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226 dialoghi Locarno – Anno 45 – Aprile 2013 di riflessione cristiana BIMESTRALE Benvenuto Francesco Le ultime settimane della Quaresi- ma 2013 saranno state, per la storia della Chiesa cattolica, le settimane della sorpresa, della commozione, della gioia e finalmente della speran- za. Papa Benedetto XV, provato dagli anni e da sconfortanti vicende, lascia improvvisamente il «trono di Pietro» e i cardinali nominati da lui o dal suo predecessore scelgono a sorpre- sa un uomo di 76 anni (due anni in meno dell’età di Ratzinger quando fu scelto papa, e già vescovo dimis- sionario!), sudamericano d’origine italiana, non «allevato» in Curia, arcivescovo di una grande città dove frequentava i poveri delle favelas, viveva fuori palazzo e viaggiava sui mezzi pubblici. Il nuovo papa, Jorge Mario Bergoglio, sceglie di chiamar- si Francesco, un nome sorprendente e impegnativo, e si presenta subito in modo «domestico», suscitando simpatia e affetto, non solo secondo i media (pronti a rincorrere ogni no- vità in modo spudorato, dimentichi delle riverenze tributate fino a ieri al grande teologo tedesco…), ma anche tra il popolo, fedeli e turisti che gre- mivano Piazza San Pietro nelle gior- nate delle ormai imminenti vacanze pasquali. Papa Bergoglio è apparso sin dall’i- nizio, e poi nelle settimane successi- ve, con naturale modestia (è il suo modo di vita, educato dai gesuiti: in questo ricorda il cardinale Martini, già suo promotore), con una certa bonomia contadina («Fratelli e so- relle», «Pregate per me», «Buongior- no, Buona Pasqua, Buon pranzo»…) che ha ricordato la semplicità di Papa Giovanni del suo «saluto alla Luna». Dimostrazioni di umanità e di solida- rietà con tutti, a partire dai più biso- gnosi (la lavanda dei piedi ai giovani carcerati, l’abbraccio al disabile la mattina di Pasqua), la rinuncia alle «pompe» (come recita la promes- sa battesimale), fotografato mentre «E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima, prima, vi chiedo un favore: prima che il Vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica; la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me». (dalle prime parole pronunciate da papa Francesco dalla Loggia delle Benedizioni il 13 marzo 2013)

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226 dialoghiLocarno – Anno 45 – Aprile 2013 di riflessione cristiana BIMESTRALE

Benvenuto FrancescoLe ultime settimane della Quaresi-ma 2013 saranno state, per la storia della Chiesa cattolica, le settimane della sorpresa, della commozione, della gioia e finalmente della speran-za. Papa Benedetto XV, provato dagli anni e da sconfortanti vicende, lascia improvvisamente il «trono di Pietro» e i cardinali nominati da lui o dal suo predecessore scelgono a sorpre-sa un uomo di 76 anni (due anni in meno dell’età di Ratzinger quando fu scelto papa, e già vescovo dimis-sionario!), sudamericano d’origine italiana, non «allevato» in Curia, arcivescovo di una grande città dove frequentava i poveri delle favelas, viveva fuori palazzo e viaggiava sui mezzi pubblici. Il nuovo papa, Jorge Mario Bergoglio, sceglie di chiamar-si Francesco, un nome sorprendente e impegnativo, e si presenta subito in modo «domestico», suscitando simpatia e affetto, non solo secondo i media (pronti a rincorrere ogni no-vità in modo spudorato, dimentichi delle riverenze tributate fino a ieri al grande teologo tedesco…), ma anche tra il popolo, fedeli e turisti che gre-mivano Piazza San Pietro nelle gior-nate delle ormai imminenti vacanze pasquali. Papa Bergoglio è apparso sin dall’i-nizio, e poi nelle settimane successi-ve, con naturale modestia (è il suo modo di vita, educato dai gesuiti: in questo ricorda il cardinale Martini, già suo promotore), con una certa bonomia contadina («Fratelli e so-relle», «Pregate per me», «Buongior-no, Buona Pasqua, Buon pranzo»…) che ha ricordato la semplicità di Papa Giovanni del suo «saluto alla Luna». Dimostrazioni di umanità e di solida-rietà con tutti, a partire dai più biso-gnosi (la lavanda dei piedi ai giovani carcerati, l’abbraccio al disabile la mattina di Pasqua), la rinuncia alle «pompe» (come recita la promes-sa battesimale), fotografato mentre

«E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima, prima, vi chiedo un favore: prima che il Vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica; la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me».

(dalle prime parole pronunciate da papa Francesco dalla Loggia delle Benedizioni il 13 marzo 2013)

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paga il conto della pensione, rifiuta le scarpette rosse e l’auto 1 SCV, resta nella Casa di Santa Marta, rifiutan-do le molte stanze dell’appartamento pontificio. Non atteggiamenti improv-visati ma per lui abituali: da arcive-scovo sostituiva i parroci impediti, visitò l’ex vescovo Jeronimo Podesta moribondo (2000) e mantenne rap-porti amichevoli con la vedova Clelia Luco, una cattolica femminista (da Kipa, 20 marzo). Fin qui tutto bene: l’insegnamento è apprezzato da molti semplici cristia-ni (chierici e giornalisti turiferari magari avranno difficoltà a imitar-lo), ma restano scelte personali. Ora cominciano anche per il Papa le cose serie: rispondere alle attese e alle speranze che molti da tutte le parti hanno formulato, dopo la rinuncia di Benedetto, durante le Congregazioni pre-conclave e nei giorni di attesa della fumata bianca e della elezione. Si dice che il nuovo papa sia persona di molte letture: chissà se gli mette-ranno sul comodino gli ultimi «ro-manzi» anticipanti le riforme realiz-zate dai papi del ventunesimo secolo: quello di Adriana Zarri1, quello di Luigi Sandri2 o quello di Paolo Fa-rinella3.Il tema della povertà della Chiesa («una Chiesa povera e per i poveri») domanda più di un «papa povero» e Francesco ha già detto ai giornalisti che la desidera. Non resta quindi che iniziare, senza rivoluzioni impossi-bili (specie in Vaticano e in Italia), con passi decisi e continuati, senza lasciarsi bloccare da ostacoli o da paure (come fu per Paolo VI, che poté solo «tagliare la coda» ai car-dinali e sfoltire la coreografia dei nobili romani). Noi sappiamo che la Chiesa cattolica, in molte parti del mondo, è povera e molti cristiani sono al servizio dei poveri. Ma per l’opinione pubblica la Chiesa appare ricca: per la sontuosità delle cerimo-nie liturgiche (come sono lontani il Cenacolo e il Calvario…), per i pa-lazzi vescovili e i musei vaticani, per le automobili di vescovi e di preti. Una Chiesa che appare ricca è una contro-testimonianza e un ostacolo alla «buona novella annunciata ai poveri» (Lc 4,18). Al Papa sudamericano non può es-sere sconosciuto il «Patto delle cata-combe», sottoscritto da una quaran-tina di padri conciliari insoddisfatti di come il Vaticano II aveva trattato il tema della povertà della Chiesa, il 16 novembre 1965:1) Cercheremo di vivere come vive

ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’a-limentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende (Mt 5,3; 6,33s; 8,20). 2) Rinunciamo per sempre all’ap-parenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ric-che, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni de-vono essere effettivamente evangeli-ci) (Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6: «Né oro né argento»). 3) Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative (Mt 6,19-21; Lc 12,33s). 4) Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostoli-co, al fine di essere, noi, meno ammi-nistratori e più pastori e apostoli (Mt 10,8; At 6,1-7).5) Rifiutiamo di essere chiamati, oral-mente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsigno-re…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre (Mt 20,25-28; 23,6-11; Gv 13,12-15)4.Un tema che il nuovo Papa deve su-bito affrontare è quello della riforma della Curia romana e della maggiore responsabilità da riconoscere (rida-re!) ai Vescovi. Valgano le suggestio-ni del cardinale novantenne Georges Cottier:«Dobbiamo fare attenzione ai segnali che dà la Chiesa. Nel passato, l’auto-rità della Chiesa assumeva i segnali della società politica. Oggi occorre cercare una testimonianza di sempli-cità, di povertà. Ciò può riguardare tanto il linguaggio quanto i vestiti. Ciò non domanda molte discussioni, ma piuttosto una certa sensibilità. Questa esigenza non riguarda forzatamente la persona del papa, ma l’apparato che lo circonda. Occorre continuare sulla strada della semplificazione, iniziata da Paolo VI. Occorrono segni fatti per essere capiti. (…)5».Ridimensionare quindi la Curia e lasciare ai vescovi, o meglio alle Conferenze episcopali nazionali e re-gionali, di affrontare i temi scottanti delle loro comunità, non più affron-tabili a livello mondiale come si pre-tende a Roma. Non possiamo infatti auspicare che il nuovo vescovo di Roma, il quale conosce specialmente il cattolicesimo sudamericano e quel-

lo piemontese dei suoi nonni, possa affrontare i temi che fanno problema nelle diverse parti del mondo, sen-za discussione e decisione lasciata prendere a livello locale. Così, per le Chiese della vecchia e stanca Eu-ropa cristianizzata e da rievangeliz-zare: i temi della secolarizzazione, dell’accettazione della modernità e della laicità (senza relativismo…), del laicato e del presbiterato (il ma-trimonio non è un tabù), delle nuove famiglie (i divorziati risposati), della rivalutazione e accettazione piena della donna (anche con il presbitera-to?): temi e «grane» per le quali da Papa Francesco non ci aspettiamo che comprensione umana, libertà per i nostri vescovi e dialogo con tutti i cristiani adulti.Ma non basta essere poveri e aiu-tare i poveri. Occorre, come mons. Helder Camara, chiedersi: perché ci sono i poveri? In questa direzione Papa Francesco deve confermare le indicazioni dei suoi predecessori, da Giovanni XXIII con la Pacem in terris a Paolo VI con la Populorum progres-sio, a Benedetto XVI con la Caritas in veritate. Come aveva indicato il Con-cilio Vaticano II, oltre cinquant’anni fa con la costituzione pastorale Gau-dium et spes, condannando le «strut-ture di peccato» per cui permangono le ingiustizie locali e mondiali che creano e uccidono i poveri! Osserva p. Giacomo Costa, direttore di «Aggiornamenti sociali», in una prima interpretazione delle inten-zioni del nuovo «vescovo di Roma»: «Per chi occupa un incarico istituzio-nale, la vera sfida non è tanto quella di essere carismatico, ma di rendere carismatica l’istituzione (…) Anche se si tratta di un orizzonte di lungo periodo, alcuni segni che le cose si sono messe in movimento possono già essere colti: anzi alcune dinami-che sembrano procedere a una velo-cità inusuale per la Chiesa»6.

a.l.

NOTE1. A. Zarri, Vita e morte senza miracoli di Ce-lestino VI, Diabasis, Parma, 2008.

2. L. Sandri, Cronache del futuro. Zeffirino e il dramma della sua Chiesa, Gabrielli edito-re, S. Pietro in Cariano, 2008.

3. P. Farinella, Habemus Papam. La leggenda del Papa che abolì il Vaticano, Gabrielli edi-tore, S. Pietro in Cariano, 2008.

4. Il testo completo in «Dialoghi» n. 214 (di-cembre 2010) e ora anche in «Pegaso» del 12 aprile 2013, in www.riviste-ticinesi/ch.

5. «Echo Illustré», marzo 2013

6. «Aggiornamenti sociali», aprile 2013, p. 273.

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Diario del Conclave11 febbraio, Nostra Signora di Lourdes

L’Ansa per prima, e poi altri media, danno la clamorosa notizia: Benedet-to XVI ha annunciato che il 28 feb-braio rinuncerà al trono. Passano po-chi minuti dal flash e sono subissato di decine di chiamate di amici e col-leghi, che mi dicono: «Complimenti, lo avevi previsto già da un anno». È proprio vero: mettendo insieme una serie di fattori, ero giunto alla con-clusione che si sarebbe dimesso, l’ho anche scritto da varie parti. Di più: con Gianni – un amico – a Pasqua del 2012 avevo scommesso che entro l’anno Ratzinger avrebbe rinunziato al trono. Questa sera Gianni mi ha chiamato e, con tono sarcastico, ri-dacchiando: «Hai sbagliato! Avevi predetto che il papa si sarebbe dimes-so entro il 2012». Ho dovuto dargli ragione: nel mio pronostico ho «de-bordato» di un mese e undici giorni, o, se contiamo la data effettiva della rinuncia, di due mesi. Come… pro-feta, me la cavo così così; debbo mi-gliorare!

12 febbraio, S. Eulalia

Per quanto sia abituato al tono acritico di molti quotidiani, rimango sorpreso dal fatto che, salvo rare eccezioni, tut-ti i commenti dei media italiani non solamente lodino il «coraggio» dimo-strato da Benedetto nel dimettersi ma anche applaudano alle scelte portanti del suo pontificato (a mio parere, ma forse sono prevenuto, criticabilissi-me), e riportino pareri di prelati tutti entusiasti. La «papolatria» – denun-ciata durante il Vaticano II dal patriar-ca greco-melkita Maximos IV Saigh – è dura a morire.

13 febbraio, Le Ceneri

Nella cerimonia delle Ceneri, che si svolge nella basilica di san Pietro, il cardinale Angelo Comastri, vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, pone le ceneri sulla testa del pontefice. Mi domando: «Il dimissio-nario Benedetto penserà forse che… sic transit gloria mundi?».

14 febbraio, S. Valentino

In Italia impazza il festival di Sanre-mo; nel mondo gli innamorati sono più innamorati che mai nella festa del loro patrono (ma che c’entri san Valentino con i loro baci non l’ho mai capito). In Vaticano, tra sussurri, silenzi e sguardi significativi, i car-dinali filano la loro tela in vista del conclave.

15 febbraio, Santi Faustino e Giovita

La commissione cardinalizia di vigi-lanza sull’Istituto per le opere di re-ligione ha scelto l’avvocato tedesco Ernst von Freyberg come presidente del Consiglio di sovrintendenza dello IOR. La carica era vacante dal mag-gio 2012, quando lo stesso board aveva tolto la fiducia al suo titolare, Ettore Gotti Tedeschi. Si sa che nella Commissione vi erano profonde lace-razioni tra il presidente della stessa, il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e il cardinale Attilio Nicora, guida dell’Autorità di informazio-ne finanziaria, organismo creato nel 2010 da Benedetto XVI per vigilare sulla «trasparenza» di tutte le opera-zioni economiche e finanziarie degli organismi vaticani, IOR compreso. Domanda: con un papa dimissiona-rio, la scelta di Von Freyberg è un atto dovuto e saggio, o una scelta astuta? Il missionario comboniano p. Alex Zanotelli, con altri, ha espresso profondo rammarico per il fatto che il Freyberg sia un alto dirigente di un’impresa tedesca che fabbrica an-che navi militari.

16 febbraio, S. Giuliana

Oggi il papa dimissionario ha rin-novato, «per un quinquennio», la Commissione cardinalizia dello IOR ma, riproponendo la composizione precedente, ha fatto un’eccezione: al posto di Nicora «subentra» il cardi-nale Domenico Calcagno, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica.

17 febbraio, I Domenica di Quaresima

Che bello – mi sono detto stamane – se papa Ratzinger cogliesse l’anniversa-rio odierno per fare all’Angelus uno specifico, pubblico atto di pentimento «istituzionale» per i roghi accesi, nei secoli passati, dal magistero papale e conciliare! Oggi, infatti, ricorrono i 413 anni da quando, il 17 febbraio del 1600, in Campo de’ Fiori a Roma fu bruciato vivo, per ordine del tribunale dell’Inquisizione, il frate domenicano Giordano Bruno, eccezionale filosofo e teologo. Bruno attende da secoli, in-vano, un papa che gli renda giustizia.

18 febbraio, S. Costanza

Regna il silenzio in Vaticano, dove da ieri sera sono iniziati gli Esercizi spi-rituali, che si concluderanno sabato mattina.

19 febbraio, S. Corrado

Verrà o non verrà al Conclave? La domanda riguarda l’ex arcivescovo di Los Angeles, Roger Mahony, accusa-to di aver «tollerato» preti pedofili – insabbiando le denunce, o semplice-mente spostandoli da una parrocchia all’altra. Negli States gruppi di catto-lici gridano a gran voce che il papa gli tolga la porpora, o comunque gli vieti di partecipare al conclave. A sua dife-sa, lui dice di aver scritto varie volte a Roma, negli anni Ottanta e Novanta (regnava Wojtyla, Ratzinger era pre-fetto della Congregazione per la dot-trina della fede), proprio per chiedere come affrontare i casi dei preti pedofi-li ma di non aver avuto risposte chiare e tempestive. D’altronde, quando nel 1995 il cardinale Hans Groër, arci-vescovo di Vienna, si dimise travolto dall’accusa di avere egli, da giovane prete, abusato di molti giovani, Gio-vanni Paolo II lo convinse a ritirarsi in un monastero ma non gli tolse la porpora. Se allora vi fosse stato un conclave, vi sarebbe entrato un cardi-nale che, da giovane, era stato – come dire – un abusatore?

di Luigi Sandri

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20 febbraio, S. Eleuterio

Sui media mondiali impazza il «toto-papa». Lo Spirito santo faticherebbe ad orientarsi, se vedesse la tv o leg-gesse i giornali.

21 febbraio, S. Eleonora

Festini di omosessuali, ricatti e tor-bide manovre finanziarie: negli anni recentissimi il Vaticano sarebbe sta-to teatro di vicende del genere. Tale – scrivono oggi i media – sarebbe la conclusione delle indagini compiute da tre cardinali, incaricati dal papa di accertare la fondatezza delle accuse fatte balenare dal «corvo» vaticano e, in parte, emergenti dai documenti da lui trafugati. Leggendo, in dicem-bre, la ponderosa relazione – ricca di nomi, fatti, cifre – il pontefice, disgu-stato, avrebbe deciso di dimettersi.

22 febbraio, Cattedra di san Pietro

È praticamente sicuro che Benedetto XVI modificherà, o chiarirà, la costi-tuzione apostolica sul conclave, quel-la vigente varata da papa Wojtyla, come oggi, nel 1996. E interverrà per dire se e come la congregazione ge-nerale dei cardinali potrà decidere di anticipare l’inizio del conclave, che, di per sé, non potrebbe cominciare prima del 15 marzo.

23 febbraio, San Policarpo

Sostiene Bertone – in un comunicato odierno della Segreteria di Stato – che i media cercano di «condizionare» il conclave, pubblicando «notizie spes-so non verificate, o non verificabili, o addirittura false, anche con grave danno di persone e istituzioni». Cer-tamente, talora alcuni media lanciano irresponsabilmente accuse infondate a uomini di Chiesa. Ma non sa, Emi-nenza, che è gran parte merito dei media se gravissimi fatti di pedofilia implicanti chierici sono stati scoper-chiati, permettendo alla stessa Santa Sede – che nel passato accettava la scelta di insabbiare tali scandali – di iniziare a fare chiarezza?

24 febbraio, II domenica di Quaresima

Concluso il discorso all’Angelus, Benedetto saluta la folla convenuta in

Piazza san Pietro, con il suo abitua-le «Buona domenica». Come se non fosse la sua ultima, da papa. Tutto normale, tutto surreale.

25 febbraio, Sant’Adelmo

Al briefing nella sala stampa vatica-na, p. Lombardi suda le sette camicie per dribblare le insistenti domande a proposito delle dimissioni, accolte oggi dal papa, del cardinale Keith O’Brien da arcivescovo di Edimbur-go. La stranezza sta nel fatto che il porporato compie i 75 anni il prossi-mo 17 marzo: perché, dunque, questo frettoloso anticipo? La risposta giun-ge dallo stesso cardinale: non parteci-perà al conclave perché – sembra – lo stesso pontefice lo avrebbe pregato di non venire, per evitare una situazione imbarazzantissima. Tre sacerdoti in-glesi accusano O’Brien di aver avuto con loro rapporti «impropri», accusa che il porporato non ha saputo smen-tire in modo convincente.

26 febbraio, San Faustiniano

Risolto un grande enigma: con quale nome chiamare, dopo il 28 febbraio, colui che ancora per due giorni è pon-tefice? P. Lombardi dà finalmente una risposta alle molte domande dei gior-nalisti: Joseph Ratzinger continue-rà ad essere «Sua Santità Benedetto XVI» e si potrà chiamare «Papa eme-rito o Romano Pontefice emerito». Inoltre, «vestirà l’abito talare bianco semplice, e non porterà più le scarpe rosse».

27 febbraio, San Leandro

Grande folla all’ultima udienza ge-nerale di papa Benedetto. Per quanto tutti sappiano che se ne andrà, i più si comportano come se dovessero ve-dere Ratzinger ancora papa. La forza dell’abitudine.

28 febbraio, San Romano

Vedendo, alle 17.07, un bianco elicot-tero levarsi dall’eliporto vaticano per

Chi è Luigi SandriAi nostri lettori la firma di Luigi Sandri dovrebbe essere familiare. Ma non tutti sanno chi è il «vatica-nista» cui anche la Radio e la Televi-sione della Svizzera italiana hanno fatto ricorso nei giorni «caldi» della rinunzia di Papa Bene-detto e dell’elezione di Papa Francesco. Tren-tino, nato nel 1939, è appartenuto fino al 1974 a una congregazione religiosa – i Dehoniani fondati da un prete fran-cese assai impegnato nel sociale, vissuto tra il 1843 e il 1925 – che a Bologna edita, tra mes-sali e libri di teologia, anche un periodico d’informazione religiosa («Il Regno»), di cui San-dri appunto era redattore. Sandri venne a Lugano alla fine degli anni Sessanta per parlare del Concilio, e per il «Corriere del Ticino» riferì sui primi sinodi dei vescovi. Critico verso il papato di Paolo VI, sostenne da militante l’esperienza, contrasta-ta dalla Curia romana, di dom Gio-vanni Franzoni, abate di San Paolo

fuori le Mura, poi si inserì nella co-munità di base che nacque da quella vicenda e quando in Italia si votò sul referendum se abrogare o no la leg-ge sul divorzio difese apertamente, insieme ad altri preti le ragioni del

«no», mentre i vesco-vi sostenevano il «sì». Fu espulso dalla sua congregazione e Guido Locarnini gli offrì uno stage al «Corriere del Ticino» che permise a Sandri di concorrere all’agenzia giornalistica Ansa, dalla quale venne assunto e successiva-mente promosso a in-carichi di sempre mag-

giore responsabilità, fino a lavorare all’ufficio di Mosca e a diventare corrispondente da Tel Aviv per la stessa agenzia. È autore di libri, tra cui il curioso «Cronache del futu-ro. Zeffirino e il dramma della sua Chiesa» (Gabrielli editore, Verona 2008), in cui con la fantasia precor-re il caso di un papa dimissionario, volume recensito in «Dialoghi» n. 209 (dicembre 2009).

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portare a Castel Gandolfo colui che tre ore più tardi, alle 20.00, non sa-rebbe stato più papa, mi è parso che la tecnica moderna faccia fatica a ren-dere giustizia alle emozioni. Un papa va alle dimissioni, ma sembrava che andasse in vacanza.

1 marzo, Sant’Albino

È cominciata di fatto (de jure già ieri sera) la sede vacante. Ma le congre-gazioni generali – le riunioni di tutti i cardinali per gestire il pre-conclave – inizieranno solo lunedì 4. Non c’è fretta.

2 marzo, San Prospero

Ratzinger sembra lontanissimo. In-fatti, la domanda che tutti i passanti, turisti e curiosi, fanno a noi giornali-sti, non è «Come sta Benedetto?», ma «Chi sarà il prossimo papa?».

3 marzo, III domenica di Quaresima

I venditori di souvenir nei dintorni di piazza san Pietro si lamentano di ave-re – invendute – molte immaginette, cartoline, medaglie raffiguranti Bene-detto XVI. Sperano di rifarsi con il nuovo papa.

4 marzo, San Casimiro

Finalmente, sotto la presidenza del cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, sono iniziate le congregazioni generali. Da qualche mezza parola di alcuni porporati (gli statunitensi organizzano conferenze-stampa nella sede del collegio ameri-cano del Nord), si intuisce che molti vogliono vederci chiaro nelle vicenda del Vatileaks e dello IOR. Ci riusci-ranno?

5 marzo, Sant’Adriano

Nelle librerie di Via della Concilia-zione è ancora in vendita un libro di memorie dell’ex arcivescovo di Bo-logna, cardinale Giacomo Biffi. Nel volume egli riporta, integralmente, l’intervento che fece nella congrega-zione generale del 15 aprile 2005, in vista del conclave dal quale sarebbe uscito papa Ratzinger. Nella consueta conferenza stampa di queste giornate, domando a p. Federico Lombardi, di-

rettore della Sala stampa della Santa Sede, se il porporato, con la sua pub-blicazione, non abbia violato il giura-mento fatto di mantenere il più asso-luto segreto. Risposta: «Non sono il giudice dei cardinali».

6 marzo, Santa Coletta

Impazzano sui media le ipotesi sui «papabili». Tra essi, quotatissimi Scola (Milano), il canadese Ouellet (Curia), il brasiliano Scherer (São Paulo). Tre «conservatori» – se è lecita questa schematizzazione – e dunque spero che la «fumata» sia nera.

7 marzo, Santa Felicita

«Lo dico subito: anche oggi non hanno deciso la data del conclave». Siccome ogni giorno le domande dei giornalisti vertevano su questo tema, il simpatico padre Lombardi ci pre-viene, per evitare inutili ripetizioni.

8 marzo, San Giovanni di Dio

Che tempismo! Oggi p. Lombardi ci rivela che i cardinali hanno parla-to anche del ruolo della donna nella Chiesa. Infatti, spiega, si sono ricor-dati che oggi è la «festa della donna». Auguri! Grazie. Ma fa malinconia vedere, nel terzo millennio, che solo un gruppo di anziani (età media 71 anni), e tutti maschi, elegge il vesco-vo di Roma, il quale, nei primi secoli della Chiesa, era scelto dall’intera comunità cristiana, donne e uomini. La tanto invocata, da Wojtyla e da Ratzinger, «tradizione», conta solo quando supporta il potere dell’esta-blishment?

9 marzo, Santa Francesca Romana

Insieme a molti altri colleghi, oggi ho visitato la Cappella Sistina dove i fa-legnami stanno innalzando, con delle assi, l’antico pavimento, per livellare degli scalini pericolosi. Qualche 007 – russo? cinese? statunitense? – ci potrebbe aver messo una cimice di decima generazione, introvabile per i servizi di sicurezza vaticani, e così captare la voce del cardinale scrutato-re che, a partire dal prossimo martedì, leggerà i nomi scritti sulle schede? La trama per un romanzo fanta-teologico è già pronta!

10 marzo, IV Domenica di Quaresima

Come è strana Piazza san Pietro, con la gente che guarda in su, verso la finestra dalla quale il pontefice suo-le affacciarsi per recitare l’Angelus con i fedeli. La finestra, mancando il papa, rimane ermeticamente chiusa, ma la gente aspetta lo stesso… Non si sa mai!

11 marzo, San Costantino re

Avrà, il prossimo pontefice, la forza e il coraggio di abbandonare ogni re-siduo di costantinismo nella Chiesa romana?

12 marzo, San Massimiliano

Solenne apertura del conclave. Chi sarà l’eletto? Scommetterei su un latino-americano (brasiliano?).

13 marzo, San Rodrigo

La fumata tarda a venire: che sia segno che «il papa è fatto»? È proprio così. Finalmente il cardinale protodiacono, Tauran, annuncia l’Habemus papam. È Bergoglio. Ho sbagliato pronosti-co: latino-americano sì, ma argentino e non brasiliano. Ma, finalmente, un uomo del Sud del mondo diventa – precisa l’eletto – «vescovo di Roma»! E con quel bellissimo nome, Fran-cesco, che non potrà essere tradito, pena la perdita di ogni credibilità. Ma attuare l’evangelo sine glossa, come il Poverello d’Assisi, metterà Bergo-glio su una via crucis. Gli daremo una mano, per quanto possibile.

14 marzo, Santa Matilde

Un collega mi fa vedere testi e docu-menti che proverebbero che Bergo-glio, da superiore dei gesuiti in Ar-gentina, durante la dittatura militare (1976-83) avrebbe – il condizionale è d’obbligo – praticamente permesso che due suoi confratelli, molto im-pegnati con la povera gente, fossero presi e torturati. Voglio approfondire la questione; ma, certamente, se esi-stono dubbi fondati, Francesco do-vrà fugarli in modo solare, pena una drammatica crisi di credibilità che lo distruggerebbe.

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15 marzo, Sante Luisa e Lucrezia

P. Lombardi smentisce seccamente il giornalista argentino Horacio Ver-bitsky. Questi, in suo libro di anni fa, aveva accusato Bergoglio di aver pra-ticamente consegnato ai militari due confratelli (Orlando Yorio e France-sco Jalics). Lo scrittore ha ribadito le sue tesi dopo l’elezione di Francesco; Lombardi le contesta, definendole «calunnie di matrice anticlericale».

16 marzo, Sant’Eriberto

Il papa riceve i seimila operatori dei media (giornalisti e tecnici) venuti a Roma da ogni parte del mondo, per seguire il conclave. Ad un certo pun-to sospira: «Oh, come vorrei che la Chiesa fosse povera e a servizio dei poveri!». Meraviglioso programma, che obbligherà Francesco a stroncare le manovre torbide dello Ior, la singo-lare banca vaticana.

17 marzo, IV Domenica di Quaresima

Primo «Angelus» del nuovo vescovo di Roma. Parlando di misericordia, cita il cardinale Walter Kasper, già

presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cri-stiani. Interpreto il fatto come se Fran-cesco volesse fare sua l’ipotesi liberal del porporato tedesco per ammettere alla comunione i divorziati risposati.

18 marzo, San Cirillo

Si rincorrono gli interrogativi: chi sceglierà, Francesco, come segretario di Stato, al posto del chiacchierato Tarcisio Bertone? Anzi: è proprio si-curo che nominerà un Segretario «di Stato»?

19 marzo, San Giuseppe

Nella sua omelia per il suo «Inizio del ministero petrino del vescovo di Roma», Francesco insiste sulla te-nerezza, e poi sulla «custodia» che ognuno deve avere per se stesso, il prossimo, i poveri, la natura. Un esi-gentissimo programma papale.

20 marzo, Santa Alessandra

Unanimi i commenti positivi, a volte perfino commossi, dei rappresentan-ti delle Chiese e comunità ecclesiali

non cattoliche, dell’Ebraismo e delle varie religioni, dopo l’incontro con il nuovo vescovo di Roma.

21 marzo, Santa Benedetta

Inizia la primavera. Vi sarà anche una primavera nella Chiesa romana, dopo l’elezione di Francesco?

28 marzo, Giovedì santo

Papa Francesco lava i piedi (nel rito previsto) ad un gruppo di giovani. La novità è che tra essi vi sono un musul-mano e due donne.

31 marzo, Pasqua di risurrezione

Dopo il discorso dalla loggia della basilica vaticana, Francesco fa gli auguri solo in italiano (Wojtyla e Ratzinger utilizzavano una sessanti-na di lingue). Bergoglio ignora perfi-no il natio spagnolo. È un altro modo per sottolineare che egli è soprattutto «vescovo di Roma»?

Esce in questi giorni il primo libro che tratta

della Svizzera odierna e dei motivi del suo successo

Conoscere la SvizzeraIl segreto del suo successo

di François GarçonPrefazione di Sergio Romano

Formato 12,5 x 21 cm, 344 pp., collana «I Cristalli», Fr. 20.–

Armando Dadò editore, Via Orelli 29, 6601 Locarno, Tel. 091 756 01 20, Fax 091 752 10 26, E-mail: [email protected], www.editore.ch

La Svizzera investe molto nell’insegnamento e nella formazione

Il bilancio dell’insegnamento superiore è di 7 miliardi di franchi per 172’000 studenti iscritti in 40 istituti superiori.

Con qualche preoccupazione per le lingue nazionali, l’inglese prosegue la sua marcia trionfale, come nel resto dell’Europa.

L’italiano si trova costretto a giocare in difesa con le note preoccupazioni per la Svizzera italiana.

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No. 226 7opinioni

Quando mi è giunta la notizia delle dimissioni di Benedetto XVI mi è tornata alla mente un’immagine dise-gnata tanti anni fa da Dino Buzzati per una rivista milanese di cui mi occupa-vo. Mostrava l’interno di un’immensa chiesa, deserta. Fra le colonne della navata, selva inquietante di pietra e di ombre, la figura esile, poco più di un filo d’inchiostro, di un vescovo, … o forse proprio di un papa, le braccia levate al cielo. Il titolo della figura, mi disse Buzzati, era: «Solitudine». Adesso il mio primo sentimento (sen-timento prima ancora che pensiero) davanti alla straordinaria e – per un cattolico – sconvolgente vicenda di Joseph Ratzinger, è di solidarietà.Per otto anni, milioni di persone lo hanno chiamato padre (anzi: padre santo), eppure, secondo quanto an-diamo sapendo, nessuno ha condivi-so come un figlio la sua «scandalosa» drammatica decisione. Egli stesso, del resto, sembrava rifiutare quelle che nella sua veste di tutore severis-simo della dottrina potevano essere considerate tentazioni mondane. Ve-nivano a vederlo grandi folle (turi-sti che amavano effigiarlo come un papa-re in mezzo al rutilante splen-dore delle guardie svizzere, contadi-ni di remoti villaggi dell’Est travolti dall’irripetibile avventura dei pelle-grinaggi low cost, Cavalieri di Co-lombo, suore pigolanti e missionari di vita eroica); lui cercava di acconten-tarli come poteva, ma non riusciva a spezzare la cortina di gelo che lo tene-va lontano dalla storia. Invecchiando, come spesso succede ai vecchi, aveva assunto un aspetto un po’ femminile e le sue scarpette rosse erano diven-tate oggetto di calembours. Talvolta, più che un pastore come Paolo VI o un santo guerriero come Wojtyla, più che un leader, sembrava un intellet-tuale di quelli che vengono definiti con bonario rispetto topi di bibliote-ca. Il suo incedere si sgranava in pic-coli passi anche nei riti liturgici più solenni, sbiadendone la maestosità. l suoi discorsi erano spesso difficili per linguaggio e significato. Lui se ne rendeva conto e, su richiesta dei cerimonieri, cercava di assecondare le richieste dei fedeli: erano usciti così dalle sacrestie di San Pietro i paramenti più preziosi, le mitre più imponenti, i mantelli più suntuosi. E un giornalista irriverente scrisse che sul trono della sua seigneurerie Be-

nedetto XVI somigliava al mitico re Eldorado. Non credo sia stata soltanto mia la sensazione che comunque non riu-scisse a farsi amare, come sincera-mente avrebbe voluto. Ratzinger fa-ceva parte delle élites più esclusive della nostra epoca: grande teologo, grande scrittore e forse anche grande mistico; ma, come la gente delle éli-tes (non soltanto vaticane) suscitava l’impressione che i poveri – anche quando li difendeva con l’esercizio acuminato della ragione e la profon-dità della meditazione – rimanessero per lui delle astrazioni. Per questo li aveva dolorosamente colpiti e fatto colpire quando le loro avanguardie avevano osato leggere il vangelo in maniera inedita, maturando nelle loro lotte per la giustizia una preziosa competenza teologica per la costru-zione del Regno: «Gesù esultò e dis-se: io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (dal Vangelo di Luca). Da questo punto di vista si può dire che Benedetto continuò a gestire con la rigidità del suo predecessore la crisi disastrosa del cattolicesimo latino-americano. L’atteggiamento ondivago a proposito della canoniz-zazione del vescovo Romero ne è un aspetto evidente. Il suo pontificato fu costretto al lo-gorio derivante da fenomeni nuovi o emersi da una più o meno com-piacente oscurità curiale. La pustola della pedofilia, l’impasse del rapporto fra grandi religioni, lo scandalo con-tinuato della presenza dello IOR ac-canto alla tomba di Pietro, la lettura minimalista del Concilio con le con-cessioni ai lefebvriani palesi e occul-ti, le piccole (o grandi?) congiure fra cortigiani hanno imposto a Ratzinger notti insonni e giorni opprimenti. Si può giudicare variamente la risposta che egli ha dato a questi inediti ac-cadimenti. Per quanto mi riguarda, oggi è viva in me l’ammirazione per questo vecchio: con la sua decisione certamente sofferta e coraggiosa si è rifiutato di consentire che il mito dell’onnipotenza pontificia prevales-se ancora una volta sui limiti della persona umana con esiti disastrosi e ha aperto nella storia del nostro tem-po inedite possibilità.

Ettore Masina(da «Koinonia», Pistoia, marzo 2013)

segnalazioni

Fuori dal coro Gli allievi di Angelo Alimonta, de-ceduto a Lugano il 24 maggio 2011, hanno voluto raccogliere e pubblica-re gli scritti apparsi sul quotidiano «la Regione» dal loro maestro, scritti che servono a fare conoscere ad un pubblico più vasto il suo pensiero. Angelo Alimonta, nato a Rovereto nel 1925, studioso di teolo gia e fi-losofia, poi divenuto sacerdote sale-siano e docente in pre stigiosi istituti universitari religiosi, ha vissuto le problematiche ecumeniche del Con-cilio Vaticano II che lo portarono «ad un pro gressivo distacco dall’ortodos-sia cattolica e ad una insopprimi bile necessità di coerenza con la propria coscienza che lo spinsero poi a la-sciare la Chiesa Cattolica e tornare allo stato laicale» (p. 13). Accosta-tosi successivamente ai Valdesi, si trasferì in Svizzera, prima a San Gallo e poi a Lugano, svolgendo con impegno libero da condizionamenti sino alla sua morte il suo com pito di teologo e di insegnante di religione nei corsi per adulti, esprimendo sem-pre con coerenza e linearità le cono-scenze ma turate nel suo complesso «iter» di vita e di studioso. Tra le sue attività vi è stata pure la decennale collabora zione al quotidiano bellin-zonese. La raccolta di scritti costituisce un contributo per cer care di capire ed indagare, con una profonda e libe-ra religiosità, la ricerca della verità, dando fino alla fine della vita una te-stimonianza sofferta e problematica che tenta di trasmettere agli altri, spe-rando che siano o divengano liberi, in quanto solo le persone libere possono credere nella libertà e vivere così le proprie ricerche e il conseguente im-pegno di vita. Senza soffermarci su tutti gli scritti raccolti nel volume e compresi nel titolo «Fuori dal coro», ci sembra di potere dire che questi ar-ticoli non solo si leggono con passio-ne, ma soprattutto sono tali da susci-tare in ogni lettore attento riflessioni critiche che dovrebbero provocare scelte consequenziali.

Pasquale Colella«Il tetto», Napoli, gennaio-aprile 2013

A. Alimonta, Fuori dal coro. Spunti per pen-sare, raccolta di scritti pubblicati su «La Re-gione» tra il 1998 e il 2008, a cura dei suoi allievi, Salvioni, Bellinzona 2012.

la solitudine di Benedetto XVi

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8 No. 226opinioni

Mezzo secolo dalla «Pacem in terris» Novità e attualità di un insegnamento contro ogni guerra

Ricorre quest’anno (3 giugno 1963) il cinquantesimo della morte di Papa Giovanni XXIII (al secolo: Ange-lo Giuseppe Roncalli, nato a Sotto il Monte nel 1881), ricordato spe-cialmente per aver inaspettatamen-te annunciato (il 29 gennaio 1959, pochi mesi dopo la sua elezione a papa avvenuta il 28 ottobre 1958) la convocazione del Concilio Vaticano II, apertosi l’11 ottobre 1962: quasi cento anni dopo l’ultimo concilio, sospeso nel 1870 con l’occupazione italiana di Roma e dopo la proclama-zione dell’infallibilità pontificia (che secondo alcuni avrebbe reso inutile ogni ulteriore concilio!). Ma Papa Giovanni, nel suo breve pontificato (1958-1963) ha inciso nella storia della Chiesa anche con due encicli-che dedicate alla cosiddetta «questio-ne sociale»: la prima, ricordata per le parole iniziali Mater et Magistra, suscitò per la sua novità un interesse e una commozione pari unicamente alla famosa Rerum Novarum di Leone XIII, quella che viene indicata come la prima enciclica sociale; la seconda, nota come Pacem in Terris, una svol-ta nell’insegnamento sociale cattolico per la sua apertura ai temi sociali e politici dell’intera umanità, in un mo-mento particolarmente drammatico della vicenda politica mondiale a cau-sa della cosiddetta «crisi di Cuba» tra Stati Uniti e Russia sovietica, in cui si sfiorò lo scoppio di una terza guerra mondiale, la prima dell’era atomica!L’enciclica esige quindi una partico-lare rivisitazione, mentre del «papa buono» faremo adeguato ricordo nel fascicolo di giugno.

La pace speranza degli uomini

Giovanni XXIII firmò l’11 aprile l’enciclica che iniziava con le parole augurali «Pacem in terris» («La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi…») ed era indi-rizzata, come d’uso, ai dignitari eccle-siastici «aventi pace e comunione con la sede apostolica» e «al clero e ai fe-deli di tutto il mondo», ma si rivolgeva anche «a tutti gli uomini di buona vo-lontà», ai quali il Papa, ormai giunto al termine del suo pontificato, inse-gnava come «la pace fra tutte le genti va fondata sulla verità, sulla giusti-zia, sull’amore, sulla libertà». Dice-

va infatti: «Spetta a tutti gli uomini di buona volontà un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispet-tive Comunità politiche; fra le stesse Comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e Comunità politiche da una parte e dall’altra la Comunità mondiale. Compito nobilis-simo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio».

Tra i «segni dei tempi», papa Roncal-li con ottimismo citava il seguente: «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato».

Il grande cantiere

La pace indicata da papa Roncalli non è però solo quella conseguente al silenzio delle armi (il silenzio delle distruzioni o delle tombe). La Pacem in terris non limitava il suo insegna-mento al tema della pace tra i popoli ma presentava un programma più va-sto e completo, inteso a dare un valido fondamento alla convivenza tra tutti gli uomini. L’enciclica comprende quattro capi-toli principali, cui segue un quinto di «Direttive pastorali». Il primo capi-tolo tratta dei «Rapporti tra gli esseri umani», fondati sulla dignità della persona umana. «In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni es-sere umano è persona, cioè una natu-ra dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono imme-diatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili. (…) Ogni essere umano ha il diritto alla esistenza, all’inte-grità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguar-da l’alimentazione, il vestiario, l’abi-tazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; ed ha quin-

di il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipen-denti dalla sua volontà». Mettendo in rilievo la reciprocità tra diritti e do-veri, il Papa continuava: «Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati quindi per con-vivere e operare gli uni per il bene degli altri. (…) Non basta ad esempio riconoscere e rispettare in ogni essere umano il diritto ai mezzi di sussisten-za: occorre pure che ci si adoperi, secondo le proprie forze, perché ogni essere umano disponga dei mezzi di sussistenza in misura sufficiente». Fondamentale è anche il diritto a par-tecipare alle scelte politiche. Il Papa ricorda: «Dalla dignità della persona scaturisce il diritto di prendere par-te attiva alla vita pubblica e addurre un apporto personale all’attuazione del bene comune. L’uomo, come tale, lungi dall’esser l’oggetto e un ele-mento passivo della vita sociale, ne è invece e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine».

Il bene comune, scopo della politica

Il secondo capitolo tratta dei rappor-ti all’interno della comunità politi-ca, cioè degli Stati. Significative le definizioni del bene comune e del compito dell’autorità pubblica, così riassunte: «Nell’epoca moderna l’at-tuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui com-piti precipui dei poteri pubblici con-sistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e pro-muovere quei diritti; e nel contribu-ire, di conseguenza, a rendere facile l’adempimento dei rispettivi doveri». Con una conseguenza esplicitata (e ripresa da un insegnamento di Pio XII risalente al 1941, nel momento della massima fortuna delle dittature europee) per cui «ogni atto dei poteri pubblici che sia od implichi un misco-noscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la stessa loro ragion d’essere e rimane per ciò stesso destituito di ogni valore giuridico». Detto in altre parole: un ordine statale che va contro i diritti

di Alberto Lepori

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No. 226 9opinioni

della persona non è valido e quindi non va rispettato.Volendo dare fondamento alla pace, la enciclica dedica i due seguen-ti capitoli ai rapporti tra gli Stati e all’organizzazione della comunità mondiale. Dopo aver ricordato l’in-segnamento dei suoi predecessori, per cui «le comunità politiche, le une rispetto alle altre, sono soggette di di-ritti e di doveri, per cui anche i loro rapporti vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà ope-rante, nella libertà», il Papa afferma che «la stessa legge morale che rego-la i rapporti tra i singoli esseri umani regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche». Trattando poi in particolare dei rapporti di solidarietà, Giovanni XXIII insegna (era una no-vità, ancora oggi da molti ignorata!) che «il bene comune (delle singole comunità politiche) va concepito e promosso come una componente del bene comune dell’intera famiglia umana». Viene inoltre affrontato il problema dei profughi, che già allora aveva assunto «proporzioni ampie e che nasconde sempre innumerevoli e acutissime sofferenze» E Giovanni XXIII aggiunge «Non è superfluo ri-cordare che i profughi politici sono persone e che a loro vanno ricono-sciuti tutti i diritti inerenti alla per-sona», e che tra tali diritti «vi è pure quello di inserirsi nella comunità po-litica in cui si ritiene di potersi creare un avvenire per sé e per la propria famiglia». La comunità politica ha il dovere di permettere tale inserimen-to e di favorire l’integrazione: una sollecitazione che non sembra aver convinto molti cristiani svizzeri, a cinquant’anni di distanza. Infatti il di-ritto di cittadinanza e di voto fa parte della dignità umana!

La condanna della guerra

L’insegnamento più originale riguar-da la valutazione della guerra, che ancora durante il Concilio Vaticano II (era in corso il conflitto nel Vietnam, con gli Stati Uniti tragicamente im-pegnati) sarebbe stata oggetto di ac-cese discussioni e di manifestazioni popolari (le vituperate e dimenticate «marce della pace»). Osserva il Papa: «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato. Vero è che sul terreno storico quella persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva

delle armi moderne; ed è alimenta-ta dall’orrore che suscita nell’animo anche il solo pensiero delle distruzio-ni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana; per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era ato-mica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia. Però tra i popoli, purtroppo, spesso regna anco-ra la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose in arma-menti (…). È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e ne-goziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità; e abbia-no pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amo-re: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, ap-portatrice di molti beni».Qui, assieme alla condanna della cor-sa agli armamenti, Giovanni XXIII pronuncia il più esplicito rifiuto, da parte della Chiesa, delle guerre mo-derne: «Riesce quasi impossibile pen-sare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come stru-mento di giustizia», in ciò superando persino la condanna della guerra da parte di Benedetto XV (1917), defi-nita «inutile strage». Da notare che il testo latino è ben più forte dell’i-taliano, perché recita: «Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam ap-tum esse ad violata iura sarcienda»; letteralmente: «per cui nella nostra epoca, che si gloria (sic!) della for-za atomica, è estranea alla ragione essere la guerra adatta a ristabilire i diritti violati». Ossia la guerra è ir-ragionevole, folle: chi usa la guerra per ristabilire il diritto è pertanto uno senza ragione, cioè un pazzo. È quan-to purtroppo ha trovato conferma nei conflitti, più o meno estesi, scoppiati negli ultimi cinquant’anni (Iraq, Ju-goslavia, Somalia, ecc.).

A favore delle Nazioni Unite

Nel capitolo seguente, dedicato all’or-ganizzazione della comunità inter-nazionale, dopo aver constatato che i singoli Stati sono insufficienti per assicurare il bene comune universale, Giovanni XXIII afferma la necessità di una organizzazione politica mon-diale, riconoscendo quale «atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite [è] la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo»,

che nel preambolo «proclama come ideale da perseguire da tutti i popoli e da tutte le nazioni l’effettivo rico-noscimento e rispetto di quei diritti e delle rispettive libertà»; si auspica «pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite – nelle strutture e nei mezzi – si adegui sempre più alla va-stità e nobiltà dei suoi compiti». L’indicazione conserva tutta la sua validità, malgrado le sconfessioni che hanno visto spesso ancora pre-valere gli interessi nazionali: ultimo tragico episodio quello della guerra civile in Siria, dove il veto di Russia e Cina impediscono alle Nazioni Uni-te un intervento risolutore. Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in verita-te (2009) ha riconfermato l’appoggio alle Nazioni Unite, auspicandone la riforma e l’estensione, con un riferi-mento esplicito alla Pacem in terris: «Urge la presenza di una vera Auto-rità politica mondiale, quale è stata tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile autorità dovrebbe essere regolata dal diritto, attenendosi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e solida-rietà, essere ordinata alla realizza-zione del bene comune, impegnarsi alla realizzazione di un autentico svi-luppo umano integrale ispirato ai va-lori della carità nella verità» (n. 67).

Collaborazione tra tutti gli uomini

Per costruire la pace, Giovanni XXIII aveva rivolto la sua enciclica a «tutti gli uomini di buona volontà». Nella parte finale egli giustifica questo in-vito e sollecita la collaborazione dei cattolici con tutti gli uomini, al di là delle ideologie: «Le linee dottrina-li tracciate nel presente Documento scaturiscono o sono suggerite da esi-genze insite nella stessa natura uma-na, e rientrano per lo più nella sfera del diritto naturale. Offrono quindi ai cattolici un vasto campo di incontri e di intese tanto con i cristiani separa-ti da questa Sede Apostolica, quanto con esseri umani non illuminati dalla Fede in Gesù Cristo, nei quali però è presente la luce della ragione ed è pure presente ed operante l’onestà naturale. In tali rapporti i nostri figli siano vigilanti per essere sempre coe-renti con se stessi, per non venire mai a compromessi riguardo alla religio-ne e alla morale. Ma nello stesso tem-po siano e si mostrino animati da spi-rito di comprensione, disinteressati e disposti ad operare lealmente nell’at-tuazione di oggetti che siano di loro natura buoni o riducibili al bene».

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10 No. 226notizie belle e buone

Notizie belle e buoneDoppia conferma. Papa Francesco celebra la messa senza le scarpette rosse e il superiore del distretto sudamerica-no della Fraternità sacerdotale di san Pio X (lefebvriani) trova la cerimonia di una «umiltà umiliante», che «può diventare umiliante per la Chiesa». Due punti a favore di papa Francesco.

Caccia ai criminali. Il Ministero pubblico della Confede-razione ha creato un’unità speciale per perseguire gli auto-ri di crimini di guerra e contro l’umanità, che risiedano in Svizzera o siano di passaggio, essendo la Confederazione firmataria dello Statuto di Roma che ha fondato la Corte penale internazionale. La Svizzera si adegua finalmente a quanto già deciso da molti Stati democratici, col proposito però, a differenza di altri, di fare sul serio!

Quattro nuove donne. Alla ripresa dei lavori parlamenta-ri per la sessione di primavera 2013, quattro donne hanno preso posto nell’emiciclo del Consiglio nazionale, anche se solo una sostituisce un parlamentare maschio. Sono Na-dine Masshardt (socialista bernese, 28 anni), Aline Trede (verde, 30 anni), Claudia Friedl (socialista, san Gallo) e Verena Herzog (udc, Turgovia)

Esercito musicale. Al Concorso eurovisione della can-zone di Malmö (Svezia), la Svizzera è stata rappresentata dalla banda dell’Esercito della Salvezza, composta di sa-lutisti di età tra i 20 e i 94 anni, con grancassa e trombone e alcune chitarre elettriche, ma costretti a cambiare nome e divisa! Suonano per la gloria di Dio e raccolgono offerte per i poveri. Un cristianesimo tradizionale e sempre vivo.

Nostra Signora d’Arabia. Il sultano del Bahrein, Hamad ben Iassa al Khalifa, ha regalato un terreno di novemila metri quadrati ad Awali, nel Sud del Paese, per permettere la costruzione della cattedrale cattolica dedicata alla Ma-donna: «Nostra Signora d’Arabia». I cattolici nel Bahrein sono circa centomila, dispersi in un territorio cinquanta volte più grande della Svizzera e sono in gran parte lavo-ratori immigrati, che usufruiscono della libertà di culto in determinati luoghi. Il vescovo, mons. Ballin, d’origine italiana, è vicario apostolico per gli Stati della penisola arabica.

Una statua in Campidoglio. Rosa Parks, l’eroina dei di-ritti civili, ha ormai una statua di bronzo in Campidoglio a Washington. Nel rifiutare di cedere il posto a un bianco in un autobus, lanciò un movimento che, 381 giorni più tardi, avrebbe portato all’abrogazione delle leggi segre-gazioniste. La statua, 1225 chili, che rappresenta Rosa Parks è la prima statua in grandezza naturale di una donna afroamericana all’interno del Campidoglio. Il presidente Barack Obama ha partecipato all’inaugurazione, il 27 feb-braio scorso, con alcuni membri della Chiesa metodista episcopale africana (Mea), di cui Rosa Parks faceva parte. Un busto del pastore Martin Luther King è invece esposto nella rotonda dal 1986.

Un monumento per Romero. La città di Panama ha de-ciso di dedicare un monumento, inaugurato il 1. novem-bre scorso, alla memoria di mons. Oscar Romero (1917-1980), assassinato 33 anni fa. Erano presenti il ministro degli esteri e l’arcivescovo mons. José Domingo Ulloa. La

tomba di mons. Romero è nella cattedrale di San Salvador, mentre la causa di beatificazione è in corso (in corsa?) a Roma.

Premio Unesco. All’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace 1984, è stato assegnato il Premio Unesco-Bilbao 2012 per la promozione della cul-tura dei diritti umani, quale riconoscimento del ruolo ecce-zionale da lui svolto nella costruzione della nuova Africa del Sud, democratica e interculturale. Desmond Tutu, nato nel 1931 nel Transvaal, è stato vescovo di Lesotho e dal 1978 al 1985 segretario del Consiglio ecumenico sudafri-cano, operando per l’abolizione della segregazione raz-ziale, finalmente ottenuta nel 1991. Dal 1995 presiede la Commissione «Verità e riconciliazione» che, indagando sulle ingiustizie del periodo dell’apartheid, opera effica-cemente per la riconciliazione nazionale.

Premio al dialogo. Monsignor John Onaiyekan, arcive-scovo d’Abuja (Nigeria), ha ricevuto il Premio Pax Chri-sti International per il suo impegno per l’attenzione e il dialogo tra le diverse tradizioni religiose del suo Paese. Mons. Onaiyekan, 68 anni, è stato fatto cardinale da papa Benedetto nel concistoro del 24 novembre scorso.

Riconoscimento singolare. Gabriella Caramore, condut-trice del programma radiofonico di RAI Radiotre «Uomini e profeti», ha ricevuto la laurea honoris causa dalla Facol-tà teologica valdese di Roma in occasione dell’inaugura-zione dell’Anno accademico, il 6 ottobre 2012. Il teologo Paolo Ricca nella laudatio ha evidenziato l’attività radio-fonica svolta con competenza e profondità di analisi, lar-ghezza di vedute e abbracciando l’ampio panorama delle comunità di fede presenti in Italia. È la prima volta che la Facoltà valdese conferisce il riconoscimento a una perso-nalità non protestante.

Una santa «indiana». Papa Benedetto XVI ha proclamato santa Kateri Tekakwitha (1656-1680), prima donna origi-naria dell’America del Nord agli onori degli altari. Ap-parteneva alla comunità indiana del Kahnawake (Canadà), dove viveva.

Per la pace. È stata fondata una «Rete svizzera per l’edu-cazione alla pace», che riunisce una ventina di organizza-zioni impegnate a diffondere una cultura della pace e della non violenza, tra cui il Centro per la non violenza della Svizzera italiana. Un sito Internet informerà delle attività delle diverse organizzazioni su un tema educativo da noi ancora molto trascurato.

Per un reddito minimo. A livello federale è stata promos-sa una iniziativa per inserire nella Costituzione il diritto ad un reddito minimo generalizzato, che garantisca a tutta la popolazione un’esistenza degna, che renda possibile par-tecipare alla vita pubblica. Molti difendono la vita «dal concepimento alla morte naturale»: lo saranno anche per assicurare una vita degna a tutti quelli che già vivono?

Centenario femminile. La Lega delle donne cattoliche, che raggruppa novecento associazioni, ha festeggiato il 12 dicembre il centenario dalla fondazione. La più numerosa e vivace organizzazione cattolica svizzera intende prose-guire la sua «azione di ingerenza in politica e nel settore sociale», riflettendo sulla propria definizione di «cattoli-ca», non sempre peraltro riconosciuta…

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No. 226 11opinioni

Rileggere la storia leggere la politica

Le domande che mi ponete sono tutt’altro che semplici e tuttavia importanti. Cercherò di rispondere come posso, tenendo distinto il ra-gionamento che si deve fare nell’ana-lisi storica da quello che può essere una considerazione sull’attualità po-litica. Mischiare le due cose disin-voltamente è una operazione scien-tificamente scorretta e politicamente improduttiva.

Per capire il rapporto tra De Gasperi e Dossetti, che notoriamente non fu af-fatto idilliaco, ma che contenne anche la reciproca stima delle rispettive sta-ture notevoli, pur non riuscendo mai a capirsi, bisogna tenere conto di due fattori: 1) gli obiettivi che si ponevano e le storie da cui venivano; 2) le cir-costanze storiche in cui si collocò la loro azione.

Gli obiettivi e le loro storie

De Gasperi e Dossetti erano due personalità che si ponevano obietti-vi molto diversi. De Gasperi era un uomo politico nel senso più alto e nobile del termine. La sua etica era, per usare una nota distinzione di Max Weber, quella della responsabilità rispetto alla storia in cui si trova-va immerso. Dossetti era un uomo consacrato, cioè un uomo votato alla tormentata ricerca del senso ultimo delle cose. La sua etica era quella della convinzione. Naturalmente chi conosce bene il pensiero di Weber sa che si tratta di due definizioni avalu-tative, cioè che per lui non esiste il problema se una sia più buona dell’al-tra, men che meno che una sia buo-na e l’altra cattiva. Sono dimensioni che rispondono ciascuna a un daimon particolare, a una missione peculiare che gli uomini notevoli, e ancor più quelli carismatici, si sentono chiamati a compiere.

Dunque De Gasperi era convinto che il suo compito fosse quello di essere il miglior politico, il miglior costruttore della civitas, tenendo conto che si trat-tava di un’operazione che richiedeva tanto realismo e tanta accettazione del

fatto che si lavorava entro limiti dati. Lo faceva da cattolico, così come da cattolico uno avrebbe fatto il medico o l’insegnante se questa fosse stata la sua vocazione. Si doveva responsa-bilmente fare i conti con tutto questo. De Gasperi veniva da una storia par-ticolare: aveva visto crollare i grandi imperi nel contesto dei quali aveva cominciato a fare politica, aveva as-sistito al trionfo delle grandi dittature che avevano facilmente spazzato via le conquiste del costituzionalismo oc-cidentale, aveva anche misurato, per-sino sulla sua pelle, la pochezza degli uomini di fronte alle difficoltà che po-neva un certo contesto. Questo aveva rafforzato in lui sia un sentimento di distacco circa la «debolezza» della natura umana, anche in politica, e rafforzato un atteggiamento da uomo solitario, che gli era connaturale sin dalla giovinezza, come sappiamo da varie testimonianze coeve.

Dossetti aveva un altro obiettivo. Era figlio della crisi degli anni Trenta, quella che si era interrogata sul perché del fallimento del mondo precedente, ma che soprattutto si era chiesta per-ché la Chiesa e i cristiani fossero stati incapaci di essere «sale e lievito» in quei frangenti. Ovviamente egli era anche figlio della rimozione che la cultura postbellica, in Italia sub spe-cie di quella sviluppatasi sotto il fasci-smo, aveva fatto circa l’evoluzione del sistema politico fra Otto e Novecento (mentre De Gasperi era stato coin-volto pienamente in quella storia e la rivendicava in positivo). Dunque per lui c’era solo il versante negativo: un cristianesimo che aveva «tradito» la sua capacità di essere interprete delle radici di una crisi e di conseguenza la necessità di ricostrui re un cristianesi-mo che ora fosse capace di testimo-niare la sua capacità di interpretare il compimento di quella crisi storica. Si aggiunga qui anche il suo agostinismo sostanziale, cioè la considerazione della natura umana irrimediabilmente corrotta dal peccato, emendabile solo per l’azione salvifica di Cristo.

Chi non capisce che questo è stato il daimon di Dossetti per tutta la sua vita, non capirà mai la sua posizio-

di Paolo Pombeni

Il tema del confronto personale e politico fra De Gasperi e Dosset-ti è stato recentemente ripreso e attualizzato nel saggio di Enrico Morando e Giorgio Tonini L’Ita-lia dei democratici. Idee per un manifesto riformista (Marsilio 2012):

«De Gasperi vedeva con favore un governo di coalizione con i partiti liberaldemocratici e so-cialdemocratici, anche come argine anticomunista, efficace proprio perché democratico, laico e socialmente aperto; mentre per il gruppo “dosset-tiano” la Dc avrebbe dovuto da sola, con un governo mono-colore, assumere l’eredità dei governi di unità antifascista. In definitiva, il contrasto tra De Gasperi e i dossettiani aveva al centro la relazione fra ispi-razione cristiana in politica e cultura liberale, con tutte le sue implicazioni».

In occasione del centesimo anni-versario della nascita di Giusep-pe Dossetti (nato il 13 febbraio 1913), l’Associazione Oscar Romero di Trento, editrice della rivista «Il Margine», ha ritenuto opportuno approfondire un pun-to così cruciale e per questo si è rivolta a Paolo Pombeni, che ha recentemente pubblicato il saggio Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristia-no (Il Mulino 2013). In particola-re, a Paolo Pombeni sono state po-ste due questioni, che pareva utile mantenere chiaramente distinte:

1. la ricostruzione storica così schematicamente tratteggiata da Morando e Tonini è atten-dibile? Una simile contrappo-sizione fra le due figure le pare convincente?2. Le pare utile riferirsi a Dos-setti e De Gasperi come mo-delli alternativi del rapporto per l’oggi e per il futuro fra cattolici italiani e politica di centrosinistra?

Di seguito, l’argomentata risposta di cui Paolo Pombeni ha voluto onorare gli amici de «Il Margi-ne», ai quali siamo grati di aver permesso la riproduzione su «Dia-loghi».Il testo permette anche di inter-pretare l’attuale momento politico vissuto dall’Italia.

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ne peculiare. Dossetti entrò in poli-tica perché riteneva che questo fosse un contingente dovere di un uomo consacrato che doveva finalmente testimoniare che la sua fede lo ren-deva più capace di altri di capire la peculiarità del dramma storico in cui era coinvolto l’Occidente. Per lui in quel momento era il contesto politi-co quello in cui si doveva esplicare la «partecipazione» dell’uomo redento alla vicenda del mondo. Continuò a pensarla così e mi permetto di dire che è su questo punto che l’ultimo Dossetti, troppo banalmente ridotto a padre nobile dell’antiberlusconismo, è in assoluta continuità con quello della fase eroica della Resistenza e della Costituente.

Ovviamente io sono uno storico, e non il postulatore della causa di be-atificazione, politica o religiosa che sia, di De Gasperi o di Dossetti. Per me sono entrambe due grandi figure che incarnano due tipologie storiche molto distinte, entrambe molto inte-ressanti per lo studioso di politica ed entrambe capaci di offrire percorsi di riflessione. La politica in quanto capacità di manipolazione benigna del presente, così come la politica in quanto capacità di cogliere le linee di sviluppo sul lungo periodo sono en-trambe dimensioni notevoli dell’agire umano, anche se il vederle combinate in un solo soggetto è rarissimo.

Le circostanze storiche come sfondo delle azioni concrete

Nella valutazione delle contingenze storiche in cui i due si mossero biso-gna poi tenere conto di un fatto: noi sappiamo come sono andate le cose rispetto al progetto risultato vincito-re, non sappiamo però come sareb-bero potute andare se avesse vinto il progetto perdente. Faccio due esempi concreti. Il primo esempio è costituito dallo scontro fra De Gasperi e Dos-setti sul problema se fosse preferibile fondare la gestione della nuova de-mocrazia italiana su una coalizione o sulla egemonia di un solo partito. Lo statista trentino aveva solide ragioni per proporre la sua soluzione: come scrisse, la DC non aveva legittimazio-ne fra le tradizionali classi dirigenti economiche e burocratiche del nostro paese, il cui supporto egli considerava essenziale per rimanere al centro del gioco politico. Solo grazie allo scam-bio tra forza del consenso popolare cattolico e cooptazione al potere delle classi dirigenti tradizionali, ricattate

collo spauracchio «altrimenti arriva-no i comunisti», era possibile impe-dire che la DC perdesse la titolarità primaria del governo. Quell’obiettivo per De Gasperi era essenziale, sia perché riteneva che quello fosse l’o-biettivo per il quale aveva lottato da un secolo il cristianesimo sociale, sia perché riteneva che solo la capacità di una coesione sociale diffusa garantita dal cattolicesimo come cultura an-tropologica generale potesse salvare un Paese devastato da venti anni di dittatura e da una guerra perduta ma-lamente.

Per Dossetti i problemi erano diversi. Innanzitutto egli riteneva che il «nuo-vo» cristianesimo che si era affermato nella crisi degli anni Trenta fosse di per sé meglio legittimato del vecchio sistema culturale (che impropriamen-te chiamava liberale, ma tornerò su questo tema) a costruire quel «mondo nuovo» verso cui si orientavano tutte le grandi correnti ideali del periodo. De Gasperi invece guardava a questa prospettiva come a una illusione. In conseguenza di ciò non solo il cristia-nesimo era legittimato a prendere la leadership della «ricostruzione» nel dialogo-confronto con le altre forze del rinnovamento (quel che fece in Costituente), ma doveva guardarsi dallo sciupare quel risultato. Un cri-stianesimo che fosse tornato a essere semplicemente un «elemento d’ordi-ne» per aiutare a ristabilire quel mon-do che lui giudicava perduto sarebbe stato espunto da ogni possibilità di leadership nella grande fase di rina-scita che attendeva il mondo. Per dirla con una famosa immagine di La Pira alla Costituente, bisognava evitare di essere assenti questa volta alla rico-struzione, come si era stati assenti al tempo della svolta attorno alla Rivo-luzione Francese. Di nuovo mi per-metto di rinviare a tutta l’esperienza di Dossetti che arriva fino quasi alla fine degli anni Novanta. Va conside-rato che invece De Gasperi muore nel 1954 e dunque non sappiamo come avrebbe giudicato gli eventi della fase che seguì alla prima stabilizzazione postbellica.

Per Dossetti, l’obiettivo della testi-monianza specifica del cristianesimo nei confronti della grande crisi di passaggio epocale era così importan-te che a lui non interessava sacrificar-gli la conquista della maggioranza elettorale. Dal suo punto di vista era meglio un partito cattolico di mino-ranza, ma capace di essere leader nel

pensiero sull’evoluzione della storia, che una DC al governo, ma al prezzo di un annacquamento della peculiari-tà del cristianesimo come religione di una rivelazione sul senso e significato della Storia. Di fronte all’alternativa fra un sistema in cui governa il partito che ha la maggioranza per governare (come succede in molti Paesi) da una parte e dall’altra il modello in cui per governare non basta il 51%, Dossetti, forzando, riteneva che si potesse ap-plicare il primo, anche se si tratta per la verità di passaggi polemici e non di una compiuta proposta politica (il tema vero era invece che la DC, es-sendo il partito di gran lunga maggio-ritario, non doveva farsi condizionare dagli alleati minori). De Gasperi rite-neva invece che i «numeri» del con-senso non fossero sufficienti e che per un complesso di ragioni fosse neces-sario avere una coalizione anche con i partiti che rappresentavano quelli che, senza avere numeri, avevano però molte quote di potere reale (ag-giungendo che egli voleva sottrarsi al ricatto dell’accusa di avere portato al governo «il Vaticano», per cui aveva bisogno dei partiti «laici» anche per ragioni internazionali).

Nel concreto dell’azione politica si sa che vinse l’impostazione di De Gasperi. L’idea di Dossetti di usa-re la maggioranza relativa della DC per una azione politica svincolata da condizionamenti di alleanze con par-titi minori e poco simpatetici con le sue visioni era integralistica o per-dente? Integralistica no di certo, per-ché almeno oggi si potrà dire che era semplicemente il modello delle de-mocrazie anglosassoni, in cui il par-tito che vince le elezioni governa e lo fa coerentemente col suo program-ma. Certo questo richiederebbe un sistema elettorale non proporzionale, ed è indubbio che su questo punto ci sia una contraddizione perché invece i dossettiani furono proporzionalisti a oltranza. D’altra parte, il propor-zionalismo è in contrasto con questo universo sino a un certo punto, cioè se si considera che il proporzionale impedisce la manipolazione del si-stema a cui obbliga invece la concen-trazione bipolare (è la vecchia tesi, sbagliata, di Duverger). Ai tempi di Dossetti e De Gasperi, nonostante il proporzionale, la DC aveva un peso elettorale di gran lunga superiore a quello di ogni altro partito. In più, all’epoca il proporzionale era nato dall’esigenza che una società forte-mente divisa in subculture sociali (i

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famosi «steccati») venisse fedelmen-te rappresentata a tutela di questa sua articolazione.

Quanto al fatto che la sua proposta sarebbe stata «perdente» non è possi-bile dirlo, perché nessuno può sapere che cosa sarebbe realmente accaduto ove la DC avesse assunto da sola il potere dopo il 18 aprile 1948: soprat-tutto nessuno può sapere come si sa-rebbero potute combinare le infinite variabili che si sarebbero poi dipartite da questa scelta (come avrebbero re-agito gli americani? che cosa avrebbe fatto il Vaticano? come si sarebbero comportati gli altri partiti?, ecc. E si tenga conto che per ognuna di queste variabili si dà un numero ampio di altrettante variabili che dipendono da ciascuna di esse in una catena infinita di combinazioni. Questa è la ragione per cui è impossibile la cosiddetta storia controfattuale).

Lo stesso discorso si deve fare per esempio a proposito della questione della adesione italiana al Patto at-lantico. Non c’è possibilità di dire che una scelta «neutralista» sarebbe stata necessariamente una catastro-fe. L’Austria l’ha fatta (anzi è stata obbligata a farla) e non le è andata male. Esistevano molte perplessità sia da parte della Gran Bretagna che da parte di componenti autorevoli del governo americano a consentire un ingresso italiano nel Patto atlan-tico e in astratto sarebbe stato per-fettamente possibile che si vedesse di buon occhio una Italia che stava fuori dai blocchi (anche alcune com-ponenti vaticane auspicavano questa soluzione).

Ovviamente, questo non significa af-fatto dire che De Gasperi fece la scelta sbagliata. La sua decisione di puntare sull’inserzione dell’Italia nel sistema occidentale portò buoni frutti, perché consentì di approfittare di una rapida rilegittimazione nel consesso interna-zionale, di avere sostegni economici importanti e questo senza pagare pe-gno, come allora molti temevano, di diventare terreno di una futura guerra. Ci fu anche qualche prezzo da paga-re, perché certamente il rallentamen-to della soluzione dell’apertura a si-nistra, essenziale per un rilancio del riformismo italiano, fu dovuto certo all’ottusità vaticana ma anche al rap-porto di parziale dipendenza con gli USA che era venuto instaurandosi (non a caso l’apertura si realizzò con l’avvento di Kennedy).

Stesso discorso va fatto per la questio-ne della politica economica. In quel caso non si può parlare di scelta «li-beral-pluralista» degasperiana contro «statalismo» dossettiano. Il dibattito su una politica «keynesiana» era un dibattito europeo e qui è da registrare piuttosto un ritardo della scienza eco-nomica italiana e un prezzo pesante che i vertici DC pagarono ai «poteri

forti». Per quanto riguarda il modo di gestire la ricostruzione, se affidandosi a una azione di direzione della «mano pubblica» o alle forze del libero mer-cato, nessun Paese ha optato per la se-conda e in definitiva neppure l’Italia. Dai laburisti inglesi in avanti la rico-struzione economica avvenne tramite interventi programmati dello Stato, che semplicemente poterono essere più o meno efficaci. Lo stesso Erhard, in Germania, quando liberalizzò nel 1948, lo fece nell’ambito di quella che si definì «economia sociale di merca-to», nella quale la libertà d’impresa conviveva con una forte politica di in-dirizzo economico. Per questo le pro-spettive economiche dossettiane non erano affatto «rivoluzionarie», mentre era il liberalismo italiano a essere cul-turalmente arretrato, come poi venne riconosciuto (per fare un esempio eclatante: il consigliere economico di Guido Carli governatore della Banca d’Italia – certamente un banchiere «liberale» – era Federico Caffé, l’eco-nomista keynesiano che scriveva sulle «Cronache Sociali» di Dossetti). Ho già avuto modo di scrivere, anche in sedi internazionali, che è abbastanza curioso che i dossettiani, che erano «antiliberali», avessero assunto a loro riferimento Keynes che era un liberale e che apertamente si professava tale. Ciò dipende dal problema peculiare del liberalismo italiano, che fu spes-so, e dopo il 1945 prevalentemente, arretrato e conservatore, rispetto alla tradizione progressista del liberali-smo anglosassone. Si aggiunga che i «poteri forti» italiani dell’epoca erano, come quelli attuali, statalisti a loro modo: non volevano alcuna libe-ralizzazione, ma solo una tutela pub-blica dei loro interessi. Al contrario i dossettiani credevano che non fosse possibile uno sviluppo dell’econo-mia senza «leve» che fossero in mano «pubblica» (cioè non dipendenti, al-meno in teoria, da interessi di parte) e promuovessero quello sviluppo che era necessario per la coesione sociale.

Da questo punto di vista vorrei ag-giungere che né De Gasperi né Dos-setti avevano particolari capacità di analisi economica: per il primo si trattava di operare in vista di uno sviluppo che non portasse in con-flitto con gli equilibri socio-politici, essendo convinto che in quel caso si aprivano le porte all’instabilità e dunque all’antidemocrazia; per il se-condo si trattava di operare in vista dell’utilizzo dello sviluppo nell’ottica della promozione della crescita delle

Punti di riferimentoAlcide De Gasperi, statista italia-no, nato il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino, attualmente in Provincia di Trento, allora territorio au-striaco, morto il 19 agosto 1954 a Selva di Val Gardena. Politi-camente attivo negli ultimi anni dell’Austria-Ungheria imperiale, dopo l’annessione del Trentino all’Italia fu oppositore dichiarato del fascismo, rifugiato in Vatica-no. Fondatore della Democrazia cristiana dopo la Liberazione, fu otto volte presidente del Consiglio italiano, dal 1945 al 1953. È con-siderato uno dei «padri» dell’Eu-ropa unita.

Giuseppe Dossetti, giurista, poli-tico e teologo, nato il 13 febbraio 1913 a Genova, morto il 15 di-cembre 1996 a Monteveglio (Bo). Giurista di formazione, docente di diritto romano e di diritto ca-nonico, partecipò dal 1943 alla Resistenza alla testa di un circolo di cattolici. Eletto alla Costituen-te, parteggiò per la repubblica, fu attivo nella Democrazia cristiana, leader di corrente, oppositore di De Gasperi circa l’alleanza con i partiti del centro liberale. Nel 1956 si ritirò dalla politica, nel 1958 fu ordinato sacerdote, parte-cipò al Concilio come perito per-sonale del card. Lercaro.

Paolo Pombeni, nato il 10 set-tembre 1948, insegna storia com-parata dei sistemi politici europei all’Università di Bologna. Tra i suoi libri, usciti per Il Mulino: «Il gruppo dossettiano e la fonda-zione della democrazia italiana» (1979), «Il primo De Gasperi» (2007), «La ragione e la passio-ne» (2010), «Introduzione alla storia contemporanea» (2012) e «Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristia-no» (2013).

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personalità, un requisito importan-te perché fosse disponibile la libertà necessaria all’individuo per la ricerca della verità.

Certo il problema del rapporto del pensiero cattolico con il liberalismo è una questione ardua. De Gasperi non aveva vocazione di teorico delle dottrine politiche e il suo liberalismo era semplicemente l’accettazione della «modernità politica», cioè del sistema costituzionale dell’Europa evoluta. In gioventù, per dire, era sta-to antiliberale come tutti coloro che si mettevano nel solco del cattolice-simo sociale. Dossetti si professava antiliberale perché a sua volta si era formato nel clima di polemica col li-beralismo che dominava sia la dottri-na cattolica, sia il mondo intellettua-le dell’età del fascismo. Da qui una valutazione più positiva della «eresia comunista» (senza però mai ricono-scere la bontà complessiva e men che meno la superiorità di quella dottri-na). Però, se guardiamo a come è co-struita la Costituzione italiana, grazie anche all’apporto fondamentale di Dossetti e dei suoi, vedremo che, a dispetto di tutte le prese di posizione antiliberali, essa è, per tutti gli istituti fondamentali, una Carta che assoluta-mente si muove nel solco del liberali-smo progressista.

Dal punto di vista dello storico, e del-lo storico comparatista quale io sono, la contrapposizione fra De Gasperi e Dossetti è una declinazione italiana (con tutte le peculiarità del caso) di un confronto più generale che si svolse in tutta l’Europa occidentale demo-cratica sul tipo di «ricostruzione» che era da operare dopo la crisi dei sistemi costituzional-liberali classici (in Italia più grave per la debolezza del liberalismo italiano e per la sua virata conservatrice). Ci furono del-le complementarità oggettive fra le azioni delle due figure: De Gasperi non sarebbe stato capace di operare come fece Dossetti nell’ambito di una Costituente che ci ha dato una gran-de Carta fondamentale; Dossetti non aveva il talento tipico di De Gasperi per costruire una stabilizzazione po-litica che fu capace, evitando anche i rischi non teorici di una quasi guerra civile, di edificare le basi per l’ingres-so dell’Italia in una autentica fase di rinascita e di inserzione nel trend sto-rico dell’Occidente.

Non dico questo per offrire una con-clusione irenistica, che non solo non

appartiene al lavoro dello storico, ma che è il contrario di quello che è il suo compito come scienziato. Lo dico perché dobbiamo capire e collocare i fenomeni.

La questione dell’eredità

Vengo così alla domanda che mi è posta, oggi, ma già tante volte, sul-la eredità di queste figure e di queste storie per l’attuale azione dei cattoli-ci in politica. Sono abbastanza vec-chio per averne viste di tutti i colori in questo campo: sia De Gasperi che Dossetti sono stati usati e abusati per condannarli o esaltarli a seconda del-le convenienze di chi compiva le va-rie operazioni e soprattutto sono stati manipolati per tirare l’acqua ai più diversi mulini.

Mi viene immediatamente da dire che la storia può dare qualche buo-no spunto per l’azione presente se si evita sia di volerla ripetere, reindos-sando le casacche del passato, sia di strumentalizzarla a livello interpreta-tivo estrapolando parole e immagini dai loro contesti.

Dunque oggi la prima cosa che sa-rebbe opportuno mettere in chiaro è che il contesto in cui si mossero sia De Gasperi che Dossetti non esiste più: non c’è nessun «mondo catto-lico» come esisteva allora, non ci sono più quei contesti internazionali, non c’è più la società di allora con le sue economie e i suoi sistemi di re-lazione (e anche i suoi steccati sub culturali), non ci sono più i canali di comunicazione culturale che esi-stevano allora. Se si vuole imparare dal realismo di De Gasperi e dalla grande capacità di visione di Dossetti almeno questo dato andrebbe tenuto presente. Dunque la prima virtù che i cattolici che intendono spendersi in politica dovrebbero imparare è la ca-pacità di realizzare che siamo in una complicata situazione di transizione storica: un dato che entrambi i nostri «eroi» ebbero, ciascuno a suo modo, ben presente. Però non si tratta più di «quella» transizione, ma di un feno-meno con caratteristiche inedite.

Il secondo punto interessante mi pare quello del ripresentarsi della proble-matica circa il rapporto che deve esi-stere fra «governo» e «partito», cosa che fu uno dei nodi più impegnativi del confronto fra i due. La questione va però tradotta nei termini odierni. C’è ancora una tendenza a conside-

rare che, come in fondo riteneva De Gasperi, la politica si debba concen-trare nell’azione di gestione, certo non banale, delle coordinate presen-ti, azione che deve essere nelle mani di chi ha le competenze e le strutture burocratiche di supporto per gestirle. Oggi si tende a chiamarli «tecnici», De Gasperi li avrebbe chiamati poli-tici di professione (nel senso alto del termine). Sul versante opposto c’è ancora una, seppur sparuta, schiera di intellettuali che credono che la politi-ca sia una costruzione complessa che necessita di luoghi di formazione del-la visione storica e di continua analisi prospettica di quello che ci troviamo davanti. Non possiamo più chiamare questi luoghi «partiti» nel senso in cui si usava il termine da Dossetti, perché gli attuali partiti a tutto somigliano meno che a quei luoghi di passione e militanza vera in cui si formò il dos-settismo. Tuttavia anche di questo ci sarebbe gran bisogno oggi, perché non si gestisce una grande transizio-ne storica che ci porterà a un mondo in cui ben poco sarà come è stato pri-ma, senza quei luoghi di elaborazione e di socializzazione delle idee. Aver lasciato questo compito ai talk show televisivi e al loro populismo è uno dei segni della decadenza presente.

Quel che infine si potrebbe imparare da De Gasperi e Dossetti è il rigore che ciascuno deve avere nell’essere fedele al proprio daimon. Perché cia-scuno, anche la persona più modesta, ne ha uno, al quale è necessario es-sere fedeli nella buona e nella cattiva sorte.

È questa fedeltà che fa sgorgare quel dono che in politica è la creatività del-le idee e delle azioni e la forza neces-saria per comunicarle e per costruire intorno a esse non solo consenso, ma anche disponibilità a lavorare sodo perché diano frutto.

Non consideratelo un finale da predi-ca. Io sono solo un povero storico di provincia e non ho messaggi da pro-clamare, ma credo fermamente che avesse ragione il vecchio Foscolo: «a egregie cose il forte animo accendon l’urne dei forti». Il modo in cui questo avviene è in sostanza misterioso. Non sprechiamolo in strumentalizzazioni per portare a casa qualche cosuccia domani mattina; cerchiamo di metter-lo a frutto per preparare alle giovani generazioni un futuro meno amaro di quello che esse si aspettano di avere davanti.

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Perché lo stallo politico in italiaPD, il partito senza le due culture

Quale Partito Democratico è preci-pitato nella Caporetto delle elezioni presidenziali? Questa domanda sup-pone che di Partito Democratico pos-sa essercene un altro. Il partito che ha subito la rotta di Montecitorio è quel-lo che, pur essendo passato attraverso diverse metamorfosi e diversi fonda-tori e dirigenti, potremmo identificare come il partito veltroniano. Esso deri-va da due vizi di origine, uno ideolo-gico, l’altro politico.Quello ideologico è consistito nella pretesa di unire due culture, quella comunista e quella cattolica, negan-dole tutte e due. L’incontro tra cultu-ra comunista e cultura cattolica era passato attraverso diverse tappe, tutte di rilevante spessore. La prima era stata la Pacem in terris di Giovanni XXIII, che attraverso la distinzione tra l’errore e l’errante aveva dato le-gittimità al dialogo. La seconda era stata il confronto, condotto ai mas-simi livelli ecclesiastici, tra l’antro-pologia marxista e quella cristiana nei famosi incontri internazionali della Paulus Gesellschaft. La terza era stata quando Berlinguer, nel suo lungo viaggio verso l’incontro con la DC e altri partiti anticomunisti, a chi gli chiedeva in che cosa consi-stesse per lui una società socialista in Italia, affermava che essa sarebbe consistita in una piena attuazione della Costituzione repubblicana. La quarta fu quando Moro, nel suo di-scorso di Bari, sviluppando la «stra-tegia dell’attenzione», disse che si doveva andare a vedere in che cosa consistessero gli «elementi di socia-lismo» che il PCI voleva introdurre nella struttura sociale ed economi-ca italiana. Ci si fermò con l’assas-sinio di Moro. Poi, quando cadde il famoso Muro i dirigenti comunisti soppressero il problema annunciando sull’Unità a tutta pagina «la fine del comunismo», sciolsero il Partito co-munista e, uscendo dalla storica lotta tra capitalismo e socialismo, cercaro-no di passare dal campo dei vinti a quello dei vincitori.Il rapporto tra cultura comunista e cultura cattolica giunse col partito postcomunista a una sua terza fase storica. La prima era stata quella dell’aut-aut, o noi o loro, culmina-ta con la scomunica e le elezioni del 1948. La seconda era stata quel-

la dell’et-et, noi e loro: il tentativo di disegnare una società dove fosse possibile la convivenza e lo sfor-zo congiunto di entrambi, anche se diversi: il compromesso non banal-mente chiamato «storico». La terza, quella della «Cosa», in cui andò a infilarsi l’ex partito comunista fino al Lingotto e alle più recenti ester-nazioni veltroniane, è stata la fase del né-né, né cultura comunista né cultura cattolica, in quanto consi-derate ideologie del Novecento e perciò obsolete, tra l’altro con un abbaglio storiografico quasi incon-cepibile.

Il PD doveva quindi unire nomen-clature e popolo di provenienza co-munista e cattolica, ma senza la loro cultura e quindi senza l’elaborazio-ne dell’incontro. Questo rendeva la presenza degli esponenti cattolici ai vertici del partito, benché molto significativa sul piano politico (ba-sti pensare alla riforma sanitaria di Rosi Bindi), non significante sul pia-no della loro identità più profonda e separata dal problema di un innesto, laico e pubblico, dei valori evangelici nella politica. Fu questa la causa di una reciproca estraneità che si creò tra il Partito Democratico e le com-ponenti più vive del cristianesimo italiano, con le sue enormi ricchezze di dedizione al servizio comunitario e di volontariato. Nel contempo l’iden-tità cattolica in politica veniva dalla Chiesa italiana spinta sulle secche dei «valori non negoziabili», mentre si faceva viva nel partito attraverso la fugace apparizione di qualche per-sonalità intransigente del genere dei «flagellanti». Il Partito Democratico, da parte sua, restava senza cultura politica né avrebbe potuto inventarla, e dunque restava privo di un retro-terra ideale e motivazionale che gli permettesse di garantire la sua unità pur nella tempesta delle lotte interne e delle divisioni politiche.Il secondo vizio, quello politico, anch’esso però derivante da un’aste-nia culturale, è quello della pretesa indistinzione tra partito e società. Privo di una cultura propria, il PD ha creduto di poter assorbire e rappre-sentare tutte le culture. Di qui è ve-

nuta l’assurda linea della cosiddetta vocazione maggioritaria, come se un solo partito potesse farsi espressione delle idee, dei bisogni, delle speranze e delle angosce di tutta la società, ciò che peraltro la democrazia non pre-vede e anzi esclude. Conseguenza di questa ignoranza del limite tra partito e società sono state le primarie per la conquista della stessa segreteria del partito. Ciò portava a spersonalizza-re il partito e a lasciare che fossero gli estranei, e perfino gli avversari, a determinarne la leadership e le sor-ti. Conosco personalmente elettori di Forza Nuova e del PDL che hanno votato per Renzi.Naturalmente tutto ciò non vuol dire che il Partito Democratico sia finito, come tutta la destra proclama e desi-dera. Però per salvarlo occorre pen-sare e fare esattamente l’opposto di ciò che finora esso è stato; e occorre ripensare radicalmente in che consi-sta, in termini di corrispondenza tra il fine della politica e il soggetto che la fa, la vera moralità della politica.

A Raniero La Valle, i cui commenti brevi e penetranti «Dialoghi» si ono-ra di pubblicare spesso nelle proprie pagine, la redazione ha mandato gli auguri in occasione della sua recen-te malattia. La risposta di La Valle è arrivata a stretto giro di posta: «Caro Morresi, un grazie fervidissimo per il ricordo e per l’augurio. Un saluto cordiale e un augurio di buon lavoro e di comunione a tutto il comitato dei «Dialoghi» della Svizzera». Rinno-viamo gli auguri!

Confermato il Concordato. Il Con-siglio costituzionale francese ha re-spinto l’istanza dell’Associazione per la promozione e l’espansione del-la laicità» (Appel), che chiedeva che fosse posta fine alla discriminazione consistente nel finanziare in Alsazia e Lorena, con il denaro delle tasse, il clero lutero-riformato. Richiesta che avrebbe pregiudicato anche il clero cattolico ed ebraico, che usufrui-sce degli stessi privilegi, risalenti al Concordato stipulato da Napoleone e mantenuto anche quando Alsazia e Lorena furono annessi alla Germania nel 1870 e poi tornarono alla Francia dopo il 1918.

di Raniero La Valle

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16 No. 226cronaca internazionale

CRonaCa inteRnazionalea cura di alberto lepori

Elezioni romane. Per scegliere il responsabile di oltre un miliardo di cattolici hanno votato 115 uomini (maschi!) aventi l’età media di 72 anni e nominati sovranamente dai precedenti responsabili. La Scrittu-ra dice che «ogni autorità viene da Dio» e insegna «che Dio ha bisogno degli uomini». Al di là dei risultati («Dio sa scrivere diritto anche su ri-ghe storte…»), tra le riforme urgenti nella Chiesa cattolica c’è anche quel-la degli organismi competenti per le scelte dei responsabili. Per la scelta dei futuri papi si propone il collegio dei presidenti delle Conferenze dei vescovi e dei superiori degli ordini e congregazioni religiose (donne com-prese!). Un gruppo di cattolici geno-vesi ha scritto una lettera al loro car-dinale, Angelo Bagnasco, ricordando che la Lumen gentium (IV) afferma che i laici «hanno la facoltà, anzi ta-lora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa», chiedendo un in-contro affinché il loro vescovo potes-se «partecipare al Conclave da vero rappresentante della Chiesa che è in Genova», e così «la comunità po-trà seguire questo passaggio storico sentendosi partecipe e responsabile insieme al suo Vescovo» (il testo in ADISTA, 9 marzo). Non risulta che i cattolici genovesi siano stati interpel-lati, ma certamente sono soddisfatti della scelta del nuovo Papa France-sco, al quale magari è mancato il voto di Bagnasco, presidente della Confe-renza dei vescovi italiani, autrice del-la episcopale gaffe…scolastica!

A favore di tutti. È morto il 17 gen-naio scorso a Colombo, nello Sri Lan-ka, una delle voci più autorevoli della teologia della liberazione asiatica: p. Tissa Balasuriya, 89 anni, religioso degli Oblati di Maria Immacolata, pioniere del dialogo interreligioso e dell’integrazione fra le religioni, e contro una teologia cristologica esclusivista, che non ha mancato di guadagnargli, soprattutto negli anni ’90, problemi con il Vaticano. Nato il 29 agosto 1924, dopo gli studi li-ceali ed universitari venne nel 1947 mandato a Roma per completare la formazione ed essere ordinato sacer-dote (1953). Tornato in Sri Lanka, Balasuriya insegnò teologia ed eco-nomia all’Aquinas University Colle-

ge di Colombo, poi fondò il Center for Society and Religion per rendere accessibile il cristianesimo in un con-testo buddista (69%) con forti mino-ranze induiste (15%) e musulmane (8%), mentre i cristiani sono una pic-cola minoranza. Tra i fondatori, nel 1975, dell’Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo, fu ac-cusato di eresia per come interpretava la dottrina del peccato originale, e di insinuare dubbi sulla divinità di Cri-sto, sul suo ruolo di redentore e sui dogmi mariani. Perciò venne prima scomunicato, senza dargli possibilità di spiegarsi, poi riabilitato (caso più unico che raro) grazie alla sua tenace difesa e alla solidarietà di teologi di tutto il mondo. Tra i suoi libri: «Euca-restia e liberazione umana» del 1978 e «Maria e la liberazione umana» del 1990. (Un ampio servizio su «Adi-sta», 2.2.2013, n. 4)

Premiato frei Betto. Il frate domeni-cano e scrittore brasiliano Frei Betto è il vincitore del Premio internazio-nale José Marti 2013 dell’UNESCO per il suo contributo alla giustizia sociale e alla lotta per i diritti uma-ni in America latina e nei Caraibi. Il premio, cinquemila dollari offerti dal governo cubano, fu istituito nel 1994 per compensare le organizzazioni e le singole persone che si fossero distin-te per attività in linea con gli ideali universali di José Marti, intellettua-le, politico ed eroe della liberazione cubana e grande difensore dell’unità dei Paesi dell’America latina e dei Caraibi e della concordia universa-le. Carlos Alberto Libanio Christo, meglio conosciuto come Frei Betto, è nato a Belo Horizonte (Brasile) nel 1944. Autore di più di cinquan-ta libri tradotti in varie lingue (molti anche in italiano), entrò nell’Ordine domenicano a vent’anni, quand’era studente di giornalismo. Durante la dittatura militare brasiliana fu in car-cere due volte: la prima nel 1964 e la seconda dal 1969 al 1973, perché in contatto con l’organizzazione guerri-gliera Azione di Liberazione Nazio-nale (ALN) diretta da Carlos Mari-ghela. Quando riacquistò la libertà, lavorò per cinque anni in una favela della città di Vitoria. Negli anni ’80 fu consulente per le relazioni Chiesa-Stato in vari paesi come il Nicaragua, Cuba, la Cina, l’Unione Sovietica, la

Polonia e la Cecoslovacchia. Nel de-cennio successivo ha fatto parte del Consiglio della Fondazione svedese dei diritti umani. Sostenitore della teologia della Liberazione e militante di movimenti pastorali e sociali, tra il 2003 e il 2004 è stato consigliere particolare del presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva e coordi-natore della Mobilitazione sociale del programma «Fame Zero».

Maggioranza italiana. I nunzi apo-stolici (finché vengono mantenuti a danno della libertà e dell’autorità dei vescovi nazionali) dovrebbero rap-presentare l’universalità della Chiesa cattolica. Ma su 99 nunzi, 48 sono di nazionalità italiana e italiani sono i rappresentati del Papa nei principali Paesi (Stati Uniti, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Polonia, Brasile, Ita-lia e… Svizzera). In passato non han-no mai dato prova di capire molto di democrazia, soprattutto dove il siste-ma democratico entra in conflitto con il diritto canonico!

Preti sposati. Secondo una inchiesta (ma risalente al 2002), nelle Chiese cattoliche di rito orientale ci sareb-bero circa cinquemila preti sposati: in Ucraina il 75%, nella Chiesa ma-ronita il 42%, in quella melchita il 33%, solo il 3% nella Chiesa cattoli-ca armena. Da aggiungere sono i pre-ti anglicani sposati che hanno aderito alla Chiesa cattolica romana perché contrari all’ordinazione delle donne. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano le mogli di quella loro «con-versione»…

Chiese e movimenti. «Nuovi mo-vimenti cristiani in Europa: sfida o opportunità?». Era il tema sul quale dal 4 al 6 febbraio scorsi hanno di-scusso a Varsavia i membri del comi-tato congiunto della Conferenza delle chiese europee (Kek) e del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee). L’incontro ha voluto consi-derare quella che è stata definita una sfida, piuttosto che un’opportunità, posta alle Chiese cristiane di maggio-ranza da nuovi gruppi e movimenti, tra i quali i neo-pentecostali. L’argo-mento è stato affrontato analizzando dati scientifici sulla diffusione e sui motivi che spingono tanti europei ad aderire ai nuovi movimenti cri-stiani. È stato segnalato come molti migranti in Europa non si sentano a loro agio nella corrente maggioritaria delle Chiese europee e trovino inve-ce un ambiente più simile a quello

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che hanno lasciato nel loro Paese in questi nuovi movimenti. Il Comitato congiunto ha quindi individuato nel rinnovamento delle proprie Chiese e nell’evangelizzazione una possibile risposta al mutare del panorama reli-gioso europeo. Il Comitato congiun-to, istituito nel 1972, è l’istanza per il dialogo fra la Kek e il Ccee. Si riunisce di solito annualmente e comprende, oltre alle due presidenze e ai segreta-ri generali dei due organismi, quattro membri della Kek e quattro nominati dal Ccee. La Kek è una comunione di 115 chiese ortodosse, protestanti, anglicane e vecchio-cattoliche di tutti i Paesi europei e di 40 organizzazioni associate. Al Ccee appartengono qua-li membri le 33 conferenze episcopali cattoliche presenti in Europa.

Chiese di Francia. Il Consiglio delle Chiese cristiane in Francia (CECEF) era stato fondato alla fine del 1987: il venticinquesimo è stato l’occasio-ne per dire che la vita ecumenica in Francia è ricca e varia, sia a livello nazionale sia locale. Vi partecipano le Chiese anglicana, armena, cattolica, ortodossa e protestante. In occasione dei primi venti anni della CECEF, dai tre co-presidenti era stata firmata la Carta Ecumenica Europea, che defi-nisce le «linee guida per migliorare la collaborazione tra le Chiese». La Carta non è rimasta lettera morta e il venticinquesimo è l’occasione per ricordare che «molte forme di col-laborazione ecumenica sono già sta-te messe alla prova». I responsabili delle diverse famiglie ecclesiali in Francia si incontrano regolarmente per momenti di discussione sui temi della società francese e la vita delle nostre Chiese. Oltre al dialogo tra cristiani, la CECEF ha contribuito alla creazione della «Conferenza dei responsabili per il culto in Francia» (novembre 2010), che consente una migliore comprensione reciproca tra i responsabili delle diverse religioni: buddisti, cristiani, ebrei e musulmani.

Pratica religiosa in Francia. Una recente inchiesta dell’«Observatoire de la société francaise» sulla pratica religiosa dei francesi ha dato risulta-ti sorprendenti. Dall’inchiesta risulta che la pratica religiosa in Francia è tutt’altro che trascurabile. Il 34% dei francesi ritiene che «vivere secondo i principi della religione è importante». Un francese su cinque (precisamente il 21%) rivendica un primato delle re-gole della religione rispetto a quelle della collettività e ritiene «del tutto

normale che si seguano le regole del-la propria religione prima delle regole della società nella quale si vive»: tra essi sono più numerosi quelli non ap-partenenti a una confessione tradizio-nale (il 58% fra i musulmani di nazio-nalità francese, il 40% fra gli ebrei, il 37% fra i protestanti e il 20% fra i cat-tolici). La secolarizzazione progredi-sce anche in Francia, benché definita «figlia primogenita della Chiesa» a causa del battesimo di re Clodoveo (498). Laicizzata dalla legge del 1905, vi hanno luogo manifestazioni «oceaniche» – da trecentomila a oltre un milione di partecipanti – promosse per opporsi al matrimonio esteso alle coppie gay, che hanno ridato visibilità alla Chiesa cattolica ma prodotto una discutibile alleanza con l’opposizione di destra. Tuttavia, solo il 5-10% dei cattolici è praticante; tra il 1990 e il 2009 il numero annuale dei battesimi è diminuito da 470.000 a 210.000, i preti sono oggi 12.000 contro i 25.000 nel 1997, e la metà di loro ha più di 65 anni; i seminaristi sono 700 (erano oltre mille nel 1997).

Riunione evangelica. Nelle ultime settimane del 2012 si è voltata una pagina per il protestantesimo fran-cese. Il processo di unione tra le due principali Chiese «storiche», la Chie-sa riformata di Francia (ERF) e la Chiesa evangelica luterana di Francia (EELF), si è concluso con la ratifica da parte di ogni parrocchia degli sta-tuti della nuova «Chiesa protestante unita di Francia, Comunione luterana e riformata» (EPUdF). L’inizio del processo di unificazione risale a oltre dieci anni fa, quando la parrocchia di Bourg-la-Reine, alla periferia di Parigi, rivolse un appello all’unità ai sinodi nazionali EELF e ERF. L’ap-pello fu tanto più ascoltato in quanto proveniva da una parrocchia luterana che aveva nelle proprie file molti ri-formati, per cui l’unione era già una realtà quotidiana. I sinodi nazionali luterano e riformato hanno approva-to nel 2007 il principio di una Chiesa unica e nel 2009 quello di strutture nazionali comuni. I protestanti storici francesi sperano, mediante quest’u-nione, di rendere più visibile la loro testimonianza di una fede fondata sulla Bibbia, e un progresso ecume-nico, in attesa che altre denominazio-ni li raggiungano in seno alla Chiesa protestante unita.

Obama e M.-L. King. Durante l’in-sediamento del 21 gennaio scorso, il presidente degli Stati Uniti, Barack

Obama, ha prestato giuramento sulla Bibbia appartenuta a Martin Luther King. Si tratta di una edizione secon-do la famosa King James Bible (dal nome del re Giacomo I d’Inghilterra che nel XVII secolo ne promosse la traduzione), che il pastore battista e Premio Nobel per la pace portava con sé durante i suoi viaggi, fonte di ispirazione per i suoi sermoni e per le sue battaglie a favore dei di ritti civili. La famiglia di King ha fatto sapere di essere «profondamente commossa» dalla decisione del presidente, spe-rando che quella Bibbia possa esse-re per lui «una fonte di ispirazione e di forza nell’iniziare il suo secondo mandato». Nel 2009, per la sua prima elezione, Obama aveva giurato sulla Bibbia appartenuta ad Abramo Lin-coln.

Pluralità. Tra i parlamentari del Congresso americano che hanno pre-stato giuramento lo scorso 3 gennaio vi sono il primo senatore buddista, il primo induista e il primo eletto che ha dichiarato di non essere affilia-to ad alcuna religione. Il Congresso rimane a maggioranza protestante, ma meno fortemente rispetto a cin-quant’anni fa, quando tre quarti degli eletti appartenevano a denominazio-ni tradizionali. Nel governo tedesco è invece aumentata la maggioranza evangelica, con la nomina di Johan-na Wanka, protestante, che succede ad Annette Schavan, cattolica, riti-ratasi in seguito allo scandalo della tesi di dottorato copiata. Il Governo tedesco conta ora nove protestan-ti, compresa la cancelliere Angela Merkel, figlia di un pastore, e cinque cattolici; due ministri non forniscono indicazioni sulla loro appartenenza confessionale.

Un portale protestante. Regardpro-testants.com è un portale che vuole far conoscere i media protestanti già attivi su Internet. Vi si possono sfo-gliare una quarantina di giornali, ra-dio, tv e agenzie stampa. Prevalgono i media protestanti francesi, ma ce ne sono anche di svizzeri come Bonne Nouvelle, il giornale della Chiesa ri-formata del cantone di Vaud, il grup-po Alliance presse e le sue otto pub-blicazioni di obbedienza evangelica, nonché Protestinfo, l’agenzia stampa protestante online della Svizzera ro-manda. In un primo tempo il portale si limiterà all’Europa francofona e si rivolge anche alle persone in ricerca e che non conoscono specialmente il protestantesimo.

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Papa Benedetto XVI, per evangeliz-zare (o rievangelizzare) decide motu proprio un «Anno della fede», in oc-casione del cinquantesimo del Conci-lio Vaticano II e del ventesimo della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica. Per papa Ratzinger, il catechismo serve «per accedere a una conoscenza sistematica dei con-tenuti della fede», ma già per Papa Wojtyla era «una norma sicura per l’insegnamento della fede». Per Gio-vanni XXII, scopo del Vaticano II era presentare in linguaggio aggiornato le verità di sempre: «È necessario che questa dottrina certa ed immutabile […] sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (Discorso di apertura del 12 ottobre 1962). Così, però, la partenza è sbagliata: per la maggior parte dei cattolici che hanno solo un ricordo della «dottrinetta» loro im-partita a scuola o all’oratorio, infatti «fede» significa solamente «concetti» da «credere», e l’accostamento fatto da Papa Benedetto tra gli insegna-menti del Concilio e il testo dottrina-le (788 pagine nell’edizione italiana della Libreria vaticana, 1992 – l’ori-ginale ovviamente è in latino!) con-ferma la comprensione popolare di-storta dell’invito papale a riscoprire la fede come «cose da credere».

Osserva Piero Stefani (biblista alla Facoltà di Milano) «Cosa vi si ce-lebra? I cinquant’anni del Concilio e i venti anni del Catechismo della Chiesa Cattolica presentato come frutto autentico del Vaticano II e quin-di chiave ermeneutica del medesimo (…). Dei due anniversari, Vaticano II e Catechismo, è il secondo a essere, de facto, considerato il più utile. Si afferma infatti che in quel documen-to i contenuti della fede sono esposti in modo sistematico (n. 11). I meno giovani si ricorderanno che un tempo frequentare il catechismo equivaleva ad “andare alla dottrina”. Sembrano ritornati quegli anni. Il motu proprio invita a rileggere non il Concilio ma il Catechismo della Chiesa Cattolica, testo in cui, si sostiene, sono confluiti in una sapiente sintesi Scrittura, Padri e Dottori. Ma la fede per essere tale ha bisogno di contenuti sistematiz-zati? Il Credo – documento ben più venerabile del Catechismo – espo-

ne senza dubbio alcuni dei massimi contenuti della fede, ma non è certo la sola espressione della fede. An-che limitandoci ai contenuti, molte sono le cose che non vi figurano. Per esempio, non vi si parla del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe; non vi compare cioè quello che, da sempre. è presentato come il modo paradigmatico per ri-ferirsi al Dio biblico. Nel Credo non ci si riferisce neppure agli atti e alla predicazione di Gesù. Vano sarebbe trovarvi le Beatitudini, o altre parti del “Discorso della montagna”, vale a dire i brani che, con usurata metafora, sono definiti la “Magna Charta” del cristianesimo» (citato da «Koinonia», Pistoia, novembre 2012).

Eppure la fede è una parola della lin-gua corrente, che anche il popolo usa ancora, con un ben preciso e concreto significato: capita ancora di dire/sen-tire, che qualcuno, «non porta più la fede», per dire in modo gentile che un matrimonio, cioè un impegno, si è rotto. La fede (matrimoniale) è simbolo forte di «fedeltà», ovvero di «fiducia», tra due persone: ecco cosa significa in lingua corrente la fede, e il significato può facilmente essere tra-sferito in campo religioso, a indicare agli uomini di oggi (frastornati in un mondo difficilmente comprensibile e vivibile) che «Dio è fedele», «che merita fiducia». Questa è la lingua (ma anche la realtà) da proporre agli uomini di oggi per tentare la evange-lizzazione, ovvero «la buona novella annunciata ai poveri».

Mons. Grampa, citando il fratello don Giuseppe, insegna che «Credere è atto che coinvolge la persona tutt’intera, le sue facoltà: non mi trovo di fronte ad un’idea che non comprendo e che per questo dovrei appunto credere»; e più oltre aggiunge «Il termine dell’atto di fede non è tanto una dottrina, una mo-rale, ma una persona conosciuta attra-verso una storia, non dentro dogmi o precetti» («Giornale del Popolo», 19 gennaio 2013). Di quale annuncio di fede hanno allora bisogno le donne e gli uomini (e giovani!) del mondo del ventunesimo secolo per essere evangelizzati? Di «conoscenza siste-matica» e «insegnamento», o di altro di più coinvolgente e personale, nella

società della «superinformazione» tutto banalizzante?

L’anno della fede e l’anniversario del Concilio stanno suscitando, in queste settimane e mesi (chi sa se dura…) una serie di conferenze, spesso affida-te a riconosciuti teologi o pretesi tali, mentre il laicato ascolta silenzioso e spesso annoiato. Personalmente fac-cio una proposta modesta e alterna-tiva, «in lingua corrente», da inserire nell’incontro domenicale che oggi ancora raccoglie il maggior numero di cattolici, cioè la Messa (che altro-ve ho già proposto di chiamare in lin-gua corrente la rinnovata «Cena del Signore»; «Dialoghi» n. 221, aprile 2012).

Si tratterebbe di sostituire il «Sim-bolo» (quello che comunemente si chiama «il credo», e così si torna all’equivoco iniziale) con una delle molte nuove versioni che cristiani con intelligenza e fantasia hanno creato, seguendo la riforma liturgica (altro insegnamento per attuare il Concilio, restato solo all’inizio e in fase recessi-va!). Anche il defunto don Palmisano, citato da mons. Grampa («Rivista dio-cesana», 2012, p. 402) aveva pregato: «Mi piacerebbe molto che ogni tanto/ in Chiesa al posto del solito Credo,/ si recitasse un credo casereccio/».

Ne propongo due versioni (una l’ho già proposta in «Dialoghi» 221, pag. 7-8; quella di don Palmisano la tro-vate sulla «Rivista diocesana» che, forse, qualche prete ancora legge…): non un elenco di verità «da credere», ma espressioni di partecipazione, im-plorazione e fiducia (fede!),

Noi non siamo soli, noi viviamo nel mondo di Dio. / Noi crediamo in Dio: /che ha creato e continua a cre-are; /che è venuto in Gesù, la Parola fatta carne, / per riconciliare e rin-novare; /che opera in noi e negli altri /attraverso lo Spirito. Noi abbiamo fiducia in Dio. /Noi siamo chiamati ad essere la Chiesa: /per celebrare la presenza di Dio, /per amare e servire il prossimo, /per ricercare la giustizia e resistere al male, /per proclamare Gesù, crocifisso e risorto, / nostro giudice e nostra speranza. Nella vita, nella morte, nella vita oltre la morte, /Dio è con noi. Noi non siamo soli. / Siano rese grazie a Dio.

(dal Culto evangelico di Santa Cena, 25 luglio 2012,

Sessione SAE di Paderno)

Ma che cosa è questa fede?la si può dire in lingua corrente

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E per chi vuol farla più lunga, ecco un testo cattolico:

«Crediamo in Dio che crea e man-tiene ogni vita, che ci chiama come collaboratori nella guarigione e nella redenzione del mondo.Crediamo che Dio è rivelato in Cristo Gesù come colui che stringe un pat-to con e per l’umanità e ogni forma di vita sulla terra. Noi viviamo nella luce della promessa che Gesù Cristo è venuto affinché tutti abbiano la vita in abbondanza. Crediamo che Dio, nella potenza del-lo Spirito Santo, ci dà le basi per una vita globale che rispetti la creazione, che ricostituisca la comunità umana, che trasformi i singoli, che operi una giusta distribuzione delle risorse, che celebri la vita per tutti. Crediamo che le nazioni e la comu-nità mondiale in ogni tempo sono responsabili davanti a Dio del modo in cui organizzano la casa comune dell’umanità. Gli esseri umani sono chiamati continuamente a scegliere tra il Dio unico e vero e i falsi dei della ricchezza e del potere. Crediamo che nel nostro tempo la Chiesa è particolarmente chiama-ta a prendere le difese di coloro che soffrono e dar voce al grido che si leva dalla terra contro la crescente ingiustizia economica e la crescente distruzione ecologica, affinché scor-ra il diritto come acqua e la giustizia come un torrente perenne. Crediamo che Dio ci chiama a segui-re Gesù Cristo nel portare la buona notizia ai poveri, nel procacciare salute e guarigione per coloro che sono malati, nel proclamare libertà ai prigionieri e pace in un mondo di guerra, nell’abbracciare i rifiutati e gli esclusi, nell’onorare la diversità e nel trattare donne e uomini come aventi parte eguale nella Chiesa e nella società. Crediamo che la comunità locale – popolo di Dio, corpo di Cristo, co-munità dello Spirito – è chiamata ad essere un segno e una testimonianza della missione di Dio in ogni luogo. L’obbedienza è la misura della nostra fede».

(dalla Liturgia ecumenica di apertura della Sessione SAE,

Paderno, 23 luglio 2012)

Così si può proclamare la nostra fede con la lingua corrente degli uomini di oggi, ciò fedeltà, fiducia e speranza nel Dio, uno e trino.

SCRIBA

notiziaRio (in)sosteniBilea cura di Daria lepori

Di cibo gettato. Il WWF ha pubblica-to, pochi giorni prima della Giornata mondiale FAO dell’alimentazione, il 16 ottobre, i risultati di uno studio sul-la quantità di cibo che in Svizzera non finisce nel piatto, ma nella spazzatu-ra. Il rapporto si basa su due lavori di master realizzati uno al Politecnico di Zurigo e l’altro dall’Università di Basilea ed evidenzia che ogni anno due milioni di tonnellate di alimenti ancora perfettamente commestibili sono sprecati in Svizzera. Di questi il 2% è di responsabilità del commercio all’ingrosso; il commercio al dettaglio e la ristorazione vi contribuiscono con un 5% ciascuno, il 12% sono frutta e verdura rimasti nei campi perché di dimensioni non conformi (troppo grandi, piccole o deformi), il 30% ri-cade sull’industria di trasformazione che scarta merci di qualità inferiore. Il ruolo degli spreconi è assunto dal-le economie domestiche, con il 45%! Ogni persona acquista in media 1,5 kg di cibo al giorno, un quinto del quale finisce nella spazzatura. L’organiz-zazione ambientalista invita a fare la spesa in modo più accurato, evitan-do l’improvvisazione. Un piano dei menu settimanali e una lista della spesa redatta con calma, verificando lo stato di riempimento di frigorifero e dispensa, sono le premesse per una gestione più oculata della risorsa cibo. Non sempre ciò che è offerto in «azio-ne» è ciò di cui abbiamo bisogno.

Lo sviluppo… misurato. Sulla scorta di dodici indicatori-chiave, la Svizzera verifica annualmente se il suo sviluppo può dirsi sostenibile. La statistica tascabile da poco pub-blicata, essendo (solo) uno strumento scientifico che riassume dati rigoro-samente misurabili, non dà un giu-dizio definitivo, che lascia alla poli-tica. Rimandando alla pubblicazione ufficiale ([email protected], o 032 713 60 60, numero di ordinazione: 736-1200), limitiamoci ai dati essen-ziali. Chi guadagna di meno spende sempre di più per l’abitazione. Il nu-mero di persone «molto soddisfatte dalla vita» aumenta leggermente, dal 73,5% nel 2008 al 74,6% nel 2009. La quota di persone che praticano un’attività fisica fino a sudare, alme-no una volta la settimana, è aumenta-to; sono però sempre di più le perso-ne in soprappeso: nel 2007 il 37,3%.

Le disparità nella ridistribuzione dei redditi si confermano. Cala il numero delle persone che prestano volonta-riato. È aumentata la quota di aiuto pubblico allo sviluppo ma rimane invariata la quota del reddito nazio-nale destinata all’aiuto pubblico allo sviluppo per i paesi più poveri; dopo essere diminuita, la quota di persone che auspicano un incremento di tale aiuto è aumentata. È ancora impos-sibile raggiungere il tasso auspicato del 5% entro il 2020 del numero di giovani tra i 18 e i 24 anni senza for-mazione post obbligatoria; aumenta la quota dei giovani senza lavoro. I salari delle donne e degli uomini si avvicinano: se nel 1994 la differenza era del 23,7%, nel 2010 era «solo» del 18,4%. I consumatori svizzeri acqui-stano sempre più prodotti biologici. E in Svizzera si producono sempre più… rifiuti: poco meno di 3 milioni di t. nel 1980, 5,5 t. nel 2010. Cresce la percentuale di utilizzo dei trasporti pubblici sul totale del traffico pas-seggeri, diminuiscono le emissioni di CO2 per persone-chilometro per-corso; però diminuisce anche la parte del traffico merci su ferrovia e sempre più persone sono esposte al rumore del traffico: nel 2007 il 32,2% della popolazione. Le importazioni di ener-gia aumentano, come pure la quota di energie rinnovabili rispetto al consu-mo finale, ma rimane impossibile rag-giungere il valore di emissioni di gas a effetto serra indicato negli obiettivi del protocollo di Kyoto. Un dato po-sitivo: l’economia cresce più in fretta delle emissioni di CO2, ma è negativo che l’impronta ecologica della Sviz-zera continui a crescere. Le superfici d’insediamento (umano) aumentano. La qualità del bosco (ossia la quota di superficie boschiva con biotopi di valore medio-alto) è in aumento. E infine (allegria!) la concentrazione di polveri fini nell’aria diminuisce.

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20 No. 226notiziario (in)sostenibile

Daria Lepori

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No. 226 21cronaca svizzera

CRonaCa sVizzeRaa cura di alberto lepori

Mezzi e fine. Un principio mora-le, spesso citato come un proverbio, afferma che il fine non giustifica i mezzi. I mezzi utilizzati in politica da Giuliano Bignasca furono quasi sem-pre ignobili, deplorevoli, inaccettabi-li, ecc.; mentre anche il fine (cioè il messaggio politico) quasi sempre era (ed è) sbagliato o almeno discutibile: disprezzo dello straniero, rifiuto della solidarietà internazionale (ONU, Eu-ropa), irrisione delle regole della poli-tica e degli avversari, ecc. Non riscat-ta la sua politica il successo popolare ottenuto, malgrado le numerose con-danne penali collezionate, anche se in democrazia è il popolo (o meglio, la maggioranza) che decide. Purtroppo, mezzi e fine deplorevoli restano una eredità pesante, non certo cancellata dagli elogi funebri, e che condizione-rà ancora negativamente il costume e le scelte di molti ticinesi.

Vescovi in festa. La Conferenza dei vescovi svizzeri festeggerà il 2 giu-gno ad Einsiedeln il centocinquante-simo anniversario di esistenza (e la trecentesima assemblea!), coinciden-te col centocinquantesimo della co-siddetta «Missione interna», opera di solidarietà tra i cattolici svizzeri. Nel 1863 la Svizzera (cioè lo Stato fede-rale retto dalla costituzione del 1848) era ancora influenzata dalla sconfitta dei cantoni «cattolici» (a seguito della guerra del Sonderbund) e non c’era ancora la diocesi di Lugano. La gior-nata celebrativa di Einsiedeln avrà come tema: «Noi costruiamo assieme la Chiesa: la gioia in Dio è la nostra forza». I cattolici di tutta la Svizzera sono invitati a partecipare: ci auguria-mo che abbiano anche la possibilità di dire che cosa si aspettano dai loro vescovi. Correggendo una prima no-tizia data ai media, sulla «liceità della pillola del giorno dopo in caso di stu-pro» il portavoce Walter Müller si è limitato a spiegare «la dottrina della Chiesa»; il tema risulta infatti ancora allo studio della Commissione di bio-etica della Conferenza. Ma, allora, di quale Chiesa ha parlato? (comunicato APIC del 7 marzo).

Mancano anche i laici. La prossima estate (2013) saranno vacanti, nella parte germanofona della diocesi di Friburgo, sei posti di assistente pasto-rale: laici attivi nelle unità pastorali,

la cui sostituzione incontra difficoltà. Si cercano giovani, maschi o femmi-ne, tra i 20 ed i 35 anni, per un periodo di formazione e lavoro al 50% e per 4 anni di formazione pastorale pres-so l’Istituto di pedagogia religiosa di Lucerna. I posti sono finanziati al 50% dalla Corporazione ecclesiastica cantonale. A quando nella diocesi lu-ganese un’iniziativa similare, invece di «utilizzare» gli studenti di teologia esteri come tappabuchi? All’universi-tà di Friburgo, il 6 marzo, si è svolta una giornata di studi sul futuro dei ministeri laici e ordinati nella Chiesa cattolica. Si è constatato che troppi assistenti pastorali svolgono funzio-ni che richiederebbero l’ordinazione almeno al diaconato. Una soluzione sarebbe quella di aprirsi ai viri pro-bati (cioè conferendo il presbiterato anche a persone coniugate); si do-vrebbe pure cessare di ricorrere agli assistenti pastorali solo quando man-cano i preti…

Nuove pubblicazioni cattoliche. Per compensare la chiusura, avvenuta a fine 2012, del bimensile ufficiale della Chiesa cattolica «Evangile et Mission» delle diocesi romande, è prevista la stampa di un trimestra-le da distribuire gratuitamente agli agenti pastorali e ai volontari impe-gnati nella Chiesa vodese, che serva di informazione e di riflessione. La Chiesa romanda pubblica inoltre una lettera mensile a livello dei vicariati e offre un sito in internet (www.cath.vd). Marc Donzé presiede il comitato redazionale, preti e laici sono invitati a collaborare. Non sono note le mo-dalità di fianziamento e il costo del progetto editoriale. Per la Chiesa del Canton Friburgo si è deciso di crea-re un mensile di 32 pagine, con una versione elettronica e una cartacea (in abbonamento a 30 franchi annui). È previsto un posto di redattore e la corporazione cattolica friburghese ha stanziato per il 2013 un credito di 90.600 franchi e fr. 6000 per le infra-strutture. È offerta la possibilità di partecipare anche ad altre comunità cattoliche romande.

Contributo alla Diocesi di Coira. La «Chiesa cantonale cattolica» del canton Svitto (centomila membri) verserà alla diocesi di Coira l’impor-to di circa 435.000 franchi all’anno

(fr. 3,50 a testa), mentre il contributo dei cattolici alla Chiesa cantonale è fissato in fr. 16,20. In precedenza il contributo alla Diocesi veniva versa-to dalle singole parrocchie e non era obbligatorio.

Iniziative di preti. Trenta rappre-sentanti delle «Iniziative dei preti» di Germania, Austria e Svizzera, in rappresentanza di 1500 agenti pasto-rali, si sono incontrati il 26 gennaio a Monaco, impegnandosi «contro le strutture assolutistiche attuali» e «per i diritti dei cittadini e la trasparenza nella Chiesa cattolica». Hanno pure invitato i vescovi fautori delle rifor-me ad unirsi tra loro. Il gruppo più importante è quello svizzero (che comprende circa 500 preti, diaconi, catechisti ecc.); gli austriaci sono cir-ca 470 e i tedeschi provengono da 9 delle 27 diocesi germaniche. Secondo il portavoce della Diocesi di Mona-co, la Chiesa deve sempre adattarsi al suo tempo, e l’arcidiocesi lo fa con un «Forum per il futuro».

Protestanti si presentano. La Fede-razione delle Chiese protestanti della Svizzera (FCPS) ha pubblicato il pro-prio Bollettino (sek-feps), con inte-ressanti articoli sulla organizzazione e la ricerca dell’identità a cinquecen-to anni dalla riforma luterana. Un’in-dagine informa che i pastori sono in totale 1959, dei quali il 68% uomi-ni e il 32% donne. La maggioranza si capovolge tra i 739 diaconi: 58% donne e 42% uomini; in Ticino sono attivi nove pastori e un diacono, tutti uomini. Al Bollettino è unito un «pro-gramma di legislatura 2011-2014», elaborato dal Consiglio direttivo per le 26 Chiese della FCPS, che presenta sei obiettivi per «Essere Chiesa pro-testante».

Festeggiare uniti. Il presidente della Federazione delle Chiese evangeli-che svizzere (Fces) si è incontrato a Zurigo con Margot Kassmann, am-basciatrice della Chiesa evangelica in Germania (Ekd) per il Giubileo della Riforma. I due esponenti eccle-siastici hanno discusso del Cinque-centenario della Riforma protestante che sarà ricordato nel 2017, e delle possibili iniziative comuni. Locher ha proposto come motto per le cele-brazioni «Credere è essere liberi» Le celebrazioni della Riforma saranno un’occasione importante per tutti i protestanti. Kassmann ha ricordato il carattere plurale ed europeo della Riforma, sottolineando l’importanza

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22 No. 226cronaca svizzera

che i protestanti si presentino uniti all’appuntamento, in una società se-colarizzata, per offrire una testimo-nianza comune. Per il pastore Martin Junge, segretario generale della Fe-derazione luterana mondiale (Flm), il Giubileo della Riforma dovrà essere globale ed ecumenico e dovrà testi-moniare del modo in cui la Riforma si è espansa e inculturata in diverse aree del mondo, rendendo visibile una ricchezza di pensiero e di spiri-tualità che altrimenti non si sarebbe manifestata. Da ricordare anche, in-sieme con i cattolici, i 50 anni di dia-logo tra la Flm e il Vaticano.

Cura dimagrante. Di fronte a un deficit strutturale di 3-4 milioni di franchi all’anno, la Chiesa protestan-te di Ginevra ha elaborato un piano di contenimento su sei anni, considera-to che le offerte (l’80% delle entrate) sono in calo, per la diminuzione dei donatori e la crisi economica. Nel 2020 la Chiesa sarà più modesta, sa-ranno ridotti da 80 a 50 i collaborato-ri, con una spesa di 11 milioni annui, invece degli attuali 14. Si eviterà di sostituire i pastori e il personale am-ministrativo che nei prossimi anni raggiungerà l’età del pensionamen-to. Anche la Chiesa vodese, vista la diminuzione di finanze e di fedeli (meno 60% in quarant’anni) dovrà scendere, entro il 2013, nelle sette chiese di Losanna, da 22,5 posti a 16,5. Diversi pastori potranno emi-grare in parrocchie della periferia, dove il calo è meno marcato e sono rimasti liberi alcuni posti. A Losan-na si vuole tuttavia pure organizzare diversamente la pastorale, con una animazione «creativa» diretta spe-cialmente ai giovani, coinvolgendo maggiormente i laici.

Numeri svizzeri. Nel 2012 sono stati celebrati in Svizzera 42.500 matrimo-ni, l’1% in più dell’anno precedente, mentre è restato immutato il numero dei divorzi (17.500); in aumento dello 0,9% le nascite, risultate 81.500. La famiglia vince ancora, anche se le na-scite fuori del matrimonio sono pure aumentate (dal 19,3% del 2012 al 19,5%). Nel 2012 sono state registra-te 700 unioni domestiche (860 ma-schi e 540 femmine): nel 2007, primo anno della nuova possibilità, le unio-ni domestiche registrate furono più di 2000. Purtroppo, oltre il 10% dei lavoratori a tempo pieno riceve uno stipendio che non basta per arrivare a fine mese: secondo uno studio dell’u-niversità di Ginevra, almeno 437.000

lavoratori devono cavarsela sotto la soglia minima di 3.986 franchi men-sili; ma salgono ad oltre mezzo mi-lione se si aggiungono i dipendenti di Cantoni e Comuni. Non per niente l’elettorato svizzero ha plebiscitato la proposta di mettere un freno agli «sti-pendi dorati» e una nuova proposta li-mitativa delle diseguaglianze è pronta per accogliere il consenso popolare. Specialmente penalizzate sono le donne, il 16% delle quali riceve uno stipendio troppo basso, contro il 6% degli uomini.

Per i diritti umani. Più di 75 or-ganizzazioni non governative della Svizzera (tra cui «Caritas» e il Sa-crificio quaresimale) hanno formato una «Piattaforma per i diritti umani», con lo scopo di lavorare in comune a favore dei diritti umani in Svizzera e collaborare con il Centro svizzero per i diritti umani, costituito dalla Con-federazione nel 2011. Quest’ultimo dovrebbe essere trasformato in un’i-stituzione nazionale indipendente, come richiesto a livello internaziona-le, per controllare l’applicazione dei diritti e delle libertà fondamentali, au-mentando la credibilità della politica svizzera in materia.

Non privatizzare l’aborto. La Fede-razione delle Chiese evangeliche in Svizzera (Fces) respinge l’iniziativa popolare «Finanziare l’aborto è una faccenda privata» e pertanto si op-pone alla proposta dell’iniziativa po-polare di sopprimere il rimborso dei costi di un’interruzione di gravidanza a carico delle assicurazioni. Finché accettiamo una società organizzata in modo tale che le donne, per il fatto di una gravidanza, si trovano in una situazione disperata, una parte di re-sponsabilità di fronte all’aborto è di tutti. Non è quindi «una faccenda pri-vata» e la Federazione ritiene giusto che l’assicurazione prenda a carico i costi. Gli aborti si devono ridurre non con sanzioni ma aprendo prospettive di vita, in una società pronta ad ac-cogliere con sostegni spirituali e aiuti concreti. La Conferenza dei vescovi svizzeri non ha preso posizione né pro né contro l’iniziativa, respingen-do tuttavia la proposta di «privatizza-re l’aborto».

Contro la legge sull’asilo. La Fede-razione delle Chiese evangeliche in Svizzera raccomanda di respingere la revisione della legge sull’asilo, che sarà in votazione il 9 giugno, perché potrebbe peggiorare ulteriormente la

situazione dei richiedenti. Una delle modifiche sopprime la possibilità di depositare una domanda di asilo in un consolato svizzero all’estero: così soltanto le persone che dispongono dei mezzi finanziari necessari per il viaggio riusciranno ad assicurarsi l’entrata in Svizzera, magari ricor-rendo all’aiuto di un traghettatore o cercando di entrarvi irregolarmente. La FCES si oppone pure alla ridu-zione dei tempi di ricorso da 30 a 10 giorni; inoltre la protezione dei diritti dei richiedenti asilo dovrebbe essere nettamente rafforzata. Occor-re garantire l’accesso ai servizi di consulenza giuridica e di sostegno finanziario. Attualmente, questi ser-vizi sono finanziati soprattutto dalle Chiese e dalle loro agenzie umani-tarie. La FCES è critica anche sulla creazione di centri specifici dove do-vrebbero essere ospitati i richiedenti asilo. I vescovi svizzeri, nella loro assemblea del 4-6 marzo, si sono li-mitati a ricordare la necessità di ri-spettare la dignità di ogni persona e i suoi diritti fondamentali, mentre la Caritas svizzera invita a respingere il progetto.

Niente sussidio federale. La Confe-derazione non partecipa al finanzia-mento della «Casa delle religioni», in costruzione a Berna e che sarà un centro di dialogo interreligioso. Il Tribunale amministrativo federale ha confermato il rifiuto dell’Ufficio fe-derale della cultura, che ha negato il contributo richiesto di un milione di franchi, perché pratiche confessionali e dialoghi interreligiosi e intercultu-rali non possono essere considerati «prodotti artistici». Il preventivo del-la costruzione è stimato a 75 milioni di franchi, di cui circa dieci milioni per la parte religiosa. Partecipano al finanziamento le Chiese cristiane cantonali e diverse parrocchie, il Can-tone e il Patriziato di Berna, nonché fondazioni e privati.

Contro l’apertura continuata. La Commissione «Giustizia e Pace» partecipa all’«Alleanza per la dome-nica» che ha promosso il referendum contro la revisione della legge sul lavoro che vuole permettere l’orario continuato, 24 ore su 24, comprese le domeniche, per i negozi annessi alle stazioni di servizio sulle autostrade. I referendisti criticano l’estensione degli orari come pregiudizievole alla salute, specialmente per le donne. Il referendum è riuscito, avendo raccol-to 87.000 firme in 3 mesi!

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No. 226 23segnalazioni

segnalazioni

Per la riabilitazionedi Bonaiuti

È stato costituito in Italia un «Co-mitato per una migliore conoscenza e per la riabilitazione di Ernesto Bo-naiuti nella Chiesa e nella società». L’adesione è aperta a esponenti della cultura cristiana e laica, a movimen-ti, riviste, associazioni. centri studi e ogni interessato. È prevista l’apertura di un sito Internet e la divulgazione di testi. Ernesto Buonaiuti era nato a Roma nel 1881. Allievo del Collegio Romano, ricevette l’ordinazione pre-sbiterale nel 1903. Intelligenza acu-ta e indagatrice, incaricato dell’in-segnamento nello stesso Pontificio Collegio, assunse posizioni non gra-dite e fu scomunicato per aver condi-viso e propagandato pretese idee mo-derniste. Privato dell’insegnamento nelle università ecclesiastiche, passò all’insegnamento universitario sta-tale, sempre professandosi cattolico convinto. Contrario al Concordato del 1929 tra Pio XI e Mussolini e alla politica vaticana favorevole al fasci-smo, avendo rifiutato il giuramento di fedeltà al fascismo fu rimosso dal ruolo di docente anche presso l’Uni-versità di Roma. Perdette in tal modo ogni sostegno economico e si affidò unicamente all’appoggio di amici ed estimatori. Dopo la caduta del governo fascista fu reintegrato nei ruoli del magistero universitario, ma privato dell’insegnamento, in quan-to nel Concordato era stata inserita una norma ad personam (art. 5, terzo comma) che impediva agli scomu-nicati di assumere posti statali che comportassero contatto con il pubbli-co. Sgradito come cattolico ai partiti di sinistra e ai politici di obbedienza vaticana, non fu mai riabilitato uffi-cialmente, anche se molte delle sue tesi riecheggiarono nei dibattiti con-ciliari del Vaticano II e riprese nei documenti ufficiali. Mori a Roma nel 1946 e fu privato della sepoltura ecclesiastica, essendosi rifiutato di ritrattare le proprie posizioni. La sua memoria restò nell’ombra per decen-ni, dal momento che, pur trattandosi di una figura di testimone eticamente e giuridicamente superiore ad ogni motivo di critica, era scomodo per tutti i centri di potere, data la sua irri-ducibile fedeltà alla propria coscien-za e alla propria onestà intellettuale e

mora le, al di sopra di ogni altra con-siderazione. L’evoluzione delle sensibilità poli-tico-sociali e religiose, che ha con-dotto a rivedere numerose manife-stazioni di intolleranza del passato, determina un clima favorevole alla riabilitazione pubblica delle virtù civiche del personaggio, soprattutto in un tempo come il nostro in cui da ogni parte si fa giustamente appello alla capacità personale di resistenza critica al conformismo intellettua-le e al relativismo morale. Inoltre, Buonaiuti rappresenta adeguatamen-te anche gli altri undici colleghi che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo, i quali verrebbero cosi implicitamente onorati dal ricono-scimento a lui tributato. Il giuramen-to di fedeltà al fascismo fu imposto dal regime mussoliniano nel 1931 ai circa millecinquecento professo-ri delle università italiane. Soltanto dodici vi si rifiutarono e mette conto ricordare i loro nomi, molti dei quali notissimi: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Gior-gio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edo-ardo Ruffini, Lionello Venturi e Vito Volterra.

«Il Gallo» nella storiaNel panorama delle «riviste di avan-guardia» cattoliche del secondo Nove cento «Il gallo» rappresenta una voce apparentemente marginale e una pre senza quasi «di nicchia», ma in realtà importante e duratura (a oltre sessant’anni dall’inizio delle pubblicazioni continua, assai al di là della sua Ge nova, una significativa presenza nella cultura cattolica italia-na). La puntuale monografia di Zani-ni non abbraccia l’intero arco di vita della rivista ma si limita al trentennio 1946-1965 assumendo come punto terminale l’anno che Zanini, del resto non senza ottime ragioni, considera come punto conclusivo di una prima fase del cammino della rivista, e cioè quel 1965 in cui ha avuto conclu sione il Concilio Vaticano II, che la rivista genovese ha contribuito per la sua parte a preparare. Fondata da Nando Fabro, al quale si sono progressivamente affiancati im-portanti collaboratori – da Katy Ca-nevaro a Carlo Carozzo – la rivista ebbe sempre una diffusione limitata ma raggiunse un pubblico assai quali-ficato ed ebbe larga udienza assai al di

là della cerchia genovese. Come per tutte le riviste «di punta» incontrò non piccole difficoltà nei rapporti con la Curia genovese e in particolare con il cardinal Siri (cfr. in particolare le pp. 84 ss.) e più volte sembrò sul punto di incorrere in censure ecclesiastiche; ma, anche grazie all’equilibrio del suo direttore, riuscì a continuare il suo cammino: del quale Zanini segue puntualmente le tracce, sottolineando in particolare il passaggio da un’in-tenzionalità prevalentemente lettera-ria a un’attenzione incentrata sul pro-blema della «riforma religiosa» (cfr. le pp. 67 ss.). Parti consistenti del volume (assai documentato e puntuale e arricchito da una vasta bibliografia) vengono dall’autore dedicate al confronto con le coeve riviste cattoliche che condi-videvano la stessa ansia di rinnova-mento della Chiesa e del cattolicesi-mo. Particolare ampiezza è dedicata al rapporto tra Fabro (e «Il gallo» in generale) e la quasi coeva «Adesso», avviata da Mazzolari, come noto, nel 1949, che si ispirava agli stes-si maestri, e in primis a Mounier, e condivideva la stessa passione per il rinnovamento della Chiesa. I rapporti fra Mazzolari e Fabro – che Zanini ricostruisce puntualmente attingendo anche all’importante corrispondenza, tuttora inedita, intercorsa fra i due – furono frequenti e intensi in più oc-casioni, e in particolare in relazione alla vicenda dei «Partigiani della pace» (pp. 83 ss.), sulla quale le due riviste assunsero un atteggiamento sostanzialmente simile, approvando lo spirito del movimento ma nello stesso tempo guardando con diffi-denza ai legami troppo stretti che si andavano instaurando fra i «Partigia-ni della pace» e il Partito Comunista sovietico. Corredato di una puntuale documentazione, questo volume rap-presenta un importante tassello per la ricostruzione nel suo insieme del-la storia delle riviste cattoliche degli anni centrali del Novecento. È augu-rabile che questa conoscenza possa essere in futuro ulteriormente ap-profondita grazie alla pubblicazione dell’interessante carteggio intercorso fra Fabro e Mazzolari e alla compila-zione dell’Indice degli autori de «Il gallo», così da completare il quadro di insieme di una delle riviste più interessanti del secondo dopoguerra italiano.

Giorgio Campanini

P. Zanini, La rivista «Il gallo». Dalla tradi-zione al dialogo (J946 1965), Edizioni Bi-blioteca Francescana, Milano 2012.

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24 No. 226opinioni

in questo numeroG BENVENUTO FRANCESCO (a.l.) 1

ArticoliG DIARIO DEL CONCLAVE

(Luigi Sandri) 3G LA SOLITUDINE DI BENEDETTO XVI

(Ettore Masina) 7G MEZZO SECOLO DALLA

«PACEM IN TERRIS» (Alberto Lepori) 8G RILEGGERE LA STORIA,

LEGGERE LA POLITICA (Paolo Pombeni) 11

G PERCHé LO STALLO POLITICO IN ITALIA (Raniero La Valle) 15

G MA CHE COSA È QUESTA FEDE (Scriba) 18

G LETTERA APERTA DEI «VIANDANTI» 24

SegnalazioniG A. Alimonta, FUORI DAL CORO,

Salvioni, Bellinzona 2012 7G P. Zanini, LA RIVISTA «IL GALLO»,

Milano 2012 23G PER LA RIABILITAZIONE

DI BONAIUTI 23

G NOTIZIE BELLE E BUONE 10G CRONACA INTERNAZIONALE 16G NOTIZIARIO (IN)SOSTENIBILE 19G CRONACA SVIZZERA 21

dialoghi di riflessione cristiana

www.dialoghi.ch

Comitato: Alberto Bondolfi, Ernesto Borghi, don Emilio Conrad, Serse Forni, Aldo Lafranchi, Alberto Lepori, Daria Lepori, Enrico Morresi, Margherita Noseda Snider, Marina Sartorio, Carlo Silini

Redattore responsabile: Enrico Morresi, via Madonna della Salute 6, CH-6900 Massagno, telefono +41 91 966 00 73, e-mail: [email protected], [email protected]

Amministrazione di «Dialoghi»: c/o Claudio Cerfoglia, Salita dei frati 4, 6900 Lugano, email: [email protected]

Stampa: Tipografia-Offset Stazione SA, Locarno

I collaboratori occasionali o regolari non si ritengono necessariamente consenzienti con la linea della rivista.

L’abbonamento ordinario annuale (cinque numeri) costa fr. 60.–, sostenitori da fr. 100.– Un numero separato costa fr. 12.– Conto corr. post. 65-7205-4, Bellinzona.

La corrispondenza riguardante gli abbonamenti, i versamenti, le richieste di numeri singoli o di saggio e i cambiamenti di indirizzo va mandata all’amministratore.

A cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II

lettera aperta dei «Viandanti» alla Chiesa che è in italia

Il 16 marzo è stata presentata a Mila-no una «lettera aperta» che una ven-tina di associazioni, gruppi e riviste italiane, tra cui «Il Gallo» di Genova e l’Associazione culturale G. Giaco-mini di Verbania, hanno elaborato e inviano «a tutto il Popolo di Dio che è in Italia a cinquant’anni dall’aper-tura del Concilio ecumenico Vatica-no II». Frutto di un lungo lavoro di confronto tra i firmatari svoltosi nel corso del 2012, essa acquista partico-lare valore nel passaggio attuale tra il vecchio e il nuovo Pontificato. Pub-blichiamo la parte conclusiva del do-cumento, intitolata «Le priorità che proponiamo», rimandando per il testo integrale al sito www.viandanti.com.

La bellezza del VangeloLa Chiesa ha bisogno di riesprimere fiducia e speranza nella forza pro-fetica e nella bellezza del Vangelo, evitando i toni moralistici, timorosi, difensivi con cui spesso viene oggi percepita di fronte alle grandi que-stioni sociali, bioetiche, culturali che si impongono alla nostra attenzione e al nostro discernimento.La Chiesa, peraltro, è forza profetica quando riprende la Parola e attualiz-za il deposito di fede con una logica estranea al mondo e quando opera per alleviare le sofferenze umane (le opere di Gesù, oltre le sue parole), realizzando fraternità, cura, giustizia, mitezza, perdono, riconciliazione: la carità è l’Evangelo praticato, l’E-vangelo è la carità annunciata. At-traverso questo Vangelo della carità, la Chiesa si apre al mondo, facendo sì che la parola di Dio la inquieti e la coscientizzi: che al giudizio e al potere e alle armi della condanna su-bentri la medicina della misericordia; che all’inerzia indifferente od ostile subentri l’attenzione e la dedizione all’altro, in una relazione autentica e decisa e, insieme, evangelicamente liberatrice. Avviene così che il mondo la interroghi e che essa diventi sacra-mento del Cristo luce delle genti.Sta a tutti noi contribuire ad aprire spazi, in nome della vera comunione, a una Chiesa fedele al Vangelo.Ci pare utile raccogliere le considera-

zioni che siamo andati svolgendo, in «punti», che dovreb bero essere con più urgenza e più corale determina-zione affrontati dalla Chiesa: Dialogo con il mondo. Piena assun-zione dei problemi che assillano l’uo-mo contemporaneo (ingiustizie, vio-lenze, corruzione, emergenze etiche e sociali), nella consapevolezza che la Chiesa manifesta l’amore per l’intera famiglia umana, senza contrapporsi a essa come rivale, ma solo dia logando e operando assieme per la giustizia e la pace. Unità della Chiesa. Ripresa decisa del cammino ecumenico, che appare stanco, se non fermo; slancio verso le Chiese sorelle e verifica della vo-lontà a convergere nel pri mato della Parola. Celebrazione della fede. Rilancio convinto della riforma liturgica con-ciliare, senza confusioni nostalgiche e ritualismi: centralità ecclesiale dell’eucaristia e riconsiderazione di discipline rigoristiche (per es. quella per i divorziati rispo sati e le coppie di fatto). Chiesa sinodale. Reale attuazione nello spirito e nelle forme istituzio-nali dell’ecclesiologia di comunione del Concilio, mettendo in evidenza la comune dignità e responsabilità di tutti i cristiani fondata sul battesimo. Sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune. Riflessione sul ruolo dei pre-sbiteri, sulla loro formazione e sulla permanenza della loro disciplina ce-libataria; considerazione comunitaria sui modi per valorizzare veramente la ministerialità femminile nella Chiesa, riflettendo sulla possibilità di restau-rare il diaconato femminile; convinta valorizzazione di un laicato adulto, con chiare responsabilità all’interno della comunità ecclesiale. Chiesa povera e dei poveri. Radicale ripensamento di ciò che la fedeltà al Vangelo oggi chiede per ciò che attie-ne: l’uso e la gestione dei beni, l’op-zione preferenziale dei po veri e della liberazione evangelica, il rapporto con il «pote re» e con la dimensione della laicità dello stato.

Parma, 22 febbraio 2013, Festa della Cattedra di san Pietro