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224 dialoghi Locarno – Anno 44 – Dicembre 2012 di riflessione cristiana BIMESTRALE Il Natale dev’essere proprio solo così? Il Natale è ormai il simbolo della no- stra società dei consumi e l’apoteosi di un elemento che la caratterizza: lo spreco. Spreco di luci e di energia per paesaggi notturni che lampeg- giano nervosamente, ma non danno conforto; spreco di cibi che fanno traboccare le pattumiere di quel che stomaci sopraffatti non hanno volu- to; spreco di imballaggi a formare montagne di carta lucida, brillante, colorata; spreco di «regali», merci ricevute ma non necessarie e spesso nemmeno desiderate. Come siamo arrivati sin qui? Qual era il signifi- cato originario del dono a Natale? Ci sono alternative? «Dialoghi» af- fronta in questo numero, prendendo spunto dal carattere che ha assunto il Natale, il tema del consumismo, dei consumi, dell’economia capita- listica di mercato e delle alternative a quello che appare essere – ma non è – l’unico modello economico possi- bile. Le alternative ci sono e mettono in questione un atteggiamento secon- do cui di tutto si può fare mercato, cioè trarre profitto: uteri in affitto, speculazione sulle derrate alimen- tari, brevetti di specie viventi, sfrut- tamento sconsiderato della natura, sperimentazione sugli animali, traffi- co di organi, droga, armi, strumenti di tortura, esseri umani. Esprimono una critica al mercato globale in cui tutto diventa merce, in cui un essere umano ha o non ha valore a dipen- denza da dove vive o dal colore della sua pelle. Le alternative mostrano anche come fare. Invece di aspettare la fine del mondo, invitano a mettersi in gioco e a rinnovare quello in cui viviamo. (dossier a cura di Daria Lepori e Marina Sartorio) Aiutiamo il Nunzio a trovare il nuovo Vescovo di Lugano (pp. 23 e 24) Lo shopping compulsivo, febbre da acquisto La pubblicità ha lo scopo di convin- cere ad acquistare un prodotto, in pochi secondi. Deve essere facile da comprendere, convincente e fondarsi su elementi familiari della vita quo- tidiana. Vivere oggi tra noi significa esporsi continuamente a messaggi pubblicitari (ne captiamo in media 2500 al giorno). I maggiori grandi magazzini editano e ci recapitano settimanalmente gazzette che pubbli- cizzano merci «in azione» e le «ulti- me novità» messe in vendita. Perfino nella relazione con le persone siamo sollecitati dall’ammiccare dei nomi e dei «loghi» delle marche, da abiti e accessori. In una realtà che si svuota di significati e in cui le relazioni uma- ne perdono autenticità, la pubblicità si insinua facilmente e ci fa deside- rare cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Vi siete mai chiesti quanto è disposta a spendere l’industria per convincerci a comperare? Un blogger ha fatto il calcolo seguente: nei pri- mi sei mesi del 2011 in Italia le case automobilistiche hanno investito in pubblicità 501 milioni di euro (fonte: Nielsen Media Research). Se si di- vide questa cifra per 1.012.849, pari alle auto immatricolate nello stesso periodo, si scopre che tra gennaio e giugno 2011, per ogni vettura targata, i costruttori hanno speso in pubblici- tà 495 euro. Un aspetto problematico della pubblicità è l’immagine della donna che veicola. Come sottoli- nea una risoluzione del Parlamento europeo del 2008, «la pubblicità, veicolando gli stereotipi del genere, racchiude le donne e gli uomini nei ruoli predefiniti, artificiali e spesso degradanti, umilianti e invalidanti per i due sessi». Le donne nella pubbli- cità sono molto visibili, ma in una maniera stereotipata che non corri- sponde al loro posto reale nella so- cietà. Sono utilizzate per sostenere il trasferimento del desiderio dal corpo al prodotto, perché divenga deside- rabile a sua volta. È una strategia di (Continua a pagina 7)

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224 dialoghiLocarno – Anno 44 – Dicembre 2012 di riflessione cristiana BIMESTRALE

Il Natale dev’essere proprio solo così?Il Natale è ormai il simbolo della no-stra società dei consumi e l’apoteosi di un elemento che la caratterizza: lo spreco. Spreco di luci e di energia per paesaggi notturni che lampeg-giano nervosamente, ma non danno conforto; spreco di cibi che fanno traboccare le pattumiere di quel che stomaci sopraffatti non hanno volu-to; spreco di imballaggi a formare montagne di carta lucida, brillante, colorata; spreco di «regali», merci ricevute ma non necessarie e spesso nemmeno desiderate. Come siamo arrivati sin qui? Qual era il signifi-cato originario del dono a Natale? Ci sono alternative? «Dialoghi» af-fronta in questo numero, prendendo spunto dal carattere che ha assunto il Natale, il tema del consumismo, dei consumi, dell’economia capita-listica di mercato e delle alternative a quello che appare essere – ma non è – l’unico modello economico possi-bile. Le alternative ci sono e mettono in questione un atteggiamento secon-do cui di tutto si può fare mercato, cioè trarre profitto: uteri in affitto, speculazione sulle derrate alimen-tari, brevetti di specie viventi, sfrut-tamento sconsiderato della natura, sperimentazione sugli animali, traffi-co di organi, droga, armi, strumenti di tortura, esseri umani. Esprimono una critica al mercato globale in cui tutto diventa merce, in cui un essere umano ha o non ha valore a dipen-denza da dove vive o dal colore della sua pelle. Le alternative mostrano anche come fare. Invece di aspettare la fine del mondo, invitano a mettersi in gioco e a rinnovare quello in cui viviamo.

(dossier a cura di Daria Lepori e Marina Sartorio)

Aiutiamo il Nunzio a trovare il nuovo Vescovo di Lugano(pp. 23 e 24)

Lo shopping compulsivo, febbre da acquistoLa pubblicità ha lo scopo di convin-cere ad acquistare un prodotto, in pochi secondi. Deve essere facile da comprendere, convincente e fondarsi su elementi familiari della vita quo-tidiana. Vivere oggi tra noi significa esporsi continuamente a messaggi pubblicitari (ne captiamo in media 2500 al giorno). I maggiori grandi magazzini editano e ci recapitano settimanalmente gazzette che pubbli-cizzano merci «in azione» e le «ulti-me novità» messe in vendita. Perfino nella relazione con le persone siamo sollecitati dall’ammiccare dei nomi e dei «loghi» delle marche, da abiti e accessori. In una realtà che si svuota di significati e in cui le relazioni uma-ne perdono autenticità, la pubblicità si insinua facilmente e ci fa deside-rare cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Vi siete mai chiesti quanto è disposta a spendere l’industria per convincerci a comperare? Un blogger ha fatto il calcolo seguente: nei pri-mi sei mesi del 2011 in Italia le case

automobilistiche hanno investito in pubblicità 501 milioni di euro (fonte: Nielsen Media Research). Se si di-vide questa cifra per 1.012.849, pari alle auto immatricolate nello stesso periodo, si scopre che tra gennaio e giugno 2011, per ogni vettura targata, i costruttori hanno speso in pubblici-tà 495 euro. Un aspetto problematico della pubblicità è l’immagine della donna che veicola. Come sottoli-nea una risoluzione del Parlamento europeo del 2008, «la pubblicità, veicolando gli stereotipi del genere, racchiude le donne e gli uomini nei ruoli predefiniti, artificiali e spesso degradanti, umilianti e invalidanti per i due sessi». Le donne nella pubbli-cità sono molto visibili, ma in una maniera stereotipata che non corri-sponde al loro posto reale nella so-cietà. Sono utilizzate per sostenere il trasferimento del desiderio dal corpo al prodotto, perché divenga deside-rabile a sua volta. È una strategia di

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Disintossicarsi dall’alcol consumisticoIl ben essere non può ridursi al mercato

«Come mai i nostri bisogni di beni e servizi si sono talmente dilatati da apparire limitati solo dalla consi-stenza del nostro reddito?», si chiede Fausto Piazza per introdurre la sua analisi del consumismo1. Inizio da qui perché il mio articolo si basa qua-si integralmente sul suo esposto, che mi sembra servire ottimamente per raccontare in breve spazio e con una sufficiente neutralità un fenomeno complesso, nel quale la nostra socie-tà è a tal punto coinvolta che quando lo si critica molti si sentono lesi in prima persona. La risposta alla do-manda iniziale non può essere soltan-to quella della maggiore disponibilità di denaro, che, oltre ai bisogni basi-lari (un tetto, cibo, indumenti, salute e formazione), permette di soddisfare anche i desideri. Di fronte a un red-dito maggiore potrebbe affermarsi il risparmio o la diminuzione del tempo di lavoro retribuito, non necessaria-mente un maggior consumo di beni e servizi. Facciamo un passo indietro, all’ini-zio degli anni Venti del secolo scorso, in America. In quel momento, il pe-ricolo di un mercato che, soddisfatto nei suoi bisogni, non contribuisse più a far aumentare i profitti dell’indu-stria fu percepito per la prima volta. Si investirono quindi risorse per tra-sformare l’americano medio, parsi-monioso e propenso al sacrificio da «investitore nel futuro a consumatore nel presente»2 e furono ideate strate-gie di marketing per indurre le per-sone a desiderare ciò che non aveva mai voluto prima. Il comportamento di una élite fu proposto come model-lo alle classi inferiori, in modo da far apparire il lusso come una necessità per chiunque. Jeremy Rifkin la de-scrive come «creazione organizzata dell’insoddisfazione»3. Gli aumenti di reddito concessi divennero fun-zionali all’espansione dei consumi. Un elemento chiave di questa tatti-ca: la pubblicità, divenne una forma di comunicazione il cui contenuto informativo (ciò che si propone di acquistare) è irrilevante rispetto al contenuto simbolico (le emozioni che l’acquisto suggerisce di poter soddisfare). Essa ha contribuito in modo sempre più determinante alla nascita e alla diffusione delle mode e dei modelli di comportamento. La

dilatazione dei bisogni, sul piano del comportamento, ha preso il nome di «consumismo»4. Sarebbe però inge-nuo sostenere che tutto sia frutto solo di un disegno consapevole ordito dai detentori del potere. A stimolare la propensione illimitata al consumo hanno concorso almeno altri due fat-tori, uno economico e uno antropolo-gico: da un lato la stessa logica inter-na al funzionamento dell’economia e i principi etici ad essa sottesi, dall’al-tro l’insofferenza verso ogni forma di limitazione della propria libertà.

Capitale e mercato

L’economia oggi prende il nome di economia capitalista di mercato5 per-ché gli elementi che la contraddistin-guono sono il capitale e il mercato. Il mercato è definito quella situazione in cui la domanda di un bene o di un ser-vizio è soddisfatta dall’offerta, dopo che è avvenuta una contrattazione tra le parti interessate, ed entrambe han-no cercato di massimizzare il proprio vantaggio. Il prezzo in denaro pagato riflette i rapporti di forza esistenti in quel momento tra le parti coinvolte. Tutte le volte che abbiamo a che fare con un acquisto o una vendita sap-piamo che queste sono le regole del gioco e siamo portati a credere che sia perfettamente normale compor-tarsi così. Già Aristotele tuttavia nel capitolo introduttivo della «Politica», osservava che un bene ha un valore diverso a seconda che venga utilizza-to per un determinato scopo o venga venduto per denaro o barattato. Nel primo caso si ha un valore d’uso che è la qualità intrinseca di un prodotto del lavoro, nel secondo un valore di scambio. Su questa base Aristotele poneva una distinzione tra oikonomìa – attività tesa a soddisfare i bisogni di una famiglia o della comunità – e ch-rematistikè – attività finalizzata sia al commercio sia al prestito a interesse come fonti di profitto. Queste ultime erano da considerarsi innaturali e pe-ricolose per la coesione sociale, per-ché comportavano l’accaparramento dei benefici derivanti dal commercio da parte di alcuni a danno di altri. Il filosofo giudicava che chi perseguiva l’arricchimento personale non aveva

capito che cosa significhi «vita buo-na», cioè una vita legata alla comuni-tà in cui si è inseriti e avrebbe finito per distruggere se stesso.Ora vediamo che il modello econo-mico dominante si basa sulla massi-mizzazione della propria ricchezza, anche a scapito di quella altrui, e non è orientato al bene comune. Da dove ci viene, allora, questa percezione di normalità? La risposta sta in una celebre pagina di Adam Smith, con-siderato il fondatore dell’economia classica. «L’uomo ha quasi sempre bisogno dell’aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola be-nevolenza: avrà molta più probabili-tà di ottenerlo volgendo a suo favo-re l’egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo ciò che egli chiede […]. Non è certo dalla benevolenza del macel-laio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del loro in-teresse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle no-stre necessità, ma dei loro vantaggi […]. Ogni individuo si sforza con-tinuamente di trovare l’impiego più vantaggioso possibile per qualsiasi capitale di cui possa disporre. In ef-fetti è al suo proprio vantaggio che egli mira, non a quello della società. Ma la considerazione del suo vantag-gio lo porta naturalmente, o meglio necessariamente, a preferire l’impie-go più vantaggioso per la società»6. Per Smith, interesse comune e pri-vato non sono in contrasto: è il co-siddetto utilitarismo, secondo cui la morale stessa è fondata sull’interesse individuale. Su questa base diventa-va possibile calcolare razionalmen-te costi e benefici: da qui è derivata l’importanza assegnata alle attività economiche nello spazio del merca-to, in cui il comportamento degli at-tori era guidato da quel calcolo. Se la nozione di bene, e di bene comune, si risolve in quella di utile individua-le, è evidente che l’unico limite che si pone al suo perseguimento sarà la concorrenza degli altri soggetti tesi al medesimo scopo: la competitività è il rovescio della medaglia dell’uti-litarismo. Attraverso la concretezza dell’agire in un sistema economico ispirato a questi principi abbiamo fi-

a cura di Daria Lepori

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nito con l’assimilarli, ricavandone la percezione di normalità. Anche per parlare del capitale possia-mo citare A. Smith: «Quando i fondi che un uomo possiede sono appena sufficienti per mantenerlo […] rara-mente egli pensa di trarne un reddito. Questa è la condizione della maggior parte dei poveri che lavorano in tutti i paesi. […]. Ma quando possiede fon-di sufficienti a mantenerlo per mesi o anni, è naturale che egli cerchi di trarre un reddito dalla maggior parte di essi, riservando per il suo consumo immediato soltanto quanto basta a mantenerlo finché questo reddito non cominci ad entrare. […] La parte di fondo da cui si attende di trarre que-sto reddito si chiama propriamente il suo capitale»7. Ponendo M = merce e D = denaro, si può dire schematiz-zando che dal modello M à D à M, in cui il fine è il valore d’uso di ciò che si scambia, lo scambio è il mezzo e il denaro ha la funzione di agevo-larlo, si passa al modello D à M à, dove il fine è l’aumento del denaro e il valore d’uso resta assorbito in quel-lo di scambio, che resta un mezzo; quest’ultimo può addirittura sparire, come nelle transazioni finanziarie, il cui il modello diventa D à D. L’e-vidente inversione tra mezzi e fini è quella che Aristotele prevedeva e condannava come innaturale e ha tra le sue conseguenze che ogni processo di accumulazione è tendenzialmente infinito, perché essendo fine a se stes-so ha natura circolare. Quando ciò che è bene per se stessi abolisce ogni altro possibile significato di bene è come se l’individuo fosse incapace di porre freno all’espansione del pro-prio ego e, anzi, non comprendesse per quale ragione lo dovrebbe fare. È l’idea stessa di libertà di noi occiden-tali che appare intimamente connessa con questo egocentrismo illimitato. Essa assume come scontato che la soglia di libertà di cui possiamo usu-fruire come individui possa e debba essere spostata sempre più in là, in una sostanziale equivalenza tra più e meglio8.

Radici del consumismo: libertà e limite

Il fattore antropologico di stimolo alla propensione illimitata al consu-mo è il desiderio di libertà. Una li-bertà tendenzialmente illimitata ci rimanda all’idea e all’esperienza che abbiamo del limite. Esso segna la no-stra esistenza fin dal principio: non siamo a noi a decidere di venire al

mondo, anzi prima di allora non sia-mo. E ci accompagna per tutta la vita, rendendosi presente in ogni sofferen-za, in ogni scelta – che è sempre un de-limitare un percorso tra possibili alternative. Alla fine ci viene incontro nelle sembianze della morte, il limite estremo. Durante la vita ci accompa-gna anche l’esperienza fortissima del desiderio di superare il limite, che sentiamo come afflizione. Abita in noi un moto interiore che si potrebbe chiamare desiderio di infinito e che, nella nostra cultura, si esprime in de-siderio di libertà. L’orizzonte segna il confine di ciò che possiamo vede-re, ma attira la nostra curiosità per ciò che potrebbe trovarsi al di là e ci spinge a muoverci per saperlo. Dopo averlo fatto, è semplicemente un nuovo orizzonte. Così il movimento riprende e poi ancora e ancora. In questo andare ciascuno agisce per sé perché ciascuno genera con lo sguar-do il proprio orizzonte. La metafora suggerisce che la libertà dal limite che cerchiamo è dunque la nostra propria e individuale libertà e che il tentativo, per questa via, è destinato a fallire. Il desiderio di infinito, con cui bisogna fare i conti, non può es-sere soddisfatto dalla negazione del limite.Si spiega allora come mai «il con-sumismo può essere descritto come quello specifico stile di consumo che appare caratterizzato da un’inconte-nibile propensione per il nuovo: sod-disfatto un desiderio, l’individuo su-bito ne sente nascere molti altri, così da trovarsi coinvolto in un processo praticamente senza fine, nel quale soddisfazione e insoddisfazione sem-brano alternarsi senza sosta»9. Se il proprio utile è il solo nostro movente, la logica di funzionamento dell’eco-nomia capitalista di mercato, che su di esso si basa, diventa la nostra unica logica ed è all’interno di essa che si afferma la negazione del limite. La crescita continua del capitale e l’e-spansione continua dei consumi sono legate tra loro non solo da una fun-zione circolare, ma anche dall’unica finalità utilitarista che le governa. Il mercato, il luogo dello scambio per denaro, ha esteso oggi i propri confini al mondo intero in un processo chia-mato globalizzazione e ha finito per diventare il modello su cui organiz-zare la stessa società, di cui prima era solo un particolare settore. Non esi-stono più ambiti sottratti alla sua lo-gica, per cui è possibile fare mercato, cioè trarre profitto, di qualsiasi cosa, anche la vita stessa. L’idea di bene

comune si è scolorita fino a perdere il significato concreto, è stata bandita dal vocabolario etico d’uso comune. Chi l’utilizza è bollato come buoni-sta, con un significato che oscilla tra utopista ingenuo e in malafede. Il mal-essere e il ben-essere sono inse-riti nello stesso quadro e la sottrazio-ne ai danni della natura e dei poveri sono la premessa dell’economia di mercato. L’Utile è l’unico vero dio.Il prospettarsi all’orizzonte di varie crisi: quella climatica, il prossimo raggiungimento dell’oil peak10, il peak dei fosfati (necessari all’agri-coltura industriale), la più massiccia scomparsa di specie viventi dall’e-stinzione dei dinosauri a questa par-te – segnali evidenti del limite con-genito al fatto di stare su un pianeta «finito» – non sembrano bastare a mettere in crisi il modello. Invece la soluzione a partire dagli anni 70, con la presa di coscienza che le risorse sono disponibili in quantità limita-te11, avrebbe potuto essere quella di rivedere completamente il modello secondo criteri di sostenibilità ed equità. Invece si è semplicemente preso atto della situazione rimodu-lando il modello per adattarlo a un’e-poca di crescita lenta. Ciò ha signifi-cato sul versante produttivo ridurre la quantità di materie prime ed energia per unità di prodotto (non complessi-vamente), ma più ancora avere «esu-beri» di mano d’opera ed esigenze di «flessibilizzare» il rapporto di la-voro, in modo da farlo corrisponde-re, come le scorte di magazzino, alla variabilità delle vendite sul mercato. Inoltre ha incrementato la tendenza a sostituire il lavoro con macchine in-telligenti, oppure a trasferire la pro-duzione in luoghi dove il costo del lavoro e le garanzie per chi lavora sono i più bassi possibili. Sul ver-sante del consumo ciò ha significato parallelamante un accentuarsi della pressione consumistica sulla parte di popolazione mondiale dotata di red-dito sufficiente e l’esclusione degli altri dal circuito economico, senza prospettiva di rientro.Se a questo punto ritorniamo a riflet-tere sulla nostra esperienza di con-sumatrici e consumatori, scopriamo che ognuno è messo brutalmente di fronte al fatto che esiste uno scarto incolmabile, e crescente, tra le pos-sibilità da cogliere e le risorse a di-sposizione per farlo. La soddisfazio-ne cercata attraverso il consumo crea frustrazione. Rifacciamoci all’im-magine delle automobili, veicolata dalla pubblicità: non è un caso che

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le strade in cui si muovono siano im-mancabilmente vuote. L’utile che ci può derivare dal loro utilizzo è tanto maggiore quanto meno ce ne sono in circolazione, come è facile osser-vare quando, alla guida di un mez-zo magari capace di alta velocità, ci troviamo a andare in coda a passo d’uomo. Il rovescio della medaglia dell’utilitarismo: la competizione, è presente anche nel consumo. In questo caso essa ci spinge a nuovi e maggiori acquisti per ristabilire ogni volta la distanza tra noi e gli altri, ma il vantaggio conseguito viene inevi-tabilmente annullato dall’analogo comportamento altrui. Il divario tra l’impegno per procurarsi le risorse monetarie da destinare all’acquisto e la soddisfazione che se ne ricava au-menta ogni volta.Quella che a noi pare una libertà di scelta, resa possibile dalla varietà di ciò che ci offre il mercato, si rivela essere solo una sovranità limitata. In-fatti, nello scambio mercantile vige la ferrea logica dell’interesse, che si esprime in un contratto fra le parti del tipo: se io voglio qualche cosa sono obbligato a pagarti un prezzo, se io pago un prezzo tu sei obbligato a dar-mi qualcosa. L’unica libertà che si ha in questo caso sarebbe quella di non volere qualcosa, ma ciò comportereb-

be l’uscita dallo spazio del mercato, in cui si entra proprio perché qual-cosa si vuole. Se, come ci si vuol far credere (e siamo disposti ad accetta-re) il mercato può soddisfare ogni de-siderio, non ne vorremmo certamente uscire e ne rimarremo prigionieri. Ci costituiremo come soggetti di biso-gno, cioè come incapaci-di-fare-a-meno-di, nella stessa misura in cui, mediante l’acquisto ci sembrerà di liberarci dal bisogno, cioè dal limite espresso negativamente come man-canza-di12.L’indicazione che da questo ragio-namento può derivare è che per affermare una libertà autentica è necessario allontanare i fumi dell’al-col consumistico e ritornare a una condizione di sobrietà, che in primo luogo vuol dire capacità di disporre del bisogno, che incatena al mercato e nel mercato. Capacità di accettare, prima ancora che riconoscere i limiti della biosfera, il limite che riguarda ciascuno di noi.

NOTE

1. F. Piazza, A che punto è il nostro benes-sere, in AA.VV, Invito alla sobrietà felice, EMI edizioni, Bologna 2000, pp. 30 ss. Fau-sto Piazza è promotore della campagna «Bi-lanci di giustizia»; ha promosso a Brescia la Consulta comunale per la pace e i diritti dei popoli.

2. J. Rifkin, La fine del lavoro, Baldini & Ca-stoldi, Milano 1997, p. 48.

3. Ibidem, p. 49.

4. L’aumento della produzione totale di merci dal 1960 al 2010 è stato del 428,6%.

5. Un’altra forma di economia è, per esem-pio, l’economia solidale, che si basa sul ben essere di tutte le persone e l’armonia con la natura.

6. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Roma 1975.

7. Ibidem.

8. Il numero di milionari negli USA è passato da cinquemila nel 1932 a quattro milioni nel 2010.

9. A. Castegnaro (a cura), Il prezzo del consu-mo, EDB, Bologna 1994, p. 24.

10. Oil-peak: teoria scientifica riguardante l’evoluzione temporale della produzione di una qualsiasi risorsa minerale esauribile o limitata. Si propone di prevedere, a partire dai dati relativi alla «storia estrattiva» di un giacimento minerario, la data di produzione massima della risorsa estratta nel giacimento, così come per un insieme di giacimenti o una intera regione. Il punto di produzione massi-ma, oltre il quale la produzione può soltanto diminuire, viene detto picco di Hubbert. Fon-te: Wikipedia.

11. Nel 1972 il Club di Roma pubblicava lo studio: D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Render, W. Behrens III, The Limits to Growth, New York 1972. Trad. italiana: I li-miti dello sviluppo, Milano 1972.

12. Cfr. I. Illic, Bisogni, in W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni grup-po Abele, Torino 1998.

Compromesso svizzero L’uomo che vive sui trenidi Giovanni Rossetti

Un bambino clandestino salvato da una valanga. Uno strano cucciolo che i cacciatori vogliono abbattere a ogni costo. Una vecchia donna che vive solitaria su un monte ticinese. Il loro desiderio di vivere in pace, liberi e selvaggi, viene ostacolato dalle autorità svizzere. Braccati da ogni parte, devono combattere su tutti i fronti per difendere le loro vite dalle insidie della burocrazia elvetica. Un ritratto originale e indimenticabile della Svizzera attuale, in cui prosa delicata e fine umorismo si fondono in un flusso di grandi emozioni.

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Collana «La Betulla»Collana «La Betulla»

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Prosperità senza crescita: è possibile?Una prospettiva convincente che ci impegna

L’economia deve crescere. Questo si sente sempre immancabilmente ri-spondere chi sostiene che il pianeta terra da molti decenni ormai non è più in grado di sopportare i ritmi di produzione, di consumo delle risorse e di inquinamento a cui è sottoposto. Si puo dire che l’inevitabilità della crescita sia un dogma accettato uni-versalmente, con la sola eccezione di pochi eretici, ecologisti ed economi-sti alternativi, seguiti da piccoli grup-pi e movimenti di cittadini sparsi per il mondo.

Se l’ecologia lentamente si sta fa-cendo strada almeno nell’ambito dei comportamenti individuali e in varie normative anti-inquinamento, l’idea di una «decrescita», o almeno di un arresto della crescita, «acrescita» o «crescita zero», appare ai più una proposta impraticabile.Si acquistano prodotti biologici, a «km zero», del commercio equo; si lascia a casa l’automobile sosti-tuita dalla bicicletta, ci si affida per le vacanze ad agenzie del «turismo sostenibile». Il mercato e la politica tollerano questi comportamenti indi-viduali come varianti irrilevanti, di nicchia, all’interno di un sistema an-cora solidamente consumista. Anzi, non ci si fa scrupolo di trasformare velocemente in nuovo settore di mer-cato il biologico, sostenibile, equo... Ci pensa la pubblicità a piazzare vi-cino allo spot del fuoristrada inqui-nante quello dell’ultimo modello di frigorifero di classe energetica A+++ con cui sosituire al più presto quello di classe energetica A++. Per questo ai critici più severi del modello del-la crescita la green economy e anche il concetto di «sviluppo sostenibile» sembrano insufficienti ad affrontare la crisi ecologica di cui soffre il no-stro pianeta.

Ricchezza, diritti umani, felicità

Un’obiezione frequente a chi met-te in forse la validità di un modello globale di crescente produzione di beni è di voler escludere interi popoli dal benessere raggiunto nel Nord del mondo: perche gli indiani, i cinesi, gli africani non dovrebbero avere tut-te le nostre comodità?Interessanti studi e indagini statisti-

che stanno mettendo in dubbio l’idea propagata dalla pubblicità e assecon-data da troppi leader politici, che la felicità corrisponda tout court al be-nessere e alla ricchezza.Un’indagine del 2008 condotta dal Worldwatch Institute1 presenta dati sorprendenti sulla relazione tra pil procapite e «soddisfazione» circa le proprie condizioni di vita in oltre cin-quanta Paesi dei diversi continenti: il Brasile ad esempio, con 4000 dollari, presenta un livello di soddisfazione superiore al Portogallo e alla Spagna con rispettivamente 13’000 e 15’000 dollari.

Amartya Sen, nel suo studio fonda-mentale sul tenore di vita2, per defi-nire la prosperità distingue tra i con-cetti di opulenza, utilità, capacità di essere felici. Opulenza nel senso di quantità di ricchezze materiali, che però, arrivati a un certo livello, ci fa sentire saturi: ed è allora che ci si chiede quale sia l’utilità di tanta ric-chezza, se continuare a desiderare di più non diventi una trappola che ci imprigiona in una spirale di eterna insoddisfazione. È quello che vedia-mo oggi, con il mercato che continua a presentarci nuovi prodotti che dob-biamo comprare per non essere da meno degli altri. Si rende necessario allora avere la forza di affermare che la felicità non dipende dal possesso dell’ultimo i.pod o del modello di Adidas più alla moda.Può sembrare arduo interrogarsi su che cosa sia la felicità. Eppure, sfrondando proprio tutto cio che è opulenza, le parole di Amartya Sen non sono banali: «Sono ben nutrito? Sono libero da ogni malattia evitabi-le? Vivo abbastanza a lungo? Posso partecipare alla vita della comunità? Posso presentarmi in pubblico senza vergogna? Posso trovare un lavoro per cui valga la pena lavorare? Posso mettere in pratica quello che ho impa-rato a scuola? Posso andare a trovare parenti e amici, se lo voglio?». Non è scontato, anche nella nostra opulenta Svizzera, poter rispondere affermati-vamente a tutte queste domande.Né sarebbe giusto pensare che un economista del Sud del mondo, come Amartya Sen, sia condizionato dalla

povertà del suo Paese, l’India, nella sua visione della felicità umana. La filosofa Martha Nussbaum nella sua «lista di capacità umane centrali» menziona: vivere una vita umana di normale durata; salute fisica; integri-tà fisica (essere al riparo da attacchi violenti, possibilità di godere del pia-cere sessuale e di scelta in campo ri-produttivo); ragion pratica (essere in grado di formarsi un proprio concetto di vita buona); appartenenza (poter vivere con gli altri e per gli altri); gio-co; controllo del proprio ambiente3.È pensabile, quindi, una soglia al di sotto della quale universalmente non si danno condizioni per essere feli-ci e al di sopra della quale, però, la felicità non aumenta quanto più ci si spinge verso l’alto. È per questo che i filosofi e gli economisti della de-crescita – dai precursori Ivan Illich e Nicholas Georgescu-Roegen ai piu recenti Georges Latouche e Maurizio Pallante – parlano di decrescita feli-ce, decrescita serena. Senza negare che nei Paesi poveri sia necessario raggiungere un tenore di vita più alto, possono fondatamente proporre ai Paesi opulenti la sobrietà, la fruga-lità non come sacrificio bensì come mezzo per raggiungere una maggiore soddisfazione nei confronti della pro-pria vita, come sostituzione di valori egoistici e materiali con valori di re-lazione e culturali o, possiamo anche dire, spirituali.

Per una macroeconomia sostenibile

Una volta «decolonizzato l’immagi-nario»4 circa che cosa dà o non dà una felicità più profonda e durevole di quella suggerita dalla pubblici-tà, rimane pur sempre la domanda su come riconvertire l’economia in modo da renderla confacente a stili di vita sobri, a un’equa distribuzio-ne delle ricchezze, alla sopravviven-za del pianeta. Lasciando da parte il problema che affligge l’economia mondiale ormai da decenni, cioè la fi-nanziarizzazione, di cui ci siamo già occupati su «Dialoghi», per quanto riguarda l’economia reale (produzio-ne e servizi) bisogna distinguere tra recessione e decrescita. O, per usare un’espressione meno provocatoria e più rassicurante, «prosperità senza crescita», dal titolo dell’esauriente

di Marina Sartorio

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studio dell’economista inglese Tim Jackson5.Se la recessione la conosciamo bene, una decrescita, o una a-crescita, è an-cora tutta da realizzare. Alcuni gover-ni sudamericani, soprattutto Bolivia e Ecuador, partendo da rivendicazioni di identità culturale stanno realizzan-do politiche sociali ed economiche ispirate al buen vivir, lo stile di vita delle comunità ancestrali, rispettoso della natura e basato più sulla con-divisione che sulla proprietà privata. Evidentemente questi Paesi, tra i più poveri del continente, in molti setto-ri devono crescere; ma è interessante il loro rifiuto del modello di svilup-po dei vari G8, G20, FMI, OMC, e la costruzione di scenari alternativi a cui potremmo rifarci anche noi dei Paesi più ricchi. Il concetto di buen vivir è già diventato parte integrante del pensiero di teorici europei del calibro di un Serge Latouche. Pecca-to che, invece, nella discussione più strettamente politica, alle nostre lati-tudini sia ancora e sempre la crescita a predominare.Un’interessante eccezione tra i Pae-si del Nord del mondo la dobbiamo all’ultimo governo laburista del Re-gno Unito, che tra il 2003 e il 2009 ha finanziato una serie di progetti di ricerca con lo scopo di «ripensare sin dalle fondamenta il ruolo della cre-scita come forza dominante dell’eco-nomia politica moderna, e di essere ben più rigoroso nella distinzione tra il tipo di crescita economica che è compatibile con la transizione ver-so una società davvero sostenibile e quello che non lo è affatto»6.

Il problema del lavoro

Siamo così abituati a pensare che a minore consumo corrisponda auto-maticamente maggiore disoccupa-zione, che non ci rendiamo conto di come, in realtà, quelli che consumia-mo sono spesso prodotti di scarsa qualità che arrivano dai Paesi cosid-detti emergenti, oppure prodotti di marca che arrivano però anch’essi da fabbriche «delocalizzate» nei Paesi dove le condizioni e quindi il costo del lavoro sono molto più bassi che da noi. È di pochi mesi fa lo scan-dalo che ha rivelato le condizioni di schiavitù in cui vivono gli operai della Foxconn, la fabbrica cinese che produce anche per la mitica Apple di Steve Jobs; di questi giorni la protesta operaia a Kragujevac, in Serbia, dove si produce la nuova «cinquecento» della FIAT con turni di lavoro di 10

e anche 12 ore, per un salario di 300 euro al mese. Ri-localizzare l’econo-mia è uno dei principi fondamentali della decrescita.Un altro aspetto è la riduzione dell’o-rario di lavoro. Lo slogan: lavorare meno per lavorare tutti, che aveva portato in Francia alla legge sulle 35 ore, non risuona più nelle manifesta-zioni e anzi vediamo i lavoratori di-sposti –meglio: costretti – a fare turni più lunghi, più straordinari, a lavora-re anche di sabato e domenica pur di mantenere l’impiego, sempre con la spada di Damocle della chiusura e delocalizzazione dell’azienda. Solo interventi governativi potrebbero in-vertire questa tendenza. Certamente l’elaborazione teorica degli economi-sti sarebbe di aiuto.Uno studio pionieristico in questo senso è stato fatto in Canada, dove l’economista ecologico Peter Victor ha costruito un modello di economia a crescita zero, con una riduzione progressiva delle ore di lavoro del 14% nell’arco di 30 anni7. Più ricer-che di questo genere e soprattutto la loro divulgazione tra un vasto pubbli-co di cittadini sensibili tanto alle te-matiche economiche quanto a quelle ambientali potrebbero portare a un cambiamento anche a livello delle decisioni politiche.

Investimenti ecologici

Che cosa produrre, e come, in un’ot-tica di sostenibilità ambientale rien-tra fra i grandi temi della decrescita. Come spostare il lavoro dalla produ-zione per il consumo alla produzione di tecnologie che ci permettano di di-minuire considerevolmente l’impatto ambientale del nostro stile di vita, pur senza rinunciare al comfort a cui sia-mo abituati? Vediamo che in questo campo il mercato non si autoregola affatto. Siamo inondati da merci in-quinanti, inutili, fatte volutamente in modo da rompersi in breve tempo8.L’investimento per la sostenibilità dovrebbe, almeno per ora e fino a consolidare un vero cambio di men-talità, di cultura, di abitudini, essere pilotato dalla politica dei governi. L’obiezione costante dei governi è che mancano i fondi per tali politi-che. Ma che cosa, a lungo termine, sarà più redditizio? Il sostegno al consumo con sovvenzioni alla produ-zione anche inquinante e piani sociali assistenzialisti, mentre perdura il de-grado dell’ambiente lasciato in balia di rimedi di scarsa efficacia e durata, oppure un piano di investimenti per

l’efficienza energetica, il riciclag-gio, le tecnologie pulite, la salubrità dell’ambiente?È di tre docenti universitari italiani uno studio economico che, usando un modello di simulazione sperimentale, prospetta una strategia di passaggio da un’economia basata sui combusti-bili fossili a una basata sull’energia da fonti rinnovabili modificando il rapporto tra consumi e investimenti9. Questi non dovranno piu essere mira-ti ad aumentare la produttività, ma la sostenibilità. La stabilità economica non dovrà dipendere dalla crescita sempre maggiore dei consumi, ma essere assicurata attraverso investi-menti strategici in posti di lavoro, in-frastrutture sociali, tecnologie soste-nibili e salvaguardia degli ecosistemi.La sordità dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali è sco-raggiante.Fortunatamente c’è tutta una di-mensione intermedia tra i governi e il singolo cittadino dove è possibile agire. Lo spazio di questo articolo non permette un approfondimento, ma mi piace ricordare almeno espe-rienze come il movimento di «Tran-sition Towns», nato in Inghilterra ma che si sta espandendo a città piccole, medie e anche alcune di dimensioni più grandi di vari Paesi, per realizza-re progetti di sostenibilità con l’im-pegno dei cittadini in collaborazione con le amministrazioni locali. Oppure le esperienze di moneta locale: fra le più interessanti la svizzera «Wir», che dispone perfino di una propria banca. O i «bilanci di giustizia»: movimen-to italiano di famiglie che studiano insieme, scambiandosi esperienze e informazioni, come amministrare il proprio reddito con criteri di giustizia e di sostenibilità ambientale.Internet è sicuramente uno strumento formidabile per procurarsi informa-zioni e per trovare anche nelle proprie vicinanze organizzazioni e gruppi spontanei insieme ai quali auto-for-marsi e agire. Solo un movimento di base sempre più ampio, credo, potrà smuovere finalmente i partiti politici, i mass media e i governi a cambiare strategie e programmi.Infine, ma questo può essere solo un accenno brevissimo, mi piacerebbe che, come comunità ecclesiali che si rifanno alla Bibbia, ricuperassimo il valore del sabato (della domenica), dell’anno sabbatico, del giubileo non solo come tempi di riposo ma come visione dell’economia che deve sa-persi fermare e deve obbedire alla natura, non viceversa.

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NOTE

1. Worldwatch Institute, State of the World 2008.

2. A. Sen, The living standard, Oxford 1984; cfr. Pure: Id., Lo sviluppo è libertà, Milano 2000.

3. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, apparte-nenza di specie, Bologna 2007.

4. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, Torino 2011.

5. T. Jackson, Prosperità senza crescita. Eco-nomia per il pianeta reale, Milano 2011.

6. Il progetto, coordinato da Tim Jackson (cfr. Nota 5), è consultabile sul sito www.sd-commission.org-uk.

7. P. Victor, Managing without growth, Lon-dra 2008.

8. In rete si può vedere sull’argomento il bel documentario di Cosima Dannoritzer Obso-lescenza programmata.

9. S. D’Alessandro, T. Luzzati, M. Morroni, Feasible transition paths towards a renew-able energy economy: Investment composi-tion, consumption and growth, Londra 2008.

marketing classica, e che opera quasi esclusivamente sul corpo femminile. La pubblicità accentua l’idea che le donne saranno sempre disponibili sessualmente: così si rafforzano mo-delli di giovinezza, bellezza e ma-grezza irraggiungibili. Soprattutto, le donne sono ridotte a un elemento par-ziale di ciò che sono: il loro corpo. Da soggetti pensanti divengono oggetti. Infine le donne sono rinviate alla sfe-ra domestica e privata, alla coppia e alla famiglia, al buon andamento del-la casa, all’apparenza e al corpo.Sotto la pressione della pubblicità si è sviluppata perfino una patologia: lo shopping compulsivo, l’acquisto guidato da un impulso urgente e ir-resistibile, che, seppure riconosciuto

eccessivo da chi lo mette in atto, è ripetuto fino a causare effetti dannosi per l’individuo e per le persone a lui legate. Il comportamento si mantie-ne nonostante gravi conseguenze e tentativi falliti di controllarlo e porvi fine. Le problematiche che seguono al comportamento di shopping com-pulsivo sono sentimenti di colpa, vergogna, umiliazione, problemi di salute, familiari, lavorativi, legali e fi-nanziari. Chi ne è colpito può non ve-dere il proprio comportamento come un problema ma come un sollievo immediato da ansia e stress emotivo e come fonte di gratificazione perso-nale. È un rimedio contro il senso di vuoto e la depressione, un tentativo della persona-consumatore di regola-re i propri affetti nel mondo-mercato in cui vive.

Lo shopping compulsivo, febbre da acquisto(Continua da pagina 1)

Il senso del dono per un Natale di gratuitàAssaliti dall’ansia del regalo, nel mese di dicembre sembriamo ormai smarrire il legame con l’Avvento e, con esso, anche l’autentica dimen-sione umana e cristiana del dono. Sommersi dai doni da fare o da ri-cevere, abbiamo perso il senso della gratuità, non riusciamo più a veder-la come ricchezza nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, convinti di essere noi gli unici protagonisti di ogni cosa, coloro che determinano l’evolversi delle vicende e delle società. Eppure il Natale cui ci pre-pariamo dovrebbe ricordarci sia il dono per eccellenza che è ogni vita nuova che nasce, sia il dono inau-dito che Dio ha fatto all’umanità e alla creazione intera con la venuta nella carne di Gesù, vero Dio e vero uomo.Come la vita, infatti, il dono è qual-cosa che ci precede, che esula dai diritti-doveri, che non può mai esse-re pienamente ricambiato, che nasce da energie liberate e origina a sua volta capacità inattese. La gratuità non è tale solo perché non comporta un prezzo, ma più ancora perché su-scita gratitudine e, più in profondità ancora, perché sgorga da un cuore a sua volta grato per quanto già ha ricevuto. Nel dono autentico non si riesce mai a tracciare un confi-ne certo e invalicabile tra chi dà e chi riceve: non perché vi sia il cal-

colo di chi pesa il contraccambio, ma perché, come dice Gesù, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35). Chi dona, infatti, gode a sua volta della gioia che suscita in chi riceve. D’altronde, il fonda-mento dell’amore è la rinuncia alla reciprocità e alla sicurezza che ne deriva: occorre indirizzare l’amore verso l’altro senza essere sicuri che l’altro ricambierà.E non dovremmo pensare al dono solo come a una possibile forma di scambio tra le persone: riscoprire la gratuità come istanza anche socia-le costituisce un’esperienza libe-rante e arricchente per ogni tipo di convivenza. Lo ricorda con parole forti Benedetto XVI nell’encicli-ca Caritas in veritate: «La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non rico-nosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’e-sistenza... Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità».Forse il tempo del Natale e la mag-giore sensibilità alla dimensione del dono che questa festa suscita po-trebbe aiutarci proprio in due per-corsi di approfondimento del senso delle nostre vite. A livello personale e relazionale, possiamo riscoprire

la libertà profonda che il donare ri-chiede e la gioia che suscita sia in colui che dona che in colui che ri-ceve. A livello sociale, ci è dato di prendere coscienza di come, anche nell’ottica mercantile ormai domi-nante, si possano concretamente immettere istanze di gratuita frater-nità: la solidarietà umana, uno stile di vita più sobrio ed essenziale, una ritrovata dimensione di fratellanza universale non sono alternative alle ferree leggi economiche o all’eser-cizio della giustizia, ma sono anzi correttivi preziosi per una più equa distribuzione di quei doni naturali che sono intrinsecamente destinati a tutti. Come cristiani testimoniere-mo così l’unicità del Signore di cui celebriamo la venuta nella carne e attendiamo il ritorno nella gloria: un dono sceso dall’alto che non ha cer-cato né atteso il nostro contraccam-bio per portare a tutti le ricchezze della sua grazia, il volto divino della gratuità. Senza il concetto di dono e di dono gratuito non sarebbe pos-sibile un parlare cristiano perché, non lo si dimentichi, nel cristiane-simo persino l’alleanza, che di per sé è bilaterale, è diventata alleanza unilaterale di Dio offerta all’uomo nella gratuità.

Enzo Bianchida «Avvenire», 13 dicembre 2009

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8 No. 224opinioni

E se quello appena celebrato in Vati-cano dal 7 al 28 ottobre fosse l’ulti-mo Sinodo dei vescovi? Ultimo non perché non se ne possano prevedere altri, ma perché sembra arrivata al capolinea la stagione post-conciliare di assemblee generaliste, che trattano insomma di problemi vastissimi sen-za arrivare a puntualizzare alcunché, e che comunque non potrebbero nulla decidere, essendo consultive.Al Vaticano II si levarono voci per chiedere un’attuazione della collegia-lità episcopale affermata dalla costi-tuzione sulla Chiesa Lumen gentium: le ipotesi più ardite prevedevano che il papa governasse abitualmente la Chiesa cattolica con un Sinodo ri-stretto, da lui presieduto. Ma, prima che il Concilio potesse deliberare in merito, nel decreto Christus Domi-nus sui vescovi che sarebbe arrivato in porto nella quarta sessione, il 15 settembre 1965 Paolo VI, con il motu proprio Apostolica sollicitudo, istituì il Sinodo dei vescovi. Il documento istitutivo del nuovo organismo non cita mai la Lumen gentium. Dunque, in senso stretto, il Sinodo non era (non è) espressione del collegio episcopale dichiarato, sempre unito al vescovo di Roma, «soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa», come af-fermava il testo conciliare, ma era (è) una creatura papale per «consigliare» il romano pontefice. E, per quanto, in teoria, il Sinodo potesse essere deli-berativo se il papa lo avesse permes-so, di fatto sono state consultive tutte le assemblee susseguitesi dal 1967 fino all’ottobre scorso (quando si è riflettuto su «La nuova evangelizza-zione per la trasmissione della fede cristiana»). I padri discutono e, infi-ne, formulano delle propositiones che offrono al pontefice, il quale rimane libero di accoglierle nella esortazione apostolica post-sinodale che egli redi-ge un anno o due dopo la conclusione della singola assemblea.Questa situazione, teologicamente anomala rispetto all’input della Lu-men gentium, e nella prassi rivelata-si sempre più debole considerando le venticinque assemblee (generali, straordinarie, speciali) fin qui cele-brate, ci porta a ipotizzare che questa tipologia di Sinodi non sia ulterior-mente proponibile. Essa continuerà, certo, fin che dura il pontificato di

Benedetto XVI; ma poi si dovrebbe cambiare. Così, almeno, ci è sembra-to di poter interpretare i desiderata di un certo numero di vescovi parteci-panti al recente Sinodo. Nessuno di essi ha osato dire papale papale che è necessario un Sinodo deliberativo, e dedicato a temi circoscritti; ma, a ben guardare, in quella direzione ci è sembrato andare il senso del loro dire.Proprio per la vastità senza confini del tema proposto in ottobre – la «nuo-va» evangelizzazione: dunque, con un pensiero ai Paesi di antica cristia-nità che avrebbero smarrito la fede – i padri intervenuti hanno affrontato centinaia di argomenti: la secolariz-zazione dell’Occidente, la scarsità di vocazioni, la conversione della Chie-sa, le tragedie di Haiti, dell’Africa o del Medio Oriente, la povertà, la preghiera, le missioni, la confessio-ne, la formazione dei presbiteri, la giustizia, le donne, i divorziati rispo-sati… Ognuno ha parlato del tema, generale o particolare, che gli stava a cuore: tanti flash che sarebbe impos-sibile ridurre ad un discorso coerente e complessivo. Questa panoramica può essere stata utile ai singoli vesco-vi che, presi dai problemi della loro diocesi, faticano ad avere uno sguar-do più ampio e globale sul mondo; ma, non avendo uno sbocco preciso, rimane astratta ed arida. Che, se poi si fosse andati al «dunque» su un tema specifico, la «impossibilità» di una vera collegialità ha mostrato all’evi-denza le forche caudine insuperabili di questo tipo di Sinodo. Come è stato il caso di un problema pastorale solle-vato con particolare energia da un ve-scovo svizzero. Incontrando i giorna-listi italiani impegnati con il Sinodo, mons. Felix Gmür, vescovo di Basi-lea, ha detto: «La Chiesa deve trovare delle soluzioni; i divorziati risposati non possono essere ridotti solo ad una realtà peccatrice […]. Conosco una coppia sposata da cinquant’anni, ed entrambi i coniugi hanno alle spalle brevi esperienze matrimoniali. Que-sti cinquant’anni non contano nulla? [...] Non ho ricette per come la Chie-sa possa rispondere all’alto numero di situazioni irregolari che si riscon-trano a livello matrimoniale, ma certo non si può ignorare il problema». E concludeva: «Il Papa non ha ancora indicato una via su questo terreno,

ma forse sta preparando qualcosa sul tema». Altri padri, seppur in modo meno incisivo, hanno toccato il tema, in aula sinodale. E che ha deciso, in-fine, l’Assemblea? La propositio n. 48 suggerisce «risposte appropriate» e fatte con «approccio pastorale» al problema dei divorziati risposati. Che significano tali parole? Significano, in concreto, rimettersi alla risposta data più volte, sul tema, da papa Ratzinger, e da lui ripetuta in giugno a Milano all’Incontro mondiale delle famiglie: la Chiesa segue con pastorale sol-lecitudine i divorziati risposati, ma ribadisce la loro esclusione dalla co-munione eucaristica. Dunque, neppu-re come «consiglio» l’Assemblea ha suggerito al Papa il ripensamento del «no» ufficiale. Analoga la questione femminile: qualche voce in Sinodo si è levata per denunciare l’emargi-nazione delle donne; e che ha deciso l’Assemblea? Con la propositio n. 46 proclama la «eguale dignità» dell’uo-mo e della donna… ma, sapendo che il Papa non lo desiderava, evita di affrontare il tema dei ministeri fem-minili e della presenza delle donne nelle strutture ecclesiali e nei luoghi decisionali. Questi esempi dimostrano l’inconclu-denza genetica di un Sinodo consul-tivo, e di un’Assemblea che parla di tutto per non concludere nulla, conti-nuando a lasciare nelle mani del Papa ogni decisione. Anche il prossimo pontefice potrebbe mantenere lo sta-tus quo e proseguire stancamente, so-stenuto dalla Curia, in questa strada di non-collegialità. Ma la storia insegna che i problemi irrisolti avvelenano la Chiesa; perciò, proprio per il bene della Chiesa romana, speriamo in un colpo d’ala del futuro conclave.

Luigi Sandri

In quale banca? Lo IOR (Istituto per le opere di religione) si è presentato alla stampa il 28 giugno scorso. Ge-stisce 6 miliardi di euro del Vaticano e di istituti religiosi, ha aperti 33.000 conti di circa 25.000 clienti, conta 13 sportelli e 112 impiegati. Una com-missione (ovviamente composta da cardinali…) vigila sulla banca, unica a rispettare (secondo il direttore Ci-priani) tanto il diritto canonico quan-to le regole internazionali. Il Papa non ha alcun conto presso lo IOR. Se i ri-sparmi non li ha affidati al maggior-domo (si spera di no), che sia presso una banca tedesca?

Un Sinodo così non serve Troppi propositi inconcludenti

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croNAcA INTerNAzIoNALea cura di Alberto Lepori

Nuova presidenza SAE. In occasio-ne della tradizionale Settimana ecu-menica del SAE (Segretariato attivi-tà ecumeniche), svoltasi ai piedi del Monte Grappa (Treviso) e dedicata all’etica sociale («Praticate il diritto e la giustizia», Ger. 22, 3), è stato co-municato il risultato dell’elezione de-mocratica del presidente: Marianita Montresor di Verona, che ha raccolto 160 voti su 276 schede scrutinate. Per la terza volta sarà ancora una donna, dopo gli otto anni di Memo Gnocchi di Cremona, a dirigere l’associazione fondata da Maria Vingiani, a Vene-zia, quando era patriarca Giuseppe Roncalli, poi papa Giovanni XXIII. L’associazione si definisce «inter-confessionale di laici per l’ecumeni-smo e il dialogo, a partire dal dialogo ebraico-cristiano» e vede presenti an-che qualche musulmano, mentre non accoglie come soci (per garantire la libertà laicale) preti e pastori, che vi hanno tuttavia libertà di presenza e di parola e sono riveriti e apprezzati amichevolmente. Pure democratica-mente è stata scelta l’evangelizzazio-ne quale tema della prossima sessio-ne, la Cinquantesima, probabilmente ancora a Paderno del Grappa, a fine luglio 2013.

Un libro utile. In occasione del 15. Seminario mondiale dei cappellani dell’aviazione civile, tenutosi a Roma all’inizio di giugno, i partecipanti hanno formulato diverse proposte concrete per una «nuova evangeliz-zazione del settore aereo», tra cui la pubblicazione di un «libro di preghie-re per i viaggiatori» da distribuire da parte dei cappellani negli aeroporti. Sarebbe ancora più gradito se conte-nesse anche un paracadute tascabile. Per il principio: aiutati che il Ciel ti aiuta, e viceversa.

Fuori gli spilorci. Una sentenza sta-tale ha stabilito, riconoscendo alla Chiesa il diritto di stabilire le sue regole, che in Germania non è pos-sibile rifiutare di pagare l’imposta ecclesiastica e far parte della Chiesa cattolica. Perciò un decreto ecclesia-stico del 24 settembre 2012 stabilisce che una persona che ha ufficialmente chiesto di essere liberata dall’imposta ecclesiastica non potrà più beneficia-re dei «servizi» della Chiesa. Le con-seguenze possono essere disastrose

(altro che ri-evangelizzazione!), per-ché gli abbandoni da parte dei catto-lici tedeschi sono aumentati in questi ultimi anni, raggiungendo il numero di 190.000 nel 2010, a seguito dello scandalo della pedofilia (APIC del 27 settembre).

Ateismo nel mondo. Il sondaggio è stato realizzato da Win-Gallup Inter-national su un campione di 50.000 persone, in 57 Paesi del mondo. Il nu-mero di statunitensi che affermano di essere atei è progredito: dal 2005 sa-rebbero passati dall’l% al 5%, mentre coloro che si dicono «religiosi» sono regrediti dal 73% nel 2005 al 60%. Non è però che più gente sia diventata atea, sono semplicemente di più quel-li disposti a dichiararsi tali. Secondo un ricercatore, «per molto tempo la religiosità è stata una caratteristica essenziale dell’identità degli USA; questo sondaggio lascia intendere che la gente si sente meno obbliga-ta a considerarsi religiosa per corri-spondere all’immagine di una brava persona». Il sondaggio conferma una religiosità in declino anche in altri paesi; così l’Irlanda, in fatto di reli-giosità, è passata dal 69% al 47%. La Cina conta la maggiore proporzione di «atei convinti», con il 47%, seguita dal Giappone col 31%, dalla Repub-blica ceca col 30% e dalla Francia col 29%. I Paesi più religiosi si trovano in Africa (Ghana, Nigeria, Kenia), in America del Sud (Brasile, Perù) e in Europa orientale (Macedonia, Roma-nia, Armenia).

Contro la diffamazione anti-reli-giosa. L’Organizzazione islamica internazionale per l’educazione, la cultura e le scienze (ISESCO) ha rivolto un appello alla Federazione internazionale dei giornalisti (FIJ) perché sia meglio rispettata la risolu-zione delle Nazioni Unite per la lotta alla diffamazione delle religioni. Una produzione cinematografica, prodot-ta negli Stati Uniti, contro il profeta Maometto e la pubblicazione di vi-gnette anti-islamiche in un giornale francese hanno provocato giustificate manifestazioni di protesta, purtroppo degenerate in (ingiustificate) violen-ze. Vale il proverbio «Chi ha testa, la usi»; e le autorità di ogni Paese civi-le devono garantire il rispetto della dignità di tutti, perché la libertà di

espressione deve trovare un limite nel rispetto del sentimento religioso di tutti, cristiani, ebrei o musulmani. Se necessario, anche adeguando leggi e giurisprudenza a nuove situazioni: altro che proibire il velo musulmano o il burka!

Arrosto senza profumo. Una frase del ministro italiano dell’istruzione Francesco Profumo («Probabilmente quell’ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica», con qualche variante in seguito) ha arrischiato di mandare in arrosto (cioè al rogo) il ministro stesso, richiamato all’ordine nientemeno che dal cardinale Ravasi, pontefice massimo della cultura va-ticana, che si è affrettato a precisare che «il messaggio evangelico (sic) va sempre insegnato, ma c’è spazio anche per un aggancio con il mutare della società e lo sviluppo dei tempi e della cultura». Mons. Gianni Am-brosio, presidente della Commissione episcopale per l’educazione, ha a sua volta precisato che l’insegnamento (dato nella scuola pubblica, in forza del Concordato) «non è di certo una lezione di catechismo bensì una intro-duzione a quei valori fondanti della nostra realtà culturale che trovano la loro radice proprio nel cristianesimo (…). Già si impartisce – sostiene il prelato – una lezione culturalmente aperta proprio perché vi sia la possi-bilità di una conoscenza e di un dia-logo, anche con le diverse forme cul-turali e dunque anche con le diverse espressioni religiose». «Aggancio» e «possibilità di conoscenza»: certa-mente ciò non può essere sufficien-te né per i non cattolici né per ogni cattolico rispettoso della laicità della scuola di tutti.

Per i bambini. All’inizio di ottobre, Eurodiaconia, la Federazione delle organizzazioni diaconali delle Chie-se protestanti, anglicane e ortodosse d’Europa, ha reso nota una dichia-razione intitolata «Documento sulla povertà infantile e sull’esclusione sociale». Il documento mette in risal-to gli aspetti multidimensionali del-la povertà infantile e la conseguente necessità di un approccio politico integrato, non solo come mezzo per proteggere i più vulnerabili oggi, ma anche come investimento per l’Euro-pa di domani. Eurodiaconia spiega che la bozza proposta per una rac-comandazione dell’Unione Europea da adottare nel primo trimestre 2013, deve essere rafforzata, dando un aiuto

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finanziario alle famiglie ma anche at-traverso precoci servizi di intervento e di prevenzione. Occorre puntare sui gruppi particolarmente vulnerabili e promuovere l’«inclusione attiva» come garanzia di un approccio in-tegrato per affrontare la povertà dei bambini e delle famiglie. In secondo luogo si chiedono servizi accessibili e di qualità: i tagli ai servizi sociali sono criticati perché i servizi sociali sono un elemento essenziale di una società funzionante. In terzo luogo viene la partecipazione e il benessere dei bambini, che va al di là dei biso-gni materiali ma comprende bisogni sociali, emotivi, fisici, intellettuali e spirituali. Per questa ragione, servizi quali dei doposcuola di qualità, dei club di giovani e il lavoro comunitario devono essere sostenuti e necessitano di investimenti.

Vescovi in assembla. A San Gallo, dal 27 al 30 settembre, si sono riu-niti i presidenti delle 33 Conferenze episcopali europee, sotto la presiden-za del cardinale Peter Erdö, primate d’Ungheria. Hanno dibattuto il tema generale «Sfide del nostro tempo, aspetti sociali e spirituali», occupan-dosi anche delle discriminazioni che subiscono i cristiani, in Europa e nel mondo, presenti anche cardinali e pre-lati dell’America latina e dell’Africa. Tra i relatori anche il ticinese Roberto Simona, coordinatore di «Aiuto alla Chiesa che soffre»; un suo rapporto è stato pubblicato sul «Giornale del Popolo».

Una nuova economia. Teologi, mi-litanti impegnati nella lotta contro la povertà ed economisti, riuniti in Bra-sile per elaborare i principi in vista della creazione di un nuovo sistema economico mondiale, hanno pubbli-cato una dichiarazione che addita il super consumo e l’avidità come fatto-ri-chiave che bisogna combattere se si vuole promuovere una distribuzione più equa delle risorse del mondo. La dichiarazione è stata pubblicata il 5 ottobre al termine della «Conferenza ecumenica mondiale per una nuova architettura economica e finanziaria» svoltasi a Guarulhos, alla periferia di Sao Paulo. Fra i criteri per una nuova architettura economica e finanziaria, i partecipanti individuano l’inclusio-ne sociale, la giustizia nei rapporti tra uomini e donne, la salvaguardia dell’ambiente e misure concrete per limitare l’attrattiva del lucro. I gover-ni e le istituzioni internazionali non dovrebbero indicare la crescita ba-

dando solo al Pil, ma utilizzarne altri indicatori: per esempio, la crescita del lavoro decente, oppure i progres-si della salute e dell’educazione, o la sostenibilità ambientale.

Libertà vo’ cercando. Secondo una ricerca statunitense, il 75% della po-polazione mondiale non può praticare liberamente la religione. Tra i paesi più intolleranti: l’Egitto, l’Indone-sia, la Russia, la Birmania, l’Iran, il Vietnam, il Pakistan, l’India, il Ban-gladesh e la Nigeria. Non mancano violazioni anche in paesi civili, come gli Stati Uniti (restrizioni inflitte a detenuti, oppure nella costruzione di edifici religiosi), mentre la Svizzera è rimproverata per la proibizione costi-tuzionale di costruire minareti. I cri-stiani incontrano ostilità da parte dei governi o della popolazione in 111 paesi, i musulmani in 90, gli ebrei in 68, gli indù in 16, i buddisti in 15. Il rapporto sostiene che la libertà reli-giosa è diminuita in molti Paesi.

Religioni in Africa. Durante una conferenza svoltasi all’università d’El Jadida in Marocco è stato co-municato che il 46,53% degli africani sono cristiani, il 40,64% sono mu-sulmani, l’11,8% segue le religioni tradizionali. Tra i 59 Stati africani, 31 hanno una popolazione in mag-gioranza cristiana, 21 a maggioranza islamica, sei a maggioranza «tradi-zionale». L’Africa ospita attualmente il 20% della popolazione mondiale (500 milioni), mentre nel 1900 era abitata dal 2% (10 milioni). Nei pros-simi dieci anni, gli africani battezzati saranno il gruppo continentale più importante, superando l’Europa e le due Americhe.

Aumentano gli evangelicali. In Bra-sile (195 milioni di abitanti), secondo il censimento del 2010, i cattolici in dieci anni sono diminuiti dal 70,2 al 64,6% (sono in totale 123 milioni), pur restando il gruppo religioso più numeroso; mentre gli evangelici – ma si dovrebbe parlare più propriamente di «evangelicali», cioè aderenti alle numerose chiese libere cristiane – sono aumentati dal 15,4% al 22,2% (42,3 milioni), e i «senza religione» sono risultati l’8% (15 milioni). Il nu-mero dei cattolici è diminuito special-mente nelle grandi città (a favore dei «senza religione») e nelle regioni più povere (a favore degli evangelicali): si calcola che in dieci anni la Chiesa cattolica abbia perso più di 15 milio-ni di aderenti. La questione è stata

recentemente presa in considerazio-ne da parte del Consiglio episcopa-le pastorale, per discutere dei mezzi adatti a frenare l’emorragia, indicati nel miglioramento della catechesi per formare «veri cristiani» e nel soste-gno alle comunità di base.

Nella stampa francese. Il settimana-le «Témoignage chrétien», fondato oltre 70 anni fa dalla resistenza catto-lica contro l’occupante tedesco, sarà trasformato in mensile a partire dal 2013, essendo diminuito notevolmen-te il numero degli abbonati (da 15.000 agli attuali 6900, in dieci anni). Cono-sciuto per le sue battaglie a favore dei preti operai, contro la tortura durante la guerra d’Algeria e per la libertà e la democrazia nella Chiesa, chiuderà la serie un numero dedicato al cinquan-tesimo del Concilio, un altro tema per il quale si è sempre impegnato.

Educare alla cittadinanza. Nella Francia repubblicana (dove le leggi sulla laicità e sulla separazione fra Chiese e Stato hanno più di cento anni), il ministro dell’educazione Vincent Peillon ha annunciato di vo-ler istituire dal 2013 un insegnamen-to di «morale laica» obbligatorio per tutti gli studenti, dalle elementari alle superiori. Ha detto: «La morale laica si propone di comprendere ciò che è giusto, distinguere il bene dal male, conoscere i propri diritti e i doveri (...), possedere valori fondati sulla ragione, sulla giustizia, sulla solida-rietà, sulla dedizione e non sull’egoi-smo, la competizione, il denaro... A scuola si deve imparare a ragionare, criticare, dubitare (...). C’è bisogno in Francia di una ripresa non solo ma-teriale ma anche intellettuale e mo-rale» Va ricordato che la scuola laica e pubblica in Francia, fin dalla sua istituzione, prevedeva che il maestro o la maestra dedicassero ogni mattina un quarto d’ora all’«istruzione mora-le e civica», per far comprendere agli alunni il senso dello Stato e di una cit-tadinanza responsabile. Tale norma è rimasta in vigore fino al 1968! Tutta-via, un insegnamento morale da parte dello Stato evoca l’indottrinamento ideologico, lo Stato etico, la dittatu-ra, in cui lo Stato (o il partito) impo-ne ai cittadini di pensare in un certo modo… La laicità alla francese arri-schia così di diventare una religione civile! La laicità non deve essere un contenuto ma un metodo: insegnare a rispettare ogni coscienza, a favorire ogni idea (ideologia o religione) che realizzi i diritti umani.

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religiosità popolare e condizione della donnaDon Martino Signorelli, una vita per la cultura

Il tema della serata1 è La valle, gli eventi, i protagonisti: la versione di Martino Signorelli. Io accennerò a un solo protagonista, don Martino. Non presenterò la sua Storia della Valmag-gia: «Mission impossible», direbbe il regista americano Brad Bird. Svilup-però alcuni temi riguardanti la reli-giosità popolare in Lavizzara aggan-ciandomi a una missione dei gesuiti, risultata invece possibile nel 1627. L’intento è di evidenziare alcune componenti essenziali dell’esistenza quali il rapporto fra i vivi e i morti, l’alfabetizzazione, il matrimonio tar-divo e la condizione femminile, ma soprattutto cercare di capire quando e perché sono cambiate. Ogni scelta è sempre soggettiva: un privilegio criticabile, quindi. È però l’esercizio di un potere che, responsabilmente, mi assumo per riflettere sulla lenta e contrastata affermazione della li-bertà e dell’uguaglianza, valori per i quali occorre battersi sempre, anche nelle nostre democrazie in gran par-te ostaggio della finanza speculativa internazionale, del fondamentalismo non solo religioso e di un consumi-smo che eccede le capacità di produ-zione energetica e di materie prime della biosfera. Nella volgarizzazione della storia bisogna osare inerpicar-si su qualche disertato sentiero, al-ternativo alle intasate autostrade del conformismo imperante, affinché il sapere possa trasformarsi in consa-pevolezza politica e contribuire a un cambiamento di rotta attraverso una metamorfosi personale e collettiva.Così facendo voglio onorare la me-moria di un umile sacerdote, nato a Prato Sornico e che chiamerò affet-tuosamente «don Martino», evitando di proposito i titoli curiali di canonico e monsignore. Il suo nome rimanda al patrono del villaggio, san Martino, il vescovo di Tours che dimezzò il mantello per riscaldare il povero. Don Martino ha dato tutto il suo mantello agli altri: un’intera vita dedicata alla cultura e all’insegnamento. Appar-tiene alla schiera di quei preti intelli-genti, aperti e coraggiosi che si sono scontrati con una gerarchia autorita-ria, insofferente alla critica e avversa a qualsiasi aggiornamento, incapace cioè di cogliere i segni dei tempi2. Due nomi: Atanasio Donetti e Luigi Simona.

Don Donetti fu contrario al dogma dell’Immacolata concezione (1854) e al Sillabo3 (1864) – con il quale i vertici della Chiesa cattolica avevano condannato, senza appello, tutte le li-bertà moderne (di opinione, di stam-pa, di religione, ecc.) – ponendosi fuori dalla storia. Fu scomunicato e la sua tomba profanata a Olivone4.

Don Simona all’inizio del Novecen-to aveva fondato in Ticino una rivi-sta religiosa dal titolo emblematico, Cultura moderna, che idealmente si ispirava al cattolicesimo liberale e sociale di Lamennais, Lacordaire e Montalambert5. Attraverso il Circolo di studi politico-sociali si proponeva pure di promuovere un movimen-to per la difesa del mondo operaio come auspicato dalla Rerum Nova-rum (1891) di Leone XIII6. Il moder-nismo, animato da personalità quali George Tyrrel, Alfred Loisy, Ernesto Buonaiuti, Romolo Murri, Giovanni Semeria e tanti altri, contestava una lettura fondamentalista dei testi sacri e dei dogmi e ne proponeva una che tenesse maggiormente conto della psicologia e dell’ermeneutica, l’arte appunto di interpretare i testi antichi: un impegnativo programma, inteso a gettare un ponte fra la cultura religio-sa e quella laica. Non va dimenticato che tutte le grandi scoperte scientifi-che moderne sono state condannate dal Vaticano (basta il nome di Gali-leo, il cui accusatore, san Roberto Bellarmino, sarà proclamato dottore della Chiesa nel 1931) così come le più recenti elaborazioni giuridiche e filosofiche, nonché molti intellettuali d’avanguardia fra cui il paleontologo gesuita Teilhard de Chardin.Ma l’8 settembre 1907 questo rinno-vamento venne condannato da Pio X con l’enciclica Pascendi Dominici gregis (i cattolici erano ancora consi-derati un gregge di pecore!). Don Si-mona fu costretto a cessare la pubbli-cazione della rivista e a interrompere i rapporti con insigni studiosi, non solo italiani: un impoverimento per chierici e laici, obbligati i primi, fino al 1967, al giuramento antimoderni-sta. Autorevoli membri della Società di san Girolamo avevano tradotto i vangeli direttamente dal greco in un

italiano popolare per diffonderli an-che presso le comunità di emigranti nelle Americhe. L’iniziativa, ben ac-colta dalle Chiese protestanti, venne bloccata dal Sant’Uffizio7.La mia stima per don Martino risale a mezzo secolo fa. A quel tempo era assistente di Lepontia – la società de-gli studenti cattolici ticinesi – ed era venuto a Friburgo a tenere una con-ferenza sul ruolo degli intellettuali nell’apostolato. Dopo l’introduzione da parte del presidente della sezio-ne, con spirito goliardico ci eravamo messi a cantare: «l’apostolato dei laici è una gran bella cosa, ma prima la morosa...». Don Martino ci aveva dato subito ragione citando il filosofo umanista Erasmo da Rotterdam che sosteneva il primato della vita coniu-gale rispetto a quella sacerdotale di-feso da Roma. In quell’occasione gli avevo mostra-to un testo che stavo preparando per l’Almanacco Valmaggese sul cugino di sua madre, Ernesto Gagliardi, quasi sconosciuto in Ticino perché figlio di lavizzaresi emigrati a Zurigo e autore di importanti studi di storia svizzera. Per qualificare la sua opera, don Mar-tino mi aveva suggerito l’espressione «rappresentante di una cultura euro-pea». Ripresa nel mio articolo, essa aveva suscitato una critica feroce da parte di un intellettuale ticinese, di-fensore della lingua italiana: «Non si venga a blaterare di cultura europea, di storia ‘à l’échelle des continents’» (...)8. Per me, quella, è stata una le-zione per la vita. Pur apprezzando la cultura italiana in tutte le sue grandi realizzazioni, ho sempre diffidato di quella rimasta – con Benedetto Croce – dissociata dal pensiero scientifico; e specialmente di quella, spacciata per autentica ma intrisa ancora di Sil-labo, vassalla del fascismo, comuni-smo, berlusconismo o leghismo, che ha sempre contaminato la provincia ticinese. I rapporti con don Martino si sono un po’ raffreddati dopo la pubblicazione di una mia panorami-ca su La Valle Maggia al tempo del Concilio9 che, evidentemente, non poteva condividere. Quando però, nell’autunno del 1971, dopo aver fur-tivamente adocchiato le bozze della sua Storia in preparazione presso la Tipografia Stazione, gli ho segnalato una lunga serie di refusi, errori e im-

di Giorgio Cheda

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precisioni, mi ha ringraziato con una lettera che conservo con cura.Due parole sui Signorelli, i cui discen-denti ho avuto la fortuna di incontrare in California. Il nonno paterno di don Martino, Bortolo, era un boscaiolo bergamasco arrivato in Valle nell’Ot-tocento per sostituire i numerosi gio-vani emigrati oltremare. Vita grama la sua, soprattutto dopo il freno ai disboscamenti scriteriati imposto da Berna in seguito ai disastri provocati dall’alluvione del 1868; preferì tra-sferirsi in Algeria dove morì presto, lasciando la vedova con sette figli in tenera età. Uno di questi, Celestino, si sposò con Giulia Gagliardi, ebbe due figli, Martino e Camillo; poi si lasciò sedurre dal Golden State seguendo, con altri tre fratelli, la moda del tem-po. I Signorelli diventarono affittuari prima, poi proprietari tra Guadalupe e Santa Maria, dove li raggiunse pure la loro madre con gli altri figli. Dopo la prematura scomparsa di Giulia, schiacciata da un albero che stava tagliando sui monti di Prato, Celesti-no si risposò con Delfina Taminelli, figlia di un emigrato attinente di Giu-biasco, da cui ebbe cinque figli; una bimba, Alma, venne travolta dal treno nei pressi del ranch.Tutti sanno che la storia non è una disciplina scientifica, precisa come la matematica o la fisica: i metodi d’indagine devono essere rigorosi ma i risultati rimangono provvisori. Va quindi sempre riscritta per beneficia-re della nuova documentazione e di un’interpretazione più approfondita e convincente. Scrivere la storia anche di una piccola regione, ma che pre-tende spaziare sull’arco di millenni, dal Neolitico fino al Novecento, rap-presenta una missione impossibile per un solo autore. La sfida è ancora più rischiosa se intrapresa dopo una vita passata a insegnare teologia, filosofia e lettere. Non starò a elencare gli erro-ri di metodo, le lacune o le interpreta-zioni anacronistiche della puntigliosa ricerca di don Martino; non è questa la sede. Mi limito semplicemente a citarlo: «La nostra opera non è tanto un punto d’arrivo, quanto una base di partenza (...). Troveranno, i critici, che ci siamo permessi di lavorare di fantasia (...), si troverà disuguale lo sviluppo delle parti, trascurata la lin-gua, lo stile. Tutto vero, certamente». Però, afferma con forza, sempre nella presentazione: «Noi abbiamo raccon-tato, come abbiam potuto, il passato, precisamente per i giovani». La nuova generazione, insoddisfatta di una storiografia tradizionale per

lo più eventografica e politica, pun-golata dalle più aperte e impegnative frontiere delle scienze sociali e da un’inedita documentazione popolare, non ha tradito questa consegna.

Le missioni dei gesuiti nel 1627 e il culto dei morti

Le tredici fitte pagine del Ragguaglio dei PP. Gesuiti che hanno tenuto le missioni in Valmaggia nel 1627 il-lustrano, in modo eloquente, l’opera della Controriforma confrontata con un paesaggio religioso in parte an-cora incastonato nelle superstizioni precristiane e in una tradizione non conforme con le direttive del Conci-lio di Trento10. Si sa che san Carlo e Federico Borromeo, così come i ve-scovi di Como, hanno trovato nelle rispettive diocesi un clero per nulla formato; quello di Lavizzara, povero di benefici, faticava persino a campa-re11. Con metodi anche poco evange-lici, i vescovi hanno fatto applicare le nuove disposizioni, tra cui la confes-sione auricolare, il culto dei morti, il celibato obbligatorio del clero. Negli atti della visita pastorale del vescovo Ninguarda (1591) vengono segnalati sette preti concubinari: ad Aurige-no, Cevio, Campo, Maggia, Sornico, Menzonio e Someo12. A questo pro-posito don Martino si limita a scri-vere: «Donne per casa ne troveranno anche da noi i vescovi di Como» (p. 333), ma nella relazione dei missio-nari non se ne fa cenno. Si può forse dedurre che nel giro di una generazio-ne si è generalizzato il celibato, prima spesso disatteso?La stregoneria vi trova invece più di un puntuale riflesso. A Campo, i ge-suiti devono intervenire a sedare tu-multi provocati dalla condanna di sei «streghe», torturate e poi dichiarate innocenti. A Cevio sono chiamati a confessarne un’altra prima di essere suppliziata perché la «strega» offen-deva Dio e lo Stato. In una società in cui il potere religioso e quello politico erano saldamente intrecciati, spettava alla Chiesa identificarla e alla giusti-zia eseguire la pena. In caso contra-rio, il potere politico veniva delegit-timato. Una logica conseguenza per chi ha sempre difeso il primato del-la verità dogmatica rispetto a quella scientifica e sostituito l’amore evan-gelico con le prescrizioni canoniche e i divieti moralistici: una logica per nulla archiviata nel dimenticatoio dei «se coli bui». Incredibilmente, a cinquant’anni dal Concilio Vatica-no II, è ancora la posizione difesa

da Giuseppe Esposito sul Giornale del Popolo del 28 aprile 2007. Essa rimanda a una recensione del ponde-roso tomo Iota Unum [Milano-Roma 1985, 656 pp.] del «grande filosofo ticinese» Romano Amerio, apparsa il 17 marzo 2007 sulla Civiltà cattoli-ca, la rivista dei gesuiti, cioè di co-loro che dovrebbero stare dalla parte di Gesù. Vi si legge: «È qui il nucleo del pensiero ameriano: il primato del-la verità sull’amore». Di fronte a una simile manipolazione del messaggio evangelico ci si può solo rallegrare di condividere totalmente la seconda parte dell’aureo tascabile Allegro ma non troppo [Bologna 1988, pp. 41-81] dove lo storico Carlo M. Cipolla analizza il biblico aforisma «stulto-rum infinitus est numerus». Aveva ragione sant’Ignazio di Antiochia: «È meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo»; e non aveva tutti i torti il biblista appena ri-cordato, Alfred Loisy – scomunicato e i suoi libri messi all’Indice – quando affermava: «Cristo predicò il Vange-lo, poi venne la Chiesa». Imitando un sommo sacerdote [Mt 26, 65 e Mc 14, 63] qualcuno potrà stracciarsi le vesti, ma anche un appassionato di storia deve pur contribuire all’emancipazio-ne degli oppressi da quelle derive che pretendono possedere il monopolio del sacro.Durante la lunga permanenza in valle, i missionari si impegnarono special-mente su due fronti ritenuti prioritari: la pratica della confessione13 e il culto dei morti, cioè la consapevolezza di una responsabilità personale nei con-fronti di Dio e della società, e la pos-sibilità di operare per la salvezza dei peccatori. Dal Ragguaglio estraggo un brano concernente il rituale dei de-funti, praticato a Broglio e in altre ter-re, ritenuto deviante perché impregna-to di credenze arcaiche che potevano ammorbare il sistema delle certezze dogmatiche14. La devozione tridenti-na esige un lutto raccolto e silenzioso, più riflessivo e meno teatrale.Si sono animati alla dottrina, mo-strando gran fervore. E perché vi sono nella terra abusi o superstizio-ni, si sono levati. Fra gli altri questi sono i primi. Quando portano il mor-to fuori di casa, accendono un poco di paglia, e gridano per le strade «dove va il corpo, vada anche lo spi-rito». Fanno un certo trentesimo, per l’anima de defonti, e vanno al luogo del defonto, gionti pigliano la testa in mano, e cominciano a piangere dirot-tamente, con tanti gridi che è cosa da ridere. Tengono tutti i morti esposti in

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cataste, e le teste in certe cassette, e ben spesso vanno le donne, le piglia-no, le lavano, e poi si mettono a gri-dare che paiono pazze. Per levare gli abusi si congregò la detta consulta. Se gli espose quanto fossero grandi questi abusi, e quanto poco conformi all’usanza della Chiesa. Conobbero la verità, e per il rimedio mandarono subito a levar le dette teste e ossa de morti, e ci pregarono che parlassimo anche alle donne, nelle quali pareva essere maggior difficoltà. Le parlas-simo, e tanta è la stima che fanno di noi, che sentendo dir da noi, che questi abusi dovevansi levare, e che cosa dovevano fare per suffragare le anime de’ loro parenti, (la sottolinea-tura è mia) si guardavano l’un l’altra per meraviglia, et alla fine promise-ro l’emendazione, dicendo che come gente ignorante di montagna avevano fallato. Partimmo da questa terra per ritornare a Sornigo, accompagna-ti dal nostro signor curato, il quale continuando nella sua carità, sebbe-ne diluviava, volle venire a pigliarci (P. 417).Occorre anzitutto ricordare che il culto dei morti rappresenta, con la ripartizione e l’uso della terra che li ha nutriti da vivi, una pietra miliare dell’identità di una comunità, molto più ancorata ai campanili e agli ossari antichi che ai partiti e agli obelischi moderni... Il rapporto fra i vivi e i morti si è comunque alquanto modi-ficato a partire dal XII secolo, quando la Chiesa ha dato una nuova definizio-ne teologica al destino di ogni anima. Tra il Paradiso degli eletti e l’Inferno dei dannati prende allora forma, poi viene istituzionalizzato, un luogo intermedio – il Purgatorio appunto – dove vengono espiati i peccati com-messi durante l’esistenza. Una più concreta speranza di salvezza, che co-nosce un rapido successo documenta-to anche dalla seconda cantica della Divina Commedia. Il libro di Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio [Torino 1982], è fondamentale per capire l’evoluzione della mentalità che rese possibile una più articolata rappresentazione dell’aldilà rispetto al rigoroso dualismo precedente. Le ragioni furono diverse, riconducibili all’aumento delle rese agricole e della popolazione, alle crociate, come pure al rinnovamento monastico e teologi-co. In particolare, il rapido sviluppo delle città fece emergere la nuova clas-se dei mercanti che assunse un ruolo indispensabile anche per la Chiesa; la necessità quindi di legittimare il ruolo del denaro e di salvare dal fuoco eter-

no anche i banchieri e gli usurai, ap-prezzati mecenati dell’arte religiosa. Persino Giotto ha edulcorato la figura di san Francesco, nemico del denaro, per far piacere ai suoi committenti, potenti uomini d’affari15.La confessione auricolare obbliga-toria e la teologia del Purgatorio si erano affermate – assieme all’Inqui-sizione – già con il IV Concilio Late-ranense del 1215. Dopo la contesta-zione operata dalla Riforma furono riproposte nella pastorale per meglio coagulare nello stampo ortodosso, al-terato dagli abusi, il nuovo modo di suffragare le anime. La Chiesa riuscì così ad affermare il controllo sul de-stino di ogni persona estendendo il suo potere sulla morte. È quello che lo storico cattolico Jean Delumeau, autore di approfondite ricerche sulle problematiche religiose, ha chiamato «il Cristianesimo della paura». Un cambiamento iniziato già con lo sci-sma del 1054 fra la Chiesa d’Oriente, che poneva l’accento più sulla gioia della Risurrezione, e quella d’Oc-cidente maggiormente segnata dal dolore della Passione (con la relativa persecuzione degli ebrei «deicidi») e dal De contemptu mundi, il disprezzo di tutto quanto offre la vita16. Secondo la concezione precedente l’invenzio-ne del Purgatorio, il destino dell’uo-mo dipendeva solo dai suoi meriti e dalla misericordia di Dio. In segui-to, con la confessione, la Chiesa ha potuto esercitare il potere di lasciar entrare le anime nel Purgatorio e di liberarle grazie alle messe e alle in-dulgenze. Si spiegano così le critiche, opposizioni e contestazioni dei rifor-matori: Lutero si scagliava contro gli abusi originati dalla vendita delle indulgenze che avevano arricchito la Roma dei papi rinascimentali. Il re di Francia Enrico IV, famoso per il det-to che Parigi valeva bene una messa, diceva: il Purgatorio è il pane per i preti. Ancora più caustico Emmanuel Le Roy Ladurie, quando afferma che le messe in suffragio dei defunti rap-presentavano per il clero parigino un affare pari a quello delle costruzioni e dell’industria tessile per l’economia civile17.Uno studio di don Martino riguar-dante la settecentesca Bibliotheca ad usum Cleri dell’arciprete Giulio Berna18, ora restaurata nell’originale Sacellum di Prato, ci aiuta a capire il ritardo della cultura religiosa rispetto a quella laica. Il numero dei trattati di teologia, filosofia, morale, storia della Chiesa è impressionante, e si sa dall’elenco dei prestiti che quei tomi

erano letti dai parroci viciniori. Era certo un enorme progresso rispetto al vuoto culturale riscontrato in oc-casione delle prime visite pastorali. Ma l’istruzione nei seminari (il ca-talogo della biblioteca lo conferma) era limitata all’interno degli orizzonti definiti dalla Riforma tridentina: non contemplava la conoscenza di quelle opere che hanno ispirato e plasmato il sapere filosofico-giuridico-scientifico moderno. Nell’Ottocento, venendo meno il potere del clero, il divario fra la cultura cattolica e quella laica non fece che aumentare. L’analisi della pubblicistica religiosa attesta un in-segnamento staccato dalla Scrittura e dalla Patristica in cui le devozioni mariane e al Sacro Cuore avevano so-stituito la centralità del Vangelo.

Le scuole della «Dottrina Christiana» e le reliquie

Di fronte alla generale ignoranza reli-giosa, i missionari reagirono promo-vendo l’insegnamento della dottrina cristiana che, col tempo, si sarebbe trasformata in palestra per l’alfabe-tizzazione. Un discorso, qui solo evo-cato, fondamentale per apprezzare la precoce istruzione popolare sulla frontiera alpina a contatto con il mon-do protestante, per il quale la lettura della Bibbia fu un obiettivo irrinun-ciabile. In appena tre secoli, l’Europa occidentale più avanzata ha genera-lizzato per l’intero corpo sociale un privilegio riservato a pochi. Eloquente è l’elenco delle scuole cap-pellaniche valmaggesi desunto dagli atti delle visite pastorali. Broglio ha una scuola a partire dal 1669. A Pra-to Sornico la prima scuola è attestata nel 1683; per merito del sacerdote Carlo Antonio Guidini diviene gra-tuita nel 1762. Giacomo La Marca, di Cavergno, nel 1732 fa pervenire dall’Ungheria al comune la somma di 600 fiorini: due terzi devono essere utilizzati per dotare il villaggio di una scuola per «i figli maschi». A Maggia nel 1736 i Benefattori Romani crea-no e finanziano la cappellania scola-stica. A Campo, a metà Settecento, la famiglia Pedrazzini fornisce un ap-prendimento gratuito a tutti i ragazzi. Martino Pontoni, con un testamento rogato a Parma nel 1759, elargisce la stessa generosità a Cimalmotto19. All’inizio dell’Ottocento nessun vil-laggio del distretto è privo di scuola. Una conquista culturale all’origine di quel prezioso patrimonio epistolare che ha reso possibile un’analisi qua-litativa delle correnti migratorie, per-

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mettendo persino di conoscere, in fili-grana, qualche aspetto delle mentalità collettive, del lento cambiamento dei rapporti di potere e della condizione della donna20.Sono per lo più semplici i messag-gi che sapeva compitare chi aveva frequentato unicamente la Dottrina Christiana, finanziata, in molti casi, dagli stessi emigranti per rendere meno amara la lontananza. Ma, ol-tre ai «buoni costumi», il cappellano insegnava «la grammatica e le lette-re humane». A saperli leggere anche con il cuore, tentando di interpre-tarli con il supporto della critica più qualificata, questi segreti dell’animo popolare sono importanti quanto i rapporti dei sindacatori circa l’opera-to dei landfogti o le corrispondenze fra le pievi e le curie di Como e di Milano. Visti con gli occhi degli umi-li, gli eventi politici, e i notabili che li hanno magari provocati, contano poco. Più rilevanti sono le costrizioni strutturali che condizionano la quoti-dianità: il bello e il brutto tempo, cioè i buoni o cattivi raccolti, le malattie dei cristiani e degli animali...Gli epistolari popolari permettono di conoscere una società dall’interno at-traverso credenze e rappresentazioni, permanenze e trasformazioni dell’u-niverso contadino e artigiano. Essi costituiscono una fonte sorgiva della civiltà alpina, alternativa a quelle tra-dizionali, indispensabile per rinno-vare la nostra coscienza del passato e del presente, tanto da formulare domande come la seguente: l’attuale xenofobia delle destre è veramente l’espressione di un reale patriottismo o, più colpevolmente, ignoranza sto-rica? Questi carteggi – al pari degli archivi delle antiche comunità – sono scrigni, a più chiavi, da cui si posso-no ricavare molti stimoli per spiare e dipanare non solo la storia delle classi subalterne di ieri, ma anche per meglio interpretare la cronaca di quelle contemporanee. Un polifonico controcanto per recuperare il flusso e riflusso delle tensioni, dei pregiudizi, dei calcoli che hanno condizionato e accompagnato la vita quotidiana di coloro che, alle fatiche della monta-gna, hanno anteposto le avventure nel vasto mondo. Ed è appunto da quel mondo che gli scheletri dei santi Giuliano, Teodoro, Faustino, Teofilo, Gaudenzio, Vitto-rio e Bonifacio21, acquistati per lo più sulle rive del Tevere dalle corporazio-ni di stallieri e artigiani, sono entrati trionfalmente a incoronare i misteri cristiani con la predicazione dei mis-

sionari. Il bisogno di rassicurare dalle angosce personali e dalle inesplicabili collettive avversità dell’esistenza (a peste, fame et bello...) aveva contri-buito a cristianizzare gli antichi riti taumaturgici, attribuendo facoltà mi-racolose ai corpi dei santi, o presunti tali. All’epoca dell’informatica e della rivoluzione tecnologica, quelle ossa andrebbero magari (apriti cielo!) pas-sate al vaglio disinteressato del C14 per verificarne l’autenticità, come si è fatto per molte altre testimonianze, religio-se e no. Senza tuttavia dimenticare che «le reliquie sono state i fermenti della costruzione europea nel Medioevo»; lo ha dimostrato l’agnostico Le Goff con il parigino caleidoscopio della Sainte-Chapelle: il reliquiario più bel-lo della civiltà cristiana.C’è un altro importante capitolo della religiosità popolare, legato a doppio filo all’emigrazione, che merita tutta la nostra attenzione e riconoscenza. Basta entrare in una qualsiasi sagre-stia, aprire un armadio in noce mas-siccio per veder luccicare, assieme ai turiboli cesellati a mano, ai reliquiari intagliati e dorati, a qualche carta-gloria decorata con fogli d’argento sbalzato, anche pianete damascate e piviali trapuntati con fili d’oro pro-venienti dalle più famose botteghe italiane. Artistici manufatti portati da Roma, Firenze, Venezia, Viterbo, e chissà dove ancora, anche dalla Ger-mania, certo: perché al momento del rimpatrio ci si ricordava dei bisogni della comunità. In quei polverosi de-positi, dimenticati dalla memoria col-lettiva, sta incisa la sollecitudine delle confraternite nell’abbellire chiese e cappelle, rinnovare paramenti e arre-di devozionali anche nei più sperduti villaggi di montagna. Documenti che cantano all’unisono l’eterna presen-za del sacro nel profondo dell’animo umano. Uno scrupoloso inventario di questa pregevole espressione della re-ligiosità, materiale e spirituale insie-me, comprendente ben 6’545 schede, è stato allestito dall’Associazione per la protezione del patrimonio artistico e architettonico della Valle proprio per dimostrare che spetta ad ogni ge-nerazione interrogare il passato, in-terpretarlo in modo nuovo utilizzando i metodi d’indagine scientifica che si sono approntati grazie alla tecnolo-gia più avanzata e collaborando con i cultori delle scienze umane. Se ne potrebbe ricavare una conoscenza più persuasiva delle attitudini di fronte ai cataclismi naturali, che non dipende-vano solo dalle costrizioni ecologiche e biologiche, bensì anche dal senso di

responsabilità macerato attraverso la pratica dell’esame di coscienza e la promessa di una vita ultraterrena. La confessione obbligatoria e il culto dei morti hanno perfezionato la spiri-tualità e contribuito alla maturazione della responsabilità individuale e del-la solidarietà fra i vivi e i defunti.

Qualche rapido appunto sulla condizione femminile

Le lettere degli emigranti sono testi-monianze affidabili perché gli autori non si prefiggevano di scrivere la sto-ria ma neppure di manipolarla come invece si continua a fare con molti documenti ufficiali. Esse fungono da sismografo per misurare i cambia-menti di mentalità provocati dal con-tatto con l’esterno e con i diversi. Ci aiutano quindi a capire meglio alcuni problemi emergenti nella storiografia riguardanti il rapporto tra la cultura delle élites e quella popolare. Per re-stare fedeli al nostro tema, bisogna ricordare che quel lungo processo di acculturazione, sostenuto dal clero locale pungolato dai gesuiti e dai ve-scovi della Controriforma, si realizzò con il pieno consenso della base pro-prio perché lo stesso desiderio d’in-tegrazione culturale e religiosa era sentito dalle classi subalterne come una promozione sociale. Per sfug-gire alla cappa di controllo qual era diventata la Controriforma nelle sue pratiche più conformistiche, molti uomini hanno però preferito emigrare piuttosto che piegarsi alle devozioni pietistiche. Che ruolo hanno avuto nel far cono-scere, attraverso le lettere e i racconti diretti al momento del rimpatrio, tutte quelle novità che hanno contribuito a trasformare, seppur lentamente, la mentalità contadina di per sé conser-vatrice e avversa a qualsiasi innova-zione? È una delle numerose domande che ci si pone quando si è confrontati con gli scritti di montanari diventati servitori o artigiani in terre lontane. Quelli scambiati fra Pietro Vedova di Peccia, alle dipendenze di un cardi-nale romano, e suo cugino Francesco Spagnoli, parzialmente pubblicati da don Martino, (p. 423 ss.) ci permet-tono di riflettere su alcuni problemi essenziali per la storia moderna, quali il matrimonio tardivo e la condizione femminile. Anni fa ho avuto l’occasione di con-sultare gli originali di questo carteg-gio e mi sono accorto che alcune par-ti – per me le più importanti – erano state omesse. Una «censura» che fa

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sorridere, rappresentativa comunque di una lunga tradizione sessuofobica delle gerarchie ecclesiastiche. Nella lettera del 13 febbraio 1795, a propo-sito di due amici che litigavano per una giovane, il Vedova scrive: «Io li insegno il rimedio che facciano una notte per uno a stare in compagnia della sposa». Una battuta, certo, ma spia di una libertà non solo espressi-va che si trova raramente negli scritti popolari. Per il maschio emigrato era più facile sottrarsi al controllo sociale come confessa, poco sotto, con un ar-monico contrappunto: «Io sono come un uccello che or va sopra una rama ora sopra ad un altra»22. Orfano dell’apostrofo femminile e rinchiuso nella gabbia censoria, que-sto libertino volo d’uccello richiama nondimeno un’altra confidenza che si può leggere nella corrispondenza di Andrea Sebastiano Oldelli, inviata quasi un secolo prima ai parenti ri-masti sulle colline del Mendrisiotto, sempre da Roma, «dove gli schiochi [sciocchi] si raffinano, in soma qua è dove s’apre il spirito». È servita a Raul Merzario, con altri indizi e il supporto delle statistiche demogra-fiche, a dimostrare che la pratica del coitus interruptus per il controllo del-le nascite si è divulgata nel territorio alpino grazie agli emigranti. Una sto-ria amorosa e dolorosa insieme; spe-cialmente per la vedova Anastasia di Meride che, processata dai giudici di Uri e Basilea, ha perso l’onore, men-tre i suoi amanti l’hanno ritrovato23. Alcune donne di Lavizzara, stando almeno agli Statuti del 1630, assie-me all’onore, hanno arrischiato di perdere la dote e persino la vita. La loro condizione subordinata e discri-minata può essere documentata nei seguenti articoli di legge: «Item hanno statuito, ed ordinato, che se una donna non maritata peccasse di fornicazione nel suo corpo non possa succeder, né haver successione alcuna, maritata però peccando nel suo corpo ut supra perda la dote, & più oltre non possa hereditar come sopra, qual dote sia applicata à fi-gliuoli legitimi se né haverà, & se non né haverà sia applicata al suo marito cioè detta dote (...). Item hanno or-dinato, che se uno trovasse ascender sua moglie carnalmente in adulterio, che possa amazzar la moglie, e l’a-dultero senza pena alcuna»24.Queste sanzioni, contrassegnate col crisma istituzionale, sono state appli-cate per davvero o costituivano uni-camente delle misure deterrenti, co-munque discriminatorie, retaggio di

epoche lontane? Da modesto storico della domenica non so rispondere, ma da povero cristiano à la carte posso solo ricordare Luca e Giovanni. Con una consumata inventiva catechetica, il primo (7, 37-39) è l’unico evangeli-sta a menzionare l’incontro tra il Cri-sto e la prostituta: «una donna nota nella città come peccatrice, saputo che Gesù era a tavola presso il fariseo, venne portando un vaso di profumo in alabastro e, ponendosi alle sue spalle, presso i suoi piedi, incominciò a ba-gnarli di lacrime, poi li asciugava coi suoi capelli e li baciava e li cosparge-va di profumo. Vedendo questo, il fa-riseo che l’aveva invitato pensava tra sé: costui, se fosse un profeta, sapreb-be chi e che razza di donna è quella che lo tocca: una peccatrice». Nel vangelo di Giovanni (8, 3-10, l’epi-sodio è stato omesso da tutti gli altri testimoni!) quando i farisei, in nome della legge, pretendono che l’adultera venga lapidata, il Maestro si limita a scrivere col dito segni misteriosi sul-la sabbia prima di sentenziare: «Chi è senza peccato lanci la prima pietra». Sono trascorsi più di milleseicento anni da quando quegli scribi e farisei, «a cominciare dai più vecchi», se la svignarono, ma negli Statuti di Laviz-zara si è rimasti alquanto fallocratici, cioè farisei. Purtroppo, quei segni mi-steriosi sulla sabbia sono stati presto cancellati dal vento per lasciare a lun-go risuonare il misogino ritornello di Clemente Alessandrino, uno dei padri della Chiesa: «ogni donna dovrebbe morire di vergogna al pensiero di es-sere donna». E, tanto per attualizzare un’ingiustizia universale, comune a tutte le civiltà, culture e religioni, ba-sterebbe ricordare quella donna nige-riana di nome Amina, condannata alla lapidazione per aver dato alla luce una bambina 18 mesi dopo il divorzio. O quelle ragazze condannate a morte per aver partecipato a una protesta contro la dittatura iraniana, stupra-te prima del supplizio dai pasdaran della rivoluzione islamica perché il Corano non permette l’impiccagione delle vergini25.Ancora due parole per almeno evo-care uno dei problemi più importanti della civiltà occidentale, che va colle-gato alla discriminazione sessuale: il matrimonio tardivo. Negli Statuti ap-pena citati si afferma che «la donzella minor d’anni 20 non si deve maritare senza licenza de suoi parenti». Nell’e-dizione precedente, l’età per la donna era fissata a 18 anni. Semplificando si può dire che fin verso la fine del Medioevo prevaleva il matrimonio

puberale: l’inizio dell’attività sessua-le, sanzionata dalla legittima unione, avveniva cioè all’uscita dalla puber-tà. Le inchieste di una fitta schiera di specialisti della demografia storica hanno dimostrato in modo inequi-vocabile che nelle regioni economi-camente più sviluppate dell’Europa centro-occidentale, il matrimonio tardivo divenne una realtà tra il XIV e il XVII secolo. Pertanto, il maschio si sposa a 27-28 anni, la femmina a 24-25. Il fenomeno dilaga poi nelle campagne e nei luoghi montani più sperduti. Anshelm Zurfluh26, com-pulsando sistematicamente gli Status animarum delle parrocchie del can-ton Uri, ha ritrovato la stessa tenden-za fra i contadini, sollecitati dal servi-zio mercenario e dai traffici lungo il San Gottardo, a ritardare gli impegni famigliari, come tanti altri emigranti stagionali. Per il Ticino esistono solo alcuni dati molto frammentari. Nei paralleli registri di Airolo, due miei ex allievi hanno individuato il pro-gressivo ritardo dell’età matrimoniale a partire dalla fine del 1500. Nessun’altra civiltà ha perfeziona-to a tal punto questo vero e proprio tour de force che implica, tra l’altro, un marcato controllo culturale dei rapporti intimi. Non sarà stato facile andare contro la naturale tendenza ad avere relazioni amorose a cominciare dalla maturità biologica. Si spiegano così tutti quei divieti e impedimenti imposti alle coppie, la colpevolizza-zione degli stessi rapporti sessuali e la separazione fra spirito e corpo che, di pari passo, accompagnano la lotta per l’imposizione del celibato obbligato-rio al clero. Al di là di una visione ne-gativa della sessualità, che ha pesato essenzialmente sulle donne, il matri-monio tardivo ha significato una salu-tare diminuzione del potenziale ripro-duttivo, che è molto più elevato negli anni giovanili. La maturazione della coppia ha avuto soprattutto effetti po-sitivi sull’educazione dei figli e sulla capacità degli sposi di sottrarsi alle pur necessarie strategie matrimoniali, pensate per risolvere in modo razio-nale la successione ereditaria ma non per favorire un’unione sentimentale. In un’epoca in cui la speranza di vita superava raramente il mezzo secolo, molti genitori erano già morti al mo-mento della libera scelta dei figli. Una dura ascesi, dunque, che ha assecon-dato l’investimento nell’istruzione popolare, cioè in quel lento processo di democratizzazione che costituisce una prerogativa dell’Europa centrale, culla della modernizzazione.

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È quindi anche grazie al Cristiane-simo che, nell’età moderna, la civil-tà occidentale ha conosciuto quello slancio innovatore che la distingue dalle altre. Una ragione in più per ap-prezzare – e promuovere in una più vincolante comunità politica orgo-gliosa delle sue complementari diver-sità – altri valori forgiati nello stesso laboratorio europeo: la razionalità (con i suoi limiti, ma pur sempre, per Platone, espressione del divino sulla terra!), la libertà-responsabilità (lai-ca erede del peccato semita e della confessione cristiana), la democrazia rappresentativa, lo stato di diritto, la laicità, l’uguaglianza, la solidarietà e l’autocritica. Un’Europa della cultura auspicata dallo zurighese-lavizzarese Ernst Gagliardi. Un’Europa dei po-poli, già sognata da Erasmo, prete figlio di un prete, molto critico nei confronti di Lutero e del Vaticano. In barba alla condanna romana della sua erudita e generosa opera intellettuale, don Martino Signorelli ebbe il meri-to, mezzo secolo fa, di proporne una gustosa briciola alla riflessione dei giovani scanzonati di Lepontia.Una missione possibile, quella eu-ropea; quindi auspicabile, pur nella consapevolezza di un’amara attualità che ci sprona a lottare, con audacia, per restare liberi.

NOTE

1. Pubblichiamo il testo della relazione tenu-ta da Giorgio Cheda ai Ronchini il 16 marzo 2012. Personalmente – precisa l’autore – non ho condiviso la decisione di ripubblicare, in edizione anastatica, il volume di don Martino Signorelli, Storia della Valmaggia, sul quale Ottavio Lurati, a suo tempo, aveva formulato alcune giustificate riserve. (Cfr. Scuola tici-nese, Bellinzona, novembre 1972, p. 8). Dia-loghi ringrazia Giorgio Cheda per la messa a disposizione di questo testo.

2. Cfr. A. Lanini, Un dissenziente fedele. Frammenti e contrappunti, Locarno 1979, pp. 175.

3. «Del quale io mi vergogno», ha scritto il teologo Sandro Vitalini sul Corriere del Tici-no dell’11 aprile 2009.

4. Cfr. C. Orelli, Don Atanasio Donetti, un sacerdote ticinese in odore di giansenismo, in AA.VV., Carte che vivono. Studi in onore di don Giuseppe Gallizia, Locarno 1997, pp. 255-265.

5. Nel 1832, Gregorio XVI nell’enciclica Mi-rari vos definiva la libertà di coscienza «un delirio», nonostante il tentativo del domeni-cano Lacordaire, e di altri, di far riconoscere dalla Chiesa i diritti fondamentali scaturiti dalla Rivoluzione francese. Nello stesso anno aveva ordinato ai cattolici polacchi di sotto-mettersi allo zar di Russia Nicola I che aveva soffocato nel sangue i patrioti indipendentisti. Nel 1846, alla morte del papa, vennero libera-ti dalle prigioni vaticane più di 400 condan-nati per «delitti d’opinione»; altri 600 erano stati proscritti.

6. Cfr. G. Cheda, Le origini del movimento cristiano-sociale nel Ticino: 1890-1919, in Archivio Storico Ticinese 35, Bellinzona, set-tembre 1968, pp. 161-240.

7. Della fitta bibliografia mi limito a segnala-re due testi di uno studioso con il quale, nel 1963, ho fatto un viaggio in Italia aiutandolo nella raccolta di documenti privati e interviste presso gli ultimi protagonisti di quella fervi-da stagione; F. Turvasi, Padre Genocchi, il Sant’Uffizio e la Bibbia, Bologna 1971, 246 pp. e Giovanni Genocchi e la controversia modernista, Roma 1974, 502 pp.

8. Cfr. Cooperazione, 13 gennaio 1962. L’a-pertura alla cultura occidentale è un passag-gio obbligato verso la consapevolezza dell’u-niversale.

9. Pro Valle Maggia 1966, Locarno 1966, pp. 93-103.

10. Il documento è stato analizzato da P. Vi-smara Chiappa, ‘Lasciamo santificata questa valle’. Una missione dei gesuiti in Valmaggia (1627), in AA.VV., Carte che vivono, op. cit., pp. 431-446.

11. Lo dimostra D. Baratti, Poveri preti del Settecento. Il clero secolare in Lavizzara e in alcune parrocchie del Mendrisiotto, in AA.VV., Tra Lombardia e Ticino. Studi in memoria di Bruno Caizzi, Bellinzona 1995, pp. 61-87.

12. Cfr. S. Bianconi e B. Schwarz, Il vescovo, il clero, il popolo. Atti della visita personale di Feliciano Ninguarda alle pievi comasche sotto gli Svizzeri nel 1591, Locarno 1991, pp. 276-288.

13. Sul tema della confessione ha scritto capitoli molto densi e documentati A. Pro-speri, Tribunali della coscienza. Inquisito-ri, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 213-548. Per la diocesi milanese ha ripreso la complessa problematica l’olandese Wietse De Boer, The Conquest of the Soul. Confes-sion, Discipline and Public Order in Counter-Reformation Milan, Leiden 2001. Lo studioso ha ricostruito il progetto di san Carlo di tra-sformare la confessione in un vero e proprio tribunale inquisitorio.

14. Alla vigilia della Rivoluzione francese, ad esempio, in Val Blenio venivano ancora celebrate feste a Bacco frammiste al rituale cattolico. Cfr. B. Bertoni, Delle condizioni agrarie nel Cantone Ticino e specialmente nei distretti superiori, Lugano 1851, p. 28.

15. C. Frugoni, Francesco e l’invenzione del-le stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Torino 2010.

16. Del disprezzo del mondo: un testo di In-nocenzo III (1160-1216) che ha marcato, per secoli, la spiritualità cristiana, senza tuttavia ostacolare un continuo progresso materiale; per la Lombardia basterebbe ricordare l’opera degli Umiliati. Cfr. J. Delumeau, Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident (XIII-XVIII siècles), Paris 1983, p. 21 ss.

17. E. Le Roy Ladurie, Parmi les historiens, Paris 1983, p. 44.

18. M. Signorelli, Un centro culturale in La-vizzara, in Almanacco Valmaggese 1960, Lo-carno 1959, pp. 38-48.

19. La ricerca sulle scuole cappellaniche è stata ripresa e approfondita da I. Cappelli e C. Manzoni, Dalla canonica all’aula. Scuole e alfabetizzazione da San Carlo a Franscini, Pavia 1997, 445 pp. Il caso più commovente è sicuramente quello degli spazzacamini verza-

schesi che, nel Seicento, emigrano in Sicilia e costituiscono una corporazione per finan-ziare il viaggio e provvedere all’alfabetizza-zione dei ragazzi. L’archivio di Lavertezzo conserva la documentazione della «Scuola di Palermo». Cfr. A. Poncini e L. Poncini Vosti, Leggere, scrivere e far di conto. Trecento anni di scuola in Val Verzasca, Sonogno 1994.

20. Lo studio di F. Chiesi Ermotti, Percorsi femminili nel casato dei mercanti Pedraz-zini di Campo Vallemaggia (XVIII sec.), in AA.VV., Donne e lavoro. Prospettive per una storia delle montagne europee XVIII-XX secc., Milano 2010, pp. 50-67, documenta la condizione privilegiata della donna apparte-nente a una famiglia diventata benestante con l’emigrazione. Per contrasto, completa quella che emerge dalla lettura degli epistolari con-tadini.

21. Rispettivamente a Cevio, Bosco Gurin, Cavergno, Prato, Bignasco, Campo e Ceren-tino. Sette resti di corpi di santi, su un totale di 26 per l’intero Ticino, estratti per lo più dalle catacombe romane, vennero traslati in Valle Maggia; cfr. S. Borrani, Il Ticino sacro, Lugano 1896, pp. 162-192 e G. Buetti, Note storiche religiose delle Chiese e Parrocchie della Valle Verzasca, Gambarogno, Valle Maggia e Ascona, II vol., Locarno 1906, pp. 91, 108, 130 e 153. Su san Faustino si leggano le considerazioni di P. Martini, Meteorologia barocca, in Delle streghe ed altro, Locarno 1979, pp. 109-117, e in Corona dei Cristiani, Locarno 1993, pp. 43-53. Il culto dei santi du-rante la Controriforma ha contribuito a rende-re inutile il ricorso popolare alla magia; cfr. J. M. Sallmann, Naples et ses saints à l’âge baroque (1540-1750), Paris 1994, 440 pp.

22. Non bisogna dimenticare che per l’orto-dossia cattolica l’atto sessuale, persino quel-lo compiuto all’interno del matrimonio, era considerato peccato perché fonte di piacere. Così si spiega, ad esempio, l’obbligo per la mamma di ricevere una benedizione speciale prima di accedere alla chiesa dopo il parto; una consuetudine in vigore nelle campagne ancora durante la Seconda guerra mondiale.

23. R. Merzario, Anastasia, ovvero la mali-zia degli uomini. Relazioni sociali e controllo delle nascite in un villaggio ticinese, 1650-1750, Bari 1992, 139 pp., G. Martinola, Le maestranze d’arte del Mendrisiotto in Italia nei secoli XVI-XVIII, Bellinzona 1964, p. 118. Una sentenza della Sacra Penitenzieria vaticana del 1842, che spiega la dicotomia sessuale e religiosa originata dal coitus inter-ruptus, affermava: «C’è peccato per l’uomo quando si ritira, non per la donna che lo su-bisce passivamente». Cfr. E. Le Roy Ladurie, Le territoire de l’historien, Paris 1973, pp. 314-315.

24. Copia delli Statuti della Valle Lavizara – in Milano, Nelle Stampe dell’Agnelli, del 1630, copia anastatica, Lugano, Unione di Banche Svizzere 1989, Libro III, capo LXLI, p. 86 e Libro V, capo LV, p. 134.

25. Cfr. la stampa internazionale del 22 luglio 2009.

26. Une population alpine dans la Confédéra-tion. Uri aux XVII-XIX siècles, Paris 1988, pp. 346-352. Sul significato globale dell’indagine si vedano le considerazioni dello stesso Zur-fluh, Les racines d’un déraciné. Ego-histoire et auto-présentation d’une étude sur Uri, in Archivio Storico Ticinese, 112, dicembre 1992, pp. 249-276.

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No. 224 17notizie belle e buone

Notizie belle e buoneFate regali utili. L’Aiuto protestante svizzero (EPER) propone di offrire per Natale regali utili: una capra, una gallina, un maialino ecc., con 41 proposte diverse. Per ogni dono (ovviamente destinato a famiglie povere del Terzo Mondo), viene rilasciato un certificato che può essere in-viato a parenti ed amici in occasione del Natale. (www.offrir-son-aide.ch, oppure 021.613.44.56).

Premio Caritas. Il Premio Caritas 2012 per l’umanità è stato conferito al contadino guatemalteco José Maria Romerio, 46 anni, padre di sette figli, presidente di una organizzazione che lotta per il diritto alla terra. Grazie all’organizzazione «Instancia Tierra Norte», oltre duemi-la famiglie indigene hanno avuto accesso a un terreno da coltivare, con la sicurezza di un contratto.

Due premiati. Il «Premio Farel», del Festival internazio-nale del film di argomento religioso, svoltosi a Neuchâtel dal 5 al 7 ottobre, è stato attribuito al lungometraggio di Ruben Russello della RSI che racconta l’impegno di padre Mauro Jöhri, «generale» dei cappuccini, il quale incorag-gia i suoi frati a vivere la fede al servizio dei poveri, ai quattro angoli del mondo. Premiati quindi l’operatore e il protagonista.

Presidenze ecumeniche. L’assemblea della comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Svizzera ha eletto alla pre-sidenza, per il periodo 2013-2014, la pastora Rita Famos, membro del Consiglio della Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera e pastora nella Chiesa di Zuri-go. La comunità di lavoro comprende, oltre le tre Chiese storiche, anche nove altre comunità, compresa la Chiesa libera avventista quale osservatore. Paolo Sala è il nuovo presidente della Comunità di lavoro delle Chiese cristiane nel Ticino, costituita nel 2000 e comprendente rappresen-tanti anglicani, cattolici cristiani, cattolici romani, copti ortodossi, battisti, evangelici riformati, ortodossi e siro ortodossi.

Nobel europeo. Il Premio Nobel per la pace 2012 è stato assegnato all’Unione Europea per aver contribuito a pro-curare all’Europa oltre 60 anni di pace. Il giornale cattolico «La Croix» plaude alla «bonne nouvelle» (eh sì), perché si tratta «di mettere d’accordo solidarietà e responsabilità» e il premio «è un appello a continuare l’opera intrapresa». Approvazione anche da parte del cardinale Reinhard Marx di Monaco, presidente della Commissione degli episco-pati della Comunità europea (COMECE, composta di 26 vescovi).

Scelta di civiltà. L’afro-americano Barack Obama è stato riconfermato presidente degli Stati Unici contro il bianco miliardario Mitt Romney. Una riconferma di lungo pe-riodo, che non dovrebbe essere ignorata da ogni cristiano (vescovi e giornalisti compresi), in un clima di dilagante razzismo.

Alla cassa. Dal 2013 (finalmente!) anche la Chiesa catto-lica in Italia pagherà le imposte sugli immobili che svol-gono attività commerciale, anche se servono parzialmente a scopi religiosi. Si calcola che il patrimonio ecclesiastico comprenda centomila edifici (scuole, università, cliniche, ristoranti, alberghi, centri sportivi, ecc.) per un valore sti-

mato a nove miliardi di euro. La decisione è stata solle-citata dall’Unione Europea (Premio Nobel, sì!) per porre fine alla situazione di concorrenza sleale che costituiva l’esenzione fiscale degli edifici ecclesiastici. «Le droit est du Ciel» (Lacordaire)!

Risate liberatrici. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si erano limitati a scambiarsi un sorrisetto, mentre il Dalai Lama, interrogato su Berlusconi, ha reagito con una salva di clamorose risate.

Cittadini onorari. La Città di Domodossola ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria a tutti i bambini nati da stranieri residenti nel Comune, e ciò in base allo jus soli. Una decisione che ridicolizza le nostrane pretese di «na-turalizzazione»: siamo uomini o caporali?

Tre milioni al convento. Il Cantone di Argovia ha deci-so di contribuire con tre milioni di franchi al restauro del convento dei benedettini di Fahr. Il costo totale dei lavori, che dureranno trent’anni (oibò!), è calcolato in circa venti milioni. Il sussidio cantonale servirà a migliorare gli im-pianti di riscaldamento e di illuminazione e a risparmiare energia.

Nuovi beati. Don Pino Pugliese verrà proclamato «beato» il prossimo 25 maggio. Ad annunciare la data della bea-tificazione del prete di Brancaccio, ucciso dalla mafia, è stato il cardinale di Palermo Paolo Romeo, al termine della celebrazione eucaristica svoltasi il 15 settembre, in occa-sione del XIX anniversario della morte di don Pino. La celebrazione si terrà a Palermo, probabilmente all’aperto, per consentire la partecipazione di migliaia di fedeli che vorranno essere presenti. Intanto sembra imminente l’ini-zio del procedimento a favore della beatificazione di Aldo Moro, nato in Puglia nel 1916 e assassinato dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. La richiesta è stata presentata, all’inizio di settembre, al tribunale diocesano di Roma, competente perché Roma è il luogo della morte di Moro.

Traguardo raggiunto. Secondo l’Organizzazione del-le Nazioni Unite, il Brasile avrebbe raggiunto uno degli obiettivi fissati dal Millenium, riducendo al 73% la mor-talità infantile rispetto al 1990, con un anticipo di quattro anni rispetto al termine, previsto del 2015. Un contributo significativo è stato dato dalla «Pastorale dell’infanzia», organismo della Conferenza nazionale dei vescovi brasi-liani, che dal 1983 opera per fornire consigli di igiene a migliaia di bambini e di madri meno favoriti.

Guerra alla povertà. L’Associazione Monastero del bene comune di Verona, con una rete di altre realtà: associazio-ni, riviste, singole personalità, ha lanciato una campagna contro la povertà, all’insegna del motto Banning Poverty 2018, con l’obiettivo a lungo termine di fare approvare dall’Assemblea delle Nazioni Unite una risoluzione, a 70 anni dalla Dichiarazione dei diritti umani, che dichiari il-legali le pratiche sociali e culturali e le leggi che generano impoverimento. Il sesto dei «Dodici principi dell’illegalità della povertà» recita: «Il pianeta degli impoveriti è diven-tato sempre più popoloso a seguito dell’erosione e della mercificazione dei beni comuni, perpetrata a partire dagli anni 70». Il primo principio afferma: «Nessuno nasce po-vero né sceglie di essere o diventare povero». L’associa-zione promotrice ha sede presso la comunità dei religiosi stimmatini di Sezano.

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18 No. 224osservatorio ecumenico

oSSerVATorIo ecUmeNIco

Minoranze riconosciute a MilanoIl Comune di Milano ha istituito un «Albo delle organiz-zazioni e delle associazioni religiose» e una «Conferenza permanente delle confessioni religiose», tra l’Ammini-strazione comunale e i rappresentanti dei culti religiosi che non sono titolari di un’intesa con lo Stato. Le realtà cittadine che si iscriveranno all’Albo potranno richiedere, dopo aver seguito apposite procedure, la messa a norma dei luoghi che attualmente usano per l’esercizio del culto, oppure beneficiare della destinazione di strutture o spazi, sia pubblici sia privati, per lo svolgimento delle attività di preghiera. Al momento dell’iscrizione all’Albo, i vari sog-getti sottoscriveranno un Protocollo di intesa con l’Ammi-nistrazione comunale, nel quale saranno esplicitati i diritti e i doveri delle parti. Le associazioni e le organizzazioni iscritte all’Albo faranno parte della «Conferenza», che permetterà di monitorare e risolvere eventuali criticità e attivare iniziative di incontro rivolte alla popolazione cit-tadina. Per realizzare tutto questo percorso, l’Amministra-zione si avvarrà di una Commissione di studiosi ed esperti di diritto delle religioni. Si tratta di un passo importante per la promozione del dialogo interreligioso e per il soste-gno del diritto alla libertà di culto. Varie comunità religio-se che non godono del riconoscimento statale (concordati o intese) chiedono di essere riconosciute e di poter profes-sare la propria fede in modo dignitoso e rispettoso delle norme. La notizia è stata salutata con favore da Giuseppe Platone, pastore della Chiesa valdese di Milano nonché segretario del Consiglio delle Chiese cristiane di Milano (Cccm) e membro del Forum delle religioni del capoluogo lombardo, perché si va a colmare in parte il vuoto legisla-tivo dovuto all’assenza di una legge organica sulla libertà religiosa in Italia. I musulmani attendono da anni l’au-torizzazione a creare una moschea: l’amministrazione di centrodestra non l’ha mai autorizzata. Il 18 luglio è arriva-ta intanto la notizia dell’approvazione definitiva al Senato delle Intese con la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, la Chiesa Apostolica in Italia e la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni.

Verso una «visione comune» tra le Chiese

In un incontro, svoltosi sull’isola di Penang in Malesia, la Commissione «Fede e Costituzione» dei Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) ha approvato un nuovo accordo teologico, chiamato Documento di Penang, dal titolo: «La Chiesa: verso una visione comune». Si tratta del secondo documento detto di «convergenza» nella sto-ria ultracentenaria di «Fede e Costituzione», organismo composto non solo di rappresentanti delle Chiese aderenti al CEC ma anche di altre confessioni, tra cui la Chiesa cattolica romana. Il direttore, l’anglicano John Gibaut, ha dichiarato: «Questo ‘testo di convergenza’ mostra quanto i membri della Commissione siano in grado di avvicinarsi sul significato dell’essere un’unica Chiesa di Gesù Cri-sto. Ora l’accordo raggiunto dalla Commissione passerà al vaglio delle singole Chiese membro». La Commissio-ne «Fede e Costituzione» ha esaminato anche la bozza di un documento intitolato «Discernimento morale nelle Chiese», un testo teso ad assisterle nella gestione delle

profonde divisioni che possono scaturire da diverse visio-ni di ordine morale, con lo scopo di prevenire eventuali spaccature tra di esse.

Problemi finanziari al CECIl Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) tira un sospiro di sollievo: un versamento straordinario di 24 milioni di franchi, reso possibile da un prestito della Banca Coop, ha ripianato il deficit della sua cassa pensioni, ripresa da un’i-stituzione previdenziale collettiva. L’organismo ecumeni-co internazionale intende ora valorizzare i beni immobili che possiede a Ginevra. Il pericolo di una crisi istituzionale del CEC è dunque per il momento scongiurato. Il deficit della cassa pensioni era il risultato di un grave squilibrio tra il numero dei contribuenti e quello dei beneficiari, i pensio-nati essendo il 70% del totale degli affiliati. Le loro condi-zioni pensionistiche, ha fatto sapere il CEC – che impiega 150 persone nella sua sede centrale di Ginevra – non peg-gioreranno. La cassa pensioni è «in corso di trasferimento» verso l’istituto di previdenza Profond, un gruppo che cura gli interessi di oltre 1700 clienti svizzeri e gestisce capitali per un valore di oltre tre miliardi di franchi svizzeri. Siste-mata la questione della cassa pensioni, il CEC ha avviato, con l’immobiliare Implenia Developement, uno studio per la valorizzazione dei propri beni immobili.

La Bibbia in CinaLo scorso mese di luglio, la Amity Printing Company ha stampato la centomilionesima copia della Bibbia. Fondata nel 1988 con la missione e lo scopo prioritario di servire la Chiesa cristiana in Cina, oltre a produrre per la Cina, la Amity Printing Company produce bibbie per comunità cristiane in oltre 70 nazioni. Il risultato è stato consegui-to grazie al costante sostegno dato dalle Società bibliche, dell’Alleanza Biblica Universale e dai donatori in 25 anni di vita. Dal 1987 quasi 60 milioni di copie di Bibbie sono state stampate per la diffusione nel territorio cinese. Nelle campagne, dove la Chiesa è particolarmente forte, molte persone non sono in grado di leggere la Bibbia per proprio conto, per cui la gente apprezza molto luoghi, culti o mes-se in cui la sua fede viene rafforzata.

Lutero a GinevraUn documento raro del riformatore tedesco, scritto due anni prima della morte, in cui Lutero ribadisce la propria concezione della Santa Cena, è entrato a far parte della collezione del Museo internazionale della Riforma. «Let-tera a un buon amico»: è questo il titolo del manoscritto inedito, firmato da Lutero, acquistato a Parigi da un col-lezionista durante una vendita all’asta e donato al Museo. «Fino a oggi conoscevamo soltanto la versione stampata di questo documento», informa Isabelle Graesslé, diret-trice del museo. L’acquisizione potrebbe stimolare ul-teriormente la frequentazione del museo ginevrino, che accoglie quasi ventimila visitatori all’anno. In realtà il «buon amico» a cui si rivolgeva il riformatore non era una persona reale. La formula retorica mirava a raggiungere il maggior numero di lettori. Proveniente da un’antica colle-zione francese, il documento presenta delle differenze con il testo stampato. «Si distingue per una certa urgenza: è evidente che Lutero sente avvicinarsi la fine», suggerisce la direttrice. Il riformatore stesso ammise: «È più veemen-te di quanto fosse necessario».

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No. 224 19cronache del giubileo del Concilio

croNAche DeL gIUbILeo DeL coNcILIo

I vescovi svizzeri: tre anni sul Concilio

L’11 settembre, a Berna, i vescovi svizzeri (assente solo Felix Gmür, di Basilea, delegato della Conferenza al Sino-do dei vescovi di Roma) hanno convocato i delegati delle diocesi e associazioni per invitare le Chiese locali a ricor-darsi del giubileo del Concilio Vaticano II, nella forma di una riflessione triennale sui grandi documenti dell’assise romana. Durante la celebrazione eucaristica (in quattro lingue) è stato consegnato alle diocesi un Appello in cui si rilevano le acquisizioni più importanti del Vaticano II, si invita a riconfrontarsi con il Concilio e si indicano i tre percorsi – uno per ogni anno, fino al 2015: (1) «la fede che celebriamo» (la riforma liturgica), (2) «la fede che ci uni-sce» (la Bibbia e la concezione della Chiesa), (3) «la fede che ci impegna» (i cristiani nel mondo). Nel pomeriggio c’è stato un tentativo di far memoria dello spirito del Con-cilio, per la verità partito in tutte le direzioni senza mol-to costrutto. Mons. Pier Giacomo Grampa, intervenuto a conclusione della discussione del pomeriggio, ha osserva-to che i tre anni di riflessione devono aiutarci a ricaricare le nostre «batterie quasi scariche». Da dove viene l’ener-gia, è abbastanza chiaro («Io sono la vite…»), ma è neces-sario che qualcuno innesti la spina. E ciò spetta ai vescovi e più ampiamente al clero e ai laici «postconciliari». La democrazia non sorge spontaneamente dal basso ma va sollecitata dall’alto, e un’«inchiesta-partecipazione» può stimolare il Popolo di Dio a ricaricarsi (cfr. «Dialoghi» n. 223: «E adesso, un nuovo Sinodo svizzero»).

L’Appello dell’11 ottobre I testi dell’Appello dei vescovi e un calendario delle ini-ziative per il Giubileo del Concilio in Svizzera sono su In-ternet (www.vaticano2.ch). Vanno qui ricordati – sia pure in modo incompleto – alcuni punti importanti e sempre attuali dell’Appello:– la liturgia deve essere rinnovata, perché la Parola di Dio sia annunciata meglio e più abbondantemente. Le cele-brazioni devono essere semplificate e devono par lare la lingua della gente, con la partecipazione attiva di tutti i fedeli. – la Chiesa va percepita meglio come il Popolo di Dio, nel quale Cristo Redentore incontra gli uomini e li vuole riconciliati con Dio e tra di loro. Tutti sono chiamati alla santità: in virtù di tale comune vocazio ne chi ha ricevuto un ordine sacro non deve dominare bensì servire il Popolo di Dio, nel quale deve attivarsi una comunità viva e fraterna. – Dio si rivela non solo nella creazione e con la sua Pa-rola, ma soprattutto nella persona di Cristo Gesù. La testi-monianza di chi lo ha conosciuto si è riversata nelle Sacre Scritture e nella tradizione della Chiesa. – la Chiesa si apre al mondo moderno, senza adeguarvi-si ma rendendovi presente il messaggio salvifico di Gesù Cristo. – la Chiesa apprezza ogni bontà e grandezza presente nel-le religioni non cristiane. Essa deve annunciare loro Gesù Cristo, che in quanto vero uomo e vero Dio ama e salva tutti gli uomini. Ma ciò avviene nel rispetto della libertà di ognuno: a nessuno è lecito imporre una religione.

– Noi cristiani dobbiamo sentirci particolarmente vicini agli Ebrei, che sono i nostri fratelli maggiori e ci han no donato la speranza nel Messia redentore.– Il Decreto sull’ecumenismo afferma che la ricerca dell’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa visibile è compito di ogni cristiano. Ne sono parte costitutiva la con-versione, il dialogo e la preghiera, perché in ultima analisi non possiamo crearla da noi stessi ma la riceviamo come dono di Dio.– Il Battesimo fonda il sacerdozio comune di tuti i cristia-ni. Tra le persone ordinate (vescovi, presbiteri, diaconi) e i laici la differenza non è di grado ma ontologica. Alle persone ordinate spetta in modo proprio l’avvicinare ogni persona al Cristo Redentore.

Per non dimenticare (Roma, 15 settembre 2012)

«Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri»: a questa insegna si è svolto a Roma il 15 settembre il primo convegno di gruppi ecclesiali liberi per attualizzare il messaggio del Concilio Vaticano II. Il titolo richiama un’espressione contenuta nel messaggio radiofonico con cui, nel 1962, papa Giovanni XXIII annunciava l’imminente apertura del Concilio. Il numero dei partecipanti – quasi settecento – ha sorpreso un po’ tutti. Il boicottaggio organizzato prima e dopo il convegno (non ne hanno parlato né Radio Vaticana, né la Rai, né il giornale dei vescovi «Avvenire») non ha osta-colato la convocazione né tanto meno la qualità dell’in-contro, svoltosi nell’auditorium dell’Istituto Massimo dei Gesuiti a Roma. Il tema del cinquantesimo dal Concilio Vaticano II è stato trattato da una prospettiva biblica, teologica e storica. Non è stato votato alcun documento fi-nale. Entrambi impediti dall’età avanzata, hanno mandato messaggi il cardinale Loris Capovilla, segretario di Papa Roncalli, e mons. Luigi Bettazzi, tra i pochi vescovi par-tecipanti al Concilio ancora in vita. Di particolare rilievo una sottolineatura del teologo Carlo Molari sulla diatriba ermeneutica, tra rottura e continuità («la continuità del cammino della Chiesa non è data dalle idee dei suoi sog-getti ma dalla fedeltà al Vangelo del soggetto Chiesa»). Emozionante il ricordo del gesuita p. Felice Scalia sulle divisioni nella Compagnia di Gesù seguite al Concilio (in pochi anni uscirono più di diecimila persone), severo il suo giudizio sul contrasto tra papa Giovanni Paolo II e il «generale» della Compagnia p. Arrupe. Hanno parte-cipato al convegno anche alcuni membri del Comitato di «Dialoghi». (adista n. 34, 29 settembre 2012; i testi delle relazioni sono reperibili al sito www.viandanti.org).

Riproposti i messaggiAlla fine della messa celebrata in piazza San Pietro per l’apertura dell’Anno della fede, papa Benedetto XVI ha consegnato ai rappresentanti di coloro cui furono rivolti, i sette messaggi finali del Concilio Vaticano II. Un gesto (allora) di rottura nel solco della presente continuità.

Auguri di Buone Feste a tutti i nostri lettori

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20 No. 224cronaca

croNAcA SVIzzerAa cura di Alberto Lepori

Le «ultime» sul GdP. All’inizio di ottobre è stato annunciato un accordo nuovo in seno a «Timedia», il gruppo editoriale che comprende il «Corriere del Ticino», il «Giornale del Popo-lo», l’emittente televisiva Teleticino e la Radio 3iii, più le relative edizio-ni in rete. Secondo notizie riservate, inizialmente l’accordo era molto se-vero per il GdP, in quanto prevede-va un azzeramento di quasi tutta la parte tecnica, grafica, di segretariato e di marketing, oltre a una riduzione delle capacità giornalistiche. Vescovo e direzione del GdP hanno puntato i piedi e ottenuto che il GdP «mantie-ne la propria indipendenza editoriale, operando però un’ulteriore e impor-tante riduzione dei propri costi, grazie alle sinergie elaborate all’interno del gruppo [cioè] un’accresciuta coope-razione tecnica, amministrativa ed editoriale con il ‘Corriere del Tici-no’» (GdP del 4 ottobre). L’accordo, dovuto al calo delle risorse pubblici-tarie del «Giornale del Popolo» (ma anche del «Corriere») è stato venduto come un buon affare per entrambi, visto che insieme potranno propor-re agli inserzionisti una pubblicità spalmata su un numero maggiore di copie vendute. I fatti diranno se le ri-duzioni di capacità al «Giornale del Popolo» non saranno tali da ridurre il proprium del GdP agli editoriali e alle omelie del Vescovo.

Parole felici. Il vescovo di Basilea, Felix Gmür, delegato dei vescovi svizzeri al recente Sinodo dei vesco-vi, ha preso due volte la parola, per chiedere la conversione anche delle istituzioni e rendere la Chiesa catto-lica «più credibile». Ha fatto poi due proposte: conferire maggiori respon-sabilità ai laici, specie nelle comunità dove mancano i preti, e trovare una soluzione pastorale per i divorziati risposati, che spesso dimostrano di essere buoni cristiani.

Auspici. «Il tema di quest’anno ver-teva attorno alla differenza tra colla-borazione e corresponsabilità nella Chiesa. Si tratta di un dibattito mol-to attuale, in quanto qui troviamo la chiave di lettura del rapporto costrut-tivo tra la gerarchia ecclesiastica e i laici: il passaggio dalla collaborazio-ne dei laici a un certo tipo di corre-sponsabilità con il clero permette una

maggior condivisione delle misure, delle strategie e dei progetti da attua-re, nelle diocesi, sul territorio, per una più efficace testimonianza del Popo-lo di Dio nel mondo. Ciò che si è ri-scontrato nei dibattiti è che la Chiesa è ancora troppo verticistica, in quanto non sono ancora stati attuati comple-tamente alcuni documenti del magi-stero sulle responsabilità affidate ai laici, come la costituzione dogmatica Lumen Gentium o come un’enciclica del Beato Giovanni Paolo II Christi-fideles laici. Coinvolgere maggior-mente i laici significherebbe maggio-re efficacia e maggior ricchezza nella Chiesa». Dal Forum internazionale dell’Azione Cattolica, Iasi (Roma-nia), 22-26 agosto 2012, cronaca su «Spighe», ottobre 2012).

Come lo vorremmo. Mons. Grampa, nella sua «colonnina» settimanale sul «Giornale del Popolo» del 14 aprile, cita il card. Martini che chiedeva un vescovo che fosse «un uomo umile, che vince le durezze con la propria dolcezza, che sa essere discreto, che sa ridere di sé e delle proprie fragilità, che sa rimettersi in discussione, che sa riconoscere i propri errori, senza troppe autogiustificazioni». E conclu-de: «Dunque anzitutto un uomo vero: ci auguriamo che così possa essere il prossimo vescovo del Ticino».

Rivista diocesana. Nel fascicolo luglio-agosto 2012, il resoconto fi-nanziario della Diocesi di Lugano. Il conto economico si chiude con un disavanzo di fr. 182.253,45, coper-to interamente dalla partecipazione delle parrocchie. Tra le voci passive principali, oltre 950.000 franchi per le «strutture diocesane» (Facoltà di teologia fr. 550.000; Collegio Pio XII fr. 168.000, «Giornale del Popolo» fr. 164.000), e fr. 750.000 per la «pasto-rale diocesana» (Azione cattolica, Pa-storale giovanile, Pastorale familiare, ecc., compresi gli «aiuti a parrocchie povere» con oltre fr. 194.000 per «sovvenzione sacerdoti»). Pubblicato anche il risultato delle collette nelle singole parrocchie nel 2011, tuttavia senza l’indicazione del totale dio-cesano (che sarebbe un interessante indicatore delle sensibilità dei «pra-ticanti»). A pagina 258 è pubblicato l’Appello delle Chiese per la giornata dei rifugiati, con un richiamo finale

che afferma «il rispetto e la dignità di ogni persona», ma con un inizio scia-gurato: «L’ospite potrebbe addirittura rilevarsi un nemico». Per fortuna dei rifugiati (e delle Chiese che lo firma-no), l’appello è stato ignorato dai me-dia. Chi è stavolta il maggiordomo?

Giornata mondiale di preghiera. La Giornata mondiale di preghiera (ini-ziata nel 1887 e sostenuta oggi da un movimento mondiale ecumenico che coinvolge donne di 170 paesi) avrà luogo venerdì 1. marzo 2013, sul tema «Ero straniero e mi avete accol-to». Le preghiere sono state preparate da donne francesi, che destineranno la colletta a progetti di sostegno a donne immigrate. La colletta del 2012 per la Malaysia ha raccolto in Svizzera fr. 465.000.

Successo dell’iniziativa. La cosid-detta «Iniziativa delle parrocchie», promossa il 10 settembre per chiede-re di discutere alcuni temi che fanno problema nella Chiesa svizzera, ave-va raccolto a metà ottobre oltre 340 firme di agenti pastorali (preti e laici) e 180 firme di simpatizzanti. Critica-ta dai vescovi della Svizzera tedesca, perché non si tratterebbe di questioni significative per l’attività pastorale, sembra tuttavia che un dialogo sia ini-ziato tra rappresentanti dell’iniziativa e alcuni vescovi.

Terra per il pane. La campagna ecu-menica per la Quaresima del 2013 tratterà il diritto alla terra, con lo slogan «Senza terra, niente pane». Le multinazionali dei Paesi ricchi (compresa la Cina…) stanno acqui-stando territori immensi in Africa (67 milioni di ettari, 17 volte la Svizze-ra!), a scapito delle popolazioni locali che tradizionalmente (e spesso senza titoli di proprietà) le utilizzano. Am-moniva Papa Gregorio Magno (590-604): «Le persone che si appropriano del suolo, dono di Dio, privando i po-veri del loro sostentamento, uccidono coloro che muoiono di fame».

Statistica svizzera. Il dato più rile-vante è l’aumento in Svizzera di chi si dichiara senza religione (o non vuo-le indicarne alcuna). Nel 1970 erano l’1% della popolazione, nel 2000 il 20%, con punte del 42% a Basilea Città, del 37% a Neuchâtel, del 35% a Ginevra, del 26% a Vaud. Mentre i cattolici a Vaud restano attorno al 31% nel 2010, in netto regresso ap-pare la quota parte dei protestanti, passati dal 63% del 1970 al 32% nel

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2010. È evidente l’influsso dell’im-migrazione (italiana, spagnola, porto-ghese, ecc.) che favorisce i cattolici, meglio ripartiti anche per classi d’età, mentre i protestanti sono sempre più anziani e… svizzeri!

Ministeri femminili. In occasione dell’inizio dell’Anno pastorale a Fri-burgo, celebrato il 15 settembre nella chiesa di Bulle, sono stati conferiti diversi «mandati pastorali», tra cui per la prima volta sei incarichi qua-li «aiuti pei funerali» ad altrettante donne (tra cui una suora), col com-pito di accompagnare persone in lut-to e officiare cerimonie funebri con letture liturgiche. Un nuovo (piccolo) passo a favore dei «ministeri laicali» femminili? Non pare ancora il caso di sonare le trombe…

Sacrificio quaresimale. Nel 2012 il Sacrificio Quaresimale ha ricorda-to il 50esimo di vita e ha elaborato una nuova Strategia 2016 «Raffor-zarsi reciprocamente», occasione per un’analisi, sia all’interno della orga-nizzazione sia al suo esterno, circa le nuove sfide da affrontare nella lotta alla povertà. La campagna d’infor-mazione e di sensibilizzazione e i festeggiamenti per il 50esimo hanno fatto conoscere meglio l’impegno del SQ in particolare in favore del diritto al cibo. Dal punto di vista della rac-colta fondi si è registrata un’evolu-zione positiva delle offerte di privati, pari a fr. 16.306.509 (+ fr. 336.411 rispetto al 2010). A causa degli im-porti minori dei lasciti e dei contri-buti pubblici (-1.104.949), il totale delle entrate da offerte e contributi è stato di fr. 20.107.432, leggermente inferiore rispetto all’anno precedente (-730.488). Gli altri prodotti (frutto di operazioni di negoziazione e di pre-stazioni, compresi quelli della DSC) sono aumentati di circa fr. 100.000. Tale risultato soddisfacente non ha però potuto compensare la riduzione dei lasciti e dei contributi da enti pub-blici, così che il totale dei ricavi di fr. 20.964.906 è in feriore di fr. 632.616 rispetto al 2010. Per realizzare i pro-getti in corso sia nel Sud del mondo sia in Svizzera sono stati investiti fr. 20.213.981 (-1.009.185 rispetto al 2010). La cifra corrisponde al 90,1% del totale dei ricavi. I costi ammi-nistrativi ammontano in totale a fr. 2.209.373 (5,6%).

Diocesi di Sion. La diocesi vallesana conta circa 225.000 cattolici, riparti-ti in 156 parrocchie. Solo sei di esse

hanno introdotto un’imposta eccle-siastica, mentre in genere per le altre provvede il comune politico. La dio-cesi, per coprire il fabbisogno di circa 2,15 milioni di franchi, riceve un sus-sidio cantonale di fr. 420.000, mentre fr. 830.000 provengono da rendite ac-cumulate, per cui circa 900.000 fran-chi devono pervenire da una colletta organizzata ogni anno per la festa di Tutti i Santi. A carico della diocesi sono anche gli stipendi di 21 persone attive nella pastorale e sette impiega-ti amministrativi, per un totale di 15 impieghi a tempo pieno. I preti in at-tività sono 140 (44 i pensionati), cui si aggiungono 16 diaconi permanen-ti, cinque seminaristi, un centinaio di agenti pastorali laici e numerosi vo-lontari. Ogni anno vengono celebrati circa duemila battesimi, 2400 prime comunioni, 2200 cresime e 500 ma-trimoni.

Scuse diocesane. Due rapporti (uno del Governo, l’altro ordinato dalla Chiesa cattolica), relativi agli istituti per minorenni del Canton Lucerna, hanno accertato situazioni spavento-se: punizioni quasi da tortura e abusi sessuali, per il periodo 1930-1970, confermati dalle deposizioni di 54 già ospiti. I reati sono prescritti e le vitti-me non possono chiedere indennizzi. Il vicario episcopale ha domandato perdono alle vittime, a nome della diocesi di Basilea.

Religioni a Friburgo. Il governo fri-burghese ha fatto allestire un rappor-to sulle comunità religiose esistenti nel Cantone, sulla loro probabile evoluzione e sui rapporti tra di esse. Ne risulta un quadro variegato e sen-za grossi problemi: i musulmani (lo «spettro» dell’UDC) sono diecimila, in gran parte d’origine balcanica e turca, dispongono di sette luoghi di culto e la maggioranza non è prati-cante regolare; si prevede che nel 2050 saranno il 10% della popola-zione ma incontreranno le stesse difficoltà delle altre confessioni a trasmettere la religione ai più gio-vani. La statistica per il 2011 indi-ca 184.851 cattolici romani, 39.949 riformati, 53 ebrei e 56.637 «altri», dei quali si stimano 38.000 senza appartenenza religiosa, i diecimila citati musulmani, tremila ortodossi, duemila evangelicali, 1500 aleviti, mille testimoni di Geova e qualche centinaio di buddisti, neoapostolici, induisti. Pochi coloro che rifiutano di pagare le imposte ecclesiastiche del-le Chiese cattoliche e riformate; circa

seicento coloro che abbandonano an-nualmente la Chiesa cattolica e circa trecento quella riformata. Il cattoli-cesimo è ancora, per la maggioranza dei friburghesi, oltre che una religio-ne, una cultura.

Moutier cattolica. La parrocchia di Moutier ha festeggiato i 150 anni dalla sua fondazione. Nel comune, divenuto protestante e conglobato nel Canton Berna, solo nel 1862 venne permesso il culto cattolico e una chie-sa venne consacrata nel 1871; ma nel 1873, a causa del Kulturkampf, i pre-ti furono sospesi ed esiliati. Solo nel 1879 la chiesa fu restituita ai cattolici, che nel 1967 ne costruirono una più ampia e più bella, dedicata alla Ma-donna: i 460 cattolici del 1860 erano diventati 3200 nel 1960, sono 4600 nel 2012.

Pluralismo religioso. In diversi can-toni svizzeri le autorità propongono di riconoscere l’importanza sociale di nuove comunità religiose, oltre le storiche (protestanti, cattoliche, ebraiche). A Basilea il Gran Consi-glio ha conferito personalità giuridica alla comunità degli aleviti, un gruppo musulmano specialmente presente in Turchia. A Vaud, dove una legge del 2007 prevede il riconoscimen-to delle nuove comunità, sono già pendenti dal 2007 una richiesta della Federazione evangelica vodese (cin-quemila aderenti), quella della Chie-sa anglicana e quella della Chiesa cattolica-cristiana (Vecchi Cattolici). Ora una richiesta è stata presentata dall’Unione vodese delle associazio-ni musulmane (UVAM), che riunisce una quindicina di gruppi e l’80% dei luoghi di culto. Le condizioni poste sono il riconoscimento dell’ordine giuridico svizzero e internazionale (compresa la libertà di coscienza) e il rifiuto di ogni discriminazione. Il riconoscimento non prevede l’auto-matismo di sussidi, ma la possibilità di partecipazioni per scopi pubblici e di esenzioni fiscali.

Berna paga pastori e preti. Il 5 set-tembre, il Gran Consiglio bernese ha respinto (128 no contro 15 sì, e 5 aste-nuti) una proposta che voleva annulla-re una convenzione risalente al 1804, per cui il Cantone retribuisce i pastori protestanti, i preti cattolici e gli agenti pastorali, a compensazione dell’inca-meramento dei beni delle rispettive Chiese. Nel 2012 l’esborso è stato di 72 milioni di franchi. La decisione soddisfa le Chiese ma è criticata dai

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non membri delle Chiese riconosciu-te: recentemente il Tribunale ammi-nistrativo bernese ha tuttavia respinto la richiesta di un contribuente che, di-chiarandosi senza religione, chiedeva una riduzione dello 0,813% di quanto paga per l’imposta cantonale.

Vangelo attuato. Per l’insieme della Svizzera, le entrate fiscali delle Chie-se raggiungono circa un miliardo di franchi all’anno. Per l’85% il denaro resta alle parrocchie e alle comunità parrocchiali; solo il 13% è a disposi-zione delle Chiese cantonali o delle diocesi, e solamente l’1% è a dispo-sizione a livello nazionale per attività pastorali svizzere come la RKZ (la Commissione cattolico-romana, co-ordinatrice dei finanziamenti a livello federale). Il sistema rappresenta una garanzia di democrazia dal basso che può dispiacere a qualche canonista, ma sembra più corrispondente all’in-segnamento evangelico, per il quale «i primi saranno gli ultimi».

Laici in Vaticano. René Brülhart, un avvocato friburghese esperto di finanza, è stato assunto dallo scorso settembre dalla Santa Sede, per con-tribuire nella lotta contro il riciclag-gio del denaro sporco e contro il ter-rorismo. Si vogliono così completare le misure prese per farsi accogliere nella lista… degli Stati virtuosi. Un altro esperto, l’americano Greg Bur-ke, laico consacrato dell’Opus Dei, è stato assunto per migliorare la comu-nicazione alla Segreteria di Stato. Ci si accorge, insomma, che nei settori «mondani», non basta essere cardina-li per essere competenti.

Povertà svizzera. Secondo Caritas (che ha pubblicato un «Almanacco sociale») versano in stato di pover-tà 260.000 ragazzi, il 16% delle fa-miglie con bambini e il 32% delle famiglie monoparentali. La Confe-derazione prevede di pubblicare un rapporto nazionale sulla povertà, mentre già quattro cantoni (il primo: Berna) lo hanno già fatto, e altri otto vi stanno provvedendo. Le persone indebitate o in ritardo nei pagamenti sono in Svizzera 670.000, mentre au-mentano coloro che ricorrono ai 24 negozi Caritas che in un anno han-no distribuito viveri per 9 milioni di franchi. Ma gli svizzeri sono anche generosi: la Catena della solidarietà ha raccolto 18,8 milioni di franchi per interventi umanitari e per la rico-struzione dopo lo tsunami e il terre-moto in Giappone.

Aiuto allo sviluppo. Secondo dati federali, nel 2011 l’aiuto pubblico allo sviluppo della Svizzera è stato di 2.736 milioni di franchi (2.398 nel 2010), corrispondenti allo 0,46% del prodotto nazionale lordo (PIL) e all’1,60% della spesa pubblica della Confederazione. Le donazioni alle ONG furono 431,6 milioni (dati del 2010), pari allo 0,07% del PIL. Il Par-lamento federale ha stabilito, lo scor-so settembre, che l’aiuto federale allo sviluppo disporrà di 11,35 miliardi di franchi per il periodo 2013-2016, il che permetterà di raggiungere lo 0,5% del prodotto nazionale lordo: «un franco al giorno per abitante!» ha sottolineato il consigliere federale Burkhalter. Il 62% degli svizzeri in-terpellati si sarebbero detti favorevoli ad un aumento dell’aiuto allo svilup-po, il 68% sono per una maggiore partecipazione svizzera alle attività delle Nazioni Unite. La richiesta è per il raggiungimento dello 0,8% del PIL. Nel confronto internazionale 2011, cinque paesi (Svezia, Norve-gia, Lussemburgo, Danimarca, Paesi Bassi) superano l’obiettivo fissato dalle Nazioni Unite dello 0,7% del PIL, e quattro (Regno Unito, Belgio, Finlandia, Irlanda) si collocano al di-sopra della media dei paesi dell’OC-SE (0,46%). La Svizzera raggiunge la media e si colloca all’undicesimo posto migliorando di una posizione rispetto all’anno precedente. Gli Stati Uniti stanno allo 0,20%, l’Italia allo 0,19%. Nonostante i progressi nella lotta alla povertà, le disparità tra ric-chi e poveri continuano a costituire una sfida, sia all’interno sia tra i di-versi Paesi. L’uno per cento più ricco della popolazione mondiale detiene il 14 per cento del reddito mondiale, il 20 per cento più povero ne spartisce circa l’uno per cento. Due terzi delle persone che vivono con meno di due dollari al giorno risiedono nei Paesi emergenti.

Uniformi scandalose. La «Dichia-razione di Berna» denuncia l’incoe-renza di molti svizzeri «uniformati» e i loro datori di lavoro (comprese autorità pubbliche), che acquistano all’estero (in particolare in Macedo-nia, dove il salario orario di un’ope-raia è di meno di 70 centesimi!) gli abiti e le uniformi prodotte sfruttando in modo criminale la mano d’opera. Non saranno le stesse persone, le me-desime autorità, che denunciano il trasferimento all’estero delle attività produttive a scapito dell’occupazione in Svizzera?

In questo numeroDossier (a cura di Daria Lepori e Marina Sartorio)

G IL NATALE DEV’ESSERE PROPRIO SOLO COSì? (Editoriale) 1

G LO SHOPPING COMPULSIVO, FEBBRE DA ACQUISTO 1

G DISINTOSSICARSI DALL’ALCOL CONSUMISTICO (Daria Lepori) 2

G PROSPERITà SENZA CRESCITA: È POSSIBILE? (Marina Sartorio) 5

G IL SENSO DEL DONO PER UN NATALE DI GRATUITà (Enzo Bianchi) 7

Articoli

G UN SINODO COSì NON SERVE (Luigi Sandri) 8

G RELIGIOSITà POPOLARE E CONDIZIONE DELLA DONNA (Giorgio Cheda) 11

G CRONACA INTERNAZIONALE 9

G NOTIZIE BELLE E BUONE 17

G OSSERVATORIO ECUMENICO 18

G CRONACHE DEL GIUBILEO DEL CONCILIO 19

G CRONACA SVIZZERA 20

AIUTIAMO IL NUNZIO A TROVARE IL NUOVO VESCOVO DI LUGANO 23-24

dialoghi di riflessione cristiana

Comitato: Alberto Bondolfi, Ernesto Borghi, don Emilio Conrad, Serse Forni, Aldo Lafranchi, Alberto Lepori, Daria Lepori, Enrico Morresi, Margherita Noseda Snider, Marina Sartorio, Carlo Silini.

Redattore responsabile: Enrico Morresi, via Madonna della Salute 6, CH-6900 Massagno, telefono +41 91 - 966 00 73, e-mail: [email protected]

Amministratore: Pietro Lepori, 6760 Faido Tengia, tel. 091 866 03 16, email: [email protected].

Stampa: Tipografia-Offset Stazione SA, Locarno.

I collaboratori occasionali o regolari non si ritengono necessariamente consenzienti con la linea della rivista.

L’abbonamento ordinario annuale (cinque numeri) costa fr. 60.–, sostenitori da fr. 100.– Un numero separato costa fr. 12.– Conto corr. post. 65-7206-4, Bellinzona.

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23 No. 224

Democrazia andata e ritornoL’elezione dei vescovi ha una lunga storia nella Chiesa cattolica. Eugenio Corecco, nel volume Ius et Commu-nio. Scritti di diritto canonico (Piem-me, Milano 1997) vi dedica un denso capitolo (pp. 366-386), a cominciare dalla storia, per giungere a formulare proposte concrete di una nuova pro-cedura, più rispondente alla Chiesa comunionale definita dal Concilio Vaticano II.Il vescovo canonista ricorda come «nella Chiesa antica il vescovo era eletto in singoli sinodi [assemblee, ndr.] ai quali partecipavano il popo-lo, il presbiterio della Chiesa locale [i preti della diocesi], e con funzione determinante anche i vescovi delle diocesi vicine (…). Mentre in Orien-te il diritto di elezione passò e rimase nelle mani dei vescovi (Nicea 787, can. 3), in Occidente, dopo essere stato usurpato nel periodo carolingio dal potere secolare, fu riconquistato dalla Chiesa con la “lotta delle in-vestiture”. Alla fine dell’XI secolo è ancora diritto comune che il vescovo sia eletto da “populus et clerus”. Ma quasi un secolo più tardi i laici sono totalmente estromessi dalle elezioni (Alessandro III) e il diritto del clero passa nelle mani del Capitolo della Cattedrale, che ormai aveva sostituito il presbiterio in tutte le funzioni più importanti». In seguito, la Chiesa fu costretta, di fronte alle monarchie nazionali, a concedere il diritto di nomina ai prin-cipi secolari; infine, con la scomparsa delle case regnanti cattoliche la Santa Sede approfittò, già prima del Codice (can. 329, §2) per avocare a sé il dirit-to di libera nomina dei vescovi.Attualmente, il diritto di partecipa-re alla scelta, proponendo candidati o addirittura con la scelta definitiva, è ormai riconosciuto (e sempre più contestato dai giuristi vaticani) solo ad alcune diocesi, tra cui quelle sviz-zere di Basilea, San Gallo e Coira. Mons. Corecco nel suo studio, dopo aver criticato la procedura attuale che

riconosce al Papa la scelta finale, af-ferma (pag. 370): «La scelta del ve-scovo è un fatto ecclesiale che tocca tutti i cristiani, per cui dovrebbe vale-re, sia pure tenendo conto del suo va-lore analogico, il principio di origine giustiniana, ma recepito con profonde sfumature a tutti i livelli dalla Chiesa medioevale, secondo il quale, “quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet” [cioè: ciò che ri-guarda tutti, da tutti deve essere di-scusso e approvato]. Questa massima giuridica, che è entrata nelle Regulae iuris (n. 29), è stata invocata nella tradizione più autentica della Chiesa anche a proposito dell’elezione dei vescovi. Papa Celestino I (422-432) in una lettera ai vescovi della provin-cia di Vienne scrive: “Nullus invitis detur episcopus” [non si imponga un vescovo non voluto]; che Leone l (440-461) formula nel senso: “Qui praefecturus est ab omnibus eliga-tur” [chi presiede sia eletto da tutti]; nella stessa direzione si muove papa Lucio III (1181-1185)».Attualmente, secondo il diritto cano-nico del 1983 «il Sommo Pontefice nomina liberamente i vescovi» (can. 377) e «per proporre la cosiddetta ter-na alla Santa Sede Apostolica, spetta al Legato Pontificio ricercare singo-larmente e comunicare alla stessa Santa Sede Apostolica», chiedendo il parere dei vescovi della regione: «e se lo ritiene opportuno, richieda anche singolarmente e in segreto il parere di altri, del clero diocesano e religioso, come pure di laici distinti per saggezza». Osserva ancora mons. Corecco: «È un fatto che la nomina di un vescovo ha per sua natura carattere eminen-temente pubblicistico. È necessario perciò su questo punto siano tratte tutte le dovute conseguenze giuridi-che. (...) Il risultato di questa situa-zione giuridica è che troppo spesso la nomina di un vescovo, malgrado il suo interesse vitale per tutta una comunità, può avvenire anche solo

in base a un gioco di rapporti, cono-scenze, influenze personali e interes-si di carattere privati. Può avvenire cioè al di fuori delle liste ufficiali, su indicazioni di persone che non portano nessuna responsabilità isti-tuzionale e, in ultima analisi, nes-suna responsabilità giuridicamente determinabile di fronte alla comunità cristiana». Mons. Corecco concludeva il suo studio con una proposta precisa: comporre a livello diocesano un or-ganismo («un sinodo elettorale») comprendente preti e laici, che d’in-tesa coi vescovi svizzeri (nessun ac-cenno al nunzio, attualmente «posti-no» delle proposte), sottoponga alla Santa Sede per preavviso una lista di candidati, per poi scegliere il nuovo vescovo, con un atto di responsabili-tà che costituisce prova e impegno di comunione. Ma all’inizio dello stu-dio aveva osservato (pag. 367): «La Commissione di revisione del Codice non ha ancora chiuso la discussione in merito al problema della nomina dei vescovi», auspicando che venga fatta «una svolta verso la tradizione».Non siamo ancora a questa «svolta» (sarebbe bello accogliere la proposta di Eugenio Corecco a cinquant’anni dal Concilio!), e la scelta del nuovo vescovo di Lugano resta ancora il ri-sultato di procedure segrete, di inter-venti illeciti e di pressioni personali o di parte, per cui a «Dialoghi» tocca di nuovo rivendicare, come fece già nel 1968 e fece in tutte le successive «sedi vacanti», il dovere – che è anche un diritto – dei laici e preti luganesi di esprimere un giudizio nella scelta del loro vescovo. È quanto del resto inse-gna il canone 212 del Codice di diritto canonico, per il quale i laici «hanno il diritto, anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli». Per questo abbiamo pro-mosso questa libera consultazione, che è una dimostrazione di assunzio-ne di responsabilità per il bene della Diocesi.

Dialoghi

do l’Annuario della Diocesi di Luga-no 2012, i preti diocesani attivi nel ministero sono 123, più 30 residenti fuori diocesi (elenco a pagina 113). Come per altre precedenti successio-ni, «Dialoghi» si fa promotore di una votazione consultiva, alla quale pos-sono partecipare i lettori e qualunque

altra persona interessata. Dall’elen-co delle Parrocchie (pagg. 62 ss.), per la scheda qui a fianco abbiamo dedotto i possibili candidati secondo l’anno di nascita (escludendo coloro che hanno più di 70 anni e quelli nati dopo il 1978), nonché coloro che non appartengono al clero diocesano.

L’Annuario non dà indicazioni circa la nazionalità. È possibile che l’elen-co comprenda qualche presbitero non eleggibile, o che per errore sia stato escluso qualche possibile candidato. Ce ne scusiamo in anticipo e la lista offre tre righe in bianco per eventuali integrazioni.

aiutiamo il Nunzio a trovare il Vescovo

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224 dialoghiLocarno – Anno 44 – Dicembre 2012 di riflessione cristiana BIMESTRALE

Aiutiamo il Nunzio a trovare il VescovoA oltre un anno dalle dimissioni da vescovo di Lugano di mons. Pier Gia-como Grampa (75 anni compiuti nel 2011), sembra sia stata avviata la procedura, da parte del Nunzio apo-stolico in Svizzera, che si concluderà con la presentazione al Papa della cosiddetta «terna» di possibili candi-dati a presiedere la Diocesi ticinese. Secondo il diritto canonico (can. 378) «Per l’idoneità di un candidato all’episcopato si richiede quanto se-gue: (1) [che] sia eminente per fede salda, buoni costumi, pietà, zelo, per le anime, saggezza, prudenza e vir-tù umane, e inoltre dotato si tutte le altre qualità che lo rendono adatto a compiere l’ufficio in questione; (2) [che] goda di buona reputazione; (3) [che] abbia almeno trentacinque anni di età e sia presbitero almeno da cinque anni; (4) [che] abbia conse-guito la laurea dottorale o almeno la licenza in Sacra scrittura, teologia o diritto canonico, in un istituto di studi superiori approvato dalla Sede apo-stolica, oppure sia almeno veramente esperto in tali discipline. Il giudizio definitivo sull’idoneità del candidato spetta alla Sede Apostolica». Per il Vescovo di Lugano sono previ-sti due altri requisiti: la Convenzione tra il Consiglio federale e la Santa Sede del 4 luglio 1968, che trasfor-mava la precedente Amministrazione Apostolica in Diocesi, al capoverso 3 dell’art. 1, prescrive che «II Ve-scovo di Lugano sarà nominato dal-la Santa Sede [cioè liberamente dal Papa, per il can. 337] e scelto tra i sacerdoti cittadini ticinesi»; così la traduzione che figura nella Raccol-ta ufficiale, mentre il testo originale in francese recita «prêtres ressortis-sants tessinois». Inoltre, la Bolla Ad Universum di papa Leone XIII del 7 settembre 1888 che stabilisce la Giu-risdizione ecclesiastica nella Repub-blica del Cantone Ticino, prevedeva che «L’Amministratore Apostolico di Lugano dovrà poi essere eletto dal-la Santa Sede fra i sacerdoti soggetti

alla giurisdizione luganese» (cfr. La Diocesi di Lugano, Guida del Clero, Lugano 1903). La bolla Paroecialis et Collegialis dell’8 marzo 1971 che erige canonicamente la Diocesi di Lugano (cfr. Monitore ecclesiastico, a. 1971, pp. 298-301), trasferendo mons. Martinoli alla Chiesa di Luga-no, non fa alcun cenno alle condizio-ni richieste. Ma, secondo il detto ro-mano, «un Papa fa e un altro disfà»,

per cui la condizione (e promessa) di Leone XIII può essere «dimenticata» dall’attuale Pontefice, mentre resta la condizione della cittadinanza tici-nese. Se ci limiamo ai requisiti minimi og-gettivi, il candidato all’episcopato deve dunque avere almeno trentacin-que anni (ed essere prete da almeno cinque), dev’essere cittadino ticinese e membro del clero diocesano. Secon-

eligo in episcopum…Lista di candidati all’episcopato luganese (presbiteri del clero lugane-se, che presumiamo di cittadinanza ticinese, di età fra i 35 a 70 anni – salvi errori e/o omissioni). Segnare le preferenze con al massimo tre crocette. Per eventualmente completare la lista, utilizzare le tre righe libere in fondo all’elenco.

Albisetti Giuseppe, 1956 Lazzeri Valerio, 1963 Aliverti Aldo, 1969 Leo Rolando, 1969 Andreatta Carmelo, 1956 Martinoli Adelio, 1952 Barlassina Ernesto, 1958 Ministrini Gian Pietro, 1949 Bentivoglio Giuseppe, 1944 Molteni Andrea, 1978 Bernasconi Simone, 1973 Morresi Alberto, 1951 Braguglia Massimo, 1966 Mottini Claudio, 1953 Brianza Donato, 1968 Pagnamenta Guido, 1961 Bronz Lorenzo, 1961 Paximadi Giorgio, 1962 Camilotto Elio Pio, 1948 Pessina Luigi, 1963 Castelli Marco, 1959 Pontinelli Matteo, 1959 Cattaneo Carlo, 1959 Pozzi Pietro, 1969 Crivelli Angelo, 1953 Radziszowski Andrea, 1951 Dania Marco, 1956 Ratti Ernesto, 1951 Di Todaro Nicola, 1954 Regazzi Pierangelo, 1945 Diener Gabriele, 1962 Roffi Roberto, 1969 Essik Koffi Frank, 1964 Romagnoli Rinaldo, 1958 Falco Felice, 1972 Scorti Carlo, 1950 Feliciani Gianfranco, 1952 Silini Maurizio, 1960 Flisi Claudio, 1944 Solari Paolo, 1959 Foletti Patrizio, 1953 Straziuso Michel, 1976 Fornara Michel, 1974 Studhalter Fabio, 1965 Gaggetta Osvaldo, 1957 Viscio Giuseppe, 1952 Gaia Massimo, 1961 Volonté Ernesto, 1944 Gerosa Libero, 1949 Zanini Nicola, 1970 Guidicelli Fabiano, 1970 ………………………………… Laim Claudio, 1944 …………………………………

Ritagliare (o fotocopiare) e inviare a:«Dialoghi», Fermo posta, 6900 Massagno ✃