Dialoghi SETTEMBRE 2006 - Azione Cattolica Italiana |...

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D ialoghi D ANNO VI SETTEMBRE 2006 Numero 3 Euro 8,00 L’infinito nel quotidiano Gian Matteo Apuzzo Rosalba Bulzaga Luciano Caimi Giacomo Canobbio Angelo Casati Lorenzo Caselli Francesco D’Agostino Luigi Fusco Girard Fabiana Martini Antonio Raimondi Ugo Villani “Dialoghi” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DRCB ROMA - ISSN 1593-5760 D ialoghi

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DialoghiDialoghi

ANNO VISETTEMBRE 2006Numero 3Euro 8,00

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2006 - Num

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L’infinito nel quotidiano

L’nfinito nel quotidiano

Gian MatteoApuzzo

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Dialoghi

per un progetto culturale cristianamente ispiratoDialoghi

Anno VI, n. 3

Rivista trimestrale promossa dall’Azione Cattolica Italiana in collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”

DirettoreLuciano CAIMI

Direttore responsabilePaola BIGNARDI

Comitato di direzioneLuigi ALICI, Piermarco AROLDI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA TORRE, Gian Candido DE MARTIN,Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Pier Giorgio GRASSI, mons. Francesco LAMBIASI, Francesco MALGERI, Francesco MIANO,Marco OLIVETTI, Matteo TRUFFELLI.

RedazioneGiovanni GRANDI (coordinatore), Gianni DI SANTO, Antonio MARTINO.

PromozioneRosella GRANDE

Comitato scientificoPasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Mario BRUTTI,Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA,Francesco D’AGOSTINO, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI,Claudio GIULIODORI, Maria Cristina GIUNTELLA, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI,Orazio Francesco PIAZZA, Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA,Ignazio SANNA, Pierangelo SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, StefanoZAMAGNI, Sergio ZANINELLI.

EditriceFondazione Apostolicam ActuositatemSede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 RomaUffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 RomaTel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207E-mail: [email protected]

[email protected]

Progetto grafico e impaginazioneGiuliano D’Orsi

In copertinaCaspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818 - Amburgo, Hamburger Kunsthalle

Illustrazioni interneFoto Olycom

StampaSo.gra.ro. – Roma

Tiratura: 3.000 copie – Finito di stampare nel mese di settembre 2006

II di COP3-05 14-09-2006 10:23 Pagina 2

1dialoghi n. 3 settembre 2006

SOMMARIOEDITORIALE

A Verona il IV Convegno della Chiesa Italiana 2Luciano Caimi

PRIMO PIANOLo sguardo al cielo e la fedeltà alla terra 8Angelo Casati

DOSSIER: L’INFINITO NEL QUOTIDIANO

La speranza che non delude 16Giacomo Canobbio

Politica e globalizzazione: la speranza al futuro 24Antonio Raimondi

Per un’economia al servizio dell’uomo 30Lorenzo Caselli

Una vita che nasce è una domanda di futuro 38Fabiana Martini

Diritti forti e vite fragili 42Ugo Villani

La città può donarci Dio 50Rosalba Bulzaga

I colori del saper vivere 56Forum con:Francesco D’Agostino, Gian Matteo Apuzzo, Luigi Fusco Girard

EVENTI E IDEELa fine delle rivoluzioni? 68Marco Olivetti

La psicoanalisi tra terapia e sviluppo morale 73Leonardo Ancona

Il Codice da Vinci. Le ragioni di un successo 76Piermarco Aroldi e Francesca Pasquali

Mozart. Quando le note oltrepassano il tempo 81Raffaele Mellace

IL LIBRO E I LIBRILa democrazia dei cristiani 86Paola Gaiotti De Biase

I “laici” di fronte alla Chiesa 90Giovanni Grandi

Il respiro etico della poesia 94Katia Paoletti

PROFILIPaul Ricoeur. Tra coscienza e parola 99Giuseppe Grampa

Siamo ormai nell’imminenza del Convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre 2006). Anche in questo caso la preparazione è stata particolar-mente curata. Dobbiamo perciò augurarci che le domande e i motivi piùurgenti riguardo al tema (“Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”),emersi nella fase preparatoria, possano trovare debita accoglienza nei lavo-ri assembleari.

Com’è noto, l’incontro di Verona fa seguito a quelli di Roma, 1976(“Evangelizzazione e promozione umana”), Loreto, 1985 (“Riconciliazionecristiana e comunità degli uomini”), Palermo, 1995 (“Il Vangelo della caritàper una nuova società in Italia”). Tali appuntamenti, inseriti nel quadro deipiani pastorali decennalmente predisposti dalla Conferenza EpiscopaleItaliana (“Evangelizzazione e sacramenti” – anni Settanta –, “Comunione ecomunità” – anni Ottanta –, “Evangelizzazione e testimonianza dellacarità” – anni Novanta), sono risultati momenti alti di riflessione sul cam-mino ecclesiale intrapreso, con particolare riferimento alle “sfide” rivoltedalla società alla missione della Chiesa nel nostro Paese.

Quello di Roma si collocò in una stagione ancora percorsa dalle effer-vescenze post-conciliari e da tensioni a vario titolo collegabili con le mobi-litazioni collettive del 1968-’69. Esso ruotò intorno a una condivisa con-sapevolezza: il progredire di stili di vita secolarizzati in larga parte degliitaliani necessitava di un salto di qualità sul piano pastorale, ponendo alcentro un’idea forte e articolata di evangelizzazione, come opera cioècapace di legare insieme annuncio del mistero di salvezza e attese, sia per-sonali sia collettive, di piena promozione umana.

Il Convegno di Loreto s’incrociava con una congiuntura segnata, oltre

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A Verona ilIV Convegnodella Chiesa Italiana

Luciano Caimi

EDITORIALE

che dalla drammatica escalation del terrorismo, anche da aspri contrastinella comunità ecclesiale (ricordo, ad esempio, la contrapposizione fra icosiddetti “cristiani della presenza” e quelli “della mediazione”, la consun-zione della pluridecennale unità politica dei cattolici). Tutto ciò sollecita-va una riconciliazione interna della Chiesa, nel segno di un reciproco rico-noscimento della pluralità di carismi ed esperienze, perché solo così i cre-denti avrebbero potuto proporsi come elemento propulsivo di pacificazio-ne dentro una società lacerata da gravi conflitti.

A Palermo, infine, l’accento sulla carità quale via prioritaria dell’e-vangelizzazione intendeva richiamare all’attenzione dei fedeli l’ideasecondo cui proprio l’opera caritativa, declinata sul versante della soli-darietà/vicinanza con le vecchie e le nuove povertà (fra le seconde anda-va via via emergendo l’immigrazione clandestina), rappresentava formae “linguaggio” dell’annuncio cristiano immediatamente percepibile datutti. Pertanto, da lì occorreva partire per rendere efficace l’opera dellaChiesa anche in ordine a un’auspicabile crescita solidaristica dell’interasocietà italiana.

Se si considerano con uno sguardo d’insieme i primi tre Convegni,possiamo osservare che essi, al di là della differenziazione dei temi, inrealtà muovevano tutti da una convergente preoccupazione di fondo:quella di enucleare in forma sintetica la questione decisiva per la missionedella Chiesa in Italia, alla luce della straordinaria lezione conciliare e tenu-to conto dei vorticosi processi di cambiamento in atto nel Paese. Ebbene,il nodo dell’evangelizzazione sembrò – giustamente – quello intorno alquale concentrare ricerca e impegno della comunità ecclesiale. L’opzionepoggiava su due ordini di considerazioni: primo, anche l’Italia, dove, peraltro, il cattolicesimo continuava ad avere sicuro radicamento (emblema-tica l’alta adesione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana e ai matrimonireligiosi), risultava sempre più investita da spinte secolaristico-consumisti-che, che sollecitavano a un ripensamento globale, in chiave missionaria,della pastorale ordinaria; secondo, la (ri)evangelizzazione doveva investirele stesse comunità di fede (incominciando dalle parrocchie), tropposovente tiepide, abitudinarie, prive di slancio genuinamente profetico.

Il Convegno di Verona si sintonizza con la preoccupazione di sintesitematica espressa nei precedenti incontri e individua il “fuoco” della pro-posta intorno a due categorie – la testimonianza e la speranza –, che pren-dono forza e vigore dall’evento di Gesù Risorto. Senz’alcun dubbio, il cri-stiano, qualunque sia la sua vocazione specifica, deve essere testimone delSignore incontrato. Ovviamente, si tratta d’intenderci sul significato esulle modalità concrete di questa testimonianza, in rapporto alle singolescelte vocazionali. Se pensiamo al fedele laico, viene subito da osservareche il suo modo ordinario di essere testimone deve misurarsi con la feria-

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lità degli impegni e delle occupazioni. A tale proposito, è da rilanciare perintero l’insegnamento conciliare in materia di vocazione e missione laica-le, ripreso e svolto dall’esortazione apostolica post-sinodale Christifideleslaici (1988).

Vorrei tuttavia non si dimenticasse che la riflessione intorno alla testi-monianza cristiana va contestualmente svolta con quella sul discepolato.Infatti, ogni battezzato, per testimoniare con correttezza il Signore, devesentirsi sempre nella condizione di discepolo. L’ascolto assiduo dellaParola del Maestro, con la conseguente volontà di metterla in pratica, èfondamentale per la sequela cristiana. Anche la testimonianza ha lì, dun-

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que, la sua sorgente originaria e la fonte continua di alimentazione. Sulmodo di essere testimoni, conservano straordinario valore le parole della ILettera di Pietro: «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandiragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza erispetto, con una retta coscienza» (3, 15-16). Ecco, il cristiano non puòessere un pusillanime, un timoroso, quasi si vergognasse dell’opzione fon-damentale (Cristo Gesù) che orienta la sua vita e lo induce a guardare alfuturo con serena fiducia, ma nemmeno deve rapportarsi verso gli altricon eccesso di sicurezza, facile a scadere in arroganza, per il fatto di esserecerto di abitare nell’orizzonte della Verità piena. «Dolcezza e rispetto»,secondo l’apostolo, sono tratti distintivi della testimonianza. Noi sappia-mo quanto essi siano importanti per comunicare con l’uomo d’oggi, gelo-so della sua autonomia e libertà, che lo rendono guardingo o addiritturasospettoso in tema di religione. Se dalla testimonianza del singolo fedele cisi apre a quella delle comunità cristiane, il discorso si amplia e diviene piùcomplesso. Nell’odierno contesto secolarizzato come si deve esprimere ladimensione comunitaria della fede? Quali sono le “forme” meglio capacidi dare conto, storicamente, della speranza che sostiene il cammino e lavita delle Chiese?

Di sicuro, Verona offrirà motivi di approfondimento e di dibattito suquesti interrogativi, con specifico riferimento ai quattro “àmbiti” tematiciindividuati (“vita affettiva”, “lavoro”, “fragilità umana”, “tradizione” ).Certo, l’avere accostato nel titolo del Convegno la coppia testimonian-za/speranza si rivela scelta azzeccata. Proprio la speranza, anche nel nostrocontesto nazionale, sembra essere virtù debole eppure di assoluta necessitàper affrontare, sui piani personale e collettivo, la faticosa avventura di untempo segnato da troppe disarmonie, squilibri, precarietà, carenze disenso, violenze, incertezze sul presente e sul futuro.

Come è avvenuto per i precedenti incontri, anche quello veronese,nello svolgere l’argomento prefissato, sarà verosimilmente indotto adallargare lo spettro della riflessione all’insieme dei problemi e delle urgen-ze della cattolicità italiana. In questi mesi si sono levate autorevoli voci perraccomandare l’attenzione dell’assemblea circa alcune questioni rilevanti.Giorgio Campanini ne ha poste in evidenza tre: relazioni fra pastori elaici, ruolo ecclesiale della donna, rapporto fra cristiani e società (con par-ticolare riguardo alla politica) (“Jesus”, giugno 2006, p. 66). Dal cantosuo, Giordano Frosini ha messo l’accento su laicità, collegialità nellaChiesa, scelta dei poveri (Id., A. Acerbi, Cinquant’anni di Chiesa in Italia.I convegni ecclesiali da Roma a Verona, EDB, Bologna 2006, pp. 163-185).Forse non tutti i punti suggeriti appaiono, a prima vista, in diretta con-nessione con il filo conduttore del Convegno. Però, se si tiene conto delfatto che ciascuno di essi, benché a diverso titolo, concerne la figura di

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Chiesa, nonché il modo della sua comunicazione interna ed esterna,diventa allora agevole trovare agganci plausibili con il binomio testimo-nianza/speranza.

Nei numeri del 2006 Dialoghi offre ai lettori linee di approfondimen-to della complessa e articolata tematica di Verona. Sono proposte di rifles-sione che chiamano in causa livelli plurimi di analisi e interpretazione,investendo profili di tipo teologico, filosofico, psico-sociologico, pedago-gico, socio-economico, politologico, urbanistico ecc.; vi si affiancanotestimonianze di vario segno, dalle quali si evince un bisogno diffuso disperanza per dare ali a un desiderio di vita e di futuro, non di rado soffo-cato o addirittura spento. Tutto questo chiama in causa la diretta respon-sabilità testimoniale dei cristiani. A loro compete di comunicare sulle stra-de del mondo, con lo stile mite e rispettoso di cui si è detto, il messaggiodi vita del Vangelo. Ci auguriamo che dal Convegno veronese possanogiungere parole e propositi capaci di ridare slancio missionario ai singolifedeli e alle Chiese in Italia, gli uni e le altre troppo sovente fiaccati dallelogiche mondane del quieto vivere oppure del potere, del successo, deltornaconto immediato.

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In questo numero l’attenzione è rivolta alla concretezza delle situazio-ni che interpellano la speranza cristiana: il “Primo Piano”, firmato daAngelo Casati, offre una prima esplorazione «tra cielo e terra», ricca disuggestioni; il “Dossier” sviluppa il tema del rapporto tra infinito e quo-tidiano, aprendosi con una lettura teologica del rapporto del cristiano conla storia, proposta da Giacomo Canobbio; gli approfondimenti che seguo-no si snodano lungo alcune direzioni cruciali dell’esistenza ordinaria:Antonio Raimondi esamina l’ambito dell’economia evidenziando lanecessità di un ritorno della politica, Lorenzo Caselli invita a riflettere sulmondo del lavoro, teso tra precarietà e interrogativi etici; Fabiana Martiniraccoglie alcune considerazioni sul rapporto tra famiglia e società nell’a-pertura alla vita e Ugo Villani analizza la problematica dei «diritti umani»tra dichiarazioni di principio e reali applicazioni. Completano il “Dossier”una testimonianza di sr. Rosalba Bulzaga, che invita a ripensare gli spazidi contemplazione nella città e un forum dedicato all’idea di «qualità dellavita» in cui intervengono Francesco D’Agostino, Gian Matteo Apuzzo eLuigi Fusco Girard.

La sezione “Eventi e Idee” si apre con un’analisi del cammino delleriforme in Italia: Marco Olivetti fa il punto alla luce dell’esito del refe-

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rendum costituzionale del 25 e 26 giugno; segue una breve nota diLeonardo Ancona a ricordare i 150 anni della nascita di Sigmund Freud;Pier Marco Aroldi e Francesca Pasquali offrono quindi una lettura in chia-ve sociologica del fenomeno de Il codice Da Vinci; chiude la sezioneRaffaele Mellace ricordando Mozart nel 250° anniversario della nascita.

Il libro, proposto all’attenzione dei lettori a firma di Paola Gaiotti DeBiase, è l’intervista realizzata da Giuseppe Tognon a Pietro Scoppola: Lademocrazia dei cristiani. Seguono un’esplorazione di Katia Paoletti nellaproduzione letteraria e poetica ungherese del primo Novecento ed unarecensione critica di alcuni interventi attorno alla «questione laicità» pro-posta da Giovanni Grandi. Chiude il numero Giuseppe Grampa, con un“profilo” di Paul Ricoeur.

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L’infinito e il quotidiano, la Bibbia e il giornale, diceva DietrichBonhoeffer, interrogare il cielo e interrogare la terra, una condi-zione a prima vista paradossale, il paradosso cui siamo chiamaticome credenti. Come credenti in un Dio che entra nella storia eperciò stesso va coniugando cielo e terra, l’infinito e il finito.L’immensità di Dio dentro il quotidiano di storie umane segna-te. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Il Dio di Gesù, ilVerbo nella tenda, luce infinita nella tenda misurata di unaumanità. Concreta, limitata.

E il rischio, sempre in agguato, di cancellare o impallidire ilcielo. O di cancellare o impallidire la terra. E così cancellare,impallidire il Vangelo nel suo paradosso, nella notizia buona,quella del congiungimento, il congiungimento dell’infinito edel finito.

Non mi appartiene la lucidità di visioni teologiche o socio-logiche approfondite, sono semplicemente un osservatore distorie quotidiane, dentro e non fuori della carovana di uomini edonne con cui cammino. Dico pensieri e interrogazioni chevengono da questa frequentazione, segnalatamente parziale.

Negli anni assisto con paura a un arretramento della profe-zia. L’infinito si è come accorciato e il Vangelo ha subito silen-ziosamente un addomesticamento, una riduzione alle nostremisure. La secolarizzazione più strisciante, forse la più devastan-te, sta avvenendo all’interno del mondo ecclesiale con unVangelo ridotto a secolo, con parole all’apparenza cristiane,

Angelo Casatiè parroco di S. Giovanni

Laterano (Milano).

Tra le sue pubblicazioni:

Diario di un curato di

città, Centro

Ambrosiano,

Milano 1998.

Lo sguardo al cieloe la fedeltà alla terra

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L’infinito non cancella, non disprezza il finito, lo ispira. E ilcielo non rifugge dalla terra solo perché segnata di finitudineo stanchezza o peccato. Solo chi interroga il cielo sa chesprazzi segreti di infinito e fessure inattese per lo Spiritosono rintracciabili proprio nelle dimore degli uomini.

Angelo Casati

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PRIMO PIANO

coniugate con il tutt’altro, il tutt’altro che cristiano. E guardo smarrito –mai avresti pensato che saremmo giunti a tanto – il giovane che si profes-sa difensore della fede cristiana e che ti porta ad ammirare dietro le antedel suo armadio, quasi tesoro gelosamente protetto, una icona di Gesù eaccanto, in connubio dissacrante, il busto di Mussolini che fa bella mostradi sé.

Assisti con angoscia allo stordimento di una Chiesa osannata per paro-le che ripetono modelli e criteri mondani ampiamente abusati e non inve-ce per la sua inguaribile “anormalità”, quella del Vangelo. Anche noi cre-denti piegati nella normalità, nella misura ovvia della difesa di interessi eprivilegi. Una Chiesa osannata, è un esempio, se scende in campo a riven-dicare reciprocità, come è ovvio per i modelli mondani, guardata consospetto qualora rischiasse la sua eccentricità, o, meglio, l’eccentricità chearde nella Parola di Gesù: «Se date a quelli che vi danno, che merito avete?Non fanno questo anche i pagani? Voi date senza esigere nulla in cambio».

Nell’aria dunque il rischio dei profeti di corte. Non solo, ma anche ilrischio di una riduzione di profezia per un ripiegamento all’interno.«Osservate i noviluni, osservate il sabato e poi il povero lo comprate perun paio di sandali»: era il grido del profeta Amos.

Il rischio di un impoverimento della profezia per una tacitazione silen-ziosa delle parole accese dei Vangeli. Ancora le leggiamo, ma si fa per dire,passano incolori, come se Gesù non le avesse mai del tutto pronunciate:«il sabato è per l’uomo» diceva «e non l’uomo per il sabato». Ed era rivo-luzione, grande rivoluzione, oggi sottaciuta.

Forse per questo o anche per questo non accade stupore. Stupore dastropicciare gli occhi, da far dire giustamente a qualcuno: «Ma questi sonofuori di testa». Ci siamo ricondotti alla spiaggia di una spenta normalità,non abbiamo negli occhi il brivido della profezia che spinge al largo, nél’accensione dello sguardo di chi naviga al largo.

Parlo di una coralità e non di testimonianze minoritarie, parlo di unaimmagine che coralmente diamo di Chiesa. Ci segna coralmente la radica-lità del Vangelo, l’“eccentricità”, il “fuori testa”, accusa ampiamente attri-buita ai profeti, segnatamente a Gesù? Addomesticamento della profezia.

Addomesticamento, cioè un “riportare a casa”. Il tentativo già in attoagli inizi. E il pericolo, già allora veniva dall’interno, sorprendentementedai più vicini. In un passo dei Vangeli sinottici, meno ricordato, non so seper disagio o per paura, di Gesù si dice che «i suoi» – la madre e i fratelli,si dirà poco dopo – «sentito questo, uscirono a prenderlo, perché diceva-no: è fuori di sé» (Mc 3,21). Sentito questo, cioè sentito che «non poteva-no neppure prendere cibo». Quel figlio, quel fratello va ricondotto allaragione, dentro ritmi ragionevoli che sono quelli di tutti, dentro gli sche-mi comuni che sono di una condivisa sensatezza. Un figlio da riportare a

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casa, perché «è fuori di sé». Gesù non ritorna, non è lui che è «fuori». «Fuori» sono la madre e i fratelli, loro che stanno fuori e non hanno il

coraggio di entrare nella cerchia dei discepoli che lo stanno ascoltando,affascinati dalla sua eccentricità, proprio da quel suo essere «fuori», fuoridal comune insegnamento di scribi e farisei. Ma soprattutto «fuori» da unamore misurato, lui che non avanza nemmeno tempo per mangiare. Laradicalità è questa, la radicalità dell’amore, lui, Gesù, Vangelo trasparente,icona luminosa sulla terra del Dio Amore.

Ora sappiamo dove sta la profezia che non va addomesticata, il cieloche non va accorciato. Di questo siamo chiamati ad essere testimoni sullaterra, di questo «Vangelo dell’amore» di cui ci ha parlato Benedetto XVInella sua enciclica. La radicalità non delle formule, ma dell’amore, o forsemeglio, dell’eccesso dell’amore, un eccesso che può creare reazioni di cri-tica e di dissenso nella religione appiattita sui modelli dei benpensanti, mapuò anche suscitare stupore e ammirazione nelle donne e negli uomini inricerca di segni nuovi, fuori dall’ovvietà imperante.

Dentro giorni di asfissia e pesantezza le donne e gli uomini del nostrotempo non sono, per chi li conosce, insensibili al fascino dello spreco del-l’amore. Lo spreco è profumo nella casa, lo spreco dell’unguento con cuila donna del Vangelo unge il suo Maestro. La donna ha con sé un vaso dialabastro, lo rompe, è pieno di olio profumato di nardo genuino, di granvalore. Gesto fuori misura, fuori dai calcoli della saggezza umana, il prez-zo poteva essere quello di un salario annuale, trecento giorni di lavorobuttati, secondo l’opinione dei discepoli benpensanti, in un attimo diprofumo. Fu profumo e fu sdegno in quella casa.

«Sono i soliti uomini religiosi» scrive Enzo Bianchi, «presenti in ognitempo e in ogni gruppo o comunità, che all’amore verso una persona pre-feriscono l’amore “in generale”, disciplinato dalla legge e dall’imperativomorale. Razza inestinguibile. Non capiscono mai la creatività dell’amore eal fuoco del cuore preferiscono l’osservanza delle regole. Purtroppo costo-ro saranno presenti anche nella chiesa con la loro abituale noiosità e laloro gelosia» (Evangelo secondo Marco, p. 257).

Nel racconto di Marco c’è una parola emozionante di Gesù, che, possosbagliarmi, può giustificare il perché di questa citazione all’interno di unariflessione sulla radicalità del Vangelo, una radicalità che non va menoma-ta, ma custodita gelosamente. Gesù difende apertamente la donna. Edichiara, dando una forza non comune a queste sue parole: «in verità vidico che dovunque in tutto il mondo sarà annunziato il vangelo, si ricor-derà pure in sua memoria ciò che ella ha fatto» (Mc 14,9). Come se dices-se: lì, in quel gesto, che è spreco dell’amore, c’è il Vangelo, quasi un anti-cipo dello spreco dell’amore sulla croce.

Spesso, quando parliamo della radicalità con cui testimoniare il

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Vangelo, per un inconscio corto circuito, il problema diventa: che cosadire e come dire. La donna del profumo, difesa da Gesù, non dice unaparola che è una, tutto avviene in gesti fatti di silenzio, nello stupore delladismisura. E lì, dice Gesù, c’è un Evangelo. Perché, scrive ChristianBobin, «la verità non è tanto nelle parole, ma negli occhi, nelle mani, nelsilenzio. La verità sono occhi, sono mani che ardono nel silenzio». Comegli occhi e le mani della donna del profumo. Un Evangelo. Se c’è questadismisura c’è il Vangelo nella sua purezza. E c’è il profumo di Cristo, ilprofumo della dismisura della croce. Scrive l’apostolo Paolo ai cristiani diCorinto: «Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo

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in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nelmondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fraquelli che si salvano e fra quelli che si perdono» (2 Cor 2,15).

Una radicalità da consegnare alla vita. In un gesto che è finito, comequello della donna. Il compito dunque è di coniugare l’infinito e il finito.L’infinito non cancella, non deprime, non disprezza il finito, lo ispira. E ilcielo non rifugge dalla terra solo perché segnata di finitudine, stanchezzao peccato. Se da un lato sentiamo come credenti l’impegno ad una testi-monianza sempre più profetica perché non sia vanificata la Parola di Dio,dall’altro, proprio perché il cuore di questa testimonianza è la dismisuradell’amore, non possiamo ritirarci nella presunta cerchia dei “puri”: pre-sunta, dico, perché dovremmo noi per i primi confessare la distanza – avolte ci appare abissale – dal Vangelo.

Tenere alto l’ideale, non abbassarlo mai per mero opportunismo, vola-re alto, non nel senso dell’ambizione, fosse pure quella religiosa, ma nelsenso della dedizione ai sogni, ai sogni che ci mettono in cammino sal-vandoci dalla condizione di spenti sedentari. Non smettere mai dunque didare credito a parole, come quelle di Dio, che mettono in movimentoincontenibile la vita, garantendoci la grazia incomparabile di essere noma-di. Ma nello stesso tempo chinarci come fece Gesù sul limite che ci segnacome umani.

La radicalità evangelica non ha nulla da spartire con il clamore o l’o-stentazione mondana. Può vivere di silenzi e di segretezza, sino all’estremodella non apparenza. Poco ci si è fermati a meditare sulla profezia – ovogliamo negarle questa qualità? – della vita di Gesù a Nazaret. Trent’annie più della sua vita in una apparente insignificanza. Essere radicali nellatestimonianza non significa certo suscitare attenzioni mondane. Anzi pro-fezia e radicalità dimorano se mai nella qualità evangelica della segretezzacustodita nei piccoli gesti quotidiani, che conservano il profumo delVangelo.

Gesù con tutta la sua vita ci ha insegnato anche che l’annuncio delregno va indissolubilmente coniugato con una estrema tenera compassio-ne per gli umani. Non fu della serie dei pastori che navigano davanti algregge additando mete lontane, incuranti della fatica e degli smarrimentidel gregge, senza accorgersi della pecora madre o di quella ferita, facendoil passo sulle pecore più forti, quelle più ambiziose e sicure. Al contrarioha messo in guardia da quelle autorità religiose che, aggiungendo peso apeso, mettono sulle spalle della gente cumuli di carichi che loro, nemme-no con un dito, sanno sfiorare.

La radicalità evangelica si svela, secondo Gesù, nel non spegnere lostoppino dalla fiamma smorta, nel non spezzare arrogantemente la cannaincrinata. Da’ allo stoppino una goccia d’olio, non un’invasione d’olio, lo

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spegneresti. E fascia con amore, senza aggiungere carico, la canna debole,la spezzeresti. Un’arte questa, che, in nome di una falsa radicalità o, ancorpiù, a motivo di uno spento allineamento alla mentalità oggi dominantedel “tutto” e del “tutto subito”, pare cancellata o poco praticata anche inambiti ecclesiali, in documenti che elencano una pletora di adempimenti,quasi fossero tutti connotati dallo stesso valore, senza aver prima ascoltatoproblemi e fatiche delle donne e degli uomini del nostro tempo. Contro lapretesa di nascite senza i nove mesi del grembo, nascite di mostri, Gesù ciha insegnato la pazienza del contadino del Vangelo, che semina e poi siabbandona al sonno, perché sa che a far crescere nella notte e nell’invernoil seme è il fermento dello Spirito che lo abita.

Passi di avvicinamento della terra al cielo con sapienti mediazioni. Maquali passi? E quando chiederli? Alla domanda la risposta non è a tavolinoné oggi è rintracciabile come un prontuario nei documenti. La rispostapuò venire solo da una frequentazione amorevole, appassionata della caro-vana degli umani e dall’invocazione insistente dello Spirito che è all’origi-ne di ogni sapiente discernimento. La vita di Gesù da questo punto divista ha un fascino incancellabile: basterebbe ripercorrere uno ad uno isuoi incredibili incontri. Sorprende la radicalità del messaggio rivolto allafolla, ma anche l’arte inarrivabile di aprire percorsi, e mai uno ugualeall’altro, nel cuore di chi, per grazia, incrociava.

Arte della mediazione, che non è compromesso. È passione per Dio eper gli umani. Passione e accompagnamento. La mediazione vera nasce dauna passione per Dio e per il popolo, è stare di mezzo senza togliersi,anche nei giorni dell’infedeltà. Basterebbe ricordare la storia di un grandemediatore dell’Antico Testamento, Mosè e il suo rifiuto alla proposta diDio, che avrebbe salvato lui e non il popolo. O con il popolo o niente. Luitestardo nel ricordare a Dio la promessa fatta a quel popolo, popolo didura cervice di cui si dichiarava indissolubilmente parte. Neanche a Diosarebbe riuscito di separarlo. Messaggio dimenticato in uomini e donnecosiddetti religiosi che aprono bocca solo a condannare, che sembranocosì lontani da una passione sanguigna per il popolo. Di loro ha dettoPeguy: «perché non hanno forza di essere della natura credono di apparte-nere alla grazia, perché non hanno coraggio temporale credono di esserepenetrati dall’eterno, perché non possono appartenere al mondo che lirifiuta credono di appartenere a Dio». La mediazione nasce da passione.Per Dio e per gli umani. Non in presenza di ostilità e di aggressività avver-ranno passi di avvicinamento. Che anzi accadranno passi di distanziamen-to e allontanamento. Solo chi scorgerà nei tuoi occhi empatia e non ladifesa acritica, non l’arroganza del possesso della verità, potrà dirsi dispo-nibile a mettersi con te in cammino. Verso un oltre della verità e del regnoche ancora non ci appartiene.

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La mediazione, scritta nelle storie quotidiane, non può essere cheumile esercizio di ricerca di soluzioni provvisorie. Né va cancellato questoriconoscimento aperto del limite radicale che accompagna ogni nostrainterrogazione del cielo e della terra, ogni nostra faticata indicazione. Penala sfrontatezza. Esemplare in questo senso la saggezza, la disponibilità, lafiducia con cui ultimamente il cardinale Martini si è confrontato con unricercatore, il prof. Marino su temi di grande rilievo che riguardano la vitaumana. Uno stile di dialogo rispettoso umile sapiente che apre i cuori esuscita disponibilità a mettersi in cammino.

Contrariamente a quanto da alcuni si pensa, le donne e gli uominidella mediazione non sono tra quelli che hanno dimenticato di interroga-re il cielo, ma tra quelli che l’hanno così a lungo e intensamente interro-gato da essersi resi coscienti che sprazzi segreti di cielo e fessure inatteseper lo Spirito sono rintracciabili nelle dimore degli umani. Nella Liturgiapreghiamo: «Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra». Non vuota.Parliamo spesso come se fosse vuota: piena. Ma ce ne rendiamo conto?Pietro, racconta il libro degli Atti, entra nella casa di Cornelio, il centu-rione pagano, entra nella casa dei non circoncisi, e «si rende conto». Sirende conto che in quella casa già è effuso lo Spirito: «Sto rendendomiconto», dice, «che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pra-tica la giustizia è a lui accetto». «Sto rendendomi conto»: la parola suonacome un invito a guardare più profondamente la realtà, a guardarla senzapregiudizi. «Hanno ricevuto», dice, «lo Spirito al pari di noi». Al pari! Haguardato in faccia la realtà e si è reso conto. Ma ci si rende conto ad unacondizione: che si entri nella casa dell’altro. Se non vi entriamo, o se vientriamo non per ascoltare, ma solo per predicare, saremo lontani dalriconoscere gli sconfinamenti dello Spirito. Quali passaggi concreti dal-l’infinito al quotidiano potremo mai proporre se non frequentiamo le casedegli uomini, se in esse non riconosciamo gli sconfinamenti dello Spirito?Interrogare il cielo, interrogare la terra.

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L’infinitoDOSSIER

nel quotidiano

Giacomo Canobbioè docente di Teologia

sistematica presso il

Seminario di Brescia e la

Facoltà Teologica

dell’Italia Settentrionale. È

membro del Comitato di

direzione di Dialoghi. Tra

le sue più recenti

pubblicazioni: Dio può

soffrire? Morcelliana,

Brescia 2005.

La speranza

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Quale è l’atteggiamento dei cristiani dinnanzi alla storia, aisuoi eventi e ai suoi drammi? Occorre conservare laconsapevolezza del limite di ogni azione trasformatrice,insieme alla fiducia di una trasformazione totale: unequilibrio difficile ma intenso, che anima la testimonianza edevita le secche del cinismo o dell’utopia.

Giacomo CanobbioV

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che non delude

erso dove cammina la storia? Osservando a volo d’uccello lavicenda umana, si possono individuare due risposte generaliall’interrogativo, ambedue presenti anche nelle valutazioni vul-gate del progresso o della conservazione: da una parte, si vede lastoria orientata verso il compimento, dall’altra, la si vedeincamminata verso la catastrofe. Nel primo caso, si procederitenendo che al principio stava il limite, l’abbozzo, che il pro-cesso storico avrebbe gradualmente superato e sviluppato fino agiungere alla perfezione, che sta sempre davanti; nel secondo,pensando che al principio stava la perfezione, nei confrontidella quale si mantiene una struggente nostalgia.

La lettura allusivamente richiamata non corrisponde amomenti particolari del pensiero umano: anche nell’antichità, enon solo nell’epoca moderna, si possono riscontrare visioni uto-pistiche, così come nell’epoca moderna (e contemporanea) sipossono trovare visioni che guardano al futuro come a un’in-combente catastrofe. L’una e l’altra visione dicono che non sipuò comprendere in forma immediata il corso della storia: iparametri che si immaginano corrispondere ai “dati di fatto” silimitano, in realtà, a inglobare questi in una visione precostitui-ta. In altri termini, la storia non dice da se stessa il senso del suocorso. E ciò sebbene, a partire dall’epoca soprattutto moderna,si sia identificata la storia con progresso. In verità, interpretare ilprocesso storico come progresso suppone un’opzione “volonta-ristica”, che coincide con la dichiarazione, più o meno esplicita,

che il limite inscritto nella storia effettiva deve essere valicato perchéinsopportabile: l’uomo non accetta di restare rinchiuso nella fattualità eprefigura l’uscita da essa immaginando che il futuro dovrà essere diverso, equindi il presente è sicuramente migliore del passato.

Quanto il progresso tecnico (questo è indiscutibile) abbia inciso nelmodellare tale visione nell’epoca moderna non sarebbe difficile da mostra-re. Il dinamismo allusivamente descritto non è però figlio del progressotecnico: nasce dall’interno degli esseri umani, soprattutto quando questisono (stati) influenzati dal pensiero ebraico-cristiano. Questo, infatti, haimmesso nel pensiero occidentale una rottura rispetto alla visione grecaconnotata prevalentemente dal ritorno all’origine. Affermando ciò non sivuol perpetuare la concezione divulgata negli anni ’60-’70 del secolo scor-so, secondo la quale pensiero biblico e pensiero greco sarebbero in con-trapposizione (il primo storico, il secondo ciclico); è ormai assodato,infatti, che il pensiero biblico non è uniforme e anche in esso si riscontrauna visione ciclica. Si vuole piuttosto sottolineare che nella concezionebiblica Dio si propone come colui che “fa uscire”, toglie cioè dalla fattua-lità e fa volgere lo sguardo al futuro. Non è un caso che nei due ultimisecoli le utopie siano state elaborate da pensatori di matrice ebraico-cri-stiana, nella quale il dinamismo messianico o comunque escatologicocostituisce la trama fondamentale. E non importa se qua e là il futuro chesi profila assume i contorni dell’inizio. Di fatto il futuro è la nuova crea-zione di Dio che rompe il limite nel quale l’uomo si è rinchiuso con le suescelte. In tal senso il garante del futuro di pienezza non è né il passatoricordato né il presente, bensì Dio. Si potrebbe perfino dire che le asser-zioni messianiche ed escatologiche che costellano la Scrittura sono asser-zioni teologiche: confessano la potenza di Dio capace di aprire orizzonti disperanza anche là dove sembrerebbe non esserci ormai via di scampo.

Qui si potrebbe vedere una differenza tra la visione greca e quella bibli-ca: se nella prima la preoccupazione fondamentale era per l’arché cioè peril principio della realtà, nella seconda – che ovviamente non elude la que-stione del principio – era per chi garantisca che la realtà non precipiti nelnulla che la minaccia da ogni lato. L’esperienza di Israele è che l’esserci e ilpersistere della realtà, originata da Dio, è il segno che il futuro, per quan-to mediante l’attraversamento del giudizio, non sarà catastrofico, bensìliberante.

Il modo in cui Dio garantisca tale futuro di salvezza non è però datoconoscerlo in forma precisa. Al riguardo si dovrebbe tenere presente che latradizione ebraica precedente a Gesù non ha conosciuto solo le varie formedi messianismo legate alle figure istituzionali di Israele, bensì anche “unmessianismo senza messia”, libero cioè da prefigurazioni e quindi privo dipossibili verifiche storiche, le quali peraltro portano a negare la presenza

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stessa del messia quando questo non compare seguendo la prefigurazione.Quanto detto trova un riscontro evidente in Gesù, che viene rifiutato

perché non corrisponde all’attesa messianica e che, ciò nonostante, lacomunità cristiana proclama Messia: la generazione “perversa e malvagia”cerca il segno, ma nessun segno le sarà dato se non quello che essa non èin grado di accogliere (cfr. Mt 12,38-42). Non c’è alcun segno che garan-tisca l’avvento del messia. Come non c’è nessun segno che costringa avedere l’azione di Dio nella storia. La prospettiva è piuttosto inversa:quando si è dato credito a Dio, allora si possono anche cogliere le traccedella sua presenza. Non è un caso che nel Vaticano II l’espressione “segnidei tempi” (cfr. GS 4 e 11) non sia intesa in senso necessariamente positi-vo: i “segni del tempo” sono segni da scrutare, ma chi li scruta è la Chiesa,cioè il gruppo umano che ha già – per dono, ovviamente – i parametri percogliere cosa mediante gli avvenimenti Dio voglia far percepire, qualestrada voglia indicare, quali atteggiamenti voglia suggerire. E i parametrisono quelli della vicenda di Gesù, notoriamente ambigua, che non per-mette nessun ingenuo ottimismo, sul modello degli “incarnazionisti” dimetà ’900, i quali, echeggiando la teologia liberale di fine ’800, rischiava-no di confondere il progresso storico con l’avvento del Regno di Dio.

Si deve concludere che resta solo un vago orientamento verso il futurodel quale non si potrebbe delineare alcuna figura? Non si può sfuggire alla

domanda, ma non si può neppure procedere con la sicurez-za di chi proclama un esito di compimento per la vicendaumana sull’orizzonte storico. Certo, se si presta attenzionealla risurrezione di Gesù, si deve affermare che il “destino”degli umani è la vittoria sulla morte. Ma ciò non coincidecon l’affermare che il futuro terreno che ci attende sarà sicu-ramente migliore del presente, che l’umanità conosceràun’era di pace e di armonia, che le ingiustizie e le povertàsaranno vinte, che vedremo realizzata la visione di Is 11.

Nella concezione cristiana resta, intrigante, la constata-zione che Gesù, il Messia costituito da Dio, non ha tolto dalmondo il male che si immaginava avrebbe dovuto far scom-parire, e con questo male l’umanità deve continuare a fare i

conti, e con essa anche coloro che riconoscono attuato il messianismo, iquali continuano a invocare «liberaci dal male (maligno)», proprio fon-dandosi sulla convinzione che Gesù non solo è Messia, ma pure Signore.

Che dire allora di fronte alla storia? Cosa hanno i cristiani da annun-ciare senza apparire alienati e alienanti per il fatto che proiettano sull’oriz-zonte dell’eschaton le speranze dell’umanità? In che modo possonomostrare che un compimento della storia non è pura utopia consolatoria?

La risposta a questi interrogativi va costruita – ancora una volta –

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Se Gesù compie “segni”è per indicare quale sia

la volontà di Dio neiconfronti di un’umanità

soggiogata dal male.Ma tali “segni” mettonoin evidenza che il male

che permane è più diquello che viene tolto.

osservando la vicenda di Gesù: è questa, in fondo, che può costituire unparametro di lettura “nuovo” rispetto a quelli proposti nel corso dei seco-li. Questa offre, infatti, alcuni elementi per poter proporre una visionenon ingenua o mistica ai contemporanei. In essa si destituisce di valoreogni ingenua attesa di una trasformazione “magica” (nel presente o nelfuturo) della realtà: se Gesù compie “segni” è per indicare quale sia lavolontà di Dio nei confronti di un’umanità soggiogata dal male. Ma tali“segni” mettono in evidenza che il male che permane è più di quello cheviene tolto. E sono segni simili che i discepoli di Gesù sono mandati ariproporre, come ci attestano i discorsi di missione dei Sinottici (cfr. Mt10,8; Mc 16,17-18). Segni della volontà di Dio e non trasformazioneradicale dell’umanità. Questa trasformazione va lasciata ancora una voltaa Dio e da lui va invocata continuamente.

Del resto i discepoli di Gesù non possono che limitarsi a porre segni:

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l’utopia di un rinnovamento storico totale dell’umanità è destituita diogni razionalità. Ed è la teologia a fungere da critica radicale di ogni uto-pia per il fatto che riconduce gli umani alla loro condizione e sfata ognipretesa di onnipotenza. In tal senso è demistificatrice. Ma proprio perquesto rende, nello stesso tempo, più necessaria e più difficile la speranza:più necessaria perché, a fronte dell’impossibilità di attendere e di verifica-re l’avvento dell’umanità nuova, stimola a non cedere alla sensazione difallimento; più difficile perché la restituisce alla sua condizione di “virtù”,cioè di determinazione libera, che, basandosi solo sulla fiducia in Dio, osavedere nei piccoli segni di trasformazione il preludio dell’esito definitivo,lasciandolo però a Dio stesso.

Non ci si può nascondere che la domanda dei discepoli al Risorto, rife-rita in At 1,6, circa il momento in cui si sarebbe ricostituito il regno di

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Israele, resta la domanda perenne dei credenti di fronte al permanere diuna storia di male. E i credenti sono maggiormente sfidati da questarispetto a chi non mette in conto l’azione di Dio: ai credenti non è possi-bile diventare né scettici né utopisti. Non scettici, perché sanno che Dio,come ha mostrato nel risuscitamento di Gesù, vuol condurre l’umanitàalla pienezza di vita che essa attende; non utopisti perché sono consapevo-li di dover lasciare a Dio i tempi e i momenti. Ai discepoli di Gesù resta ilcompito di continuare a porre segni che non dimostrano, ma fanno intra-vedere l’azione di Dio. Questa permane misteriosa, e per poterla cogliereoccorrono occhi che non a tutti è dato avere. Chi ha avuto in dono taliocchi vede in rappresentanza anche di chi non li ha avuti; e vede l’azionedi Dio ovunque nasca germinalmente un’umanità buona, vera e felice.Chi ha conosciuto il Dio di Gesù non costringe l’azione di Lui entro ilproprio ambito di appartenenza; resta invece aperto all’universale, poichésa che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini (cfr. 1Tm 2,4) ed è capacedi far sperimentare a tutti, al di là della loro consapevolezza, segni dellasua volontà di portare tutti a pienezza di vita.

Può sembrare paradossale, ma il cristiano sa stare nella consapevolezzadel limite di ogni azione trasformatrice e nella fiducia di una trasforma-zione totale. Limite e fiducia rimandano a Dio. E tuttavia non nella formadi demissione di responsabilità, bensì nella forma di assunzione dellamedesima responsabilità: chi conosce la volontà di Dio di sconfiggere ilmale è immesso nella medesima lotta contro il male, pur sapendo chequesto è più forte dell’umanità, ma anche sapendo che non è più forte diDio. Il rapporto con Dio, in tal senso, diventa la condizione per non darsiper vinti di fronte al male in nessuna circostanza: c’è sem-pre una nuova possibilità di vittoria anche quando sembre-rebbe di essere stati sconfitti.

Volontaristica affermazione di sé per poter non soc-combere di fronte a un male pervasivo? Potrebbe ancheessere. Ma, se così fosse, ci si dovrebbe domandare perchériemerga continuamente l’esigenza di tale affermazione disé, anche nel momento attuale che, a parere di alcuni,sarebbe connotato da una forma di delusa rassegnazione.Se l’umanità non riesce a dichiararsi sconfitta definitiva-mente e cerca in vari modi di uscire dalla minaccia delmale, ci sarà pure una ragione. Questa sembra da vedersinella fiducia fondamentale, forse ancora atematica, nella possibilità di unavittoria, che non essendo nelle mani delle persone umane, continuamentesconfitte, non può che essere affidata a qualcuno più forte del male. Equesto non può essere semplicemente l’umanità in generale: la somma deilimiti e delle sconfitte non fa una vittoria. Neppure la natura, essa stessa

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Il rapporto con Diodiventa la condizioneper non darsi per vinti difronte al male innessuna circostanza: c’èsempre una nuovapossibilità di vittoriaanche quandosembrerebbe di esserestati sconfitti.

sottoposta alla caducità. Pertanto non può che essere Colui che mantienein vita la realtà e mostra così di essere più forte della morte che tuttominaccia. Chi si apre al rapporto con Dio scopre che l’umanità non saràsconfitta definitivamente e custodisce tale fiducia per tutti, e la annunciafattivamente.

Il segno per eccellenza di questa fiducia è appunto l’annuncio, cheassume due modalità, quella della comunicazione “verbale” e quella dell’a-zione. La prima rimanda all’atto del risuscitamento di Gesù: se Dio havinto anche il rifiuto di sé attuato dagli umani, allora vuol dire che è ingrado di vincere anche chi vorrebbe bloccare la sua volontà di dare vita; laseconda esprime la forza che pervade quanti sono stati raggiunti e si sonolasciati pervadere da quell’annuncio. Tale forza è il segno che le potenzemortifere non sono in grado di soggiogare chi è sorretto dallo Spirito.

Gli Atti degli Apostoli illustrano ampiamente quanto detto: gli annun-ciatori non solo si esprimono con parresia, ma vivono la persecuzionesicuri di non restare sconfitti, neppure quando sono in catene o condottia morte a causa della speranza che sono inviati a diffondere. Nella loro esi-stenza si evidenzia una “resistenza” al male che gli oppositori non avrebbe-ro immaginato.

Ed è questo che si ripropone pure nella storia successiva: nel gruppodella “Rosa bianca”, in Oscar Romero, nei martiri del XX secolo, noti onascosti, è sempre la medesima forza che è all’opera. Ed è la forza degli

“sconfitti” che fanno sperare l’umanità. Non c’è paradossopiù evidente nella storia dell’umanità, esplicitato da Gesùnelle sue dichiarazioni sugli ultimi che diventano primi onelle beatitudini proclamate ai poveri, agli afflitti, ai miseri-cordiosi... I “perdenti” sono la traccia di una speranza chenon delude. George Bernanos lo aveva capito, quando inpieno conflitto mondiale scriveva che i poveri custodisconola speranza come le antiche operaie di Bruges custodisconoil segreto del merletto che le macchine non riusciranno maiad imitare.

Apologia della debolezza che farebbe nuovamente insor-gere le invettive di Nietzsche? O non piuttosto riconduzio-ne a una verità che non permette di farsi né schiacciare dal

male né illudere dai successi della tecnica? Ovvio che non si possa demo-nizzare il benessere che l’umanità raggiunge grazie agli sviluppi dellascienza e della tecnica, come non si debba che gioire dei progressi nei rap-porti pacifici tra le nazioni, nella lotta alla povertà, nella vittoria sullemalattie. Non si può tuttavia negare che c’è una debolezza più forte diogni potenza: è quella della testimonianza fedele, grazie alla quale, propriochi sembrerebbe illuso, perdente, sconfitto, riesce a instillare speranza e

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Non si può negareche c’è una debolezza

più forte di ognipotenza: è quella dellatestimonianza fedele,

grazie alla quale, propriochi sembrerebbe illuso,

perdente, sconfitto,riesce a instillare

speranza e smuovere lecoscienze.

smuovere le coscienze. Si è soliti citare l’espressione di Tertulliano: «il san-gue dei martiri è seme di cristiani». Si trattava di una notazione fenome-nologica, che ha però valore programmatico: la fedeltà a un compito rice-vuto, quello di confessare che Dio è più forte della morte e delle morti, havalore performativo. E non tanto nei confronti della storia in generale o disingoli avvenimenti; bensì nei confronti delle persone che da quellafedeltà imparano a resistere al male, soprattutto a quello che assume ilvolto della demissione o della prepotenza.

In ultima analisi, i cristiani non hanno una risposta definitiva alla que-stione sull’orientamento terreno della storia. Non sanno se il futuro riser-verà progresso o decadimento, se ci sarà pace, fraternità, giustizia per tutti.Ciò nonostante, lavorano per questo scopo, e lo fanno per porre segni diquanto Dio sta disponendo e che troverà attuazione definitiva solo quan-do e come Egli vorrà. Lo stile con il quale operano è lo stile di Gesù, chenasce dalla fiducia, la quale è la vera resistenza al male, e dalla quale attin-gono forza per aiutare altri a non farsi vincere dal male. Lo sguardo fidu-cioso all’eschaton, lungi dal distogliere dall’attenzione alla vicenda storica,immette in essa senza illusioni e per questo con maggiore determinazione.

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Economia e speranza, termini apparentemente contradditto-ri, ci invitano ad immaginare le vie concrete per un futuromigliore dove questi termini non solo non si oppongano ma,anzi, lavorino insieme per superare le possibili sfide e ostacoliche possano trovare, in particolare modo nella società contem-poranea.

Solidarietà, carità, politica, debito estero e aiuti pubbliciinternazionali sono alcuni dei concetti chiave che analizzeremoin seguito, sempre dal punto di vista della speranza, per capire ledifficoltà con cui la comunità internazionale ha a che fare quan-do si misura con la storia e la quotidianità nella ricerca dellacostruzione di un futuro migliore ma, soprattutto, per capire lagrande prova che l’economia rappresenta per la speranza.

La speranza alla prova dell’economiaIn un mondo post-moderno troppo abituato a parlare e pen-

sare economicamente, è più che mai necessario ricordare chel’economia (dal greco oikos, “casa” e nomos, “norma”, cioè“amministrazione della casa”) non può, anzi non deve, governa-re il mondo. L’economia intesa come la scienza sociale che stu-dia la produzione, la distribuzione, lo scambio e il consumo dibeni e servizi, e che analizza il modo in cui individui, gruppi,imprese e governi cercano di raggiungere in modo efficace l’o-biettivo economico che si sono prefissati, è parziale nelle sueconclusioni e ragionamenti. Pertanto, lasciare il destino del

Antonio Raimondiè membro della

Rappresentanza Unitaria

delle Ong italiane e

docente di Cooperazione

Internazionale presso la

Facoltà di Scienze

Politiche dell’Università di

Pavia. Dirige la collana

“Cittadini del mondo”

presso la casa editrice

SEI. Tra le principali

pubblicazioni:

La Globalizzazione dal

volto umano, con Carola

Carazzone, SEI Editrice,

Torino 2003;

Da un mondo in-fame ad

un mondo possibile, SEI

Editrice, Torino 2004.

Politica e globalizzazione:la speranza al futuro

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La solidarietà è consapevolezza che non esiste un nostrofuturo senza il futuro degli altri. A livello internazionale lacancellazione del debito estero dei paesi più poveri può essereun forte segnale che riaccende la speranza. E può essere unavia concreta per far prevalere la politica, e quindi il benedella polis mondiale, sulle regole della finanza.

Antonio Raimondi

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mondo nelle sue mani non è possibile, né consigliabile. Il mondo deve essere governato dalla Politica, quella con la P maiusco-

la, quella che vuole organizzare la Polis, cioè la città dove gli esseri umanivivono e convivono. La politica è l’arte e la scienza di governare gli uomi-ni organizzati in uno Stato, è l’arte della sintesi degli interessi contrappo-sti dei diversi gruppi e individui, ma anche e soprattutto la capacità diprevedere il futuro, un futuro che aspiri alla convivenza pacifica.

La politica così intesa deve, contemporaneamente, essere governatadalla Caritas definita come l’amore per l’uomo e per la res publica chesupera il concetto generale di giustizia poiché implica la capacità di per-donare. La Chiesa, infatti, attraverso Pio XI non ha esitato nel definire l’a-zione politica come una forma eminente di carità. Giovanni Paolo II,nella Christifidelis laici ha definito la Politica come una delle forme piùalte della Carità.

Dunque, la carità è da intendersi come un profondo amore verso ilprossimo, che oltrepassa la naturale simpatia e si sforza per ricreare semprepiù armonia e concordia tra gli esseri umani e i popoli.

Seguendo il nostro ragionamento che, partendo del concetto di politi-ca, ci invita a riflettere anche sulla carità e, in particolar modo, sulla poli-tica come forma di carità, possiamo affermare che è evidente di per sé chela nozione della politica richiami a un servizio per il bene pubblico. Ilbene pubblico, anche detto bene comune, nasce dal pensiero politico diPlatone e Aristotele per definire sia l’origine sia la finalità della politica.Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele (che credeva l’uomonaturalmente predisposto alla socializzazione), successivamente autoricome Niccolò Machiavelli, Thomas Hobbes e John Locke riscrivono lafinalità dell’attività politica e si concentrano sui meccanismi di potere econcetti come quello del contratto. Per questi autori l’uomo in stato dinatura (lo stato primordiale in cui si trovano gli uomini, ancora privi diogni forma di istituzione), tende all’anarchia, per cui lo stato naturale del-l’uomo è la “guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes),uno stato in cui “ogni uomo è lupo per gli altri uomini” (homo hominilupus). In questo stato naturale, ogni uomo è in lotta perenne con gli altriuomini, a nessuno è garantita l’integrità fisica.

Per ovviare a questo stato di lotta perenne gli individui si vedonocostretti a stringere un patto, a stipulare un Contratto Sociale che dà vitaallo Stato, un’istituzione che può garantire loro il diritto fondamentalealla vita. Con questo patto, gli uomini si dicono disposti a rinunciare allaloro libertà individuale in cambio della garanzia dell’integrità fisica. Lamolteplice volontà degli individui viene ceduta all’unica volontà delloStato. Dunque, l’uomo sacrifica una parte della sua libertà in cambio dellapropria sicurezza, della costituzione dello Stato.

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Questa concezione del bene comune che deriva da una certa visionedell’uomo non è chiaramente l’unica, né quella giusta. In questo senso, èfondamentale ricordare la definizione del Concilio Vaticano II, secondo laquale il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni sociali che consen-tono e favoriscono nei singoli membri, nelle famiglie e nelle associazioni ilconseguimento più spedito e più pieno della loro perfezione».

Torniamo indietro per un attimo. La politica è carità, la politica è unservizio per il bene comune, la politica deve essere anzitutto speranza etutte le scelte politiche devono essere orientate a cercare sempre l’equili-brio alla luce della speranza.

La speranza deriva dal fatto che dobbiamo essere consapevoli che lapovertà non è un incidente casuale della storia, ma conseguenza di precisimeccanismi che l’hanno creata: gli stessi che ci permetteranno di combat-terla. La speranza, nel nostro caso, è che si possa capire che la solidarietà,dal latino solidum “un unico pezzo”, “una sola cosa”, è consapevolezza ecoscienza che non esiste un nostro futuro senza il futuro degli altri.Pertanto, la speranza in senso sociale e non teologico, nasce proprio dallacomprensione del significato della parola solidarietà, parola che con l’e-volversi della “questione sociale” si è anche essa evoluta, passando dallanatura intrinsecamente sociale delle persone, alla dimensione sociale della

proprietà privata, alla solidarietà come valore in sé, comecoscienza e virtù morale, necessaria per dare dimensioneumana all’interdipendenza tra gli uomini e le nazioni.

Siamo partiti riconoscendo la logica contrarietà che esi-ste tra termini quali economia e speranza. Il nostro ragiona-mento ci ha portato al punto preciso nel quale economia esperanza si incontrano per diventare una sola cosa.L’economia, come la politica, deve essere pensata come unservizio, come uno strumento al servizio del uomo e dell’u-manità senza renderli suoi schiavi, ma mettendosi a lorodisposizione. In quanto strumento, in quanto servizio, nonpuò, come detto all’inizio, governare il mondo.

Dalla teoria alla praticaDopo una breve introduzione nella quale si è cercato di chiarire il

significato di concetti chiave come carità, solidarietà, politica, economia esperanza e, soprattutto, la loro interrelazione, passiamo al concreto, allaparte pratica del nostro ragionamento.

Abbiamo parlato di speranza, l’abbiamo definita in senso sociale legan-dola al significato di un’altra parola fondamentale: la solidarietà.L’abbiamo anche legata a concetti quali economia e politica. Ma come tra-

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La politica è carità, lapolitica è un servizio per

il bene comune, lapolitica deve essereanzitutto speranza e

tutte le scelte politichedevono essere orientate

a cercare semprel’equilibrio alla luce della

speranza.

durre in qualcosa di concreto il termine speranza? Come concretizzare illegame tra speranza e solidarietà? Come renderla un atto concreto?Pensiamo, allora, alla cancellazione del debito estero dei paesi più poveri epensiamolo come quel gesto di realismo che cerchiamo.

Della riduzione del debito estero che i paesi più poveri del mondohanno nei confronti dei paesi più ricchi si parla da tempo. Nel rapportofra Nord e Sud il debito è sempre esistito. Ci sono state campagne per sen-sibilizzare l’opinione pubblica internazionale e copiose raccolte di firme.Prima ancora però nell’anno 1986, in occasione dell’anniversario dellafondazione dell’Onu, Papa Giovanni Paolo II, in una allocuzione tenutaall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, richiamò le nazioni più ric-che alle proprie responsabilità sul problema specifico del debito estero. Aquesto discorso fece seguito, nel dicembre dello stesso anno, un docu-mento della Pontificia Commissione “Iustitia et Pax” che trattando piùestesamente la medesima questione, sottolineò l’urgenza di una soluzioneglobale del problema con la partecipazione di tutti e nel reciproco rispet-to di ciascuno.

Dieci anni dopo il discorso di Papa Giovanni Paolo II, nel 1996 laBanca Mondiale e il Fondo Monetario lanciano l’iniziativa sul Debito deiPaesi Fortemente Indebitati (HIPC – Heavily Indebted Poor Countries):un insieme di misure volte a rendere “sostenibile” il debito estero di 41paesi tra i più poveri del mondo. Attualmente, i paesi eleggibili al-

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l’Iniziativa HIPC sono 38 (sui 41 originari), di cui 32 dell’Africa sub-sahariana, 4 dell’America Latina e 2 dell’Asia. Una iniziativa troppo lentae poco efficace per risolvere la questione del debito, considerando che lacancellazione del debito estero è condizione per una più efficace lotta allapovertà.

In questo senso, sempre Papa Giovanni Paolo II in occasione del«Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace» (1998),rifacendosi al «pesante fardello del debito estero», ha chiestoal mondo intero di pensare che «la questione del debito faparte di un problema più vasto: quello del persistere dellapovertà, talvolta anche estrema, e dell’emergere di nuovedisuguaglianze che accompagnano il processo di globalizza-zione».

Per poter pensare e attuare la cancellazione del debitosarà necessario affrontare la questione del debito estero deiPaesi in via di sviluppo da un punto di vista diverso, chepermetta la ricerca di soluzioni a problemi economici; solu-zioni realizzabili non solo “tecnicamente”, ma anche e

soprattutto sul piano etico, cioè attraverso un approccio etico e cristianodel problema economico; attraverso un’ottica della solidarietà e della spe-

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La cancellazionedel debito estero

dei paesi più poveriva vista come la grande

occasione per farprevalere la politic

e quindi il bene dellapolis mondiale

sulle regole tassativedella finanza.

ranza. In questa ottica, la cancellazione del debito estero dei paesi piùpoveri va vista come la grande occasione per far prevalere la politica equindi il bene della polis mondiale sulle regole tassative (ma a volteprofondamente ingiuste) della finanza.

In questo senso anche l’aiuto internazionale deve essere inteso noncome elemosina, ma come giustizia, ovvero, un riequilibrio delle risorse edei beni che vengono prodotti. Così come all’interno di uno Stato esiste lafiscalità per sostenere i più svantaggiati e distribuire automaticamente lericchezze, gli aiuti pubblici allo sviluppo, anche se pochi e certamente nonunica soluzione all’enorme problema della disparità, sono il primo inputper sostenere i paesi più poveri e avviare il loro processo di sviluppo, ilcosìddetto auto-sviluppo.

Con queste linee ho inteso fornire ai lettori un punto di partenza perla riflessione, non certo esaustivo, in quanto il problema è molto comples-so. Se non ci sono dubbi sulla prospettiva di giustizia e carità dell’iniziati-va della cancellazione del debito, più difficile e problematico sembra esse-re il modo per concretizzare questa iniziativa e far sì che si traduca effetti-vamente in favore delle popolazioni più svantaggiate e vulnerabili.

Detto ciò, non dobbiamo dimenticare che un mondo migliore è possi-bile se ciascuno di noi riesce a fare la sua parte perché è da noi, da ciascu-no di noi che dipende costruire un futuro migliore.

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Dietro i numeri delle statistiche sull’occupazione e sul lavorostanno delle persone e delle famiglie con i loro bisogni, esigen-ze, paure, speranze. La constatazione è ovvia fino a un certopunto. Sempre più in economia i processi fanno premio suisoggetti, questi nella migliore delle ipotesi restano sullo sfondo.Ma i processi senza soggetto rischiano di diventare processisenza etica. Mai come al presente occorre mettere all’ordine delgiorno la rivisitazione delle basi morali, culturali, politiche,sociali e ovviamente economiche della “questione lavoro”,ponendola a fondamento di una “buona società in cui vivere”.

È agevole constatare che tra lavoro (che non c’è; che peralcuni è troppo; che è aleatorio; che si perde) ed esperienze divita dei diversi soggetti si stanno producendo fratture preoccu-panti, quasi di tipo ontologico. Per molte famiglie il lavoro nonè tale da garantire un’esistenza dignitosa. Ciò fa diminuire l’in-tegrazione sociale nel mentre si sviluppano fenomeni di frantu-mazione e isolamento. Come già evidenziava Von Hayek, all’i-nizio degli anni sessanta, il lavoro a rischio genera anche una«perdita o razionamento di libertà». Chi non ha più il lavoro oteme di perderlo soffre sotto il profilo sociopsicologico e la sof-ferenza si ricollega non soltanto alla perdita di reddito, ma piut-tosto alla perdita di status, di capacità di fare, di apprendere. Èdimostrato che il sussidio di disoccupazione non sostituisce ilreddito da lavoro. La disoccupazione indebolisce i legami socia-li e genera comportamenti opportunistici. Le zone ad alta

Lorenzo Caselliè docente di Etica

economica e

responsabilità sociale

delle imprese

all’Università di Genova.

È stato presidente

nazionale del Meic dal

1996 al 2002.

È autore di numerose

pubblicazioni in tema di

Teoria dell’impresa e

dell’organizzazione;

rapporti tra etica ed

economia; economia

sociale. Dirige la rivista

on-line ImpresaProgetto

(www.impresaprogetto.it)

Per un’economia al servizio dell’uomo

Flessibilità e precarietà del lavoro sono luoghi in cui si giocala partita tra speranza e disperazione. Occorre maturare unamentalità per cui il lavoro non viene dopo lo sviluppo, ma necostituisce un elemento coessenziale al pari di altri fattoriquali l’innovazione, la qualità, la creatività. Soprattuttooccorre fare spazio ad una visione etica e non puramentecontabile dell’economia.

Lorenzo Caselli

disoccupazione strutturale sono sovente zone ad alta criminalità.Ma non basta un lavoro purchessia. Occorre un lavoro decente capa-

ce da un lato di valorizzare le capacità e le potenzialità di ciascuno, e dal-l’altro di fornire le condizioni per un affidabile progetto di vita. Flessibilitàè oggi una parola di moda, ma carica di grande ambiguità. In particolarenon è uguale per tutti. Per i soggetti forti, con elevate dotazioni di risor-se, può essere occasione di crescita, di arricchimento attraverso la diversitàdelle esperienze. Per i soggetti deboli la flessibilità rischia di essere unacondanna. Dietro ad essa stanno forme di vera e propria precarietà: lavo-ro a termine senza sapere cosa succederà dopo, part-time non scelto masubìto senza possibilità di sviluppo professionale. Tutto ciò è fonte di disa-gio, di stress, di ipercompetizione. Per i giovani programmare il futuro èsempre più problematico. Le coppie procrastinano il matrimonio e lanascita del primo figlio. Per molte donne le garanzie e le sicurezze, tantoin entrata quanto in uscita dal mercato del lavoro, non sono migliorate dimolto. Nel contempo aumentano le disuguaglianze e le discriminazioni.Sono colpiti i più deboli, i meno dotati, i meno capaci di iniziativa per-sonale. Tra non lavoro ed esclusione i confini diventano progressivamen-te più labili. Il lavoro remunerato (anche stabile) non sempre è garanziacontro l’indigenza. Infine, dal lavoro non scaturiscono automaticamentesolidarietà e socialità. Emergono in non pochi casi dinamiche di contrap-posizione e chiusure corporative.

In che modi e in che termini affrontare questi problemi? I margini dimanovra sono oggettivamente modesti. Tra Italia ed Europa vi è un diffe-renziale negativo che pesa e riduce considerevolmente le risorse (non sol-tanto finanziarie) disponibili e spendibili sulla strada dello sviluppo. Inaltre parole, l’Italia è costretta a fare i conti con una divaricazione semprepiù marcata tra la raggiunta omogeneità monetaria (adesione al sistemaeuro) e la possibilità di sostenerla sul piano dell’economia reale, dellastruttura e organizzazione del mercato del lavoro, dei fattori di competi-tività del sistema produttivo. Siamo in presenza di una circolarità viziosache lega quantità e qualità dell’occupazione; tasso di crescita del Pil e pro-duttività dei fattori; dimensione delle imprese, specializzazione produtti-va; partecipazione al commercio internazionale e processi di internazio-nalizzazione in entrata e in uscita; investimenti in conoscenza, ricerca, for-mazione e innovazione; fiscalità ed efficienza ed efficacia del settore pub-blico; competitività e rendite più o meno parassitarie. Nelle graduatorieeuropee ci troviamo sistematicamente nella parte bassa della classifica,preceduti abbondantemente da Francia, Germania, Gran Bretagna eanche, in molti casi, dalla Spagna.

Chiediamoci come il lavoro può diventare perno di una convivenzasolidale tra persone che operano per accrescere le risorse disponibili nella

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prospettiva di una loro più equa distribuzione. In quest’ottica il lavoronon è fine a se stesso, ma diventa momento di un percorso dotato di signi-ficati più ampi e più ricchi, affidato a una realizzazione antropologica nellaquale coesistono benessere materiale e ricerca di senso. Ne discendono dueimplicazioni ben precise.

La prima. Sviluppo e lavoro richiedono di essere assunti in terminicontestuali. Il lavoro non viene “dopo” lo sviluppo, come portato o con-seguenza dello stesso. Al contrario, ne costituisce un elemento coessenzia-le al pari di altri fattori quali l’innovazione, la qualità, la creatività che pro-prio nelle persone trovano il loro radicamento e la possibilità di pienaesplicazione. Il gap tra dinamiche produttive ed esigenze quantitative equalitative del lavoro richiede di essere ricomposto nell’ambito di una con-cezione allargata di sviluppo, nella quale la valorizzazione delle risorseumane non è un costo da minimizzare, ma al contrario una grande oppor-tunità, sia per aumentare la qualificazione e la competitività dell’interosistema-paese, sia per ampliare la gamma di beni e servizi ad alto valoreaggiunto. Con altre parole potremmo dire che per stare sulla scena mon-diale il nostro Paese non deve costare di meno (ci saranno sempre realtà concosti inferiori), ma al contrario valere di più.

La seconda. Va sottolineato con forza che gli obiettivi sopra richiama-ti non possono essere perseguiti con l’armamentario di politiche econo-miche cui ha fatto ricorso il nostro Paese in tutti questi anni. Trattasi dipolitiche traguardate sul breve periodo, centrate su poche variabili aggre-

gate e macro di carattere prevalentemente finanziario; dipolitiche subalterne alle vicende congiunturali internazio-nali e nel contempo incapaci di fornire un orientamento aimolti vitalismi locali; di politiche latitanti sul versante del-l’offerta ovvero della predisposizione e gestione di un siste-ma articolato di interventi nell’ambito reale dell’economia(settori, sistemi di imprese, territori).

Come declinare lavoro e sviluppo in vista di una buonasocietà in cui vivere? Ci sono, a mio avviso, tre passaggi fon-damentali.

Occorre in primo luogo investire nell’intelligenza. Ciòrichiede uno sforzo massiccio nell’ambito della formazione,della ricerca, della realizzazione di reti attraverso le qualidiffondere le innovazioni facendole fruttificare sul territo-rio. Questo però non è sufficiente. Occorre altresì investirein una migliore qualità della vita per tutti. Vi sono bisogni

ed esigenze che non possono più essere sacrificati a livello di cultura, lottaalla povertà e all’esclusione, sanità, protezione e valorizzazione dell’am-biente ecc. Essi rappresentano nel contempo importanti “giacimenti” dai

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Il lavoro non viene“dopo” lo sviluppo,

come portato oconseguenza dello

stesso. Al contrario, necostituisce un elemento

coessenziale al pari dialtri fattori quali

l’innovazione, la qualità,la creatività che proprionelle persone trovano il

loro radicamento e lapossibilità di piena

esplicazione.

quali attingere per alimentare la crescita, radicandola più saldamente nellasocietà civile. Per il nostro Paese vi è la necessità di risalire “a monte” peresercitare una capacità di controllo e di condizionamento sulle determi-nanti del progresso scientifico-tecnologico e nel contempo estendersi “avalle” per cogliere tutte le implicazioni del progresso stesso in termini di

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effetti moltiplicativi, di trascinamento, di generazione di nuove attività.In secondo luogo occorre creare un clima di fiducia tra i vari protago-

nisti della società e dell’economia, in particolare imprese, sindacati, isti-tuzioni. La concertazione, intesa come scambio di impegni reciproci invista di obiettivi condivisi, è una questione europea, nazionale e anchelocale. La coesione del territorio è elemento strategico sia per il welfaredella comunità che vi risiede, sia per il suo sviluppo economico;

In terzo luogo occorre solidarietà. Solidarietà tra uomini e donne, trapadri e figli, tra regioni ricche e regioni povere, tra chi ha risorse finan-ziarie e chi ha capacità di iniziativa economica e sociale e chiede di esseresostenuto. La solidarietà è altresì presupposto per l’efficacia degli indi-spensabili processi di riconversione produttiva. Un ponte tra la “distru-zione” di attività (e quindi di posti di lavoro che non hanno più una ragio-nevole prospettiva) e la “creazione” di nuove iniziative e possibilità occu-pazionali. La compensazione – quando c’è – non è né meccanica, né auto-matica. Occorre tempo e in molti casi il “capitale umano” che viene espul-so dalle industrie che si ristrutturano non è lo stesso che domani saràimpegnato nelle nuove attività.

Il lavoro non si crea per decreto e neppure discende spontaneamentedagli automatismi di mercato. La valorizzazione del lavoro, ovvero, dellepersone che lavorano o potrebbero lavorare, deve entrare in sinergia conla valorizzazione di tutte le altre risorse del Paese. Tra queste troviamoinnanzitutto le risorse imprenditoriali così come si esprimono nelle gran-di e nelle piccole imprese: le prime possono creare lavoro sia direttamen-te sia indirettamente (attraverso l’indotto, gli accordi di collaborazionecon altre realtà produttive e istituzionali ecc.) sia concorrendo alla realiz-zazione di un contesto economico, sociale, culturale favorevole alla cre-scita reale. Per quanto riguarda le seconde si tratta di promuovere le con-dizioni affinché possa pienamente esplicarsi il potenziale in esse presente,in virtù anche del loro modo originale di stare nell’ambiente, di interagi-re con le società locali coniugando flessibilità e specializzazione, di rispon-dere tempestivamente alle esigenze della domanda così come avviene nellemolteplici realtà distrettuali

Per quanto concerne le risorse finanziarie, va sottolineata la necessitàche le istituzioni finanziario-creditizie si trasformino sempre più in stru-menti per la crescita del sistema economico produttivo. Al pari la spesapubblica – non basta tagliarla – deve saper collegare modernizzazione edequità sociale fornendo elementi di orientamento, stimolo e regolazione.Tra le risorse da inserire in un processo di valorizzazione vanno collocatealtresì quelle ambientali, culturali e fisiche. Una politica agroindustrialeallenta i vincoli della bilancia commerciale e crea spazi per misure espan-sive. Una politica urbanistica e dei trasporti aumenta la competitività del

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sistema paese. Una politica turistica nel mentre migliora la qualità dellavita, genera opportunità per nuove interazioni economiche e sociali.

Vi sono infine – con forti connotati di trasversalità – le risorse imma-teriali connesse al sapere, alla conoscenza, alla ricerca, alla formazione:trattasi di risorse che sussistono e si sviluppano in quanto incorporatenelle persone e in virtù di contesti favorevoli alla loro fertilizzazione; ilgiovane, terminati gli studi, deve poter trovare una rete di condizioni e diservizi per giocare sul campo la propria creatività congiuntamente alleconoscenze acquisite, anche mettendosi in proprio dando vita a progettidi imprenditorialità individuale e associata a livello di mercato e a livellosociale.

Attraverso le politiche, sommariamente richiamate, passa in misuranon marginale la strada del riformismo nel nostro Paese. Esso non puòessere interpretato né al ribasso, né tantomeno in chiave autoreferenziale.Deve essere solidale di un disegno di trasformazione reale. Un disegno nelquale far convergere le politiche di breve e le politiche di medio e lungotermine (oggi del tutto mancanti), nel quale far interagire il pubblico, ilprivato, il privato-sociale (il gioco non è affatto a somma zero); un dise-gno nel quale armonizzare l’insieme e le parti (il federalismo è un pattoper unire e non per dividere), il mercato e lo Stato, la libertà e la regola-zione, la flessibilità e la sicurezza. Un disegno nel quale il sociale ed il civi-le non sono confiscati ma, al contrario, valorizzati per quanto di origina-le possono esprimere. Ha affermato di recente Jacques Delors: «La com-petizione stimola, la cooperazione consolida, la solidarietà unisce».

Le discriminanti di siffatto modo di ragionare sono etiche e politichead un tempo. Ne indico sinteticamente tre. La prima. Letrasformazioni, con le quali fare inevitabilmente i conti,esigono la capacità di coniugare sacrifici presenti e benefi-ci futuri su una base di equità. La seconda. Le trasforma-zioni, per essere efficaci, richiedono adeguate forme di par-tecipazione e di controllo. La terza. Le trasformazionidevono comportare la progressiva realizzazione di assettipiù giusti ed equilibrati, un saldo netto in termini didemocrazia sostanziale e di cittadinanza.

L’inserimento di una dimensione etica nel campo del-l’economia richiede un’ipotesi forte di partecipazione, di coinvolgimentodi risorse individuali e collettive, come modo per cogliere e valorizzare leinterdipendenze tra gli uomini e le situazioni, promovendo comporta-menti più solidali. Tutto ciò, nel contempo, si rivela essenziale anche peril successo e le performance delle stesse iniziative economiche. Pur contutti i limiti e le contraddizioni, il potenziale partecipativo oggi esistenteè enorme. Un potenziale partecipativo che si lega a istanze profonde di

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Il giovane, terminati glistudi, deve poter trovareuna rete di condizioni edi servizi per giocare sulcampo la propriacreativitàcongiuntamente alleconoscenze acquisite.

giustizia, di umanizzazione, di democrazia in grado di esprimersi in tuttigli ambiti della vita associativa.

La questione del lavoro non rappresenta un problema tra i tanti, ma ilproblema per eccellenza. Il lavoro è e resterà una dimensione fondamen-tale nella vita degli individui e delle loro famiglie, un modo sicuro peressere cittadini e uomini liberi. Il lavoro è luogo e mezzo di costruzionedel bene comune. Da questo punto di vista appaiono del tutto fuorvian-ti le esercitazioni di futuribile che vedono nel lavoro una categoria resi-duale per la maggioranza della popolazione, destinata ad autorealizzarsifuori, nel tempo libero. Certo il lavoro si modifica nelle forme, nei con-tenuti, nelle sue modalità di esplicazione. Diventa una realtà complessa earticolata, leggibile nell’ottica del percorso – individuale e collettivo – ilcui esito è legato alle qualità personali alimentate dalla formazione scola-re e continua e alla rete di condizioni e di opportunità di valorizzazione epromozione.

Si parla giustamente di “patto per il lavoro”. Esso riveste un’importan-za strategica non solo per il nostro Paese, ma per l’Europa intera. La que-stione occupazionale travalica i confini dei singoli stati per investire laresponsabilità dell’Unione Europea la quale sembra talvolta dimenticareche la crescita costituisce un suo obiettivo prioritario in quanto senza diessa rischia di incrinarsi l’economia, il mercato comunitario e la stessacoesione sociale. Il passaggio dall’ottica del singolo Stato nazionale all’ot-tica dell’Unione Europea, potrebbe significare il passaggio da una politi-ca di controllo rigido della domanda a una politica espansiva finalizzata allavoro e una migliore qualità della vita. Si tratterebbe di riattualizzareKeynes nell’era del postfordismo, attenti alla qualità (e non solo alla quan-tità) della domanda da suscitare. Problemi all’apparenza irrisolvibili alivello di singolo paese – altrimenti salterebbe la bilancia dei pagamenti,ripartirebbe l’inflazione – possono non rivelarsi tali in scala di UnioneEuropea, ove risulta possibile far operare meccanismi di stimolo, di com-pensazione, di rilancio. Certo l’Europa non è un’isola autosufficiente,deve fare i conti con il mercato mondiale. Ciò è vero, però l’Europa puòessere un soggetto politico, economico, culturale in grado di orientare,per la sua parte, i processi di globalizzazione in atto verso obiettivi di mag-gior equilibrio, giustizia, solidarietà interna ed esterna.

Abbiamo di fronte una grande sfida etica e culturale: quella di rico-struire il senso del lavoro nella sua dimensione personale e collettiva. Illavoro è diritto, dovere, responsabilità, costruzione politica e sociale. Essochiede oggi umanizzazione e trascendimento. Non può essere visto in ter-mini meramente strumentali, secondo una pretesa di totalità. Non è finea se stesso, ma diventa momento di un cammino dotato di significati piùampi e più ricchi, affidato a una realizzazione antropologica nella quale

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possono coesistere le ragioni dell’utilità e le dimensioni culturali e spiri-tuali. Attraverso il lavoro di ciascuno si alimenta creativamente un benecomune, il più ampio possibile. Lavoro libero, impresa e partecipazione –uso i termini della Centesimus annus – rappresentano gli snodi cruciali diuna economia multidimensionale, capace di prendere in carico gliambienti sociali e culturali sui quali si apre, dinamica e coevolutiva con ilmondo nel quale si inscrive, a servizio dell’uomo e non padrona del suodestino.

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Fabiana Martiniè direttrice del

settimanale cattolico di

Trieste Vita Nuova,

già consigliere nazionale

dell’Acr.

Una vita che nasce èuna domanda di futuro

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Accogliere la vita è professione di senso, un investimento nellasperanza, un motivo per andare, per rialzarsi ogni volta. Unastrada autentica per accompagnarsi alla profezia.

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a sono tutti suoi?»: quante volte mi sento rivolgere questadomanda quando giro con le mie figlie! Eppure – mi vien dapensare mentre rispondo affermativamente – al momento sonosolo tre, non mi sembra di meritare un particolare plauso o unamedaglia. Se poi però mi tornano in mente i dati relativi allanatalità nel nostro Paese, capisco immediatamente che lo stupo-re del passante di turno non è del tutto fuori luogo. L’Italia,infatti, è un Paese a bassa fecondità con un numero medio difigli per donna molto basso (1,3), più elevato solo di Grecia eSpagna e di alcuni Paesi dell’Est europeo. Una cifra piuttostopreoccupante se consideriamo che il valore che garantisce illivello di sostituzione delle generazioni è pari a 2,1. È vero chec’è stata, rispetto al 1995 (anno in cui si raggiunse il minimostorico delle nascite, culmine di una fase trentennale di decre-scita), una leggera ripresa, ma siamo ancora ben lontani dainumeri degli anni del così detto baby boom: nel 1964 nel nostroPaese le nascite toccarono la punta massima di 1 milione e 35mila, contro i 548 mila del 2004.

L’Italia, per farla breve, è uno dei Paesi in cui il numero deimorti supera quello dei nati, dove le madri sono sempre piùanziane e dove, tuttavia, il numero di figli desiderati è più altodi quello reale. Cos’è allora che impedisce alle donne italiane dimettere al mondo dei figli? Secondo gli studiosi i fattori sonomolteplici: in primo luogo l’esistenza di un clima sociale sfavo-revole alla maternità e alla paternità, clima dovuto a una rigida

divisione dei ruoli all’interno della famiglia, a una rete di servizi carente ecostosa, a un mondo del lavoro poco flessibile. A questo proposito c’è dadire che ancor oggi i figli rappresentano una barriera all’accesso al lavoro,il part-time cresce ma non in modo sufficiente, i congedi parentali sonoutilizzati soprattutto dalle donne e si continuano a registrare licenziamen-ti e dimissioni in conseguenza della gravidanza.

Dunque, se una donna non fosse costretta a mortificare, quando nonaddirittura a rinunciare al lavoro, se fosse maggiormente supportata nellacura dei figli e della casa, innanzitutto dal proprio marito, se potesse con-tare su un’adeguata disponibilità economica, è probabile che con menoremore e timori sceglierebbe la strada della maternità. Ma non è tutto qui:la mancanza di politiche adeguate, il fatto che rispetto alla quota di spesasociale destinata a famiglia e cura dei figli l’Italia rappresenti insieme allaSpagna il fanalino di coda, non bastano a spiegare l’emergenza demografi-ca nel nostro Paese. C’è, piuttosto, una cultura di fondo che fa fatica aimmaginare il futuro, perché di questo si tratta. Siamo paralizzati dalla

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paura di non farcela, dai sacrifici che ci attendono, dalle rinunce alle qualisarà impossibile sottrarsi, e preferiamo tenerci stretto il nostro presente, ilviaggio ormai programmato, la carriera annunciata, il conto in banca nonpregiudicato. Ci siamo autoconvinti che i bambini se li possano permette-

re solo i ricchi e che anzi sono irresponsabili quelli che limettono al mondo senza esserlo, che per vivere bene occor-re possedere un sacco di cose ed è meglio una playstation eun corso di inglese piuttosto che un fratellino, una badantepiuttosto che un nipotino. Nella decisione di fare o menoun figlio, di accogliere o non accogliere una nuova vita, sigioca il senso della propria esistenza, si evidenziano le prio-rità, ciò che conta veramente e ciò di cui si può fare a meno,

si distilla la propria fede, o più semplicemente la propria fiducia neldomani, nel fatto che la sofferenza e la morte, la malattia e le catastrofinon sono l’ultima parola.

Una vita che nasce è una domanda di futuro, è una richiesta di parte-cipazione, di messa in discussione, di fiducia. È quel vento che ti rialza da

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Una vita che nasceè una domanda di

futuro, è una richiestadi partecipazione,

di messa in discussione,di fiducia.

terra, che ti fa sollevare lo sguardo dal tuo ombelico, è quel sole che arrivanell’angolo più freddo. Una vita che nasce è una professione di senso, uninvestimento nella speranza, un motivo per andare, per rialzarsi ognivolta.

In Tre uomini e una culla, un simpatico film francese del 1986, dovetre scapoloni presi dal lavoro e dalla ricerca quotidiana di un’avventuravengono travolti dall’arrivo improvviso e inaspettato di una bimba (figliadi uno dei tre), che rivoluziona le loro abitudini, durante lo sconforto chesegue la partenza della piccola Marie uno di loro chiede a un altro: «Ma tulo sai perché vivi?». È una domanda che ciascuno di noi è chiamato a farsi:le cose o le persone? Le emozioni o la felicità? Il consenso sociale o la pro-pria vocazione?

Forse in un contesto così sfavorevole, dove anziché aiutare sembra chesi voglia quasi punire chi ha il coraggio di fare più di un figlio, dove ci siattrezza per accogliere i cani ma non i bambini, dove nulla è fatto a misu-ra di famiglia numerosa, dove la prole è un fatto privato e non un benesociale, è proprio questa una delle strade della profezia.

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Con la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel1945, la tematica dei diritti umani e delle libertà fondamentalibalza prepotentemente sulla scena internazionale. In preceden-za, pur se erano stati stipulati taluni accordi per la protezione dispecifici diritti umani, gli Stati non erano tenuti a dare contodel trattamento dei propri cittadini nei confronti della comu-nità internazionale.

Specie a seguito delle tragiche esperienze della seconda guer-ra mondiale, scatenata da regimi dittatoriali che avevano negatoanche i più elementari diritti umani, i Paesi vincitori avvertiro-no la necessità di «riaffermare la fede nei diritti fondamentalidell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nellaeguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne» (comedichiara il Preambolo della Carta istitutiva dell’Onu). La Carta,così, pone tra i fini dell’Organizzazione quello di «promuovere eincoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fon-damentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di linguao di religione» (art. 1 par. 3). L’enunciazione tra i fini dell’Onudel rispetto dei diritti umani, accanto al mantenimento dellapace (art. 1 par. 1), mostra che il rispetto dei diritti umani costi-tuisce, oltre che un valore in sé, una condizione indispensabileper lo stesso mantenimento della pace e della sicurezza interna-zionale.

Malgrado l’indubbia importanza dell’assunzione del rispettodi tali diritti a fine delle Nazioni Unite, la Carta non poneva, a

Ugo Villaniè professore ordinario di

Diritto dell’Unione Europea

presso l’Università di Roma

“La Sapienza”, di Diritti

umani, presso l’Università

Luiss “G. Carli” di Roma e

di Organizzazione

internazionale, presso

l’Università Lumsa di

Roma. È componente del

Comitato dei diritti umani

della Società Italiana di

Organizzazione

Internazionale (Roma). Tra

le pubblicazioni più recenti:

L’Onu e la crisi del Golfo,

Cacucci editore, Bari

2005, e Studi su la

protezione internazionale

dei diritti umani, Luiss

University Press,

Roma 2005.

Diritti fortie vite fragili

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La progressiva focalizzazione dei diritti umani segna un crescendo disensibilità verso le condizioni concrete di vita delle persone; d’altraparte i diritti umani, per quanto siano spesso proclamati irrinunciabili,indisponibili, imprescrittibili, rimangono estremamente fragili evulnerabili. La loro tutela richiede una vigilanza e un impegnoincessanti, anche da parte dei cittadini, di organizzazioni nongovernative, dell’opinione pubblica.

Ugo Villani

dialoghi n. 3 settembre 2006

carico degli Stati membri, un obbligo immediato e precettivo di rispettarei diritti dell’uomo, ma piuttosto un obbligo, graduale e programmatico,di agire, collettivamente o singolarmente, e di cooperare con l’Onu perpromuovere il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo edelle libertà fondamentali (art. 55 lett. c e art. 56). Per quanto riguarda gliorgani delle Nazioni Unite, per converso, essi non sono forniti di poteridecisionali di natura obbligatoria, ma del solo potere di intraprenderestudi, fare raccomandazioni, elaborare progetti di convenzioni. Va rilevatoinoltre che la stessa nozione dei diritti umani era, nel ’45, ancora alquan-to vaga e generica, né poteva riconoscersi una posizione unanime nellacomunità internazionale circa l’individuazione di un gruppo di determi-nati diritti fondamentali. Infine l’azione, anche meramente esortativa,delle Nazioni Unite incontrava un ostacolo nel limite della domestic juri-sdiction posto dall’art. 2 par. 7, ai sensi del quale le stesse Nazioni Unitenon possono intervenire in questioni che appartengono essenzialmentealla competenza interna di uno Stato, tra le quali, all’epoca, rientrava iltrattamento degli individui.

Muovendo da queste basi normative l’azione dell’Onu – affiancata daaltre organizzazioni internazionali e regionali – si è sviluppata secondoalcune direttrici fondamentali. Essa ha provveduto anzitutto a precisare lostesso contenuto della categoria dei diritti umani e a promuoverne l’arric-chimento, in corrispondenza alle nuove istanze che emergevano nellacomunità internazionale. Una seconda linea di azione dell’Onu è statadiretta a stimolare il passaggio dagli originari obblighi programmatici e dicooperazione degli Stati ad obblighi perentori di rispettare i diritti del-l’uomo. L’Onu ha predisposto anche meccanismi di controllo sull’effetti-vo rispetto di tali diritti. Inoltre i suoi organi hanno pressoché travolto illimite della domestic jurisdiction, ingerendosi nelle questioni dei singoliStati attinenti alla situazione dei diritti dell’uomo. Negli ultimi annianche il Consiglio di sicurezza è ripetutamente intervenuto in situazionidi massiccia violazione dei diritti umani fondamentali, giungendo adisporre misure implicanti l’uso della forza.

Riguardo alla precisazione e all’arricchimento del catalogo dei dirittiumani un ruolo fondamentale ha svolto la Dichiarazione universale deidiritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la quale, per la prima volta a livel-lo internazionale, ha tradotto l’espressione “diritti dell’uomo” in un arti-colato elenco di singoli diritti rigorosamente definiti. Già in taleDichiarazione, e ancor più nei successivi atti adottati dall’Assemblea gene-rale, è emersa una distinzione in diverse categorie o “generazioni” di dirit-ti dell’uomo (che restano, peraltro, indivisibili e interdipendenti).

La prima è costituita dai diritti civili e politici, oggetto del Patto inter-nazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966. Sono questi i

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diritti di matrice essenzialmente occidentale e liberale, già in parte procla-mati in celebri atti statali (come la Dichiarazione francese dei diritti del-l’uomo e del cittadino del 1789), spesso ritenuti innati in ogni essereumano in quanto tale, riconoscibili in ogni tempo e in ogni luogo.

Nella seconda generazione si fanno rientrare i diritti economici, socia-li e culturali (anche essi oggetto dell’omonimo Patto internazionale del 16dicembre 1966). Essi corrispondono, per un verso, alle istanze ed alleideologie socialiste, per altro verso, alla feconda tradizione del solidarismocristiano. Nell’ottica di tali diritti l’uomo non è visto più quale entitàastratta e ideale, ma come persona concreta, che vive hic et nunc con i suoibisogni, le sue esigenze, le sue aspirazioni.

La terza generazione dei diritti umani è il risultato, principalmente,delle istanze dei Paesi del terzo mondo, tese a realizzare la liberazione deipopoli dalla dominazione straniera, dapprima politica, poi economica.Essi comprendono in primo luogo il diritto di autodeterminazione deipopoli, che si traduce in un vero e proprio diritto all’indipendenza per ipopoli coloniali, quelli sottoposti a un regime di apartheid e per quellisoggetti ad altre forme di dominazione straniera. Di particolare rilevanza èpoi il diritto allo sviluppo, definito nella Dichiarazione dell’Assemblea

generale dell’Onu del 4 dicembre 1986 come un «dirittoinalienabile dell’uomo in virtù del quale ogni personaumana e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e dicontribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale epolitico nel quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertàfondamentali possono essere pienamente realizzati, e dibeneficiare di tale sviluppo».

Emerge, da ultimo, una quarta generazione dei dirittiumani, legati ai progressi della scienza e della tecnologia, iquali – come ha dichiarato l’Assemblea generale dell’Onusin da una risoluzione del 10 novembre 1975 –, pur aumen-tando costantemente le possibilità di migliorare la vita deipopoli, possono minacciare i diritti dell’uomo e la suadignità. Sebbene sia ancora aperto e problematico il dibatti-to sul piano scientifico e della bioetica, sono stati raggiuntirilevanti risultati, come la Dichiarazione dell’Unesco sulgenoma umano e i diritti umani dell’11 novembre 1997 e laConvenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa del 4 aprile

1997 sui diritti dell’uomo e la biomedicina, alla quale hanno fatto seguitodei protocolli addizionali, come quello del 12 gennaio 1998 che proibiscela clonazione umana.

I diritti umani si sono sviluppati anche in considerazione della parti-colare vulnerabilità di certe categorie di persone, i cui diritti sono esposti

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I diritti umani si sonosviluppati anche in

considerazione dellaparticolare vulnerabilità

di certe categorie dipersone, i cui diritti sonoesposti a un più elevato

rischio di violazione erichiedono pertanto

strumenti specifici e piùintensi di tutela, come le

donne, i fanciulli, ilavoratori migranti, i

disabili, le minoranze, lepopolazioni indigene.

a un più elevato rischio di violazione e richiedono pertanto strumenti spe-cifici e più intensi di tutela, come le donne, i fanciulli, i lavoratori migran-ti, i disabili, le minoranze, le popolazioni indigene ecc. E forme specifichedi prevenzione e repressione sono state elaborate contro talune violazioniparticolarmente gravi di diritti umani, quali la tratta degli esseri umani, laschiavitù, la discriminazione razziale, l’apartheid, la tortura.

Un’ulteriore linea di sviluppo nell’azione dell’Onu e di altre organizza-zioni internazionali o regionali riguarda la creazione di precisi obblighigiuridici degli Stati di rispettare determinati diritti umani.

Tale azione si è svolta anzitutto predisponendo progetti di convenzio-ni – quali i citati Patti internazionali del 1966 – che, una volta raggiuntoun certo numero di ratifiche, diventano giuridicamente obbligatorie pergli Stati parti. La partecipazione degli Stati alle Convenzioni sui dirittiumani è solitamente molto vasta. Peraltro l’ampiezza della partecipazioneè sostanzialmente ridimensionata se si tiene conto del largo uso che gliStati aderenti fanno di riserve o dichiarazioni, con le quali tendono aobbligarsi sul piano internazionale nei limiti in cui i diritti contemplati

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nelle convenzioni siano già riconosciuti nel proprio ordinamento interno,escludendo invece le disposizioni più innovative.

Le convenzioni in materia prevedono anche meccanismi di controllosull’effettivo rispetto dei diritti umani ad opera degli Stati parti. Essi sonoaffidati solitamente ad organi formati da esperti indipendenti i quali, purnon avendo il potere di emanare sentenze, svolgono il proprio ruolo congrande determinazione, spesso raggiungendo il risultato di fare cessare laviolazione. Nell’ambito dell’Onu esistono anche procedure di controlloapplicabili a tutti gli Stati membri, a prescindere dalla loro accettazionedelle convenzioni sui diritti umani.

La competenza di un organo di controllo propriamente giudiziario èprevista talvolta da convenzioni regionali, a cominciare dalla Convenzioneeuropea dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950. Il sistema contemplatoda tale Convenzione consente la presentazione di ricorsi individuali, oltreche statali, e implica la soggezione degli Stati parti alla giurisdizione obbli-gatoria della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, ove giudi-chi che una violazione ha avuto luogo, non solo lo constata con una sen-tenza, alla quale gli Stati parti sono tenuti a conformarsi, ma può ancheaccordare un’equa soddisfazione alla vittima della violazione.

Oltre a norme convenzionali si sono formate, specie grazie all’operadell’Onu, anche norme consuetudinarie, idonee a imporre a tutti gli Statiil rispetto di un nucleo irrinunciabile di diritti umani. Esse comportano ildivieto delle gross violations, cioè le violazioni massicce e sistematiche dei

diritti umani fondamentali; queste consistono in pratichecontinuate, non in singoli casi di violazione, e comprendo-no il genocidio, l’apartheid, la schiavitù, la tortura e le pra-tiche disumane; ma dalla prassi dell’Onu emerge in manie-ra sempre più decisa la tendenza a ricomprendere tra le grossviolations la violazione di qualsiasi diritto umano, purchémassiccia e sistematica.

In corrispondenza a tale evoluzione la materia concer-nente le violazioni massicce e sistematiche dei diritti umanideve ritenersi ormai sottratta alla domestic jurisdiction degliStati e rientrante nella competenza dell’Onu.

Gli statuti di alcune organizzazioni internazionali prevedono la possi-bilità di comminare sanzioni allo Stato autore di una violazione dei dirittiumani. Per esempio, la Carta dell’Onu dichiara che uno Stato membroche abbia persistentemente violato i principi enunciati nella stessa Carta –tra i quali rientra la promozione dei diritti umani – può essere espulso daparte dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza.Anche il Trattato sull’Unione Europea contempla la possibilità di sanziona-re con la sospensione di alcuni diritti la violazione grave e persistente da

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Nella prassi dell’Onuemerge in maniera

sempre più decisa latendenza a

ricomprendere tra legross violations la

violazione di qualsiasidiritto umano, purché

massiccia e sistematica.

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parte di uno Stato membro dei principi di libertà, democrazia, rispettodei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto(art. 7).

Va poi ricordato che, in base al diritto internazionale consuetudinario,gli Stati hanno l’obbligo, nei confronti di tutti gli altri Stati, di astenersida pratiche di sistematica violazione dei diritti umani fondamentali, qualiil genocidio, l’apartheid, la schiavitù, la tortura ecc. Pertanto ciascunoStato può pretendere che ogni altro Stato rispetti un complesso di dirittiumani fondamentali, astenendosi dal commettere gross violations. Oveuno Stato violi le norme consuetudinarie in materia gli altri Stati possonoreagire mediante contromisure.

La gamma delle possibili reazioni è ampia, da proteste e rimostranzediplomatiche (espressione di un diritto di ingerenza), a misure di ritorsio-ne, quale la sospensione di relazioni diplomatiche, a misure più incisive,quali il congelamento di depositi dello Stato “reo”, la sospensione dei rap-porti commerciali, sino all’isolamento completo dello Stato in questione.Peraltro le contromisure non possono comportare l’uso della forza armatacontro lo Stato ritenuto colpevole della violazione. Un intervento armatoc.d. umanitario sarebbe infatti in contrasto con l’art. 2 par. 4 della Cartadell’Onu, corrispondente a una norma di diritto internazionale generale,che vieta l’uso o la minaccia della forza nelle relazioni internazionali.

Specie dopo la fine della guerra fredda anche il Consiglio di sicurezzasi è occupato di situazioni di “emergenza umanitaria” (quali genocidio,pulizia etnica, condizione di popolazioni civili vittime di violenza genera-lizzata) adottando misure non implicanti l’uso della forza, come il divietodi esportazione di armi, o anche misure militari. In questo secondo caso,realizzatosi, per esempio, per la Somalia, più volte per l’ex Jugoslavia, ilRuanda, Haiti, Timor Est, Liberia, Congo, Darfur (Sudan), il Consigliodi sicurezza ha operato mediante forze di peacekeeping, messe a sua dispo-sizione da Stati membri, oppure delegando l’esecuzione delle misure a sin-goli Stati o organizzazioni regionali.

Tali misure hanno obiettivi umanitari, come il rifornimento di aiuti apopolazioni civili, la difesa di zone protette nel corso di un conflitto, lasicurezza e il funzionamento di aeroporti per l’invio di alimenti e medici-ne, il ristabilimento di condizioni di pace e di sicurezza ecc. Al fine diintervenire in situazioni di massiccia e diffusa violazione di diritti umani ilConsiglio di sicurezza qualifica tali situazioni come una minaccia allapace. In questo modo legittima l’esercizio di una competenza in materiadi diritti umani, della quale sarebbe altrimenti privo, e può adottare lemisure che è in suo potere decidere in presenza di tale minaccia.

L’intervento del Consiglio di sicurezza non è privo di inconvenienti. Inparticolare la delega agli Stati, mediante l’autorizzazione o la raccomanda-

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zione a usare i mezzi necessari al raggiungimento di dati obiettivi umani-tari, comporta il rischio che essi abusino della stessa, impiegando mezzicoercitivi eccessivi rispetto all’obiettivo o perseguendo propri interessipiuttosto che il fine umanitario. Inoltre la stessa valutazione di una emer-genza umanitaria quale minaccia alla pace rientra nella discrezionalità delConsiglio di sicurezza; e, considerata la composizione politica di tale orga-no e il c.d. diritto di veto dei suoi membri permanenti che ne condizional’attività, è ben possibile che esso tenga un atteggiamento selettivo nellaindividuazione delle situazioni e degli Stati nei quali intervenire.

Malgrado tali considerazioni, riteniamo che la tendenza in esame vadaguardata con favore. La qualificazione della emergenza umanitaria comeminaccia alla pace testimonia il radicarsi nel Consiglio di sicurezza, comenell’intera comunità internazionale, di una nuova sensibilità per i dirittiumani, la cui violazione, se massiccia, sistematica e coinvolgente i dirittiumani più elementari, riveste la stessa gravità di una minaccia alla pace.

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Inoltre la gestione di gravi crisi umanitarie da parte del Consiglio di sicu-rezza, piuttosto che unilateralmente ad opera di singoli Stati, non può chegiovare alla sicurezza dei rapporti internazionali, alla moderazione nell’u-so di mezzi coercitivi, alla credibilità di interventi a fini umanitari.

Il quadro che emerge dall’esame sin qui svolto appare incoraggiante.Se si considera che solo alcuni decenni or sono l’intera materia del tratta-mento degli individui da parte del potere statale era sostanzialmente estra-nea al diritto e al controllo internazionale, non può non riconoscersi l’e-norme progresso che, sul piano giuridico, si è realizzato a partire dallanascita delle Nazioni Unite.

A fronte di questo progresso deve registrarsi, peraltro, uno scenariotutt’altro che confortante per quanto riguarda l’effettivo rispetto dei dirit-ti umani. Essi risultano gravemente violati da regimi dittatoriali, tuttoranumerosi; ma anche in Paesi “democratici” si diffondono inquietanti dot-trine, volte a giustificare persino la tortura nella lotta alterrorismo, e pratiche non rispettose dei diritti fondamen-tali; non appaiono affatto risolti, poi, i problemi legati aquella forma di “violenza strutturale” che è il sottosviluppoe che comporta la negazione dello stesso diritto alla vita.Questa realtà conferma che i diritti umani, per quantosiano spesso proclamati quali irrinunciabili, indisponibili,imprescrittibili, sono anzitutto estremamente fragili e vul-nerabili. La loro tutela richiede pertanto una vigilanza e unimpegno incessanti, anche da parte dei cittadini, di orga-nizzazioni non governative, dell’opinione pubblica. Lenorme internazionali e gli organismi di controllo oggidisponibili costituiscono preziosi strumenti utilizzabilinell’azione a difesa dei diritti umani, nella consapevolezza,peraltro, che tale azione non può essere totalmente “dele-gata” ai governi, ma va perseguita anzitutto dagli individui. Come scrive-va Giuseppe Capograssi nel 1950, in un celebre studio introduttivo allaDichiarazione universale dei diritti dell’uomo, «non sono gli Stati, siamonoi stessi, che abbiamo la responsabilità della storia».

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La qualificazione dellaemergenza umanitariacome minaccia alla pacetestimonia il radicarsi diuna nuova sensibilitàper i diritti umani, la cuiviolazione, se massiccia,sistematica ecoinvolgente i dirittiumani più elementari,riveste la stessa gravitàdi una minaccia allapace.

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L’amore non stanca e non si stanca e fa gustare già qualcosadella felicità eterna.

Come non essere allora animati dal desiderio dell’infinitodell’Amore? Dal desiderio di Dio, di gustare il suo amore, disperimentare il suo sostegno e di sapere quale sia la strada checonduce a Lui? Intuiamo perfettamente che se Dio esiste, opiuttosto poiché esiste, non può essere altro per noi che amore equindi vita. In Lui solo, possiamo trovare ed attingere forza,pace, speranza e gioia.

Dio è in ogni tempo e in ogni luogo e perciò tutto e dapper-tutto, può essere riflesso della sua presenza. Possiamo quindicercarlo, trovarlo e servirlo in molteplici situazioni e in millemaniere.

Una verità tuttavia s’impone con forza. Se Dio ha volutocreare l’uomo a sua immagine e somiglianza è innanzitutto nel-l’uomo che abbiamo la possibilità di ritrovare il riflesso più vivoe vero di Dio. La città degli uomini è dunque, fra tutte le realtà,la più bella immagine e somiglianza di Dio che si possa trovare,poiché riunisce in sé, a miriadi, le immagini e somiglianze vivedi Dio.

Se dunque la nostra vita cristiana, contemplativa, monasticaha sete del Dio vivente, non temerà di non incontrarlo nellacittà degli uomini. Le Scritture non esitano a dire che Dio abitain Gerusalemme, cioè simbolicamente tutte le città del mondo.Dio, l’amico dell’uomo. Dal momento in cui Dio si è incarna-

Rosalba Bulzagaè priora della Fraternità

Monastica di

Gerusalemme a Firenze.

La città puòdonarci Dio

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TESTIMONIANZA / Città e vita contemplativa.La vita frenetica delle grandi città, la precarietà del lavoro, unadimora in affitto possono lasciare lo spazio alla contemplazioneed alla preghiera? L’esperienza delle Fraternità monastiche diGerusalemme si propone come un segno di intensa spiritualitànel cuore pulsante della città, coniugando i tempi del lavoro conquelli della solitudine e della preghiera.

Rosalba Bulzaga

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to, è attraverso l’uomo che possiamo incontrarlo. Dunque proprio nelcuore delle città possiamo contemplarlo, amarlo, celebrarlo ed annunciar-lo. Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare! (At 9,6)

La città può condurci a Dio, poiché Dio ci ha posti nella città. La cittàpuò elevarci verso Dio, poiché Dio è disceso nella città. La città puòdonarci Dio, poiché Dio si è offerto nella città. Essa può offrirci a Diocome sacrificio vivente, poiché Egli ci aspetta nella città per nutrirci con lasua eucaristia e rivestirci della potenza dall’alto. La città può addiritturadivenire di Dio, poiché le ha dato lui stesso il nome di Città del Signore (Is60,14).

In conseguenza di quanto è avvenuto in esse nel corso dei secoli, lecittà hanno finito per apparire agli occhi di molti come il rifugio del male,il luogo del frastuono, della violenza, delle idee folli, della solitudine nellapromiscuità e l’espressione quotidiana di mille abiezioni… In poche paro-le, il simbolo del peccato!

Pur senza generalizzare e guardando anche ai lati positivi che la cittàpresenta come luogo di scambio, di convivialità, di aiuto reciproco, diascesi, d’elevazione spirituale, di progresso, è comunque vero che la cittàha preso a volte l’attitudine di Babele. Una ragione in più per non fuggir-la e ricordarle l’incessante chiamata del Signore alla conversione, come perNinive la grande città, e per mostrarle l’infinita sua misericordia.

Cristo stesso ci ricorda che non è venuto per i giusti, ma per i peccatori enemmeno per i sani, ma per i malati. Conosciamo la chiamata del Signorenella parabola: Va’ in fretta per le piazze e le strade della città e porta qui ipoveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi... (Lc 5,31-32). Spingili ad entrare, per-ché la mia casa si riempia. Ed il re insiste: Tutti quelli che troverete, invita-teli alle nozze (Mt 22,9).

Non si potrebbe dire in modo più chiaro che tutta intera, la città, èinvitata al banchetto escatologico, alle nozze eterne così care, giustamente,alla spiritualità monastica.

Un monachesimo cittadinoTra le caratteristiche che possono segnare e contraddistinguere il

mondo d’oggi, il fenomeno urbano è incontestabilmente un fatto impor-tante e determinante. Lo è per la sua repentinità e la sua novità, poiché ilmondo, fino a ieri ancora per la maggior parte rurale, nell’arco di appenaun secolo è diventato urbano, invertendo la proporzione. Lo è per la suaestensione, poiché si sono viste sorgere delle megalopoli tanto nell’est esud-est asiatico, quanto nell’ovest delle tre Americhe; nell’Africa mediter-ranea, equatoriale e tropicale; nell’Oceania così come nell’Australia e,ovviamente, in tutti i paesi dell’Europa. Lo è per la sua influenza profon-da sulle mentalità che plasma, sugli schemi di pensiero che fa circolare, sui

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modi di comportamento che genera. È vitale per il mondo attuale e per legenerazioni future che la realtà urbana, così rilevante e significativa oggi,sia evangelizzata.

Il mondo di domani sarà cristianizzato solo se lo sono state le città.Non lo sarà se le città non lo sono. La scommessa per la nostra Chiesa èperciò di fondamentale importanza.

La Chiesa in cui agisce lo Spirito, ci indica che è importante, primor-diale e vitale quindi, dimorare nel cuore delle città, nel cuore di Dio. Inogni caso, questa è la scelta fondamentale delle Fraternità Monastiche diGerusalemme, nate il giorno di Ognissanti del 1975, nella chiesa di SaintGervais di Parigi.

Il monaco, come lo indica il nome, è allo stesso tempo monos e unus.Egli è solo (monos) nel desiderio primario del faccia a faccia con Dio, “solodi fronte al Solo”. E lo è nella scelta della verginità che si esprime nel celi-bato consacrato. Il monaco non può fare a meno della solitudine e delsilenzio, ma per una più grande comunione. Inoltre egli è unus (uno), cioèalla ricerca dell’unità in primo luogo di se stesso, per divenire a sua voltaunificante; è pacificato per divenire pacificante.

La vita del monaco è guidata dal Battesimo e dal Vangelo, vuole sroto-larsi sotto lo sguardo del Padre; sull’esempio del Figlio e nell’ascolto inte-riore dello Spirito. Tutto è orientato in vista del Regno dei Cieli e all’ere-dità del Regno di Dio, già gustato nel segreto del cuore. Vivendo nelprofondo del cuore si è davvero monaci, nel cuore di Dio.

Monaci e monache di Gerusalemme, nelle città, in questo “deserto” disolitudine, d’inquietudine, di ricerca, d’indifferenza, d’agitazione, d’ano-nimato; in questo mondo urbano assetato di verità e affamato di amore,in solidarietà con l’uomo di oggi così com’è e dov’è, vogliamo cercare didar vita ad “un’oasi”; di far nascere uno spazio di silenzio e di preghiera,

che sia allo stesso tempo un luogo di accoglienza e di condi-visione; un luogo di gratuità, dove la vita abbia il primatosull’azione e sui discorsi; un luogo di pace, dove ognunopossa essere accolto per quella ricerca di Dio di cui siamotutti assetati, qualunque sia la sua età, la sua origine, la suacultura. Facendo anche noi l’esperienza delle difficoltà,delle lotte, del lavoro, delle costrizioni, delle fatiche, dellepene e delle gioie delle grandi città, dove risiedono milionidi uomini nostri fratelli, vogliamo tentare con loro di testi-moniare, al nostro umile posto, i segni precursori che anti-

cipano il Regno, vivendo allo stesso tempo la separazione e la comunione,la solitudine e la condivisione.

Tutto questo si concretizza in una vita dedicata alla preghiera persona-le e liturgica e in una vita fraterna nell’esercizio della carità. Si traduce nel

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Il mondo di domani saràcristianizzato solo se losono state le città. Nonlo sarà se le città non lo

sono. La scommessa perla nostra Chiesa è perciò

di fondamentaleimportanza.

lavoro salariato, nell’essere affittuari, senza clausura murale, ma con veri epropri tempi e luoghi di perfetta solitudine e totale silenzio nel cuore dellacittà dove abitiamo.

Anche per noi l’ideale monastico si esprime poi, attraverso una liberascelta di vita votata alla castità, alla povertà, all’obbedienza, in un’attitudi-ne di umiltà e di gioia.

Potrebbe sembrare impossibile una vita simile, tuttavia per aiutarci c’èQualcuno la cui grazia è onnipotente: Gesù Cristo.

Il solo vero monaco è GesùEgli solo è perfettamente “solo di fronte al Solo”. Ecco verrà l’ora in cui

mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me (Gv 16,23). Èperfettamente unificato, lui che non è stato offuscato da alcuna traccia dipeccato, lui nel quale l’essere è in perfetta corrispondenza con il dire, l’ap-parire e il fare. Chi è più povero di lui? Casto come lui? Obbediente più dilui? Completamente nutrito della volontà del Padre, riempito della poten-za dello Spirito, come un vero profeta, tanto capace di rinunce, quantodesideroso di tempi di silenzio, attraverso tutta la sua vita annuncia ilRegno che verrà. Vive la vita fraterna, la preghiera personale a tu per tucon il Padre e ritorna incessantemente a celebrare le liturgie della sinagogae del Tempio. Mite ed umile di cuore, in preghiera di giorno e di notte,vive nella gioia perfetta e fa di tutto per condividerla con i suoi e donarlaloro in pienezza. Pacificato, eccolo pacificante. Unificato, è unificante!

È vero che non è usuale sentire dire questo di Lui nella tradizione dellaChiesa. Ma non si dice nemmeno che è il cristiano ideale, il più perfettodei battezzati, il più santo dei sacerdoti, il primo dei dottori, o il più gran-de dei martiri. Eppure egli è tutto questo!

Non dobbiamo quindi aver paura di orientare i nostri sguardi verso ilSuo volto ogni volta che ci viene da chiederci che cosa bisogna fare e dire.

La peculiarità del Figlio di Dio fatto uomo è che è anche il Signore ditutti. Il suo esempio universale richiede, di conseguenza, altrettante rispo-ste personali.

Per amore di DioNelle Fraternità Monastiche di Gerusalemme, dove siamo chiamati a

non allontanarci dal mondo così com’è, fondamentalmente viviamo di ciòche costituisce i grandi valori del monachesimo, pur considerando nelleforme, le attese del mondo contemporaneo. Ama. Prega. Lavora. Questisono i titoli dei primi tre capitoli del nostro Libro di Vita.

Qualsiasi cosa si dica, si pensi, s’intraprenda, si ometta, si faccia, sidesidera fare tutto per amore. Si prega, si lavora, si tace, si accoglie, peramore. Si è casti, poveri, obbedienti, umili e gioiosi, con amore. Si vive

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tutto ciò a cui ci chiama la vocazione di “Gerusalemme”, nel cuore delmondo, nel cuore delle città, nella Chiesa, come monaci e monache,ancora e sempre, e addirittura unicamente per amare. L’amore infatti ètutto, da ora e per sempre. L’amore è, nel quotidiano vivere di ogni uomosulla terra, il volto di Dio che irresistibilmente lo attrae e lo attira.

Se l’amore trova in Dio stesso la sua sorgente, il cammino che condu-ce a Lui, il più sicuro e il più diritto, è il cammino della preghiera. L’amoreparte da lì e lì riconduce. Essa è il suo fondamento e il suo culmine, la suaespressione e la sua forza, la sua linfa e il suo frutto. La preghiera, effetti-vamente, dà il via alla nostra giornata e la raccoglie alla sera; spinge all’a-zione e riconduce alla contemplazione. Amore, lavoro, silenzio, accoglien-za sono tutti nutriti e illuminati dalla preghiera. La preghiera è per eccel-lenza, la grazia della nostra vita. È la rocca della nostra fede; la lampadaper i nostri passi e la luce sul nostro cammino; la letizia dei nostri cuori el’ancora delle nostre anime, piena di speranza, fissa nel cielo; la preghierarafforza, illumina, rallegra la nostra vita. Ce ne possiamo accorgere benpresto se per caso, un giorno smettiamo di pregare. Allora tutto si compli-ca, diventa insipido, sembra vuoto. Al contrario, anche se resta semprelaborioso pregare, quando la preghiera ritorna tutto si pacifica, s’illumina,acquista importanza, canta e rifiorisce.

Per quanto riguarda il lavoro, l’opzione che abbiamo preso, nelleFraternità Monastiche di Gerusalemme, è di avere scelto di lavorare nelcuore delle città come salariati, solamente a tempo parziale. Questo tradu-ce la nostra sete di povertà attraverso la dipendenza. Esprime la nostrasolidarietà attraverso l’incontro dell’uomo fratello e la vera carità nei con-fronti di questo mondo così com’è. Manifesta la nostra contestazione,poiché essendo, il lavoro, a tempo parziale, poco pagato, spesso aleatorio,non possiamo fare di esso un idolo. Permette di pregare perché la preghie-ra consiste innanzitutto a vivere in ogni luogo sotto lo sguardo del Padre enel ricordo di Dio. Qualsiasi cosa facciate, dice l’apostolo, fate tutto per lagloria di Dio. In ufficio, in bottega, nella metropolitana, così come incella, nel chiostro e in Chiesa. Il lavoro può divenire, se sappiamo assu-merlo correttamente, un eccellente esercizio alla/di preghiera continua.Questa «preghiera continua» che, secondo Massimo il Confessore, «consi-ste nell’essere sempre ancorati in Dio per mezzo della speranza e nell’attingere sempre in Lui forza e coraggio per tutto ciò che abbiamo daintraprendere o a sopportare».

Provvidenzialmente, per noi, niente sulla terra può rivelarci la presen-za, l’opera, la grazia e l’amore di Dio meglio della città degli uomini. Inessa si manifesta la sublimità di tanti volti della Sua santità! In essa risuo-na in profondità la Sua Parola. In essa la Sua luce illumina le anime, la Suapresenza sostiene i cuori. In essa Dio si rivela, semina, ara, fa crescere e fa

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in modo che i tralci della vigna, potati, portino abbondante frutto.Tutte le città della terra degli uomini sono invitate, chiamate ad essere

un giorno quello che devono sforzarsi di divenire, il più possibile, giàquaggiù: una dimora di Dio. Questo dice tutta l’energia, umile ma audace,che dobbiamo impiegare, liberamente, ma con coraggio, per cercare dicostruire fin da ora le nostre piccole Gerusalemme di quaggiù, ad imma-gine della Gerusalemme di lassù. Come non stupirci scoprendo che allafine, proprio il giardino, il giardino perduto, ci sarà restituito, ma per esse-re integrato nella città! La storia dell’umanità va dal giardino dell’Edenalla Gerusalemme di lassù “libera e nostra madre” (Gal 4,26).

La Sacra Scrittura non si stanca di insegnarci tutto l’amore che Dio haper la città e noi possiamo insieme a tutti i cittadini irraggiarlo, con pie-nezza di gratitudine per il nostro Dio, nel cuore delle città!

Poco a poco, nell’andirivieni per le strade, dalla chiesa alla casa, dallacasa al lavoro, dal lavoro alla preghiera personale, dalla solitudine silenzio-sa alla parola dell’accoglienza fraterna, dai servizi comunitari al riposodella notte, può nascere una spiritualità conforme alle esigenze dellanostra Chiesa e di questo tempo.

Nel deserto cittadino, attraverso l’ascesi quotidiana, che consiste neldare volto al monastero che costituisce la nostra città, nel trasformarla intempio d’adorazione, in luogo dell’incontro dell’uomo e di Dio, dove èbello e gioioso vivere come figli dell’unico Padre, viviamo di quella graziadi una conversione sempre possibile perché Dio, il Santissimo, non sistanca mai di amare.

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LFrancescoD’Agostinoè professore ordinario di

Filosofia del Diritto

all’Università di Roma Tor

Vergata. È Presidente del

comitato nazionale per la

Bioetica e Presidente

dell’Unione Giuristi

Cattolici italiani. Tra le sue

pubblicazioni: Diritto e

Giustizia, San Paolo,

Cinisello Balsamo 2000;

Parole di Bioetica,

Giappichelli, Torino

2004; Parole di Giustizia,

Giappichelli, Torino

2006.

I coloridel saper vivere

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FORUM/Qualità della vita.

a “qualità della vita” riecheggia sempre più di frequente come uningrediente fondamentale di ogni idea di società e di ogni conse-guente proposta politica. Ma come si concretizza quest’idea, qualisono gli ambiti che abbraccia ed i modi in cui si declina? Il forumpropone un’esplorazione del tema, intersecando le prospettive deldiritto, della sociologia e dell’architettura.

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Tra liberalismo e difesa dei più deboliFrancesco D’Agostino

Alcuni noti bioeticisti, come Peter Singer e TristramEngelhardt jr., sostengono l’ammissibilità dell’uccisione deineonati malformati. Essi infatti non avendo ancora elaboratol’autocoscienza, o non potendo – per menomazioni o lesionicerebrali – mai elaborarla, sarebbero sì individui umani da unpunto di vista biologico, ma non sarebbero persone; sarebberoda ritenere sì soggetti umani, ma non a pieno titolo, in quantonon in grado di entrare a far parte della “comunità morale”delle persone.

A quale visione del mondo e della giustizia può riportarsiquesta dottrina? Facendo riferimento a una distinzione oggi

molto di voga, quella tra sacralità e qualità della vita, potremmo conclu-dere che andrebbe riferita a un modello di pensiero utilitaristico, che qua-lifica la dignità delle persone per la loro capacità di essere autocoscienti,razionali, capaci di concepire la possibilità di essere lodate o biasimate, diperseguire la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore.Un modello che vorrei – riprendendo un’espressione usata da PaulRicoeur – definire insolente, perché porta ad esaltare la volontà di potenzadei sani, nel momento stesso in cui rifiuta ostinatamente di prendere inconsiderazione l’impotenza dei malati.

Questo modello è purtroppo quello che caratterizza, ormai da secoli,la tradizione contrattualistica e sta alla base delle diverse versioni che sonostate elaborate della teoria liberale del diritto e della giustizia, una teoria cheassume che il diritto debba perseguire un bene sociale di carattere politico,non metafisico. La determinazione del bene non può che avere carattereconvenzionale; esso va cioè concordato nei suoi contenuti da soggetti, chesi ritengano – per presupposto – tutti liberi, eguali, indipendenti, e dispo-sti a riconoscersi reciprocamente come cittadini attraverso la stipula di uncontratto sociale. Il presupposto di cui si è detto è ovviamente una finzio-ne, se non altro perché non esistono esseri umani che non si trovino obiet-tivamente in una qualche condizione di dipendenza (psicologica, affettiva,sociale, economica, culturale); ma i contrattualisti ritengono però cheassumere tale presupposto sia assolutamente indispensabile, pena il rica-dere in una antiquata e inammissibile concezione paternalistica del bene.L’esercizio della razionalità e l’accettazione della reciprocità occupano inquesta visione del mondo un posto centrale: non solo consentono diescludere dal contratto sociale gli animali (verso i quali possiamo quindiavere tenerezza e compassione, ma non obblighi di giustizia), ma altresìtutti coloro che in linea di principio rifiutassero di considerarsi membri diuna società organizzata funzionalmente secondo il principio della inter-cambialità dei ruoli o non fossero comunque qualificabili come soggettinormali e pienamente cooperativi della società per tutta la vita – secondo l’e-spressione prediletta da John Rawls. Non è quindi un caso che lo stessoRawls, pur ritenendo che quella delle cure per le persone non autosuffi-cienti sia una urgente questione pratica, la ritiene, da un punto di vista teo-rico, una difficile complicazione e ritiene ragionevole lasciarla da parte, peraffrontarla eventualmente in altro momento. Ma propria questa è la que-stione che non ci è lecito lasciare da parte, non solo perché costituisce lapietra di paragone della consistenza del modello contrattualistico di giu-stizia, ma soprattutto perché la sua coerente assunzione conduce inevita-bilmente a concludere che tale modello non può che giustificare l’esclusio-ne da una società fondata da e per soggetti “pienamente cooperativi” dialcune specifiche categorie di persone: i disabili di mente, gli anziani con

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turbe psichiche e (per quanto solo temporaneamente) i minori e più ingenerale tutti coloro la cui qualità della vita sarebbe compromessa.

Non sarebbe affatto difficile fuoriuscire dal modello ora descritto, se siaccettasse di fuoriuscire (almeno in parte) dall’orizzonte procedurale delliberalismo. Ma non è necessario arrivare a tanto, soprattutto se si ritieneche il liberalismo, oltre ai suoi indubbi meriti storici e politici, continui aesercitare una benefica influenza nel mondo contemporaneo. Per salvarela dignità giuridica dei disabili, basta verificare se sia possibile concepireuna società di soggetti che rinuncino al requisito della reciprocità comefondante, senza che questa società cessi necessariamente di essere liberale.

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Martha Nussbaum ritiene di sì, perché a suo avviso il liberalismo, nel suonucleo essenziale, più che su un modello illuministico di autonomia, sifonda sull’esigenza «che tutte le persone abbiano la possibilità di sviluppa-re l’intera gamma delle loro facoltà umane, a qualunque livello ciò sia pos-sibile, date le condizioni in cui si trovano e che possano godere dellalibertà e dell’indipendenza consentita da tali condizioni». Secondo laNussbaum bisogna pertanto «sostituire all’immagine kantiana del cittadi-no un’immagine più aristotelica, in modo da concepire le persone comeesseri animali dotati di bisogni che sono capaci di convertire in funziona-menti – includendo, ma senza limitarci a questo, il bisogno di prendersicura degli altri entrando in relazione con loro». Coniugando le capacitàcon i bisogni – sostiene la Nussbaum, citando al riguardo anche Marx – sipuò restare, coniugandolo con una buona dose di aristotelismo, all’inter-no del liberalismo, inteso come paradigma che auspica che ogni personapossa realizzare la propria soggettività, non adattandosi passivamente amodelli eteronomi, ma facendo autonomamente crescere la propria singo-la e irripetibile individualità. È solo attraverso Aristotele che possiamovedere nell’uomo un essere indigente e individuare come diritto fonda-mentale di ogni persona quello che si può denominare un diritto al soste-gno: poiché tutti gli esseri umani sono vulnerabili, il sostegno va conside-rato alla stregua di un bene primario di tutte le persone, che non può esse-re soggetto a contrattazione.

Resta con ogni evidenza forte e insuperabile per la Nussbaum (comeper la maggior parte degli studiosi che si interessano oggi alla teoria dellagiustizia) il preconcetto antigiusnaturalistico e antimetafisico. Ma in ognimodo il suo pensiero, anche se contro ogni sua intenzione, si modellaoggettivamente su moduli che non è improprio definire sia metafisici chegiusnaturalistici. È metafisica la qualificazione dell’uomo come essere indi-gente, così come è giusnaturalistica la sua affermazione per la quale il dirit-to al sostegno non può che precedere ogni contrattazione. La verità ontolo-gica (e quindi pre-contrattuale) di questa affermazione deriva dal fatto cheanche se si può empiricamente individuare una linea di confine che separicoloro che sono occasionalmente “sani” da coloro che sono occasional-mente “malati”, non si riuscirà mai ontologicamente a tracciarla, dato chel’handicap prima ancora che una possibilità empirica è, per ogni essereumano, una vera e propria possibilità trascendentale. Queste considera-zioni ci conducono direttamente a evidenziare l’insufficienza del dogmaliberale che vede il diritto fondato esclusivamente su di un contrattosociale stipulato tra soggetti liberi, eguali e indipendenti e a sostenere chelibertà, eguaglianza e indipendenza sono requisiti essenziali non per fonda-re il diritto, dandogli contenuti assolutamente convenzionali, ma per posi-tivizzarlo nelle sue istanze proprie di giustizia.

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La qualità delle relazioni e l’arte della mediazioneGian Matteo Apuzzo

Il termine “qualità della vita” è una di quelle espressioni ormai moltoin voga, ma delle quali spesso si abusa, con il rischio di determinarne lastessa debolezza. E come altri termini molto di moda nella letteraturacontemporanea legata alle questioni dello sviluppo (come sviluppo soste-nibile, sviluppo locale, partecipazione...), presenta un profilo indefinito eincerto, nel quale, a seconda di chi la esprime o dell’opportunità delmomento, vengono inseriti o meno diversi ambiti di competenza.Potremmo quasi dire, con un pizzico di provocazione, che tanto più è dimoda l’espressione qualità della vita, tanto meno è definita. Il fatto che siadi moda è dimostrato dalla continua produzione di classifiche che inten-dono, in modo più o meno approfondito, delineare lo stato delle nazionio delle città. Spesso però, in queste classifiche, il fine è maggiormente di“comunicazione di massa” che non di “divulgazione scientifica”.

Proprio mentre preparavo il presente intervento, un famoso settimana-le allegato ad un altrettanto famoso quotidiano nazionale1 pubblicava,dedicandogli anche la copertina, una classifica delle “città gentili”, ripro-ponendo a livello nazionale una ricerca fatta a livello mondiale da unarivista americana2, indagine tesa a valutare la disponibilità delle personead aiutare gli altri e la propensione alle buone maniere in alcune città sele-zionate. Ma nello stesso articolo, che correttamente indica la classificacome basata su criteri empirici e sul giudizio dei cronisti inviati, si chiari-sce che il “vivere bene” è un’altra cosa, richiamando altre classifiche sullaqualità della vita, basate su analisi più scientifiche, come quelledell’Economist e del Sole 24 Ore.

Paradossalmente, però, potremmo affermare che questa indagine, cheauto-denuncia i propri limiti, mette invece in risalto, seppur in modo par-ticolare, uno degli aspetti che contraddistinguono le analisi più recentisulla qualità della vita, e cioè l’importanza della qualità delle relazioni. Stoovviamente usando in maniera forzata questo esempio, ma è funzionale aquanto voglio sostenere: è abbastanza evidente, infatti, che la qualità rela-zionale in una società non si esaurisce nella cortesia espressa, ma è altret-tanto evidente che oggi non possiamo parlare di qualità della vita senzaconsiderare non solo i beni materiali di cui i cittadini dispongono, maanche quelli immateriali. Risulta quindi fondamentale l’analisi e la valuta-zione delle opportunità di relazione, della rete di relazioni che le personepossono costruire, e quanto sia garantita una piena e attiva partecipazionedegli individui nella vita sociale.

Tale approccio rispecchia l’evoluzione che l’espressione “qualità dellavita” ha avuto nel tempo, secondo un percorso simile, come detto sopra, a

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Gian Matteo Apuzzo è docente di Sociologia

del Territorio e

Progettazione Sociale

all’Università di Trieste e

ha partecipato come

consulente e progettista

a diversi progetti sullo

sviluppo transfrontaliero

e sulla progettazione

partecipata urbana. Da

quattro anni coordina il

Master in Cooperazione

con l’Europa centro-

orientale e balcanica

(Università di Padova e

Trieste) e ha

recentemente pubblicato

Le città divise. I Balcani e

la cittadinanza tra

nazionalismo e

cosmopolitismo, Infinito

Edizioni, Roma 2006.

quello di altri termini che riguardano in generale le questioni dello svilup-po e del benessere, con un punto di svolta significativo tra gli anni ottan-ta e novanta del secolo scorso. Da un’analisi prettamente tecnica, basata suindici e dati strettamente economici e settoriali, si è passati ad una visionemultidimensionale dell’esistenza umana e, per misurare e valutare talifenomeni, si è passati da indicatori economici e quantitativi a un’insiemedi indicatori tra i quali quelli qualitativi e “immateriali” sono di fonda-mentale importanza.

Alla base di questa svolta c’è il superamento del concetto di povertàinteso esclusivamente come mancanza di benessere materiale (e quindidella misurazione della povertà solo in base al reddito). Il concetto di “svi-luppo umano”, dal quale deriva anche quello di qualità della vita, mira adefinire il superamento della povertà come conseguimento di livelli sod-disfacenti e dignitosi di numerosi fattori della sfera umana (salute, istru-zione, occupazione, abitazione ecc.) e la valorizzazione delle capacità diogni individuo.

Un fondamentale contributo a queste analisi è stato dato dall’economi-sta indiano Amartya Sen, Nobel per l’Economia nel 1999, con i suoi scrit-ti su eguaglianza, sviluppo, libertà. Secondo Sen3, bisogna confrontarsi conuna molteplicità di variabili che rispecchiano la complessità della persona ela sostanziale eterogeneità degli essere umani. Invece di concentrarsi suibeni e sulle risorse che gli individui detengono, è possibile focalizzare l’at-tenzione sugli effettivi tipi di vita che le persone possono scegliere di con-durre, sulle capacità, e dunque sulla libertà di acquisire quelli che Sen defi-nisce “funzionamenti” (human functionings), cioè ciò che un uomo puòessere o fare. Bisogna quindi concentrare l’attenzione sulle capacità di unindividuo e sulla libertà di scegliere tra le diverse alternative di functionings.

Si è quindi rilevato insufficiente come fattore di valutazione l’indicatoreche è stato più tradizionalmente usato per misurare la qualità della vita, ecioè il Prodotto interno lordo (Pil), mentre sempre più è stato riconosciutoun legame tra qualità della vita e capabilities. Tale approccio è generalmentecondiviso e, ad esempio, anche le già citate indagini/classifiche esistenti ten-gono conto di una visione multidimensionale dell’essere umano e dellasocietà, prendendo in considerazione nei territori analizzati, ad esempio,indicatori come benessere economico, dinamismo imprenditoriale e oppor-tunità di lavoro, disponibilità di servizi e infrastrutture, ordine pubblico,quadro demografico, occasioni di svago e opportunità per il tempo libero,ma anche degrado ambientale, disumanizzazione dei rapporti e nuoveforme di povertà, ponendo in primo piano una serie di problematiche chestanno assumendo particolare gravità nelle società avanzate.

È facilmente intuibile quindi come, divenendo sempre più importantifattori qualitativi e immateriali, nella valutazione delle dimensioni che

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concorrono a definire la qualità della vita vengano inseriti sempre piùindicatori di tipo soggettivo. Questi consentono di far emergere anche lapercezione soggettiva delle persone rispetto ad una serie di fattori e di pro-blematiche del territorio in cui vivono, ma tale dato rimanda alla questio-ne del complesso rapporto esistente tra condizioni di vita oggettive e per-cezione soggettiva: molte indagini sociologiche sul territorio mostranoinfatti che non sussiste necessariamente una correlazione tra i due aspetti4.

Quello appena espresso non è però il solo problema che ci troviamo adover affrontare in una valutazione della qualità della vita come descrittasopra. Esistono alcune questioni fondamentali di difficile soluzione, cherendono perciò sotto certi aspetti debole e manipolabile il concetto.

Due problemi importanti sono posti da Nuvolati5, uno dei sociologi dimaggior spessore nelle ricerche in questo campo: il primo rinvia al rap-porto tra la manifestazione dei bisogni espressi da una popolazione e lasoluzione degli stessi, il secondo riguarda il nesso tra aspetti oggettivi esoggettivi dei bisogni. La complessità di questi aspetti spinge, per lanecessità di una soluzione tra analisi e sintesi della questione, ad affronta-re non tanto una difficile classificazione dei bisogni, ma il processo dei

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bisogni stessi, la loro costituzione, mutazione, relativizzazione e soluzione.In questo processo si gioca, secondo me, forse la questione principale chesta alla base della difficoltà di approccio alla qualità della vita, e cioè l’in-contro/scontro tra l’individualità o collettività dei bisogni e la loro con-tingenza o universalità.

Anche perché, e qui sta un altro problema, l’approccio multidimensio-nale si sposa difficilmente con tentativi di aggregazione della pluralità didimensioni esaminate in un indice sintetico rappresentativo, perché èstrutturale in esso il problema della definizione del valore relativo deidiversi aspetti considerati e della loro misurazione. Per essere più chiari,come tradurre in una stessa “misura” la qualità dell’ambiente e l’istruzioneelementare, l’offerta culturale e la qualità delle cure ospedaliere? Il rischioè quello di avere classificazioni arbitrarie e/o senza nessun tentativo diaggregazione.

Come detto sopra, la questione va affrontata nei suoi elementi dina-mici e non in quelli statici, e quindi la qualità della vita va vista come unprocesso, e in questo processo vanno trovati i punti di confronto e di con-divisione. Elemento di svolta è la promozione della partecipazione, che staalla base dello sviluppo umano e della sostenibilità ambientale e sociale.Ritengo che le questioni esposte trovino mediazione, se non soluzione,attraverso la promozione di forme appropriate di governance e adeguatiprocessi partecipativi nei momenti di progettazione e di realizzazionedelle politiche volte alla qualità della vita.

Sono convinto che la partecipazione deve dunque accompagnare ungenerale cambiamento culturale nella definizione dello sviluppo socio-ter-ritoriale, alla ricerca di un senso più umano e condiviso della definizionedel futuro delle nostre città. Le nuove forme della politica devono quantopiù chiedere ai piani e ai progetti urbani di superare le rigidità e di accen-tuare, più che un’attività regolativa che pure li connota, la capacità dicostruire immagini condivise, di mettere in comune aspettative e prefigu-razioni circa il futuro del territorio. Alla base dell’efficacia di questo pro-cesso deve esistere una mobilitazione sociale, sia di individui che di reti,con un’impostazione fortemente orientata a promuovere l’empowerment ele capacità dei diversi soggetti e delle comunità.

Molto importante risulta quindi l’applicazione di questi approcci nel-l’incontro tra individualità e collettività dei bisogni nella definizione dellaqualità della vita, per ricostruire quella qualità delle relazioni che mancaagli spazi urbani, dove appartenenza e legami sono affievoliti: come soste-nuto da vari autori6, tale azione attiene alla dimensione della costruzionedi «senso comune», ossia alla generazione e rigenerazione di identità,riconducibile alla capacità di tali attività di essere generative di benicomuni, di cultura civica e di capitale sociale.

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Qualità della vita: tra crescita culturale e capa-cità di pensare al futuro

Luigi Fusco Girard

La “qualità della vita” è percepita in generale come quell’insieme dicondizioni che “attraggono” perché fanno “stare meglio”, nel senso chegarantiscono benessere, salute e sicurezza: è collegata all’accesso al lavoro(e quindi al reddito), all’abitazione, ai servizi, all’aria pulita, al verde…L’aumento delle disuguaglianze sociali, della povertà, del degrado ambien-tale riduce la qualità della vita facendo crescere disagi e sofferenze, soprat-tutto nelle periferie urbane.

Oggi, il miglioramento della qualità della vita nella città e nel territo-rio è diventata altresì la leva più efficace per aumentare la capacità di attra-zione nei confronti di attività ed investimenti esogeni, di turisti e forzalavoro specializzata: rappresenta cioè lo strumento prioritario per pro-muovere lo sviluppo economico. Assistiamo allora a sempre più intensiinterventi nella riqualificazione dei centri storici, nell’arredo urbano, nellaproduzione di architettura di qualità, di parchi, nella ri-permeabilizzazio-ne dei suoli, nel ripristino dei circuiti naturali delle risorse ec.

Con le cosiddette “buone pratiche” le città stanno migliorando le condi-zioni di vita. Ma ciò si riferisce a tutti gli abitanti o ad alcuni gruppi sociali?

Qui si vuole sottolineare che il miglioramento della qualità della vitadipende non solo dalle scelte dei governi locali, delle istituzioni pubblichee private, ma anche dalle scelte che si fanno oggi da parte di tutti: dipendedal modo di pensare, di agire, di vivere degli abitanti della città. La qualitàdella vita non si migliora se non c’è una diversa graduatoria di prioritànella nostra mente, che si riflette nelle nostre azioni. La mancanza di qua-lità che constatiamo all’esterno non è che il riflesso della mancanza diarmonia nella nostra mente e nei nostri cuori. Le città sono infatti il rifles-so dei bisogni, delle aspirazioni dei loro abitanti: sono il prodotto dellaloro cultura.

La speranza di migliorare la qualità della vita si fonda sul recupero enon sull’assenza di valori. L’assenza di valori rappresenta uno degli ostaco-li più grandi al miglioramento della qualità della vita nella città.

Il miglioramento della qualità della vita dipende inoltre dalla “creati-vità della città”, cioè dalla capacità dei suoi abitanti di produrre valoresulla base di nuove idee.

Oggi quindi la ricchezza della città non è più rappresentata dalle suerisorse naturali, fisiche, immobili ma dalla cultura dei cittadini: dalla lorocapacità di trasformare i dati in informazione, l’informazione in cono-scenza, la conoscenza in giudizio critico, il giudizio critico in sapienza edinnovazione realmente originale...

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Luigi Fusco Girard è professore ordinario di

Estimo ed Economia

ambientale e di

Economia urbana presso

l’Università di Napoli

“Federico II”.

È responsabile della

Scuola di Dottorato in

Architettura. È autore, tra

l’altro, di: Energia,

bellezza, partecipazione:

la sfida della sostenibilità.

Franco Angeli, Milano

2004; The Human

Sustainable City,

Ashgate, London 2003.

La nuova base economica sta dunque nel capitale culturale, immate-riale e non tanto in quello fisico, infrastrutturale. Sta nella creatività deisuoi abitanti, nella loro energia intellettuale, nel loro capitale spirituale.Sta nella loro capacità di comunicare gli uni con gli altri, di intrecciarerapporti e relazioni, coordinamento di azioni, cooperazione, co-esistenza,sim-patia e com-passione. Da quanto sopra nascono reti civili e sociali,capaci a loro volta di autoalimentarsi.

Dalla presenza e dalla densità di queste reti attive dipende il successonel tempo del miglioramento della qualità della vita. Attraverso queste retisi possono costruire nuovi spazi di cooperazione, di dialogo, di comunica-zione, di azione comune. Non c’è alcun miglioramento della qualità dellavita se ogni soggetto pensa solo a se stesso ed al proprio particolare inte-resse; se non ha capacità critica tale da organizzare in gerarchie di prioritàle diverse istanze presenti; se non riesce a collegare il breve periodo con illungo periodo. Pensare a lungo termine diventa una vera e propria prio-rità, oggi, allorquando siamo tutti schiacciati sul qui ed ora, sull’istante ilcui valore viene assolutizzato. Il tempo e non il denaro diventa la risorsafondamentale per migliorare la qualità della vita e costruire futuro.

Dare e ricevere tempo rappresenta lo scambio più importante.

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L’emergenza del qui ed ora appiattisce tutto e delegittima la stessa utopia,e cioè qualunque prospettiva progettuale. Si finisce per ragionare come sesi fosse tutti imprenditori, applicando il calcolo economico quantitativodei costi e ricavi, anche quando sono presenti valori ed istanze che vannobene al di là di quelle economiche-finanziarie.

Occorre essere consapevoli di tutto questo ed incorporare nelle propriescelte, nella propria visione del mondo e delle cose, quanto più futuropossibile. Tutte le scelte che hanno un orizzonte temporale limitato al quied ora, se talvolta migliorano la qualità della vita oggi, lo fanno a sicurodanno delle generazioni future. Al contrario, un atteggiamento di atten-zione al futuro renderà più facile intrecciare con gli altri uomini di buonavolontà un dialogo sui valori, per ricostruire il fondamento culturale/eticodelle scelte grandi e piccole.

In questo modo ciascun soggetto diventa imprenditore di umanità,capace di trovare il tempo per ascoltare, per relazionarsi con gli altri; perriflettere criticamente e mettere in ordine le diverse priorità conflittuali;per provare ammirazione, stupore, commozione di fronte alle cose; perpensare ai diritti ed ai doveri, al bene comune. Da ciò consegue la suacapacità di riuscire a collegare, riconnettere, reintegrare aspetti ed elemen-ti che sono divisi, disgregati o lacerati.

Ciascun soggetto, dunque, ha un posto di responsabilità in questasfida culturale e può diventare catalizzatore di comunità, e cioè promoto-re di umanità, nella misura in cui è capace di riappropriarsi dell’arte dipensare al futuro. Da essa dipende un atteggiamento più “aperto”, e lastessa capacità di costruire una “visione” di città che combini il suo parti-colare Dna, la sua specificità, la sua anima con il suo nuovo ruolo nelcambiamento accelerato: cioè una migliore “qualità della vita”.

In conclusione, possiamo dire che certamente la qualità della vitadipenderà sempre di più dal rapporto tra sistema economico urbano esistema dell’economia della natura (ecologia); dipenderà dalla quantità dicapitale economico che la città sarà capace di attrarre (e che porterà nuovaoccupazione ecc.), dalla diffusione di pari opportunità per tutti. Madipenderà soprattutto dal rapporto che si verrà a configurare tra tecnolo-gia e cultura. Abbiamo assolutamente bisogno di nuove tecnologie permigliorare la base economica urbana, i servizi del welfare, e quindi la qua-lità della vita. Ma la sfida del nostro tempo deve essere affrontata con unaprogettualità nuova, che combini in modo originale insieme arte e tecno-logie, tradizione ed innovazione, efficienza ed equità, persona e comunità,tempi brevi e tempi lunghi...

Il futuro della città dipenderà dal rapporto tra tecnologia e valori,significati, senso, simboli, cultura. Insomma dipenderà dal rapporto tratecnologia e vita.

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Note1Il Venerdì de La Repubblica, 7 luglio 2006.2Il Reader’s Digest.3A. K. Sen, La diseguaglianza (1992), Il Mulino, Bologna 1994.4L’esempio più significativo è l’analisi del rischio e della sicurezza di una determi-nata città o parte di essa, per la quale la percezione di insicurezza è una determi-nante molto maggiore nel definire comportamenti e politiche pubbliche che noni dati oggettivi esistenti. 5G. Nuvolati, La qualità della vita delle città. Metodi e risultati delle ricerche com-parative, Franco Angeli, Milano 1998.6Tra gli altri vedi: G. Pasqui, “Politiche urbane, sviluppo locale e produzione di‘immagini strategiche’ del cambiamento territoriale”, in Territorio, 2000, 13, pp.16-25, e R. Petrella, Le Bien Commun, Editions Page Deux, Lausanne 1997.

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La finedelle rivoluzioni?

Con la bocciatura del referendum costituzionale del 25 e 26 giugno gliitaliani hanno voluto mandare alla classe politica un messaggio: sichiuda una stagione di riforme urlate e unilaterali. Rimane aperta laquestione di un ammodernamento della Costituzione: occorre peròabbandonare il miraggio di una “rivoluzione costituzionale” e optareper la via concreta di una riforma puntuale. Solo così sarà possibilecustodire l’umanesimo integrale che anima il testo del 1947,difendendone l’impianto in maniera non dogmatica ma evolutiva.

Marco Olivetti

I nterpretare, a bocce ferme, il risultato del referendum costituzio-nale del 25 e 26 giugno 2006 – nel quale gli elettori italianihanno nettamente respinto (con il 61 per cento di “no”, su unapercentuale di votanti del 53 per cento) la riforma costituziona-

le varata nel 2005 dall’allora maggioranza parlamentare di centro-destra – non è operazione agevole. Non ci si può certo fermare, infatti,ad uno sguaiato riduzionismo da politique politicienne, interpretandoquel voto come una ulteriore sconfitta per il centro-destra (appena duemesi dopo la tornata elettorale del 9e 10 aprile) e come un successo peril centro-sinistra. Si coglierebbe,infatti, solo un aspetto – e non ilpiù importante – dell’evento che èalle nostre spalle. Né si può leggereil voto del 25 giugno solo come ilrigetto della specifica proposta sot-toposta al giudizio degli elettori:certo, è anzitutto quel progetto dilegge (inutilmente lungo, confuso emal scritto) che è stato – fortunata-mente – rigettato dagli elettori. Iquali non si sono lasciati sedurredalle sirene di un esecutivo forte,anzi fortissimo, né da una devolu-

Marco Olivettiè professore ordinario di Diritto

costituzionale nella Facoltà di

Giurisprudenza dell’Università di Foggia

e professore invitato di Diritto

costituzionale comparato nella Pontificia

Università “San Tommaso” di Roma.

È autore di La questione di fiducia nel

sistema parlamentare italiano, Giuffrè,

Milano 1996 e di Nuovi Statuti e forma

di governo delle Regioni, Il Mulino,

Bologna 2002.

È coordinatore, con Raffaele Bifulco e

Alfonso Celotto, del Commentario alla

Costituzione, Editore Utet, Torino 2006.

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tion sospesa fra disgregazione della cittadinanza sociale e potenti misu-re di riaccentramento. Tuttavia, se è ben chiaro che cosa gli elettori ita-liani hanno rifiutato, lo sforzo da fare oggi è duplice: qual è il sensopolitico-costituzionale del referendum del 2006? E quale fase si apreoggi nella infinita (e in parte incompiuta) storia del dibattito sulleriforme, che risale niente meno che all’agosto 1982, con la presentazio-ne del “decalogo Spadolini”? Ventiquattro anni dopo – la distanza diuna generazione e di due campionati del mondo vinti – come cambia ildiscorso sulla Costituzione nel nostro Paese?

È indubbio che la lunga stagione del riformismo costituzionalecomporti oggi un po’ di stanchezza e coloro che nel 2006 ripropongo-no gli argomenti e i metodi degli anni ottanta sembrano francamentedei replicanti. Ma non poche sono le questioni costituzionali aperte.Alcune di esse erano trattate anche nel progetto di riforma respinto agiugno: forma di governo, sistema bicamerale, regionalismo, Cortecostituzionale. Altre erano state lasciate da parte: referendum abrogati-vo, giustizia elettorale, sistema dell’informazione, garanzie dell’opposi-zione, partecipazione dell’Italia all’integrazione europea. Altre ancorasono la riemersione recente di vecchi problemi (la legge elettorale). Mal’elenco potrebbe continuare, e sarebbe difficile non includervi temi –come la riforma della cittadinanza – che solo l’opportunismo politico o

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un formalismo fuori luogo potrebbe considerare pienamente rientrantinel domain de la loi.

Se così stanno le cose si comprende la tentazione di immaginare dinuovo un percorso di riforma costituzionale affidato a procedurestraordinarie: una Assemblea costituente o – più modestamente – unaassemblea speciale per la revisione della Costituzione (con un mandatolimitato ai temi sopra indicati e tenuta ad operare nei limiti dei princi-pi della Costituzione attuale) o, ancora, una “convenzione”, sul model-lo di quella che ha preparato nel 2002-2003 lo sfortunato progetto diCostituzione europea (o di quella che sta lavorando dal 2002 a unarevisione totale della Costituzione austriaca). La ragione di questo tipodi percorsi procedurali starebbe in un dato oggettivo: la Costituzionedel 1947 è figlia di un tempo completamente diverso da quello attuale.In fondo questo era l’argomento principale dei non pochi italiani che il25 giugno hanno scelto di votare “sì”, pur non negando le perplessitàcirca il progetto sottoposto al loro voto.

Ma – a nostro avviso – è proprio questa prospettiva che è stata scon-fitta politicamente nel referendum del 2006. Gli italiani hanno in qual-che modo voluto mandare alla classe politica un messaggio: mettere giùle mani dalla Costituzione, chiudere il capitolo della “grande riforma”,aperto negli anni ottanta dalle proposte elaborate da Giuliano Amatoper conto di Bettino Craxi ed esploso dopo la grande crisi costituziona-le del 1992-94.

Occorre essere ben chiari su questo punto. Non si intende, infatti,qui riproporre un fondamentalismo costituzionale così diffuso inbuona parte dell’estrema sinistra italiana (e in qualche settore dellostesso mondo cattolico). Non si vuole cioè aderire alla tesi secondo cuile riforme costituzionali sarebbero, in quanto tali, un falso problema,come talora sembrano sostenere molti membri dei “ComitatiDossetti”, assumendo posizioni ben diverse da quelle dell’ultimoDossetti, nel quale si può trovare un ricco catalogo di questioni costi-tuzionali aperte, che il Padre della Costituzione del 1947 indicavacome possibili oggetti di riforme a metà degli anni Novanta.

Ciò che dovrebbe essere archiviato è un metodo: la pretesa di riscri-vere dalle fondamenta la Costituzione, magari approfittandone perchiudere un capitolo – quello dell’incontro fra cattolici e marxisti – chein realtà si è chiuso da tempo, per scomparsa (o forse per mutazionegenetica) del secondo dei due partner. Un metodo che è sistematica-mente consistito nella strumentalizzazione della Costituzione per pro-getti politici di parte: prima il disegno craxiano di ridefinire i rapportidi forza a sinistra mediante l’elezione diretta del Presidente dellaRepubblica, poi il progetto Berlusconi-Bossi-Fini di una riforma costi-

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tuzionale “presidenziale e federale” che sostituisse una “SecondaRepubblica” alla prima, infine la devolution che riduceva la Costitu-zione del 1947 ad agnello sacrificale sull’altare del programma politicodella maggioranza parlamentare eletta nel 2006 (e dell’esigenza di tene-re al suo interno la Lega). In mezzo a tutto ciò non vanno dimenticatele tentazioni della Bicamerale D’Alema e l’utilizzazione – anch’essastrumentale – della riforma del Titolo V da parte del centro-sinistra persvuotare l’incombente riformismo costituzionale del centro-destra(detto fra parentesi: questo – cioè l’aver voluto la riforma costituziona-le del 2001 senza credere nel suo contenuto, ma solo per sottrarreun’arma all’avversario – è il vero errore costituzionale commesso dalcentro-sinistra nel 2001, non l’aver voluto una riforma che in sé è lamigliore – o la meno peggio – di quelle condotte in porto negli ultimidecenni).

Archiviare, dunque, il metodo della “grande riforma” costituzionalee, con esso, il desiderio di legittimazione reciproca delle due coalizioni,che può e deve trovare altre strade.

Detto tutto ciò, occorre ripartire da ciò che è mancato nei quasi ses-sant’anni trascorsi dall’entrata in vigore dell’attuale Costituzione. Percapirlo bastano alcuni dati di diritto comparato: la vigente costituzionetedesca (la Legge fondamentale di Bonn) è stata modificata oltre 40volte dal 1949, anno della sua adozione; la Costituzione austriaca del1920, dal momento della sua riacquisizione di efficacia dopo la guerra,nel 1945, è stata modificata varie decine di volte, e oltre un centinaioerano state le riforme della Costituzione svizzera del 1874 prima delrestyling generale condotto in porto nel 1999. Tutto ciò si chiama“manutenzione costituzionale”, ovvero adeguare gradualmente – conemendamenti caso per caso – la Costituzione al passare dei tempi,mantenendone ben saldo l’impianto di fondo. E ciò comporta ancheun accordo sostanzialmente costituzionale, ovvero concordato fra mag-gioranza e opposizione, sulle regole di fondo riguardanti la “Costitu-zione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. In questa prospettiva,allora, l’agenda delle riforme non smette di essere fitta. Ma si tratta difare un passaggio che, con il linguaggio un tempo proprio della culturamarxista, si può definire “dalla rivoluzione alle riforme”. Dall’idea di“grande riforma”, che in realtà nasconde il miraggio di una rivoluzionecostituzionale, all’idea di riforma puntuale, a oggetto specifico e deli-mitato, sorretto da adeguato consenso. Per riprendere l’immagine usatadieci anni fa da Pietro Scoppola: passare dalla cultura francese dellarivoluzione e della tabula rasa (di tanto in tanto, una nuovaRepubblica) a quella inglese dell’emendamento puntuale, della evolu-zione costituzionale graduale, che adatta a tempi nuovi istituti antichi.

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A tutto ciò occorre aggiungere due rilievi. In primo luogo è essen-ziale una cultura non solo della manutenzione del testo costituzionale,ma anche delle aree fondanti di consenso, cioè di quel terreno comune,che non va ritenuto disponibile a maggioranza e non può essere predadel vincitore di turno.

In secondo luogo è necessario far emergere lo spessore propriamen-te costituzionale di varie questioni oggi menzionate dalla prima partedella Carta costituzionale e spesso disinvoltamente ritenute disponibilia maggioranza. Al caso della cittadinanza, sopra evocato, si può aggiun-gere quello della famiglia e forse le stesse questioni della vita e dellabioetica. Una Costituzione che regola non solo i poteri, ma anche iprincipi, non può essere – e in effetti non è – silenziosa su questi punti.Ma troppo spesso si continua a credere che precetti costituzionali benchiari possano essere bypassati evocando, con grande libertà, clausolecostituzionali generali: si pensi a tutto il dibattito sulla disciplina legi-slativa delle c.d. “coppie di fatto”, che alcuni ritengono protette dal-l’art. 2, svuotando di fatto il chiaro orientamento contenuto nell’art.29 in materia di famiglia.

In tutto ciò non potrà mancare una riflessione dei cattolici italiani.Che dovrà uscire dal doppio riduzionismo della fedeltà unicamente alleregole o ai valori, abbandonando una alternativa falsa. Occorre inveceriappropriarsi della “Costituzione dei diritti” e della “Costituzione deipoteri” e difenderla in maniera evolutiva, perché la sua sapienza – e l’u-manesimo integrale che le è sotteso – possano essere consegnati allegenerazioni future.

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L e incomprensioni e le ostilità correnti fra i rappresentantidella psicoanalisi e quelli della Chiesa cattolica sono sem-pre state numerose e talvolta molto aspre. A questo propo-sito bisogna dire che lo stesso Freud ha offerto parecchi

spunti per giustificare le stesse incomprensioni, come quando egli hasottolineato che il comportamento religioso era simile a una nevrosiossessiva collettivizzata. D’altra parte l’atteggiamento personale diFreud non si può dire sia stato radicalmente e sostanzialmente quelloche traspare da questa affermazione. Dal punto di vista personaleFreud si è dichiarato ateo, ma ha avuto anche delle espressioni attra-verso le quali si può riconoscere che egli sentiva fortemente l’elemen-to religioso e in alcune sue opere sono espresse vedute contrastanticon l’affermazione della religione come un fatto psicopatologico.

È per esempio vero che egli ha indicato nel tormento interiore dimolte persone un esercizio nondella coscienza morale ma delsuper-io e che in questo modo haassimilato la normalità con la pato-logia, però è anche vero che hascritto la seguente frase, nel 1923:«Una interpretazione del normalesenso di colpa (coscienza morale)non presenta alcuna difficoltà».Questo vuol dire che Freud era in

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La psicoanalisi tra terapiae sviluppo morale

La psicoanalisi vanta ormai più di un secolo di anzianità –ricorrono i 150 anni della nascita di Sigmund Freud – e sembranoormai superate le iniziali incompatibilità con una letturareligiosa dell’umano. Al contrario la pratica psicoanalitica sipuò affiancare, in diversi casi con profitto, agli itinerari dimaturazione morale della persona.

Leonardo Ancona

Leonardo Anconaè professore emerito di Psichiatria

dell’Università Cattolica del “Sacro

Cuore”. Fra le sue pubblicazioni più

recenti si segnalano: La mia vita e la

psicoanalisi, Edizioni Magi, Roma 2003;

Il debito della Chiesa alla psicoanalisi,

Franco Angeli, Milano 2006.

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PO... grado di fare una discriminazione tra ciò che era senso di colpa patolo-

gico e senso di colpa morale. Bisogna anche dire che Freud era consapevole del fatto che la

Chiesa cattolica avrebbe respinto la psicoanalisi così come aveva respin-to il concetto eliocentrico dell’universo e quello evoluzionistico diDarwin. In queste tre situazioni Freud riscontrò praticamente il mede-simo processo mentale: come nel rovesciamento del concetto tolemai-co in quello copernicano la terra non è più il centro dell’universo madiventa una periferia ed è il sole a diventarne il centro, così nella evolu-zione darwiniana non è più l’uomo a comparire come il re di tutto ilcreato, ma è la filogenesi la protagonista dell’evoluzione. Allo stessomodo con la psicoanalisi: la coscienza illuminata dalla razionalità noncompare più come la sovrana della vita mentale, ma lo diventa l’incon-scio profondo che era stato sempre considerato come un mondo istin-tuale da soggiogare e non da valorizzare.

In tutti questi casi quindi l’uomo vede diminuito e distrutto unproprio privilegio, quello di essere al centro dell’universo fisico con laterra, quello di essere il re dell’universo e il padrone dei fatti mentalicon la sua intelligenza e volontà. Secondo Freud la Chiesa ha sentito inciascuno di questi avvenimenti un attacco alla propria onnipotenza,motivo per cui si è posta contro Galilei e Darwin. E avrebbe lottatoanche contro lui stesso perché in ogni caso si verificava una ferita nar-cisistica, cioè un attacco alla onnipotenza, la qual cosa provocava unadecisa azione difensiva da parte, appunto, della Chiesa cattolica.

Questo è stato vero per molto tempo anche nei confronti della psi-coanalisi: basti ricordare un testo di mons. Pericle Felici, degli anniTrenta, secondo il quale la pratica della psicoanalisi e il sottoporsi adanalisi doveva essere considerato un peccato mortale. Anche padreAgostino Gemelli scrisse che un cristiano non poteva farsi psicoanaliz-zare e che il metodo non poteva in alcun modo essere applicato a sacer-doti o religiosi.

Tuttavia da quel tempo molta acqua è passata sotto i ponti. PaoloVI affermò, in un’udienza generale, di avere «imparato a conoscere e astimare quella disciplina antropologica» che risponde al nome di psi-coanalisi.

In realtà negli ambienti ecclesiastici, anche ufficiali, oggi si guardaalla psicoanalisi con un occhio ben diverso da quello che si usava fare altempo di padre Gemelli, ossia – e questo è iniziato con Pio XII – si faun’adeguata distinzione fra una psicoanalisi che programmaticamentecombatte il pensiero cristiano e invece una psicoanalisi che riconoscel’elemento propriamente spirituale dell’uomo e non lo turba con il suoesercizio, anzi lo aiuta. Di fatto la psicoanalisi non fa altro che aumenta-

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re il senso di responsabilità dell’uomo che si sottopone alla sua pratica.L’aumento di responsabilità è collegato al perfezionamento morale.

Lo psicoanalista assiste ogni giorno alle infinite vie che l’uomo sa tro-vare per rivestire di finti orpelli un comportamento distruttivo o egoi-sta. Infatti egli vede l’aggressore assumere l’aspetto di un agnello conrazionalizzazioni che gli consentono di non cambiare pur continuandoad aggredire, vede il perverso che cerca di continuare a sfruttare le suevittime con alibi che valgono soltanto per lui e che tolgono agli altri l’e-nergia e la chiarezza d’intendimento. Vede il soggetto che non vuolerinunciare ai propri infantili godimenti sessuali per timore di perderequei loro intrinseci vantaggi che la vita adulta rifiuta; vede l’invidiosoche combatte chi gli dà il bene per lo stesso fatto che c’è qualcunocapace di dare e che rovescia sugli altri questo suo tratto comportando-si in modo da generare invidia; e vede infine l’attribuzione pervasiva adaltri di proprie parti negative e il furto delle parti buone che gli altripossono recare in sé.

La psicoanalisi è attrezzata per disfare la rete di queste mistificazio-ni in base al suo metodo, facendo appello all’intelligenza del soggetto econ il proposito di eliminare le sofferenze di cui il paziente è afflitto.Nel fare così la psicoanalisi si trova su un piano parallelo a quello dellapedagogia e del perfezionamento morale.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale io ero credenteprima della mia psicoanalisi, che è stata lunga e approfondita e sonorimasto credente dopo la sua fine, verificando in me stesso piuttosto unraffinamento del mio rapporto con Dio, una sua purificazione e unmodo più sereno, più ampio, più costruttivo di vivere il senso dellacreaturalità, che è quello che fonda la vera religione.

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Il Codice da Vinci.Le ragioni di un successo

Il Codice da Vinci, ad una analisi attenta delle ragioni di unsuccesso, si rivela uno specchio inquietante della culturacontemporanea. Che appare sempre più incline a trovare nelleteorie della cospirazione una risposta credibile alle ansie e aitraumi di una società “sotto assedio”.

Piermarco Aroldi e Francesca Pasquali

D el brutto libro di Dan Brown si è parlato anche troppo; delmediocre film di Ron Howard forse non abbastanza.Soprattutto, non dopo la sua uscita nelle sale cinematogra-fiche. Qualche dato può essere utile per farsi un’idea: pre-

sentato a Cannes con una grande operazione di marketing ma poco favo-re della critica, il film è uscito nelle sale italiane, come nel resto delmondo, il 19 maggio 2006; in Italia, dopo 10 settimane di programma-zione il film ha incassato 28.153.244euro, di cui 7.951.000 solo nel primoweekend1; negli Stati Uniti, nelmedesimo periodo ha incassato215.874.848 dollari, 77.073.000 nelprimo fine settimana: per fare qual-che confronto, meno di quanto abbiafatto la seconda puntata della saga deI pirati dei Caraibi ($ 321,899,233 intre settimane) o Cars ($ 229,485,636in sette settimane)2. Per quantoriguarda il libro, invece, i dati ufficia-li sono solo quelli del 2005, che par-lano di 1.400.000 copie vendute inItalia contro i 25.000.000 del merca-to internazionale; ma per il 2006 lestime sono di circa 40.000.000 di

Piermarco Aroldiè professore aggregato presso la

facoltà di Scienze della formazione

dell’Università Cattolica del “Sacro

Cuore”, dove insegna Sociologia dei

media e della comunicazione;

è vicedirettore dell’Osservatorio

sulla Comunicazione presso

il medesimo ateneo.

Francesca Pasqualiè professore aggregato presso

la facoltà di Scienze umanistiche

dell’Università di Bergamo, dove

insegna Teorie della produzione

culturale e Teorie e tecniche

dei nuovi media.

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copie in tutto il mondo, di cui 2.800.000 solo nel nostro Paese.Ovviamente, questi dati non hanno nulla a che vedere con un giu-

dizio critico sul film ma aiutano a dare una proporzione al fenomenoculturale di cui ci vorremmo occupare in queste pagine: la dimensionedel successo de Il Codice, le sue ragioni e il suo significato. Lo faremo apartire da una ricerca realizzata presso l’Osservatorio sullaComunicazione dell’Università Cattolica su alcuni dei maggiori suc-cessi culturali degli ultimi anni3.

Innanzitutto, le dimensioni: sia a livello mondiale che a livello ita-liano, i dati riportati in apertura costituiscono cifre record che docu-mentano un vero e proprio caso di successo di pubblico; un’analisi piùapprofondita dei dati ci dice, però, due cose interessanti. La prima èche il successo del film è stato maggiore fuori dagli Stati Uniti e in par-ticolare nei paesi di tradizione cattolica come la Spagna e l’Italia; laseconda è che il successo del libro è stato comunque più eclatante diquello del film (almeno fino a questo momento): se è vero che l’uscitadel film ha, a sua volta, rilanciato le vendite del libro, è comunque evi-dente che il successo del film si regge su quanto precedentemente rea-lizzato dal volume.

Siamo dunque di fronte a un fenomeno “eccezionale” per il merca-to librario, una performance la cui dinamica si spiega con la progressi-va estensione e diversificazione del pubblico dei lettori: dai consumato-ri di best-seller a quelli di genere, dai lettori “da spiaggia” a quelli piùcolti, dai teenagers ai più maturi, ciascuno intercettato e motivato inbase alle proprie ragioni.

Dunque, in secondo luogo, vediamo le ragioni, distinguendole traendogene, cioè inerenti alla qualità del testo, ed esogene, cioè relative aimeccanismi di circolazione sociale del testo stesso.

Cominciamo dalle seconde: il libro di Dan Brown ha beneficiato diun’imponente strategia di marketing, basata inizialmente soprattuttosulla visibilità sul punto vendita, cioè le librerie, in modo non dissimi-le da come avviene il lancio di un nuovo prodotto di largo consumo,per esempio un dentifricio, nei supermarket. Ma questa stessa visibilitàha caratterizzato anche la successiva fase di diffusione del libro, basatasul principio del marketing virale: come ricorda uno degli intervistatinel corso dell’indagine, facendo riferimento alla sua esperienza quoti-diana di pendolare, «c’è stato un momento in cui su tre persone che intreno leggevano un libro, due avevano in mano il Codice». Propriocome un virus, il libro si diffonde grazie ai suoi lettori che lo esibisco-no, ne parlano, lo consigliano, lo criticano, lo condannano. Entra neidiscorsi sociali, nei temi di conversazione spicciola, nelle relazioniinterpersonali: è il fenomeno del “passaparola”. I genitori lo leggono

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per poterne discutere con i figli, gli insegnanti lo consigliano agli stu-denti pensando di avvicinarli più agevomente alla lettura, chi nonacquisterebbe mai un best-seller si fa prendere dalla curiosità sociologi-ca di capire “cosa ci trovano gli altri”. In quanto “cosa”, il libro entranell’economia del dono che alimenta le relazioni interpersonali, ogget-to di prestito, di scambio e di regalo. Il meccanismo, così, superata unacerta soglia critica, si autoalimenta in modo esponenziale; le polemi-che, il boicottaggio, le denunce non fanno che accelerare e ampliarne lacircolazione, rendendo quantomeno problematiche le prese di posizio-ne ufficiali contro il contenuto mistificatorio del Codice.

Ma, chiaramente, ciò sarebbe impossibile se il testo non presentassele caratteristiche che lo rendono facilmente leggibile (pur apparendoagli occhi di molti dei suoi lettori come “complesso” e “difficile”: primomotivo di gratificazione). Tre sono gli ingredienti di questa “ricetta per-fetta”, nessuno dei quali è originale e il cui segreto sta nell’accostamen-to e nel giusto dosaggio: «il repertorio tematico attivato nel testo, l’im-pianto al contempo cospirativo e iniziatico della narrazione, e infine untrattamento della materia testuale da romanzo d’appendice». Il primoattinge a un materiale immaginario in grado di riprodursi costante-mente senza smettere mai di affascinare: è l’araba fenice delle storie delGraal, della Tavola Rotonda, dei Templari, della Cabala, della Mas-soneria. Cioè del Mistero dentro la Storia, rinfrescato con un po’ diesoterismo New Age. Il secondo ha a che fare con la struttura del rac-conto: una quest, in cui un eroe indagatore è strappato alla quotidianitàper intraprendere un vero e proprio viaggio avventuroso che coinvolge ibuoni contro i cattivi alla ricerca della verità nascosta. Questo viaggioha, sia per il personaggio che per il lettore, il valore di una prova esi-stenziale, costituisce la sua iniziazione, come ben rappresentato dal per-sonaggio femminile di Sophie, e si scontra con una cospirazione inter-nazionale che attraversa la Storia intera.

La straordinaria capacità di “farsi leggere” del romanzo risiede, inve-ce, nell’operazione di semplificazione e di volgarizzazione che il testocompie. L’enciclopedia di riferimento, potenzialmente complessa ederudita, sicuramente seducente ed aperta (per quanto ipercodificata),non solo infatti viene ridotta a un percorso di senso forte (nello stiledella narrazione cospirativa alla fine “tutto si tiene”, ogni tessera tornaal suo posto, se non altro in apparenza), ma anche viene sottoposta aun trattamento spettacolarizzante e melodrammatico da romanzod’appendice. Il Codice da Vinci mutua infatti dal feuilleton elementiquali la strutturazione dell’intreccio (ricco di colpi di scena, di ribalta-menti delle situazioni, di agnizioni) e la riduzione dei personaggi aruoli attanziali, privi di spessore ed evoluzione psicologica, tratteggiati

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attraverso i loro segni esteriori che servono, quasi lombrosianamente, aevocarne le qualità morali e il carattere: ad esempio, i cattivi portano“scritta sul corpo” la loro cattiveria.

Infine, il significato di questo successo: dovrebbe essere chiaro, aquesto punto, che qualsiasi tentativo di leggere i dati quantitativi dellafortuna del libro e del film come qualche volta si tenta di fare con i datiAuditel per la televisione, cioè come una conferma sia della qualitàintrinseca del programma sia del gradimento del pubblico – o addirit-tura della sua adesione culturale o ideologica ai contenuti del program-ma stesso – è illegittima e fuorviante. In altri termini: il libro e il filmde Il Codice da Vinci non hanno successo per il loro valore intrinseco edestetico, né perché i loro pubblici li apprezzano e ne condividono icontenuti narrativi o ideologici. Anzi, per certi versi, hanno successononostante sia vero esattamente il contrario. Funzionano perché, para-

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dossalmente, intercettano efficacemente e danno una risposta consola-toria a bisogni e domande più profonde di quelle che in apparenzamuovono la curiosità del lettore.

Se questa ipotesi è fondata, allora il successo del Codice da Vinci ciinterroga in maniera ancora più profonda, al di là dunque della suastraordinaria dinamica diffusiva, della mania che ha generato, e ancheal di là delle polemiche su alcuni punti specifici del romanzo. Ci inter-pella nel suo essere un vistoso epifenomeno di una domanda socialeben più complessa, una domanda innescata da una situazione di crisi,di indecidibilità, nella quale la teoria della cospirazione diventa unarisposta credibile e condivisa alle ansie, ai traumi e alle paranoie dellasocietà “sotto assedio”.

Note1Dati Il Cinematografo – Ente dello Spettacolo.2Dati Box Office.3Il saggio dedicato al Codice da Vinci è firmato da Francesca Pasquali eAngelica Dadomo ed è in via di pubblicazione in P. Aroldi, F. Colombo (eds.),Successi culturali e pubblici generazionali, Link 2006.

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Mozart. Quando le noteoltrepassano il tempo

I l 250° anniversario della nascita di Wolfgang AmadeusMozart rappresenta un evento mediatico di grande rilievo, ingrado d’imporsi ai mezzi di comunicazione e attrarre anchel’attenzione dei più distratti e distanti dalla musica d’arte (la

cosiddetta musica classica). È difficile indicare un’altra figura dellastoria della musica occidentale capace di catalizzare altrettanto inte-resse, destare curiosità, sollecitareuna reazione complice e perfinoaffettuosa nei confronti di unragazzo prodigio scomparso pre-maturamente (a 35 anni), dopoaver profuso tesori di incantisonori. In punta di piedi, col sot-tofondo dell’alluvione mozartianaofferta quest’anno da istituzioni aogni livello, ci permettiamo diproporre qualche spunto di rifles-sione sull’attualità del composito-re, ovvero su quanto la musica diMozart possa trasmetterci oggi, inun mondo quasi irriconoscibilerispetto a quello in cui Wolfgangnacque, a Salisburgo, quel 27 gen-naio 1756.

A più di due secoli di distanza la musica di Mozart continua aconquistare; merito di un talento fuori dal comune ma anchedi una formazione per nulla improvvisata e casuale. Svariatesono le chiavi di lettura a cui si presta l’opera del magistralecompositore. Non ultima quella teologica.

Raffaele Mellace

Raffaele Mellaceè professore a contratto di Storia della

musica presso l’Università Cattolica del

“Sacro Cuore”, e di Estetica musicale,

presso l’Università di Genova.

Già presidente della Fuci nella diocesi di

Milano e vicepresidente

dell’Associazione culturale “G. Lazzati”.

Tra le pubblicazioni più recenti:

Johann Adolf Hasse,

L’Epos, Palermo 2004.

Don Giovanni 2006. «Il dissoluto

assolto» von Saramago und Corghi, in

Mozart. Experiment Aufklärung im Wien

des ausgehenden 18. Jahrhunderts, a

cura di H. Lachmayer, Hatke Cantz,

Ostfildern 2006.

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Origine del genioIl fenomeno Mozart si costituisce nel segno di una triplice eccezio-

nalità, che contribuisce a rappresentarlo nella nostra percezione comeesperienza unica e irripetibile. Innanzitutto il talento originario del-l’enfant prodige, che compone già in età prescolare, diventa professioni-sta entro gli undici anni, e a tredici, a detta dello stimatissimo JohannAdolf Hasse, «ha fatto sentir cose [al clavicembalo], che han del por-tentoso in quell’età, e che potrebbero essere ammirabili anche in unuomo formato». Tanta predisposizione per il mondo dei suoni nonnasce in un roussoviano terreno selvaggio, ma rappresenta lo sviluppopaziente del più formidabile piano pedagogico-didattico, messo in attodal padre Leopold, verso il quale non saremo mai abbastanza grati.Musicista di livello egli stesso, riconosciuto il talento di Wolfgang e

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della sorella Nannerl, Leopold imbarcò i figli in una serie di viaggi gra-vosi attraverso l’Europa: tours divenuti per Wolfgang un’insostituibileoccasione di conoscenza diretta della quasi totalità delle esperienzemusicali in atto da Londra a Napoli, da Parigi a Vienna. Infine, la terzaeccezionalità: Mozart visse nella singolare stagione del classicismo, incui si realizzò una miracolosa eloquenza dello stile in grado di comuni-care con gli ascoltatori con trasparente immediatezza, dissimulandoogni complessità. Ancora oggi, molto più che non l’idioma musicale diBach o di Wagner, il linguaggio mozartiano pare giungere direttamen-te, senza necessità di mediazione alcuna, alla comprensione dell’ascol-tatore (persino come suoneria di cellulare).

Una storia (in parte) italianaSe quello mozartiano è un messaggio universale, il nostro Paese ha

una parte rilevante in questa storia. La formazione di Mozart avvennein un’epoca in cui, ancora per poco, l’Italia rappresentava la terra pro-messa della musica. Wolfgang compì tre viaggi nella Penisola (1770-73), attraversandone buona parte (Milano Bologna Venezia FirenzeRoma Napoli, per citare i centri maggiori), trascorrendovi complessiva-mente sedici mesi e componendo in profusione per ogni genere musi-cale. A Milano l’adolescente ricevette tre prestigiose commissioni ope-ristiche destinate al Teatro Regio Ducale, la sala poi sostituita dalTeatro alla Scala. E a Milano la vicenda umana e professionale diMozart avrebbe potuto imboccare una strada diversa: nell’autunno1771 l’arciduca Ferdinando, appena insediatosi quale governatore delDucato di Milano, era seriamente intenzionato a prendere al proprioservizio il compositore quindicenne. Interpellatane in proposito lamadre, l’imperatrice Maria Teresa, ne ottenne una risposta improntataad aristocratica diffidenza verso della «gente che gira il mondo comedegli accattoni». Tanto bastò per far riprendere ai Mozart la strada diSalisburgo – e dieci anni più tardi quella di Vienna. Se non determinòil destino personale del compositore (che sorprendentemente non riu-scì ad assicurarsi alcun posto stabile, se non nella città natale), l’Italiane informò profondamente lo stile, soprattutto nel campo dell’opera enella musica sacra. Italiani sono cinque dei sette titoli maggiori del tea-tro mozartiano: la trilogia su libretti di Lorenzo Da Ponte (Le nozze diFigaro, Don Giovanni, Così fan tutte), Idomeneo e La clemenza di Tito;di derivazione napoletana è la musica sacra; in italiano – lingua di cui ilcompositore possedeva sin da ragazzo quella padronanza che gli dettògustosi pastiches linguistici nelle lettere ai famigliari – risuona buonaparte della musica vocale mozartiana.

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... La GraziaIl mondo sonoro cui il ragazzo prodigio diede origine in vent’anni

scarsi di produzione si configura all’ascolto come un microcosmo dibellezza sorgiva, un universo di forme limpide e armoniose: se si voles-se istituire un paragone interdisciplinare, una sorta di analogo all’appa-rente naturalezza della pittura di Raffaello. Forse la categoria di legge-rezza occorrerà per prima alla mente, non impropriamente peraltro, nelvoler cogliere sinteticamente la fisionomia della musica di Mozart. Lalevità, il puro gioco delle forme, il concetto così settecentesco di “gra-zia” evoca compiutamente la natura più intima di una produzione chenon conosce la fatica dell’espressione romantica. Concetto da nondisgiungere da una verve irrefrenabile ed elettrizzante (si pensi all’ou-verture delle Nozze di Figaro, non a caso rappresentazione di una «follejournée»), né da una complessità di scrittura che recupera il contrap-punto fondendolo con le nuove istanze classiche della forma sonata, néancora dal frequente ricorso a un lirismo incantato e incantatorio,tanto nella musica vocale sacra (tutta la produzione possibile per il ritocattolico: messe, salmi, antifone ecc.) e profana (teatro, arie da concer-to, Lieder), tanto nella distesa infinita e multiforme della musica stru-mentale: sinfonie, concerti per pianoforte, per violino e per strumentia fiato, serenate, divertimenti, quartetti, sonate e la molteplice produ-zione per pianoforte – tralasciando serie intere di composizioni d’altrogenere.

La scuola dei sentimenti e il sentimento divinoSegnaliamo in questa sede soltanto due direzioni d’indagine e una

chiave interpretativa poco frequentata. Innanzitutto il terreno fertilissi-mo del teatro musicale: dall’età di undici anni a tre mesi prima dimorire Mozart mise mano a ventidue composizioni drammatiche (que-st’estate il Festival di Salisburgo le mette in scena tutte). Soprattuttocon le sette opere del decennio viennese (1781-91) il compositore rea-lizza una drammaturgia musicale il cui straordinario valore esteticorappresenta uno degli esiti più alti del teatro universale. Situazioni, per-sonaggi, condotta drammatica di questi titoli costituiscono una verascuola dei sentimenti, uno specchio attraverso il quale osservare lacomplessità tumultuosa dei nostri affetti, una chiave di lettura del gro-viglio intricato del cuore umano. Tale ricerca attorno alle passioni del-l’uomo avvince e coinvolge il compositore stesso, che prende estrema-mente sul serio i dilemmi continui della vita sentimentale (emblemati-co il caso della sua ultima opera buffa, Così fan tutte, profondissimanonostante l’impianto comico predisposto dal librettista).

Molto Mozart scrisse – ed è la seconda direzione cui si accenna –

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nel campo della musica sacra, corrispondente a quello stile concertanteche nel Settecento opponeva al contrappunto rigoroso dello stylus anti-quus un’espressione più moderna del sentimento religioso.Corrispettivo devozionale della rappresentazione degli affetti profanidel teatro d’opera, lo stile cui Mozart aderisce, come Pergolesi prima dilui, fa leva sul fascino della voce, sostenuta da una scrittura strumenta-le trasparente e brillante. Qualcosa di analogo a tale lettura affettuosadel sacro avviene nella pittura religiosa del Settecento. Non sarà impro-prio, in tempi di crisi dell’espressione musicale del sentimento religio-so, prestare orecchio alle numerose soluzioni mozartiane, nate tutte perla liturgia e su di essa volentieri modellate (ad esempio, le messe breviper Salisburgo si adeguano al desiderio del vescovo di contenere entrol’ora l’intera celebrazione eucaristica).

Infine, la “provocazione” di una chiave interpretativa poco nota: lalettura teologica della musica di Mozart, che ha affascinato grandi figu-re del Novecento, da Barth a Balthasar, da Küng a Ratzinger, e natural-mente Kierkegaard prima di loro. «I teologi sono rimasti impressionatidalla composizione di trascendenza e misura che lo spirito della musicaraggiunge in Mozart. E vi hanno colto, per proprio conto, il simbolostesso della rivelazione evangelica di una destinazione eterna del sensi-bile» (P. Sequeri). Ennesima testimonianza della potere rigenerantedella musica mozartiana, simbolo la cui eloquenza rimane anche pernoi felicemente intatta.

Bibliografia minimaW. Hildesheimer, Mozart (1977), Rizzoli, Milano 2006.G. Pestelli, L’età di Mozart e di Beethoven (1977), EDT, Torino 1991.W. A. Mozart, Lettere (1981), a cura di E. Ranucci, Guanda, Parma 2006. G. Carli Ballola, R. Parenti, Mozart, Rusconi, Milano 1990.M. Solomon, Mozart (1996), Mondadori, Milano 2006.L. Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, Mondadori, Milano 2005.P. Sequeri, Eccetto Mozart. Una passione teologica, Glossa, Milano 2006.

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H a già fatto parlare molto di sé questa intervista di GiuseppeTognon a Pietro Scoppola, pubblicata da Laterza, con il titolo La

democrazia dei cristiani. Di fronte a un dibattito politico spesso stru-mentale, che mette in luce, fra cristiani, nostalgie irrisolte, sindromi daesclusione, semplificazioni della memoria, lo sguardo lucido diScoppola ricostruisce quasi due secoli di storia del rapporto Chiesa-democrazia anche come chiave di lettura del più complesso rapportoChiesa-modernità. Si tratta di una preziosa cavalcata sul rapporto fracattolici e storia d’Italia, alla portata di un lettore medio, ricchissima dispunti e suggestioni, destinata adivenire uno dei testi di riferimentodi una riflessione diffusa. Il tonodiscorsivo, non accademico, noncancella il sottofondo di una cono-scenza documentata, approfonditacon intelligenza, priva delle appros-simazioni del dibattito politico egiornalistico, entro un dialogo sim-bolico fra generazioni, bene espressodall’alternarsi dell’intervistatore edell’intervistato.

Questa lucidità, questo rigorestorico, sembrano quasi risponderealla continuità di una esigenza.

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La democraziadei cristiani

La divisione dei cattolici in politica appare come un datocostante. Ma una presenza feconda e in certa misura concordedei cristiani si gioca sulla capacità di attivarsi per lapromozione integrale dell’uomo. un impegno che investe conforza anche gli ambiti dell’economia e dell’etica civile. E chiamain causa l’elaborazione di una visione di società.

Paola Gaiotti De Biase

Paola Gaiotti De Biasegià ordinaria nei licei e incaricata

all’Università si è occupata di storia delle

donne. Parlamentare europea dal ’79

all’84, deputato dal ’94 al ’96, è stata

relatrice al Convegno “E vangelizzazione

e promozione umana”, presidente della

Lega Democratica. Tra le pubblicazioni:

Vissuto religioso e secolarizzazione: le

donne nella rivoluzione più lunga,

Edizioni Studium, Roma 2006 e Le

origini del Movimento Cattolico

Femminile, Morcelliana, Brescia 2002

(nuova edizione).

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Scoppola ricorda nel testo che il suo interesse alla storia «è nato da unbisogno personale», «non come scelta di una professione ma come ricer-ca di un’identità» e per questo preferisce definirsi studioso di storia piut-tosto che storico. È una esigenza certamente comune anche ai cattolicidi oggi nel pieno di una transizione ancora irrisolta, chiamati però nona ripiegamenti su ruoli già svolti, non al rifugio nella ripetizione, ma allastessa spinta dinamica e innovativa che ha arricchito in questo sessan-tennio insieme la realtà politica del Paese e la storiografia sul movimen-to cattolico.

Fra le molteplici suggestioni del testo, sulle quali purtroppo nonpossiamo fermarci, al lettore teso a riflettere sull’attualità vorremmosegnalare per prima quella, che lo traversa tutto, che potrebbe sembrarea taluno una provocazione: il carattere costante e naturale della divisio-ne politica dei cattolici. La divisione dei cattolici «è un falso problema.Intanto perché in politica la divisione non è una colpa, è un dato ineli-minabile. E, se non si vuole ammettere l’inferiorità dei cattolici in poli-tica occorre prendere atto senza finzioni che il segno della loro maturitàsta proprio nella capacità di confrontarsi e di dividersi senza scomuni-carsi e senza usare gli argomenti del ricatto morale». Basterebbe a dare ilsegno di questa necessità richiamare i due aspetti del rapporto cattolici-politica: quello generale in cui il rimando alla fede è direttamente coin-volto entro l’approccio stesso alla politica, così come matura generica-mente nel complesso e difficile rapporto con i valori moderni dellademocrazia e della libertà, dando luogo a una spiritualità, basata anchesul riconoscimento dei valori terreni; e quello più specifico legato all’e-laborazione di culture politiche date, che sono insieme più e meno delladottrina sociale cristiana, più perché affrontano nei dettagli concreti inodi politici del tempo, meno perché non vincolanti sul piano teorico,chiamate a misurarsi anche su priorità e strumenti. Fra i vincoli eticiinnegabili dell’appartenenza credente e la produzione di una culturapolitica specifica come quella che va sotto il nome del cattolicesimodemocratico, con i suoi nomi, le sue date, le sue intuizioni politiche, c’èuno iato che non è interesse di nessuno cancellare. Basta il rimandocostante nel testo a due nomi chiave della storia italiana, a due figuredecisive della testimonianza credente, Rosmini e Sturzo, ricordandonedestino e sconfitte, per avvertire la misura in cui anticipazione e divisio-ne sono facce di una stessa medaglia.

La ricostruzione di queste divisioni (dalla prospettiva risorgimentale,al giudizio sul fascismo, entro la stessa storia dell’unità dei cattolici osull’anticomunismo democratico di De Gasperi), legata al complessocammino del rapporto Chiesa-modernità, Chiesa-democrazia consenteanche di mettere a tema come un processo storico inevitabile la fine

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della unità politica dei cattolici entro la Dc. Il valore di quell’unità staproprio nel suo essere stata non un astratto dovere morale ma una stra-tegia politica storicamente datata, obbligata dalla realtà della guerrafredda e dai rischi di nuovi totalitarismi: una strategia volta a far evolve-re il paese evitando lo scontro, sostanzialmente vincente, che può esserevissuta dai cattolici senza nostalgie e con legittima fierezza, malgradofragilità e deviazioni, per il consolidamento della democrazia italiana el’incontro fra culture politiche di diversa origine.

Oggi la sfida cui i cattolici in politica devono rispondere è certamen-te altra, più legata alle forme assunte dalla secolarizzazione, dall’emerge-re di nuove sfide etiche, dalla stessa crisi generale della democrazia, difronte all’invasione mediatica, allo strapotere finanziario, alla globalizza-zione, alla bioetica. Ma è lo stesso intreccio di questi problemi cheimpedisce di chiudere il rapporto etica-democrazia solo entro alcunequestioni apparentemente più sconcertanti per la coscienza credente,come quelle definite eticamente sensibili. Il tentativo di giustificare unanuova unità dei cattolici intorno a tali risposte, che si disegna già con ireferendum sul divorzio e sull’aborto, e poi con le nuove tecnologiedella riproduzione, tradisce proprio uno dei dati di fondo della storiadel cattolicesimo democratico: e cioè il suo porsi entro una visione glo-bale del rapporto etica politica, etica democrazia, il suo maturare tesigenerali sul rapporto Stato-società, sulla sussidiarietà, sulla dinamicadelle classi, sulla stessa forma della politica. È entro la forza di questorimando, non dal carattere più o meno compromissorio delle risposte,che si verifica la laicità di una posizione politica, che si fa carico dellastoria degli uomini e non solo della difesa di pur motivate precettistiche.

Scoppola raccoglie pienamente questa esigenza attraverso l’enfasisulla questione vitale del respiro etico necessario alla riflessione sullademocrazia e sulla sua attuale crisi, nazionale e mondiale, per la quale ilcontributo dei cattolici è decisivo. L’idea moderna di laicità, eredità cri-stiana resa «possibile attraverso la contesa secolare fra potere politico epotere religioso che ha portato alla desacralizzazione del primo e allaredifinizione degli ambiti spirituali del secondo» e il riconoscimentodelle origini religiose delle stesse rivoluzioni democratiche, non può checollocare i credenti entro una ricerca comune con le più alte tradizionilaiche.

La coscienza credente non può appagarsi della coerenza nell’ambitodell’etica sessuale o delle nuove tecnologie riproduttive, fuori da unariflessione sulle cadute di etica civile, sulle forme della convivenza, nonsolo per quello che riguarda la solidarietà e la pace, ma anche per le pra-tiche di legalità, senso del dovere, riconoscimento delle competenze,divisione dei poteri. La sfida fra una secolarizzazione alta, basata sui

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Il libroLa democrazia dei cristiani, intervista a Pietro Scoppola di GiuseppeTognon, Laterza, Bari 2005.

grandi valori comuni della modernità e del cristianesimo, che sa il valo-re della soggettività e del primato della coscienza, e una banalizzazionesecolarista, giocata su un individualismo istintivo, competitivo, succubedei media e delle convenienze dei forti, si gioca anche sulla capacità deicredenti di tenere insieme questo doppio livello.

C’è un messaggio finale ottimistico nel lavoro di Scoppola, un rico-noscimento delle energie esistenti, delle vitalità religiose latenti che con-sentono un tale obiettivo; questi ultimi mesi ce ne hanno dato un segna-le e una conferma anche nella difesa di quella Costituzione che è purstata il punto più alto della costruzione di una democrazia riconosciutacome tale dai cristiani, una difesa che ha visto anche tante voci cristiane,e quella stessa di Scoppola, protagoniste. Che possa essere un segno delfuturo.

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Il tema della laicità continua a sollecitare la riflessione e la saggistica:probabilmente si tratta di uno di quei nodi dello stare insieme che fati-

chiamo (tutti) a sciogliere, un nodo attorno a cui si cerca di ragionare,convinti che pensare e discutere serva in fondo a qualcosa.

Il dibattito in Italia ha visto intrecciarsi una certa varietà di questio-ni, tra cui la “cittadinanza” delle fedi nella dimensione pubblica maanche – e forse soprattutto – il ruolo delle Chiese come istituzioni, ed illoro peso nella dimensione civile e politica. Su queste tematiche si sonoimpegnati diversi commentatori e autori.

La raccolta di saggi intitolata Laicità. Una geografia delle nostre radi-ci, introdotta e curata da Giovanni Boniolo, vale come una interessanterassegna di riflessioni a tutto campo, proposte – come recita la quarta dicopertina – da «sedici intellettuali che si misurano con il compito dideclinare il concetto di laicità in diversi ambiti della nostra vita sociale».I temi affrontati sono effettivamentevari: politica, etica pubblica, diritto,ricerca scientifica, istruzione maanche vita-morte, fecondazione assi-stita, biotecnologie e darwinismo...

L’intento della raccolta vorrebbeessere quello di «ritrovare le ragionidella laicità, in un viaggio attraversoi territori intellettuali e politici dovesi gioca la sfida tra dogmatismo e

I “laici”di fronte alla Chiesa

La “questione laicità” non investe solo il rapporto tracredenti e non credenti, ma pone anche il problema del ruolodelle istituzioni religiose nella dimensione pubblica. Leinquietudini dei laici offrono uno spunto per interrogarsi suimodi per raccontare il vero volto della Chiesa e testimoniareefficacemente la bellezza dell’avventura cristiana.

Giovanni Grandi

Giovanni Grandiè vice-direttore del Centro Studi e

Ricerche dell’Istituto Internazionale

“Jacques Maritain”; tra le ultime

pubblicazioni: L’Oriente e l’Occidente,

Rubbettino, Soveria Mannelli 2004 e

Rileggere Maritain, Rubbettino, Soveria

Mannelli 2004; coordina la redazione di

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libertà di coscienza». Non si tarda tuttavia a comprendere che questasfida viene articolata a partire da una ipotesi ben precisa: dalla parte deldogmatismo vi sono i cattolici e dalla parte della libertà di coscienza ilaici. Nel merito, la raccolta paga l’assenza di un discorso progettuale.Troppo spesso i diversi scorci si risolvono nell’etica del «se tu non vuoi...perché devi impedire che io possa?», facendo quindi perno su un’idea dilibertà ristretta all’assenza di limiti, e quasi mai allargata alla promozionedi valori. Al massimo, quando ci si spinge a mettere in campo un’idea diuomo e di bene, non si va al di là dell’immagine di «scimmia darwinia-na» e della contrattazione dei desideri in conflitto. Una geografia delleradici di questo tipo – verrebbe quasi da dire – richiama più alla mentela desolazione dei deserti che non la ricchezza e la varietà delle foreste edelle montagne.

Tuttavia si tratta di un piccolo “manifesto” che va selezionato, perchéforse fornisce elementi utili a fare qualche passo in avanti nell’impostareil dialogo tra laici e cattolici; gli scorci significativi, probabilmente al dilà delle intenzioni degli autori, li troviamo focalizzando l’immagine delmondo cattolico che via via emerge, e da cui converrà avviare una rifles-sione.

Di contributo in contributo apprendiamo che i credenti mostranonon di rado scarsa fiducia nella ragione (Luzzatto), sono uomini edonne aggrappati alla superstizione – che tra l’altro deriverebbe da un«retaggio di impostazione metafisica» – (Mori), gente fossilizzata su «cri-teri religiosi ed ideologici, che mettono a repentaglio la libertà e la qua-lità della vita» (Redi), persone raccolte in una istituzione che «in unostato laico non dovrebbe avere alcuna situazione di privilegio pubblico»e che pretende «di avere il possesso dell’unica morale giusta» (Boniolo).Il ritratto proposto è, in sé, decisamente scadente, lo si avverte ben pre-sto. Ma a voler essere seri, ed anche ammettendo una certa miopia delritrattista, occorre chiedersi che ne sia del modello: perché i laici sonocosì inquietati dal mondo cattolico? Perché la discussione sulla laicitàviene impostata come se ci si dovesse difendere da qualcosa, al puntoche un altro – per gli stessi motivi – interessante saggio di GiulioGiorello, Di nessuna Chiesa recita nel sigillo: «I laici tendono a difender-si, è tempo di attaccare»?

Se il mondo cattolico in qualche misura fa paura è indubbiamente ilcaso di procedere ad una analisi più attenta, perché qualche distorsionedeve pur esserci, se una buona notizia anziché rallegrare e sollevare, pare– nelle sue declinazioni e nei volti che la propongono – spaventare eopprimere. Registriamo la situazione paradossale di un annuncio diliberazione dell’uomo che, strada facendo, giunge alle orecchie delmondo come una minaccia di costrizione: «Può reggere una società

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aperta e libera – si chiede sempre Giorello – etsi Deus non daretur? C’èun non di troppo. La vera questione è se si possa dare una società apertae libera etsi Deus daretur. È il progetto che gli altri hanno su di noi di sal-vezza eterna (oppure, in una versione più pallida, di correttezza politica)a costituire il problema».

Il punto di distorsione si intuisce: la vera questione non è (comeambiguamente propone Giorello) se un umanesimo teocentrico – perdirla in termini classici – sia compatibile o meno con una società libera;la vera questione non è la dialettica tra i progetti alternativi di società,ma la forza e gli strumenti politici con cui l’uno o l’altro progetto ven-gono fatti valere: non è «il progetto che altri hanno su di noi» la fonte diinquietudine, ma il potere che altri hanno di imporre il loro progetto.Ora, l’impressione è che certo mondo laico – talvolta affetto da unamiopia non certo innocente – veda la Chiesa soprattutto come una isti-tuzione non tanto “invadente” (in fondo anche la pubblicità lo è...) mapiuttosto “politicamente influente”, una istituzione che esercita unpotere avvertito come sproporzionato e soprattutto come svincolato dalladialettica di una società democratica, in cui prospettive diverse si con-frontano alla pari: «La posta in gioco» qui Rusconi, ancora in Laicità «èil ruolo delle religioni, o meglio delle Chiese e delle loro agenzie, cheintendono influire nella determinazione dell’etica pubblica».

Enzo Bianchi in La differenza cristiana intercetta questo problema eva al cuore della “questione laicità” (in Italia) in modo lucido ed onesto:«stiamo assistendo all’accendersi di un conflitto sulla Chiesa italiana esui suoi interventi nella società civile in cui si colloca». Un conflittoaggravato dalla mancata «distinzione tra Chiesa come comunità di tuttii cattolici e gerarchia ecclesiastica, sovente chiamata in causa con il ter-mine inglobante di chiesa».

A fronte di una semplificazione indubbiamente troppo frettolosa,ciò che pare stagliarsi davanti agli occhi dei laici è proprio il problema diuna istituzione religiosa che si adopera per incidere sulla società e sullasua organizzazione sottraendosi alle dinamiche democratiche. È un datodi percezione, che può anche essere molto distante – e lo è – dal verovolto, articolato e composito, della Chiesa; ma è proprio a partire daquesta percezione che per lo più viene sollevata in Italia la “questionelacità”.

Il fatto che la Chiesa venga percepita come una lobby capace di eser-citare forti pressioni politiche, sottraendosi alle dinamiche tipiche diuna società pluralista ed avanzando pretese irragionevoli deve preoccu-pare i cristiani. È da questa percezione della Chiesa che emerge il «ritrat-to» dei cattolici suggerito dalla raccolta curata da Boniolo: persone chegodono indebitamente di privilegi, soggiogate e tenute a bada con

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I libriEnzo Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006.Giovanni Boniolo (a cura di) Laicità. Una geografia delle nostre radici,Einaudi, Torino 2006.Giulio Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, RaffaelloCortina, Milano 2005.

superstizioni (solo la gerarchia si esprime, dunque solo la gerarchia pensae conduce una moltitudine di creduloni), donne e uomini promotoriacritici di una visione di società e di umanità oppressive.

È questa la Chiesa? Sono questi i cattolici? Sono appunto ritratticaricaturali, ma occorre fare i conti anche con ciò che viene percepito,specie con le distorsioni e con gli effetti indesiderati, perché segnalanoluoghi in cui ripensare i modi della presenza e dell’annuncio.Certamente, come ancora suggerisce Bianchi, «il primo mezzo di evan-gelizzazione resta la testimonianza quotidiana di una vita autenticamen-te cristiana, una vita fedele al Signore, una vita segnata da libertà, gra-tuità, giustizia, condivisione, pace, una vita giustificata dalle ragionidella speranza». Ma occorre anche trovare modi nuovi per far sì che lavoce della Chiesa nella società non sia solo o prevalentemente la vocedella gerarchia, ed occorre compiere una certa fatica formativa perché icristiani siano capaci di rendere ragione tanto delle proprie scelte in fattodi costume, quanto della solidità dei valori di cui si fanno promotori. Ledinamiche democratiche non sono una minaccia per una vita personalee sociale improntata ai valori più esigenti, sono piuttosto una opportu-nità straordinaria. A condizione però che sia bella e convincente la qua-lità dell’annuncio e la testimonianza di vita.

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Èestremamente difficile dare un giudizio estetico di opere che, oltrea rappresentare veri e propri capolavori, devono essere considerate

come monumenti al martirio umano, testimonianza delle sofferenze chel’uomo subisce da altri uomini. Come il Diario di Anna Frank, ilTaccuino di Bor di Miklós Radnóti non è solo opera letteraria ma undocumento per tutta l’umanità.

Le opere di M. Babits, A. Jószef, M. Radnóti e degli altri scrittoridel periodo testimoniano come la cultura ungherese, nonostante ilregime di Horty, non sia stata al servizio del fascismo ed abbia espres-so un universo dove custodire i valori umani. Nel caso di M. Radnóti,lo stesso poeta scrisse in occasione del suicidio di Attila Jószef: «Le poe-sie saranno compiute con la morte. L’opera strutturata nel corso dellavita con la morte diventa completa. La composizione, il messaggio poe-tico, che è stato svelato dalla vita superficiale, dal corpo, col cadere delcorpo nella fossa della tomba diven-ta visibile, l’opera s’innalza e comin-cia a dare luce». E in questo caso èproprio così.

Nella storia ungherese la sorte deipoeti martiri dell’ultima guerra nonè delle migliori. La maggior parte deipoeti scrittori e artisti ungheresisono stati condannati a morte peruna sorte avversa; tanto il suicidio di

Il respiro eticodella poesia

La cultura ungherese del primo Novecento, pur nel dramma diun asservimento al fascismo, ha espresso figure di primolivello, impegnate nella difesa dei valori umani fino almartirio. Anche la poesia sia fa denuncia, testimonianza epreghiera. Come nel caso di Miklós Radnóti.

Katia Paoletti

Katia Paolettiè laureata in Letterature Comparate

presso “La Sapienza” di Roma,

ha conseguito un Master in “Publishing

Management”. Lavora come redattore

presso l’Anonima Veritas Editrice e si

occupa di critica letteraria per diversi

periodici, tra cui PaginaZero,

quadrimestrale di letterature di frontiera.

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A. Jószef quanto la fucilazione di M. Radnóti nella fossa comune diAbda furono, per così dire, delle “morti naturali”. «Nella radice guizzala forza,/ beve la pioggia, vive di terra/ e il suo sogno è bianco, di neve».Miklós Radnóti nacque nel 1909, un anno dopo la fondazione dellarivista Nyugat (Occidente), da una famiglia ebraica; perse la madre e ilfratello gemello al momento della nascita e poco dopo anche il padre.Venne educato dallo zio, il quale avrebbe voluto che diventasse com-merciante, ma egli sentendo la vocazione poetica e dopo la pubblica-zione del primo volume di versi (Saluto pagano, 1930) si iscrisse allaFacoltà di Lettere, specializzandosi in francese all’Università di Szeged,dove ebbe i suoi primi contatti intellettuali ed umani, prima di tuttocon il professore, poeta cattolico, l’abate scolopio Sandor Sìk, tramite ilquale Radnóti si convertì al cattolicesimo. Iniziò a scrivere poesie d’a-vanguardia sotto l’influenza dei modelli stranieri e della nuova vita cul-turale dell’Ungheria socialista. Laureatosi in Lettere, non riuscì acominciare la carriera di professore per le nuove leggi razziali, così scel-se la strada degli scrittori liberi, redasse piccole riviste, scrisse articoli epoesie per la gioventù socialista degli anni Trenta, viaggiò all’esterocome a Parigi.

Un motivo fondamentale della sua opera lirica è la morte dovuta allasua tragica nascita, alla sua infanzia solitaria che deriva non da un deca-dentismo artistico e aristocratico ma dalla esistenza reale del poeta in unmondo incerto. Non si tratta di paura della morte, ma di coscienza dellapresenza della morte che diventa sentimento fondamentale, coscienzadel mondo nel 1936 dopo lo scoppio della guerra fratricida di Spagna.La guerra civile spagnola fu un fatto decisivo nel senso comune unghe-rese. Videro il vero carattere del fascismo e il futuro oscuro dei popolieuropei e della stessa cultura dell’Europa umanista. Tutta la culturaungherese si mobilitò: per capire i modi dell’impegno di uno scrittorecontro la guerra e pubblicarono Manifesti di Pace.

Nel 1937 M. Radnóti è a Parigi dove segue da vicino gli avvenimentidella politica e della lotta sociale francese a favore del fronte nazionale.Partecipa alle manifestazioni di solidarietà dopo l’assassinio di GarciaLorca e la distruzione della città Guernica, come ci testimonia la poesiaHispania Hispania: «Da due giorni diluvia così, quando apro la finestra/splendono i tetti di Parigi e s’accampa una nuvola sul mio tavolo/ e unaumida luce si proietta sulla mia fronte./ Alto sulle case, ma in fondoall’abisso, sto qui/ dove su me piange la fuliggine battuta dalla pioggia/e mi vergogno, in questo crepuscolo/ lurido di fango impigrito di noti-zie./ Frusciante guerra dalle buie ali,/ terrore che improvviso ti piombavolando,/ più non seminano, più non mietono,/ non ci son neppure levendemmie./ Neppure gli uccelli cantano più, neppure il sole riscalda,/

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le madri non hanno più figli,/ solo i tuoi fiumi insanguinanti scorrono/schiumando Hispania./ Ma nuovi eserciti arrivano dal nulla, se è neces-sario,/ come gli uragani selvaggi arrivano,/ eserciti scaturiti dalle terre/ferite dal fondo delle miniere./ I popoli gridano che libertà si chiama latua sorte./ Anche questo pomeriggio si è cantato per te:/ con pesantiparole cantavano la tua battaglia/ i poveri di Parigi, col viso bagnato».

Radnóti comprese la vera importanza della morte di questi poeti, lafunzione e il ruolo del poeta che si esprime nel volume Strada ripida,1938: «Uccidono sempre da qualche parte/ nel grembo di una vallata,/dalle palpebre abbassate, sulle vette,/ che scrutano nel mondo, o perconsolarmi/ invano dici che uccidono lontano./ Shangai o Guernica,/sono ugualmente vicini al mio cuore/ come le tue mani che tremano,/o tu, lassù, Jupiter! Anche la vita dei poeti diventa fragile: Perchél’Hispania ti aveva amato,/ perché gli amanti si erano dette le tue poe-sie -/ quando vennero che altro potevano fare,/ poeta eri – ti hannoucciso./ E senza di te adesso il popolo combatte,/ hej, Federico Garcia!

Tali esempi sono la condanna di tutta l’epoca disumana: […] tra ilrombo dei cannoni? tra le rovine bruciate, i villaggi abbandonati?/ maio scrivo lo stesso, e vivo, in mezzo a questo pazzo mondo, come/ quel-la vecchia quercia laggiù; sa che la taglieranno e sul corpo/ biancheg-gia,/ inciso un segno di croce, per ricordare che domani in quel punto/l’estirperà/ il boscaiolo – e aspetta, e intanto fa germogliare una nuovafoglia».

Poeta ribelle, si esprime all’inizio con forme espressionistiche libere,una veste cruda e surrealista in cui però mano a mano si delinea e simostra una vena bucolica, una sensibilità lirica che si avverte chiara-mente con il ciclo di poesie Diario d’uomo. «Sulla cima dei miei giornisiedo, e ne oscillano/i miei piedi, una nuvola di neve/ mi leva il cappel-lo, e le mie parole di quassù, tra penne di gallo/ alzando la polvere, mar-ciano./ Dicono che albeggia al fondo dei fossati,/ e sotto le erbe spiano/luccicanti grilli, e il letto delle pozzanghere/ bevute dal sole si entusia-sma/ dietro i passi risuonanti».

Tutta la sua poesia matura è sotto il segno del classicismo poetico:tra il 1931 e il 1944 scrive otto ecloghe e scopre in Virgilio un univer-so poetico da cui alzare la voce contro gli orrori del mondo disumano.Interessante la seconda ecloga del ’41 che ha per personaggi un caccia-bombardiere e il poeta. Il pilota ha paura della morte, sogna la suaamante e chiede al poeta di scrivere del suo desiderio di vivere. Duemesi dopo la terza ecloga in cui il poeta si rivolge ai pastori per aiutar-lo a mantenere la forza d’animo in un mondo oscuro in cui non restaalcun ricordo di coloro che volevano cantare l’amore. Intanto

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l’Ungheria entra in guerra. Quando l’11 aprile del 1942, scrisse il pro-logo alle ecloghe intitolato Vola la primavera, fu mandato due volte ailavori forzati fra i soldati-prigionieri reclutati tra ebrei e comunisti, ilpoeta in questo canto offre l’immagine tremenda di una natura morta,grida alla natura di ribellarsi alla pace. Ma è nel 1943 con la quarta equinta ecloga che Radnóti arriva al tema della missione poetica: nellaprima è protagonista la voce del poeta; la seconda frammentaria è uninno all’amico G. Balint, scrittore e critico disperso tra i soldati-pri-gionieri mandati al Don.

La sesta ecloga incompiuta è uno dei documenti più dolorosi dell’e-poca del fascismo in cui «anche il poeta rimaneva muto e aspettava chealzasse la sua voce acuta il saggio di Isaia, che conosce solo parole ven-dicatrici». Riappaiono le figure dei profeti, il mondo biblico della ven-detta e della lotta, i profeti Habacuc, Isaia e Nahum che sarà il perso-naggio della sua ultima ecloga, composta nel lager di Heideman, dovevenne deportato in seguito all’occupazione dell’Ungheria da parte deiTedeschi, due mesi prima della sua fucilazione. L’interlocutore del poetanon è più il pastore ma il profeta della rabbia e della vendetta. Profeta epoeta sembrano avere la stessa missione, sono nati per profetare e sen-tono la medesima rabbia per i peccati orrendi degli uomini.

Nel volume Cielo di schiuma, prima della deportazione a Bor, sicompie la poesia radnotiana contro la guerra. I sentimenti dominanti,oltre le sofferenze personali e l’angoscia per il mondo, sono la fede inDio e nell’amore. Divenuta un classico della lirica amorosa con le poe-sie Ode incerta, Settima ecloga e Lettere alla moglie, rivelazioni sulla vitain prigionia, la sintesi della sua esistenza ormai disumana è espressatutta nella poesia Radice: «Ero fiore sono diventato radice,/ buia epesante la terra su di me,/ la mia sorte è compiuta,/ una sega piangesopra la mia testa».

L’inferno iniziò quando nell’autunno del ’44 i Tedeschi dovetteroritirarsi portando dietro dall’Ungheria verso la Germania i loro prigio-nieri Jugoslavi. La terribile marcia viene immortalata da Radnóti inMarcia forzata, dove è ricordato il disperato rialzarsi dei prigioniericaduti: «ma forse è ancora possibile!/ Così rotonda è la luna!/ Non pas-sare oltre, amico mio:/ urla! E mi rialzo...».

Il poeta continuava a scrivere poesie nei giorni estremi, tornando permancanza di tempo agli epigrammi, forma tipica della sua poesia gio-vanile. Ormai consapevole della prossima morte, scrive in cinque linguela prefazione: «Queste carte contengono le poesie di Miklós Radnóti,poeta ungherese, che prega colui che le ritroverà di mandarle inUngheria presso il professore universitario Gyula Ortutay». Saranno

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SIA proprio queste liriche, testimonianza della sofferenza umana del mag-

gior poeta antifascista ungherese, a farne identificare le ossa nelle fossecomuni di Abda, e a noi come orribile presentimento giungono i suoiversi: «“Der springt noch auf” si udì sopra di me./ Già si seccava sullemie orecchie sangue/ mescolato a fango».

I libriMiklós Radnóti, Ero fiore sono diventato radice, Fahrenheit 451, Roma 1995.Miklós Radnóti, Poesie, Bulzoni, Roma 1999.

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Scrivere di Paul Ricoeur vuol dire per me rivivere i due anni neiquali ho seguito le sue lezioni all’Università di Parigi, il lungo

lavoro di traduzione del volume dedicato alla metafora e della trilogia sutempo e racconto. Vuol dire ancora rivivere i molti incontri nel corsodella stesura della tesi di dottorato sotto la sua guida. Vuol dire ricorda-re l’ultimo incontro nella sua casa a Châtenay Malabry, una cittadinanella cintura periferica di Parigi. Era l’aprile 2003 e Ricoeur aveva dapoco compiuto novant’anni. Mi accolse nella casa che abitava dal 1957quando con altri amici in particolare Emmanuel Mounier aveva datovita ad una sorta di “comune” tra diverse famiglie unite da un progettodi condivisione e di dialogo intellettuale. Les murs blancs si chiama lospazio di questa singolare esperienza.

Qui vorrei ricordare due apporti dati da Ricoeur: la persona ècoscienza situata nella storia ed èpolifonia di linguaggi.

Ricoeur ha elaborato una filosofiadella coscienza nella consapevolezzadel rapporto tra coscienza e dato sto-rico. La coscienza è sempre, inesora-bilmente, situata come ci ricorda unAutore molto amato da Ricoeur:Gadamer e la sua nozione di coscien-za esposta agli effetti della storia. Unaformula efficace di Ricoeur – les mâi-

Paul Ricoeur.

Giuseppe Grampa

Tra coscienza e parola

PAUL RICOEUR/Un autore che ha attraversato il Novecentovivendone i drammi e scrutandone i percorsi, non solofilosofici ma anche culturali, sociali e politici. Una figura chesi distingue per l’onestà intellettuale ed il coraggio nelladifesa dei valori umani e cristiani, non solo negli scritti maanche nei ricordi di chi lo ha conosciuto. a un anno dalla morte.

Giuseppe Grampaè sacerdote della Diocesi di Milano e

professore associato di Filosofia delle

religioni presso l’Università di Padova.

Tra le pubblicazioni: Ideologia e poetica,

Vita e Pensiero, Milano 1980 e (di

prossima pubblicazione) La schiena di

Dio. L’esperienza religiosa in tempi di

fanatismo, Centro Ambrosiano,

Milano 2006.

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OLA tres du soupçon, i maestri del sospetto: Marx, Freud e Nietzsche – attesta il

dialogo che con questi Autori Ricoeur ha sviluppato, in particolare conFreud. Fondamentale il suo lavoro ermeneutico sulla psicoanalisi.Dobbiamo riconoscere che la riflessione filosofica, soprattutto quella diispirazione idealista, ha sottovalutato il rilievo di tali condizioni a parti-re appunto da un mal inteso primato della coscienza. Basti pensare, peresempio, alla sterile contrapposizione tra conversione della coscienza einiziative di cambiamento storico. Non a caso Ricoeur è stato un intel-lettuale “engagé”, impegnato. Ricordiamo negli anni cinquanta la suaintensa collaborazione al movimento raccolto attorno alla rivistaChristianisme social, dal ’58 al ’70 sarà anche Presidente del Movimento.E poi la lunga collaborazione con Esprit e le prese di posizione contro laguerra in Algeria. Chateau rouge, Castello rosso, venne denominata l’a-bitazione Les Murs Blancs, per le posizioni progressiste dei suoi inquili-ni. Il 9 giugno 1961 di buon mattino la polizia perquisì la casa eRicoeur fermato per 24 ore. Nel 1964 è pronto a sostenere il decentra-mento dell’Università di Parigi; lascia la prestigiosa cattedra allaSorbona per andare a fondare il dipartimento di filosofia a Nanterre,nuova università nella periferia nord-ovest di Parigi. E quando nel 1969l’Università cercherà un Rettore capace di misurarsi con la contestazio-ne studentesca, Ricoeur si metterà a disposizione. Purtroppo le condi-zioni non sono quelle del dialogo ma dello scontro fino al giorno in cuiil Ministro degli interni, senza prevenire il Rettore, invierà le forze dipolizia per sgomberare l’Università occupata. La giornata si conclusecon 187 feriti e le dimissioni del Rettore Ricoeur, persuaso d’essere statomanipolato. Quando nel 1988 Michel Rocard è nominato primo mini-stro, Ricoeur diventa l’ispiratore dei grandi orientamenti etici delGoverno. Mediatore nell’affare dei cosiddetti “sans papier”, gli immigra-ti privi di documenti, si impegna per una soluzione del problema chenon sia meramente repressiva. Questo multiforme impegno sociale epolitico è accompagnato da un sempre più intenso dialogo con i giuristinel contesto del nuovo Institut des Hautes Etudes sur la Justice. Situandoil giusto tra il legale e il buono e prendendo le distanze da un approcciotroppo centrato sulla procedura, Ricoeur richiama nei suoi ultimi studil’imperativo categorico che ispira il contratto giuridico e cioè la prospet-tiva teleologica della vita buona. Ricordo, nel mio ultimo incontro d’a-verlo interrogato sui suoi ricordi del Maggio ’68: «A trentacinque annidi distanza per me questo periodo è una memoria quasi sepolta. Io con-tinuo a chiedermi se c’è stato un maggio ’68. Io mi trovavo allora in unasituazione di potere perché ero preside di una Facoltà universitaria equindi responsabile di quella istituzione. Negli anni precedenti avevocriticato molto severamente l’istituzione universitaria francese. È situa-

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zione paradossale quella dell’università francese, la sola al mondo chedopo il ’68 sia crollata. È stato necessario ricostruirla interamente conun paradosso: che una piccola rivoluzione di sinistra ha prodotto unaistituzione conservatrice con una struttura forte di decisioni. Eppuredello spirito del ’68 resta anzitutto una sorta di liberazione della parolanella forma di una spontaneità nella discussione pubblica. Inoltre ogginessuna autorità può esercitarsi senza una grande concertazione, senzaampia discussione. E questo è un frutto del ’68. Anche lo slogan del ’68:l’immaginazione al potere può essere ancora oggi una ispirazione e cometale è necessaria in particolare nel vuoto istituzionale che soffriamo,soprattutto in Europa. Qui c’è spazio per l’immaginazione perché nonabbiamo modelli. Abbiamo 25 paesi assai antichi e che hanno memorielunghe e sarà difficile far emergere un senso di appartenenza, una citta-dinanza, dato che dal 18° secolo la struttura politica forte è lo Stato-nazione».

Il secondo tema, quello al quale Ricoeur ha dedicato la sua amplissi-ma produzione filosofica, riguarda la persona attraverso i suoi linguaggi.In un testo del 1966, La philosophie à l’age des sciences humaines, Ricoeurscriveva, anticipando il senso del suo percorso: «Il compito del nostrotempo è quello di porre chiaramente il problema di una grande filosofiadel linguaggio per comprendere la molteplicità delle funzioni delsegno... Ci manca una grande filosofia del linguaggio che ci permetta diarticolare la logica simbolica che è interamente logica dell’univocitànelle diverse espressioni di quella che ho chiamato una ermeneuticagenerale... Senza dubbio bisognerà superare l’ingenuità presuntuosa deilogici per i quali il senso ha senso solo se risponde ad una logica dell’u-nivocità. Per preparare questa filosofia larga, comprensiva, articolata dellinguaggio bisognerà capire come l’uomo sia capace ad un tempo delmito e della matematica, della poesia e della fisica, del sogno e dellacostruzione dei robot». Saranno tre i momenti di questa filosofia del lin-guaggio: il simbolico, il metaforico e il narrativo. Su questi tre versantiRicoeur si impegna a demolire il pregiudizio che considera questi treregistri come privi di referenza al reale, solo forme ornamentali, sedu-centi. Una tesi, questa, che condanna i linguaggi poetici e quelli propridell’esperienza religiosa ad essere come un gioco incapaci di aprirci allaverità. Anche per il narrativo decisiva è l’analisi ricoeriana del “fare sto-ria” e del “raccontare storie”. Sembrerebbero due modalità contrappo-ste: la prima rivolta al reale e al vero, la seconda, di nuovo, rivolta all’e-laborazione immaginifica. Si comprende l’importanza di questa proble-matica per le narrazioni bibliche.

Al termine del nostro ultimo incontro ricordai a Ricoeur un suo arti-colo intitolato: La parola è il mio regno. Chiesi se si riconosceva ancora

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in quella affermazione. Ecco la sua risposta: «Sono stato un uomo dellaparola, attraverso l’insegnamento e posso dire che sono stato un inse-gnante felice e sono stato un uomo di scrittura. Ho scritto lungo tutto ilcorso della mia vita; non so se sia una malattia ma è per me una manie-ra di vivere di cui non posso fare a meno fino ai miei ultimi giorni. Oggidirei: parola e scrittura».

Mi permetto di notare che un grande pensatore come Eric Weil hacontrapposto parola a violenza. Quando si entra nello spazio della paro-la, del discorso le armi restano fuori dalla porta. Forse di questo abbia-mo bisogno oggi per garantire la pace. Ricoeur non risponde ma si vedeche è d’accordo.

Concludo ricordando la motivazione con la quale l’Istituto Paolo VIdi Brescia ha conferito a Paul Ricoeur il Premio internazionale “PaoloVI” per il 2003: «Molti motivi giustificano l’attribuzione del Premio aPaul Ricoeur, il quale è riconosciuto come uno dei più importanti filo-sofi del nostro tempo. La sua ricchissima produzione è testimonianza diun pensatore sempre attento alle tendenze più significative della culturacontemporanea... Caratteristica del suo pensiero è il rapporto istituitofra Bibbia e filosofia, senza che la specificità di quest’ultima sia misco-nosciuta. Ricoeur ci offre l’esempio di un filosofare che trova nella SacraScrittura uno stimolo e la scoperta di problematiche inedite. La sceltadell’Istituto Paolo VI ha voluto onorare, in modo particolare, un filo-sofo e contemporaneamente un uomo di fede impegnato. La sua testi-monianza di grande onestà intellettuale e il suo coraggio nella difesa deivalori umani e cristiani non sono gli ultimi motivi di questa scelta.Bisogna ricordare il contributo di Paul Ricoeur, di confessione riforma-ta, al dialogo ecumenico».

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Ripartire dalla cittàLa politica come luogo di profezia e speranza

a cura di Fabio Mazzocchiopresentazione di Gian Candido De Martin

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Giuseppe Dalla Torre, La città sul monte. Contributo ad una teoria canonistica sulle relazioni fra Chiesa ecomunità politica

Vincenzo Sorrentino, La politica ha ancora un senso? Saggio su Hannah Arendt

Pierpaolo Donati, Pensiero sociale cristiano e società postmoderna

Giorgio Campanini, Politica e società in Antonio Rosmini

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Finito di stampare nel mese di maggio 2006 a cura della So.gra.ro. – Roma

UN CONTRIBUTO DELL’AZIONE CATTOLICA• al cammino di evangelizzazione della comunità cristiana• al dialogo nella città degli uomini• a una elaborazione culturale aperta e rigorosa

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Dialoghiper un progetto culturale cristianamente ispirato