sinesi fu accusato del tentato omicidio e del tentativo di estorsione ai danni dell’imprenditore in concorso con altre due persone. Si diede alla latitanza nel maggio ‘88, fu catturato a Monte Sant’Angelo dopo un anno e 4 mesi, il 18 settembre dell’89: dopo qualche settimana pagò una cauzione e fu rimesso in libertà. In primo grado la corte d’assise di Foggia, sentenza del 6 giugno del ’90, lo condannò a 9 anni per ferimento di Zanasi, sentenza ribaltata in corte d’assise d’appello a Bari, il 25 marzo del ’91, quando arrivò l’assoluzione.L’ascesa di Sinesi ai vertici della mafia foggiana risale ai primi anni Novanta, quando soppiantò i vecchi boss,. Sfuggì alla cattura nel blitz antimafia scattato il 7 novembre ’92 contro 13 malavitosi, poche ore dopo l’omicidio del costruttore Giovanni Panunzio. Dalla cattura dalla latitanza, il 13 dicembre del ’93 è rimasto in cella per 12 anni e 3 mesi, sino al marzo 2006. Nel maxi-processo Panunzio e “Day bifore” degli anni Novanta, Sinesi è stato condannato a 15 anni di reclusione complessivi per mafia e droga.Mentre era detenuto in carcere si è visto notificare due nuove ordinanze di custodia cautelare, sempre per mafia: la prima il 24 giugno 2002 nel blitz <<Double edge>> contrassegnato da 30 arresti in cui era accusato di aver fatto da paciere tra i clan in guerra (è stato assolto); la seconda il 23 maggio del 2003 nel blitz <<Araba fenice>> contro 23 foggiani, relativo alla guerra di mafia tra il clan Sinesi-Francavilla e il gruppo rivale Trisciuoglio-Prencipe, contrassegnato da 14 omicidi e 4 agguati falliti (nuova assoluzione).Sinesi è stato scarcerato il 28 marzo del 2006 dopo 12 anni e 3 mesi di reclusione conseguenza delle condanne per i blitz Panunzio e Day before . Libertà peraltro durata poco più di un anno. Il 18 aprile del 2007 veniva arrestato per violazioni della sorveglianza speciale (in primo grado gli sono stati inflitti 3 anni e mezzo). Un mese dopo, il 16 maggio, Sinesi veniva riarrestato con altre 9 persone nel blitz <<Osiride>> di squadra mobile e Dda contro il racket del caro estinto. Sinesi in questa inchiesta è accusato di mafia ed estorsione: l’accusa ipotizza che il boss, socio di una cooperativa di pompe funebri, ed altri mafiosi si sono spartiti il ricco affare dei funerali in città. Non solo: da quell’indagine è emerso, grazie ad un pentito, che Sinesi avrebbe incaricato una persona di pedinare in vista di un attentato ad un magistrato foggiano, il pm Giuseppe Gatti, le cui inchieste contro la pubblica amministrazione avevano colpito anche un politico foggiano, Sinesi si dichiara innocente.Ma torniamo a Delli Carri. Negli ambienti della criminalità foggiana si è sempre attribuito l’omicidio di Roberto Bruno al gruppo Sinesi, ma fino al 12 aprile 2008 non c’erano elementi. Elementi ora trovati grazie alle dichiarazioni del pentito Raffaele Bruno, figlio della vittima, e della moglie testimone dell’agguato, avvenuto proprio sotto la finestra della sua abitazione, un piano rialzato di via Parini. E’ quanto comunicato dalla Squadra mobile di Foggia in una conferenza stampa.

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Decisivo, quindi, il pentimento nel 2007 di Raffaele Bruno. Ha raccontato che quando aveva 9 anni, nel giugno 85, vide il padre uccidere Ciro Delli Carri, padre di Donato. E ha svelato che l’attuale moglie aveva assistito all’omicidio di Roberto Bruno, non ne aveva parlato in un contesto criminale. La moglie. che all’epoca dei fatti aveva 15 anni, ha detto di aver visto inizialmente Sinesi fare da palo e poi Delli Carri inseguire e uccidere Roberto Bruno. Delli Carri gridò il nome della vittima e si tolse il passamontagna per farsi vedere in faccia dalla vittima, un segnale che si trattava di una vendetta. Nei mesi successivi la ragazza riconobbe i due killer nelle foto di Sinesi e Delli Carri, pubblicate dal quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno per altre vicende di cronaca. Nonostante i 18 anni trascorsi, si sono trovati, da parte della Squadra mobile, riscontri con le dichiarazioni di pentito e moglie. Per Sinesi è il primo arresto per omicidio: se i processi confermeranno l’ipotesi accusatoria questi arresti possono essere una svolta nella lotta alla mafia. (26) Come abbiamo letto, il nucleo centrale dell’accusa contro Delli Carri e Sinesi è rappresentato dalle dichiarazioni di Luigia Capobianco e del marito Raffaele Bruno. Tuttavia il gip, nell’ordinanza di custodia cautelare, ricorda come anche un altro pentito, Catalano, abbia indicato Sinesi quale responsabile dell’omicidio Bruno.Antonio Catalano, killer della mafia, reo confesso di 4 omicidi compiuti tra Foggia e Lucera, collabora con la Giustizia dal gennaio del 2005 ed è sempre stato vicino - dichiara – al gruppo Sinesi. Pochi giorni dopo essersi pentito, Catalano parlò anche dell’omicidio di Roberto Bruno <<attribuendone la responsabilità al gruppo capeggiato da Roberto Sinesi per vendicare la morte di Ciro Delli Carri>>, come scrive il gip nel provvedimento di cattura contro zio e nipote. Catalano ha raccontato d’aver appreso i particolari dell’omicidio di Roberto Bruno (che lui sostiene essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Ciro Delli Carri) da tre malavitosi foggiani, in distinte occasioni, mentre erano detenuti nel carcere di Foggia. Un paio delle sue presunte fonti sono ancora vive, la terza è morta ammazzata: si tratta – a dire del pentito - di Angelo Gallucci, detto ‘il pilota’, mafioso foggiano ferito gravemente a testa e spalle, in un agguato il 10 maggio del 2003 quando rimase paralizzato e morto due anni dopo, nell’agosto 2005, in seguito ai postumi di quelle lesioni. (26)

*LA MATTANZA – La Corte d’Assise di Foggia il 29 maggio 2008 ha comminato il quarto ergastolo a Carmine Imacolato Cascio (già condannato in primo grado ad altri tre ergastoli), detenuto dal giugno 2005, presunto mafioso foggiano riconosciuto colpevole di aver guidato la ‘Citroen Xantia’ usata per uccidere Pasquale Novelli, il sorvegliato speciale assassinato a colpi di pistola davanti casa, i mini-alloggi di corso Roma, la sera del 25 luglio 2002, nell’ambito della guerra tra il clan Sinisi-Francavilla e il gruppo Trisciuoglio-Prencipe. Quale esecutore materiale dell’omicidio Novelli è stato già condannato, con sentenza ormai definitiva Franco Vitagliani, killer di punta del clan Sinisi-Francevilla ala quale sarebbe affiliato anche Cascio, che si dice innocente.

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Avevano testimoniato quattro pentiti – Antonio Del Mobile, Antonio Catalano, Yuri Allegretti e Gerardina Caruso – che sono stati concordi nel dichiarare che proprio Cascio aveva guidato l’auto per l’agguato, mentre Vitagliani aveva fatto fuoco.Pasquale Novelli fu ucciso nell’ambito della guerra di mafia tra i clan Sinisi-Francavilla e Trisciuoglio-Prencipe che in 15 mesi – dal luglio 2002 all’ottobre 2003 – contò 14 omicidi e 4 agguati falliti. Novelli doveva essere ucciso per un duplice motivo, secondo Dda e pentiti: gestiva il traffico di cocaina per il clan Trisciuoglio-Prencipe; Vitagliani voleva inoltre vendicare l’omicidio del fratello Paolo (giugno ’98) in quanto riteneva che proprio Novelli avesse nascosto lo scooter e le armi usate per uccidere il familiare.La sentenza, di primo grado per il momento, dice che Carmine Cascio, autista di fiducia del killer Vitagliani, per quattro volte avrebbe guidato le auto utilizzate in altrettanti agguati collegati alla guerra di mafia del 2002/2003, la più cruenta delle cinque che hanno caraterizzato la ventennale storia della <<Società>>, la mafia foggiana. Una guerra dove cacciatori e prede avevano ruoli interscambiabili, se si pensa che gli stessi Cascio e Vitagliani sono sfuggiti ad agguati tra il marzo e il maggio 2003. I due ergastolani sono ritenuti componenti del gruppo di fuoco del clan di appartenenza che approfittando della detenzione di gran parte dei rivali del gruppo avverso, scatenò l’offensiva tra l’estate 2002 e la primavera del 2003 con una serie di omicidi, prima che il bltz ‘Araba Fenice’ del 23 maggio 2003 sgominasse il clan con 23 arresti.Cascio non fu arrestato in quell’occasione, ma due anni dopo – il 30 giugno del 2005 – quando fu arrestato per tre omicidi per i quali nel marzo 2007 è stato condannato dalla Corte d’Assise ad altretanti ergastol, insieme al suo amico Vitagliani. Quest’ultimo sparava e poi confidava <<ho stutato pure a questo>>, e Cascio guidava, questo dicono i processi di primo grado. In particolare Cascio è stato condannato al carcere a vita per l’omicidio di Luigi La Daga, il giovane becchino assassinato nella sua impresa di pompe funebri al Carmine Vecchio il pomeriggio del 30 agosto 2002; di Teodorico Casorio, il camionista freddato in un bar di via Dorso la sera del 22 ottobre del 2002; di Armando Laccetti, il giovane ucciso al Cep la sera del 5 novembre dello stesso anno. La ‘colpa’ delle vittime era l’essere vicine, o comunque essere ritenute vicine, al gruppo Trisciuoglio-Prencipe al quale il clan avverso aveva dichiarato guerra.Cascio avrebbe visto la morte in faccia, questa volta da vittima, la sera dell’11 maggio 2003. Era al Cep quando alcuni killer scesero da un auto sparando con due pistalo ma senza colpirlo. Il giorno prima era caduto sotto i colpi del clan Sinesi-Francavilla Angelo Gallucci deto ‘il pilota’, ritenuto vicinino al gruppo Trisciuoglio-Prencipe. La morte di Cascio doveva essere la risposta all’agguato contro Gallucci: Cascio ha sempre negato d’essere scampato ad un agguato nel maggio 2003, la squadra mobile dice il contrario. (26)

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Due ergastoli per Franco Vitagliani a fronte dei tre del processo di primo grado; 30 anni per mafia e concorso in due omicidi al complice Carmine Cascio a fronte dei 3 ergastoli del verdetto di Foggia; pena ridotta da 15 a 12 anni di carcere per la pentita Gerardina Caruso riconosciuta colpevole di un omicidio e di concorso esterno in associazione mafiosa; assolto Franco Russo, condannato in primo grado a 28 anni per omicidio. E’ la sentenza, pronunciata il 26 giugno 2008 dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari nel processo-bis per tre omicidi avvenuti in città tra l’agosto e il novembre 2002 collegati alla guerra di mafia tra il clan Sinesi-Francavilla, cui sono ritenuti affiliati i quattro imputati e i rivali del gruppo Trisciuoglio-Prencipe, al quale erano ritenute vicine le vittime.Vitagliani è stato condannato all’ergastolo quale esecutore materiale degli omicidi di Teodorico Casorio, il camionista assassinato in un bar di via Guido Dorso il 22 novembre 2002 e di Armando Laccetti, ammazzato al Cep la sera del 5 novembre 2002. E’ stato invece assolto dall’accusa di essere uno dei killer di Luigi La Daga, il giovane becchino ucciso nella sua impresa di pompe funebri a Carmine Vecchio il pomeriggio del 30 agosto 2002. Cascio è stato riconosciuto colpevole di mafia,quale affiliato al clan Sinesi-Francavilla e di aver guidato l’auto usata per gli omicidi Casale e Laccetti, accompagnando Vitagliani. I giudici gli hanno riconosciuto le attenunati generiche condannandolo a 30 anni. E’ stato invece assolto dall’accusa di aver fatto da autista a Vitagliani anche per l’omicidio La Daga. Assolto Franco Russo, nipote del boss Roberto Sinesi, dall’accusa di essere insieme a Vitagliani uno degli esecutori materiali dell’aomicidio La Daga. Russo è stato scarcerato per questa vicenda, ma resta detenuto perché condannato in primo grado all’ergastolo per un altro omicidio collegato alla guerra di mafia del 2002/2006, quello di un altro becchino, Francesco De Luca, ucciso nella sua impresa il pomeriggio del 19 aprile 2003.I giudici d’appello hanno ritenuto responsabile dell’omicidio La Daga la sola pentita Gerardina Caruso, già convivente di un malavitoso del clan Sinesi-Francavilla (Silvano Bruno), ucciso nell’ottobre 2003 sempre nell’ambito della guerra di mafia. La Caruso stessa aveva ammesso di aver pedinato, su ordine del clan, il becchino e i giudici hanno ritenuto questo pedinamento un concorso materiale dell’omicidio: la collaboratrice di giustizia si è vista rifurre la pena da 15 a 12 anni (è stata riconosciuta colpevole anche di concorso esterno in associazione mafiosa). (26)

Il racket del <<caro estinto>> e un misterioso progetto di attentatoIl racket del <<caro estinto>> aveva acquisito il monopolio dei funerali a Foggia, spartendosi i compiti e accaparrandosi il settore dei decessi in ospedale. Imponeva inoltre un pizzo di 500 euro alle imprese funebri, estranee al cartello mafioso, per ogni funerale celebrato in città.

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Godeva di una fitta rete di favoreggiatori e complici tra medici, infermieri, dipendenti ospedalieri, autisti di ambulanze e vigilantes in servizio agli Ospedali Riuniti per essere subito informato – in cambio di soldi – dei decessi dei pazienti in modo da potersi presentare per primi dai familiari dei defunti e ottenere l’incarico.Si è così conclusa il 18 aprile 2008 l’inchiesta <<Osiride>>, così come la raccontano la squadra mobile e il pm Dda di Bari, nei confronti di 38 persone per le quali è stato chiesto il rinvio a giudizio.Sono accusati a vario titolo di mafia; 5 tentativi di estorsione; 7 estorsioni portate a termine; 2 episodi di falso e omissione di atti d’ufficio; 11 casi di corruzione; 2 peculati;1 favoreggiamento, minacce e violazione della sorveglianza speciale.Il 16 maggio 2008 scadranno i termini di carcerazione entro un anno dall’arresto – il blitz Osiride è del 16 maggio 2007 con 10 arresti, 9 persone sono ancora detenute – si deve arrivare al rinvio a giudizio altrimenti scatta la scarcerazione. Molti imputati sono intenzionati a chiedere il giudizio abbreviato.In attesa di giudizio: 12 becchini, 2 medici, 6 vigilantes, 5 tra dipendenti e infermieri degli Ospedali Riuniti e del <<Don Uva>>, 7 autisti di ambulanze, 3 dipendenti comunali in servizio al cimitero. Il Gup del Tribunale di Bari ha già fissata l’udienza preliminare per esaminare le richieste di 38 rinvii a giudizio.Ogni mese a Foggia si celebrano circa 120 funerali con una spesa media tra i 2500 e i 3000 euro. Moltiplicato per un anno significa in teoria affari dell’ordine di 3 milioni e mezzo. Certo non tutti i funerali saranno gestiti dal presunto cartello mafioso, ma secondo la tesi accusatoria – basata su intercettazioni, testimonianze e pentiti – i boss foggiani avevano trovato un accorso per spartirsi il mercato.Al vertice di questo clan ci sarebbero il boss Roberto Sinesi, becchino, socio dell’impresa funebre <<Angeli>> di via San Lorenzo; Raffaele Tolonese, altro elemento di primo piano della mafia dauna, pure lui becchino dipendente delo <<Centro servizi funebri>>, ritenuto il socio occulto dell’impresa <<L’Annunziata>> di via Lucera; l’altro boss Federico Trisciuoglio , estraneo al mondo dei funerali ma ritenuto al vertice del clan di cui farebbe parte anche Tolonese.I clan Sinesi-Francavilla e Trisciuoglio-Prencipe erano stati rivali nella guerra di mafia del 2002/2003 contrassegnata da 14 omicidi e 4 agguati fatti in 15 mesi. Con le scarcerazioni nei primi mesi del 2006 di Sinesi e Tolonese, dopo lunghi periodi di detenzione sarebbe stata siglata una pax mafiosa, mettendo da parte (per il momento) i propri morti ammazzati per fare affari sui morti altrui, secondo l’impostazione accusatoria.Il cartello mafioso avrebbe previsto che all’impresa di pompe funebri <<Angeli>> di Sinesi (e altri 4 soci coinvolti nell’operazione Osiride) toccava presidiare gli Ospedali Riuniti, tramite una fitta rete di complicità e convivenze per avere subito la notizia della morte dei pazienti in modo da intervenire tempestivamente e ottenere l’incarico dei familiari del defunto per eseguire i funerali. A Tolonese e la sua impresa <<Annunziata>> spettava il recupero delle salme in occasione di incidenti e

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soprattutto il monopolio sul disbrigo delle pratiche amministrative per ogni funerale, con un incasso fisso di 250 euro.Le imprese di pompe funebri foggiane e della provincia, estranee a questo accordo, erano costrette a pagare – da qui l’accusa di estorsione e tentata estorsione – un pizzo di 500 euro per ogni funerale. Sono complessivamente 12 le estorsioni, tentate e portate a termine, contestate dalla Dda: in 10 casi le vittime sono impresari di pompe funebri. Un paio delle presunte vittime – Ciriaco Palumbo e Vincenzo Benedettini – sono ora imputate di favoreggiamento perché avrebbero negato di aver subito richieste estorsive.Il monopolio del boss Sinesi e della sua impresa <<Angeli>> presso l’ospedale passava – dice l’accusa – attraverso una <<fitta rete di complicità e connivenze>>. Due medici sono accusati di falso e omissione d’atti d’ufficio per aver sostenuto che due pazienti morti erano ancora vivi, in modo da consentire all’impresa <<Angeli>> di traslare le salme. Tre dipendenti comunali in servizio al cimitero (tra cui Ciro Moffa ritenuto socio occulto della <<Angeli>> e braccio destro del boss Sinesi) rispondono di corruzione per aver indotto i parenti ad acquistare articoli funerari forniti in esclusiva dagli <<Angeli>> e l’avrebbero fatto in cambio di denaro. Autisti di ambulanze, infermieri e dipendenti degli Ospedali Riuniti e del <<Don Uva>>, vigilantes in servizio al Riuniti rispondono a loro volta di corruzione perché in cambio di soldi avrebbero informato i soci degli Angeli di persone appena decedute in ospedale oppure in fin di vita. Due vigilantes rispondono anche di peculato perché, per informare i soci degli Angeli della presenza di due salme in obitorio, avrebbero usato una linea telefonica degli Ospedali Riuniti.Come si è letto la mafia foggiana con il pensiero della morte ci campava. Se la morte nella stagione di sangue 2002/2003 era stata una questione di leadership tra clan che si fronteggiavano contabilizzando omicidi in serie industriale; negli anni 2006/2007 gli ex nemici avevano siglato la pax mafiosa su una bella bara da riempire di soldi. Meglio far di conto sui morti altrui, naturali che piangersi i propri morti, ammazzati, si sono detti il boss Roberto Sinesi e Raffaele Tolonese, accomunati dal lavoro di becchino e dall’essere nel top ten del crimine organizzato foggiano.Quella fitta rete di complicità in ospedale – necessaria ai becchini per essere informati dei decessi quando il morto era ancora caldo – sarebbe invece da qualificare sotto la voce malcostume e corruzione da quattro soldi, se l’interlocutore del medico, dell’infermiere, del vigilante, dell’autista non fosse un boss mafioso.Ecco perché l’inchiesta <<Osiride>> con le 38 richieste di rinvio a giudizio è qualcosa più di un semplice blitz antimafia. Perché tratteggia – pur in attesa delle sentenze – un mondo di potere gestito da un capo-clan. (29)

*A margine del caso <<caro estinto>>, si collocano le dichiarazioni di una ex guardia giurata Antonio Niro, originario di San Severo, che ha parlato, tra l’altro, di un progetto per uccidere un pm che indagava su un politico foggiano.

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Nell’estate 2006, a detta del Niro, Roberto Sinesi gli avrebbe affidato l’incarico di pedinare il pm Giuseppe Gatti, al suo arrivo alla stazione (vive fuori Foggia) per ammazzarlo. Sulle basi di queste rivelazioni il 2 marzo 2007 fu assegnata la scorta la magistrato che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione.Nella richiesta di rinvio a giudizio contro 38 imputati del blitz Osiride, il pedinamento di Gatti non figura tra i capi di imputazione, né il politico è imputato, anche perché, in nessun passaggio della sue rivelazioni il pentito ha detto che fu il politico a chiedere al mafioso di colpire il magistrato. E’ pur vero che il presunto progetto d’attentato contro Gatti, nella ricostruzione dell’accusa, è comunque un elemento importante per ricostruire la rete di potere mafioso gestita dal boss Sinesi, una volta tornato in libertà nel marzo 2006 dopo 13 anni in cella per mafia e droga.Ma andiamo con ordine a riferire i fatti, così come narrati dal Niro, se pure sinteticamente.Intanto il pentito definisce il suo ruolo nell’organizzazione che era di killer e di consegnatario di grossi quantitativi di sostanza stupefacente. Fu presentato al Sinesi da Ciro Moffa, personaggio incontrato nell’operazione Osiride, che lo raccomandò come persona tranquilla non pregiudicata. Il capo-clan, sempre secondo il racconto di Niro, gli consegnò una pistola con la quale doveva attentare alla vita del magistrato. Sulle ragioni per cui il boss voleva colpire il magistrato, il racconto appare alquanto confuso. Il giudice, per Sinesi, era una persona scomoda che stava indagando su un politico, l’unico che riusce ad affidargli appalti presso società. Pare di intuire, almeno dalle notizie fornite dal Niro, che il timore del boss fosse che col politico avrebbero colpito anche una società foggiana nella quale aveva interessi, anche sotto forma di dipendenti ivi assunti.Il Sinesi voleva sapere chi andava a prendere il magistrato in stazione, quando arrivava con il treno, il percorso che seguiva l’automezzo per raggiungere il posto di lavoro del Gatti.Niro ha confessato che non se la sentì di portare avanti il pedinamento. Né obedì all’ordine di attirare in trappola, nel luglio del 2006, una persona che doveva essere ammazzata: si trattava del becchino Giuseppe Scopece, nipote di Sinesi, poi effettivamente scomparso il 6 novembre 2006, vittima di lupara bianca.Niro cominciò quindi a prendere le distanze da Moffa e Sinesi, si allontanò da Foggia, fittò case senza fornire il suo nome per timore di essere rintracciato.Nel gennaio 2007 sostiene, ancora, d’essere sfuggito ad un agguato a San Severo, fu così che decise di presentarsi alla squadra mobile e di collaborare.Sinesi, da parte sua, interrogato dopo l’arresto del 16 maggio 2007 per il blitz Osiride, respinse le accuse di mafia ed estorsione per il pizzo imposto ad alcune imprese di pompe funebri. Negò qualsiasi coinvolgimento nel progetto di attentato contro Gatti, dicendo di non conoscere nemmeno il pentito che l’ha tirato in ballo. (29)

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Reati in agricoltura Furti di bestiame – Blitz LimousineRubavano centinaia di bovini in allevamenti del centro e nord Italia, li portavano a San Severo e sul Gargano dove il bestiame veniva macellato – in mattatoi clandestini o in strutture ufficiali grazie a compiacenze – per poi venderli regolarmente sul mercato. Il nucleo del clan di ladri di bestiame, smantellato da carabinieri e Procura di Verona, è nella zona tra San Severo, Apricena e il Gargano. Infatti delle 42 ordinanze di custodia cautelare firmate dal gip di Verona su richiesta del pm, ben 28 sono state eseguite (27 in carcere, una ai domiciliari) in Capitanata.I 42 indagati del blitz <<Limousine>> - carcere per 34, domiciliari per 2, obbligo di dimora per 6 – sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, furti di bestiame, falso in atti pubblici, violazione sigilli, per fatti tra il maggio 2006 e il giugno 2007. Sono 54 i furti di bestiame registrati in allevamenti di Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Toscana, Umbria, Lazio, Molise e Campania. Rubati complessivamente 770 bovini, 122 maiali, 93 pecore e 91 cavalli per un danno nell’ordine di 1 milione e 264mila euro. Durante le indagini recuperati 242 capi di bestiame (180 bovini, 52 maiali, 10 cavalli) sequestrati 13 camion, arrestate in flagranza 10 persone. Il giro d’affari – dicono i carabinieri – supera i 2 milioni di euro.Il blitz è stato denominato <<Limousine>> dal nome di una pregiata razza di bovini; le indagini sono dei carabinieri di Verona, dei colleghi del Comando provinciale di Foggia, Nas (nucleo antisofisticazioni) e Noe (nucleo operativo ecologico). Il 19 aprile 2008, nell’ambito dell’operazione, che ha visto impegnati 240 militari dell’Arma, i carabinieri del Nas hanno sospeso l’impianto di macellazione del mattatoio di Foggia su via Manfredonia. Nessuna violazione delle norme penali, ma sono state riscontrate violazioni di norme amministrative e condizioni igienico-sanitarie deficitarie. In un allevamento di San Severo sequestrati 40 bovini: se ne sta accertando la provenienza.L’indagine è partita dopo il furto di 40 bovini in un allevamento di Nogara, vicino Verona, il 12 maggio 2006 per un valore di 60mila euro. Sono seguiti colpi con le stesse modalità. <<I ladri si muovevano di notte con più ‘batterie’ contestualmente, scegliendo vari obiettivi. – questo il racconto dei carabinieri – Optavano per allevamenti privi di guardiani e sistemi di allarme. C’era un’auto con 3 persone a bordo che effettuava il sopralluogo e slegava il bestiame per poi dare il via libera ai complici a bordo di un camion parcheggiato a un paio di chilometri di distanza: sopraggiungeva e si caricava il bestiame>>. Veniva predisposta anche falsa documentazione di accompagnamento e si sceglievano di solito animali ormai pronti per essere macellati. I bovini rubati venivano trasferiti in allevamenti dell’alto Tavoliere e del Gargano per essere macellati dopo qualche giorno, << in mattatoi clandestini oppure in strutture che non effettuavano alcun controllo. La carne veniva poi venduta da macellai compiacenti: tra gli arrestati ci sono infatti molti macellai e allevatori. Sia chiaro che non ci sono grossi pericoli per la salute, visto che risulta

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soltanto la macellazione di un unico capo di bovino affetto di tubercolosi. Però è anche vero che la carne finita sulle nostre tavole non veniva sottoposta a tutti quei controlli necessari e previsti>>.La svolta alle indagini è arrivata quando si è scoperto che due sanseveresi erano stati controllati nelle adiacenze di alcuni allevamenti poi finiti nel mirino dei ladri. Sono scattate intercettazioni telefoniche che hanno consentito – dice l’accusa – di ricostruire il modus operandi e il giro d’affari, ma anche di intervenire in flagranza in alcuni furti arrestando i ladri. Tra i principali indagati dell’operazione ci sarebbero i foggiani Ciro Mazzeo, Carmine, Maurizio e Giovanni Delli Calici, Massino Natale, Settanni e Angelo De Biase. (29) La fabbrica dell’olio sofisticatoIl 21 aprile 2008 una brillante operazione del Nas di Bari ha portato all’arresto di 39 persone a Cerignola (29), Foggia, Milano, Brindisi, Varese, Campobasso, Napoli, Latina; ed al sequestro di 4 oleifici a Cerignola e Foggia, 2 ditte di autotrasporti di Cerignola, una fabbrica di lattine a Modugno.Quattro distinti clan cerignolani – dice l’accusa – acquistavano olio di semi (talvolta geneticamente modificato come una ingente partita arrivata dagli USA), lo mischiavano con clorofilla e betacarotene, lo imbottigliavano come olio extravergine d’oliva prodotto da ditte fantasma, lo vendevano in tutta Italia a ristoranti, pizzerie, piccoli supermercati, negozi di generi alimentari (escluso il coinvolgimento di supermercati della grande distribuzione). Le 39 ordinanze di custodia cautelare (25 in carcere, 14 ai domiciliari) sono stati firmati dal gip del Tribunale di Foggia che ha quasi integralmente accolto le richieste del pm che chiedeva 42 arresti. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla truffa ed alla frode in commercio, contraffazione e commercio di sostanze adulterate, vendita di sostanze non genuine spacciate come genuine, commercializzazione di sostanze alimentari mischiate con sostanze di qualità inferiore. I fatti contestati vanno dal 2006 al 2007. Nell’ambito delle indagini sequestrate 15 mila lattine vuote (da riempire ciascuna con 5 litri d’olio spacciato per extravergine d’oliva); 33 mila etichette di marchi inesistenti da attaccare a bottiglie e lattine; 5 mila lattine già piene di olio sofisticato per un totale di 250mila litri; 2800 bottiglie da un litro; 250 chili di clorofilla; 7 tra oleifici, ditte di trasporti e di lattine, il tutto per un valore stimato in 10 milioni di euro.In conferenza stampa, per il racconto dell’operazione, si è sottolineata l’importanza di aver evitato che l’olio sofisticato arrivasse al consumatore. Si è ancora spiegato che dal momento in cui sono partite le indagini nel 2006, dopo il sequestro di una partita d’olio spacciata per extravergine vicino Torino, sono scattate intercettazioni telefoniche che hanno consentito di seguire in tempo reale le strategie dei quattro clan cerignolani. Parlavano liberamente al telefono e questo ha agevolato il lavoro svolto dai Nas sequestrando il prodotto sofisticato negli oleifici oppure sui camion che lo trasportavano o al momento dell’arrivo al destinatario. Alcuni acquirenti erano consapevoli d’aver acquistato olio sofisticato , altri erano in buona fede. Tant’è che

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proprio dalle analisi fatte fare all’olio acquistato da un commerciante, che ha scoperto trattarsi di olio di semi, è partita la segnalazione al Nas di Torino, che ha dato il via all’indagine. Si parla di un giro d’affari milionario, dato che la documentazione contabile acquisita denuncia che uno dei clan individuati aveva acquistato olio di semi per un valore di 2 milioni di euro. Il guadagno è facile calcolarlo: un litro d’olio sofisticato, tenendo conto anche del costo di lattina ed etichetta, all’organizzazione veniva a costare 80 centesimi sul mercato lo si vendeva a 4/5 euro, con un ricarico di 400/500 per cento. E’ stata di certo un’operazione brillante perché ha impedito che questo traffico nazionale diventasse internazionale, visto che c’erano partite destinate in Usa, Svizzera e Germania.Box di autoparchi, casolari, garage, qualche volta anche oleifici. Ecco la ‘fabbrica’ dell’olio sofisticato, sfornato in produzione industriale da quattro presunti clan cerignolani, scoperta dai carabinieri del Nas. Clan strutturati – dice l’accusa – secondo compiti precisi: fornitori di olio di semi e lattine, addetti alla sofisticazione, trasportatori, distributori e commercializzatori.Gli acquirenti: Alberghi di San Giovanni Rotondo e Abano Terme; un mercato rionale di Monza; negozi all’ingrosso di alimentari vicino Padova e ad Abano Terme; ditte di prodotti alimentari vicino Modena; ristoranti, trattorie, pizzerie, panifici di Modena e provincia, di Reggio Emilia; negozi di generi alimentari, panifici, salumerie, macellerie, ristoranti di Milano e dell’hinterland milanese.Le indagini della Procura, che riunito in un unico procedimento 52 distinte segnalazioni di olio adulterato giunte da tutta Italia, hanno consentito di individuare – dice sempre l’accusa – 4 distinti clan che operavano a Cerignola, producendo olio ‘taroccato’. Ci sarebbe il gruppo Pedico composto da 8 persone: (Rosario e Antonio Pedico, Diroma, Ricciardone, Stefano Napolitano, Castellana, Flaccomio), accusati di aver prodotto olio sofisticato sotto la copertura di ditte inesistenti: <<coop agricola La Torre>>, <<Casale Santa Maria>>, <<Il frantoio>>, <<il Nobile>>.C’era il gruppo Sinerchia-Giannatempo composto da 35 persone (Giannatempo, Sinerchia, Piacentino, Nicola Frasca, Mastropietro, Casanova, Crescenzio, Matteo e Luigi Strafezza, Boldri, Petruzzello, Salvatore Napolitano, Vaira, Flaccomio, Russo, Giovanni Battista Compierchio, Norante, Branca, Totaro, Dibisceglie, Paciletti, Vaglia, Galanti, Albanese, Cosimo e Francesco Perchinunno, Bollino, Izzi, Capuano, Carnevale, Posa, Porciello, Alibrandi, Pizzinato e Pegoraro) che avrebe prodotto olio sofisticato sotto la copertura di quattro ditte inesistenti: <<castello degli ulivi>>, <<uliveto di Piacentino>>, <<gocce d’oro>>, <<Spremuta d’oro>>.Il terzo gruppo denominato Errico sarebbe composto da 11 persone (Errico, Perchinunno, Gisorio, Quarta, Angelo e Francesco Catapano, Timofti, Mastropietro, Flaccomio, Norante e Sinerchia) che avrebbe prodotto olio sotto la copertura di queste ditte fantasma: <<azienda agricola Perchinunno>>, <<azienda agricola Rossignuolo>>.Il quarto presunto clan di sofisticatori farebbe capo a Paolo Merra e altre sei persone (Pietro e Gennaro Frasca, Giuseppe Totaro, Scarcelli, Norante e Sinerchia) che si

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sarebbe servito di queste ditte inesistenti: <<agricola olearia pugliese>>, <<eurocatering>>, <<Puglia-antiche tradizioni>>. (29 Le rapine della <<Società>>Due grosse rapine furono messe a segno a Foggia nel ’96.La prime il 31 gennaio al deposito dei monopoli di Stato di via Spalato (sottratte 3 tonnellate e 700 chili di sigarette per un valore di 823 milioni di lire). La seconda il 24 ottobre ai danni della ditta di trasporti <<Effediemme>> sulla circumvallazione, quando furono rapinati 6 camion carichi di generi alimentari per un valore di 100 milioni di lire.Il processo ai presunti responsabile si è svolto davanti al gup di Bari perché la Dda, contestava ai 4 imputati l’aggravante della mafiosità per aver compiuto la rapina per agevolare la <<Società>>, la mafia dauna.La sentenza pronunciata il 22 aprile 2008 ha condannato soltanto il pentito Antonio Catalano, assolti gli altri tre imputati che il collaboratore di Giustizia aveva chiamato in causa. Antonio Catalano, foggiano, killer della mafia, pentitosi il 4 gennaio del 2005 dopo esser stato arrestato per omicidio, è stato condannato come reo confesso a 2 anni e 8 mesi per la rapina ai monopoli, assolto invece4 per il colpo alla ditta di trasporti (pur coinvolto, aveva detto d’essersi poi tirato indietro). Felice Direse, foggiano, ritenuto elemento di spicco della mafia dauna, è stato assolto dall’accusa di aver partecipato ad entrambe le rapine. Stesso verdetto per Mario Luciano Romito, manfredoniano, ritenuto al vertice del <<clan dei montanari>> (peraltro assolto in primo grado dall’accusa di mafia nel maxi-processo alla mafia garganica), anche lui accusato di entrambe le rapine. La terza assoluzione ha riguardato Franco Romito, manfredoniano, fratello di Mario Luciano, presunto mafioso (pure assolto nel maxi-processo) accusato di rapina ai monopoli. L’inchiesta originariamente contava un quinto imputato, il foggiano Luigi Mazzola, sospettato della rapina alla <<Effediemme>: le accuse contro di lui erano state archiviate.Per questa vicenda la squadra mobile, su ordinanze firmate dal gip di Bari e chieste dalla Dda, aveva arrestato l’8 luglio del 2005 sia Direse sia i fratelli Romito (il foggiano è attualmente detenuto per altra causa, come Franco Romito); successivamente i 3 imputati erano stati scarcerati.Catalano, quando si pentì a gennaio 2005, parlò anche delle rapine avvenute nel ’96 dicendo d’aver partecipato all’assalto al deposito dei monopoli e di essere stato coinvolto nel successivo colpo alla <<Effediemme>>. I due fratelli Romito, Direse e Catalano erano accusati della rapina compiuta all’alba del 31 gennaio nel magazzino dei monopoli di Stato. Otto banditi, a volto coperto ed armati, sequestrarono alcuni dipendenti, chiudendoli nei locali. Catalano sostenne di aver progettato lui il colpo perché all’epoca dei fatti lavorava in una impresa di pulizie che si occupava di condomini situati nei pressi del magazzino dei monopoli. Il che gli aveva consentito

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di assistere allo scarico di sigarette. Catalano raccontava d’aver coinvolto nella rapina Direse che a sua volta aveva chiamato i fratelli Romito.Catalano, Mario Luciano Romito, Direse e Mazzola erano poi imputati della rapina avvenuta la sera del 24 ottobre del ’96 alla ditta di trasporti. I rapinatori erano a volto coperto, armati, fecero irruzione nel piazzale della ditta, minacciando dipendenti e camionisti che dovevano caricare la merce. Gli ostaggi furono rinchiusi in una stanza e i banditi si impossessarono di generi alimentari, caricandoli su mezzi della ditta di trasporti. A dire del pentito, era stato Direse a progettare il colpo che aveva coinvolto anche Mario e Luciano Romito. Accuse che non hanno retto al vaglio del giudice di primo grado: condannato solo il pentito, assolti i coimputati. (29)

La vendettaLa sera del 30 settembre 2004 a Trinitapoli, Michele Miccoli era in auto con l’amico Savino Saracino, quando da una Ford Fiesta due killer fecero fuoco con pistole e fucili. Saracino fu colpito alla testa e morì. Miccoli scappò a piedi fu inseguito e bloccato e uno dei killer gli sparò in testa. I sicari andarono via convinti che anche Miccoli fosse morto, invece il proiettile non aveva leso organi vitali e il miracolato raccontò ai carabinieri che i responsabili dell’omicidio dell’amico e del suo ferimento erano Cosimo Damiano Carbone e suo nipote Leonardo Lafranceschina, che furono arrestati. Miccoli raccontò che Carbone gli chiese se fosse lui il responsabile dell’agguato da lui subito il 3 novembre 2003 quando rimase ferito ad un braccio: Miccoli negò e Carbone ordinò a Lafranceschina di sparargli. In seguito alla testimonianza di Miccoli, Carbone e Lafranceschina (si dicono innocenti) sono stati condannati all’ergastolo in primo e secondo grado.La vendetta fu eseguita il 25 febbraio 2008. Michele Miccoli e il genero Luca Sarcina erano a bordo di una Renaut Megane guidata da Sarcina quando, alle 13,30 in via Candida, scattò l’agguato. Due persone con il volto coperto da passamontagna ed entrambe armate di pistole calibro 9, a bordo di una Mini-cooper gialla, bloccarono l’auto dei rivali ed aprirono il fuoco. Miccoli e Sarcina scapparono a piedi in direzioni distinte: anche i pistoleri si divisero inseguendoli. Secondo la ricostruzione dell’accusa Giuseppe Gallone, di Trinitapoli, sorvegliato speciale, alla guida della Mini-cooper, inseguì Sarcina ferendolo gravemente alla testa e al torace (venne ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale San Paolo di Bari, poi si è ripreso ed è stato dimesso) e andando via quando vide il giovane a terra, convinto di averlo ucciso. Il presunto complice – un altro giovane trinitapolese ancora ricercato – inseguì invece Miccoli ma la pistola s’inceppò e fu costretto a rinunciare quando la vittima designata reagì, difendendosi con una spranga trovata in strada. I due pistoleri risalirono sulla loro auto dileguandosi.Giuseppe Gallone è stato catturato il 22 aprile 2008.Secondo i carabinieri il movente del duplice tentato omicidio è collegato all’omicidio del 30 settembre 2004, già descritto. <<Le indagini si sono subito indirizzate su

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Gallone – hanno spiegato i rappresentanti del reparto operativo dei Carabinieri – in quanto per l’agguato era stata usata una Mini-cooper gialla di cui erano stati rilevati i numeri di targa. Quell’auto era stata acquistata presso una concessionaria di Cerignola proprio la mattina del ferimento e ne aveva il possesso Gallone: l’abbiamo poi ritrovata bruciata a fine marzo in campagna. L’indiziato ha inoltre i capelli lunghi e uno dei due killer aveva i capelli che fuoriuscivano dal passamontagna. Cercammo Gallone già la sera del ferimento senza trovarlo. Qualche settimana prima avevamo individuato il suo covo in una masseria vicino Andria, ma quando intervenimmo era già scappato. Il 22 aprile mattina lo abbiamo localizzato nell’appartamento di Orta Nova, arrestandolo e rinvenendo in casa mitra e munizioni>>. (29) Le rapine alle banche, alle gioiellerie e gli assalti ai furgoni blindati e un’assoluzione per vizio formaleHa abbandonato la strada della dichiarazione d’innocenza, della sua presenza per caso davanti alla banca rapinata e scelto di patteggiare una sensibile riduzione di pena Salvatore Cannarile, foggiano che si è visto ridurre in appello da 6 a 4 anni di reclusione la condanna per il ‘colpo’ alla Credem di corso Roma avvenuto il 4 aprile del 2007, quando la squadra mobile arrestò in flagranza tre persone. Finirono in manette Cannarile, ritenuto il basista della banda, e i napoletani Luigi Neri e Gaetano Borriello, bloccati dai poliziotti mentre uscivano dalla banca dove avevano appena rapinato 7500 euro. Anche Neri e Borriello hanno patteggiato riduzioni di pena: 4 anni e 6 mesi a testa a fronte dei 6 anni e 8 mesi del verdetto di primo grado.La sentenza è stata pronunciata dai giudici della prima sezione della Corte d’Appello di Bari il 24 aprile 2008. I tre imputati restano in carcere e la sentenza d’appello potrebbe avere un riflesso importante per Cannarile e Neri che sono attualmente imputati anche dell’operazione <<Praedator>> nei confronti di 17 foggiani, lucerini e campani accusati di una serie di rapine in banche di Foggia e provincia, organizzate dai foggiani e materialmente messe a segno dai campani. Cannarile si dichiara innocente nel blitz Praedator, dov’è accusato di associazione per delinquere quale capo clan, 9 rapine, armi, truffa, estorsioni, furto, minacce. In caso di condanna per l’operazione Praedator – Cannarile ha scelto il giudizio abbreviato che dà diritto allo sconto di un terzo della pena – la condanna andrebbe comunque inflitta in continuazione con la pena a 4 anni adesso patteggiata per il colpo alla Credem e la continuazione (più reati compiuti nell’ambito di un unico progetto criminoso) non può essere superiore al triplo della pena base, quindi non più di 12 anni.La rapina alla banca Credem fu compiuta il pomeriggio del 4 aprile del 2007. Due persone – poi identificati per i napoletani Neri e Borriello – scesero da una Renault Scenic; Borriello si mise una parrucca, entrarono in banca e armati di taglierini si fecero consegnare 7500 euro. I poliziotti seguivano i sospettati da un’ora e si erano appostati all’esterno della banca: nel momento in cui i due banditi uscirono, furono subito bloccati: Stessa sorte per Cannarile che era a bordo di una Lancia Thema in attesa – diceva l’accusa – dei complici napoletani. Interrogato dopo l’arresto, Cannarile sostenne di non conoscere i napoletani e d’essersi trovato per caso a

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transitare davanti alla banca al momento della rapina. Aveva sentito sparare – un poliziotto fece fuoco a scopo intimidatorio – si era spaventato ed era scappato ma la squadra mobile lo aveva arrestato.Il processo di primo grado davanti al gup di Foggia, il 3 luglio 2007, si era concluso con la condanna di Cannarile a 6 anni, e quelle dei due napoletani a 6 anni e 8 mesi a testa. (29)

*Assolti i cinque presunti componenti della ‘cellula’ foggiana del clan di rapinatori, pene sostanzialmente confermate invece per gli altri 8 imputati calabresi e baresi. Si è concluso così, il 31 maggio 2008, il processo d’appello <<Commando>> a 13 foggiani, cerignolani, manfredoniani, calabresi e baresi, accusati di far parte di un clan mafioso che assaltava furgoni blindati sulle strade della Capitanata. Due colpi compiuti da calabresi e baresi tra il 2004 e il 2005 fruttarono un bottino complessivo di quasi 800 mila euro; altri assalti analoghi vennero progettati dai foggiani – diceva l’accusa – ma non portati a termine. Anche in appello, come già era successo nel giudizio di primo grado, è peraltro caduta l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso derubricata in quella di associazione per delinquere ‘semplice’. I giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello di Bari hanno assolto dall’accusa di associazione per delinquere Felice Direse, foggiano, ritenuto un elemento di spicco della mafia dauna, condannato in primo grado a 4 anni. Assolti anche i cerignolani Francesco Pio Lo Surdo e Vincenzo Sciusco; il mafredoniano Raffele Russo e l’ortese Maurizio Di Palma (tutti condannati in primo grado a 4 anni.Secondo la tesi accusatoria la ‘cellula’ calabrese-barese del clan aveva organizzato e messo a segno due rapine a furgoni blindati. La prima avvenne la mattina del 10 novembre 2004 sulla superstrada Foggia-Candela ai danni del furgone della ‘Np Service’; un commando di rapinatori esplose 93 colpi di mitra Kalashnikov, rapinando 762mila euro in contanti. La seconda è datata 28 gennaio 2005 quando sul tratto foggiano dell’autostrada A/14, nei pressi del casello di Cerignola, finì nel mirino il blindato dell’istituto di vigilanza ‘Sos’: furono esplosi 40 colpi di mitra per costringere i vigilantes a fermarsi, ma i banditi dovettero accontentarsi di 30mila euro.Una volta sgominata la ‘cellula’ calabrese del clan con l’arresto in flagranza di 6 persone, avvenuto il 13 marzo 2005 in un casolare di Corato, col sequestro di armi e munizioni, era entrata in azione – ipotizzava l’accusa – la ‘cellula’ foggiana e cerignolana organizzando nuovi assalti ai blindati, alcuni pedinati durante i loro giri, che però non vennero portati a termine. Anche perché il 29 novembre 2005 scottò il blitz ‘Commando’ di Dda e carabinieri del Ros con l’arresto di 17 persone.Secondo la Dda ci si trovava davanti ad un clan mafioso per la militarizzazione del territorio, il coinvolgimento nella banda di esponenti della ‘ndrangheta della ‘Società’ foggiana; le modalità degli assalti con commandi composti da 7/8 banditi che

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bloccavano il traffico, aprivano il fuoco, esplodevano centinaia di colpi per costringere le guardie giurate ad arrendersi.Le assoluzioni in appello sono avvenute perché le accuse si basavano soltanto su intercettazioni telefoniche, con colloqui comunque vaghi. Tutt’al più dalle intercettazioni, è stata la tesi difensiva, si poteva desumere che ci fosse un progetto di rapinare un furgone blindato dopo averlo pedinato, ipotesi rimasta tale per cui non sussisteva il reato di associazione a delinquere. (29)

*La sola parola del pentito dalla memoria prodigiosa – capace di ricostruire anche a distanza di anni ogni singolo momento delle rapine, il suo ruolo e quello dei presunti complici – non è sufficiente per condannare i 27 imputati. L’hanno stabilito il 24 giugno 2008 i giudici foggiani assolvendo tutti i cerignolani. Ma per arrivare alla sentenza di primo grado del processo ‘Cartagine bis’ ci sono voluti 12 anni, se si pensa che la prima udienza si è celebrata il 22 febbraio del ’96. I 27 imputati erano accusati a vario titolo di associazione per delinquere e di 18 rapine in banche, gioiellerie, negozi, compiute nei primi anni Novanta, oltre che di furti, armi e ricettazione. L’accusa poggiava tutta sulle dichiarazioni di Michele Strafezza, deto ‘Cheché’, uno dei primi pentiti storici della malavita cerignolana nel ’94: coinvolto nella guerra di mafia aveva anche parlato di rapine che aveva compiuto (in ‘Cartagine’ bis aveva patteggiato) o di cui era comunque venuto a conoscenza. Il blitz ‘Cartagine bis’ scattò in due fasi tra il novembre del 2004 e il luglio successivo quando complessivamente furono spiccate 27 ordinanze di custodia cautelare. Pur se erano 68 i capi d’imputazione contestati dalla Procura, il nucleo del processo era rappresentato da 18 rapine compiute nella zona del basso Tavoliere.L’inchiesta fu denominata ‘Cartagine bis’ perché era una costola della più importante indagine ‘Cartagine’ che nel giugno del ’94 aveva portato ad una setantina d’arresti, posto fine alla guerra di mafia tra clan rivali e inferto un durissimo colpo alla criminalità organizzata del basso Tavoliere, il cui affare principale era (e resta) il traffico di centinaia di chili di cocaina, importata da Milano e smerciata non sola a cerignola ma anche in centri della Capitanata e fuori provincia.Le dichiarazioni di Strafezza su una serie di rapine avevano poi portato all’inchiesta ‘Cartagine bis’. (29)

*Assalto ai due portavalori che a bordo di un’auto blindata dell’Istituto di vigilanza barese trasportavano un’ingente somma destinata ai bancomat di alcuni istituti di credito foggiani, la mattina del 30 giugno 2008 alle 8,10 sulla corsia nord dell’autostrada A/14 nel tratto tra Cerignola e Foggia. Assalto sventato dopo un conflitto a fuoco tra i banditi e le due guardie giurate, con queste ultime che hanno

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fatto inversione a <<u>> in autostrada e costretto i malavitosi a rinunciare. I quattro rapinatori hanno poi abbandonato, sempre in autostrada, in una piazzola di sosta, la ‘Audi A4’ bruciandola per distruggere eventuali tracce: era stata rubata nel marzo 2008 a Lucera.Subito dopo l’allarme lanciato dalle guardie giurate dell’istituto di vigilanza ‘Aldo Tarricone’ di Modugno, è scattata una maxi battuta – che non ha poi dato esito – con l’impiego di pattuglie della Polstrada distaccate sul tratto autostradale dell’A/14, colleghi della Squadra mobile di Foggia e del Commissariato di Cerignola e con l’impiego anche di un elicottero giunto da Bari.Non è noto quanto trasportassero i due mportavalori che dovevano fornire denaro a vari bancomat di banche foggiane. Erano le 8,10, come abbiamo già riferito, e la ‘Punto’ dell’istituto di vigilanza di Modugno era nei pressi del casello di Cerignola est quando è stata affiancata dall’Audi con 4 banditi con passamontagna. Uno dei rapinatori ha sparato con un fucile a pompa contro le gomme della ‘Punto’ per indurre i vigilantes a fermarsi; le guardie giurate hanno risposto al fuoco (non ci sono feriti) e il vigilante alla guida, come abbiamo detto, con un testa-coda ha invertito la marcia. Due rapinatori sono scesi dall’auto ed hanno continuato a sparare ma alla vista di una pattuglia della Polstrada sono risaliti sulla berlina dileguandosi, abbandonando poi il mezzo dopo averlo bruciato.E’ il terzo assalto fallito ai portavalori dall’inizio dell’anno sulle strade foggiane. Il primo è del pomeriggio del 14 febbraio quando sulla Lucera-Campobasso, nella galleria vicino Motta Montecorvino, 2 banditi con fucili a canne mozze piazzarono un camion in mezzo alla carreggiata per bloccare un furgone blindato di un istituto di vigilanza di Campobasso che trasportava 250mila euro; i banditi rinunciarono e fuggirono con la ‘Fiat Marea’ rapinata ad un automobilista in transito. Il secondo raid fallito è della mattina dell’8 aprile quando sulla Foggia-Candela sei rapinatori su due auto fecero fuoco a ripetizione e bloccarono un blindato che trasportava 500mila euro a banche e uffici postali. I banditi con un flessibile tagliarano il portellone del furgone ma i soldi erano custoditi nella cassaforte e dovettero rinunciare. I responsabili di questi due assalti non sono stati mai identificati. (29)

Ma ritorniamo alla rapina di lunedì 30 giugno. La caccia ai potenziali rapinatori non si è fermata.Ma c’è un aspetto che si è fatto strada proprio alla luce di un altro assalto avvenuto a Bologna, dove una decina di uomini mascherati e armati, almeno quattro auto (tutte poi bruciate) e un flessibile, hanno dato vita ad uno spettacolare assalto a due furgoni portavalori tra Castel San Pietro e Ozzano dell’Emilia, nel bolognese. A Bologna è stato forzato solo un blindato e, secondo la ricostruzione della Squadra Mobile della polizia, il bottino è di qualche centinaio di migliaia di euro.Cerignola è il paese in cui si appuntano le maggiori attenzioni degli inquirenti, essendo notoriamente una delle cittadine che esporta il maggior numero di personaggi dediti a colpi a mano armata. Giornalmente giungono alla centrale operativa cerignolana di polizia e carabinieri note informative di questo o quel personaggio in

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odore di colpi a mano armata ora nelle Marche, ora in Veneto, ora in Friuli, ora nel Lazio, come avvenuto in passato. Il colpo nel Bolognese, proprio alla luce dell’altro assalto fallito sull’autostrada alle porte di Cerignola al portavalori, potrebbe anche autorizzare gli investigatori a pensare che si tratti della stessa banda: in fondo alcuni dettagli operativi porterebbero ad associare i due assalti come opera della stessa banda. (29)

*La Corte d’Appello di Bari con sentenza del 25 giugno 2008 ha assolto e scarcerato Alessandro Aprile, fioraio già noto alle forze dell’ordine, nonostante che per due volte – durante le indagini e in aula – la vittima della rapina lo avesse riconosciutoquale responsabile dell’aggressione.La sera del 20 agosto 2007 un giovane a volto scoperto ed armato di pistola aggrediva un coetano in piazza Puglia e si faceva consegnare una moto Yamaha R6 (dopo qualche giorno fu rinvenuta bruciata vicino Lucera). Il giorno dopo la vittima si recò di nuovo in Questura per un nuovo interrogatorio e incrociò casualmente Aprle, convocato dalla Squadra Mobile per essere risentio sull’agguato da lui subito qualche giorno prima. La vittima, come abbiamo detto, vide Aprile lo riconobbe come il rapinatore, lo indicò alla Squadra Mobile che fermò il foggiano. Il 27 novembre del 2007 la vittima aveva nuovamente riconosciuto in aula l’imputato e i giudici avevano condannato Aprile a 5 anni di reclusione.Secondo gli investigatori la moto rapinata doveva essere usata per un agguato. Alessandro Aprile la sera del 12 agosto 2007 era sfuggiato ad un agguato in corso Roma mentre l’amico che lo accompagnava fu ferito gravemente al volto: Aprile e l’amico erano su uno scooterone quando due killer fecero fuoco da una moto. Secondo l’accusa sono stati esponenti del clan Moretti/Pellegrino (quattro persone sono indagate per tentato omicidio tra presunti mandanti ed esecutori) a sparare contro Aprile, ritenuto vicino al clan rivale capeggiato da Roberto Sinesi. Aprile se la cavò con una ferita di striscio alla gamba ed otto giorni dopo – ipotizzava la Squadra Mobile – armato di pistola si era procurato, rapinandola, la motocicletta da usare per un agguato poi saltato in seguito al suo arresto.Ma veniamo alla sentenza di assoluzione. I motivi sono da ricercarsi nel fatto che la vittima aveva sì riconosciuto Aprile, ma senza le formali procedure che vedono l’indagato, posto accanto a persone, con caratteristiche somatiche e fisiche simili. Anche al processo, in aula, il rapinato aveva guardato l’imputato indicandolo come e il responsabile della rapina, anche in questo caso senza che fosse disposta una ricognizione formale. (29) La sentenza d’appello sulla <<Mafia garganica>> e una Giustizia che non fa il suo corsoL’inchiesta della Dda e carabinieri portò al maxi-blitz del 23 giugno 2004 con 99 ordinanze di custodia cautelare. Complessivamente erano oltre 100 gli imputati per i quali era stato chiesto il rinvio a giudizio per centinaia di imputazioni: mafia, traffico

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di droga; 22 omicidi; 4 tentativi di omicidio; 153 episodi di spaccio; 23 estorsioni; 112 episodi di detenzione illegale di armi; 16 furti; 1 rapina; 2 episodi di usura, 1 sequestro di persona. Se per 73 imputati (che avevano optato per il giudizio abbreviato) si è già giunti al verdetto d’appello, per altri 25 che furono rinviati a giudizio è ancora in corso in Corte d’Assise a Foggia, dal novembre 2005, il processo di primo grado.Dagli 80 imputati giudicati in primo grado dal gup con rito abbreviato, si è scesi ai 73 imputati del processo d’appello (un paio sono morti ammazzati nel 2007) conclusosi l’8 maggio 2008 con 38 assoluzioni e 35 condanne (tra cui 17 patteggiamenti con riduzioni di pena) per complessivi 182 anni di reclusione, cui aggiungere un ergastolo. Qual’era l’impostazione originaria dell’accusa basata principalmente sulle intercettazioni: al vertice della mafia garganica c’era il <<clan dei montanari>>, con Franco Romito e Armando Libergolis capi riconosciuti, riconducibile alle famiglie Romito e Libergolis (i fratelli Armando, Matteo e Franco Libergolis sono imputati in Corte d’Assise a Foggia) che comandava nella zona di Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Mattinata e San Giovanni Rotondo. Il ‘clan dei montanari’ estendeva la sua influenza anche nella zona di San Nicandro per l’alleanza con il clan Ciavarella (protagonista di una faida con i rivali Tarantino). Nella prospettazione accusatoria i Libergolis rappresentano il braccio armato dell’organizzazione, mentre i Romito si sarebbero occupati del riciclaggio del denaro sporco; di infiltrarsi nel tessuto economico, anche cercando appoggi con politici, magistrati e forze dell’ordine. Se la tesi sulla mafiosità del clan Ciavarella ha sostanzialmente retto in primo e secondo grado (una decina di condanne per 416 bis) quella sul ‘clan dei montanari’ traballa, se si pensa che le condanne per mafia dei presunti affiliati al clan Romito-Libergolis si riducono al solo Giuseppe Pacilli (confermati 8 anni di reclusione).Anche la Corte d’Assise d’Appello, come già il gup di Bari, ha escluso che i Romito (padre e tre figli) fossero mafiosi. Franco Romito – ritenuto un capo del ‘clan dei montanari’ – ora è stato assolto anche dall’accusa di concorso nel sequestro di un ragazzo, per il quale, in primo grado, gli erano stati inflitti 4 anni. Il gup di Bari, nell’assolvere i Romito, specificò che non erano certo stinchi di santo ma aggiunse che i tre fratelli erano stati utilizzati dai carabinieri come confidenti e agenti provocatori per cercare di far confessare ai Libergolis episodi criminali. Tradotto in soldoni significa – disse sostanzialmente il gup nelle motivazioni della sentenza di assoluzione – che se i Romito volevano incastrare i presunti complici, non si può sostenere che fossero affiliati al ‘clan dei montanari’. Motivazione non condivisa né dalla Dda né dal Procuratore Generale (se si partecipa ad un summit mafioso vuol dire che si è mafiosi, la tesi dell’accusa).Tra i 73 imputati giudicati dalla Corte d’Assise d’Appelo uno dei più noti è certamente Ciccillo Libergolis, allevatore di Monte Sant’Angelo, principale esponente dell’ominima famiglia coinvolta nella faida con i Primosa/Alfieri che nel ’78 ad oggi ha contato 35 morti. Libergolis era già stato assolto dall’accusa di essere

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un mafioso, affiliato al clan, capeggiato dal nipote Armando Libergolis (figlio del fratello Pasquale, ucciso nel ’96 delitto di faida) oltre che dal coinvolgimento nell’omicidio di Biagio Silvestri, ucciso nella Foresta Umbra il 31 agosto del ’98, altro omicidio di faida. L’unico ergastolo è stato inflitto – come già aveva fatto il gup nel processo di primo grado – a Matteo Ciavarella, per 4 omicidi avvenuti tra il 2001 e il 2003 collegati anche alla faida con la famiglia rivale dei Tarantino. La madre di Matteo Ciavarella, maria Cursio è stata invece assolta dalle accuse di aver partecipato alle riunioni in cui si decise di uccidere due rivali e si è vista ridurre la pena da 20 a 8 anni di reclusione per mafia, droga e armi.Assolto in appello il poliziotto Giuseppe Bronda condannato in primo grado a 1 anno per favoreggiamento: si ipotizzava che avesse aiutato Franco Romito a eludere le indagini dei carabinieri presentandogli un tecnico per bonificare una masseria da eventuali microspie. Assolti anche in appello i marescialli dei carabinieri Russo e Rauseo. Inizialmente gli si contestava l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa sul presupposto che, indagando sulla mafia garganica, avessero favorito i Romito cercando di evitare che le indagini li toccassero; dimensionando l’accusa sostenendo che andavano condannati a pene nell’ordine di un anno <<solo>> per rivelazione d’atti d’ufficio. Sono stati assolti anche da questo reato. I due sotoufficiali hanno sempre sostenuto che i contatti con i Romito, di cui erano a conoscenza i loro superiori, erano finalizzati ad acquisire notizie utili per le indagini: nessuna collusione, nessun ‘favore’. (29)

*Ma la Giustizia non sempre trionfa, purtroppo. Sono, infatti passati 4 anni dal bltz con 99 arresti, 3 anni dal rinvio a giudizio e il processo di primo grado in Corte d’Assise è ancora lontano dalla conclusione.Una valanga di intercettazioni, così possente che neppure otto periti sono riusciti a smaltire, trascrivendole integralmente, da tre anni soffoca Foggia il processo per ‘la faida del Gargano’. Si arriverà così a quella che si chiama decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, vuol dire che Armando Libergolis, allevatore di Manfredonia dell’omonima famiglia coinvolta nella sanguinosa faida di Monte Sant’Angelo con i rivali Primosa /Alfieri, contrassegnata da 35 morti in trent’anni, tornerà a breve ad essere un uomo libero. Dopo 3 anni e 9 mesi trascorsi in cella.Libergolis, detto ‘Calcarula’, è ritenuto al vertice della mafia garganica e nel processo in Assise è accusato anche di 5 omicidi oltre che di traffico di droga, armi e furto: si dichiara innocente. La Corte d’Assise di Foggia ha disposto per il 26 giugno 2008 la scarcerazione del presunto boss, sia pure vietandogli di vivere a Manfredonia e imponendogli l’obbligo di recarsi ogni giorno a firmare in caserma dai carabinieri nel paese dove si stabilirà.Con Libergolis, saranno scarcerati altri 3 imputati del maxi-processo: Giovanni Prencipe, di San Giovanni Rotondo, detto ‘Giovannuzz’ imputato di due omicidi,

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mafia e traffico d’armi (resterà però detenuto per un altro omicidio); il compaesano Giovanni Cirella accusato di mafia e omicidio; Vincenzo Padula, di Apricena, che risponde di spaccio. E nell’arco di un mese stessa sorte – scarcerazione per decorrenza termini – per altri imputati: al momento, dei 24 imputati in attesa di giudizio, la metà sono detenuti. A breve saranno scarcerati altri imputati ritenuti elementi di spicco della malavita garganica quali Franco Libergolis (fratello minore di Armando) accusato di mafia, 2 omicidi, droga ed estorsione; Giovanni Giovanditto, di Sannicandro, è accusato di aver compiuto e/o partecipato a ben 13 omicidi, oltre a rispondere di mafia, droga, armi, favoreggiamento. Al momento la sua istanza di scarcerazione per decorrenza di termini è stata rigettata, sarà accolto il prossimo 10 luglio quando anche per lui matureranno i tre anni massimi di carcerazione preventiva.Il blitz di Dda e carabinieri contro la presunta mafia garganica scattò il 23 giugno 2004. Armando e Franco Libergolis sfuggirono alla cattura e si costituirono tre mesi dopo, nel settembre 2004, al carcere di Melfi. Dei 107 imputati per i quali la Dda aveva chiesto il rinvio a giudizio, in 80 optarono per il giudizio abbreviato (già celebrato il processo di primo e secondo grado). Per altri 24 invece, nel giugno 2005, il gup di Bari dispose il rinvio a giudizio in Corte d’Assise a Foggia: il processo è iniziato il 5 novembre 2005. Per i detenuti imputati di omicidio bisogna arrivare alla sentenza di primo grado entro un anno e mezzo dalla data del rinvio a giudizio (in caso di condanna i termini di carcerazione ripartono da zero). Vista la complessità del processo, i giudici di Foggia il 21 novembre 2006 avevano sospeso i termini di carcerazione preventiva. Ma – dice il codice di procedura penale – la durata massima della custodia cautelare non può superare il doppio dei termini previsti: cioè non può superare i tre anni di reclusione.Ecco spiegata la scarcerazione di Armando Libergolis, ossia colui che l’accusa pone al vertice del <<clan dei montanari>> insieme a Franco Romito, anche lui di Manfredonia, che però nel processo abbreviato è stato assolto in primo e secondo grado da tutte le accuse, comprese quelle di mafia. I giudici foggiani, nel prendere atto che i termini di carcerazione sono scaduti, rimarcano anche come <<allo stato non possono dirsi venuti meno i gravi indizi di colpevolezza, come pure le esigenze cautelari>> nei confronti degli imputati che saranno scarcerati: da qui il divieto di dimora nel proprio comune di residenza, con l’obbligo di firma quotidiano in caserma per Armando Libergolis, Prencipe, Cirella e Padula. Se Armando Libergolis è ritenuto il capo della mafia garganica, Giovanni Prencipe è considerato il refernte nella zona di San Giovanni Rotondo del cosiddetto <<clan dei montanari>>. Nel decidere di scarcerarlo per decorrenza termini, i giudici hanno rimarcato come di fronte ad arresti a catena per reati comunque connessi (Prencipe è stato arrestato prima per un omicidio e dopo qualche mese per un secondo omicidio), la data da cui partire per calcolare i termini di carcerazione preventiva è quella del primo arresto non dell’ultimo. Prencipe resta però detenuto in atesa di giudizio di un altro omicidio. Quindi porte aperte, per far uscire dal carcere Armando Libergolis. Porte aperte anche per Giovanni Cirella (risponde di un solo omicidio) e al pusher Vincenzo

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Padula. Tra un mese, come abbiamo più sopra precisato, sarà la volta del killer Gennarino Giovanditto, ritenuto la mano armata di 13 delitti e del fratello di Armando, francesco Libergolis, accusato di due morti. Scarcerazioni che hanno sollevato un polverone di polemiche, mentre si scopre che un perito del tribunale nominato dai giudici di Assise per trascrivere le intercettazioni, un ex sottufficiale dei carabinieri, per un intero anno non avrebbe fatto nulla e per questo è stato denunciato. Solo in seguito ne sarebbero stati nominati altri sette, che si sono trovati in gravi difficoltà per l’elevata mole di lavoro.In quello che sta diventando una storia al veleno, si incrociano ora accuse più o meno esplicite, cassette audio manipolate, verbali mancanti o non firmati e migliaia di intercettazioni. Una scelta, quella di utilizzarle tutte, fatta in nome della trasparenza dal primo pm, quando emersero collusioni fra carabinieri incaricati delle indagini ed esponenti del clan: nelle scrivanie di due marescialli furono trovate cassette originali di intercettazioni ambientali, che avevano registrato un summit mafioso, le cui copie ascoltate in aula erano invece state manipolate e rese inservibili.La notizia della raffica di scarcerazioni vive ora di indignazioni e proteste di chi si chiede come sia potuto succedere e chiede subito spiegazioni.Prende subito le distanze il Procuratore della Repubblica di Foggia: << Non è la Procura di Foggia ad aver istruito il processo, bensì la Direzione distrettuale antimafia di Bari. Non c’entriamo nulla in questo che sta accadendo>>. Giudici contro giudici insomma, lo scontro tra toghe si ripete. E le accuse del Procuratore di Foggia ai magistrati della Dda non sono cadute nel silenzio. Poche ore dopo è stata la stessa Procura generale della Corte d’Appello di Bari a chiedere informazioni urgenti alla Dda del capoluogo sulle scarcerazioni di boss e pericolosi killer. E la risposta della Dda non si fa attendere: <<Siamo stati ufficialmente investiti di una richiesta di notizie dalla procura generale e daremo una risposta quanto prima>>, è stata la lapidaria dichiarazione del Procuratore della repubblica di Bari, che è anche coordinatore della Dda.Ma è indignato lo stesso Armando Libergolis perchè nel momento in cui la Corte d’Assise di Foggia lo scarcera per decorrenza di termini, gli ha vietato di vivere a Manfredonia. <<Lì ho la casa, lì vivono mia moglie e i miei figli. E’ un’ingiustizia che mi si vieti di viverci. Quasi quasi resto in cella per protesta>>, aveva pure pensato Libergolis, come se il carcere fosse un albergo dove si sceglie se entrarci o uscirvi. (29) AttentatiAttentato incendiario, o più semplicemente un ‘avvertimento’, la notte del 19 aprile 2008 nella centralissima piazza Duomo a Lucera. A essere preso di mira dai ‘soliti ignoti’ è stato il noto bar Saraceno di Sergio Vellonio. Nella notte qualcuno è riuscito a introdurre del liquido incendiario sotto l’uscio di una delle entrate secondarie del locale che sono situate lateralmente all’entrata principale.

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Del fumo e di quanto stava bruciando all’interno del locale se ne sono accorti i gestori di una vicina pizzeria. Subito dopo nella zona è passata una ‘volante’ della Polizia di Stato che, registrato l’evento, ha provveduto ad avvisare il proprietario del locale, Una chiamata provvidenziale che è valsa ad intervenire prima che le fiamme ghermissero tutto il locale, magari alimentate dalle centinaia di bottiglie di vino e liquori in genere stipate sugli scaffali antistanti il bancone del bar. I danni, comunque, ci sono stati alle suppellettili e ammonterebero ad alcune migliaia di euro.Le indagini sono state avviate e non ci sarebbe, manco a dirlo, nemmeno l’ombra di un testimone.

*Esplode bomba dinanzi ad attività commerciale. Il fatto è accaduto la notte del 21 maggio 2008 a Vieste, in una stradina del centro, precisamente in via Giuliani. Lo scoppio, molto forte, è stato avvertito in tutta Vieste dalla popolazione che data l’ora (poco dopo le 22,30) era ancora sveglia. Indubbiamente, la forte deflagrazione ha creato non poco panico, anche perché non è, purtroppo, la prima volta che a Vieste si registrano episodi molto preoccupanti. Fortunatamente non sono stati rilevati danni significativi. Resta il dato di fatto che non può destare apprensione considerata la spregiudicatezza da parte di chi (o di coloro) che stanno, com’è comprensibile, seminando paura tra la popolazione. Le indagini vengono condotte dai militari della locale Tenenza dei carabinieri e dalla Compagnia di Vico del Gargano.Per il momento non ci sono piste privilegiate, anche se è possibile che lo scoppio della bomba sia da collegare all’incendio appiccato alcune notti addietro alle auto del marito e del padre della proprietaria del negozio dove è stato fatto esplodere l’ordigno.L’episodio, appena descritto, segue di poco quello che vide incendiata l’auto di Nicola Tantimonico, noto costruttore del luogo. Allora fu possibile evitare che le fiamme raggiungessero anche altre sette autovetture che erano parcheggiate a pochi metri di distanza. Fu però danneggiata leggermente l’edicola ‘De Maria’. (29)

*Un incendio, la cui origine non è stata ancora accertata, ha distrutto un camion con rimorchio, parcheggiati in un’azienda per la trasformazione di prodotti agricoli, aperta il 2003 da due fratelli foggiani e situata nell’area industriale Asi di Borgo Incoronata. Le fiamme sono state domate dai vigili del fuoco del comando provinciale che si sono riservati di pronunciarsi sulle cause dell’incendio, pur se si sospetta l’orogiune dolosa. Le indagini sono affidate alla polizia.L’allarme è scattato all’una nella notte tra il 30 e il 31 maggio 2008. Le fiamme hanno distrutto l’autoarticolato ‘Scania’ con rimorchio sul quale erano caricati cassoni in parte vuoti, in parte contenenti residui di lavorazione: il mezzo è andato distrutto e i danni ammontano ad alcune migliaia di euro.

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I poliziotti hanno interrogato la titolare che avrebbe escluso d’aver ricevuto minacce e/o richieste estorsive. (29)

*I carabinieri sono al lavoro per far luce su un oscuro episodio avvenuto la notte tra il 12 e ilo 13 giugno 2008 alloché ignoti hanno esploso quattro colpi di fucile calibro 12 all’indirizzo di un ristorante ubicato a qualche centinaio di metri dallo scalo ferroviario di Cerignola-Campagna sulla provinciale per Manfredonia. Il fatto dovrebbe essere avvenuto nel cuore della notte, quando il locale era chiuso e nall’area di sosta annessa (frequentatissima da camionisti) vi erano diversi Tir.Nessuno si sarebbe accorto di nulla, al punto che la scoperta delle vetrate infrante dai colpi di fucile è stata fata verso le sei del mattino dal proprietario del locale. Un paio di camionisti, interrogati dai carabinieri, hanno detto di aver udito dei botti durante la notte, ma di aver pensato che si fosse trattato di qualcosa di simile a mortaretti. (29)

*Incendiata nella notte tra il 13 e il 14 giugno l’auto di Fernando Frattulino, foggiano, avvocato e consigliere comunale per il Partito Democratico. Indagini per identificare i responsabili dell’incendio sono state avviate dalla polizia: il consigliere comunale è stato interrogato dagli investigatori ai quali ha detto di non aver ricevuto minacce o intimidazioni. Nessun dubbio sull’origine dolosa dll’incendio divampato in un cortile di via Labriola, dov’era parcheggiata la ‘Toyota Yaris’ di Frattulino.Nella stessa nottata è stata incendiata in via D’Addedda la ‘Lancia Y’ di una foggiana: le fiamme hanno danneggiato anche una ‘Fiat 600’ parcheggiata accanto. Si escludono, almeno per il momento,, collegamento tra i due incendi. (29)

*Una busta di colore giallo contenente una cartuccia da fucile da caccia e la scritta <<Stai attento bastardo>>. Questa la spiacevole scoperta fatta nella mattinata del 13 giugno 2008 presso la locale sede della Cgil di via Mancini 13. La lettera, composta da ritagli da giornali, e contenente la cartuccia era indirizzata al coordinatore della Camera del Lavoro di Lucera, recava la scritta << X Ennio Festa>>.Un avvertimento mafioso in piena regola quello indirizzato al sindacalista che dal luglio 2006 dirige la Cgil di Lucera che raccoglie anche i centri limitrofi del Subappennino dauno settentrionale. A denunciare l’accaduto al commissariato di pubblica sicurezza lo stesso sindacalista che ha segnalato inoltre alle autorità di polizia di aver rinvenuto, nei giorni precedenti l’accaduto, la testa mozzata di un gatto appoggiata sul cofano anteriore dedlla propria autovettura, parcheggiata nei pressi dell’assessorato ai servizi sociali di via Petrarca. La lettera anonima, contenente la cartuccia, è stata rinvenuta alle 13,55 del 13 giugno, è stata quindi depositata nella cassetta postale della Cgil in pieno giorno quando gli uffici del Sindacato brulicavano

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di iscritti ed utenti. Un particolare questo che ancora più inquietante per un episodio già di per sé allarmante per la città, dopo le diverse missive anonime ricevute, nei mesi scorsi, dal Sindaco, nei propri uffici del Comune e nella cassetta delle lettere della propria abitazione. Se a quest’ultimo sono state indirizzate lettere scritte in un italiano maldestro, con ingiurie e minacce generiche, ben più grave appare l’episodio della busta inviata al coordinatore della Camera del Lavoro, sia per la presenza di una cartuccia che per la tecnica di utilizzare ritagli di giornali per comporre l’avvertimento.Gli investigatori sono al lavoro per cercare di capire i motivi dell’avvertimento, se è opera di un mitomane o se tra spunto da qualcos’altro. (29) Il Sindacato, da parte sua, chiede che la Direzione distrettuale antimafia si occupi del ‘caso Lucera’, magari prendendo le mosse proprio dalle precednti denunce partite dalla Cgil di Lucera. Ma non basta, il Sindacato ha segnalato, più volte, l’imbarbarimento del clima che non di rado ha lambito anche le sponde della politica locale. Nel novembre 2007 la Cgil rese pubblico un documento che in qualche modo racchiudeva la propria posizione, scaturita a seguito di un impegnato dibattito interno. <<Gli atti intimidatori ostacolano il confronto sereno e democratico dello svolgimento dell’ attività politica>> dichiarò lo stesso Festa all’indomani della notizia di una terza lettera minatoria ricevuta dal Sindaco. E sono ancor più gravi se raggiungono il primo cittadino con il chiaro intento di colpire l’insieme delle istituzioni democratiche in un Comune in cui è difficile fare politica. E aggiunse: <<L’intreccio tra politica e affari a Lucera ha raggiunto un inquinamento pauroso e quello che sta succedendo negli ultimi mesi è solo la diretta conseguenza di questa situazione. Noi, come Sindacato, abbiamo denunciato queste cose pubblicamente, ma ci dispiace non registrare riscontri e segnali da chi è chiamato a chiarire fatti e vicende che oramai sono praticamente di dominio pubblico. Purtroppo sta passando una sorta di messaggio che disegna Lucera come terra dove fare affari e, con questioni come l’eolico e il Piano Urbanistico, si capisce bene come gli interessi si facciano sempre più pressanti>>. Come si legge, facile profeta nell’anticipare quello che sarebbe accaduto, in tema di tensione, sospetti e accuse velate pronunciate anche negli ultimi consigli comunali, con la discussione del problema dell’eolico. E si parla anche di una variante che interesserebbe la zona della 167.Elementi per elettrizzare non mancano, anche se il clima lo era anche undici mesi fa. Il 5 giugno 2007 quando Vincenzo Morlacco, candidato Sindaco, si vide recapitare presso l’amministrazione provinciale, dove presta servizio, una lettera anonima imbucata in quel di Bari. (29)

Due feroci assassiniDopo nove mesi di indagini hanno un volto i presunti assassini di Marisa Scopece, la ragazza 23enne di origini foggiane il cui cadavere carbonizzato venne ritrovato l’11 settembre 2007 a Barletta, nella zona della Madonna dello Sterpeto, uccisa da otto colpi di pistola. Si tratta di due cugini di Trinitapoli, Raimondo Carbone (29 anni) e

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Giuseppe Gallone (31 anni), che potrebbero aver ucciso la ragazza il 6 settembre, dopo che uesta aveva preteso la restituzione del denaro – non meno di 20-5mila euro che Marisa portava sempre con sé – affidato loro qualche tempo prima.La mattina del 19 giugno 2008 sono stati raggiunti da provvedimenti di custodia cautelare in carcere nell’istituto di pena di Foggia, dove sono detenuti per il tentato omicidio di Michele Miccoli e Luca Sarcina, avvenuto a Trinitapoli il 25 febbraio 2008. Proprio questo tentato omicidio ha incastrato i due, in quanto la pistola a salve modificata utilizzata in quell’agguato è risultata essere la stessa che aveva già freddato Marisa Scopece. Il sostituto procuratore di Trani che ha coordinato le indagini della Squadra mobile della Questura di Bari e del commissariato di Barletta, li accusa di omicidio premeditato, distruzione di cadavere e detenzione illecita di arma da fuoco. Accuse sostenute dal pm anche a carico di Emanuele Modesto, sempre di Trinitapoli, socio di Gallone e Carbone in varie attività criminali. Modesto, peraltro, lavorava insieme a Carbone in un’azienda che si trova poco distante dal luogo in cui venne trovato il cadavere della ragazza. Il giorno presunto dell’omicidio i due non si presentarono al lavoro. Ma il gip non ha ritenuto di applicare la misura cautelare nei confronti di Modesto, mentre altre due persone di Cerignola risultano indagate per favoreggiamento.Carbone fu colui che vendette, per 100 euro, i due cellulari della ragazza a due magrebini qualche giorno dopo l’omicidio. Mentre non sono stati mai trovati la sua auto, una Opel Tigra, e i soldi che portava sempre con sé. L’unica cosa trovata, il 22 ottobre, fu la borsetta con i documenti e alcuni effetti personali lungo i binari della ferrovia in direzione di Trinitapoli. Il che portò gli investigatori a pensare che i suoi assassini se ne fossero disfatti mentre tornavano a casa. La pista foggiana è diventata però quella risolutiva dopo molti tentativi, che avevano portato gli inquirenti anche a indagare su un pregiudicato che perseguitava la ragazza e l’aveva costretta a prostituirsi anche in Montenegro; sul suo fidanzato bitontino, molto violento; su un uomo di Corato fortemente indiziato per reati di tipo sessuale. E non sono mai stati trascurati nemmeno i tanti contatti della ragazza con professionisti di varie città, che erano suoi clienti. Marisa, con un passato difficile alle spalle di bambina allontanata dalla famiglia di origine e data in affidamento per poi finire in una comunità, e aveva finito con il prostituirsi e assumere anche sostanze stupefacenti. (32)

*E’ avvolto nel mistero l’assassinio di Ciro Piancone, un muratore di 35 anni di San Severo, crivellato di colpi all’alba del 21 giugno 2008 nella sua abitazione, un basso in uno dei quartieri storici del centro dell’Alto Tavoliere. Chi lo ha ucciso ha sparato 11 volte, utilizzando una pistola ‘357 Magnum’ raggiungendolo alla testa, al petto e alle gambe. Inutile ogni tentativo di soccorso.Un testimone – nel quartiere abitano molti agricoltori, che si alzano molto presto – ha segnalato alla polizia, d’aver visto un auto scura in fuga con due persone a bordo.

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Quasi certo che Piancone conosceva i killer: lo si pensa perché la vittima potrebbe aver aperto la porta ai sicari. Così come il fatto che alle 4,30 il muratore fosse già vestito potrebbe far pensare che aspettasse qualcuno, che avesse un appuntamento con chi magari aveva progettato di ucciderlo.Le indagini sull’ottavo omicidio in questo primo semestre 2008 in Capitanata – il primo a San Severo – seguono due piste privilegiate in questa primissima fase: quella passionale, anche perché una voce insistente parla di una donna presente in casa al momento del delitto (pur se la polizia smentisce); oppure quella di un litigio forse legato alla gestione di qualche slot-machine (anche questa non confermata dagli inquirenti).Si scava nel passato della vittima per cercare un movente e quindi i killer. Nel fascicolo di Piancone solo un paio di vecchie denunce per reati minori che poi non avevano avuto seguito. In una città dove gli affari della criminalità sono legati principalmente allo spaccio di droga, all’estorsione, il nome della vittima non era mai comparso nelle decine di inchieste di anni remoti e recenti.Piancone da anni separato dalla moglie, viveva da solo nel piccolo locale a pianterreno di via Volturno 10. Fino a maggio aveva lavorato per un’impresa di Torremaggiore, poi era stato licenziato per mancanza di lavoro. Qualche giorno fa pare che avesse avuto un violento alterco con un concittadino pure identificato. Due le voci sul perché di questo litigio: la prima per motivi di gelosia, la seconda legata alla gestione di videogiochi. (32)

La sentenza del processo <<Domus>>Voleva sì far sloggiare il concittadino dall’alloggio popolare per sistemarci l’amante, ma non tentò di ucciderlo. E’ il senso della sentenza d’appello nel processo <<Domus>> a Giuseppe Pacilli, detenuto presunto mafioso di Manfredonia soprannominato ‘Peppe u’ muntanare’, ora condannato a soli 4 anni e 6 mesi per violenza privataa fronte dei 16 anni di reclusione che gli erano stati inflitti in primo grado a Foggia per tentato omicidio, armi e tentata estorsione: è stato assolto dai reati più gravi.Pene ridotte con derubricazione dei reati più gravi anche per gli altri 4 coimputati. Gesualdo Fiore è stato condannato a 2 anni di reclusione (pena sospesa) per tentata violenza privata ed armi; è stato assolto dall’accusa di concorso in tentato omicidio per la quale era stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione. Condannato a 2 anni Nicola Fiore, per violenza privata a fronte dei 10 anni inflitti per tentato omicidio. Un anno di reclusione a Gennarino Lungo: anche per lui è caduta l’accusa di concorso in tentato omicisio per la quale gli erano stati assegnati 9 anni e mezzo di carcere. Un anno e 2 mesi di reclusione, infine, per Giuseppe De Cristofaro: in primo grado gli furono inflitti 9 anni per tentato omicidio, reato ora derubricato in tentata violenza privata.La sentenza della Corte d’Appello di Bari, pronunciata il 24 giugno 2008, ha quindi di gran lunga ridimensionato l’impostazione accusatoria dell’inchiesta della Procura

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di Foggia e della Compagnia dei carabinieri di Manfredonia, che il 14 ottobre del 2005 portò all’arresto di 7 persone.Secondo la tesi accusatoria originaria, Giovanni Potenza, giovane pescatore di Manfredonia, per tre volte era sfuggito al fuoco dei killer che intendevano punirlo per non aver obbedito all’ordine del boss Pacilli che gli aveva intimato di lascioare la casa popolare, in quanto intendeva sistemarvi la propria amante. Nel luglio del 2002, Giovanni Potenza aveva occupato con moglie e figli un alloggio popolare, situato nel secondo piano di zona. Il problema era che quella casa Giuseppe Pacilli la voleva per sé. Da qui l’invito e le minacce a Potenza – diceva l’accusa – perché lasciasse libero l’alloggio.Il suo rifiuto aveva provocato la reazione di Pacilli e dei complici, nella prospettazione accusatoria. Il 17 agosto del 2002 Potenza era in auto quando era stato ferito ad una spalla dalle pistolettate esplose da due persone; il 30 ottobre del 2002 il pescatore sipontino sfuggì ad un nuovo agguato solo perché il fucile impugnato da un killer s’inceppò; il 12 marzo del 2003 infine Potenza quando vide una persona armata avvicinarlo, temendo per la propria vita scappò. E fu dopo quell’episodio – diceva l’accusa – che il pescatore terrorizzato non solo lasciò la casa popolare, ma andò via anche da Manfredonia. L’imputato principale era, come abbiamo letto, Giuseppe Pacilli, ritenuto vicino al ‘clan dei montanari’: è coinvolto nell’inchiesta sulla mafia garganica per la quale è stato condannato a 8 anni per mafia, estorsione e armi. E’ stato invece recentemente assolto in appello dall’accusa di aver ucciso, il 5 agosto del 2002, il macellaio manfredoniano Matteo Quitadamo perché non voleva lasciare alla moglie l’appartamento che la donna aveva venduto: in primo grado Pacilli era stato ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio e condannato a 30 anni, in appello era stato assolto. (32)

TARANTOIl rapporto della Direzione Investigativa Antimafia – luglio – dicembre 2007Nella provincia di Taranto <<il quadro della criminalità si presenta disomogeneo, pur a fronte di residuali presenze sul territorio dei gruppi storici>>.Gli investigatori della Dia evidenziano come nel periodo considerato <<non si rilevano segnali dell’esistenza di associazioni dedite alle estorsioni e all’usura>>. La mancanza di organizzazioni criminali non significa però che i reati di estorsione e usura non vengano compiuti. Semplicemente <<le estorsioni in danno di commercianti e imprenditori sono generalmente praticate da delinquenti comuni>>.Per quanto riguarda il resto della provincia non emergono situazioni da segnalare in particolare che possano dimostrare un ruolo di primo piano della criminalità

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organizzata o di tipo mafioso. Gli attentati posti in essere nei confronti di amministratori locali (a Torricella, Monteisai e Castellaneta) non sarebbero riconducibili al crimine organizzato. (34) Gioco d’azzardo In un circolo di Ginosa venivano effettuate scommesse clandestine. Con quest’accusa due persone sono state denunciate, mentre strumentazione informatica e altre attrezzature del valore complessivo di 30 mila euro sono finite sotto sequestro. I carabinieri della Compagnia di Castellaneta hanno fatto irruzione il 22 aprile 2008 in un circolo in cui erano stati installati quattro computer e altro materiale ritenuto utile per svolgere l’attività illegale. Secondo l’accusa due persone del posto hanno messo su il giro illecito. Per questo sono state denunciate a piede libero. A far scattare il blitz degli uomini dell’Arma è stato il continuo e insolito andirivieni di gente dal locale che, stando a quanto emerso dagli immediati accertamenti, non era muinito dalle autorizzazioni necessarie per le scommesse. (18) TruffeA giudizio della Procura il sistema che gli indagati avevano ideato sembrava perfetto per poter raggiungere i propri scopi; creare una società commerciale al di sopra di ogni sospetto, prendere contatti con ditte fornitrici, acquistare merci in gran quantità e, poi, quando arrivava il momento di saldare i conti far trovare ai malcapitati creditori solo le briciole, sempre che ve ne fossero rimaste.A giudizio della Procura quello che sembrava essere stato un maxi-raggiro in piena regola avrebe causato danni patrimoniali calcolati nell’ordine del milione e 680mila euro. Una somma accumulatasi nel corso almeno di un paio di anni, fino a quando le prime crepe non si sono manifestate facendo scricchiolare un impianto che dovrà essere valutato da un giudice. E questo alla luce della richiesta di rinvio a giudizio con cui il pm inquirente ha definito il proprio lavoro. Gli elementi raccolti nell’ambito di una lunga attività di indagine non hanno fatto altro che deporre contro tutti coloro che avrebbero dato vita agli ipotizzati raggiri. Tant’è che l’epilogo naturale è stata la trasmissione del procedimento al gup del Tribunale, avvenuta il 16 giugno 2008.Sono 24 le persone che rischiano di doversi difendere nel corso di un regolare processo. Di queste, cinque risultano gravate dall’accusa di associazione a delinquere. Un’associazione di cui Claudio Anastasio Recchia, imprenditore di origine tarantina, viene ritenuto l’indiscusso protagonista. Sarebbe stato proprio lui a pianificare, prima, e a porre in essere, successivamente, una serie di artifici e raggiri tesi a carpire la buona fede delle ditte interlocutrici, le stesse che poi sarebbero rimaste vittime dei bidoni. Nel corso dell’inchiesta Recchia si è difeso sostenendo di non sapere nulla delle maxi-truffe. Ha illustrato una versione dei fatti diversa da quella sostenuta dalla magistratura. Si è difeso tentando di tirare fuori dai guai la moglie e gli altri soggetti travolti dalle indagini. Stando alle decisioni della Procura, la sua versione non ha convinto.Recchia è, infatti, accusato di aver gestito direttamente o indirettamente svariate società commerciali. Le stesse che, stando a quanto ipotizzato, sarebbero

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diventate lo strumento utilizzato per mettere a segno le truffe. Gli accertamenti dei carabinieri hanno rilevato che il sistema ideato dagli indagati stava funzionando alla grande, tenuto conto del volume d’affari realizzato. Secondo la Procura, solo un’associazione a delinquere avrebe potuto gestire una simile situazione.Il sistema fu portato alla luce dagli arresti e dai sequestri effettuati nel febbraio 2007. A finire nel mirino della magistratura furono lo stesso Recchia ed altre sei persone. Fra queste sono in cinque a doversi difendere dall’accusa di associazione a delinquere. Oltre a Recchia figurano nell’elenco: Mario Morea, Teresa La Neve, Francesco Sportelli ed Angelo Pontrelli. Altri inquisiti sono accusati di aver preso parte alle truffe, mentre un numero esiguo di indagati deve difendersi dal sospetto di aver riciclato il denaro, provento delle attività illecite contestate dalla Procura.Secondo il pm solo un processo potrà far chiarezza su un raggiro che avrebe causato gravi danni economici a numerose società commerciali. Come una appartenente al gruppo ‘Carrefour Italia’ che fu la prima a sporgere denuncia. (18)

Troppi attentati, le estorsioni ?Preoccupano gli incendi che stanno infiammando le notti di Taranto.Nel mese di marzo 2008 sono andate in fiamme 21 autovetture. Il dato emerge da un’elaborazione dei Vigili del Fuoco. In provincia i casi registrati sono 27.Solo il 29 marzo 2008 un incendio ha distrutto tre autovetture e danneggiato una quarta in una via della città.Anche se non tutti i casi segnalati sono di origine dolosa il dato è in ogni modo preoccupante, tanto che il 1° aprile sul tema si è tenuto un incontro in Prefettura a cui hanno preso parte, tra gli altri, i vertici della Questura e dei Carabinieri.Quanto accaduto non può non creare nuovi timori nella città.Il modus operandi è spesso simile. La sostanza infiammabile, molto probabilmente benzina, viene versata sul cofano anteriore (per farla scolare nel motore) e sugli pneumatici, poi viene appiccato l’incendio.Durante la riunione in Prefettura è stata scartata l’ipotesi di un disegno criminoso mirato a seminare il malcontento nella città. Ciò però non può del tutto escludere, secondo alcuni, che parte di essi siano il frutto di minacce o di veri propri avvertimenti legati a tentativi di estorsione. (18)

*Tanto più che è del 2 aprile 2008 l’arresto di due giovani, da parte dei militari dell’aliquota operativa della Compagnia Carabinieri di Taranto, che minacciavano a scopo estorsivo un imprenditore edile.I due giovani sono Luciano Sale di 32 anni e Antonio Vapore, 22enne, entrambi noti alle forze dell’ordine.

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I due avevano in mente di mettere in atto l’estorsione di Natale. I carabinieri durante le indagini hanno appurato che i due giovani si sono recati più volte presso un cantiere edile che si trova nei pressi di corso Umberto e, dopo aver contattato il titolare dell’impresa, hanno richiesto un ‘regalo’ di 500 euro per assicurare un’adeguata vigilanza.Una circostanza definita ‘inquietante’ dagli investigatori è stata quella che, proprio in quei giorni, nel cantiere, ignoti avevano tranciato un cavo elettrico di alimentazione dei macchinari, provocando non pochi disagi alla ditta. Si dovrà appurare se si tratta di una casualità oppure di un atto studiato per intimorire e ammorbidire la volontà dell’imprenditore edile.Le indagini sono state condotte con l’ausilio di intercettazioni ambientali, servizi di osservazione e pedinamento. Indagini non semplici.Durante i colloqui con la vittima, i due non avrebbero mai parlato di estorsione, ma di ‘servizi di vigilanza’ dal prezzo ‘di un panettone’ di 500 euro.Gli esiti sono stati riferiti all’Autorità Giudiziaria che ha provveduto ad emettere un provvedimento restrittivo. (18)

*E che l’estorsione non possa essere esclusa tra i delitti che imperversa il territorio lo conferma ancora l’episodio accaduto il 3 aprile 2008. Ignoti hanno dato fuoco, nella notte tra il 2 e il 3 aprile, a tre escavatrici di proprietà di una impresa edile che si trovavano all’interno di un cantiere. Il fuoco è stato appiccato mediante del liquido infiammabile versato all’interno delle cabine dei mezzi. Il danno ammonta a 75mila euro. Il titolare dell’impresa, che non ha commesse per lavori pubblici ha dichiarato agli investigatori, come generalmente accade, di non aver ricevuto mai richieste estorsive.I carabinieri, tuttavia, non scartano né l’ipotesi che dietro l’attentato vi sia il racket delle estorsioni, né che i motivi siano da ricercarsi in dissidi maturati nell’ambito lavorativo o personale dell’imprenditore. (18)

*C’è anche di più. Due personaggi col volto semicoperto da un cappuccio e con fare spregiudicato, per far capire che non scherzavano, in più occasioni hanno fatto irruzione in un supermercato di Talsano e hanno dato l’aut aut al proprietario.Stando ad una prima ricostruzione dei fatti, col pretesto di dover recuperare un credito per conto di un fornitore, hanno intimato al commerciante di sborsare la somma di 50 mila euro in contanti. Secondo l’accusa, l’ultima volta che si sono presentati per paventare il commerciante e indurlo a cedere al ricatto hanno tuonato ancora: <<Ti conviene pagare. Altrimenti saranno guai. Ti faremo saltare in aria insieme al supermercato>>.

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Il commerciante, spaventato, ha trovato il coraggio per denunciare l’accaduto alla Polizia, riferendo di essere taglieggiato da due individui. E’ scattata così la trappola. Gli agenti della Squadra mobile hanno predisposto un servizio di osservazione durante il quale hanno identificato i due taglieggiatori. Alla vittima hanno dato precise indicazioni sull’ora, le modalità di pagamento e la consegna della somma pretesa.Presentatisi all’interno del supermercato, hanno prelevato la busta che avrebbe dovuto contenere il denaro mentre in realtà erano state sistemate solo alcune banconote da 50 euro, precedentemente fotocopiate dagli investigatori.Ricevuta la busta con i soldi, i due sono stati circondati dai poliziotti che li hanno bloccati e condotti in questura.Daniele De Pace, incensurato, e Sergio Restano, già noto alle forze dell’ordine, entrambi tarantini, l’11 aprile 2008 sono stati arrestati e condotti in carcere in quanto ritenuti responsabili di estorsione in concorso fra loro.Proseguono le indagini della mobile per scoprire se svolgono il ruolo di braccio armato di una organizzazione più vasta e pericolosa.Gli investigatori non escludono che l’episodio sia il segnale del racket delle estorsioni che tenta di rialzare la testa e di allungare le mani sulle attività commerciali della borgata. (27)

*Nelle prime ore del 12 aprile 2008 a San Giorgio Jonico è stato perpetrato un attentato incendiario ai danni del supermercato “Supernegozi Meta”.Sono scattate le indagini dei carabinieri della Stazione di San Giorgio Jonico e della Compagnia di Martina Franca, i quali hanno effettuato un accurato sopralluogo alla ricerca di elementi utili per l’attività investigativa.La proprietaria, una donna del posto ascoltata dai militari, avrebbe spiegato di non aver ricevuto minacce o richieste estorsive. Da quanto si è appreso, non avrebbe saputo fornire alcun elemento utile per orientare le indagini in una direzione ben precisa.Gli investigatori non escludono che possa essersi trattato di una possibile azione del racket delle estorsioni. (27)

*Ancora un attentato incendiario. La notte tra il 14 e il 15 aprile 2008, in località Bagnara, ignoti hanno dato fuoco al chiosco di una rosticceria aperta soltanto durante l’estate.Le fiamme hanno divorato l’intera struttura e varie attrezzature custodite al suo interno, causando danni ingenti, per un ammontare (stando alle prime stime) di diverse migliaia di euro.

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Sull’inquietante episodio sono scattate le indagini dei carabinieri della stazione di Lizzano e della Compagnia di Manduria. I militari stanno seguendo diverse piste nel tentativo di fare piena luce sul movente dell’attentato e di identificare gli autori.Il chiosco è di proprietà di un commerciante di Sava, un incensurato, e questo li induce ad escludere un possibile collegamento con ambienti o con affari poco puliti.Una delle ipotesi al vaglio è quella di un’azione scaturita da questioni di rivalità. Allo stesso tempo, però, gli investigatori dell’Arma non escludono un’altra ipotesi, più inquietante. Quella di una possibile azione del racket delle estorsioni tornato a colpire nel versante orientale della provincia. (27)

*C’è ancora l’ombra del racket dietro l’incendio che la sera del 16 aprile 2008 ha semidistrutto un camion a Lizzano.Gli accertamenti dovrebbero appurare l’esatta natura dell’incendio. Gli investigatori non escludono la natura dolosa, sebbene il proprietario del mezzo abbia asserito di non aver ricevuto minacce o richieste estorsive. Le indagini si muovono ad ampio raggio. E il secondo caso in due giorni: indagini sono in corso a Lizzano per accertare le cause dell’incendio che il 15 aprile ha semidistrutto una rosticceria in località ‘Conche’ sulla litoranea salentina.In tanto ad Avetrana, sempre il 16 aprile, si è verificato un altro incendio che ha distrutto un capannone. Il danno subito dall’imprenditore edile che ha in uso il locale ed è proprietario dei mezzi ammonta a diverse decine di migliaia di euro. L’uomo ha visto andare in fiamme sia il garage che i mezzi custoditi al suo interno, un’automobile e due furgoni, Non del tutto chiare le cause dell’incendio. (28)

*Sembra non finire mai la lunga serie di attentati. Il 18 aprile 2008 è toccato al caseificio ‘La Contadina’ in viale Magna Grecia a Taranto. Ignoti hanno cosparso di liquido infiammabile la saracinesca e hanno appiccato il fuoco e, mentre le fiamme si propagavano rapidamente si sono allontanati senza lasciare traccia.Il sospetto degli investigatori è che il commerciante titolare del caseificio sia finito nel mirino del racket delle estorsioni, anche perché non si tratta del primo atto intimidatorio. Nei giorni immediatamente precedenti, è stato dato alle fiamme un furgone di un’altra attività gestita dallo stesso commerciante, un vivaio di viale Unità d’Italia. I due episodi potrebbero essere opera della mala invisibile pronta a ricorrere a metodi convincenti per imporre la legge del pizzo.I poliziotti stanno tentando di acquisire elementi utili per imboccare la strada giusta. Purtroppo la telecamera installata davanti all’ingresso, la notte dell’attentato non era attiva.

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Ma la notte tra il 17 e il 18 aprile è stata di fuoco. Infatti un analogo episodio si è verificato nelle campagne fra Ginosa e Ginosa Marina dove un deposito di attrezzature agricole è stato danneggiato dalle fiamme. Sono scattate le indagini dei carabinieri con un accurato sopralluogo alla ricerca di elementi utili al prosieguo delle indagini. Sembrano non esservi dubbi sull’origine dolosa dell’incendio. (28)

*Ancora la notte del 25 aprile 2008 un attentato incendiario a Talsano. Nel mirino di ignoti è finito il supermercato “La bottega più”, in via San Bonaventura.Sull’inquietante episodio indagano i carabinieri della Compagnia di Taranto e della Stazione di Talsano. Non è escluso che si sia trattato di un’azione intimidatoria del racket delle estorsioni tornato a colpire nella borgata per imporre la legge del ‘pizzo’.Il commerciante, un incensurato, non ha saputo fornire alcun elemento utile per orientare l’attività investigativa su una pista ben precisa. In questa fase delle indagini, comunque, nessuna ipotesi viene esclusa, a cominciare da quella più preoccupante. Quella di un possibile attentato a scopo estorsivo. (28)

*Attentato incendiario ai danni di un elettricista. E’ stato perpetrato la notte fra il 25 e il 26 aprile 2008 a Castellaneta, in via Togliatti. L’Alfa 166 era parcheggiata sul margine della carreggiata. Intorno alle due, ignoti hanno appiccato il fuoco dopo averla cosparsa di liquido infiammabile (molto probabilmente benzina).Sull’episodio sono scattate le indagini dei carabinieri della Compagnia del posto. I militari stanno vagliando tutte le ipotesi che hanno portato all’attentato, il racket ma non escludono che possa essersi trattato di una ritorsione riconducibile a questioni di carattere personale.

*Nella notte tra il 29 e il 30 aprile 2008 si sono verificati diversi incendi di auto. Nello specifico, agenti della Polizia di Stato sono intervenuti in via Venezia dove due veicoli erano interessati da un incendio.Un altro incendio di autovetture si è verificato in via Temenide. Anche in questo caso è andata semidistrutta un’autovettura per cause ancora in via di accertamento. Su entrambi i casi stanno investigando gli agenti della Questura di Taranto. Sono proprio troppi gli incendi di auto che si verificano in città e non solo. Anche su nessuno di questi ultimi si è affacciata l’ipotesi estorsiva?

*Misterioso attentato dinamitardo ai danni di un pensionato. L’inquietante episodio si è verificato la notte tra il 1° e il 2 maggio 2008 a Torricella. Un ordigno rudimentale è stato collocato e fatto esplodere sotto u’Alfa Romeo 146 parcheggiata

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in via sergente Menza. La deflagrazione ha provocato danni pesanti alla parte anteriore dell’autovettura.I carabinieri della Stazione di Torricella e della Compagnia di Manduria hanno avviato le prime indagini, da cui è emerso che gli autori hanno utilizzato una bomba carta.L’autovettura presa di mira è di proprietà di un pensionato del posto, incensurato. L’assenza di precedenti penali del destinatario dell’attentato induce i militari ad escludere possibili collegamenti con ambienti malavitosi. La pista privilegiata, in questi casi, è quella di una possibile vendetta per questioni di carattere personale. Comunque, la vicenda è ancora tutta da chiarire. (28)

*Un attentato incendiario è stato perpretato la notte tra l’8 e il 9 maggio 2008 a Crispiano. Nel mirino è finito uno dei bar più frequentati dalla cittadina di provincia, il ‘New dimension’. Sono andati completamente bruciati l’intero gazebo, tavolini, sedie e altre strutture del locale. La presenza di legno e di altri materiali facilmente infiammabili ha favorito il rapido propagarsi delle fiamme.Ingenti i danni subiti dall’attività, ammonterebbero ad alcune decine di migliaia di euro.La proprietaria del bar è una donna del posto. Ascoltata dai militari, non avrebbe saputo fornire alcun elemento utile per indirizzare le indgini sulla pista giusta. Si tratta di una incensurata, quindi, questo induce gli investigatori ad escludere ogni possibile collegamento con ambienti o affari poco puliti.Non è escluso che l’attentato sia stato perpretato per questioni di carattere personale. Comunque si tratta di una delle ipotesi al vaglio dei carabinieri che, in questa fas delle indagini, non tralasciano nulla. Nemmeno l’ipotesi più inquietante, ossia quella di una possibile azione del racket delle estorsioni che tenta di imporre la legge del pizzo nella citadina di provincia.

*Misterioso atto intimidatorio la sera del 22 maggio 2008 sulla Taranto-Grottaglie. E’ stato perpetrato poco prima delle 22 da due individui piombati a gran velocità a bordo di una moto di grossa cilindrata nell’area di servizio dell’Agip. Entrambi avevano il volto coperto dal casco integrale e il loro arrivo ha terrorizzato un operaio addetto alla distribuzione del carburante e un cliente che in quel momento era fermo per fare rifornimento alle pompe di gpl.Sull’episodio sono scattate le indagini per far luce sul movente. Probabilmente il messaggio intimidatorio non era indirizzato al dipendente (un giovane tarantino incensurato) ma alla stessa attività. I malavitosi potrebero aver sparato contro la prima auto che hanno trovato ma questo non vuol dire che l’avvertimento a suon di piombo fosse rivolto al giovane.

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Purtroppo le telecamere del sistema di videosorveglianza non saranno di alcun aiuto per gli investigatori in quanto i malviventi si sono fermati sul margine della careggiata, quindi fuori dal raggio di azione. (28)

*Resta in primo piano la pista del racket per dare identità agli autori dell’atttentato, messo a segno la sera del 7 giugno 2008, ai danni dell’azienda Valvin, situata nella zona industriale a cavallo tra San Giorgio e Faggiano, le cose si complicano.I militari hanno effettuato una serie di controlli, ritenendo che ad agire sia stata sicuramente una frangia di quel racket delle estorsioni che ha sicuramente messo radici nel settore orientale della provincia.Allo stato, nonostante i lavori dei tecnici procedano con celerità ma con particolare attenzione, si nutrono pochissimi dubbi sul fatto che, nel caso della ditta Valvin, si sia trattato di un incendio doloso.D’altra parte, i militari della Stazione di Pulsano e quelli della Compagnia di Manduria avrebbero accertato che il portone d’ingresso è stato forzato.L’azienda, finita nel mirino dei malviventi, è specializzata nella realizzazione di impianti industriali per gas, gpl e metano. Si trova in contrada Baronia, zona industriale alla periferia di San Giorgio che appartine in buona parte a Faggiano, secondo una ripartizione geo-territoriale. (28)

*E’ quasi certamente di natura dolosa l’incendio che ha distrutto un garage di un’azienda agricola di Ginosa.L’azienda agricola si trova sulla strada statale 580 che collega Ginosa Marina a Ginosa nei pressi del caseggiato. Le fiamme, divampate nella serata del 14 giugno 2008 verso le 23, hanno distrutto oltre al deposito anche un trattore e attrezzi agricoli contenuti all’interno del locale. Gravi i danni, stimati in alcune decine di migliaia di euro. Sul posto sono intervenuti anche i Carabinieri di Castellaneta per avviare le indagini sul caso. I militari hanno ascoltato il proprietario dell’azienda agricola il quale ha affermato di non aver mai ricevuto minacce o richieste estorsive. Gli investigatori non scartano alcuna ipotesi, nemmeno quello che l’attentato possa essere maturato nell’ambito della sfera lavorativa del piccolo imprenditore agricolo. (28)

*Attentato incendiario ai danni di una nota cartoleria del Borgo. La sera del 22 giugno 2008, ignoti hanno dato fuoco alla tenda parasole della cartoleria “Albano &

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Amodio”, in via De Cesare. Le fiamme sono state domate dai Vigili del Fuoco e sull’accaduto sono scattate le indagini di carabinieri della Compagnia di Taranto.Probabilmente si è trattato di un atto vandalico. L’entità dell’episodio induce gli investigatori ad escludere l’ipotesi di una possibile azione di matrice estorsiva in quanto il racket colpisce in maniera molto più dura, almeno che non si tratti di un primo avvertimento. (28)

*Misterioso incendio nel garage dell’abitazione del sindaco di Castellaneta, Italo D’Alessandro. Le fiamme hanno bruciato una catasta di carta destinata alla raccolta differenziata. Era stata depositata in un angolo del garage condominiale, probabilmente in attesa di essere smaltita. Nella mattinata del 23 giugno 2008 le fiamme hanno distrutto il cumulo, per fortuna senza provocare danni ingenti. Hanno danneggiato una porta interna e il fumo ha annerito una parete. Poi si sono autoestinte. Sull’accaduto sono scattate le indagini dei carabinieri della Compagnia di Castellaneta. Pur essendo un episodio apparentemente di scarsa rilevanza, in questo periodo nulla viene trascurato dai militari del posto. Qualsiasi episodio, anche quello più insignificante, è accuratamente vagliato.Da quanto si è appreso non ci sono dubbi sull’origine dolosa dell’incendio. Ed è proprio la matrice dell’incendio ad indurre gli investigatori dell’Arma a non trascurare il minimo dettaglio. Negli ultimi mesi, a Castellaneta, sono stati perpretati pesanti atti intimidatori nei confronti di alcuni amministratori, l’ultimo dei quali proprio ai danni del sindaco e di sua moglie.E’, comunque, al vaglio dei carabinieri anche un’altra ipotesi che se fosse fondata ridimensionerebbe notevolmente l’accaduto. Non è escluso che l’incendio sia stato appiccato da qualcuno che ha deciso di adottare un sistema pericoloso, ma sbrigativo, per eliminare quel cumulo di cartacce. (28)

*Forse si tratta di un altro atto di teppismo. La notte tra il 23 e il 24 giugno 2008, ignoti hanno incendiato un muletto parcheggiato nella parte retrostante il palco montato sulla Rotonda del lungomare. Stando ad una prima ricostruzione dell’accaduto, qualcuno ha appiccato il fuoco all’interno della cabina guida. Le fiamme si sono propagate rapidamente bruciando il mezzo. I poliziotti non escludono la matrice dolosa dell’incendio anche se nella zona non è stato rinvenuto alcun elemento che possa confermare l’ipotesi del dolo. Saranno le indagini a fare chiarezza sull’episodio che da quanto si è appreso sarebbe riconducibile all’azione dei soliti teppisti di turno. Sarebbero da escludere ipotesi più inquietanti come quella di una possibile azione del racket delle estorsioni.E questo di certo conforta i cittadini, anche se, d’altra parte, questi incresciosi episodi cominciano ad essere numerosi per non allarmare. (28)

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Si torna a sparare Più preoccupante è il fatto che si è ripreso a sparare per le vie cittadine. Infatti, il 2 aprile 2008, vi è stato un agguato nel quartiere Paolo IV. Verso le 22 uno o più sconosciuti hanno scaricato addosso al pregiudicato Osvaldo Mappa colpi di pistola. L’uomo, un quarantenne, è in fin di vita. Ferita anche la madre, Natalia Axo.Stando ad una prima ricostruzione, ignoti hanno citofonato all’abitazione dell’uomo. Mappa, dopo aver risposto è sceso in strada e lì raggiunto da tre colpi di arma da fuoco, uno all’addome, uno alla gamba e uno al torace.Ferita in modo lieve la mamma, scesa in strada anch’essa, forse dopo essersi insospettita della citofonata ricevuta a quell’ora tarda.Ex collaboratore di giustizia, Mappa è rimasto coinvolto in numerosi processi di mala tarantina: è uno degli imputati ‘eccellenti’ del maxi-processo originato dall’operazione antimafia avvenuta negli anni Novanta denominata “Paolo VI” che fece luce su omicidi e attività delittuose perpetrati da quello che veniva considerato un clan emergente di cui Mappa faceva parte.Un uomo che, nel corso degli anni, si era creato conoscenze ma anche nemici: una circostanza che rende più complesse le delicate indagini condotte da investigatori e inquirenti.Un’auto completamente bruciata è stata ritrovata il 5 aprile nelle campagne fra Paolo VI e Martina Franca. Si tratta di un ritrovamento casuale fatto dagli agenti del Commissariato della cittadina della Valle d’Itria nel corso dei controlli del territorio. Ma, considerando l’agguato di mala, di soli due giorni prima, al quartiere Paolo VI, potrebbe esserci un collegamento col tentato omicidio. Non è escluso, infatti, che si tratti dell’auto utilizzata dal commando per piombare a casa del bersaglio designato, Osvaldo Mappa, e per darsi poi alla fuga. Certo, per ora, è soltanto un’ipotesi che i carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale stanno accuratamente vagliando ma non c’è alcun elemento che possa avallarla.Da quanto emerso dagli immediati accertamenti l’auto, una Audi A4, è di provenienza furtiva, rubata alcuni mesi fa a Matera. Il proprietario aveva denunciato il furto.Se è stata incendiata, per cancellare le tracce, sicuramente è stata utilizzata per commettere un reato, forse un furto o, molto probabilmente, una rapina.Saranno carabinieri e poliziotti a fare luce sugli episodi criminosi nei quali è stata impiegata l’auto. (18)

*Nel giro di solo 24 ore, quindi il 3 aprile 2008 verso le 21,45 un sicario a volto coperto è entrato nella pizzeria di proprietà di Pietro Mariano, pregiudicato 35enne. Quest’ultimo si trovava di fronte al forno, pare intento ad estrarre delle pizze, il killer

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gli ha esploso contro quattro colpi di pistola calibro 9, uno lo ha raggiunto alla schiena, ferendolo in modo grave.Gli investigatori stanno cercando di capire se i due tentati omicidi: quello di Mappa a Paolo VI e quello di Mariano, sono in qualche modo collegabili fra loro.Gli agenti della Scientifica hanno trovato i quattro bossoli espulsi dalla pistola a poca distanza dal luogo del ferimento.L’agguato è avvenuto in pieno quartiere Salinella a pochi metri delle ‘case saracinesca’.Mariano apparteneva al clan degli Appeso. A conclusione del maxi-processo “Penelope” venne condannato negli anni Novanta a 10 anni di reclusione per i reati di associazione mafiosa e per spaccio di droga.Due reati cui si aggiunse, qualche tempo dopo, anche quello di concorso in omicidio di Antonio De Filippis, un giovane tarantino che venne ammazzato per un tragico errore la sera del 18 marzo del 1992. Vittima designata era invece Gianfranco Parabita.I carabinieri subito dopo l’agguato al Mappa hanno effettuato numerose perquisizioni, interrogati alcuni sospetti, i cui alibi sono ancora al vaglio, hanno sottoposto due indiziati alla prova dello stube. In attesa dei risultati, l’attività investigativa continua come confermano gli ultimi interrogatori. Diventato collaboratore di giustizia, Mappa confessò l’assassinio di Magli, e di tre esponenti del clan, Vincenzo Caligine, Ciro Bartiromo e Cosimo Ble. Tutti furono attirati in un tranello e colpiti alle spalle. Il primo perché, secondo alcune testimonianze, si sarebbe rifiutato di eseguire alcuni ordini. Il secondo per uno sgarro. Ble fu crivellato di colpi sotto gli occhi della moglie e del figlio.Per i quattro omicidi, Mappa (che ha ottenuto i benefici previsti per i collaboratori di giustizia) ha collezionato 23 anni di reclusione ma è a piede libero per motivi di salute. Gli uomini dell’Arma non escludono che, tornato in libertà, si sia inserito di nuovo negli ambienti criminali all’interno dei quali è maturata la sentenza di morte.Non è escluso che le indagini giungano ad una svolta anche in tempi brevi. A distanza di circa un mese dal tentato omicidio di Paolo Vito, altri nomi che non lasciano indifferenti investigatori e giornalisti di nera. Due agguati da leggere con attenzione. E’ bastato leggere, per esempio, il nome di Mappa perché tornassero alla mente i fantasmi di un passato segnato da una lunga scia di sangue. Anche innocente. Come quello dell’agente di Polizia penitenziaria Carmelo Magli, scelto a caso e crivellato di colpi all’uscita dal carcere per rispondere di presunti maltrattamenti avvenuti oltre le sbarre . Una prova di forza senza precedenti.Esecuzioni plateali e casi di ‘lupara bianca’, vendette trasversali consumate anche nel giro di poche ore, ‘sgarri’ pagati con la vita.

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Insomma, centocinquanta omicidi in un periodo di oltre cinque anni che va dalla ‘storica’ contrapposizione Modeo-De Vitis alla più recente lotta tra i cosiddetti clan emergenti, Perelli e Martinese.Osvaldo Mappa fu uno dei protagonisti di quegli anni, prima come componente del gruppo di fuoco del clan Perelli, poi nelle vesti di collaboratore di giustizia. Ora il suo nome è tornato prepotentemente al centro delle cronache e con lui una serie di interrogativi inquietanti che si riassumono nel timore che dopo la quiete possa tornare la tempesta. (18) Il 15 aprile si è appresa una vera novità, rappresentata dal passaggio di consegna fra gli organi inquirenti. Adesso a dover indagare, a doversi occupare della delicata vicenda, a dover far luce sulle cause e sull’identità degli autori dello spietato agguato non sarà più la Procura tarantina, bensì l’Antimafia di Lecce.Sul motivo che ha impresso questa svolta di carattere investigativo non è trapelato praticamente nulla. Così come nulla è filtrato sul contenuto degli interrogatori di due soggetti ascoltati in qualità di persone informate sui fatti. Segno evidente di come i titolari del fascicolo vogliono lavorare nel massimo riserbo senza pregiudicare il cammino di indagini che erano e continuano ad esserlo estremamente delicate.A fronte dell’ovvio silenzio degli inquirenti non resta che formulare solamente ipotesi circa la matrice del mancato assassinio di Mappa. E quello secondo cui si sia trattato di un regolamento di conti rimane la più valida. (18) A distanza di diciotto giorni dalla sparatoria, il killer pentito è morto domenica mattina, 20 aprile 2008, in seguito alle ferite riportate. I risultati dell’esame autoptico potrebbero rivelarsi importanti e consentire agli investigatori di acquisire ulteriori elementi utili alla ricostruzione della dinamica del delitto, tenuto conto che non è stato possibile acquisire testimonianze. Il decesso del Mappa ha fatto ritornare il Paolo VI nel clima degli anni bui della guerra fra clan malavitosi. Nel quartiere serpeggia il timore di una possibile vendetta. Anche gli investigatori non escludono che si possa scatenare una nuova faida fra gruppi criminali contrapposti. Non a caso si sono rafforzati i controlli anticrimine nel quartiere e l’attenzione sulle dinamiche interne agli ambienti criminosi è massima.Due sono le piste seguite dai carabinieri: quella del traffico e dello spaccio di sostanze stupefacenti e quella delle estorsioni, in un regolamento di conti maturato nell’ambito di rivalità per il controllo di traffici poco puliti.Alla luce degli ultimi sviluppi è diventato più pesante il sospetto che grava su due pregiudicati sottoposti alla prova dello stube subito dopo l’omicidio. Al Comando provinciale dell’Arma sono in attesa che il Ris di Roma faccia conoscere l’esito del test per determinare la bontà o meno della pista seguita. (18)

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Nel tentato omicidio del 28 aprile 2008 forse la mala e i suoi loschi affari non c’entrano. Questa volta sono stati probabilmente futili motivi ad armare la mano dell’individuo che ha sparato e ferito gravemente un 18enne, Andrea Tardiota.Stando ad una prima ricostruzione dell’accaduto, prima del ferimento, avvenuto intorno alle 21,30, il giovane si trovava alla guida della sua moto, insieme ad un’amica.Un automobilista li ha sfiorati, rischiando di scaraventarli per terra. Nei pochi istanti in cui i due veicoli si sono affiancati, c’è stato un scambio di offese e minacce pesanti. L’alterco, poco dopo, ha avuto un seguito. L’automobilista, armato di pistola, si sarebbe messo alla ricerca del motociclista. Dopo averlo trovato in via Cesare Battisti, gli ha puntato contro una pistola di grosso calibro e ha esploso alcuni colpi. Due hanno raggiunto all’addome il ragazzo il quale ha cercato di mettersi al riparo dai proiettili rifugiandosi in una pizzeria. Arrivato davanti al bancone si è accasciato sul pavimento. Soccorso e trasportato all’ospedale Santissima Annunziata, è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico per tamponare l’emorragia interna. Si tratta del terzo fatto di sangue verificatosi in città dall’inizio di aprile. Infatti, come abbiamo riferito, il 2 aprile, in viale Della Liberazione, al quartiere Paolo VI, è stato ferito a colpi di pistola Osvaldo Mappa. E’ deceduto il 20 di aprile. La sera del 4 aprile, in via Lago d’Albano, al quartiere Salinella, il secondo agguato. Un muratore è stato ferito a colpi di pistola. In questo caso la Polizia ha incastrato il presunto autore, Egidio Vinzi.Non si tratta degli unici tre agguati tesi in città dall’inizio del 2008. Infatti, la sera del 29 febbraio, in viale Japigia, è stato ferito a colpi di arma da fuoco un personaggio molto noto alle forze dell’ordine, Paolo Vito. Si tratta di episodi privi di qualsiasi collegamento che destano molta preoccupazione perché dimostrano che in città la mala è tornata a sparare per la strada, incurante delle conseguenze, anche tragiche, che i regolamenti di conti possono provocare. (18)

*Le auto erano parcheggiate in due diverse strade a Castellaneta: via Caduti la Lancia K, via Arco Calderai la Peugeot 107, nella notte fra il 19 e il 20 maggio 2008. La prima appartiene al sindaco della città Italo D’Alessandro, la seconda alla moglie. I malviventi lo sanno e trasformano in un rogo proprio quelle, anche se poi le fiamme finiscono col coinvolgere anche altre due auto una Fiat Punto e una Fiat Marea.Una vendetta in piena regola, un gran danno per la famiglia, un messaggio inquietante per un sindaco che aveva già subito un altro ‘attentato’ sicuramente più lieve, ma ora qualcuno ha alzato il tiro per ragioni che toccherà ai carabinieri della Compagnia di Castellaneta. E poi è un fatto, l’aministrazione comunale di Castellaneta in una maniera o nell’altra è finita nel mirino. Una escalation di intimidazioni che ha riguardato consiglieri

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comunali, assessori, a cui qualcuno ha tagliato le gomme, altri danneggiato l’auto, in una strategia che se per gli investigatori appare oscura, è da addebitarsi al clima di litigi eredidato, agli attacchi piuttosto aspri. Lo sforzo, sempre secondo il Sindaco, è stato quello di restituire ai cittadini una comunità tranquilla e a qualcuno questo potrebbe dare fastidio. (28)

*Un attentato nella notte in via Capecelatro. Un attentato che suona come un pesante avvertimento di stampo malavitoso e portato a segno nei confronti della moglie e dei tre figli dell’ex pentito Francesco Di Bari che risiedono in una palazzina della via.L’esplosione, avvenuta verso le 4 del mattino del 26 maggio 2008, ha provocato danni ingenti all’androne dell’edificio, mandato in frantumi i vetri del portone d’ingresso del palazzo e di quelli confinanti e danneggiato un’auto e un furgoncino parcheggiati poco distanti dall’edificio.Quello che pare essere, a tutti gli effetti, il destinatario dell’avvertimento, il pentito Francesco Di Bari, ex personaggio di spicco della malavita locale, è detenuto nel carcere Molinette di Torino. Da qualche tempo, però, è ricoverato nell’ospedale del capoluogo di regione per problemi di salute.Naturalmente si sta indagando a tutto campo sull’episodio: una vendetta trasversale, un avvertimento. L’episodio non è isolato ed è preoccupante. Da gennaio sono stati cinque gli attentati di mala in città, ma, due di questi, proprio perchè non hanno ancora una chiave di lettura, suscitano maggiore allarme per gli investigatori e gli inquirenti.Di Bari, imputato in procedimenti antimafia come quello legato all’operazione ‘304’ o all’inchiesta ‘Ellesponto’, sta scontando una condanna per vari reati, tra cui l’aver preso parte all’organizzazione della strage della barberia, fatti di droga e rapine che l’uomo avrebbe compiuto quando era pentito. Ma è proprio per la strage della barberia che Francesco Di Bari è diventato noto alle cronaca nera: la sera del primo ottobre 1991 tre innocenti persero la vita perché si trovarono nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Nella sala da barba di via Garibaldi fecero irruzione tre killer che iniziarono a sparare all’impazzata sui presenti pensando che tra loro vi fosse la vittima designata. Le raffiche di proiettili non risparmiarono anche chi, solo per un caso, si trovava nella sala da barba in quel momento.Alla fine rimasero a terra quattro morti, fra cui il gestore del salone da barba, e due feriti gravi. Nessuno di loro era la vittima designata.Di Bari si autoaccusò di essere stato uno degli organizzatori della strage ma di non avervi preso parte, diventando poi collaboratore di giustizia.Ma la strage è un episodio troppo lontano nel tempo per essere collegabile all’attentato del 26 maggio.

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Cosa ha portato ad accendere la miccia che ha provocato l’esplosione per il momento resta un giallo. Gli investigatori hanno ascoltato persone vicine alla malavita tarantina e coloro che risiedendo nella via che in qualche modo possono aver visto qualcosa o sentito qualcosa prima del fragoroso scoppio.Una caccia alla pista che. ci si augura, potrebbe portare a scoprire gli autori del gesto e fornire una valida traccia sui fatti accaduti in questi ultimi mesi a Taranto. (18)

*La questione sicurezza è in primo piano e non solo in città. Il 26 maggio 2008 si è riunito il comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico presieduto dal Prefetto.Tema al centro dell’incontro tra i vertici ionici delle forze dell’ordine è stato l’attentato al sindaco di Castellaneta, Italo D’Alessandro, finito con la moglie nel mirino di incendiari, e gli atti intimidatori subiti da alcuni consiglieri comunali. Un incontro a porte chiuse da cui è trapelato tutta l’attenzione delle istituzioni sulle questioni legate alla sicurezza.E se in provincia l’attenzione è puntata sul comune di Castellaneta, a Taranto il rischio di una recrudescenza della malavita organizzata preoccupa l’opinione pubblica. Così dopo aver affrontato, con la presenza del sindaco di Castellaneta, gli attentati in cui sono rimaste vittime sia lo stesso primo cittadino che alcuni consiglieri comunali della città jonica, il Prefetto è rimasto chiuso nel suo ufficio con i vertici delle forze dell’ordine. In questa seconda fase dell’incontro sarebbero state affrontate, stando a quanto si è appreso, questioni tecniche inerenti la sicurezza nel Tarantino e nella città capoluogo di provincia. (18)

*Di nuovo i killer in azione. Questa volta lo scenario è via Carducci a Palagiano dove due uomini hanno gambiazzato, il 29 maggio 2008, il titolare di un’agenzia di pompe funebri e un uomo che era con lui.Le vittime dell’agguato sono Pino Loperfido e Lorenzo Putignano. Secondo una prima ricostruzione dell’accaduto, i due sono stati sorpresi dai sicari all’uscita dell’agenzia di proprietà di Loperfido. A bordo di una motocicletta e con il volto coperto dal casco i due killer hanno aperto il fuoco – a quanto pare – con due pistole contro le vittime designate. Il titolare dell’agenzia è stato ferito ad un piede, mentre il Putignano è stato raggiunto da un proiettile alla coscia. Entrambi soccorsi sono stati portati in ospedale, il primo a Massafra e il secondo, in più gravi condizioni, al Santissima Annunziata di Taranto.Il movente della sparatoria è ancora oscuro. Gli investigatori, stanto a quanto si è appreso, seguono due piste. Una è quella di una vendetta, per questioni di carattere personale. L’altra è quella di possibili contrasti maturati nell’ambito del settore delle onoranze funebri per questioni di concorrenza.

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E’ certo che ormai l’uso delle armi ricorre, in questa realtà, con molta frequenza. E’ questo il quarto agguato che si è verificato da febbraio, e l’allarme tra i cittadini lievita sempre di più, così come le preoccupazioni degli investigatori e degli inquirenti. (18)

*Una forte esplosione nel cuore della notte ha svegliato gli abitanti di via Leonida. Alle 3,45 del 5 giugno 2008 una bomba è esplosa davanti a una tabaccheria-ricevitoria a pochi metri dall’incrocio di via Japigia.La forte deflagrazione ha sventrato l’ingresso dell’esercizio commerciale, scaraventando la saracinesca sul lato opposto della carreggiata, danneggiando anche due autovetture parcheggiate nelle vicinanze. Questa volta non si tratta di racket ma, stando alle indiscrezioni, l’attenzione dei militari dell’Arma si è concentrata sull’ipotesi di una vendetta o di un avvertimento scaturito da questioni di carattere personale ancora tutte da chiarire. Il proprietario dell’esercizio, già noto alle forze dell’ordine, è stato ascoltato dagli investigatori, ma, da quanto si è appreso, non avrebbe saputo fornire alcun elemento utile per le indagini, perciò si stanno scandagliando gli ambienti frequentati dal titolare della tabaccheria. Attentati dinamitardi, rapine, furti, regolamenti di conti evidenziano una escalation degli episodi criminosi. Una escalation che suscita non poche preoccupazioni perché potrebbero essere il segnale di un possibile risveglio della mala e dei contrasti tra gruppi criminali. Contrasti che vengono regolati a suon di bombe. (18)

*In fiamme, alle 4 del mattino del 5 giugno 2008 a San Pietro in Bevagna, non una villa comune, ma quella bifamiliare, in parte di proprietà della moglie del vicesindaco di Manduria, Gregorio Dinoi, e in parte della sorella di lei. Una circostanza che fa andare al di là della semplice ipotesi dell’atto vandalico o del furto con incendio. Per adesso gli investigatori stanno lavorando nel campo delle ipotesi: una vendetta trasversale, un errore di appartamento o un atto vandalico.Resta il fatto che gli attentatori hanno agito con perizia e determinazione e che il loro intento era provocare quanti più danni possibili. Il vicesindaco, persona rispettata per la sua integrità in paese e impiegato in un centro di promozione culturale della Regione ha la delega ai Lavori Pubblici. Delga ‘difficile’ che potrebbe aver portato Dinoi a compiere scelte amministrative poco gradite dalla malavita locale. Nel novero delle ipotesi, al vaglio degli investigatori, anche l’atto vandalico, uno come tanti di quelli che stanno accadendo negli ultimi tempi a San Pietro in Bevagna.La marina di Manduria viene presa di mira dai vandali e dai ladri di appartamenti soprattuto in inverno, quando le residenze estive sono disabitate. Capita a volta che i

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ladri, dopo aver fatto razzia di quanto trasportabile, danno l’appartamentro alle fiamme per distruggere impronte e tracce che potrebbero far risalire alla loro identità.Il dubbio è che la malavita ionica si stia sempre più interessando alla politica cercando di imporre la sua legge della paura. I precedenti ci sono: a Castellaneta, consiglieri comunali, assessori e infine, come abbiamo riportato, il sindaco, sono finiti nel mirino di ignoti attentatori. A marzo 2008, sono state incendiate le auto di un consigliere di Alleanza Nazionale, Giuseppe Rochira, e di alcuni familiari. Nei mesi precedenti, un altro consigliere, Annibale Cassano, esponente di Forza Italia, si è ritrovato in diverse occasioni con le gomme dell’auto tagliate. (18)

*A Taranto l’ennesima sparatoria si è verificata poco prima delle 23 del 9 giugno 2008, nel cuore della città vecchia.A restare ferito Giuseppe Gigante. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il malcapitato sarebbe stato raggiunto da alcuni colpi di fucile ad una coscia. L’uomo è ricoverato al SS. Annunziata. L’agguato è avvenuto in via Duomo, dinanzi ad un circolo ricreativo, a pochi metri dalla basilica di San Cataldo. A sparare sarebbe stata una sola persona, probabilmente a piedi che poi avrebbe fatto perdere le sue tracce fuggendo tra i vicoli della città vecchia. Sul posto sono intervenuti gli agenti della Squadra Mobile e della polizia Scientifica che conducono le indagini. (18)

*Nuova pesante offensiva della malavita nel Tarantino. Questa volta il conto è stato regolato in una cava, a Lizzano, di proprietà della famiglia della vittima, Damiano Pasquale Mele, personaggio di spicco nella geografia della malavita locale e sorvegliato speciale. Il corpo dell’uomo, freddato da da due colpi di fucile, è stato trovato verso le sette del mattino del 9 giugno 2008 dal padre, all’interno della vasta cava di proprietà della famiglia. Sul posto i carabinieri del Comando provinciali e della Compagnia di Manduria hanno avviato le indagini di un delitto che ha tutte le caratteristiche dell’agguato di mala.I militari hanno ascoltato i familiari della vittima e gli operai impiegati nella cava. Stando a quanto si è appreso uno o più killer si sono introdotti nella cava e hanno sparato alcuni colpi di fucile a pallettoni alle spalle di Mele che hanno raggiunto anche la nuca. Un attentato preparato nei minimi dettagli: le bocche di fuoco che hanno ucciso il pregiudicato potrebbero essere entrate da un passaggio secondario nella cava per evitare la strada principale di accessoAlcune indiscrezioni raccolte, dicono che le investigazioni si stanno muovendo negli ambienti malavitosi del versante orientale. Territorio dove il clan Melesi muoveva in contrapposizione di un altro clan storico di quel versante della provincia: il clan dei Pappalà.

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Il Mele, arrestato nel luglio del 2000 durante l’operazione ‘Quo vadis’ era uscito dal carcere nel 2005, dopo che la Cassazione aveva annullato le sentenze di primo e secondo grado con condanna a 18 anni di carcere. L’accusa per tutti i componenti del clan Mele coinvolti nell’operazione fu a vario titolo di associazione di stampo mafioso finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti. Stando all’accusa, il sodalizio avrebbe gestito lo smercio di eroina e cocaina e perpetrato estorsioni ai danni di commercianti e piccoli imprenditori del Lizzanese e di zone limitrofe. Con il denaro, provente dei taglieggiamenti, gli inquisiti avrebbero potruto garantirsi di imprecisati quantitativi di droga. Che poi una volta messi sul mercato, sarebbero stati in grado di assicurare introiti di un certo rilievo. (18)

*L’omicidio di Mele potrebbe innescare una faida. Per scongiurare questo rischio le Forze dell’ordine hanno intensificato i controlli nel versante orientale della provincia. Un summit sulla sicurezza ha riguardato Lizzano. Sulla scorta dell’omicidio Mele è stata attentamente esaminata la situazione della cittadina. Un altro ha riguardato invece Manduria, convocato per fatti diversi ma altrettanto gravi, come l’attentato incendiario alla cognata del vicesindaco, episodi che hanno destato non poca preoccupazione nei due centri. Al fine di potenziare l’attività di controllo di Carabinieri e Polizia è stato deciso l’invo da Bari di militari della Compagnia di Intervento Operativo (Cio). Non si tratta del primo intervento di tal genere nella provincia ionica. La mala sembra essersi risvegliata. I fatti di sangue degli ultimi mesi potrebbero essere il sintomo di dinamiche conflittuali interne agli ambienti malavitosi. (18)

*Tre colpi di pistola, una vittima e un presunto colpevole; prima scarcerato e poi ricondotto in cella a Taranto: vanno prendendo forma i contorni dell’efferato omicidio di Saverio Soleto, 57enne, guardia giurata, che ad ottobre 2007 fu vittima dell’aggressione in Corso Vittorio Emanuele a Talsano.A far tornare in carcere Cristian Cocciolo, 22enne, riconosciuto subito dopo il delitto da alcuni testimoni come il killer che aveva premuto il grilletto, i risultati dei rilievi compiuti dalla Polizia Scientifica: dagli esami condotti su campioni prelevati dalle mani dell’indagato sono emerse tracce di polvere da sparo; quindi che ad impugnare l’arma e a sparare sia stato proprio Cocciolo, con precedenti per fatti di droga.Una conferma per gli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Taranto, i quali già dalle ore immediatamente successive al delitto imboccarono il percorso che li portò a Cocciolo. A indicare il giovane, come l’assasino del Soleto, una serie di testimoni che in quel momento si trovavano nella frequentatissima via di Talsano. Testimonianze che portarono all’arresto del 22enne pescatore con precedenti. Una

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carcerazione, richiesta dal pm e firmata dal gip del Tribunale di Taranto, durata circa cinque mesi: il 12 marzo 2008 Cocciolo viene scarcerato a seguito di una decisione della Corte di Cassazione che ritiene insufficienti gli indizi sui quali era stato fondato il fermo.Ma le indagini non si sono fermate nonostante la scarcerazione del sospettato. Le indagini hanno permesso al pm di formulare una nuova richiesta di misura cautelare, accolta dal gip con l’emissione di una nuova ordiananza di custodia cautelare in carcere. Nel pomeriggio del 24 giugno 2008 la misura è stata eseguita e gli agenti della Mobile hanno arrestato Cocciolo e trasferito nella casa circondariale di Taranto. Ancora non del tutto chiari i moventi, su questo le indagini sono ancora aperte. (18) L’usuraLa Procura di Taranto, completate le indagini su episodi verificatisi ai danni di imprenditori sino al giugno 2004, sul versante occidentale della provincia ionica, ha indicato i reati che rappresentano il caposaldo di questa delicata inchiesta: associazione a delinquere, concorso in usura, estorsione continuata, danneggiamento.Dovranno giustificare le rispettive posizioni nell’ambito di un regolare dibattimento otto persone, le stesse che i carabinieri della Compagnia di Castellaneta hanno individuato al termine di meticolosi accertamenti partiti a seguito di una segnalazione.Il p.m., preso atto dei risultati investigativi, con trasmissione al Gup del Tribunale il 18 aprile 2008, ha ritenuto di puntare l’indice contro soggetti che, dopo aver concesso finanziamenti di un certo importo, avrebbero preteso per la restituzione interessi poi giudicati dagli stessi inquirenti ‘fuorilegge’.Emblematico il caso di quell’imprenditore di Laterza che dopo aver ricevuto un prestito di 5 milioni di vecchie lire sarebbe stato costretto (dopo pesanti atti vandalici ai danni della sua auto) a promettere la corresponsione di una somma complessiva di circa 200 milioni, il tutto proprio a causa di tassi praticati da chi gli anticipò il denaro.Secondo il capo d’accusa, ad essere finiti nella ‘morsa’ sarebbero stati dodici fra titolari di aziende e commercianti di Laterza, Ginosa, Castellaneta, Massafra, tutti alle prese con problemi economici che mettevano a rischio la prosecuzione della loro attività. Appare superfluo aggiungere che l’ottenimento di quei prestiti non risolse nulla. Anzi, peggiorò lo stato delle cose. I nuovi oneri da dover rispettare, per gli interessi maturati, rese spesso praticamente impossibile l’estinzione del debito. Ma non basta. Uno degli imprenditori che aveva ottenuto le anticipazioni di denaro, anche dopo aver estinto il debito iniziale fu costretto a corrispondere ulteriori interessi usurai, circostanza che lo ridusse sul lastrico.

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Quanto stava succedendo alle malcapitate vittime fu portato all’attenzione dei militari dell’Arma che, attraverso una delicata ricostruzione dei fatti, riuscirono ad individuare i presunti protagonisti della vicenda.Preso atto degli esiti delle indagini, il pubblico ministero ha ravvisato gli estremi per contestare solo a carico di quattro indagati l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio e all’usura (questi avrebbero praticato interessi pari al 50 per cento); nei confronti di altri tre inquisiti è stato ipotizzato solo il concorso in usura, mentre per l’ultimo inquisito, che rischia il rinvio a giudizio, le accuse vanno dall’estorsione al danneggiamento (oltre all’usura).Adesso al Gup il compito di valutare il caso e decidere se farlo arrivare a dibattimento

*L’operazione <<Bonifica>> partì nella seconda metà degli anni Novanta. All’epoca finirono in carcere 24 persone. ci furono sequestri di beni e titoli per miliardi di vecchie lire e la notifica di avvisi di garanzia per almeno venti persone.Le indagini sulla presunta organizzazione partirono a seguito di una miriade di denunce e fecero leva soprattutto su una serie di perizie di natura tecnica. Secondo la tesi ipotizzata dall’accusa, commercianti ed imprenditori dell’intera provincia ionica sarebbero stati costretti a pagare interessi da ‘capogiro’ per far fronte ad impegni presi con finanziatori privati.Le accuse ipotizzate a carico degli inquisiti andarono dall’associazione a delinquere all’usura continuata, dalle minacce alle estorsioni e dal falso in bilancio al riciclaggio di danaro proveniente da delitti. Contestazioni che comunque non furono formulate nei riguardi di tutti i soggetti coinvolti proprio perché differente sarebbe stato il ruolo ricoperto da ognuno di essi nella vicenda. L’attività investigativa prese in esame episodi verificatisi dall’inizio del 1990 alla fine del ’94. Un arco di tempo molto ampio, lo stesso che ha rappresentato il periodo in cui una parte delle presunte vittime decise di rivolgersi alla magistratura e di raccontare quanto gli stava capitando.Secondo ciò che è stato accertato dagli inquirenti, alla base di ogni cosa ci sarebbero state le difficoltà economiche con cui soprattutto commercianti e piccoli imprenditori agricoli avrebbero dovuto fare i conti. Proprio il bisogno di denaro affiancato dall’impossibilità di accedere al credito bancario li avrebbe spinti a rivolgersi a ‘finanziatori’ pronti a prestare in qualsiasi momento somme di denaro anche di un certo rilievo. Stando a quanto sostenuto dalla Procura alla luce degli esiti delle indagini, tutti coloro che avevano fatto ricorso a quegli aiuti avrebbero dovuto sborsare tassi di interesse fuori da ogni portata (sembra che siano arrivati sino al 120 per cento annuo) per far fronte agli impegni assunti. A quanto pare chi non sarebbe stato in grado di adempiere alle richieste dei ‘finanziatori’ avrebbe passato guai seri. E a dimostrare questo furono le denunce sporte dalle presunte parti lese. Secondo queste ultime, si registrarono episodi di minacce, che in determinati casi sarebbero

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stati prodromici ad attentati. Il tutto è andato avanti fino a quando qualcuno non trovò il coraggio di ribellarsi e di segnalare ogni cosa alle forze dell’ordine.Il resto fa parte di una vicenda giudiziaria che a circa tredici anni dalla cosiddetta <<Operazione Bonifica>> solo il 21 aprile 2008 ha raggiunto la sua prima tappa.Preso atto di quanto emerso dalla lunghissima istruttoria dibattimentale, il Tribunale ha aderito solo in parte alle richieste della pubblica accusa. Solo sei condanne a fronte di una raffica di assoluzioni favorite anche dall’intervento della prescrizione.Alla fine hanno ‘retto’ solo due reati. Quasi tutto il resto del capo d’accusa è stato invece spazzato via dalla prescrizione. L’associazione a delinquere, l’usura, l’esercizio abusivo di attività di concessione di finanziamenti, i falsi in bilancio: nulla di tutto questo ha potuto influire sull’esito finale. L’incedere del tempo ha svuotato di significato quelle che erano le contestazioni principali dell’inchiesta che, a metà degli anni Novanta, svelò un vorticoso giro di prestiti a strozzo ai danni di imprenditori e commercianti della provincia ionica. Il tempo trascorso ha ‘cancellato’ episodi e circostanze che caratterizzarono quella delicata vicenda. Ed una volta arrivato al capolinea il processo non ha potuto non risentirne.Alla fine hanno ‘retto’ solo due reati: estorsione e riciclaggio di denaro. Solo quei due reati, gli stessi che sono costati la condanna a sei dei 38 imputati rimasti coinvolti nel procedimento.Anche il dott. Nunzio Mascia, proprio colui che sembrava il più gravato fra tutti gli inquisiti e che per questo rischiava una pena pesantissima: 9 anni, ha chiuso il processo senza alcun danno. E’ stato assolto sia per l’insussistenza dei fatti a lui addebitati sia per l’intervenuta prescrizione di ulteriori reati. Si è così malinconicamente chiusa una vicenda che pure aveva fatto scandalo, anche le rimanenti pene inflitte sono risultate inferiori rispetto a quelle che erano state proposte dal pubblico ministero. (29)

*Sono scattati di nuovo i sigilli per l’area di servizio di proprietà di Corrado Sorrentino, personaggio noto alle forze dell’ordine, arrestato il 2007 nel corso del blitz ‘Mediterraneo’.Gli agenti della Squadra mobile e della Dia di Lecce, a seguito della sentenza della VI Sezione della Corte di Cassazione, emessa il 22 maggio 2008, hanno nuovamente sottoposto a sequestro preventivo l’impianto di distribuzione di carburanti, già oggetto di sequestro nell’ottobre 2007, nell’ambito delle indagini espletate nei confronti del commerciante.A ottobre 2007, gli stessi poliziotti avevano posto sotto sequestro l’impianto, al quartiere Paolo VI, in esecuzione del relativo provvedimento in via preventiva, emesso dal gip del Tribunale di Lecce.

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Il successivo 22 novembre il Riesame di Lecce aveva disposto il dissequestro con ordinanza che la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio, su ricorso presentato dal pm della Dda di Lecce.I sigilli, quindi, sono scattati nuovamente per uno degli immobili del patrimonio del Sorrentino ma non per la villa. La Suprema Corte, infatti, ha respinto il ricorso del magistrato inquirente. Per l’abitazione, comunque, era stata concessa la facoltà d’uso ai familiari di Sorrentino.I beni, del valore di un milione di euro, sono stati sequestrati perché ritenuti il frutto di investimento dei proventi dei prestiti a strozzo. Accusa che a luglio 2007 ha fatto scattare una nuova ordinanza di custodia cautelare per Sorrentino. (29)

*Case, terreni, fabbricati ed esercizi commerciali acquistati con le ingenti somme di danaro accumulato grazie a presunte attività usuraie. E’ il pesante sospetto che ha fatto finire nei guai i protagonisti di un caso giudiziario che ruota attorno ad anticipazioni economiche per la cui restituzione sarebbero stati pretesi interessi calcolati ben oltre le soglie legali. Anticipazioni che erano state chieste da imprenditori ed artigiani della provincia ionica ritrovatisi in grosse difficoltà economiche. Anticipazione che invece di risollevare le sorti dei beneficiari avrebbero arrecato ulteriori problemi, dato che per i finanziamenti sarebbero stati richiesti tassi compresi fra il 34 ed il 120 per cento l’anno. Valutati gli esiti di una complessa indagine, gli inquirenti di Palazzo di Giustizia hanno fatto partire una raffica di informazioni di garanzia. Queste segnano la chiusura della prima fase dell’inchiesta. Il pm che ha firmato gli avvisi non ha puntanto l’indice solo nei confronti dei ‘finanziatori’, ma pure contro alcuni titolari di aziende e ditte che dopo aver chiesto ed ottenuto prestiti hanno negato di aver corrisposto interessi illeciti. A finire nel mirino della magistratura sono state complessivamente 19 persone, chiamate in causa per episodi e reati diversi fra loro. Fra le accuse spicca quella di riciclaggio, contestata a otto indagati. Più esiguo il numero di coloro (tre) che dovranno difendersi dal reato di usura, mentre quella di favoreggiamento personale ha visto come destinatarie sette vittime. L’ultimo soggetto dell’elenco degli ‘avvisati’ è invece gravato dall’ipotesi delittuosa secondo cui avrebbe costretto, dietro la minaccia della perdita del posto di lavoro, una sua dipendente a consegnargli una parte dello stipendioSi sospettava sui compratori per collegamenti proprio con persone che avevano ‘aiutato’ imprenditori ed artigiani della provincia ionica, prestando somme di denaro per la cui restituzione sarebbero state poste condizioni capestro. Stando a quanto contestato dalla magistratura, in un caso per un’anticipazione di 100 milioni di lire pare siano stati chiesti (ed ottenuti) interessi pari al 34 per cento, garantiti dall’emissione di cambiali ipotecarie per un controvalore di 200 milioni. Per quei titoli era prevista la restituzione trimestrale, le cambiali sarebbero state rinnovate nel tempo, facendo così lievitare in maniera spropositata il debito iniziale. Un altro

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episodio finito al centro dell’inchiesta è quello di un piccolo imprenditore ritrovatosi a fronteggiare interessi usurai di poco superiori a un miliardo e 450 milioni di lire. La somma, maturata nell’arco di una quindicina d’anni, era collegata ad una garanzia di 115 milioni che il debitore doveva per un vasto terreno da utilizzare per lo sfruttamento del sottosuolo.Alcuni beneficiari delle anticipazioni, una volta ritrovatisi nell’impossibilità di onorare gli impegni, si rivolsero alla magistratura, altri invece hanno negato ogni cosa. Fra le vittime c’è stato più di qualcuno che, in sede di interrogatorio, ha preferito rendere dichiarazioni di comodo, inverosimili, poco credibili. Secondo la Procura, quelle stesse dichiarazioni avrebbero avuto come obiettivo solo quello di depistare le indagini, se è vero che dalla situazione descritta, a ricavare un vantaggio sarebbero stati proprio coloro che concedevano i ‘prestiti’. In ogni caso le versioni fornite dalle vittime non hanno fatto breccia e la loro incriminazione per favoreggiamento personale lo sta a dimostrare.Valutata la copiosa documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza nel corso di una lunga e complessa attività istruttoria, il publico ministero ha ritenuto completo il quadro indiziario e ha chiuso il proprio lavoro firmando gli avvisi di garanzia. (29)

*Col bottino dei colpi nelle ville finanziavano i prestiti a strozzo. Per i sei presunti componenti dell’organizzazione, la mattina del 26 giugno 2008, si sono aperte le porte del carcere. L’arresto è scattato in esecuzione del mandato di cattura emesso dal gip del Tribunale di Taranto su richiesta del pm dello stesso Tribunale.Secondo l’accusa, l’organizzazione ripuliva le abitazioni, trafugando soprattutto denaro e preziosi. Prendeva di mira le abitazioni e studiava i colpi nei minimi particolari, scegliendo bene il giorno in cui entrare in azione. Solitamente in occasione di feste particolari, quando i proprietari erano assenti. I colpi (una quindicina quelli accertati) sono stati messi a segno in abitazioni delle province di Taranto, Brindisi e Lecce. Le indagini, condotte dalla tenenza dei carabinieri di Manduria, sono scattate un anno e mezzo fa in seguito ad un sequestro effettuato a bordo dell’auto del principale sospettato, Antonio Caniglia, di Lizzano, ex agricoltore, di recente dedito alla commercializzazione delle cialde per le macchine da caffè.La perquisizione non è stata casuale. L’uomo è stato fermato ad un posto di blocco e all’interno dell’auto sono stati rinvenuti assegni e altri titoli di credito. Documentazione che, secondo le Fiamme Gialle, era riconducibile ad una attività di strozzinaggio.Attraverso un’attenta analisi della documentazione, i militari sono riusciti a risalire alle vittime. Operai, commercianti e professionisti. Per poter ottenere somme che oscillavano da un minimo di 10.000 ad un massimo di 80.000 euro, si era costretti a pagare tassi di interesse elevatissimi che variavano dal 100 al 250 per cento annui. Le

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vittime accertate, cinque, suscettibili di aumento, anche perché, durante l’esecuzione dei mandati di cattura, sono state effettuate una ventina di perquisizioni domiciliari nel corso delle quali sono stati sequestrati altri gioielli, probabilmente anche questi di provenienza illecita e altra documentazione ritenuta interessante. Da parte delle vittime, hanno evidenziato gli investigatori, non c’è stata alcuna forma di collaborazione e tantomeno una denuncia, ciò a conferma del pesante clima intimidatorio instaurato dai presunti strozzini. L’organizzazione, hanno spiegato gli investigatori, ha tentato anche di compiere il salto di qualità riciclando i proventi dell’usura nel traffico di sostanze srupefacenti, in particolare di eroina e cocaina. La fornitura delle partite di droga sarebbe stata assicurata da un altro lizzanese, Antonio De Roma, residente a Conazzo, in provincia di Lodi. I Finanzieri hanno sequestrato anche un cospicuo quantitativo di eroina.A conclusione dell’operazione battezzata “Re Mida” sono finite dietro le sbarre i due lizzanesi Caniglia e De Roma, tre tarantini, Michele Ferrares, Giuseppe Epifani, Giovanni Mele, già noti alle forze dell’ordine ed Eriberto Tondo, di Leverano. (29) Maxi-processo antimafiaI 71 imputati del maxi-processo antimafia “Orrilo”, uno dei più importanti procedimenti avviati a metà degli anni Novanta dalla magistratura nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata, ad oltre sette anni dalla sentenza di primo grado sono comparsi davanti ai giudici d’appello, preferendo regolare i conti con la giustizia, concordando la pena, una sorta di ‘patteggiamento’ che in pratica ha esaurito la loro vicenda giudiziaria.L’11 aprile 2008 la stragrande maggioranza degli inquisiti ha ‘limato’ le precedenti condanne proprio grazie alla scelta di una soluzione che mettesse fine a questo processone. Quindi dopo le decisioni messe nero su bianco presso la Corte d’Appello, Sezione distaccata di Taranto, ad attendere di conoscere il proprio destino giudiziario saranno più o meno quaranta, un piccolo esercito di inquisiti che ha optato per il rito ordinario.Le condanne inflitte attraverso i concordati sono andate a sanzionare vecchi delitti su cui fu fatta luce soprattutto grazie alle dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, gli stessi che negli anni scorsi avrebbero rivestito ruoli importanti nell’ambito dei gruppi malavitosi poi finiti alla sbarra. Proprio grazie a quelle rivelazioni fu possibile tornare ad indagare su fatti risalenti a circa quindici-vent’anni fa, su fatti criminosi che inizialmente erano rimasti senza alcuna soluzione. Vecchi fatti che sono stati ripercorsi e ricostruiti in un processo di primo grado che, va ricordato, durò oltre due anni. In quell’occasione, preso atto dei numerosi faldoni in cui era stata custodita la storia di vicende caratterizzate da gravi attività delittuose, l’organo giudicante emise un verdetto che aderì quasi totalmente alle tesi sostenute dal rappresentante dell’accusa. Le condanne inflitte furono tantissime, ma va posto in risalto che neppure le assoluzioni mancarono. Nel complesso, queste ultime risultarono 28 e

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videro come beneficiari anche imputati per i quali era stata proposta l’affermazione di responsabilità. Una situazione che però si ribaltò per altri inquisiti che dopo aver sperato di chiudere il procedimento senza grossi problemi risultarono destinatari di pesanti sanzioni.Ad avere un peso decisivo ai fini di quel verdetto fu il riconoscimento dell’associazione mafiosa finalizzata alla commissione di una serie di delitti, fra cui il traffico di sostanze stupefacenti e le estorsioni. Due fattispecie criminose che avrebbero rappresentato la maggior fonte di guadagno per i presunti appartenenti all’organizzazione.Del resto, i magistrati requirenti, nell’esporre le tesi alla base dell’assunto accusatorio, sottolinearono come, alla luce degli episodi trattati nel processo, ci si trovasse di fronte ad un gruppo ben strutturato e capace di imporre il proprio dominio potendo contare sul numero dei propri sodali e sull’efficacia delle loro azioni. In ordine alle estorsioni (che erano fra le attività prevalenti del sodalizio), vittime dei gruppi finiti sul banco degli imputati sarebbero stati commercianti e piccoli imprenditori. Le vessazioni avrebbero riguardato soprattutto i titolari di locali di prodotti ittici e di negozi ben avviati. Alla luce di quanto emerse dal dibattimento, ci sarebbe stato anche chi, pur di non diventare oggetto di pesanti attentati, preferì pagare forti somme di danaro che variavano dai 5 ai 2 milioni di vecchie lire mensili a seconda della grandezza della ditta posseduta. Dalla ricostruzione dei fatti operata nel corso delle lunghe indagini è emerso che, prima e durante il maxi-processo, più di una zona cittadina si sarebbe ritrovata sotto l’influenza della presunta associazione che, sfruttando il provento delle estorsioni, avrebbe autofinanziato il gruppo, acquistato le partite di droga, comprato armi e munizioni e ricompensato tutti i partecipanti alle attività delittuose. Le maggiori condanne si registrarono per episodi di detenzione ai fini di spaccio di cocaina, eroina e di hashish, che (come appurarono gli investigatori) sarebbero state addirittura confezionate in saponette pur di sfuggire ai controlli. Secondo la pubblica accusa, il sodalizio non avrebbe lasciato nulla al caso, sfruttando ogni espediente pur di evitare che le loro attività venissero svelate. Ogni espediente, come quello che lo portò a scegliere una cappella del cimitero per occultare anche pistole e kalashnikov. Armi che avrebbero dovuto servire per mettere a segno attentati ai danni di persone e di strutture.I fatti presi in esame dal maxi-processo ‘Orrilo’ risalgono alla metà degli anni Novanta e si sarebbero sviluppati nell’arco di un quinquennio, fino a quando imponenti operazioni antimafia (prima fra tutte quelle denominate “Ellesponto” e “Penelope”) non misero in ginocchio i maggiori sodalizi criminosi operanti sul territorio ionico. In primo grado (si parla del 2001) il Tribunale chiuse il proprio lavoro infliggendo condanne per oltre 12 secoli di reclusione. Aderendo quasi totalmente alle richieste del pm, l’organo giudicante dichiarò la responsabilità per 113 imputati, mentre in ventotto, come abbiamo già segnalato, beneficiarono dell’assoluzione.

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L’11 aprile 2008 in Corte d’Appello, in 71 hanno chiesto ed ottenuto di poter concordare la pena beneficianfo (in determinati casi) di sensibili riduzioni di pena. Dopo le decisioni dei giudici di secondo grado, ad attendere l’esito del processo sono poco più di una quarantina di imputati. (27)

Droga e sangueUna duplice pesante condanna fa calare il sipario sulla vicenda giudiziaria che ruota attorno al brutale omicidio di Alessandro Cimoli, il giovane tarantino ucciso nell’agosto del 2006 dopo essere stato attirato in un tranello. Una duplice pesante condanna che sanziona quello che fu un delitto segnato da modalità efferate e da un movente che, a detta di uno dei ‘rei-confessi’, sarebbe stato originato dal mancato pagamento di una grossa partita di cocaina.La sentenza che ha chiuso il delicato procedimento è stata emessa il 14 aprile 2008 al termine di un giudizio abbreviato che di certo non ha risparmiato ‘colpi di scena’.La pena più alta è stata inflitta a Cosimo Nardelli, colui che avrebbe perpetrato materialmente l’assassinio. Giudicato colpevole di due capi d’accusa che gravano sul suo capo (concorso in omicidio e porto abusivo di coltello), all’omicida è toccata una pena pari a 30 anni di reclusione beneficiando della diminuente prevista per la scelta del rito. Dieci anni in meno rispetto a quanto irrogato a Nardelli sono stati invece inflitti all’altro imputato Matteo Basile, colui che nel corso del procedimento ha cominciato a collaborare con la magistratura fornendo indicazioni ritenute dagli inquirenti in grado di far chiarezza sia sul perché sia sull’identità degli autori dell’episodio criminoso. Alla luce di quanto stabilito dal Gup del Tribunale, Basile è risultato destinatario di 20 anni di reclusione per il concorso in omicidio, per la detenzione di un’arma da guerra e per aver detenuto ed occultato una pistola.E’ semplice ipotizzare che a risultare determinante per l’adozione del verdetto sono state proprio le dichiarazioni rese dagli inquisiti. Fra i due ha sicuramente raccontato di più Basile che ha pure tirato in ballo il presunto mandante del delitto, vale a dire Cataldo Ricciardi. Dal canto suo, dopo aver già escluso un proprio coinvolgimento nella vicenda nell’ambito di una formale deposizione resa in Procura, ha pure sporto querela contro chi lo ha accusato. Al di là di questo, non pare azzardato sostenere che le dichiarazioni con cui i due uomini finiti alla sbarra hanno ricostruito le fasi dell’assassinio, siano state proprio quelle che hanno spianato la strada alla duplice condanna.In epoche e circostanze distinte, sia Nardelli sia Basile ammisero di aver ricoperto un ruolo nell’omicidio. Nel corso degli interrogatori, il primo a parlare fu Nardelli che dopo un iniziale tentativo volto a negare tutto ammise di aver ucciso Cimoli. Ritrovatosi con le spalle al muro, lui confessò l’assassinio, aggiungendo però di non aver commesso il delitto volontariamente. Si addossò ogni responsabilità, ma sostenne di aver agito solo per difendersi. Nella su ricostruzione dei fatti il reo-confesso sostenne di aver incontrato Cimoli, di aver dato vita con lui ad un’accesa discussione, di aver avuto paura per la propria vita e di aver esercitato solo un

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legittima difesa. Successivamente parlò pure Basile, ma lo fece aggiungendo altri particolari, a cui il complice non aveva fatto cenno.Le indagini fecero registrare una prima svolta grazie ad alcuni indizi che permisero di risalire a Nardelli (strane ferite che furono rilevate sulle sue braccia, macchie di sangue rinvenute nell’auto di cui aveva la disponibilità ed un alibi che non convinceva più di tanto). Inizialmente l’inquisito negò tutto sostenendo di non sapere nulla dell’omicidio, ma la linea di difesa scelta non persuase nessuno, tanto che poco dopo ammise le proprie responsabilità, anche se non parlò di complici. Ma che avesse agito da solo non parve una circostanza plausibile. Difficilmente quell’efferato omicidio poteva essere stato commesso da un’unica persona. Ed il successivo coinvolgimento di Basile lo confermò.Il 14 aprile 2008, a poco meno di due anni dalla spietata uccisione di Cimeli, dal punto di vista giudiziario, la vicenda ha trovato una prima soluzione. (27)

Vecchi omicidi di malaIl tarantino Salvatore Chirico, collaboratore di giustizia, che aveva dichiarato di aver ricoperto un ruolo di primo piano nella uccisione di Paolo Dragone e Achille Ciliberti, il 18 aprile 2008, alla conclusione del processo presso la Corte d’Assise di Taranto, si attendeva una condanna.Per il vero, il Chirico era gravato da reati che vanno dall’omicidio al traffico di sostanze stupefacenti e dalle estorsioni al porto e detenzione di materiale esplodente, tanto che il collaboratore di giustizia ha riportato una pena complessiva pari a 10 anni di reclusione, l’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, l’obbligo di risarcire l’unica parte civile costituitasi.A parere della Corte, gli elementi probatori evidenziati nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale e ribaditi dal pm antimafia non hanno lasciato dubbi circa la responsabilità del Chirico. Al contrario dell’altro inquisito, il tarantino Nicola Russano che, chiamato a rispondere del concorso negli omicidi, è stato sollevato da tutte le imputazioni per non aver commesso il fatto.Il verdetto non si è limitato a sanzionare i due fatti di sangue, ma alla sua attenzione erano finiti: i traffici di sostanze stupefacenti, le estorsioni e i danneggiamenti ai commercianti e piccoli imprenditori. Per aver partecipato alla detenzione e allo spaccio di ingenti quantitativi di droga e alle minacce affiancate dalle richieste di tangenti, il tarantino Stefano Speciale è stato condannato a 6 anni di reclusione, Cosimo Damiano Serra è stato giudicato colpevole per aver preso parte al traffico di eroina e cocaina importate in Puglia dalla Calabria fra il 1990 e il ’92, condannato a 7 anni; Antonio Calabrese è stato riconosciuto colpevole del reato di estorsione e ha riportato una pena pari a 3 anni.

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La sentenza della Corte d’Assise di Taranto ha riguardato episodi verificatisi a partire dal 1984 (in quel periodo furono perpetrati gli omicidi) per arrivare poi al 1999, quando si registrarono gli ultimi danneggiamenti ai danni del titolare di aziende di confezione martinesi.A dar vita all’intero procedimento furono le dichiarazioni di alcuni pentiti che riaprirono così casi giudiziari irrisolti.Da sottolineare che ai due fatti di sangue, che videro come vittime Dragone e Ciliberti, avrebbe preso parte anche Antonio Modeo, all’epoca figura di spicco del panorama malavitoso tarantino, che rimase vittima di un agguato a Bisceglie all’inizio degli anni Novanta. (29)

Appendice al processo antimafia <<Cruise>>Affermazione di responsabilità per tutti tranne che per un’imputata. Questo, in estrema sintesi, il verdetto che l’8 maggio 2008 ha fatto calare il sipario sul processo originato dall’inchiesta antimafia denominata ‘Cruise’, quella che circa sette anni fa pose fine ad attività delittuose che, sviluppatesi nel capoluogo ionico, avrebbero visto come protagonista il gruppo capeggiato da Claudio Modeo.Già suggellata da una serie di pesanti condanne, quella vicenda è tornata all’attenzione dei giudici per episodi che la magistratura inquirente ha ritenuto collegati al procedimento principale. Episodi caratterizzati da detenzione di arma da fuoco, da estorsioni ai danni di commercianti e da dichiarazioni che, rese dalle vittime dei reati, sono state giudicate non veritiere. Preso atto di quanto emerso dall’interpretazione data a numerose conversazioni intercettate in carcere, la Seconda Sezione Penale di Taranto ha definito il processo con una decisione che ha sancito la condanna di ben 11 imputati, molti dei quali chiamati a rispondere di falsa testimonianza. La pena più alta è stata inflitta alla tarantina Luigia D’Addario che ha riportato 2 anni e sei mesi di reclusione. Ad aver determinato il riconoscimento di colpevolezza della donna sono stati due episodi estorsivi (per un terzo ha beneficiato dell’assoluzione) che sarebero stati messi a segno ai danni di commercianti fra gennaio e febbraio del 2000. Stando alla tesi dell’accusa, le richieste di denaro furono fatte per assicurare il mantenimento di familiari o detenuti in carcere o in libertà. Per lo stesso motivo è stato pure condannato Cosimo Di Pierro, già imputato di spicco sia al procedimento ‘Cruise’ sia al maxi-processo antimafia ‘Ellesponto’, il lungo dibattimento che si occupò della cruenta ‘guerra di mala’ che insaguinò Taranto e provincia fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.Di Pierro si è visto irrogare dodici mesi di reclusione che vanno ad aggiungersi alla condanna a 4 anni emessa a suo carico dalla Corte d’Appello di Taranto il 14 giugno del 2005. Otto mesi rappresentano la sanzione inflitta a Matteo De Santis, riconosciuto colpevole per la detenzione di una pistola completa di munizioni e caricatore appartenuta a Di Pierro. E sempre per armi è scattata la condanna pure per Cataldo Sambito. L’inquisito dovrà sconmtare un anno di reclusione che va ad aggiungersi alla pena decisa nei suoi confronti al termine del processo ‘Cruise’.

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Altri sette imputati (tutti accusati di aver reso falsa testimonianza nel corso del processo) sono stati giudicati colpevoli dei reati loro ascritti e condannati ad un anno e 4 mesi ciascuno. Sugli inquisiti è pesato il sospetto per aver negato di aver avuto a che fare con alcuni dei personaggi coinvolti nel processo ‘Cruise’ quando invece il contenuto delle conversazioni intercettate avrebbe fatto intendere il contrario. Fra coloro che sono stati riconosciuti responsabili figurano pure vittime di estorsione. Ad ogni modo la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto ha riservato buone notizie per una delle donne finite alla sbarra. E’ stata assolta perché il fatto non sussiste. (29) Armi e munizioniAveva un piccolo arsenale nascosto in un sottoscala della propria abitazioni Roberto Mastrovito, arrestato per detenzione di armi da sparo detenute illegalmente e munizionamenti.Armi pronte per essere utilizzate: un fucile a canne mozze, una pistola calibro 6,35 e un revolver entrambi con matricola abrasa e delle munizioni. A fare il 14 maggio 2008 l’imprevista scoperta sono stati gli agenti della Questura di Taranto.Un equipaggio della Squadra volante, dopo una segnalazione giunta alla sala operativa 113, è intervenuta in una villetta bifamiliare che si trova in via Unità d’Italia (Talsano), dove era stata segnalata una lite in famiglia. Sul posto gli agenti dopo aver riportato alla calma i due litiganti (Roberto Mastrovito e la moglie), hanno perquisito la casa in considerazione dei piccoli precedenti penali dell’uomo.Una intuizione che ha portato in pochi minuti alla scoperta dell’armeria.Nella cantina dell’appartamento, all’interno di un borsone, gli agenti hanno trovato munizioni di vario calibro, poi in uno zaino; l’altra scoperta: il fucile a canne mozze, smontato ma perfettamente funzionante, una pistola calibro 6,35 con matricola abrasa, una pistola revolver sempre con matricola abrasa e diverse cartucce di vario calibro.Armi e munizioni sono state sotoposte a sequestro, mentre l’uomo è stato associato alla locale Casa Circondariale, dove si trova a disposizione degli inquirenti. A cosa sarebbe servita l’armeria non è ancora del tutto chiaro. Ma non è da escludere che fosse conservata per conto di altri.Inquietanti a questo punto le ipotesi sull’utilizzo delle armi, tutte perfettamente funzionanti. (29) Furti di mezzi agricoliArriva al capolinea con una condanna e cinque assoluzioni il processo originato dall’inchesta che il 2000 svelò l’esistenza di una presunta organizzazione che avrebbe chiesto danaro per restituire mezzi agricoli rubati. Denominata “Maciste, l’epilogo”, quell’operazione fece finire nei guai una dozzina di soggetti sospettati di aver dato vita ad un vero e proprio racket ai danni di agricoltori e proprietari terrieri del versante occidentale della provincia ionica. All’epoca gli inquirenti rilevarono indizi tali da far scattare accuse estremamente pesanti, ma con il trascorrere del tempo

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quelle contestazioni hanno perso valenza e la riprova si è avuta il 12 maggio 2008 con la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto. Preso atto degli esiti del lungo dibattimento e delle argomentazioni formulate dal pubblico ministero e dal collegio difensivo, l’organo giudicante ha proceduto alla condanna di un solo inquisito sollevando dalle imputazioni il resto di coloro che attendevano di conoscere il proprio destino giudiziario.Il verdetto di colpevolezza ha riguardato il 72enne Giuseppe Masi che riconosciuto responsabile del reato di ricettazione ha riportato una pena pari a 2 anni di reclusione. L’assoluzione perché il fatto non sussiste è stata invece decretata per Anna Masi, Giacomo Masi, Francesco Pinto, Antonio Masi e Giovannio Palmisano. Nel segnalare che per una imputata è stato disposto di non doversi procedere perché deceduta nelle more del processo. Si ricorda che l’intero procedimento ruotava attorno ad episodi che, verificatisi fino al marzo del 2000, sarebbero stati caraterizzati dal furto di mezzi agricoli e di teloni utilizzati per la copertura di coltivazioni, da richieste estorsive e dalla ricettazione di trattori la cui provenienza è stata giudicata dagli inquirenti dubbia. (29)

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APPEND I C E

INAUGURAZIONI ANNI GIUDIZIARI

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L’Amministrazione della Giustizia costituisce nella sua operatività fondamentale osservatorio sull’esistenza e consistenza dei fenomeni di criminalità organizzata, il cui riconoscimento è la risultante delle attività di contrasto, maturate poi in indagini e processi, i cui esiti non sempre costituiscono pieni successi raggiunti dalla magistratura. Nonostante ciò e soprattutto uscendo dai rigidi schemi del tecnicismo giuridico e giudiziario, si riesce ad ottenere una visione il più possibile fedele dei fenomeni.“Il termometro della situazione” in forma di efficace sintesi è rappresentato dalle annuali relazioni in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari. Si tratta di un interessante bilancio a consuntivo dei distretti di Corte d’Appello esposto dai rispettivi Presidenti.Poiché vogliamo rispondere a programmate esigenze di esposizione su tutto il tema che ci interessa, partendo da iniziali riferimenti non lontani nel tempo, esordiamo con le relazioni inaugurali dell’anno 2006 per i resoconti dall’1 luglio 2004 al 30 giugno 2005 in Puglia (Corti d’Appello di Bari e Lecce).Anno giudiziario 2006C.d.A. – Bari. Per quanto concerne il Distretto di Bari (Bari, Foggia, Lucera, Trani), è stato evidenziato in maniera molto forte l’incremento nel capoluogo del fenomeno mafioso, sempre più rampante e ambizioso, dopo avere talvolta mutato le sembianze più accreditate dei colletti bianchi. Particolare allarme è stato evidenziato a causa di molti omicidi e scontri a fuoco commessi nelle vie del centro città. Il punto d’osservazione spostato nel foggiano ha rilevato l’acuirsi del contrasto tra opposte fazioni criminali e la conseguente recrudescenza di fatti di sangue consumati, a parere del relatore, in un clima di singolare omertà.Sulla scorta delle informazioni fornite dalla Dda, è stato sottolineato che le attività delinquenziali delle associazioni di tipo mafioso si esplicavano prevalentemente nel settore del traffico delle sostanze stupefacenti, delle estorsioni e delle rapine. E’ stato calcolato che il 50 per cento dei reati di spaccio di droga è stato consumato nel territorio di Foggia, dove la particolare pericolosità della delinquenza risentiva di evidenti infiltrazioni di gruppi organizzati, soprattutto nel capoluogo dauno.Il senso di allarme e di preoccupazione è stato espresso per quelle forma di ereditarietà del potere mafioso, trasmesso di padre in figlio; caratteristica questa della criminalità minorile barese che, oltre alla sua strumentalizzazione per la consumazione di omicidi nella guerra tra bande, ha introdotto elementi di sub-cultura della mafiosità. Particolare attenzione è stata dedicata ai reati di estorsione, scoperta come attività gestita dalle associazioni delinquenziali sotto forma di autofinanziamento, per investire nei traffici di armi e sostanze stupefacenti. Il fenomeno è stato visto in chiave di forte condizionamento negativo per lo sviluppo economico del territorio. Il sensibile calo del 22 per cento rispetto al precedente periodo è stato visto a merito

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delle attività giudiziarie svolte, con la celebrazione di vari processi a carico di imputati detenuti con condanne a pene molto pesanti. Al successo hanno contribuito alcuni coimputati, collaboratori di giustizia, che hanno usufruito dei benefici previsti dalla legge.I reati di usura rubricati hanno fatto registrare un notevole e crescente incremento, ferma restando la considerazione che i dati venivano comunque considerati sottodimensionati per la ben nota e scontata scarsa propensione per le vittime alla denuncia. Fra queste, piccoli imprenditori per un difficile o addirittura impossibile accesso al credito, ricorrevano (e tutt’ora ricorrono) alla malavita che, infiltrandosi, assume il ruolo di finanziatrice. Non per nulla alcune esperienze giudiziarie si sono allargate a vicende fallimentari collegate a reati di usura. Questo fenomeno è stato rilevato più presente in maniera significativa nel foggiano, a causa della grave crisi economica e commerciale.A beneficio degli argomenti trattati nel presente lavoro, abbiamo voluto estrapolare dalla relazione inaugurale dell’anno 2006 l’argomento legato ai reati nel loro genere qualificati contro l’incolumità e la salute dei cittadini, ma più specificatamente appartenenti al fenomeno più ampio dell’illegalità ambientale.Ciò viene da noi considerato come antesignano motivo d’allarme in ordine all’attuale gestione dei rifiuti tossici, degli scarichi non autorizzati e degli incendi boschivi da parte della criminalità organizzata.C.d.A. – Lecce. Diversa la situazione nel Distretto della Corte d’Appello di Lecce (Lecce, Brindisi, Taranto) per il periodo 2004-2005, illustrata in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario 2006.Seppur non supportata da valori numerici e percentuali, il relatore ha ugualmente fornito un resoconto esaustivo sulla consistenza del fenomeno criminale.E’ stato rilevato che la potenzialità delle organizzazioni, storicamente inserite nella Scu, è stata sempre di più ridimensionata da interventi di contrasto. Dall’altra parte, è stata rilevata la tendenza ad alimentare collegamenti all’estero nel campo del traffico di droga, dove la Scu ha avuto momenti di latitanza in Olanda e Brasile. L’organizzazione mafiosa ha inoltre assunto un ruolo di rilievo nei rapporti con quelle della Sicilia, Campania e Calabria, infiltrandosi nel settore degli investimenti, riciclaggio di denaro sporco, traffico di stupefacenti.La provincia di Brindisi non ha evidenziato segnali di ripresa delle organizzazioni mafiose, le cui potenzialità risultavano assai ridotte per efficaci attività investigative conseguenti alle collaborazioni giudiziarie. Sul piano delle indagini, a quel tempo ancora in fase di svolgimento, erano emerse concrete potenzialità di infiltrazioni mafiose nelle imprese, nel mondo degli appalti, con approfondimenti rivolti all’eventuale presenza, fra i dipendenti delle imprese aggiudicatarie, di esponenti dell’era Scu. Tra le ipotesi avanzate nella relazione, quella di eventuali condizionamenti mafiosi nei confronti delle libere scelte elettorali.

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In provincia di Taranto il consuntivo 2004/2005 ha sottolineato il ridimensionamento costante dell’organizzazione uscita sconfitta negli anni precedenti, dopo la definizione di importanti processi che hanno comminato severe condanne.L’esposizione si è soffermata nel riferire di indagini nel territorio provinciale tarantino, dalle quali sono emerse influenze mafiose in occasione dello svolgimento di elezioni amministrative, con l’obiettivo di mettere le mani nel sistema degli appalti pubblici e dei sub-appalti.Particolare attenzione è stata dedicata alla delinquenza minorile, dalle precipue connotazioni a Taranto, dove è stato rilevato che i giovanissimi venivano coinvolti in associazioni delinquenziali, sia di stampo mafioso, che di specializzazione nel traffico di droga. La situazione è stata aggravata a causa di due omicidi verificatisi con il coinvolgimento di minorenni, rapine e tentata estorsione.Ancora Taranto è stata indicata come luogo in cui si commettevano reati di usura. La emblematicità è stata spiegata per la realtà economica del territorio.

Anno giudiziario 2007C.d.A. – Bari. Anche in questa occasione inaugurale è stato dedicato uno spazio al fenomeno mafioso e alle associazione che ne fanno capo. Sono state prese in considerazione le segnalazioni della Dda che ha individuato sia a Bari che a Foggia il persistere di uno stato di relativa quiete, certamente per i continui e sistematici interventi giudiziari compiuti. Questa, definita ‘pax mafiosa’, sostanzialmente calata su buona parte del territorio barese, ha trovato la sua ragion d’essere per l’interesse delle compagini nel ricercare un continuo afflusso di denaro da destinare a favore degli accoliti nelle carceri, delle rispettive famiglie e per l’assistenza legale, alla luce degli innumerevoli processi penali in fase di svolgimento.E’ stato considerato verosimile che il periodo di relativa quiete non sarebbe stato durevole per l’eterna discordia tra le contrapposte compagini baresi, per la considerata incapacità organizzativa all’interno di ogni clan e al facile ricorso alla violenza, che ha caratterizzato i dieci anni precedenti con agguati armati, mire espansionistiche delle varie organizzazioni, vendette personali.Segnali di preoccupazione sono stati espressi per il tempo successivo a causa del probabile acuirsi delle frizioni come conseguenza delle precedenti liberazioni anticipate dei detenuti dai penitenziari pugliesi.Le prime avvisaglie sono state avvertite nel circondario barese per segnali preoccupanti sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica. A Foggia e provincia, dopo gli scontri armati che hanno caratterizzato la ‘seconda guerra di mafia’, è stata riscontrata una concreta tranquillità sociale per meglio dedicarsi agli affari criminali.Tra i fenomeni criminosi collegati alle associazioni di tipo mafioso, hanno assunto un certo rilievo i delitti di omicidio, tentato omicidio e porto e detenzione di armi.

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Per quanto attiene ai reati di traffico di sostanze stupefacenti, sottolineata l’intensa attività delle associazioni operanti tra l’Albania e l’Italia, che spesso hanno utilizzato la Puglia come territorio di transito di tali sostanze, dirette verso altre regioni d’Italia o addirittura verso il Nord Europa.I reati di estorsione sono stati oggetto di analisi; dopo una netta flessione registratasi tra il 2004 e il 2005, la tendenza è cambiata per un aumento del 18% nel distretto, con una punta del 100 per cento nel territorio di competenza della Procura della Repubblica di Bari. Tra le finalità perseguite dalle associazioni, la forma di autofinanziamento finalizzato ai traffici di armi e sostanze stupefacenti, atteso che il contrabbando ha subito da tempo un forte ridimensionamento.I fenomi di usura, anche questi considerati come strumenti di autofinanziamento, hanno assunto una certa rilevanza nelle province di Bari e di Foggia. Purtroppo l’esiguo numero di denunce sporte alle autorità non ha potuto permettere di cogliere la reale percezione del fenomeno, considerato piaga sociale e causa determinante del collasso delle aziende e dell’indebitamento familiare per quanti, non in grado di garantire il prestito, non possono ricorrere al credito di banche e di istituti finanziari.Sulla criminalità minorile sono state espresse analoghe preoccupazioni, così come nel passato, nelle sue diverse manifestazioni; in particolare quella di tipo mafioso, della quale, per economia espositiva, attesa purtroppo la mancanza di variazioni in senso migliorativo, è stato fornito resoconto nella relazione inaugurale dell’anno precedente.C.d.A. – Lecce. La relazione del Presidente in tema di fenomeno mafioso, ha evidenziato il continuo e forte ridimensionamento della Scu nelle province di Lecce e Brindisi nonché della criminalità organizzata, sempre di stampo mafioso, nella provincia di Taranto.Questa osservata tendenza positiva, ha trovato le proprie motivazioni dal complesso delle attività di contrasto, dall’esito delle indagini giudiziarie grazie anche ai collaboratori di giustizia e al numero dei processi celebratisi. Nonostante ciò, è stata rilevata una certa ripresa di vitalità delle organizzazioni criminali, anche quelle di stampo mafioso.In provincia di Lecce è stato registrato un consistente numero di denunce per estorsioni, molte delle quali commesse con metodo mafioso, la cui rubricata qualificazione è stata ottenuta a merito della maggior fiducia nell’intervento giudiziario tanto che è stata rilevata prevalenza del numero dei procedimenti con indagati noti, rispetto a quello degli ignoti.Il traffico delle sostanze degli stupefacenti non ha subito flessioni nonostante le innumerevoli azioni di contrasto.In provincia di Brindisi è stata rilevata la persistenza di attività criminali legate al traffico di sostanze stupefacenti ad opera di gruppi mafiosi e non mafiosi, nei confronti dei quali è stata rivolta un’attività di intervento. Evidenziati anche episodi

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di violenza ad esercizi commerciali (appiccamento di fuoco, esplosione di ordigni) di chiaro segno intimidatorio, finalizzato all’estorsione. In provincia di Taranto, nonostante le positive conseguenze di successi giudiziari, la criminalità mafiosa ha manifestato segnali di riorganizzazione con episodi di violenza. Più in generale, è stato rilevato che, seppur in uno scenario frammentato e disorganico, continua ad essere prevalente sia nella provincia che nel capoluogo, il traffico delle sostanze stupefacenti ad opera di piccoli gruppi autonomi, liberi da logiche di controlli accentrati, ma con collegamenti all’estero.Per quel che concerne eventuali infiltrazioni mafiose in appalti e servizi pubblici, è stato riferito che alcuni casi erano ancora al vaglio della magistratura giudicante dei tre circondari.Per quel che concerne la giustizia minorile penale, la Relazione ha sottolineato il notevole aumento dei procedimenti penali iscritti a ruolo. Entrando poi nei particolari riguardanti la proposizione delle denunce, ne è stato rilevato un aumento per quasi tutti i tipi di reato e in particolare: rapine, estorsioni, lesioni personali. Solo per i reati in materia di stupefacenti, vi è stata una riduzione delle denunce.La provincia di Brindisi ha rappresentato in maniera determinante e preoccupante questa tendenza. Sia in città che in alcuni altri comuni più popolosi hanno agito per mesi piccole bande composte da minori e giovani adulti, autori di rapine e numerosi altri reati, anche gravi, come le rapine. Riguardo a quest’ultima rilevazione da tenere sotto stretta sorveglianza, è stato considerato il pericolo di immissione di nuove leve pronte ad immettersi nella criminalità organizzata, come motivo di riorganizzazione dopo l’incisiva azione di polizia giudiziaria.Questa la considerazione riassuntiva: dopo poco più di tre anni di contrazione del fenomeno, ci si è trovati di fronte alla recrudescenza della criminalità minorile, la cui ripetuta periodicità è posta in relazione al manifestarsi della criminalità di una ‘generazione’, dove sono presenti più minori devianti e prima che si riesca ad individuarli.In tema di reati contro l’incolumità pubblica e la salute dei cittadini, legati anche all’ambiente, non sono state segnalate particolari novità rispetto al precedente periodo.Anno giudiziario 2008C.d.A.– Bari. Della relazione del Presidente, ci preme far risaltare alcuni aspetti, in sintonia con la logica di raccolta, informatrice di questo lavoro di ricerca.Per quel che concerne il fenomeno delle associazioni mafiose è stata rilevata una loro diffusa pericolosità nel circondario di Foggia. Analoga situazione negli altri centri più importanti della provincia (Cerignola, San Severo, Manfredonia, Monte S. Angelo). Per tutti questi la locale delinquenza si era presentata articolata in gruppi mafiosi organizzati e con il livello di ferocia sempre più crescente. Ciò ha comportato un notevole aumento dei reati di omicidio.

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Sottolineata inoltre la presenza sul territorio di associazioni criminali di stampo mafioso, dedite prevalentemente al traffico degli stupefacenti, alle attività estorsive e alle rapine. Non sono emerse invece infiltrazioni significative nelle concessioni di appalti e servizi pubblici.Il quadro fornito ha ottenuto le relative conferme dalle attività giurisdizionali della Corte d’Assise con l’emissione di tre sentenze aventi ad oggetto il delitto di associazione di stampo mafioso.Da parte sua, la Procura di Bari ha segnalato, per il periodo di riferimento, numerosi procedimenti in materia di associazioni per spaccio di stupefacenti, di associazioni di tipo mafioso, oltre ai reati di estorsione ed usura.In particolare, i reati di estorsione accertati hanno evidenziato nel numero una stazionarietà (572). Interessante poi la puntualizzazione che il fenomeno è apparso maggiormente diffuso nei circondari di Trani e Lucera, mentre Foggia e Bari in flessione.Una certa attenzione è stata dedicata, per incrementi vertiginosi, ai reati contro l’incolumità pubblica e la salute dei cittadini, come quelli di tutela dell’ambiente e del territorio; benché meno avvertite sul piano emotivo e mediatico, sono state considerate nuove forme di aggressione alla legalità non meno inquietanti per la convivenza civile.Per quel che concerne la giustizia minorile, appare interessante la notizia sulla continuazione dell’attività giudiziaria promossa l’anno precedente in ordine all’iniziativa assunta dal Tribunale e dalla Procura minorile nel richiedere alla Procura di Bari e alla Dda copia della documentazione disponibile, con riferimento a tutti i soggetti maggiorenni coinvolti in procedimenti penali per associazione a delinquere di stampo mafioso, per fatti di criminalità organizzata ed altri gravi reati. Ciò allo scopo di accertare l’esistenza di figli minori, eventualmente a rischio di pregiudizio per la negativa influenza dei genitori. La Procura minorile ha promosso circa 60 di questi procedimenti, con la prospettiva di successivo incremento. L’obiettivo era costituito dalla pronuncia di provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale. Sempre in coerenza con i metodi di scelta degli argomenti di questa nostra ricerca, rileviamo che, in tema di situazione della criminalità organizzata di stampo mafioso, sul piano generale, la Corte d’Appello di Lecce ha riconfermato il perdurante affievolirsi degli elementi di riconducibilità al nucleo storico della Scu.Nel circondario di Taranto la criminalità organizzata tende gradualmente verso una fase di frammentazione del fenomeno associativo con compagini più ristrette, localizzate su specifiche aree territoriali. Questa metamorfosi, al di là di logiche legate ai nuovi assetti, è stata vista come conseguenza della lunga carcerazione dei capi storici della malavita tarantina, cui non ne è seguita l’emersione di nuove figure altrettanto carismatiche. La visione di prospettiva è stata considerata confortante in virtù di sentenze di condanna, in grado di appello, emesse ai sensi dell’art. 416 bis, in

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tema di intimidazioni e infiltrazioni nei settori economici, negli appalti e nei servizi pubblici.Preoccupazione, tuttavia, è stata espressa per le risultanze di indagini che hanno visto un sodalizio storico dedito allo spaccio di stupefacenti, alle estorsioni di tipo mafioso ai danni di imprenditori, avvalendosi della forza di intimidazione esercitata da esponenti del sodalizio o da loro affiliati. Di rilievo anche il riciclaggio attraverso varie attività imprenditoriali.Poco è stato segnalato su Brindisi; richiamata però l’attenzione su alcuni segnali, ritenuti non trascurabili, di attività mafiose emersi a seguito di indagini svolte nel capoluogo e nelle zone di Mesagne e Torre Santa Susanna.Nel circondario di Lecce sono stati avvertiti ancora effetti positivi delle precedenti azioni di contrasto. Il resoconto dell’anno ha indicato specifiche attività di intervento giudiziario su condotte criminali di gruppi mafiosi, da quelle di estorsione, commesse con modalità mafiose o per finalità di agevolazione mafiosa dove è stata sistematicamente applicata la custodia cautelare in carcere in tempi i più brevi possibili, a quelli di traffico di droga. E’ stato però rilevato qualche segnale di vitalità (quartiere Castromediano, Surbo, Trepuzzi, Squinzano, Campi Salentina, Monteroni, Gallipoli). La ripresa sembrava fosse da attribuirsi alle numerose scarcerazioni e, fra queste, di esponenti di primo piano dei clan storici. E’ apparsa confermata la tendenza delle locali organizzazioni mafiose ad alimentare collegamenti all’estero nel campo del traffico di droga.E’ apparsa confermata la tendenza delle locali organizzazioni mafiose ad alimentare collegamenti all’estero nel campo del traffico di droga. Questo fenomeno di internazionalizzazione risalente già alla Scu è stata vista in termini di continuità, proprio attraverso gli eseguiti sequestri di partite di eroina, cocaina e marijuana, in gran parte provenienti dall’Albania.Confermato anche il ruolo assunto dalla Scu nei rapporti con le altre associazioni mafiose, sia nel settore degli investimenti e del riciclaggio dei proventi illeciti, sia in quello del traffico degli stupefacenti.Episodi di estorsione con metodo mafioso o per finalità di agevolazione mafiosa, sono emersi sia a Lecce che in provincia. Non sono mancati interventi repressivi di particolare efficacia.Sempre per rimanere in tema, la relazione inaugurale ha dato informazione sull’esito delle indagini svolte su alcune frange mafiose già operanti a Lecce ed esponenti della politica specialmente in occasione di consultazioni elettorali. Per queste vicende è stata formulata imputazione di corruzione elettorale commessa per finalità di agevolazione mafiosa, nei confronti di un candidato alle elezioni del Consiglio Comunale di Lecce del 2002.Nel circondario di Brindisi risultavano ancora in corso le indagini sulle eventuali infiltrazioni mafiose nelle imprese e l’interesse delle organizzazioni di tipo mafioso agli appalti.

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Nel circondario di Taranto sono state definite le indagini preliminari tra esponenti della criminalità organizzata ed ambienti del Comune di Taranto (influenza sul rilascio di concessioni e sulla gestione delle attività); è emersa anche l’ipotesi di corruzione elettorale commessa per finalità di agevolazione mafiosa in occasione delle amministrative comunali del 3-4 aprile 2005.Preoccupante è stato considerato il frequente coinvolgimento di minorenni nella consumazione di reati. La Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Lecce ha rilevato un forte incremento, fra l’altro, di rapine, estorsioni, armi e stupefacenti. Per altro, talune rapine ed estorsioni, specie se commesse in concorso con maggiorenni e con uso di armi, sono state inquadrate come potenziali strumenti di collegamento o vicinanza con le organizzazioni criminali in fase di ricostruzione sul territorio, dove la ricerca delle nuove leve viene generalmente indirizzata tra i più giovani appartenenti a un gruppo familiare già inserito nell’organizzazione.Il fenomeno dell’inquinamento ambientale visto come reato, è stato giudicato molto imponente. Particolare attenzione è stata dedicata ai reati di adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari,commessi nel circondario di Lecce e nel territorio di competenza del Tribunale di Brindisi.

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