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- 1- Mbaseere calla calla bain osteria. Differenze culturali e vita quotidiana di Fabio Quassoli L’importanza della nozione di multiculturalismo nel dibattito filosofico, scientifico e politico è stata interpretata come un sintomo di crisi della società moderna che investirebbe gli assetti strutturali, la sfera simbolica – sempre più importante come posta in gioco del conflitto politico e dei processi di riorganizzazione economica –, unitamente ai modi di conoscere e narrare il reale. 1 I mutamenti, identificati da filosofi e scienziati sociali, che segnalano tale crisi e che possono essere messi in relazione, almeno indirettamente, con la crescente complessità culturale del mondo contemporaneo sono molteplici: dalla sostituzione dell’universalismo – ideale moderno per eccellenza sul piano sia filosofico sia politico – con la categoria di differenza, 2 all’indebolimento delle pretese di verità del sapere e all’erosione della capacità del binomio verità/progresso di orientare lo sviluppo della ricerca scientifica, in quanto fine ultimo della conoscenza umana; 3 dai problemi che affliggono lo stato-nazione – forma di organizzazione politica tipica della modernità – che vedrebbe diminuire la propria autorità 4 e frammentarsi l’omogeneità culturale sulla cui base è stato edificato, 5 al tramonto del fordismo, come 1 Cfr. E. Colombo, Le società multiculturali, Carocci, Roma 2002. 2 Cfr. J.F. Lyotard La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano 1985; W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale (1995), il Mulino, Bologna 1999; A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere assieme? (1997), Saggiatore, Milano 1998; C. Taylor, Multiculturalismo: la politica del riconoscimento (1992), Anabasi, Milano 1993. 3 Cfr. G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989; T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino 1969; D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza (1976), Cortina, Milano 1994; P. Feyerabend, Contro il metodo: abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975), Feltrinelli, Milano 1980. 4 Cfr. R. Brubaker, I nazionalismi nell'Europa contemporanea (1996), Editori Riuniti, Roma 1998; S. Sassen, Fuori controllo (1996), Saggiatore, Milano 1998. 5 Cfr. E. Weber, Da contadini a francesi: la modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914 (1977), il Mulino, Bologna 1989; A. Appadurai, Modernità in polvere (1996), Meltemi, Roma 2001; Y.N. Soysal, Limits of Citizenship, The University of Chicago Press, Chicago 1994.

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Mbaseere calla calla bain osteria. Differenze culturali e vita quotidiana

di Fabio Quassoli

L’importanza della nozione di multiculturalismo nel dibattito filosofico, scientifico e politico è stata

interpretata come un sintomo di crisi della società moderna che investirebbe gli assetti strutturali, la

sfera simbolica – sempre più importante come posta in gioco del conflitto politico e dei processi di

riorganizzazione economica –, unitamente ai modi di conoscere e narrare il reale.1 I mutamenti,

identificati da filosofi e scienziati sociali, che segnalano tale crisi e che possono essere messi in

relazione, almeno indirettamente, con la crescente complessità culturale del mondo contemporaneo

sono molteplici: dalla sostituzione dell’universalismo – ideale moderno per eccellenza sul piano sia

filosofico sia politico – con la categoria di differenza,2 all’indebolimento delle pretese di verità del sapere

e all’erosione della capacità del binomio verità/progresso di orientare lo sviluppo della ricerca

scientifica, in quanto fine ultimo della conoscenza umana;3 dai problemi che affliggono lo stato-nazione

– forma di organizzazione politica tipica della modernità – che vedrebbe diminuire la propria autorità4 e

frammentarsi l’omogeneità culturale sulla cui base è stato edificato,5 al tramonto del fordismo, come

1 Cfr. E. Colombo, Le società multiculturali, Carocci, Roma 2002. 2 Cfr. J.F. Lyotard La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano 1985; W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale (1995), il Mulino, Bologna 1999; A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere assieme? (1997), Saggiatore, Milano 1998; C. Taylor, Multiculturalismo: la politica del riconoscimento (1992), Anabasi, Milano 1993. 3 Cfr. G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989; T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino 1969; D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza (1976), Cortina, Milano 1994; P. Feyerabend, Contro il metodo: abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975), Feltrinelli, Milano 1980. 4 Cfr. R. Brubaker, I nazionalismi nell'Europa contemporanea (1996), Editori Riuniti, Roma 1998; S. Sassen, Fuori controllo (1996), Saggiatore, Milano 1998. 5 Cfr. E. Weber, Da contadini a francesi: la modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914 (1977), il Mulino, Bologna 1989; A. Appadurai, Modernità in polvere (1996), Meltemi, Roma 2001; Y.N. Soysal, Limits of Citizenship, The University of Chicago Press, Chicago 1994.

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modello generale di regolazione del conflitto sociale;6 dal carattere sempre più mediato e, allo stesso

tempo, globale della conoscenza e della comunicazione,7 all’orizzonte sempre più complesso ed esteso

(planetario) dei processi di costruzione delle identità individuali e collettive, reso accessibile dalle

tecnologie della comunicazione.8

Nell’America del nord e in Europa il dibattito sul multiculturalismo scaturisce da matrici parzialmente

diverse. Nel primo caso, si ricollega alle lotte per i diritti civili degli afroamericani (Stati Uniti) e a quelle

per il riconoscimento di diritti di cittadinanza differenziati per le minoranze etno-culturali (Canada);9 si

allarga, successivamente, a molteplici istanze – ad esempio, i diritti degli omosessuali – che, solo in

parte, possono essere ricondotte nell’alveo delle rivendicazioni di gruppi di antica (minoranze etniche) e

recente immigrazione.

In buona parte dei paesi dell’Unione Europea, al contrario, il discorso sulla società multiculturale si

sviluppa, sia in negativo che in positivo, attorno alle conseguenze sociali, politiche e culturali dei

processi migratori.10 L’immigrazione di massa dai paesi poveri (inizialmente, soprattutto le ex-colonie)

è, infatti, considerata la causa, oltre che di numerosi problemi sociali, anche di una crescente

diversificazione culturale che sta trasformando i paesi dell’Europa in “società multiculturali”. Non che

in Europa siano assenti linee, spesso antiche, di divisione interne agli stati-nazione (si pensi alle

numerose “minoranze etno-nazionali”)11 o non si siano sviluppati, negli anni settanta e ottanta,

6 Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità (1990), Saggiatore, Milano 1997; R. Sennett, L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (1998), Feltrinelli, Milano 2001. 7 Cfr. C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, Torino 2002; S. Lash, J. Urry, Economies of signs and space, Sage, London 1994; M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson (a cura di), Global modernities, Sage, London 1995; R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana (1994), il Mulino, Bologna 2000; J.B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità: una teoria sociale dei media (1995), il Mulino, Bologna 1998. 8 Cfr. A. Melucci, Culture in gioco, Saggiatore, Milano 2000; S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet (1995), Apogeo, Milano 1997. 9 Cfr. W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, cit. 10 Cfr. M. Martiniello, Le società multietniche, il Mulino, Bologna 2000; G. Sciortino, From Homogeneity to Difference? Multiculturalism as a description and as a field for claim-making, “Comparative Social Research”, in corso di pubblicazione. 11 Cfr. A. Melucci, M. Diani, Nazioni senza Stato: i movimenti etnico-nazionali in Occidente, Feltrinelli, Milano 1992; A.D. Smith, Le origini etniche delle nazioni (1986), il Mulino, Bologna 1998; Id., Il revival etnico (1981), il Mulino, Bologna 1984.

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importanti movimenti sociali (movimenti delle donne, movimento pacifista e movimento ecologista).12

È, tuttavia, in relazione al parziale fallimento dei diversi modelli di incorporazione dei migranti e, nei

nuovi paesi di immigrazione, all’arrivo di nuovi e non desiderati flussi che viene posto, sul piano

analitico e su quello normativo, il problema della presenza di crescenti differenze culturali interne ai

singoli stati, unitamente alla compatibilità tra richieste di riconoscimento basate sull’identità culturale di

singoli gruppi sociali e criteri di accesso allo spazio pubblico delle liberal-democrazie europee.13

In questo saggio non discuterò i presupposti filosofici del “multiculturalismo”, inteso come teoria

normativa in grado di legittimare azioni di claim-making che rientrino nella cosiddetta politica del

riconoscimento o politica dell’identità, né cercherò di analizzare le cause, le caratteristiche e gli effetti

sulla tenuta dei sistemi sociali della crescente differenziazione culturale.14 Intendo, invece, esaminare i

concetti di “multiculturalismo”, “società multiculturale” e “intercultura”15 come categorie della prassi e

riflettere sul loro carattere socialmente costruito.16 Propongo di sospendere il giudizio su due questioni

centrali nel dibattito sul multiculturalismo – l’importanza della coppia cultura/differenza nella

ridefinizione di uno spazio pubblico per la vita politica delle società democratiche, da un lato, e la

rilevanza delle differenze/peculiarità culturali nella spiegazione del comportamento sociale, dall’altro – e

di riorientare la prospettiva di analisi sul ruolo che il riconoscimento di una dimensione multiculturale

nelle vicende quotidiane può avere nel costruire una società multiculturale; in altre parole una società

che, in prima istanza, si percepisca come attraversata da differenze di carattere culturale in relazione alle

identità e alle caratteristiche socialmente rilevanti dei gruppi sociali che la compongono. Analogamente

12 Cfr. A. Melucci, L’invenzione del presente, il Mulino, Bologna 1982; K. Offe, New social movements: challenging the boundaries of institutional politics, “Social Research”, 52, 1985, pp. 817-868. 13 Cfr. A. Dal Lago, Non-persone: l’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999; G. Sciortino, From Homogeneity to Difference? Multiculturalism as a description and as a field for claim-making, cit.; Y.N. Soysal, Limits of Citizenship, cit. 14 Cfr. C. Calhoun (a cura di), Social theory and the politics of identity, Blackwell, Oxford 1994; J.C. Alexander, N.J. Smelser, Diversity and Its Discontents, Princeton University Press, Princeton 1999. 15 Quest’ultimo termine è, spesso, usato come versione politically corrected di multiculturalismo, giacché non incorporerebbe una concezione etno-razziale di cultura. 16 Anche su questo punto cfr. E. Colombo, Le società multiculturali, cit.; G. Sciortino, From Homogeneity to Difference?

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a quanto proposto da Arjun Appadurai17 a proposito della costruzione di identità collettive – dove il

riferimento alla dimensione culturale riguarda differenze locali e situate che siano alla base di processi di

formazione di identità collettive tramite l’attivazione di risorse simboliche (immaginazione collettiva),

diffuse su scala globale e rese disponibili dalle tecnologia della comunicazione –, considererò

tratti/differenze/peculiarità culturali come varianti di un generale, e sempre più diffuso, dispositivo

interpretativo usato nelle situazioni ordinarie di interazione, al fine di attribuire un significato a ciò che

accade e come categorizzazione adeguata per descrivere le scene sociali.

Differenze nascoste

Sul piano dei rapporti interpersonali, si vanno moltiplicando le occasioni di interazione sociale tra

persone provenienti da ambiti culturali differenti e in possesso di risorse comunicative dissimili.18 Con

sempre maggior frequenza ci troviamo a dover accordare le nostre strategie comunicative in condizioni

nelle quali l’eterogeneità – o la difficile valutazione – delle competenze linguistiche, delle conoscenze

sociali di sfondo e degli schemi di riferimento per l’azione rimettono continuamente in discussione

l’accento di ordinarietà e di familiarità che accompagna la percezione delle situazioni sociali.19

Antropologi, sociologi, linguisti, psicologi sociali, semiologi hanno manifestato un interesse crescente

per l’analisi del rapporto tra interazione sociale e differenziazione culturale e, dopo aver analizzato

contesti molto diversi (joint venture tra aziende, missione diplomatica, paradisi turistici, contatti tra gruppi

“etnici” nelle metropoli contemporanee ecc.), hanno messo in luce la crescente complessità culturale

Multiculturalism as a description and as a field for claim-making, cit. 17 Cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere, cit, pp. 27-32. 18 Cfr. F. Accame, Pratica del linguaggio e tecniche della comunicazione, Roma, Edizioni Stampa Sportiva, 1996; R.L. Wiseman, J. Koester (a cura di), Intercultural Communication Competence, Sage, Newbury Park-London-New Delhi 1993. 19 Cfr. F. Quassoli, Competenze linguistiche, rituali e trappole dell’interazione, “aut aut”, 303, pp. 99-128.

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che caratterizza i processi comunicativi e le modalità di costruzione del significato sperimentati

quotidianamente da ciascuno di noi.20

Un interessante studio dedicato all’influenza delle specificità culturali sulla comunicazione è stato

condotto da Donald Carbaugh,21 mettendo a confronto le reazioni di due gruppi di soggetti – il primo

formato da cittadini russi in veste di intervistati e il secondo da cittadini americani in veste intervistatori

– alla visione di alcune trasmissioni televisive su argomenti di natura sessuale. L’obiettivo di Carbaugh

era di mettere in luce come differenti definizioni della situazione possano generare comunicazioni e

processi di significazione che procedano come lungo “binari paralleli”, senza possibilità di contatto,

benché, almeno in apparenza, le persone coinvolte continuino a riferirsi allo stesso oggetto (continuino

a parlare dello “stesso argomento”), sembrino capirsi e generino continuamente interscambi non

problematici basati sulla coppia domanda/risposta.22 Dietro una superficiale comprensione e

coordinazione dell’azione si nasconderebbe, sostiene Carbaugh, una profonda frattura nella definizione

di ciò che sta avvenendo, così come delle identità individuali e dei territori personali in gioco (la

distinzione, ad esempio, tra una sfera pubblica e una privata e tra argomenti che possono essere trattati

in ciascuna delle due sfere). Tale frattura si estenderebbe alla comprensione di ciò di cui si sta parlando

(una definizione medica e asettica delle pratiche sessuali, “tipicamente americana”, vs. una concezione in

cui prevalgono elementi affettivi, passionali e ideali, “tipicamente russa”), alle motivazioni e agli

20 Cfr., tra gli altri, M.K. Asante, E. Newmark, C.A. Blake, Handbook of Intercultural Communication, Sage, Beverly Hills-London-New Delhi 1979; G. Brislin, Cross-Cultural Encounters. Face-to-Face Interaction, Pergamon Press, New York 1981; A. Duranti, Etnografia del parlare quotidiano, Nuova Italia Scientifica, Roma 1992; W.B. Gudykunst, Y.Y. Kim (a cura di), Theories in Intercultural Communication, Sage, Newbury Park-London-New Delhi 1988; W.B. Gudykunst, S. Ting-Toomey (a cura di), Culture and Interpersonal Communication, Sage, Newbury Park-London-New Delhi 1988; D. Hymes, Fondamenti di sociololinguistica (1974), Zanichelli, Bologna 1980. 21 Cfr. D. Carbaugh (a cura di), Cultural Communication and Intercultural Contact, Lawrence Erlbaum, Hillsdale 1990, pp. 151-175; D. Carbaugh, Toward a Perspective on Cultural Communication and Intercultural Contact, “Semiotica”, 70, 1/2, 1990, pp. 15-35; D. Carbaugh, “Competence as Cultural Pragmatics: Reflections on Some Soviet and American Encounters”, in R.J. Wiseman, J. Koester, Intercultural Communication Competence, Sage, Newbury Park 1993, pp. 168-183. 22 Per un’analisi di come interazioni non problematiche in un setting medico siano compatibili con interpretazioni di quanto accade fortemente divergenti, si veda T-J. Skinner, The process of understanding in doctor-patient interaction, Ph.D. Dissertation, Rice University, Houston 1975, riportato in K. Leiter, A Primer on Ethnomethodology, Oxford University Press, Oxford-New York 1980, pp. 154-156.

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obiettivi che stanno alla base dei modelli comportamentali seguiti (esposizione di un punto di vista

personale su un argomento trattato in modo impersonale vs. ricerca di un consenso da parte del gruppo

di riferimento su un argomento che dovrebbe essere discusso in altri contesti e secondo altri stili) e alle

interpretazioni delle motivazioni e degli obiettivi attribuite ai propri interlocutori. Tutte le persone

coinvolte, insomma, desiderano mostrare di sapersi destreggiare in maniera competente in una

situazione sociale delicata, ma nel fare questo seguono, spesso senza esserne consapevoli, modelli

piuttosto incongruenti; tale complicazione, tuttavia, ed è questo l’aspetto più interessante

dell’esperimento, non impedisce un’interazione ordinata.

Al fine di cogliere le specificità culturali dei comportamenti e, di conseguenza, la loro intrinseca

problematicità, è necessario, afferma Carbaugh, “conoscere i mezzi effettivi, con i relativi significati, che

sono a disposizione e vengono, di fatto, utilizzati per esprimersi, così come la scena sociale allargata in

cui l’azione sociale accade, incluse le esigenze culturalmente codificate che costringono gli attori a fare

ciò che fanno e a ricercare ciò che possono ricercare: se, ad esempio, esprimere il proprio animo o

dischiudere il proprio self”.23 Una ricostruzione dell’incontro/scontro di frame, mezzi, obiettivi e

significati culturalmente connotati, che consenta di discernere il ruolo delle differenze culturali in

quanto avviene sulla scena interazionale, senza farsi intrappolare dalle cornici interpretative che sono

parte della cultura di origine dell’osservatore, richiede, secondo Carbaugh, che si considerino almeno tre

piani:24

1. Le “configurazioni simboliche”, che comprendono i simboli utilizzati nella strutturazione dell’evento

(self vs. anima), i loro significati culturali connotati (l’esporre in pubblico alcuni comportamenti intimi

come azione virtuosa o come sintomo di un problema) e i domini di significato associati con tali

simboli (individuo, istituzioni, gruppi di riferimento).

23 Cfr. D. Carbaugh, “Competence as Cultural Pragmatics: Reflections on Some Soviet and American Encounters”, cit., p. 178. 24 Cfr. ibidem.

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2. Le “forme di simbolizzazione”, che comprendono la sequenza con cui vengono generalmente

introdotti gli argomenti, il tono generale tenuto nel parlarne e, cosa più importante, le regole

conversazionali che stabiliscono dove e con chi si possa discutere di certi temi, che cosa debba essere

detto e che cosa debba essere omesso, e così via.

3. Le dimensioni generali significative, identificate negli aspetti motivazionali del comportamento, negli

obiettivi contingenti e generali rispetto ai quali gli attori orientano le proprie scelte comunicative e nel

carattere che viene attribuito alla conversazione stessa in particolari contesti.

A queste tre dimensioni, deve essere aggiunta una lista potenzialmente infinita di altri elementi che,

ragionevolmente, si ritiene possano entrare in gioco nella situazione osservata, relativi agli universi

culturali di riferimento degli attori e tratti dalle fonti più disparate (personali, letterarie, scientifiche

ecc.).25

Gioco di sguardi

Esaminiamo ora due casi nei quali schemi interpretativi e di azione, culturalmente connotati, danno

luogo a un’interazione problematica.

Un primo esempio, di come le differenze culturali possano confliggere in modo drammatico, è tratta

dalla letteratura sull’intercultural communication. Mi riferisco a una ricerca di Kenneth Liberman, sul

trattamento processuale, in occasione di pubblici dibattimenti, degli imputati “aborigeni” nei tribunali

australiani.26 Uno degli aspetti di maggiore interesse messo in luce da Liberman concerne la situazione

insostenibile dal punto di vista comunicativo che si viene a creare ogniqualvolta un aborigeno venga

25 Un’analisi culturale che, coerentemente con quanto suggerito da Clifford Geertz, si basa su materiali disomogenei e che procede in modo discontinuo, circolare e senza fine: cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture (1973), il Mulino, Bologna 1987. 26 Cfr., K. Liberman, “Intercultural Communication in Central Australia”, in D. Carbaugh (a cura di), Cultural Communication

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interrogato da una delle parti (avvocato, giudice, pubblico ministero). L’esposizione pubblica che

l’imputato deve affrontare e gestire per potersi difendere in un aula di tribunale risulta, infatti,

intollerabile, date alcune caratteristiche della cultura aborigena che prescrivono di evitare ogni occasione

sociale nella quale una “persona” possa essere percepita nella propria “individualità”, eventualità che

costituirebbe una fonte di insopportabile imbarazzo.27 Tale prescrizione culturale non permette

all’imputato aborigeno di rispondere in modo diretto alle domande poste dal pubblico ministero,

perché il farlo susciterebbe in lui un forte sentimento di vergogna e risulterebbe offensivo per i propri

interlocutori; l’imputato, peraltro, non può neppure affrontare gli argomenti che lo riguardano, in modo

indiretto e de-individualizzato, giacché i moduli comunicativi a lui più familiari risulterebbero

incompatibili con i codici e le procedure vigenti in un aula di tribunale. Data l’intollerabilità di percepirsi

“sotto i riflettori” e l’impossibilità di comunicare sia in modo diretto, assertivo e individualizzato che in

modo indiretto, il nostro imputato si vede, pertanto, costretto a minimizzare i segni che denunciano la

sua presenza nell’aula, ricorrendo al silenzio o a risposte lapidarie con le quali cerca, in modo del tutto

“casuale e non calcolato”, di esaudire le attese di chi lo sta interrogando (il pubblico ministero, ad

esempio), nella speranza di accorciare il più possibile i tempi di esposizione e senza curarsi di mantenere

una coerenza logica tra le risposte fornite. Tutto questo, naturalmente, con grave nocumento per la

valutazione della sua posizione processuale da parte della giuria.

Qualcosa di simile emerge da un’intervista effettuata a un cittadino senegalese residente a Milano, che ci

racconta le difficoltà incontrate nell’interpretare e nel gestire episodi comuni e banali di vita quotidiana:

un semplice gioco di sguardi tra persone che si incontrano in luoghi pubblici, che si rivela, agli occhi

and Intercultural Contact, cit., pp. 177-183. 27 Con l’uso delle virgolette per i termini “persona” e “individualità” intendiamo segnalare la problematicità che nasce dall’utilizzo stesso di questi concetti in un ambito interculturale. Cfr. C. Geertz, Antropologia interpretativa (1983), il Mulino, Bologna 1988.

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dell’intervistato, inaspettatamente problematico, in relazione ai codici espressivi grazie ai quali

mostriamo di tenere un comportamento appropriato alla situazione.28

Dopo due mesi di sistemazione in Italia, ho iniziato a tenere un diario di questa nuova esperienza. Il primo

problema che ho avuto è stato quello di capire gli italiani, perché li pensavo in un certo modo ed erano apparsi in

un modo un po’ diverso, che non mi riuscivo a spiegare. Potevo capire, per esempio, che il fatto di non parlare

l’italiano creava dei blocchi nella comunicazione; ma anche a livello degli atteggiamenti, c’è qualcosa che mi ha

colpito molto. Sto parlando dello sguardo, perché ci ho messo circa un mese a scrivere e a riflettere sul

significato dello sguardo che gli italiani mi rivolgevano per strada o in metropolitana. Ho fatto un paragone, per

esempio, con il significato dello sguardo nella società africana per cercare di spiegarmi un po’ il significato degli

sguardi che incontravo in Italia. Quando parlo dello sguardo, ne parlo come mandingo, perché non tutte le etnie

educano il bambino in questo modo. Nella società mandinga il bambino è educato, da quando prende coscienza

a quando ha circa otto anni, prima di tutto con lo sguardo; con il bambino, si comunica di più con gli occhi che

con la parola. Questo è legato, per esempio, alla forma di ospitalità che c’è in questa società; ospitalità intesa

come importanza che ha l’ospite in questa società; […] siccome i bambini sono più liberi, vengono educati molto

presto a capire come devono comportarsi alla presenza di un ospite. Ogni tanto, se hanno la tendenza a volersi

avvicinare troppo, si corregge il loro atteggiamento e lo si corregge solo con lo sguardo; questo perché il parlare

può dare fastidio all’ospite e arrecare danno alla famiglia; si dice, infatti, che quando qualcuno viene a casa come

ospite può fare quello che vuole e la famiglia deve adeguarsi ai suoi capricci. […] Si dice che lo straniero nella

famiglia può essere un fattore di ricchezza […] ed è per questo che lo dobbiamo mettere in condizione di sentirsi

a casa sua.

A livello degli adulti ci sono meno esigenze di questo tipo. Lo sguardo, per gli adulti, ha il significato di dare la

colpa a qualcuno: guardare qualcuno in un certo modo vuol dire che gli attribuisci la colpa di un qualcosa.

Oppure, se si tratta di una persona che non conosci che fa qualcosa di sbagliato e se tu non hai la possibilità di

28 La tipica situazione di interazione non-focalizzata che dovrebbe essere gestita seguendo le regole della “disattenzione civile”: cfr. E. Goffman, Il comportamento in pubblico (1963), Einaudi, Torino 1971.

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avvicinarla, la puoi correggere anche con lo sguardo: sentirsi guardato in un certo modo, porterà questa persona

ad accorgersi di essere vestito male o di essersi comportato male e a correggersi automaticamente. Io ho cercato

di interpretare il significato dello sguardo che incontravo in Italia soprattutto in questo senso; di vedere se io

come straniero in questa società mi comportavo in modo sbagliato. Per questo ho cercato di adeguarmi al

massimo nel mio comportamento, per dimostrare di essere il più corretto e aperto possibile.

Ma lo sguardo non cambiava.

Dal racconto si evince come la prima strategia per dare un senso e un ordine al comportamento altrui,

sia quella di fare riferimento alle convenzioni prevalenti nella cultura di provenienza (per come sono

soggettivamente ricostruite), attribuendo così allo sguardo degli italiani un significato analogo a quello

che esso avrebbe nel proprio paese.29 Il fatto stesso di guardare un’altra persona viene interpretato alla

luce delle funzioni di controllo sociale che questo stesso atto svolgerebbe all’interno della “cultura

mandinga”. Dato che nella propria cultura simili sguardi hanno il significato di evidenziare e di

correggere un comportamento sbagliato, l’intervistato inferisce da tali premesse di aver commesso, in

quanto straniero che non conosce a fondo le regole di comportamento della cultura italiana, qualche

involontaria infrazione che giustifichi uno sguardo di rimprovero. Un simile timore lo porta a mettere

in atto ripetuti tentativi per adattare il proprio aspetto, il proprio atteggiamento e il proprio

comportamento alle ipotetiche (nel senso che per il momento non sono né conosciute, né possono

essere date per scontate) aspettative degli italiani con cui entra in contatto; ma, poiché all’origine del

problema vi è, come vedremo, una mancata comprensione dei codici espressivi di un’altra cultura e

delle convenzioni che regolano l’interazione non-focalizzata tra sconosciuti, questi tentativi di

aggiustamento non producono i risultati sperati e accrescono la confusione, l’imbarazzo e il senso di

frustrazione nell’intervistato.

29 Stiamo ovviamente analizzando un racconto e ci troviamo, quindi, di fronte a una ricostruzione, un account, che non si è necessariamente svolta nell’immediatezza della circostanza descritta. Solo ex post, infatti, l’evento può essere categorizzato in

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È interessante notare come in questa prima fase si sia già verificato un decentramento della prospettiva

di senso comune rispetto alla descrizione fornita da Alfred Schütz del processo di risocializzazione

attraversato dallo straniero.30 Proprio dalla consapevolezza della relatività culturale delle regole che

definiscono ciò che è appropriato e ciò che non lo è scaturisce, infatti, il dubbio riguardo alla

correttezza del proprio comportamento. Le regole pubbliche di condotta vengono percepite nella loro

varietà culturale, mentre persiste una percezione “ingenua” degli strumenti di sanzione (lo sguardo).

Una reazione in cui non fosse presente questo primo livello di elaborazione potrebbe limitarsi a un

senso di imbarazzo, disagio o rabbia per un’invasione ingiustificata e ripetuta della propria sfera

personale a opera di sconosciuti. L’esperienza assumerebbe contorni ancora differenti, qualora proprio

l’essere manifestamente straniero esponesse di per sé a un’attenzione e a un trattamento particolari, quali

che siano le motivazioni.31

Un ulteriore elemento di interesse è fornito dall’incapacità di cogliere la portata del problema da parte

di un’amica alla quale l’intervistato si rivolge per ottenere una spiegazione di ciò che viene percepito

come problematico:

Ho iniziato a parlare di questo sguardo a un’insegnante che teneva un corso di italiano per stranieri, ma anche lei

non riusciva a capire il mio problema. Per lei si trattava di una cosa normalissima. Io ogni tanto le spiegavo che,

per esempio, avevo preso la metropolitana e che c’erano delle persone che mi guardavano in un certo modo e lei

mi diceva che era normale e che era solo per me che questo poneva un problema.

molteplici modi per mezzo di una sorta di “esperimento mentale”. 30 Cfr. A. Schütz, Saggi sociologici (1971), Utet, Torino 1979, pp. 375-389. 31 Nell’interpretare il racconto dobbiamo ipotizzare che l’atteggiamento tenuto nei confronti dell’intervistato non sia scaturito dalla sua “manifesta” condizione di straniero e che, cosa del tutto inverosimile in altri casi, non fossero dunque in gioco né una sorta di curiosità per qualcuno che viene percepito come esotico, né una manifestazione incontrollata di nervosismo o di paura, né, ancor meno, una forma di insofferenza o di intolleranza. Più avanti, nel corso della stessa intervista, viene, ad esempio, riportato lo stupore manifestato da una signora italiana, sempre su un mezzo pubblico, per il fatto che un nero stesse leggendo un libro scritto in italiano.

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Sembrano qui all’opera i due assunti operativi del ragionamento pratico che, secondo Schütz,

consentono di costruire nel corso dell’interazione sociale un’apparenza di intersoggettività, superando le

differenze inerenti alla soggettività degli scopi, degli schemi di rilevanza e della conoscenza a

disposizione, e sostengono l’uniformità delle prospettive di senso. Si tratta dell’interscambiabilità dei punti

di vista, per cui le divergenze derivanti dalle prospettive reali individuali si dissolverebbero qualora il

nostro interlocutore si mettesse al nostro posto, e della congruenza degli schemi di rilevanza, grazie alla quale

possiamo dare per scontato che le differenze che “hanno origine nelle nostre situazioni individuali

uniche, siano irrilevanti nei confronti del comune fine da raggiungere”.32 In questo caso la

presupposizione della comprensione, sulla base di uno schema condiviso di azioni e situazioni tipizzate,

è usato dall’insegnante come una risorsa implicita per riconoscere il carattere ordinario della situazione

narrata, producendo al contempo una spiegazione alternativa del problema comunicativo che escluda il

conflitto tra differenti regole culturali. Come ricordano Schwartz e Jacobs, proprio il tentativo

inconsapevole di mantenere questi assunti che fondano il carattere pubblico della vita quotidiana e

dell’esperienza soggettiva che abbiamo di essa, così come fa sì che i “malati di mente” agiscano in modi

che noi interpretiamo come sintomatici della malattia mentale, allo stesso modo rende il

comportamento degli stranieri strano e irrazionale.33

La fase successiva di questo “percorso di socializzazione culturale” vede l’intervistato che, posto di

fronte alla difficoltà dell’amica italiana di riconoscere il problema da lui esperito, riesce a relativizzare le

regole che definiscono la correttezza del proprio comportamento rispetto alle altrui aspettative e, di

conseguenza, anche quelle che stanno alla base del comportamento degli italiani, modificandone

l’interpretazione e la percezione. Ciò che letto attraverso le lenti della propria esperienza culturale

segnalava un’“anomalia” e richiedeva un adattamento problematico perché impossibile, diviene

“normale” e “naturale” una volta che si assuma un punto di vista differente.

32 Cfr. A. Schütz, Saggi sociologici, cit., p. 12.

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Dopodiché, quando non riuscivo a spiegarmi questo sguardo, ho cercato di accettarlo come qualcosa di sociale,

senza alcun significato altro; poi, andando avanti, ho capito che non aveva il senso di incolpare qualcuno di

qualcosa e che, per tanti italiani, una grande maggioranza di italiani il discorso sull’Africa non è molto chiaro, per

il fatto di non avere mai avuto un contatto diretto con gli africani. L’ho capito nei rapporti che ho avuto con

alcune persone che, dopo i miei tentativi avvicinarmi e di dare loro la possibilità di comunicare, mi hanno

confessato che questo sguardo era anche da parte loro un invito a poter comunicare. E io avevo la

preoccupazione e la paura di avvicinarmi di più, di creare qualcosa che pensavo potesse essere interpretato

diversamente dalle mie intenzioni.

I due presupposti di base (interscambiabilità dei punti di vista e congruenza degli schemi di rilevanza)

continuano a operare generando apparenze tipicamente normali, mentre il patrimonio di conoscenze

delle situazioni sociali – così come delle aspettative e delle regole a esse collegate – si è ampliato

includendo un nuovo elemento di differenziazione.

Tipicamente diversi

Gli esempi discussi finora pongono in evidenza il rapporto tra regole e azione sociale e, in via

subordinata, il rapporto tra regole e differenze culturali. Invitano, in particolare, a sostituire una

concezione di tipo normativo dell’ordine sociale – secondo la quale le “regole dell’agire”

corrisponderebbero a modelli di cultura normativa istituzionalizzati e interiorizzati in sistemi di aspettative (diritti e

doveri) connessi ai ruoli sociali recitati dagli attori sociali – con una di tipo interpretativo,34 nella quale l’ordine

33 H. Schwartz, J. Jacobs, Sociologia qualitativa (1979), il Mulino, Bologna 1987. 34 Cfr. T.P. Wilson, “Normative and Interpretative Paradigms in Sociology”, in J.D. Douglas (a cura di), Understanding

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morale garantito da valori e simboli condivisi ceda il posto a “un ordine cognitivo connesso alla

creazione di senso e alla sua descrizione”.35 In questa prospettiva, l’ordine sociale non deriva né da un

bisogno di conformità, né dall’applicazione deduttiva di regole e significati alle situazioni concrete, ma è

l’esito di un accomplishment locale prodotto cooperativamente degli attori sociali (cooperazione che non

implica l’assenza di conflitto o di asimmetrie di potere). Le regole, da collezione di procedure

interiorizzate come modelli di comportamento, divengono strumenti convenzionali grazie ai quali gli

attori sociali – compreso il sociologo – sono in grado di osservare e di descrivere modelli ordinati di

comportamento. Esse si trasformano da requisito per l’azione a device interpretativi (conoscenza sociale

di senso comune, nel senso di elementi costitutivi del ragionamento pratico) che permettono di esperire

consapevolmente l’azione in maniera ordinata, coerente e socialmente condivisa.36 Si attua, quindi, uno

spostamento di accento dall’agire “conforme” all’agire “competente”, dove “competenza” non ha un

significato esclusivamente cognitivo, ma richiama l’intervento attivo del soggetto nella produzione, nel

mantenimento, nell’organizzazione e nella manifestazione del carattere ordinato della vita sociale nelle

situazioni concrete di incontro, la cui definizione diventa oggetto di continue realizzazioni negoziali:

“Una scaltrita rappresentazione di soggetti umani attivamente impegnati nell’elaborare, nell’interferire

con, e nel persuadere gli altri del significato di regole e definizioni che presumibilmente essi

condividono”.37

La condivisione di un insieme di codici, conoscenze, norme e valori (elementi la cui assenza renderebbe

problematica l’interazione tra persone provenienti da diversi contesti linguistico culturali), viene

Everyday Life: Towards the Reconstruction of Sociological Knowledge, Aldine Publishing, Chicago 1970; J.C. Heritage, Garfinkel and Ethnomethodology, Polity Press, Cambridge 1984. 35 K.D. Knorr Cetina, A.V. Cicourel (a cura di), Advances in Social Theory and Methodology: Toward an Integration of Micro- and Macrosociologies, Routledge & Kegan Paul, London 1981, p. 7. 36 Per una discussione critica di questi problemi, cfr. P.P. Giglioli, “Teorie dell’azione”, in A. Panebianco (a cura di), L’analisi della politica, il Mulino, Bologna 1989, pp. 107-134. Per alcuni illuminanti esempi riferiti alle aule dei tribunali americani, si vedano M. Pollner, Ragioni mondane (1987), il Mulino, Bologna 1995; D. Sudnow, “Reati normali. Aspetti sociologici del codice penale nella difesa d’ufficio” (1965), in P.P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, il Mulino, Bologna 1983, pp. 145-176. 37 Ivi, p. 6.

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sostituita dalla capacità, di fronte a un compito pratico, di utilizzare la “conoscenza di senso comune

della struttura sociale” per comunicare in modo “adeguato” e dirimere eventuali controversie

interpretative. Ma se per comprenderci dobbiamo contare sull’esistenza di un comune schema di

comunicazione come una risorsa di inestimabile valore per assicurare la comunicazione stessa, proprio

la presunzione di condividere regole e definizioni della situazione sarebbe alla base, tramite una sorta di

self-fulfilling prophecy, della solidità e oggettività di un mondo esperito in comune.

Nozioni quali “sistemi di valore”, “costumi”, “abitudini”, “regole di comportamento culturali”,

“mentalità”, “modi di pensare”, “differenze culturali” ecc. fanno parte a pieno diritto di tale bagaglio di

conoscenze; esse, dunque, hanno sì a che vedere con l’azione, ove siano intese, non come “variabili”

che condizionano dall’esterno l’agire, ma come configurazione di elementi che vengono utilizzati

nell’interpretare una situazione o un comportamento. Anche l’adeguatezza delle informazioni sulle

culture di provenienza dei propri interlocutori di cui ciascuno di noi dispone, e il grado in cui tali

conoscenze “rispecchiano la realtà” cui si riferiscono, non costituiscono una discriminante. Conta

solamente il modo in cui tali informazioni, indipendentemente dalla loro origine e “attendibilità”,

vengono “effettivamente” utilizzate da particolari persone, in particolari contesti sociali.38 A quale

“realtà” – nel senso di bagaglio di informazioni a portata di mano sulle altre culture – dovrebbe fare, ad

esempio, riferimento un operatore italiano di un ufficio pubblico che cerca di comprendere il

comportamento di un utente straniero? Quella narrata dall’utente? Quella esperita in prima persona nel

corso di viaggi all’estero? Quella riprodotta dai mediatori culturali? Quella trasmessa durante un corso

di formazione? Quella raccontata da film o romanzi d’avventura? Quella riportata in dotti saggi di

antropologia? O tutte quante assieme e nessuna in particolare allo stesso tempo?

38 Non intendiamo affermare che non vi sia alcuna differenza tra rappresentazioni caricaturali o dispregiative di stampo razzista e un serio trattato di antropologia. Dato che, tuttavia, la conoscenza sociale (compresa quella messa in circolazione dagli scienziati sociali) è organizzata sotto forma di categorizzazioni generalizzanti, non è possibile stabilire una differenza netta di natura ontologica tra categorie scientificamente fondate, tipizzazioni di senso comune (alla Schütz per intenderci) e stereotipi. Si può soltanto decidere caso per caso, avvalendosi di tutte le informazioni contestualmente rilevanti, senza poter sfuggire all’ineliminabile carattere indicale e riflessivo che accompagna ogni descrizione della realtà, compresa quella che io

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Consideriamo il seguente racconto tratto da una ricerca sul funzionamento di alcuni servizi sociali del

Comune di Milano.

Ci fu il caso del bambino ricoverato presso una comunità di Milano che ho seguito insieme a un operatore di

questa comunità. Si trattava di un bambino allontanato perché trovato per strada; anche i giornali ne hanno

parlato perché è stato trovato mentre puliva i vetri con un braccino anchilosato. Lo zio e il padre furono arrestati

con l’accusa di riduzione in schiavitù; poi il papà è stato messo in libertà, mentre lo zio è stato incarcerato perché

colto sul fatto.

Inizialmente, c’è stata un’interruzione delle visite con il padre, poi abbiamo iniziato a fare degli incontri alla

presenza di un mediatore, perché volevamo che ci fosse la garanzia di un interprete che comprendesse la

comunicazione al momento della visita; perché noi non potevamo capire che cosa il padre diceva al bambino e

viceversa.

Gli operatori della comunità avevano un compito delicatissimo: valutare la relazione tra il padre e il bambino per

poi riferire al giudice che, anche sulla base della relazione, avrebbe deciso se rimandare il bambino in Marocco,

lasciarlo in comunità, o darlo in affido a una famiglia italiana. Un compito non da poco!

E lì si è posto il problema di come l’educatore italiano osservava e valutava la relazione. Che cosa vedeva

l’educatore italiano? Da una parte, vedeva un bambino che quando si trovava a faccia a faccia con il padre stava a

testa bassa e, solitamente, iniziava a piangere, dall’altra, un padre che rimaneva a distanza in un angolo, guardava

il figlio e quando non sapeva che cosa fare piangeva anche lui.

Interazione fisica non ce n’era; non c’è stato un abbraccio nemmeno la prima volta in cui padre e figlio si sono

rivisti; il bambino stava sempre con la testa china di fronte al padre. Allora tu pensi: “Questi non si vogliono

bene, perché non giocano, stanno a distanza”. Il papà italiano gioca con il figlio, è abituato a giocare con il figlio;

o almeno una parte di loro. Comunque, uno improvvisa. Anche i padri disgraziati che vediamo e che non sono,

pedagogicamente parlando, molto adeguati, sanno però che sono osservati e qualcosina si mettono a fare;

stesso sto proponendo, in questo momento.

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improvvisano anche, se non sono molto convinti. Questo invece non era nemmeno in grado di avvicinarsi al

figlio.

Allora, una valutazione da italiano avrebbe dovuto constatare che non c’era relazione tra loro, che la relazione

affettiva non esisteva. Il mediatore, invece, ti porta a capire che il bambino abbassa la testa perché il padre

rappresenta l’autorità, un’autorità tanto grande che si deve mostrare rispetto abbassando il capo. Se il bambino

abbassa la testa, allora vuol dire che è bene educato. E il padre, poi, sta a distanza perché il padre non gioca con il

figlio, perché nella loro cultura il padre non ci sta nemmeno se lo obblighi a giocare con il figlio. È una cosa da

donnette. Un uomo non gioca con il figlio.

Se non ci fosse stato il traduttore la valutazione avrebbe potuto assumere un direzione completamente diversa.

Non avevamo capito la ragione della mancanza di esternazione, finché il mediatore non ci ha detto: “Io ho

trent’anni, ma io non ho mai ricevuto un abbraccio da mio padre, e non posso dire di mio padre che mi maltratta

o che non è affettivamente coinvolto. Esiste una relazione profonda che si manifesta con modalità

completamente diversa dalle vostre”.

In questo brano di intervista, compaiono “bambini in atteggiamento sottomesso che piangono di fronte

al padre temuto”, “bambini marocchini ben educati che tengono lo sguardo basso e mostrano rispetto

verso l’autorità paterna”, “padri che rimangono ‘freddamente’ in disparte di fronte al figlio che non

vedono da tempo e dal quale sono stati separati”, “padri che continuano a rimanere in disparte, ma che

piangono”, “padri che non giocano con i propri figli”, “padri italiani che giocano con i propri figli”,

“padri italiani che almeno fanno finta di giocare un po’ con i propri figli quando si trovano di fronte agli

operatori dei servizi”, “padri marocchini ai quali non verrebbe mai in mente di giocare con i propri

figli”. Un ventaglio di tipizzazioni – interpretazioni di una situazione messe d’accordo con diverse

regole generali di comportamento – che corrispondono a diversi modi di recitare alcuni ruoli sociali

all’interno di contesti culturali definiti e riconoscibili e che si assomigliano per un semplice aspetto:

funzionano nel dare senso a una scena sociale, in virtù del cosiddetto “metodo documentario di

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interpretazione”.39 Nell’interpretare una situazione viene messo in campo un modello generale (il

comportamento “tipico” del padre italiano piuttosto che del padre marocchino) che consente di

comprendere la scena particolare e che, a sua volta, viene riconfermato dall’episodio particolare a cui si

applica. Non ci sono due cose distinte – regole generali, da un lato, e comportamenti, dall’altro –, ma

ciascun elemento è funzione di ciascun altro.

Conclusioni

L’analisi delle regole/differenze culturali può dunque procedere in due modi.

In primo luogo, si può scegliere di approfondire le norme comportamentali di carattere culturale con

l’obiettivo di fare emergere le specificità culturali. Riconsideriamo, ad esempio, le ricerche di Carbaugh

discusse nel primo paragrafo: vengono esaminati i simboli utilizzati nella strutturazione dell’evento

(definizioni della situazione, forme classificazione dell’azione coerenti con tali definizioni, strumenti di

simbolizzazione e domini di significato associati con tali simboli), le forme di simbolizzazione

(argomenti legittimi o meno, luoghi deputati, tono, atmosfera ed ethos dell’incontro, interlocutori

approvati ecc.), nonché un’ampia configurazione di variabili che possono, a buon diritto, essere ritenute

significative in rapporto ai contesti culturali considerati. In questo caso, il problema analitico consiste

nello stabilire per mezzo di quali processi il background culturale di cui ciascuno è portatore influenza

le modalità di svolgimento dell’incontro sociale e le interpretazioni che di esso vengono date, entro un

modello di attore sociale non così dissimile da quello proposto, o più semplicemente supposto, dai

fautori del “paradigma normativo”. Non si deve tuttavia dimenticare che le differenze culturali non

esistono in vitro, ma possono rivelarsi soltanto nei contatti personali e negli incontri sociali, sempre con

39 Cfr. H. Garfinkel Studies in Ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1967, pp. 76-103.

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la mediazione del linguaggio. Il limite maggiore che emerge nella letteratura sulla comunicazione

interculturale concerne proprio questo punto. Esso è evidente negli studi cross-culturali nei quali si

procede confrontando “contesti simili” entro i quali “attori simili” interagiscono usando ciascuno la

propria lingua naturale; spesso, tuttavia, ritorna anche nelle ricerche che studiano ciò che accade quando

attori culturalmente dissimili si incontrano e devono agire in modo coordinato entro un unico contesto

culturale e organizzativo, tramite un unico medium linguistico. Le caratteristiche emergenti e

problematiche dell’interazione sono, infatti, descritte e spiegate, confrontando gli ambienti culturali di

provenienza. Si ipotizza che tutte le persone coinvolte abbiano un’idea chiara, per quanto culturalmente

connotata, del contesto in cui si trovano, dei ruoli sociali di coloro che partecipano all’incontro e di

quanto accade di fronte ai loro occhi. Si assume, in sostanza, che sia possibile definire in modo de-

contestualizzato i contesti di interazione e, su tale base, si cerca di individuare le caratteristiche di

ciascun contesto e le forme tipiche di interazione, connotandole, in entrambi i casi, sul piano culturale

al fine di mettere in luce gli elementi che possano rendere conto di eventuali difficoltà nel condurre

un’interazione ordinata o nel giungere a una definizione condivisa della situazione.

In secondo luogo, ci si può chiedere come vengono acquisite e vengono utilizzate a fini interpretativi le

conoscenze relative ad altre culture, come venga ridefinito il ventaglio di possibilità a portata di mano

nell’interpretare le situazioni sociali e che cosa comporti, rispetto ad altri punti di vista altrettanto

legittimi, il dare priorità a una interpretazione che insista sulle differenze culturali esistenti tra coloro

che sono coinvolti nella situazione. In questo caso, il problema riguarda la ricostruzione del processo

tramite il quale le differenze culturali vengono “scoperte”, nel momento stesso in cui sono “ri-

prodotte”, diventando patrimonio di conoscenza condiviso e risorsa a portata di mano per dare un

senso agli avvenimenti e per riconoscere/descrivere/creare dei modelli di comportamento che mettano

ordine nel caos dell’interazione. Da questo punto di vista, le interpretazioni e le scelte che l’attore deve

compiere si radicano nelle caratteristiche specifiche della situazione e nelle risorse che vengono messe

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localmente a disposizione. Si deve risolvere un problema pratico che richiede decisioni immediate e non

lascia molto spazio alla riflessione. Tutto ciò che può influenzare, ostacolare o facilitare tale processo

deve essere ricercato in quanto accade nella situazione particolare e, più precisamente, nell’insieme

differenziato di regole che vengono messe in gioco, invocate o, molto più spesso, utilizzate in modo

implicito. In questo si rivela la competenza comunicativa degli attori che, per il carattere espressivo del

comportamento (display), si basa sul controllo dei codici comunicativi. Conoscere non è sufficiente,

bisogna soprattutto saper fare e mostrare di saper fare: un’idea di cultura che non implica un habitus o

modelli normativi interiorizzati, attivati in modo solo parzialmente consapevole, ma che evoca la

metafora del gioco, inteso come capacità di riconoscere, seguire, modificare, irridere, contrastare – in

una parola ricreare incessantemente – le regole che localmente danno senso alla nostra esperienza della

realtà sociale.

Una prospettiva che evoca lo scenario narrato da Marco Paolini, in un recente scritto: un ottimo

anticorpo per la vulgata sul multiculturalismo.

Milano

“Mmmpapepareela trebaho uhelapahghepahghe aenbo mbaseere calla calla bain osteria Roberto. Mahammaseo trebho, mbapa rubale

laoo omenitamba ndamma ndamma; sgnancarè dejansanka mambare! Pepatokala man barè trabjabaho Bepi cavilla ea calla bain

osteria.

Ea ada adi pebosache na mballa mballa…”

Annoto, quasi stenografo sul quaderno senza pensarci troppo. Sono due asiatici e il dialogo si svolge sul tram 29

all’altezza di viale Bligny. È davvero un altrove il tram di sera qui. Se volessi fare uno spot su quello che ci sta

capitando di vivere userei questo tram.

Il soggetto è questo: un ragazzo serbo appena arrivato a Milano con valigia sale sul tram numero 29 mezzo

pieno, insieme a un amico già residente che è venuto a prenderlo.

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I due si siedono vicini e si scambiano convenevoli nella loro lingua.

Due donne asiatiche col chador stanno parlando, si riscaldano, il tono sale, una delle due si sposta più avanti di

qualche metro, ma il dialogo non cessa, semplicemente parlano più forte.

Il campionario di chi ascolta il battibecco è decisamente misto: un africano, tre o quattro pensionati, due donne

con la spesa, tre studenti di cui uno cinese, due cabarettisti veneti e tutti seguono il dialogo fra le due donne con

grande interesse.

A un certo punto uno dei pensionati interviene deciso: “Mmmpapepareela trebaho uhelapahghepahgheaenbo mbaseere calla

calla bain osteria Roberto”.

Al che gli risponde una delle due donne con la spesa:

“Ragionier Colonna, guardi che in questo caso è più giusto dire nbaseere calla calla bain osteria, però, a parte questo,

ha ragione”.

E tutto il tram annuisce convinto.

Il ragazzo serbo chiede stupito al suo amico: che lingua stanno parlando?

Gli risponde in serbo il cinese; i due cabarettisti veneti ridacchiano commentando in dialetto lo stupore di quello

con la valigia, ma l’altro serbo gli risponde a tono:

“Ti prima de parlar tasi!”

Ha lavorato in fonderia due anni a Conegliano.40

40 M. Paolini, I cani del gas, Einaudi, Torino, 2002, pp. 36-37.