dedicato al Maestro - FULLWEB · Venti anni sono trascorsi dalla pubblicazione della prima edizione...
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Dedicato al Maestro GIUSEPPE MURACCHIOLI
e a tutti coloro che percorrono la Via del miglioramento…
Questa raccolta di informazioni, tratte da testi, siti web ed altre fonti ritenute
autorevoli sull’argomento ed ampliate con commenti e suggerimenti dell’autore, è stata
realizzata per uso personale dell’autore stesso, al fine di comprendere più
profondamente il significato delle cose.
Senso di riconoscenza ed un profondo ringraziamento sono rivolti quindi alla
Conoscenza Collettiva, Patrimonio dell’Umanità.
Il simbolo della Tigre Shotokan, in copertina, è opera del pittore Hoan Kosugi.
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Per la prima volta voglio rendere testimonianza scritta della mia esperienza nella Via durante
molti anni e di quel sentiero di Heiho a cui ho dato il nome di Niten Ichi ryu. Siamo nella prima
decade del decimo mese del ventesimo anno di Kanei. Sono salito sul monte Iwato, nella provincia
di Higo nel Kyushu, per rendere omaggio al Cielo, pregare Kwannon e sedermi in Buddha. Sono
Shinmen Musashi-no-kamj Fujiwara-no-genshin, nato come bushi nella provincia di Arima, giunto
all’età di sessanta anni.
Fin da giovane mi sono dedicato al sentiero di Heiho, combattendo per la prima volta all’età di
tredici anni e vincendo contro uno spadaccino di nome Arima Kihei di Shinto-ryu. A sedici anni
vinsi un formidabile combattente, tale Akiyama della provincia di Tajima. A ventuno anni sono
venuto nella capitale per conoscere maestri d’armi di ogni parte del paese; li ho affrontati in un
gran numero di duelli, in nessuno dei quali mi è sfuggito il successo. Poi ho vagato di provincia in
provincia, accettando la sfida degli esperti di varie scuole, senza mancare di vincere in più di
sessanta incontri. Questo avvenne tra l’età di tredici e ventinove anni.
Allo scadere dei trenta anni ho riflettuto sulla mia vita passata e ne ho concluso che le mie vittorie
non erano dovute alla piena padronanza dei segreti dell’Arte: forse avevo per essa una
predisposizione naturale, o quella era la volontà del Cielo, o semplicemente era dovuto al basso
livello delle altre scuole di scherma. Allora ho cercato di raggiungere una conoscenza più profonda
e, dedicandomi giorno e notte, ho realizzato in me stesso l’essenza di Heiho all’età di cinquanta
anni.
Dopodichè ho passato il mio tempo senza più una Via da ricercare. Ho applicato l’illuminazione
sui principi di Heiho a varie arti e mestieri senza sentire la necessità di avere in tali campi alcun
insegnante, o maestro.
Ugualmente per scrivere questo libro non mi ispiro alla Legge del Buddha o agli insegnamenti di
Confucio, né riprendo gli antichi libri di cavalleria e di tattica militare. Nella luce del sentiero del
Cielo e di Kwannon, la notte del decimo giorno, del decimo mese, all’ora della Tigre,
semplicemente prendo il pennello e incomincio a scrivere.
Miyamoto Shinmen Musashi no kami Fujiwara no genshin
Secondo anno di Soho, 12 maggio 1643
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Venti anni sono trascorsi dalla pubblicazione della prima edizione di "Karatè-do Kyohan: Il Testo
Maestro." Ricordo con una certa emozione la pubblicazione, nel 1922, di un primo libro, "Ryukyu
Kempo: Karatè", e la susseguente pubblicazione del secondo, "Rendano Goshin Karatè-jitsu" che
ebbe varie edizioni. L'onore che mi produsse il fatto che l' Imperatore e membri della Famiglia
Imperiale leggessero il secondo libro, fu fonte di profonda gratificazione ed umiltà per me. Allora,
dopo più di dieci anni di allenamento ed esperienza addizionali, e circa due anni di revisione e
correzione di parti incomplete del Karatè-jitsu, pubblicai "Karatè-do Kyohan: Il Testo Maestro."
L'allegria che sentii all'apparizione di questo libro è così reale dentro me che è come se la sua
pubblicazione fosse avvenuta ieri.
Come risultato del disordine sociale che seguì alla Seconda Guerra Mondiale, il mondo del Karatè
si disperse, come molte altre cose. A parte il pendio del livello tecnico sperimentato per questi
tempi, non posso negare che ci furono momenti nei quali arrivai a darmi conta su dolore del quasi
irriconoscibile stato spirituale nel quale era sprofondato il mondo del Karatè comparato con quello
quale aveva prevalso nel tempo in che io lo presentai e cominciai ad insegnare. Benché possa
affermarsi che tali cambiamenti sono solo il risultato naturale dell'espansione del Karatè-do, non è
tanto evidente che debbano guardarsi tali risultati con gioia invece di vederli con un certa
diffidenza.
È pertanto, con un miscuglio di sentimenti di allegria e rimorso che ho osservato e ho cercato di
proporzionare una migliore direzione al corso del mondo del Karatè, e non so come stimare
l'influenza che io posso esercitare ancora sulla sua forte corrente. In ogni caso, essendo già vicino
a novanta anni di età, non devo osservare il futuro. Per vari anni ho meditato sulla necessità di
tornare a pubblicare questo libro. Recentemente, tentando di localizzare una copia della prima
edizione nella lunga lista di librerie di vecchio che c'è nel distretto Kanda di Tokyo, mi sorpresi per
la sua scarsità ed elevato prezzo. Inoltre, aveva ricevuto molte petizioni di una nuova edizione da
parte dei miei alunni ed ora sono convinto che un altro libro può dare utilità a coloro che lo
cercano. Abbordando la scrittura del nuovo libro, a differenza dei miei anteriori sentimenti, mi ha
allarmato la profondità del Karatè-do, fino al punto che a volte ho vacillato, e come risultato lo
scritto si è andato estendendo nei tre ultimi anni. Nonostante tutto, ho ritenuto che se questi
profondi aspetti del Karatè non vengono messi in rilievo, può accadere che ciò non si faccia mai
nel futuro, ed è con questo riconoscimento e con la maggiore umiltà che consegno loro questa
seconda edizione.
Ai miei alunni, ed a tutti coloro che dedicano il loro tempo al Karatè, desidero augurare, il che mi
riempie di speranza, che arriverete a comprendere il mio serio anelito e che voi stessi completerete
questa opera; così il suo obiettivo sarà compiuto.
Gichin Funakoshi
Tokyo, 13 Ottobre 1956
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INDICE
Introduzione
Cos’è lo spirito.
o Lo spirito dal punto di vista filosofico .
o Gli spiriti animali .
o Lo spirito dal punto di vista etnologico .
o Lo spirito dal punto di vista mitologico .
o Yin e Yang e le filosofie orientali
o Il libero arbitrio
Cos’è l’emozione.
o L’ emozione dal punto di vista filosofico
o L’ emozione dal punto di vista fisiologico
o L’ emozione dal punto di vista psicologico
Cos’è il processo psicosomatico.
o Il processo psicosomatico come apprendimento o Il processo psicosomatico dal punto di vista medico o Il processo psicosomatico nei simboli.
Cos’è la forma.
o La forma dal punto di vista filosofico
o La forma dal punto di vista psicologico
o La forma dal punto di vista letterario e religioso
o La forma nella geometria, nei numeri e nella fisica classica
o La forma della natura
Cos’è il Karate Do
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Capitolo 1 Lo spirito nel Karate Do.
o I venti Precetti della Via del Karate
o La mano Vuota
o L’importanza del Buddismo
o La medicina e le arti marziali
o Antiche testimonianze
o Abe no Seimei
o Gli Shitenno
o I Siling
o Le origini
o Il cambiamento e le tradizioni
o Il Dojo
o Reigi, l’etichetta nel dojo
Capitolo 2 L’emozione nel Karate Do.
o Otto versi sulle Arti Marziali
o I Quattro Veleni
o Educare la mente
o L’aggressività
o L’equilibrio di In e Io
o Haragei
Capitolo 3 Il processo psicosomatico nel Karate Do.
o Hara e Ki, il centro e l’energia
o Kokyu, la respirazione
o Dachi, la posizione
o Tachikata, la posizione dei piedi
o Kamae, posizione di guardia
o Reciprocità di kamae.
o Tai sabaki, lo spostamento
o Kawashi, l’incontro
o Te sabaki, il movimento delle mani
o Waza, la tecnica
Capitolo 4 La forma nel Karate Do.
o I simboli nella cultura orientale
o Una gran quantità d’espressioni
o Gli stili
o Shorin ryu e Shorei ryu
o Shotokan.
o Goju Ryu.
o Wado Ryu.
o Shito Ryu.
o Il kata, la forma
o Kaisai no Genri
o Enbusen, il tracciato
o Dai e Sho, grande e piccolo.
o Rei, il saluto
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o I kata Shotokan
o I Taikyoku
o Gli Heian
o I Tekki
o Bassai Dai
o Kanku Dai
o Jion
o Enpi
o Jitte
o Hangetsu
o Gankaku
o Bassai Sho
o Kanku Sho
o Chinte
o Sochin
o Jiin
o Unsu
o Meikyo
o Niju Shiho
o Goju Shiho Dai
o Goju Shiho Sho
o Wankan
o Ten no Kata
Capitolo 5 Il karate nel Karate Do.
o Un modello mutevole di principi immutabili
o Arte e sport
o Date biografiche
o Il pensiero dei maestri.
o I precetti dell’addestramento
o Questione di vita e di morte in un mondo pacifico
o Le otto K del Karate.
o Il karate è un mantra?
Appendice
Giappone
Vestigia di Atlantide in Giappone
Un po’ di storia dell’isola di Okinawa.
L’Imperatore Qin Shihuang
La Cina come centro culturale della medicina orientale
Tavole
Dizionario
Glossario dei termini giapponesi
Bibliografia
Note sull’autore
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INTRODUZIONE
Cos’è lo spirito.
Lo spirito dal punto di vista filosofico.
Il significato della parola spirito, dal greco pnêuma, nell’antico pensiero ellenico è quello di
principio vitale, soffio animatore del reale, concepito come entità materiale, costituita da materia
sottilissima e mobilissima, assai affine al fuoco. Erasistrato distingue un pnêuma zotikón, con sede
nel cuore, e un pnêuma psychikón, nel cervello e nei nervi; Galeno aggiunge un pnêuma physikón,
con sede nel fegato. Il dualismo di spirito e materia, ove per spirito s’intende sostanza per
definizione immateriale, quindi diversa dal pneuma originario, appare per la prima volta nell’opera
di Platone, Mondo delle cose e Mondo delle idee, ed è fissato definitivamente nella filosofia
cristiana. La concezione aristotelica sosteneva invece che il soffio animatore risiedesse nel cuore e,
sebbene in contrasto con la visione galenica, influenzò il pensiero nei secoli successivi.
Platone e Aristotele
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Aristotele individua un Motore Immobile causa
prima del movimento: motore perché ha la
capacità di causare e immobile in quanto, esterno
all’ordine fisico delle entità, non subisce
nessun’azione. San Tommaso preciserà che gli enti
fisici sono soggetti a continuo cambiamento ed il
mutamento di un ente è sempre prodotto da un
altro ente: non è possibile, infatti, che un qualsiasi
processo fisico avvenga senza una causa. Tale
principio trascendente è identificato con Dio nel
Cristianesimo, nell’Ebraismo e nell’Islamismo.
Tali idee continuarono in età medievale e moderna
fino a Cartesio, spiriti animali, il quale individuò
nella ghiandola pineale il luogo in cui la res
cogitans, immateriale e senza sistemazione fisica,
interagisce con il corpo.
L’Anima rompe i legami con la Terra, dipinto di
Pierre Paul Proud'hon - 1822.
Gli spiriti animali.
Da Cartesio lo spirito è definito sostanza nella quale risiede il pensiero e il suo ambito abbraccia
concetti come coscienza, realtà pensante, intelletto, inteso nell'uso ancora corrente del termine. La
nozione di spirito, nella filosofia hegeliana e idealistica, ha un significato particolare. La filosofia
dello spirito, in altre parole la scienza dell'idea che ritorna in sé dopo essersi alienata nella natura,
è il momento più alto dello svolgimento del pensiero di Hegel. Egli distingueva lo spirito in
soggettivo, in altre parole lo spirito nel significato precisato da Cartesio, oggettivo, in pratica le
istituzioni storiche in cui s’identificò la ragione, assoluto, quando la ragione realizza sé stessa nelle
forme dell’arte, della religione e della filosofia.
Cartesio nelle Passioni dell’anima descrive lo
spirito come una sostanza materiale sottilissima
che darebbe origine, in unione con le fibre del
cervello, agli organi preposti al pensiero. Essa
deriva dalle parti più sottili e più agitate del
sangue, il quale a sua volta si assottiglia
attraverso la fermentazione e si agita per il
movimento del muscolo cardiaco. Sempre
secondo Cartesio, questi spiriti sono convogliati
lungo le arterie con il resto del sangue fino al
cervello, dove essi si separano dal liquido con un
processo che sfugge all’osservazione.
Cartèsio, René D’Escartes
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Questo celebre tentativo, di descrivere le basi fisiologiche dell’attività psichica, ha le sue radici
nelle concezioni dell’antica medicina greca e precedenti certi con San Tommaso, Bacone e Hobbes.
San Tommaso d'Aquino Francesco Bacone Thomas Hobbes
Lo spirito dal punto di vista etnologico.
Nella maggior parte delle popolazioni esiste la convinzione che il mondo esterno sia popolato da
entità con funzioni caratteristiche alle quali si attribuisce il nome generico di spiriti. Non sempre
queste entità hanno poteri soprannaturali o fanno parte di una gerarchia divina; il più delle volte
sono considerati come l’essenza nascosta delle cose e, come l’oggetto che abitano, possono essere
benevole o malefiche, come pure possono cambiare le loro caratteristiche e ciò, di norma, in seguito
al mutamento del giudizio sull’oggetto da parte del credente.
Il matrimonio degli spiriti volpe di Tachibana Minko - 1764
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Gli spiriti hanno la caratteristica di potersi mescolare alla gente e di intervenire nella vita
quotidiana: sono, infatti, legati alle manifestazioni della vita naturale ed al pensiero dell’uomo,
quindi possono materializzarsi o restare astratti. Esistono spiriti di fiumi, sorgenti, montagne, rocce,
animali, d’alberi ecc., e spiriti dell’amore, della nascita, dell’odio e della morte. Per queste vaste
influenze gli spiriti sono oggetto di superstizione e, al fine di conciliarseli, si eseguono pratiche
magiche che richiedono l’intervento di specialisti come stregoni, sciamani o esorcisti, in quanto il
carattere degli spiriti è mutevole e le loro reazioni sono sempre imprevedibili. Le antiche dottrine
occultistiche e astrologiche associavano ad ogni elemento del sistema della natura uno spirito che ad
esso presiedeva: così uno spirito presiedeva ai decani, agli anni, alle stagioni, alle ore del giorno, ai
punti cardinali, ad ogni segno dello zodiaco, a ciascuno dei pianeti, a ciascuna stella, ecc..
Nel periodo rinascimentale le credenze sugli
spiriti della natura vennero sistematizzate, in
modo particolare da Paracelso il quale
sosteneva l’esistenza di varie categorie di
spiriti, ciascuna collegata con uno degli
elementi, spiriti elementari, o uno degli aspetti
della natura, quali gli gnomi, gli elfi, le
ondine, i silfi ecc.
Paracelso, Theophrast Bombast von Hohenheim.
Lo spirito dal punto di vista mitologico.
La Cosmogonia è l’insieme dei miti sull’origine dell’Universo ed i miti cosmogonici riguardano
l’origine della Terra, dei corpi celesti e comprendono tutto ciò che, vivente o meno, si trova
nell’universo: talvolta implicano una nascita dal nulla, talvolta presuppongono l’unione o la
mescolanza d’elementi già esistenti, oppure la loro divisione da un amalgama indistinto. Figurazioni
del cosmo primordiale sono descritte nelle tradizioni mitologiche come un vuoto, un’oscurità, un
mare, un caos d’elementi informi contenente ogni cosa in forma embrionale.
Secondo un’antica credenza norvegese,
all’origine dell’universo era un albero
immenso chiamato Yggdrasil che si
estendeva dalla volta celeste fino alle
profondità degli inferi. Nidhoggr, un drago
feroce, mordeva continuamente le radici
dell’albero nel tentativo di distruggere
l’ordine della creazione e tre esseri chiamati
Norne, sedevano accanto al drago tessendo
il filo del destino dei mortali. Due cervi
intanto brucavano le foglie dell’albero e
bagnavano la terra con la rugiada che si
posava sui loro palchi, le corna, mentre una
capra rosicchiava la corteccia dell’albero e
forniva l’idromele per gli eroi mortali destinati a liberare il mondo dai draghi. Fra gli uccelli
appollaiati sui rami di Yggdrasil v’è l’aquila, la più grande e pericolosa nemica dei terribili draghi.
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A volte l’origine del mondo è spiegata come il frutto
di un accoppiamento di tipo sessuale, ad esempio
quello di Urano, il cielo, con Gea, la Terra, la quale
è infatti non di rado identificata con la Dea Madre,
matrice e grembo di tutte le cose, o di una nascita di
tipo animale come quella raffigurata dall’uovo
cosmico e diffusa nelle culture e nelle religioni
africane, cinesi, indiane, giapponesi, del Pacifico
meridionale.
Rappresentazione artistica dell’uovo cosmico
portato dalla Gru, simbolo di fertilità.
Narra la leggenda che migliaia d’anni fa, nella
Piramide di Cheope, i Sacerdoti d’Ammone,
risvegliati alla percezione magica, portarono alla
luce, tra i preziosi ed aurei manufatti del sovrano,
alcuni logori papiri ricchi d’arcaiche conoscenze che
svelavano i misteri dell’essere umano, raffiguranti la
Forza della Vita in semplice forma geometrica.
Le piramidi di Giza.
Nei miti diffusi tra le popolazioni siberiano-altaiche, ma anche in Romania e
in India, la creazione scaturisce dall’azione di un animale, tartaruga o uccello,
che si tuffa nelle acque primordiali per portare alla superficie un pezzetto di
terra che in seguito si espande nel mondo. Un motivo dominante di svariati
miti cosmogonici è l’atto sacrificale o cruento: il creato è il frutto di una crisi
violenta, quale la lotta tra forze personali o impersonali, o di una morte, come
lo smembramento di Prajapati, narrato nei Veda, o del gigante Ymir, ucciso
da Odino nella mitologia nordica.
Ijo, spirito nigeriano delle acque.
In altri miti il creato ha origine dalla separazione o dall’emergere
delle cose da un elemento indistinto, come le acque primordiali o
un mare di latte: anche in questo caso l’identificazione con la
gravidanza ed il parto è evidente; in un mito dei Dogon
dell’Africa occidentale si fa riferimento alla placenta del mondo;
un mito polinesiano pone i vari stadi dell'emersione all’ interno di
una noce di cocco e per i Navajo e gli Hopi l’emersione indica una
progressione verso l’alto da mondi inferiori.
Ometecuhtli, signore della dualità, degli uomini e degli Dei.
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Yin e Yang e le filosofie orientali.
La sintesi del taoismo, costituisce il gran principio
dell'Ordine universale, il Tao, che si manifesta
alternativamente sotto questi due aspetti, a un tempo
contraddittori e complementari. All’inizio era il Wu Chi o
stato indifferenziato degli elementi; non esistevano in
altre parole differenze tra gli stati elementari
dell’Universo: era il Nulla. Ciò che ha generato le cose è
stata la differenziazione primordiale tra due entità
elementari: Yin e Yang. Nell’ordine ideale della
simbologia divinatoria, yin è la forza negativa, il bianco,
il pari, il femminile e yang la forza positiva, il nero, il
dispari, il maschile. Nel mondo reale rappresentano
l’Ombra e la Luce, il Freddo ed il Caldo, la Passività e
l’Attività e i fenomeni dovuti alle mutazioni di yin e yang
come l’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte,
dei cicli lunari ecc. Il filosofo Lao Tse afferma:
Tutte le cose sotto il cielo nascono dall’essere, e l’essere
nasce dal non essere.
Chi pratica il Buddismo Ch'an, o Zen in giapponese, deve
educarsi a vedere direttamente dentro di sé ed a scoprire
la natura intima della realtà, senza l’aiuto dell’intelletto.
Per arrivare a ciò sono indispensabili le pratiche della
concentrazione mentale e della meditazione. Durante la
meditazione bisogna ottenere il vuoto totale dentro di sé
stessi, bisogna quindi far tacere la voce incessante della
mente, e abolire ogni pensiero e qualsivoglia emozione.
Buddha
Lo scopo principale delle filosofie orientali non è quello
di capire il mondo, ma di rendere grande l’uomo
attraverso la cultura dello spirito.
Nel Taoismo il risultato è raggiunto, quando l’uomo
diviene una sola cosa con la natura, con la via interiore
dell’Universo. Nel Buddismo l’uomo si perfeziona e
raggiunge la vera comprensione, che non è intellettuale,
per il tramite della meditazione. Nel Confucianesimo tale
meta è conseguita coltivando la virtù della sensibilità
umana poiché, secondo Confucio, l’uomo può elevare ed aiutare sé stesso solo se eleva ed aiuta gli altri.
Il nome Confucio è la latinizzazione di Kung Fu Tzu
(Confucius, Confucius), in cui è indicato il cognome
K’ung ed il titolo Fu tzu (maestro). Il nome Confucio
significa, quindi, Maestro Kung.
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I filosofi induisti identificano Brahman come l’anima del mondo, con Atman, l’essenza interiore
dell’essere umano, in altre parole l’anima, ma Brahman non deve essere confuso con la prima
divinità della Trimurti, cioè Brahma il creatore, Vishnu il conservatore e Shiva il distruttore.
Secondo il racconto tradizionale solo una donna poteva uccidere il terribile mostro
Mahishasura, che minacciava l‘Universo. Brahma, Vishnu e Shiva crearono così Devi,
la dea dalle dodici braccia che, in sella ad un leone, distrusse la creatura malvagia.
In Sanscrito Vedico, la parola brahman ha diversi significati: crescita, sviluppo, rigonfiamento,
devozione, adorazione e, per la filosofia Induista, rappresenta l’aspetto d’immutabilità, d’infinito,
d’immanenza e di realtà trascendente, in altre parole l’Origine Divina di tutti gli esseri. È
considerato la sorgente, il substrato, l’autentica coscienza suprema, la somma di tutto l’universo,
che, limitata dal tempo, dallo spazio e dalla causalità origina dal proprio puro essere, un’estensione
dell’Anima mundi. È scritto nei testi vedici: “Davvero grandi sono gli dei nati da Brahman”
Brahman non può essere conosciuto, né si è in grado di diventarne consapevoli, in quanto egli è la
nostra stessa consapevolezza, ma attraverso l’illuminazione si realizza la comprensione di noi stessi
e ci si rende conto così di essere sempre stati Brahman. L’unico pensiero per descrivere Brahman è
contenuto nell’espressione Sat Chit Ananda i cui significati sono rispettivamente: essenza,
consapevolezza e beatitudine: gli induisti considerano Brahman come colui che pervade la
consapevolezza che sta alla base di tutte le entità animate e inanimate. Credono inoltre che
l’universo non esprime solo la coscienza, ma che sia consapevolezza che a sua volta è Brahman.
Ritengono inoltre che la consapevolezza umana abbia dimenticato e non sia più in grado di
riconoscere la sua vera identità, in pratica Brahman, come se una goccia d’acqua si fosse per sempre
separata dal vasto oceano della Consapevolezza Assoluta, e che l'unico modo per fondersi
nuovamente in esso consista in un cammino di devozione, di integrità morale ed etica, e di
meditazione, attraverso vari sistemi di pratica spirituale come lo yoga. Nella ricerca di Brahman,
l’Atman cerca la verità: non ha importanza cosa essa sia, poiché, accettandola, è in grado di
ammettere di non essere separata da tutto ciò che la circonda. Il passo successivo è l’Atman
permanentemente assorbito in Brahman, il modo per evitare la reincarnazione ed interrompere per
sempre il ciclo del Samsara, la nascita, la morte, la rinascita e così via.
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L'Induismo tradizionalmente denominato Sanatana dharma o Insegnamento eterno, è una tra le più
antiche religioni del mondo e, con circa 1 miliardo di fedeli, di cui 900 milioni in India è in questo
periodo la terza più praticata, dopo il Cristianesimo e l’Islamismo. Darne una definizione unitaria
non è facile, poiché più che una religione si può considerare come una serie di correnti religiose,
devozionali, metafisiche e filosofiche eterogenee, aventi un comune nucleo di valori e credenze ma
diverse tra loro secondo l’interpretazione delle antiche tradizioni. Chi è induista ritiene che esistano
quattro scopi per l’esistenza umana, denominati purushartha: poiché i desideri degli uomini sono
naturali, tramite la condivisione del mondo ed il risveglio dei sensi ciascuno di questi scopi serve a
perfezionare la conoscenza dell’individuo che deve però guardarsi dall’essere affascinato da questi
scopi per evitare di vagare perennemente nel ciclo del Samsara.
1. Artha la ricchezza: l’uomo, partecipe della società, crea la ricchezza per mezzo del suo lavoro
facendo però attenzione a non lasciarsi ingannare dal fascino dell’agiatezza, la quale deve essere
utilizzata solo per trarne insegnamento.
2. Kama il piacere: nella mitologia induista è il dio dell’Amore, ed anche la sorgente della
creazione. Il Kama Sutra espone i mezzi per esaltare i sensi e far fiorire la vita di coppia: tramite
il piacere, il campo della conoscenza si allarga e l’atto amoroso ne è il culmine, dove uomo e
donna formano l’unità che crea nuovamente l’elemento divino. Il piacere indirizzato alla
conoscenza non deve diventare uno stile di vita in conflitto con gli insegnamenti del dharma.
3. Dharma il dovere: permette agli uomini di proseguire la propria vita sul giusto cammino,
conformandosi al diritto ed alla morale che sono trascritti nel Dharma Sutra.
4. Moksha la liberazione: lo scopo ultimo della vita che può essere raggiunto attraverso vari
strumenti come ad esempio lo Yoga.
Peculiare dell’induismo è il suo intimo legame con la filosofia e con la scienza. Contrariamente a
quanto purtroppo accaduto in Occidente, dove numerosi furono i conflitti ed i punti di dissidio tra
Scienza e Religione, l’Induismo accetta ogni nuova scoperta, assimilandola nel proprio sistema
filosofico. In un testo di mitologia induista sono così presenti informazioni di teologia, astronomia,
filosofia e molto altro: leggere per esempio il Bhagavata purana è come leggere un’enciclopedia.
Il libero arbitrio.
Il Libero arbitrio è il concetto filosofico e teologico secondo il quale ognuno è libero di fare le
proprie scelte. Questa visione si contrappone alle concezioni deterministiche secondo le quali la
realtà è in qualche modo predefinita dal destino, e perciò gli individui non sono in grado di
compiere libere scelte dato che ogni loro azione è già predestinata: il servo arbitrio.
Questo concetto è ovviamente grandemente dibattuto in ambito religioso: è, infatti, il pilastro
basilare della religione cattolica, la quale considera fondamentali le opere di bene quanto le
preghiere, mentre appare come uno dei punti di contrasto con la religione luterana per la quale
l’uomo non può in alcun modo agire per liberare la propria anima. Alla stessa idea del luteranesimo
aderiva anche il calvinismo per il quale il destino dell’uomo è inevitabile e per questo a niente
servono le proprie opere e le proprie azioni, poiché l’elemento decisivo è solo la fede. L’idea di
libero arbitrio ha ulteriori importanti implicazioni: in campo religioso il libero arbitrio implica che
la divinità, per quanto onnipotente, scelga di non condizionare le scelte degli individui. Nell’etica
questo concetto determina la nozione di responsabilità delle azioni di un individuo, mentre in
ambito scientifico determina indipendenza del pensiero inteso come attività della mente anch’essa
indipendente dalla pura causalità scientifica.
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Cos’è l’emozione.
L’emozione dal punto di vista filosofico.
Immanuel Kant Immanuel Kant ad una riunione filosofica
L’emozione dal punto di vista psicologico.
“Io credo con Shopenhauer che l’impulso più potente, che spinge gli
uomini verso l’arte e la scienza, sia il desiderio di evadere dalla vita
d’ogni giorno, con la sua dolorosa crudezza e il suo vuoto senza
speranza, e di sfuggire alle catene dei desideri quotidiani...
Un carattere di natura più fine aspira a lasciare la dimensione
personale per indirizzarsi al mondo della contemplazione e del giudizio
obiettivo”.
Albert Einstein
La maggior parte dei fautori della teoria fisiologica, tra cui James,
Lange, e Ribot, ha sostenuto la tesi periferica, secondo la quale le
sensazioni organiche sono rappresentate da percezioni viscerali o
muscolari, mentre altri studiosi, come Solier, hanno sostenuto una teoria
centrale sull'emozione, secondo cui questa sarebbe un fenomeno di
cenestesi cerebrale.
Modello di creta scritto del fegato di una pecora del XIX sec. a.C. In
Mesopotamia si credeva che le emozioni avessero dimora nel fegato.
Questo contrasto tra tesi sembra si possa attenuare, quando si constata che ogni emozione è
determinata, in varia misura, sia da fatti fisiologici sia da fenomeni psichici. I fattori importanti
possono essere d’ordine intellettuale, morale o affettivo, come nel caso dei sentimenti estetici e
religiosi, della simpatia, dell’ammirazione, del risentimento, ecc.
La morale del sentimento ha avuto
manifestazioni di particolare rilievo nella
filosofia inglese del XVIII sec, attraverso le
dottrine di Shaftesbury, Hutcheson, Hume,
Hartley, A. Smith.
Anche Jacobi, Schopenhauer e Comte
attribuirono al sentimento una funzione
preponderante nella determinazione delle
scelte etiche. Resta classica la critica al
sentimentalismo morale condotta da Kant
nella Critica della ragion pratica.
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In quanto fenomeni psichici coscienti che colorano affettivamente le percezioni ed influenzano il
comportamento individuale, sono legati alle tendenze profonde del soggetto, ovvero alle pulsioni e
ai desideri, soddisfatti o frustrati. Secondo la psicoanalisi esistono sentimenti di colpa,
d’aggressività, d’inferiorità, che in realtà sono reazioni emozionali subconsce a cui l’individuo non
permette di esprimersi liberamente e che si manifestano con meccanismi sostitutivi come la
depressione, invece della collera, o con altri sintomi nevrotici o psicosomatici.
L’ ansia, per esempio, che è un sentimento d’anticipazione di un pericolo incombente, ha la sua
principale caratteristica in un intenso disagio psichico generato dall’idea di non essere in grado di
fronteggiare gli eventi futuri e manifesta sintomi che spesso comprendono tensione muscolare,
sudore alle mani, blocco allo stomaco, difficoltà respiratorie debolezza e tachicardia. Negli
individui che soffrono di stati ansiosi la corteccia cerebrale, imputata al ragionamento, può perdere
il controllo dell’amigdala la quale a sua volta può scatenare reazioni di paura senza che vi sia reale
pericolo: la cronicizzazione di questo fenomeno genera effetti come la riduzione della memoria,
l’indebolimento del sistema immunitario, l’aumento della pressione arteriosa ed anche problemi
gastrointestinali.
La timidezza è definita inibizione sociale, in pratica l’insieme dei comportamenti e delle reazioni
somatiche dovute alla difficoltà nel rapporto con gli altri: è sufficiente uno sguardo prolungato o la
sensazione di essere al centro dell’attenzione, per sudar freddo o diventare paonazzi e paralizzarsi.
L’emozione dal punto di vista fisiologico.
Le emozioni si determinano sempre in seguito a modificazioni
dell'ambiente esterno o di quello interno come rumori, bagliori, contatti,
colpi, ricordi, immagini, concetti, ecc. se sono improvvise e inattese
possono produrre una serie di reazioni nervose che determinano a loro
volta reazioni neurovegetative, quali modificazioni vasomotorie,
accelerazione o riduzione della frequenza cardiaca e respiratoria,
secchezza delle fauci, orripilazione, lacrime e singhiozzi, disturbi
digestivi, tremore muscolare, ecc., fenomeni tutti che sfuggono al
controllo della volontà, ma dei quali il soggetto è cosciente.
Statua romana di Pan con il giovane Dafni. Questo dio dall’aspetto
caprino amava spaventare i viandanti e per questo la paura improvvisa
è chiamata panico.
Le emozioni sono quindi accompagnate da elementi di comportamento
diretti ad affrontare le situazioni, risolvendo o eludendo i problemi che
queste presentano; nel caso che ciò non sia possibile, la conseguente
frustrazione degli stimoli emozionali può provocare stati d’angoscia.
Canonicamente si distingue un'emozione shock da un’emozione
sentimento, poiché quest'ultima è meno viva, meno intensa, ma dura
più della prima.
Dario Fo, mentre simula le emozioni.
17
Per spiegare la natura dell'emozione sono state elaborate varie teorie, intellettualistiche e
fisiologiche. Per le prime, l'emozione potrebbe, avere per antecedenti immediati alcuni fenomeni
intellettuali: percezione, immaginazione, concezione, giudizio. Per le teorie fisiologiche, invece,
uno stato intellettivo non riuscirebbe mai a produrre direttamente un'emozione: tra stato intellettivo
ed emozione esistono reazioni organiche e fenomeni fisiologici.
I nostri centri emozionali hanno sede nel
sistema limbico, in particolare nell’amigdala che
ha funzione di memoria emotiva. A differenza
del sistema circolatorio, a circuito chiuso, quello
limbico è definito a circuito aperto poiché
dipende particolarmente dall’ ambiente
circostante o da influssi esterni. Il sistema
circolatorio di chi ci sta accanto influisce poco
sul nostro sistema circolatorio, mentre la nostra
stabilità emotiva dipende in larga misura dalle
relazioni sociali, che, a loro volta, attivano i
meccanismi emozionali.
La paura percorre due vie: la prima, in rosso,
inconsapevole e rapidissima che attraversa
direttamente il talamo scavalcando la corteccia
cerebrale, per esempio la reazione alla vista
improvvisa di un pericolo; la seconda, in verde,
consapevole e meno rapida, attraversa la
corteccia visiva, dove gli stimoli sono
interpretati, per esempio se un pericolo si rivela
irreale la paura scompare. Questo secondo
circuito, più debole del primo, proprio per la sua
debolezza, chiarisce la genesi delle fobie e delle
paure irrazionali.
Come su una pellicola fotografica, sulla retina le
immagini degli oggetti si formano rimpicciolite
e capovolte, ma noi le vediamo delle giuste
dimensioni e nella posizione corretta perché il
risultato finale della visione è elaborato nel
cervello.
A quest’ultimo le retine non inviano, infatti,
l’immagine così come essa è, ma sotto forma di
messaggi codificati che ne consentono la
trasmissione a distanza attraverso i collegamenti
nervosi. La corteccia cerebrale è suddivisa in
aree di competenza e nella sede occipitale si
trova l’area calcarina, preposta alla visione.
18
Cos’è il processo psicosomatico.
Il processo psicosomatico come apprendimento.
L' apprendimento è un processo d’acquisizione di nuovi comportamenti che rendono più agevoli i
rapporti tra un individuo e l’ambiente ed è stato oggetto di studi effettuati sugli animali e sull’uomo.
Gli studi svolti sull’apprendimento hanno dimostrato l’esistenza di una
vera e propria eredità culturale. Nella nostra specie, che presenta prole
oggetto di cure parentali per un periodo molto lungo, la trasmissione
culturale dagli adulti ai piccoli è enormemente favorita, rendendo
l’apprendimento un fattore molto importante nella strutturazione dei
comportamenti dell’adulto: possiamo definire l’apprendimento come
l’acquisizione d’informazioni che sono poi registrate nella memoria
individuale e in quella della comunità. In generale, il processo
d’apprendimento è determinato da riflessi condizionati e corrisponde ad
una codificazione dell’insieme d’impulsi nervosi prodotti da stimoli
esterni.
L’ attività cerebrale di un bambino normale a confronto con quella di un orfano: i lobi temporali, nei cerchi, sono poco attivi.
Il processo psicosomatico dal punto di vista medico.
L’evoluzione della medicina psicosomatica, che studia i rapporti profondi intercorrenti tra la vita
psichica cosciente e non cosciente e le manifestazioni organiche, ovvero le malattie, ha come
compito primario il trattamento delle malattie psicosomatiche, habitus patologici di lunga durata o
malattie vere e proprie come eczema, asma, ulcera gastrica, tubercolosi, dovute alla particolare
reattività del soggetto.
I comportamenti appresi derivano
dalle esperienze, mentre quelli
ereditari sono codificati nel
patrimonio genetico. Nel caso
dell’apprendimento umano non si può
escludere l’esistenza di una scelta
volontaria con l’immagine mentale di
un modello che intendiamo imitare.
Filamento di DNA
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Gli studi sull’azione dei fattori psichici sulla genesi di disturbi organici hanno evidenziato i rapporti
esistenti tra azioni stressanti e ulcerazione della mucosa gastrica, tra funzioni escrementizie e
struttura psicologica del malato: spesso sindromi come la costipazione o la diarrea sono segni di
nevrosi, d’immaturità della personalità o di momenti di minor resistenza.
Tra le malattie delle vie respiratorie, particolare interesse
riveste l’asma in quanto sembra che le emozioni potenzino
l’azione degli allergeni o addirittura che rappresentino
l’unico fattore scatenante le crisi. L’asma risulta essere una
difesa messa in atto dal soggetto che si sente in condizioni
d’insicurezza o, talvolta, come indice di un conflitto tra il
soggetto e sua madre: anche le crisi d’eczema sono
l’espressione patologica che rivela situazioni conflittuali,
poiché la pelle, elemento protettore coadiuvante la difesa del
soggetto contro gli stress, può risentire una situazione
vissuta troppo drammaticamente, in cui lo stress assume un
valore patologico che si traduce nel disturbo cutaneo.
Amigdala, sede dei centri emotivi.
Le strette correlazioni psicosomatiche esistenti nel caso di malattie, come l’ipertensione arteriosa e
l’angina pectoris, sono note da tempo, ma, anche alcune malattie ginecologiche, reumatiche,
endocrine, oftalmiche, i mal di testa e le emicranie, sono spesso legate a fattori psichici.
I sintomi sono la manifestazione di stati morbosi legati ad alterazioni funzionali o a lesioni che li
determinano: si distinguono in obiettivi e soggettivi. I primi possono essere avvertiti
immediatamente o mediante l’impiego di procedimenti clinici o di particolari tecniche messe in atto
dal medico; alcuni sono sintomi generali, legati alla reazione generale del soggetto alla malattia:
febbre, polso celere, astenia, ecc.; altri sono i sintomi fisici, raccolti dal medico nel corso dell’esame
obiettivo; infine alcuni sintomi funzionali possono essere obiettivi, come la dispnea, la poliuria, ecc.
I sintomi soggettivi sono percepiti soltanto dal malato: si tratta di indizi funzionali, legati in pratica
al disturbo di funzione dell’organo ammalato: sono soprattutto dolori, disturbi della sensibilità o
disturbi sensoriali come cefalea e ronzio alle orecchie. Si distinguono inoltre sintomi diretti,
provocati dalla lesione o dal disturbo funzionale e sintomi indiretti, che derivano solo
secondariamente dalla lesione o dalla disfunzione: così certe affezioni della pelle possono essere
sintomi indiretti di una malattia epatica. Infine si chiama sintomo patognomonico quello la cui
esistenza è da sola sufficiente per diagnosticare la patologia.
La parte della medicina che si occupa dei sintomi e dei segni delle
malattie e del modo migliore per rilevarli per trarne conclusioni di
ordine diagnostico e prognostico è la semeiotica. Praticata in modo
rudimentale sin dai tempi di Ippocrate, ha avuto un notevole
impulso, a partire dalla fine del XVIII sec., allorché Auenbrugger
ideò la tecnica della percussione, poi divulgata da Corvisart.
Laennec, ideatore dello stetoscopio, rese possibile l’auscultazione
degli organi interni, mentre Babinski, Erb e Westphal scoprirono le
variazioni patologiche dei riflessi nervosi.
Ippocrate
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Il processo psicosomatico nei simboli.
Un simbolo è un oggetto o un segno che suscita l’idea di qualcosa che non è immediatamente
evidente ai nostri sensi, ma può essere anche un segno di riconoscimento, per denotare i legami
d’ospitalità intercorrenti tra gruppi o famiglie, consistente in origine, in un oggetto di varia materia
spezzato in due parti, ciascuna conservata da ognuno dei due ospiti, e in seguito in oggetti
perfettamente uguali, spesso ornati con iscrizioni. Il ricorso a simboli per esprimere idee religiose si
può dire universale. È tuttavia spesso difficile distinguere tra il simbolo religioso e la realtà di fede
cui esso allude: il simbolo, infatti, si può colmare di valori emotivi legati alla realtà cui si riferisce,
rappresentandone quindi aspetti soggettivi. Ciò che, per un osservatore casuale appare come
semplice simbolo può essere invece, per uno sguardo più attento, una vera manifestazione divina:
così le spade e gli specchi usati nel culto scintoistico non sono simboli della divinità, ma
rappresentano vere presenze divine. Alcuni simboli religiosi, come quello della svastica, hanno una
grandissima diffusione e risalgono ad una remota antichità: ciò non significa tuttavia che in ogni
civiltà ed epoca in cui un determinato simbolo appare
esso debba avere lo stesso significato. I simboli,
infatti, possono essere reinterpretati ed assumere così
un significato diverso da quello originario fino ad
avvicinarsi alla metafora ed all’allegoria dalle quali si
distingue sul piano del significato: dall’allegoria
poiché questa ha un carattere più intellettualistico,
mentre il simbolo richiama un che di misterioso, legato
ad un aspetto nascosto della realtà; e dalla metafora in
quanto esso si riferisce ad un evento o un oggetto che
diventa simbolo. La svastica, anche conosciuta con il
nome di croce uncinata, è il simbolo stesso dei quattro
scopi della vita induisti: d’origine molto antica, si
ritrova in molte civiltà e simboleggia la rivoluzione del
sole e le forze cosmiche. I quattro bracci raffigurano le
stagioni della vita che convergono al medesimo centro,
chiamato bindu, che rappresenta l’etere, o quinto
elemento, che a sua volta s’irradia sui quattro bracci
così come sui punti cardinali, e sugli scopi della vita
umana, perciò comprenderne il significato rende
possibile l’unità con l’Universo e quindi Dio.
Il simbolismo s’identifica con la poesia che, come
forma di conoscenza, induce a pensare che la realtà
non si esaurisce in sé stessa, ma nasconde verità
d’ordine spirituale che solo il poeta comprende. Una
divulgazione della poesia simbolista si ebbe con
Baudelaire che la racchiuse in una suggestiva sintesi
nel sonetto Corrispondenze.
Dichiarando: “La natura è simile ad un tempio che l’uomo attraversa come fosse una foresta di
simboli che lo osservano con sguardi familiari”, Baudelaire opponeva al regno della ragione, caro
a realisti e positivisti, quello del puro sentimento. Lasciarsi possedere dalla vita segreta della natura
e dai suoi valori simbolici significa penetrare più a fondo non solo nella realtà oggettiva ma nella
nostra stessa essenza spirituale, per una via non consentita al pensiero raziocinante.
Nel film, Il Codice Da Vinci, interpretato
da Tom Hanks, il protagonista descrive
l’interpretazione dei simboli.
Monaci Shaolin che danno forma
all’originale svastica buddista,
capovolta rispetto a quell’adottata dai
nazisti nel II conflitto mondiale.
21
I templi della Cina e di Taiwan sono contraddistinti da simboli tradizionali: vi si trovano spesso
statue o decorazioni di draghi cinesi, fenici, tartarughe, tigri. Spesso solo il drago e la fenice, o in
alternativa a quest'ultima la tigre, hanno un preciso significato, simboleggiano infatti le due
controparti yin e yang, in cui la fenice è yang e il drago è yin.
Vedi Harry, Fanny è una fenice. E le fenici, quando è arrivato il momento di morire, prendono
fuoco e poi rinascono dalle loro stesse ceneri. Sta’ a vedere...». Harry abbassò gli occhi appena in
tempo per vedere un uccellino grinzoso, appena nato, far capolino fra la cenere. «Peccato che tu
l’abbia vista solo oggi. il Giorno del Falò», proseguì Silente. «Per la maggior parte della sua vita è
un animale veramente bello, con uno splendido piumaggio rosso e oro. Riesce a trasportare carichi
pesantissimi, le sue lacrime hanno poteri curativi. e come animale domestico è fedelissimo».
Così, In Harry Potter e la camera dei segreti, J.K. Rowling dà nuova vita all’antichissimo mito della
fenice, attenendosi, nella sua descrizione, a ciò che scriveva lo storico greco Erodoto nel quinto
secolo avanti Cristo, influenzato a sua volta da fonti egizie. Infinite sono le varianti del mito nel
mondo classico. Per esempio, Filostrato di Lemno (11-111 sec. d.C.), membro della corte
dell’imperatore Severo, nella sua Vita di Apollonio di Tiana sostiene che la fenice vola dall’isola di
Socotra all’India portando con sé i legni profumati che serviranno per la propria pira funeraria, vive
in India per 500 anni, poi muore bruciando su quel legno odoroso, rinascendo infine dalle ceneri,
alle sorgenti del Nilo (che per gli antichi si trovavano appunto in India).
Il mito della fenice è presente anche nell’ebraismo: una leggenda talmudica la indica come l’unico
uccello che non acconsentì a mangiare il frutto proibito offerto da Eva nel Paradiso, e per questo
premiato con l’immortalità. Simbolo di vita eterna e di resurrezione, è naturale che la fenice
affascini i primi cristiani (ne parla anche Sant’Ambrogio) che ne fanno un’allegoria di Cristo.
Scrive, infatti, l’ignoto autore del Fisiologo (bestiario d’immensa fama, composto nei primi secoli
del cristianesimo): «La fenice è un’immagine del Salvatore nostro: Egli è sceso, infatti, dai cieli, ha
steso le sue due ali e le ha portate cariche di soave odore, cioè delle virtuose parole celesti,
affinché anche noi spieghiamo le mani in preghiera».
Anche in Cina la fenice fa la sua comparsa, con il nome di Feng huang, ma qui è simbolo di
giustizia: un commentario degli Annali di Primavera e Autunno (IV sec. d.C.) spiega che la
presenza della fenice, come quella dell’unicorno, testimonia che il Paese è retto da un sovrano
giusto, che governa in accordo con le leggi del Cielo; raffigurata insieme al drago, simbolo
dell’imperatore, rappresenta l’imperatrice. Mentre più tardi gli alchimisti taoisti useranno la fenice
rossa come simbolo dell’elemento femminile nell’atto sessuale.
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Un altro simbolo comune è la
perla fiammeggiante, che
accompagna i draghi e le
divinità ed il Tomoe, Triscele
in Occidente, diffusosi con lo
Shintoismo giapponese.
Il Triscele, in araldica
Triquetra e a volte per errore
Trinacria, deriva dal greco
triskelion, ed è l’immagine di
un essere con tre gambe, più
generalmente tre spirali intrecciate, o per estensione qualsiasi
altro simbolo con tre protuberanze ed una triplice simmetria
rotazionale. La figura assegna il nome anche al simbolo.
Poiché la disposizione delle tre gambe, fa pensare ad una
rotazione, gli studiosi sono risaliti fino alla simbologia religiosa
orientale, in particolare quella del dio del tempo Baal oppure a
quella della dea Luna, dove le tre gambe sono sostituite da falci.
In Asia Minore tra il VI ed il IV secolo a.C. il triscele fu inciso
nelle monete di varie città, inoltre, il simbolo fu utilizzato anche
a Creta, in Macedonia, in Spagna, dal popolo dei Celti ed anche
dai teutoni.
La somiglianza del triscele siciliano con quello dell’Isola di Man
induce a pensare ad un’origine indoeuropea del simbolo o ad una
relazione con la colonizzazione dell'Isola di Man da parte di
popolazioni vichinghe ed alla conquista della Sicilia da parte dei
Normanni.
Per la psicoanalisi, il simbolismo, corrispondente ad una forma di pensiero prelogico, è
caratteristico dell’inconscio e del linguaggio onirico nei quali svolge un’azione di critica, lasciando
pervenire alla coscienza il simbolo invece dell’oggetto o della situazione simboleggiati: non
mostrando, almeno immediatamente, il vero significato dei simboli, il simbolismo ha perciò un
significato protettivo.
Triscele usato come simbolo
cristiano della Trinità.
La bandiera della Sicilia con
il Triscele siciliano.
Blasone dell'Isola di Man:
Quocumque Jeceris Stabit,
come lo getti, resta in piedi.
Tomoe mon sulla copertina
del Libro dei 5 anelli, Gorin
no sho, di Miyamoto Musashi
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L’espressione più alta del simbolo è indubbiamente la Sacra
Sindone, il lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino, sul
qual è visibile l’immagine di un uomo che porta i segni di torture e
maltrattamenti e di una crocifissione. La tradizione identifica
l’uomo con Gesù ed il lenzuolo con quello che fu usato per
avvolgerne il corpo, quando egli, privo di vita, fu deposto nel
sepolcro. La sua autenticità è oggetto di fortissime controversie.
Verso la metà del XIV secolo la Sindone comparve nelle mani del
cavaliere Goffredo di Charny e di sua moglie Giovanna di Vergy.
Non è noto come ne vennero in possesso, in ogni modo il 20
giugno 1353 Goffredo donò la Sindone ai canonici di Lirey. Nel
1415 Margherita di Charny, discendente di Goffredo, si
riappropriò del lenzuolo e, nel 1453, lo vendette ai Duchi di Savoia
i quali la conservarono a Chambery, dove nel 1532 sfuggì ad un
incendio che la danneggiò in diversi punti. Le bruciature più
grandi, disposte simmetricamente ai lati dell’immagine in quanto il
lenzuolo era ripiegato più volte su sé stesso, hanno creato dei veri e
propri buchi di forma approssimativamente triangolare: fino al
2002 essi erano coperti da rappezzi che poi sono stati rimossi ed è
stato sostituito anche il telo di supporto originale, applicato nel
1534, con un altro più recente. Nel 1578 fu portata a Torino, dove
nel frattempo i Savoia avevano trasferito la loro capitale, e da allora
vi rimase ininterrottamente fino al giorno d'oggi, salvo brevi
intervalli. Nel 1898 fu fotografata per la prima volta ed in
quell’occasione si scoprì che l’immagine impressa sul lenzuolo
presentava le caratteristiche di un negativo fotografico. Nel 1983
Umberto II di Savoia, ultimo re d’Italia, morendo la lasciò in
eredità al Papa che ne delegò la custodia all’Arcivescovo di Torino.
L’autenticità della Sindone, vale a dire se essa è o no il vero
lenzuolo funebre di Gesù, è stata a lungo dibattuta. Alla fine del
secolo XIX, la prima fotografia della Sindone ha rivelato i
particolari caratteristici dell’immagine ed ha suscitato l’interesse
degli studiosi, ma i numerosi esami eseguiti da allora non sono
serviti a chiarire in modo definitivo la questione, ma solo ad
accendere di più il dibattito nel quale si scontrano coloro convinti
che la Sindone sia reliquia e coloro altrettanto convinti che invece
sia icona, in pratica una raffigurazione artistica. È ancora attuale il
commento che Yves Delage fece nel 1902:
“Si è introdotta, senza necessità, una questione religiosa in un problema che in sé, è puramente
scientifico, con il risultato che le passioni si sono scaldate e la ragione è stata fuorviata”.
Recentemente lo storico Daniel Scavone ha ipotizzato che il Graal, il misterioso oggetto
protagonista delle più celebri leggende medievali, non fosse altro che la Sindone. Scavone ipotizza
che la leggenda del Graal sia stata ispirata dalle frammentarie notizie giunte in Occidente di un
oggetto legato alla sepoltura di Gesù e che ne conteneva il sangue, e si pensò quindi che si trattasse
di una coppa o di un piatto, le forme in cui il Graal è solitamente rappresentato.
Superando i confini tra vero e falso è possibile definire la Sindone da un punto di vista simbolistico
come la raffigurazione della forma del Corpo di Gesù, originata dalla somatizzazione del suo
Spirito.
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Cos’è la forma.
La forma dal punto di vista filosofico.
Nella tradizione aristotelica la forma è, in unione con la materia, la condizione costitutiva d’ogni
individuo od oggetto reale. Per Aristotele materia e forma sono inscindibili e la seconda rappresenta
l’atto, la realizzazione della materia, intesa come potenza o possibilità. Nella concezione aristotelica
si parla anche di forme separate e sussistenti, intendendo con tali espressioni le forme che
esisterebbero senza unione con la materia, come le idee della mente e le creature angeliche.
La discussione intorno al concetto aristotelico di forma è continuata in concreto fino agli inizi della
filosofia moderna. Per Kant c'è la materia, o contenuto delle nostre rappresentazioni, e c'è la forma,
in altre parole l’elemento universale che unifica e coordina la varietà dei contenuti rappresentativi.
La forma dal punto di vista psicologico.
Nella cultura contemporanea ha un notevole rilievo la psicologia della forma, dal tedesco
Gestaltpsychologie, vale a dire quell’orientamento della scienza psicologica che insiste
particolarmente sull’interdipendenza degli elementi di un determinato stato psichico, e nega la validità d’ogni indagine che concepisce la psiche secondo gli schemi dell’associazionismo e
dell’atomismo. Fondatori della psicologia della Gestalt sono generalmente considerati Kurt Koffka,
Wolfgang Köhler e Max Wertheimer i quali sono stati certamente i fondatori ed i principali
promotori di questa corrente di ricerca in Psicologia. I loro studi si focalizzarono soprattutto sugli
aspetti percettivi e del ragionamento applicato alla risoluzione dei problemi: la forma, o gestalt,
indica l’interdipendenza reciprocamente condizionatrice delle varie parti.
Più semplicemente non è giusto dividere l’esperienza umana nelle sue parti costitutive elementari,
ma occorre invece considerare la globalità del fenomeno come l’intero sovraordinato rispetto alla
somma delle sue parti: l’insieme è più della somma delle parti, posizione del molarismo
epistemologico. Quello che noi siamo e sentiamo, il nostro stesso comportamento, sono il risultato
di una complessa organizzazione che guida anche i nostri processi di pensiero. La stessa percezione
non è preceduta dalla sensazione, ma è un processo immediato, influenzato dalle passate esperienze
solo in quanto queste sono lo sfondo dell’esperienza attuale, che deriva a sua volta dalla gestalt,
come combinazione dei diversi elementi di un’esperienza reale attuale.
“Siamo della stessa materia
Di cui sono fatti i sogni
E la nostra breve vita
È circondata da un sonno.”
William Shakespeare
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Per comprendere il mondo circostante si tende quindi a identificarvi forme, in base a schemi che
sembrano opportuni, scelti per imitazione, apprendimento e condivisione, e attraverso simili
processi si organizzano sia la percezione che il pensiero e la sensazione; ciò avviene di solito del
tutto inconsapevolmente. Con riferimento alle percezioni visive, le regole principali
d’organizzazione dei dati percepiti sono:
1. Semplicità: la struttura percepita è sempre la più semplice.
2. Prossimità: gli elementi sono raggruppati in funzione delle distanze.
3. Somiglianza: tendenza a raggruppare gli elementi simili.
4. Continuità: gli elementi sono percepiti come appartenenti ad insiemi coerenti e continui.
5. Sincronia: gli elementi in movimento, sono raggruppati per moti coerenti.
Queste regole sono utili per spiegare diverse illusioni ottiche.
Ponendosi precisamente di fronte all’immagine successiva a circa 40 cm. dal volto, se chiudiamo
l’occhio sinistro e fissiamo il segno + con l’occhio destro, allontanando o avvicinando la figura, ad
un certo punto la pallina da golf scompare.
La pallina scompare, quando passa attraverso il cosiddetto punto cieco, la zona della retina priva dl
ricettori sensibili alla luce: poiché in quel punto non si può formare un’immagine, l’oggetto non può
essere visto. Il punto cieco è la zona da cui i vasi sanguigni ed il nervo ottico lasciano il globo
oculare e dove perciò la parte fotosensibile della retina è anatomicamente interrotta: se il cervello
non riempisse il vuoto d’immagine che avviene al livello del punto cieco con ciò che ritiene più
probabile che vi sia, la presenza di quest’interruzione creerebbe, all’interno del campo visivo, delle
macchie nere inesistenti che disturberebbero la visione degli oggetti. Gli studiosi ritengono che
questo meccanismo compensatorio non sia dl tipo cognitivo, in altre parole fondato sul
riconoscimento di un oggetto noto, ma che sia opera delle cellule nervose della retina, per fare in
modo che l’immagine arrivi alle fasi seguenti della visione già libera dalle fastidiose macchie nere.
In questo caso, l’illusione ottica della deformazione delle figure geometriche evidenziate, peraltro
identiche e sovrapponibili nelle due immagini, dipende dallo sfondo nel quale sono collocate.
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La forma dal punto di vista letterario e religioso.
In letteratura parlare in forma significa esprimersi rispettando
rigorosamente le regole dell’inferenza, e collocando al posto dovuto le
premesse e le conclusioni; nella logica moderna la parola forma indica
l’insieme delle relazioni che costituiscono l’oggetto specifico della
logica, in quanto scienza di forme, e non di contenuti. Nel
neoidealismo italiano, Croce parla di forme dello spirito, intendendo la
parola forma nel senso di vario modo di manifestare l’unica realtà che
è lo Spirito; nell’ambito della terminologia strettamente logica la
forma indica la struttura invariante del discorso in rapporto alla varietà
dei riferimenti possibili.
Benedetto Croce
Dai seguaci del metodo della storia delle forme il Vangelo non è
considerato come opera di scrittori particolari, ma il risultato di una
lenta e anonima elaborazione nel seno delle comunità cristiane ove i
racconti dei miracoli di Gesù e gli apoftegmi, inizialmente ripetuti,
adattati e completati da predicatori o missionari anonimi, acquisirono
una propria forma preletteraria caratteristica prima di essere raccolti
da alcuni redattori, in pratica gli evangelisti. Lo studio di queste forme,
che include anche lo studio dell’ambiente ove si svilupparono e
trasmisero, conduce alla conoscenza del substrato del Vangelo. La
storia delle forme, affermatasi dal 1919 in poi, per opera di M. Dibelius
e di R. Bultmann, ha tra l’altro il merito di avere richiamato
all’attenzione, per la comprensione del Vangelo, l’importanza della
primitiva catechesi orale, delle varie forme di letteratura popolare e
dell’ambiente in cui si svilupparono.
Tavole del Vangelo
Discobolo
Nel campo dell’estetica è nota l’antichissima
distinzione di forma e contenuto nell’opera
d’arte. La forma indica in questo caso
l’insieme delle scelte stilistiche attraverso cui
si è realizzata la rappresentazione estetica. La
dimostrazione dell’astrattezza di tale
distinzione è uno dei più celebri motivi
dell’estetica crociana.
Danzatrice
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La forma nella geometria, nei numeri e nella fisica classica.
Il pilastro principale della Numerologia e della
Matematica è il valore qualitativo e quantitativo del
simbolo: il numero. Ogni numero si associa ad un’idea
archetipo che trova correlazione nel mondo reale, di
conseguenza attraverso questi valori e le loro
combinazioni, è possibile osservare il vero plasmandolo
a piacere in diverse immagini che, anche se in nessun
caso sostituiscono la realtà, offrono la possibilità di
contemplarla da diverse prospettive per poter trarre
conclusioni. Il concetto di numero naturale è talmente
astratto che la mente umana lo ha fatto proprio dopo una
lunga evoluzione, ed è tuttora difficile trovare le parole
per spiegare cos’è un numero, senza ricorrere a
complesse definizioni. Sembra che i numeri abbiano
trovato un loro posto tra le scienze umane, nel VI secolo
a.C. con la scuola pitagorica, tuttavia non rimane alcun
frammento scritto delle opere di Pitagora. Molte
testimonianze di pochi anni successive, lo descrivono
però come il creatore della matematica pura.
Non esistono numeri migliori di altri, tutti sono necessari, pur tuttavia alcuni sembrano assumere
significati speciali. Per Pitagora l’uno, inteso come punto, era il generatore di tutto e tutte le cose
erano fatte di numeri punti, quasi come i nostri atomi, e la loro essenza era spiegabile in termini di
numeri interi o dei loro rapporti. Ogni numero aveva poi una qualità particolare; come per esempio,
il numero dieci, che era sacro, poiché realizza la tetractys che raffigura l’universo dato che 1 + 2 + 3
+ 4 = 10, dove 1 rappresenta il punto generatore delle dimensioni, 2 la retta, 3 il piano e 4 lo spazio.
Nell’antichità i numeri erano rappresentati mediante punti segnati
sulla sabbia o sassolini che, disposti in modi diversi, davano origine
a varie figure geometriche: c’erano i numeri triangolari, i numeri
quadrati, i numeri pentagonali, e così via. Dalla loro disposizione
geometrica erano evidenti alcune importanti proprietà, oggi entrate a
far parte della teoria dei numeri. La geometria e l’aritmetica
venivano così a fondersi e, per avere l’idea di segmento, bastava
mettere in fila tanti sassolini attaccati l’uno all’altro, tutti
rigorosamente uguali.
È possibile immaginare che i discepoli della scuola pitagorica, che numerosi seguivano il Maestro
Pitagora tra Crotone e Metaponto per ascoltare i suoi meravigliosi insegnamenti sull’armonia dei
rapporti musicali, sull’astronomia, sulla filosofia e anche sui comportamenti nella vita pratica,
guardarono con curiosità un triangolo avente per lati 3, 4 e 5 sassolini, oppure 5, 12, 13 ed anche 7, 24, 25 sassolini, che formavano triangoli rettangoli perfetti.
Era così possibile verificare che 32 + 42 = 52 e 52 + 122 = 132 e 72 + 242 = 252.
Costruendo però un angolo retto con 3 e 5 sassolini come lati, per la diagonale 5 sassolini erano
troppo pochi e 6 erano troppi: costruendo un quadrato avente per lato un numero qualsiasi di
sassolini, nella diagonale non n’entrava mai un numero intero.
Pitagora in un particolare del dipinto
La scuola di Atene, di Raffaello.
Per i pitagorici, il 10 è un
numero triangolare.
28
Per esempio, se il lato era di 10 sassolini, nella diagonale ne stavano 14 e
rimaneva un po’ di spazio vuoto, ma un altro sassolino intero non vi trovava
posto: questo valeva per tutti i quadrati, qualunque fossero le dimensioni ed
il numero dei sassolini. Per esserne certo Pitagora inventò un ragionamento,
chiamato dimostrazione per assurdo, che ancor oggi è riportato nei testi,
basato sulla differenza tra numeri pari e dispari. La scoperta dell’esistenza di
triangoli rettangoli con i lati e la diagonale incommensurabili tra loro, cioè
non rappresentabili come somma di un numero finito di sassolini della stessa
dimensione, fu per i pitagorici veramente drammatica. Ne troviamo
testimonianza in autori successivi, come Platone, che la ricorda in uno dei
suoi Dialoghi, Menone, che ha come protagonisti Socrate, Menone e Anito.
“Eppure la diagonale esiste”, dice Socrate, “ed è il lato del quadrato d’area
doppia. È dunque possibile che una grandezza esista, ma non esista la sua
misura?”
Si racconta che i pitagorici tennero segreta questa drammatica domanda perché contraddiceva il
loro sistema filosofico secondo il quale a tutto ciò che esiste si può attribuire un numero: Ipparco, il
discepolo che osò divulgarla, trovò la morte in mare per mano degli Dei. In seguito filosofi e
matematici furono perciò costretti a confrontarsi sull’infinitamente piccolo e
a riformulare un’idea più evoluta di punto: il segmento e tutte le altre figure
geometriche viste non come tante unità messe una accanto all’altra, i
sassolini di Pitagora, ma come facenti parte di un continuo. Il punto è privo
di dimensione e tra due punti vicini n’esiste sempre un altro. Della diagonale
del quadrato si possono calcolare solo i valori per difetto o per eccesso che
sono tanto più vicini alla misura vera quante più cifre decimali hanno. Solo
verso fine del secolo XIX, per opera di grandi matematici come Dedekind,
Cantor e Weierstrass, i numeri appartenenti all’insieme dei reali irrazionali,
come il noto √2 che è il valore della diagonale del quadrato con lato uguale a
1, ebbero la definitiva sistemazione teorica.
Esistono tuttavia reperti archeologici ancora più vetusti che evidenziano
come gli antichi popoli già studiavano i numeri ed i loro rapporti: la tavoletta
della Plimpton Collection, conservata presso la Columbia University,
testimonianza della civiltà babilonese risalente al periodo compreso tra il
1900 ed il 1600 a.C. riporta tre colonne di numeri che possono essere
interpretati come lati di triangoli rettangoli e relativi rapporti tra essi.
La visione del mondo delle forme, attraverso le leggi della fisica classica, consiste nel determinare
tre aspetti fondamentali:
1. Elenco degli oggetti, delle particelle o dei campi presenti nel mondo con la loro ubicazione. Nel
caso dei campi, che si estendono in tutto lo spazio, bisogna conoscerne il valore in ogni punto,
ad esempio, per i campi elettrici e magnetici, occorre sapere la direzione e l’intensità delle forze
del campo;
2. Descrizione del cambiamento di ciascun oggetto. Nel caso delle particelle si tratta di conoscerne
la velocità, che è la misura di come cambia la posizione di una particella;
3. Formulazione di una teoria sull’interazione delle forze tra particelle e campi, occorre in altre
parole sapere come le particelle creano campi e come interagiscono tra loro.
Sokrátes
Georg Cantor
29
I primi due punti specificano completamente lo stato dell’Universo ad un istante fissato; il terzo ci
permette, in linea di principio, di estendere questa descrizione ad un altro momento, futuro o
passato. In altre parole, se conosciamo lo stato dell’Universo ad un certo istante, possiamo predire
perfettamente il futuro e ricostruire con esattezza il passato.
La forma in natura.
Per capire la natura occorre osservarne le forme in trasformazione e seguirne i cicli evolutivi poiché
tutto si evolve in tempi più o meno brevi per i minerali o le crisalidi, con la rapidità dell’attimo per
le scariche elettriche. La forma animale, fondata sulle funzioni vitali, cresce uniformemente in tutte
le direzioni: altezza, lunghezza e larghezza, come gli alberi che crescono ad anelli concentrici e con
progressione elicoidale. La strutturazione delle superfici, attuata con leggi e principi d’economia
rigorosa, è una degli aspetti essenziali della forma la qual è sempre raggruppamento di cellule di
materia, in un insieme d’unità indivisibili che raggiunge il livello di nuovo organismo. Tutti i
sistemi strutturali fisici e chimici tendono verso una posizione d’equilibrio stabile: la forma è quindi
determinata dall’equilibrio delle forze interne ed esterne, analogamente a quanto avviene in una
goccia d’acqua in cui la tensione superficiale e le forze esterne ne determinano la sfericità.
Il mondo vegetale testimonia la presenza di ritmi
armonici di mutazione ed utilizza questi per la sua
sopravvivenza: così il frutto dell’acero platano per poter
giungere più lontano trasportato dal vento, svolge la sua
caduta con moto elicoidale. Nel seme autovolante, il
rapporto tra l’ala. il passo ed il diametro medio della
spirale di caduta sono regolati dalla sezione aurea.
Il movimento di un’entità nello spazio segue leggi precise
ed origina forme geometriche che si possono rilevare
come il moto del pendolo o lo spostamento degli arti
degli animali: esiste quindi una distribuzione ritmica delle
cose esaminata dalla cronobiologia e dalla
cronofisiologia che studiano le variazioni ritmiche che
interessano tutti gli esseri viventi ed anche gli elementi di
cui sono composti gli organismi, atomi e cristalli, cioè
forme che si muovono e mutano ritmicamente.
Generalmente il ritmo espresso da questa mutazione è la
spirale e la regola di questa progressione è ciò che fa del
punto, elemento primo del moto, una linea, della linea
una superficie, della superficie un volume: la forma
dell’avvolgimento di questa conchiglia, per esempio, è
una spirale che segue lo sviluppo di un triangolo con
rapporto armonico aureo.
L’osservazione della natura riveste quindi un’importanza
fondamentale: il regno animale, infatti, è forse la fonte più ricca d’informazioni. Ha generato
numerosi miti e perciò è celebrato da poeti antichi e moderni tra cui Esopo, La Fontaine, Schiller.
Epitonium scalare
30
La Gru, uccello dal collo e zampe lunghi,
è messaggera degli dei nelle mitologie
cinese, giapponese e greca. Nel
cristianesimo medievale era simbolo di
vigilanza, lealtà ed opere pie. Secondo la
leggenda, il poeta Ibico, aggredito dai
ladroni nei pressi di Corinto, gridò
morendo ad uno stormo di gru di
passaggio: Vendicatemi voi! le ricerche
degli uccisori riuscirono vane, ma
qualche tempo dopo, uno spettatore a
teatro vedendo passare un volo di gru
disse al vicino con ironia: “Vedi le
vendicatrici di Ibico!”. La frase incauta,
udita e riferita, fornì l’indizio per la
scoperta e la punizione dei colpevoli.
La Tigre, gran felino dalla pelliccia fulva
con sottili strisce nere è, nella mitologia
cinese, re delle fiere. Nel buddismo
cinese, simboleggia una delle Tre
Creature Folli, la rabbia, insieme alla
scimmia, l’avidità, e il cervo, l’amore non
corrisposto. Nella mitologia indù, la tigre
forma la montagna della dea Durga,
distruttrice, e di Shiva, che indossa una
pelle di tigre. Nel poema Gerontion, di T.
S. Eliot, Cristo è raffigurato come una
tigre, poiché ricorda il terrore, la forza e il
timore reverenziale che la fiera evoca
negli esseri umani, così come nella poesia
The Tyger, di William Blake.
L’Orso, mammifero imponente dalla fitta
pelliccia, è, nella mitologia e nel folclore
europeo simbolo del bene e del male. Gli
Indiani d’America ne hanno timore e
rispetto: se qualcuno ne uccideva uno per
sbaglio, gli chiedeva perdono e accendeva
la pipa della pace per chetarne lo spirito.
Questo atteggiamento reverenziale traeva
origine dalla convinzione che l’orso
possedesse poteri curativi perciò gli
sciamani lo imitavano per impossessarsene; in molte tribù si credeva che gli sciamani potessero
trasformarsi in orsi e che quando morivano andassero nel paradiso degli orsi. Nella mitologia greca
l’orso era sacro alla dea Artemide. Presso il suo tempio, in Arcadia, le bambine tra i cinque e i dieci
anni, chiamate orsi marroni danzavano in onore della dea. Nell’Antico Testamento, l’orso è
simbolo del male e rappresenta il regno di Persia; Daniele (7.5). Nel Medioevo i cristiani credevano
che l’orso fosse nato da un cumulo di carne informe, poco più grande di un topo, senza occhi né
pelliccia, e che la madre lo avesse leccato fino a plasmarne la forma in un cucciolo d’orso: questa
superstizione fu utilizzata dalla Chiesa come metafora per convertire i pagani al Cristianesimo.
31
Cos’è il karate do.
L’antropologia è la scienza che studia l’uomo inteso come fenomeno biologico, considerandone
tuttavia anche gli aspetti evolutivi, razziali, comportamentali e socioculturali. Le arti marziali, in
quanto discipline psicofisiche, sono particolarmente adatte per comprendere l’evoluzione
antropologica nel corso del tempo, ma per far ciò bisogna risalire ad
epoche remote, quando la divisione fondamentale tra il combattimento
reale e quello rituale, si svolgeva all’interno delle tribù primitive: i
Greci, per esempio, consideravano i giochi olimpici una festa religiosa
ed in quel periodo sospendevano tutte le guerre in corso.
I giochi crudeli e sanguinosi dei gladiatori, probabilmente d’origine
etrusca e dapprima veri e propri sacrifici umani offerti agli dei Mani,
godettero a Roma di grande popolarità. I gladiatori, il cui mestiere era
considerato infamante, erano reclutati fra prigionieri di guerra,
condannati per reati comuni, schiavi o liberti e anche fra volontari; il
loro addestramento si svolgeva in apposite scuole, le ludi gladiatori,
sotto la guida del maestro, il lanista, e la loro prestazione era stabilita per un periodo di tempo
determinato, allo scadere del quale si concedeva, a chi avesse dato buona prova, una specie di
congedo con il dono di un bastone di onore chiamato rudis e, se di condizione servile, con
l’affrancazione dalla schiavitù.
L'armamento variava secondo le specialità dei gladiatori, che si dividevano in quattro categorie
principali: i Sanniti comprendenti secutores, inseguitori del reziario, e hoplomachi, dall’armatura
pesante e dallo scudo lungo, i reziari, forniti di tridente e di una rete per intrappolare l’avversario, di
un cinturone serrato in vita e di bracciali, i Galli o mirmilloni, armati di spada, piccolo scudo ed
elmo sormontato da una figura di pesce, i Traci, con pugnale ricurvo, scudo rotondo, schinieri e
bracciali. Altri ancora, chiamati equites, affrontavano la lotta a cavallo o su una specie di carro da
guerra l’essedari. I gladiatori combattevano talora contro animali feroci ed i combattimenti erano
preceduti da un carosello, nel corso del quale i gladiatori salutavano l'imperatore con la frase:
Ave Caesar, morituri te salutant, Ave o Cesare, coloro che si apprestano a morire ti salutano.
Al termine della lotta il vinto alzava il braccio sinistro per chiedere grazia, mentre il vincitore
interrogava la folla che, mediante segni convenzionali, pollice alzato o abbassato, poteva accordarla
o rifiutarla ed al vincitore spettavano i premi. I ludi gladiatori comparvero per la prima volta in
Roma nel 264 a.C. durante i giochi funebri in onore di D. Bruto Pera; ammessi dal 105 a.C. fra gli
spettacoli ufficiali, diedero origine a vere gare di prodigalità fra i magistrati che li organizzavano.
Venuti in voga in tutto il territorio dell'Impero, riscossero gran favore anche tra le classi più elevate
che, anziché protestare dinanzi alla loro barbarie, trassero vanto dalle forti spese sostenute per
organizzarli. Lo stesso Cicerone, pur non approvandoli, attribuì loro un valore educativo per la
sopportazione del dolore, mentre Seneca li disapprovò ed il cristianesimo vi si oppose fermamente
ritenendoli spettacoli sanguinari e disumani. Proibiti da Costantino nella parte orientale dell’Impero
nel 325, i ludi gladiatori furono definitivamente soppressi da Onorio nel 404.
Le antiche arti marziali sono nate sul campo di battaglia: esse non sono sport, fuorché non le si
pratichi come tali. Si tratta, piuttosto di combattere senza limitazioni di sorta, con lo scopo di
neutralizzare un attacco il più rapidamente possibile.
L’arte marziale è perciò cultura di civiltà, poiché si occupa dell’aspetto comportamentale della
persona, nei rapporti con la società nella vita di tutti i giorni.
Pugile greco
32
Il maestro Seikichi Toguchi, allievo di Seiko Higa e Chojun Miyagi, nella creazione del sistema
Shorei Kan, ha strettamente seguito un principio fondamentale: la conservazione della vera
tradizione del Budo di Okinawa, cioè la Via dell’Arte marziale di Okinawa.
“Nel mio metodo le tecniche devono essere quelle del Goju Ryu
tradizionale, mentre lo spirito deve essere pervaso di religiosità,
in quanto il sistema insegna Hito No Michi, la via dell’umanità.
Hito no Michi è la via che gli esseri umani seguono se praticano
On, la Virtù, nei confronti di chiunque li circondi: se riusciamo
ad assimilare questo concetto attraverso la dura pratica del
Karate Shorei Kan, sino a che diventi parte integrante della
nostra natura, impareremo ad apprezzare le cose di tutti i giorni e
a vivere pacificamente”.
In Giappone, chiunque pratica un’arte marziale senza dare
importanza a Rei, non è considerato parte del Budo e, ad
Okinawa, prescindendo dal Karate, Rei è considerata la più
importante virtù da perseguire. L'imperatore cinese nel sedicesimo
secolo colpito da tanta gentilezza, inviò al Re delle Ryukyu una
targa con la seguente iscrizione Surei No Kuni ossia il paese della buon’educazione. Il Maestro
Seikichi Toguchi ha chiamato la sua scuola Shorei Kan, in pratica la scuola
del rispetto e delle buone maniere: con tale nome egli ha voluto evidenziare
l’essenza del Karate di Okinawa.
Il do contenuto nella parola Budo indica la via da percorrere per raggiungere
l’illuminazione, intesa come compimento di sé stessi. Il Budo supera quindi
l’aspetto tecnico dell’arte del combattimento, poiché è in stretta relazione con
i suoi aspetti mentali e spirituali. Il Maestro Chojun Miyagi, fondatore del
Goju Ryu, infatti, afferma:
“Il fine ultimo del Karate è il raggiungimento dell’illuminazione spirituale”.
Il Karate Do è una Via da percorrere,
al fine di arricchire
lo spirito,
l’emozione,
il processo psicosomatico,
la forma,
il karate stesso.
Il maestro Seikichi Toguchi
e la Signora Toguchi.
33
CAPITOLO PRIMO
Lo spirito nel Karate Do
I venti insegnamenti della Via del Karate.
Gichin Funakoshi, nell’immagine, scrisse la sua opera più
importante intitolata Karate Do Kyohan, Testo d’insegnamento del
Karate Do, nel 1935. Molte università di Tokyo appoggiarono il suo
metodo d’insegnamento. Il primo dojo di karate fu costruito nel
1938 dai suoi allievi, che si tassarono per molti anni a questo scopo e
si sostennero alla rete degli ex allievi delle università. Gichin
Funakoshi lo chiamò Dojo Shotokan.
La traduzione letterale del termine shoto è onde di pino, e kan può
voler dire tempo, spazio. Il maestro Funakoshi spiegò il motivo della
scelta nel suo libro Karate do, il mio stile di vita:
“La città fortificata di Shuri, dove sono nato, è
circondata da colline, ricoperte da foreste di
pini delle Ryu Kyu e vegetazione subtropicale,
tra cui il monte Torao. La parola torao
significa coda di tigre, termine appropriato,
poiché la montagna era così stretta e boscosa
che, vista da lontano, sembrava proprio la
coda di una tigre. Solevo passeggiare sul
monte Torao, quando avevo tempo, e se
accadeva che ci fosse anche un po’ di vento, si
poteva udire il fruscio dei pini e sentire il
profondo impenetrabile mistero che si trova
all'origine di tutta la vita. Bearsi con la
solitudine ascoltando il vento fischiare tra i pini mi sembrava un'eccellente maniera per
raggiungere la pace della mente che il Karate esigeva. Queste sensazioni hanno sempre fatto parte
di me fin dall'infanzia, e ho deciso così che Shoto era il miglior nome con il quale firmare le mie
poesie”.
La Grande Sala del Castello di Shuri, così come appariva
all’inizio XX sec.
34
Compose I 20 Precetti del Karate Do durante la guerra, iniziata nel 1937, tra Cina e Giappone:
1. Il Karate comincia e finisce con il saluto.
一、空手は礼に初まり礼に終ることを忘るな 。
2. Il Karate è mai attaccare per primi.
二、空手に先手無し。
3. Il Karate è rettitudine, riconoscenza, perseguire la via della giustizia.
三、空手は義の補け。
4. Il Karate è prima di tutto capire sé stessi e poi gli altri.
四、先づ自己を知れ而して他を知れ。
5. Nel Karate lo spirito viene prima; la tecnica è il fine ultimo.
五、技術より心術。
6. Il Karate è lealtà e spontaneità; sii sempre pronto a liberare la tua mente.
六、心は放たん事を要す。
7. Il Karate insegna che le avversità ci colpiscono quando si rinuncia.
七、禍は懈怠に生ず。
8. Il Karate non si vive solo nel dojo.
八、道場のみの空手と思うな。
9. Il Karate è per la vita.
九、空手の修行は一生である。
10. Lo spirito del Karate deve ispirare tutte le nostre azioni.
十、凡ゆるものを空手化せ其処に妙味あり。
11. Il Karate va tenuto vivo col fuoco dell’anima; è come l’acqua calda, necessita di calore costante
o tornerà acqua fredda.
十一、空手は湯の如く絶えず熱を与えざれば元の水に返る。
12. Il Karate non è vincere, ma è l’idea di non perdere
十二、勝つ考えは持つな、負けぬ考えは必要。
13. La vittoria giace nella tua abilità di saper distinguere i punti vulnerabili da quelli invulnerabili.
十三、敵に因って転化せよ。
14. Concentrazione e rilassamento devono trovare posto al momento giusto; muoviti e asseconda il
tuo avversario.
十四、戦は虚実の操縦如何にあり。
15. Mani e piedi come spade.
十五、人の手足を劔と思え。
16. Pensare che tutto il mondo può esserti avversario.
十六、男子門を出づれば百万の敵あり。
17. La guardia ai principianti, la posizione naturale agli esperti.
十七、構えは初心者に、あとは自然体。
18. Il kata è perfezione dello stile, la sua applicazione è altra cosa.
十八、型は正しく、実戦は別もの。
19. Come l’arco, il praticante deve usare contrazione, espansione, velocità ed analogamente in
armonia, rilassamento, concentrazione, lentezza.
十九、力の強弱、体の伸縮、技の緩急を忘るな。
20. Fai tendere lo spirito al livello più alto.
二十、常に思念工夫せよ。
35
La Mano Vuota.
Funakoshi scrisse nel 1922 un libro intitolato Ryukyu Kenpo Karate, Il karate,
pugilato di Ryukyu, e nel 1924 un altro intitolato Rentan Goshin Karate Jutsu,
Tecnica del karate, rafforzamento energetico e autodifesa. In queste due opere egli
scrisse il termine karate con gli ideogrammi che significavano mano della Cina ma,
intorno al 1930, sostituì il termine kara con l’ideogramma che esprimeva il senso di
vuoto: tutte le discipline del budo pervengono allo stato di un uomo con le mani vuote: lo stato di un
uomo con le mani vuote è il principio di tutto il budo. Inoltre, con l’avvento del nazionalismo,
l’ideogramma Cina apparve come un elemento di disturbo per l’integrazione del karate nella
tradizione del budo giapponese, ed anche per la sua diffusione, tanto più considerando che questa
tradizione era molto vicina al militarismo giapponese, in via di rafforzamento nel corso degli anni
‘30. È in questa situazione sociale che G. Funakoshi scelse, per scrivere il suono kara di karate, di
sostituire l’ideogramma Cina con quello che aveva il significato di vuoto. Egli spiega questa scelta
enunciando un aforisma dell’insegnamento buddista zen:
Shiki soku ze ku
Ku soku ze shiki
Tutti gli aspetti della realtà visibile equivalgono al vuoto, il nulla.
Il vuoto è l’origine di tutta la realtà.
La parola karate significa perciò mano vuota: essa contiene un’indicazione tecnica e un’idea
filosofica, poiché questo vuoto va inteso nel significato buddista del termine.
Kara significa aperto, spazio prodotto da un certo lavoro, spazio vuoto, immagine del vuoto. Te è la
rappresentazione di una mano vista di mezzo profilo, ma è anche il fonema di attività, di tecnica e di
arte. La parola giapponese kara-te, nel complesso, si compone di vuoto e mano, non il vuoto in sé,
ma in relazione ad un lavoro, ad un'attività, cioè mettersi all’opera per fare il vuoto. Il termine zen
ku, che indica il vuoto dell'anima, può essere pronunciato anche "kara". Questi concetti
suggeriscono che il praticante di Karate dovrebbe allenare la propria mente affinché sia sgombra,
vuota da pensieri di orgoglio, vanità, paura, desiderio di sopraffazione; dovrebbe aspirare a svuotare
il cuore e la mente da tutto ciò che provoca preoccupazioni, non solo durante la pratica marziale, ma
anche nella vita. Si può quindi riassumere che il karate è un'arte; una disciplina che si applica a
mani nude, di origine giapponese e che rafforza il corpo e lo spirito.
"Come la superficie di uno specchio riflette qualunque cosa le stia davanti, così il karateka deve
rendere vuota la sua mente da egoismo e debolezze, nello sforzo di reagire adeguatamente a tutto
ciò che potrebbe incontrare." G. Funakoshi
Storicamente ad Okinawa, patria di quest'arte marziale, pur essendo in uso l'accezione Karate, più
spesso si adoperavano altre parole: te o bushi no te (mano di guerriero). Nagashige Hanagusuku,
maestro di Okinawa, usò il carattere giapponese per "mano vuota" nell'agosto del 1905. Ciò
richiama anche il fatto che questa forma di autodifesa non fa necessariamente uso di armi.
kara
36
Il pensiero filosofico e l’etica delle arti marziali giapponesi o del budo sono
basate sulla concezione buddista e scintoista del mondo e dell’universo nella
quale non esistono valori assoluti, poiché niente sussiste che non sia
relativo. La nozione di budo comporta un’espansione verso il miglioramento
di sé stessi, della persona nella sua totalità attraverso la pratica marziale.
Questo pensiero presuppone che un uomo possa giungere ad uno stato di
perfezione durante la sua esistenza, attraverso i tentativi o gli sforzi di miglioramento. Ogni persona
ha quindi la possibilità, elevando il suo valore umano, di cambiare la qualità del suo essere, e di
raggiungere una condizione che si confonde con una forma d’illuminazione divina: il cammino del
budo è condotto a rinforzare la propria identità vivendo intensamente qui, adesso e in ogni istante.
È evidente la differenza con la cultura cristiana ove la distanza, tra gli uomini e Dio, è invalicabile.
Dopo aver scelto gli ideogrammi, G. Funakoshi aggiunse al termine karate il
suffisso do, via o spirito, e da quel momento in poi l’arte fu chiamata Karate Do. La
via, per i giapponesi, è un modus vivendi ed un modus operandi, e riguarda perciò
tutta la durata della vita. Via è il termine con cui traduciamo l’ideogramma che si
legge tao in cinese, michi in giapponese, e do nel nipponico derivato dal cinese.
Esprime il concetto dell’uomo che attraverso la pratica ascende all’illuminazione,
da intendersi come un’espansione della coscienza. Con sfumature diverse è presente nel Taoismo,
nello Shintoismo e nel Buddismo: do è il suffisso alle arti, mestieri, o discipline estetiche che
pongono come fine il perfezionamento dell’adepto.
L’importanza del Buddismo.
Il Buddismo Zen ha origine in Cina nel VI sec ed è stato diffuso dal monaco indiano Bodhidharma,
in giapponese Daruma. Corrente mistica del Buddismo approdò in Giappone nel XII, dove divenne
la religione dei Samurai. Esso pone l’accento sull’indivisibilità del Buddha da tutto ciò che esiste:
l’uomo quindi può e deve raggiungere, già in questo mondo, l’unità con la divinità. Ciò può
avvenire solo tramite un’illuminazione interiore, istantaneamente, in condizioni eccezionali,
provocate anche da stimoli fisici, poiché la verità non può essere raggiunta razionalmente, né può
essere espressa in concetti. Uno degli stimoli preferiti, in tal senso, è il gusto della bellezza, che
include per esempio l’arte di disporre i fiori, la cerimonia del tè, la sobria raffinatezza della casa,
ecc. ma anche il controllo della respirazione, considerata tecnica fondamentale. Lo zen è stata la
concezione filosofica e religiosa che più si adattava alla mentalità dei guerrieri i quali ne sono stati
forse i più degni rappresentanti. Al termine di una carriera guerresca, era possibile vedere un
Samurai ritirarsi a vita monastica che, in quest’istituzione,
permetteva al monaco di avere famiglia. Si può comprendere la
ragione per cui il Buddismo ha così fortemente influenzato le arti
marziali orientali e perché metodi che insegnano ad uccidere sono
invece diventate Vie per il miglioramento spirituale: le influenze
filosofiche e religiose hanno sempre permeato le Arti Marziali
orientali e occidentali ed il confronto con la morte è sempre stato
per il guerriero stimolo per una profonda introspezione.
Il Grande Buddha di Nara nel Tempio Todai Ji. L'originale, datato
745 - 749, fu distrutto durante la battaglia del 1180. Ricostruito fu
distrutto di nuovo in un incendio nel 1567. Ancora ricostruito, è
realizzato in lega di bronzo, mercurio ed oro e le sue dimensioni
sono: altezza totale 25 m, volto 5 m, pollice 1,5 m, peso 551 ton.
Do, la Via.
Il kanji Budo
37
Ciò che fece Bodhidharma, oltre a dare una svolta importante al buddismo cinese con la
consolidazione della corrente Ch’an, o Zen, fu di apportare nuove tecniche d’ispirazione yoga, che
aiutarono i monaci a sopportare meglio le estenuanti sedute di meditazione. Si attribuiscono a
Bodhidharma due trattati di chiara matrice anatomica e fisiologica: I Chin Ching, Trattato sul
movimento dei tendini, e Hsi Sui Ching, Trattato sul lavaggio del midollo osseo. Secondo alcuni,
questi esercizi erano come le Asanas, vale a dire le posizioni dello yoga; secondo altri un'originale
tecnica di combattimento Shih Pa Lo Han Shou, o le 18 mani di Han, anche conosciuto col nome di
Eki Kin Kyo. Ancora più probabile è che in quegli anni, si siano sviluppati scambi di conoscenze
inerenti alle arti marziali, nel via vai di monaci indiani in Cina intenti a diffondere il buddismo e
monaci cinesi in India per studiarlo.
La medicina e le arti marziali.
In Cina il rapporto tra esercizio fisico e medicina terapeutica ha preceduto notevolmente la nascita
delle arti marziali così come noi le conosciamo e ciò che i cinesi hanno sviluppato intorno alla
cultura fisica ha avuto inizio prima che la storia venisse documentata attraverso fonti ufficiali.
Esempi espliciti di tali relazioni sono facilmente riscontrabili nei testi di medicina tradizionale ove
si descrivono molte teorie che formano le basi delle Arti Marziali Cinesi. Così come ad esempio
nella medicina terapeutica e preventiva si sono sviluppati esercizi fisici che hanno tratto il loro
spunto da alcune posizioni d’animali, molte sono le tecniche che, anche nel Wu Shu e nel Kung Fu,
prendono il nome ed i movimenti da questi.
Nel III secolo d.C. durante la dinastia Han Inferiore, un medico chiamato Hua To (190 - 265 d.c.),
personaggio mitizzato al quale la tradizione popolare attribuisce un insieme di scoperte mediche
d’origine completamente differenti, eseguì ricerche sistematiche osservando i sistemi di
combattimento di cinque animali: tigre, orso, cervo, scimmia e gru. Egli preparò un certo numero
d’esercizi ispirati ai movimenti di questi animali che probabilmente ispirarono la divisione in forme
animali dei sistemi di combattimento, attribuita al Tempio di Shaolin più di mille anni dopo. Hua To
affermava che la pratica regolare di questi esercizi, che definiva come i Giochi dei 5 Animali,
avrebbe irrobustito le ossa, guarito le malattie e assicurato la salute.
Si tratta di gesti adatti per il combattimento che si ritrovano, ancor oggi, nella maggior parte delle
tecniche di Kung Fu, amalgamati a quelli d’altri animali veri e leggendari: serpente, mantide
religiosa, drago, leopardo, aquila, fenice ecc.
38
Insieme alla pratica marziale si sviluppò un gran fermento sulle varie teorie che sostenevano queste
pratiche, teorie che si mescolarono con la cultura, la religione e la filosofia tradizionali. Per
esempio, il Wuxingquan o pugilato delle 5 forme o aspetti esteriori spesso è tradotto pugilato dei 5
animali perché xing si riferisce all’imitazione dell’aspetto e dei movimenti di 5 animali: Long il
drago, She il serpente, Hu la tigre, Pao il leopardo, Hok la gru.
Ognuno di questi animali è associato ai 5 elementi della filosofia cinese: Mu il legno, Huo il fuoco,
Jin il metallo, Shui l’acqua e Tu la terra. Le relazioni tra i 5 Animali del Wuxingquan, i 5 Elementi
della Filosofia tradizionale cinese, le 5 Direzioni fondamentali e le condizioni umane sono qui
elencate:
Tigre Hu Fuoco Huo Sud Nanfang rinforza le Ossa.
Gru Hok Metallo Jin Ovest Xifang arricchisce l’Anima.
Serpente She Terra Tu Centro Zhongyang amplia l’Energia interna.
Drago Long Acqua Shui Nord Beifang tempra lo Spirito.
Leopardo Pao Legno Mu Est Dongfang accresce la Forza fisica.
Abe no Seimei.
Abe no Seimei era un onmyoji, un praticante delle tecniche magiche e divinatorie giapponesi
dell’Onmyodo, molto famoso nel periodo Heian, periodo in cui Kyoto, allora chiamata Heian Kyo,
era la capitale politica e culturale del Giappone. Non si sa con precisione, quando nacque, ma è
riportato che morì a 85 anni, il 31 ottobre 1005, perciò si presume che sia nato nel 920. Eccellente
cultore delle tecniche dell’Onmyodo, la scienza suprema in quell’epoca, le sue gesta sono narrate
come imprese misteriose ed hanno generato numerosi episodi leggendari. Secondo l’albero
genealogico della famiglia Abe, Seimei sarebbe nato ad Abeno in Settsu, l’attuale circoscrizione di
Abeno nella provincia di Osaka, figlio di Abe no Masuki Yasuna, nobile di basso rango. Non esiste
alcun resoconto attendibile sulla sua infanzia, ma si narra che abbia studiato l’Onmyodo con il
maestro Kamo no Tadayuki ed il figlio Yasunari.
Più di mille anni fa, all’epoca dell’imperatore Suzaku, un uomo avvenente chiamato Abe no Masuki
Yasuna abitava ad Abeno in Settsu. Suo padre era il padrone delle terre intorno, ma i territori gli
furono confiscati con l’inganno. Yasuna decise così di recarsi ogni giorno al santuario
Shinodanomori nel bosco di Shinodai, a pregare per riscattare il buon nome della sua famiglia. Un
giorno, al ritorno dal santuario, una volpe bianca che scappava dai cacciatori, gli si avvicinò.
Yasuna misericordioso la nascose tra i cespugli e sedette su una pietra come se stesse riposando. I
cacciatori sopraggiunsero chiassosi e gli chiesero se avesse visto la volpe bianca, certi che lui
l’avesse notata, ma Yasuna non rispose, perciò, irritati dal suo silenzio, lo picchiarono crudelmente.
Dopo di ciò, i cacciatori se andarono ed una donna meravigliosa, apparve prendendosi cura di lui.
“Mi chiamo Kuzunoha, disse, ed abito in questo bosco. Ti accompagno a casa tua.” Yasuna avvertì
qualcosa di strano, ma rimase semicosciente a causa delle ferite. Da quella notte, sofferente per il
dolore e la febbre, il suo pensiero fu sempre rivolto a Kuzunoha, che qualche giorno dopo, con gran
gioia di Yasuna, arrivò senza preavviso e cominciò a curarlo. Grazie a lei Yasuna guarì
completamente, e lei rimase a casa sua e, passata l’estate e l’autunno, alla fine di quell’anno diede
alla luce un bambino. Il tempo trascorse in fretta ed il figlio Dojimaru, il nome di Seimei da
bambino, compì cinque anni ed un giorno a metà dell’autunno, Kuzunoha sedeva nel giardino,
carezzata da una brezza gradevole, cullando il suo bambino, senza accorgersi che il suo vero aspetto
di volpe bianca si stava lentamente rivelando.
39
“Mamma, ho paura!”, gridò Dojimaru piangendo, ma ormai era troppo tardi e quella notte
Kuzunoha, che decise di andarsene, rivelò la verità al figlioletto, mentre dormiva: “Dojimaru,
ricordati quel che ti dico, originariamente non ero un essere umano, ma una volpe che tuo padre
Yasuna salvò dai cacciatori. È stato per riscattare il nome della sua famiglia che mi sono
trasformata in donna e, per ordine di Inaridaimyojin, abbiamo avuto un bambino, tu; ma l’amore
di madre e di moglie è uguale anche nel mondo degli animali. Desidererei restare qui fino che tu
compirai dieci anni, ma ormai è impossibile. Cresci moralmente diligente e fedele al padre. Ti
affido questa preziosa palla magica: se la porterai sempre con te, ti aiuterà.” Si alzò e pianse per il
dolore dell’addio.
La volpe è venerata come animale con grandi poteri
spirituali, perciò Seimei diventò un illustre onmyoji.
L’onmyoji assume, secondo la tradizione, due ruoli: è
simultaneamente uno scienziato che compie
osservazioni astronomiche e concretizza il calendario
con l’ausilio dell’arte In Yo Gogyosetsu, scaturita dalle
dottrine esoteriche cinesi dello Yin e Yang, ed un mago,
che legge gli auspici per divinare la buona e la cattiva
sorte e sottomettere i demoni, gli shikigami, alla propria
volontà. Nel testo classico Konjaku monogatari shu si
racconta che un giorno in cui Seimei da bambino uscì al seguito di Kamo no Tadayuki, si accorse di
demoni orrendi che li stavano minacciando. Seimei svegliò Tadayuki che dormiva nel carro e,
continuando a proferire scongiuri, allontanò gli spiriti del male. Tadayuki, colpito dal talento di
Seimei, in seguito gli insegnò tutte le arti dell’Onmyodo.
Gli Shitenno.
I Guardiani del cielo o Lokapala, letteralmente Custodi del mondo, sono le divinità induiste dei
punti cardinali, associati ai 4 astri primari e corrispondono nel buddismo agli Shitenno, i Quattro Re
Celesti conosciuti in giapponese col nome di Jikiku, Zocho, Komoku e Bishamon. Essi vivono sui
pendii della montagna cosmica, Sumeru, controllando i quattro angoli della terra; e la tradizione
vuole che essi fossero divinità convertite al buddismo dallo stesso Buddha. Secondo un testo
buddista, il Sutra della luce dorata, proteggono il territorio dei re
buddisti; e perciò gli imperatori giapponesi costruivano templi in loro
onore. Nello shintoismo essi sono:
1. Kubera custode del Nord e della Luna.
2. Yama custode del Sud e di Giove.
3. Indra custode del Est e del Sole.
4. Varuna custode del Ovest e di Venere.
Meru o Sumeru, è la mitica montagna della religione vedica, che sorge nel Jambudvipa ed occupa il
centro della superficie terrestre, intorno al quale ruotano le costellazioni. Vi ha sede la città di
Brahma o paradiso di Indra. È circondato dai dvipa, i continenti, e dagli oceani. Più tardi fu
identificata con il Tibet; citato anche da autori greci con il nome Meron.
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I Siling.
La mitologia cinese descrive i Siling come 5 Animali Guardiani,
anche noti nell’Onmyodo giapponese col nome Shishin o Shijin, ai
quali sono associate le direzioni del cielo allo stesso modo dei
Quattro Re Celesti della tradizione buddista, con l’aggiunta di
un’altra direzione, il centro.
Ad ogni Siling, sono associate sette costellazioni, chiamate seishuku
in Giappone, ed uno dei cinque elementi della filosofia cinese. Nel
folclore giapponese, plagiato dalla religione buddista, il quinto
animale, Huanglong, in giapponese Oryu, è il drago giallo o d’oro,
guardiano del Centro, associato al cambio delle stagioni, al colore
giallo, ed alla terra e di solito è ignorato in Giappone.
Qinglong, in giapponese Seiryu, è il drago blu guardiano dell’Est. È
associato alla primavera e all’elemento legno, mentre in Giappone
all’elemento buddista acqua ed al colore blu inteso come variazione
di verde; sostiene e difende il Paese e controlla la pioggia, simbolo
del potere imperiale. Spesso è accostato a Zhuque, poiché ambedue
ritraggono il conflitto e la gioia del matrimonio: il drago è simbolo
dell’Imperatore e la fenice dell’Imperatrice.
Zhuque, in giapponese Suzaku o Sujaku, è la fenice rossa guardiana
del Sud. È associata all’estate, all’elemento fuoco sia in Cina sia in
Giappone, ed al colore rosso. È simbolo di conoscenza e si manifesta
solo in tempo di prosperità spesso collegata a Qinglong come
simbolo del matrimonio, soprattutto di quello imperiale. In
giapponese suzaku significa creatura alata di fuoco.
Baihu, in giapponese Byakko, è la tigre bianca o di giada guardiana
dell’Ovest. È associata all’autunno, al colore bianco e all’elemento
metallo, o al vento per i buddisti. L’antica tradizione di porre metallo
in una tomba rappresenta il legame cerimoniale con la tigre di giada;
secondo la leggenda, tre giorni dopo la sepoltura, l’essenza del
metallo assume le sembianze di una tigre di giada diventando la
protettrice del sepolcro. Per i cinesi, la tigre era il re di tutti gli
animali e signora delle montagne, così la giada della tigre era un
ornamento riservato ai comandanti degli eserciti: dio della guerra,
proteggeva le armate dell’imperatore in battaglia oltre che la sua
tomba dai demoni.
Xuanwu, in giapponese Genbu, è la tartaruga nera guardiana del Nord, associata all’inverno, al
colore nero e all’elemento acqua, o alla terra per i buddisti. È spesso rappresentata con un serpente
avvolto in spire o terra magica sul suo carapace, che il mito definisce la cassaforte dell’Universo.
Genbu sempre in ascolto, saggio ed esperto degli insegnamenti del Buddha, è in grado di predire il
futuro ed è simbolo di lunga vita e felicità: quando raggiunge mille anni, ha la capacità di parlare il
linguaggio degli esseri umani. Il suo culto sopravvive attraverso la figura popolare di Tamonten,
versione buddista del dio induista Kubera, il più potente degli Shitenno, i Quattro Re Celesti.
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Narra la leggenda che in
un’epoca antica, senza
inizio e senza fine, Tian
Ti, l’imperatore dei Cieli,
osservò la crescente
malvagità della razza
umana e, come punizione
provocò una grande
inondazione.
I campi di riso furono
allagati da una pioggia
incessante, i tetti delle
case crollarono ed i fiumi
uscirono dagli argini; in
breve tempo, la terra fu
del tutto sommersa
dall’acqua e le speranze di
sopravvivenza della razza
umana sembravano
svanite. Yu, un giovane
dio, ebbe pietà degli
umani e pregò Tian Ti
affinché gli permettesse di
intervenire per salvarli.
L’imperatore, rendendosi
conto che gli uomini
avevano sofferto a
sufficienza, acconsentì,
agitò la mano e subito
apparve una gigantesca
tartaruga nera che
s’incamminò portando sul
dorso della terra magica
necessaria per assorbire
l’acqua dell’inondazione e
creare nuovo terreno fertile. Poi, il sovrano convocò un drago alato dalle squame verdi che si unì al
giovane dio nella ricostruzione del Pianeta.
Yu, la tartaruga ed il drago, discesero dal cielo sul globo terrestre, dove lavorarono alacremente per
30 anni: distribuirono il terreno magico, assorbirono l’inondazione e crearono pianure e montagne.
Comandato da Yu, i1 drago volò e, con la punta della coda piantata nella terra, creò nuovi corsi
d’acqua che resero verdi e rigogliose le pianure, così l’umanità fu salva dal diluvio e dalla
distruzione.
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Antiche testimonianze.
Sembra che la nascita delle Arti Marziali in Cina risalga
all’incirca al III millennio a.C. l’epoca in cui regnò il
leggendario Huang Ti, l’Imperatore Giallo, considerato il
progenitore dei Cinesi. Nel VI secolo a.C con l’invasione
mongola, apparve il Lung Hua Quan, una prima forma di
studio razionale del combattimento, e contemporaneamente
si sviluppò il Qin Na, l’arte dell’immobilizzazione
dell’avversario, ma i reperti archeologici risalgono invece al
1700 a.C. nella forma di vasche affrescate con scene di
combattimento a mani nude.
Fonti storiche più precise risalgono al XI al III secolo a.C.,
periodo in cui regnò la dinastia Chou nel corso della quale
visse Confucio, VI e V sec. a.C.
Egli esortava i giovani a praticare, oltre agli esercizi
spirituali ed allo studio, anche le Antiche arti marziali nobili,
Kyuba no michi, ossia la Via dell’Arco e del Cavallo.
Contemporaneo di Confucio, il
maestro Mo Ti fondò un sistema
filosofico di notevole interesse e
complessità. Fu anche un gran
guerriero, capo di un gruppo di
cavalieri che visse forse la fase
più intensa delle attività marziali
della storia cinese, in pratica il
turbolento periodo degli Stati
Combattenti, V - III sec. a.C.
nell’immagine.
Questi prodi guerrieri, chiamati
Yu Hsie, cavalieri erranti, erano i
leggendari Otto Immortali
Ubriachi del Taoismo.
Conosciuto oggi con i nomi Zui
Ba Xian, Tzui Pa Hsien, Zui Jiu Quan, in altre parole lo Stile degli
8 Immortali Ubriachi, o Boxe
dell’Ubriaco è sicuramente uno
stile, nel panorama del Kung Fu,
tra i più strani ed acrobatici.
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Ispirato agli atteggiamenti ed alle movenze di un ubriaco, appartiene allo Stile Esterno del Kung Fu,
Wai Jia, o Wai Chia, anche se ha alcuni aspetti riconducibili allo Stile Interno Nei Jia, o Nei Chia,
evidenziandone la fluidità e la naturalezza dei movimenti, nella ricerca dell’equilibrio, soprattutto in
situazioni difficili. È opportuno ricordare che, fu l’eremita taoista Chan San Feng, vissuto a Hopei
nel XIII secolo, che codificò le basi di ciò che divenne lo Stile Interno del Kung Fu, che in seguito
diede vita al T'ai Chi Ch'uan, nel quale si ricercava il movimento dell’energia interna del corpo
piuttosto che la forza muscolare subordinata all’età.
Le sue origini come stile di combattimento potrebbero risalire alla dinastia Tang, tra il 618 ed il 907
d.C, periodo in cui è vissuto Li Po. Poeta famoso e scrittore illuminato, si afferma che abbia
realizzato le sue opere migliori sotto l'effetto del Jiu, il distillato di riso ad alta gradazione alcolica.
Maestro nell'uso delle armi tra cui la spada dritta, Li Po avrebbe non tanto codificato le tecniche ma
spiegato il fondamento spirituale e filosofico di questo stile, che descrisse nelle sue opere letterarie
e poetiche. Essendo un artista d’estrazione taoista, egli descrive il concetto d’uomo ubriaco non
come in preda ai fumi dell'alcool, ma come persona che, in estasi tanto profonda da integrarsi con la
natura circostante, s’impegna nella ricerca di quel equilibrio che porta alla verità ed alla saggezza.
Un’altra possibile origine è attribuibile al maestro Hong Han Shan. Soprannominato Sopracciglio
rosso viveva nel Nord della Cina durante la dinastia Qing, intorno alla seconda metà del 1800. Si
narra che viveva, nelle montagne di Wu Dang, in una grotta dove aveva dipinto gli Otto Ubriachi
Immortali e le regole ed i segreti del suo stile. Un giorno trovò un neonato abbandonato che chiamò
Chi Wan Lun, lo allevò come figlio e lo addestrò nel Kung Fu, ma solo quando fu grande gli parlò
dello stile che aveva creato. Il giovane ebbe il permesso di studiare i canoni ed i dipinti di suo padre
ma, per quanto si sforzasse, non riuscì a carpirne i segreti. Allora, in preda allo sconforto, cominciò
a bere le giare di Jiu custodite nella grotta e solo quando fu completamente ubriaco che cominciò a
girargli tutto intorno, le figure e le regole, balenandogli intorno, gli svelarono i segreti dello stile
dell'Ubriaco. A questo punto poiché l’allievo aveva imparato, Hong Han Shan cominciò a girare per
la Cina, non più come maestro ma come un vecchio vagabondo con la fiasca ed il bastone.
Il personaggio è celebrato nel film Drunken Master, di Yuen Woo Ping, con Jacky Chan.
Si racconta che un giorno Hong assistette alla dimostrazione di Kung Fu di due esperti che, dopo la
manifestazione, si misero a litigare per dividersi il compenso. Allora il vecchio maestro si godette la
litigata ridendosela tanto che i due lottatori, umiliati e offesi, lo attaccarono, ma furono sconfitti
facilmente da quel vecchio ubriaco che sembrava non riuscire nemmeno a restare in piedi e che
invece li atterrò più volte, sempre mostrando gran serenità, e anzi continuando a ridersela
grandemente. I due accettarono la sconfitta e chiesero di diventare suoi allievi, ma Hong rifiutò,
tuttavia regalò loro un manoscritto e li diresse verso suo figlio, poi scomparve senza lasciare traccia.
I due lottatori non riuscirono però a farsi accettare da Chi Wan Lun, poiché questi aveva già
addestrato il maestro Tsai, che tramandò lo stile al figlio e maestro Tsai Kun Hsu.
Con le sue tecniche particolari lo Zui Ba Xian è immerso nell'antica saggezza
cinese riflettendo il concetto di pieno e vuoto dello Yin e Yang.
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È nel XII secolo, durante la
dinastia Jin, che fra i vari popoli
cinesi si inizia a parlare della
mistica figura degli Otto
Immortali (八仙).
Per misteriose ragioni furono
legati alla filosofia taoista e
rappresentano per tale, la felicità
e l’allegria.
Il gruppo è formato da tre
personaggi storici realmente
esistiti e da cinque figure epiche,
nate dalla fantasia popolare:
il vecchio – il giovane;
l’uomo – la donna;
il ricco – il povero;
l’aristocratico – il proletario.
Figure antagoniste fra loro, ma
comunque legate da un potere
sovrannaturale, l’immortalità.
Questa importante figura taoista,
oltre ad essere citata più volte nel Tao Te Ching (libro scritto da Lao Tze, fondatore del Taoismo) è
stata per molti artisti ed artigiani il tema delle loro ispirazioni. Essi vengono spesso raffigurati per le
formidabili imprese che riescono a compiere, la più importante di queste è sicuramente la
“Traversata dei Mari”.
Un giorno decisero di recarsi ad ammirare le meraviglie del mare, ma la divinità Lu Yuan impose
che rinunciassero al loro abituale mezzo di trasporto: una comoda nuvola. Dovettero allora
camminare sul mare, ognuno con l'aiuto del proprio oggetto magico; il bastone, la spada, il
ventaglio, il flauto, l’asta di ferro ecc. Strada facendo entrarono in conflitto con un potente dragone,
a cui inflissero una pensante sconfitta senza impegnarsi più di tanto, grazie anche ai loro formidabili
poteri, tra i quali ad esempio: resuscitare i morti dall’aldilà, trasformare gli oggetti in oro, diventare
invisibili, irrobustirsi come montagne, trasformarsi in animali ecc., ciò rese loro la possibilità di
poter continuare altre innumerevoli avventure.
Ma la leggenda vuole anche che essi dovessero recarsi almeno una volta l’anno sulle montagne
tibetane per incontrare la “regina dell’ovest” Xi Wang Mu, importante divinità dell’olimpo cinese
nonché simbolo della vita eterna. Questo incontro è dovuto al fatto che per poter mantenere tale
dono dovessero mangiare le famose pesche d’orate dell’immortalità, maturate ogni 3000 anni nel
giardino dei fiori di corallo della regina.
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Dal Taoismo lo stile eredita le figure degli Otto Immortali cui si aggiunge il concetto d’ubriachezza
che va inquadrato nella ricerca della fluidità e libertà dei movimenti piuttosto che non nell'ebbrezza
dei fumi dell'alcool: gli Otto Immortali rappresentano le molteplici emozioni degli uomini.
Il celebre storico Szu Ma Chien, vissuto intorno al 204 a.C.
descrisse gli Yu Hsie come uomini dotati di grande
spessore morale, immenso coraggio disinteressato e forte
determinazione guerriera. Nel caso in cui l’esercito di cui
un gruppo di Yu Hsie faceva parte era sconfitto, i cavalieri
erranti cercavano rifugio nei villaggi isolati, sulle
montagne o nella quiete dei templi. In questi luoghi essi
poterono creare nuove scuole marziali contribuendo allo
sviluppo di nuove correnti filosofiche.
I templi taoisti, in cui all’epoca si praticava una dottrina ancora permeata dall’animismo autoctono
cinese, furono terreno fertile per lo sviluppo della vasta filosofia che stava alla base delle arti
marziali: nacquero così stili dai nomi misteriosi come fa shu, l’arte nera, yin shen shu, l’arte di far
scomparire il corpo, o Mou shan shu, l’arte dei monti Mou. È bene ricordare che i maestri che
portarono alla ribalta queste arti attingevano a pratiche molto antiche se non addirittura leggendarie,
delle quali loro erano solo i più recenti depositari.
Zong Li Quan
con un ventaglio di
piume.
Zhang Guo Lao
che cavalca al
contrario l’asino ed
ha un tamburo e
piume di fenice.
He Xian Gu
la giovinetta con la
pesca, simbolo di
longevità, ed il
fiore di loto.
Han Xian Zi
con il flauto ed il
braciere
dell'alchimista.
Li Tie Guai
zoppo con il bastone
e la fiasca di Jiu.
Lam Cai He
dalle sembianze di
donna, con un
cesto di fiori
Lu Dong Bin
con la spada dritta
a 2 tagli, kim.
Cai Guo Jio
con le nacchere, il
libro degli 8 Dei e
la borsa con i
medicinali.
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Le origini.
Le origini, la storia e l’evoluzione del karate sono oscure e complesse: tutte le informazioni
convergono presso l’isola di Okinawa, nell’arcipelago delle isole Ryu Kyu, tra il Mar Cinese
Orientale e l’Oceano Pacifico, ove si può comprendere come il pensiero dei maestri del continente
asiatico abbia modellato questo metodo e come si sia evoluto attraverso lo spirito giapponese.
Per comprendere a fondo il karate è necessario esaminare la storia antica dell’India. Nel libro
Karate’s History and Traditions, di Bruce Haines, è riportata l’esistenza in India di due arti di
combattimento a mani nude, tramandate da almeno 5.000 anni con i nomi di Vajramushti e
Kalaripayat. Molte testimonianze sembrano
indicare che il Vajramushti fosse molto simile al
karate: infatti, i membri della Kshatriya, la casta
guerriera che lo praticava, attribuiva alla parola
vajramushti il significato di stringere il pugno
come un'arma. Il Kalaripayat è un altro stile di
lotta simile al karate che probabilmente è stato
influenzato dal Vajramushti: ha calci alti, tecniche
di spazzata, e posizioni basse ed i movimenti sono
coordinati con pranayama, ossia le tecniche di
respirazione. Alcuni sostengono che il Kalaripayat
è l’arte che il mitico monaco indiano Bodhidharma
portò in Cina, dove molte forme d’arti marziali
ebbero modo di diffondersi e svilupparsi,
diventando patrimonio cinese di fatto.
Esistono molte teorie sull’introduzione del karate
ad Okinawa e senza dubbio durante il corso dei
200 anni precedenti molti stili di pugilato cinese,
arrivati nell’isola, sono stati insegnati come
karate. Forse il testo migliore per spiegare la
relazione tra arte cinese e karate è il Bubishi, che
è un manuale di preparazione militare: infatti, bu
vuol dire militare, bi significa provvedere o
preparare, e shi dà a intendere una antologia. Una
parte rilevante del libro Karate Do Kyohan, di
Gichin Funakoshi, è ricavata dal Bubishi.
Higashionna Kanryo lo decantò, ed il suo
studente, Miyagi Chojun, fondatore del Goju Ryu,
selezionò appunto il nome Goju Ryu dal testo che
considerava la bibbia delle arti di combattimento.
Il Bubishi aveva tal effetto profondo anche su
Yamaguchi Gogen, il quale, come da lui stesso
riferito, fece gran tesoro della conoscenza
racchiusa nel testo. Esistono tuttavia non meno di
dieci leggende che circondano la trasmigrazione
del testo dalla Cina ad Okinawa. L’arte marziale
di Okinawa si è sviluppata infatti come un’arte
segreta, per lungo tempo privilegio dei nobili,
prima di diffondersi ad altri strati della società.
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Nel sec. XV il re delle Isole Ryukyu,
dopo aver elevato al rango di nobili
gli antichi capi locali, proibì l’uso
delle armi. Dopo aver invaso
l’arcipelago, nel sec. XVII, i signori
giapponesi di Satsuma, nell’immagine
durante il periodo della guerra boshin,
mantennero l’interdizione delle armi,
istituita dal re di Ryu Kyu un secolo e
mezzo prima, e consolidarono il loro
potere istituendo una gerarchia
interna: nobiltà in tre gradi, vassalli in
due gradi, contadini in due gradi.
Poco per volta si formarono nei vari
strati sociali delle reti occulte di
diffusione dell’arte marziale, in parte
perchè la dominazione di Satsuma
controllava l’armamento degli abitanti e in parte perché quest’arte marziale era praticata
segretamente nella cerchia ristretta dei nobili, dove era
concepita come segno di privilegio. Tuttavia, nei secoli XVII e
XVIII, attraverso il commercio e l’agricoltura, si manifestò una
mobilità tra classi sociali, che permise all’arte dei nobili di
diffondersi; lo testimonia la comparsa di termini come, te,
mano degli artigiani o dei contadini, dove il termine te
significa arte o tecnica.
Contadino giapponese di epoca medievale
In giapponese il termine bushi designava chi apparteneva
all'ordine dei guerrieri, in altre parole i samurai. Ad Okinawa,
dove la struttura sociale era diversa questo termine assunse il
significato d’adepto di te, indipendentemente dalla classe
sociale; di qui un certo numero di significati erronei
nell’interpretazione dello status sociale degli adepti. Il termine
shizoku designa, in giapponese, l’ordine dei guerrieri, quando
però si afferma che maestri di karate come Funakoshi, Itosu,
Matsumura appartenevano allo shizoku, il senso è diverso. In
effetti, ad Okinawa, dove non esisteva un corrispondente
dell’ordine giapponese dei guerrieri, il termine shizoku,
introdotto dopo il secolo XVII, designava l’ordine dei vassalli
intermedi tra i nobili e i contadini.
Samurai del periodo Kamakura, 1185-1333
Di fatto, il karate non avrebbe preso questa forma senza il contatto con l’arte cinese del
combattimento. Dal 1372 al 1866, una delegazione dell’imperatore della Cina si recò ventitré volte
nelle Ryu Kyu e si pensa che questa ambasceria abbia avuto un ruolo importante nella trasmissione
dell'arte del combattimento.
Samurai di Satsuma nel periodo della Guerra Boshin.
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I contatti dei membri della delegazione con gli abitanti delle isole non appaiono in nessun
documento, ma sarebbe inconcepibile che le molte centinaia di persone delle varie delegazioni che
si sono succedute, abbiano sostato per parecchi mesi senza uscire dal piccolo villaggio di Kume. Il
contatto con loro è certo stato un’importante fonte d’infiltrazione e, pur senza arrivare ad una
trasmissione completa, l’arte del combattimento, praticata dai cinesi che abitavano nel villaggio di
Kume, fu trasmessa ad alcune famiglie nobili con le quali avevano contatti nonostante la chiusura
del villaggio e sotto il vincolo del segreto. Questa arte, esercitata segretamente, costituì uno dei
privilegi di queste famiglie cinesi, che ebbero dal secolo XIV un ruolo importante negli affari del
regno di Ryu Kyu.
Altre fonti sostengono che la diffusione dell’arte del combattimento, dal villaggio di Kume verso
l’esterno, fu per lungo tempo trascurabile. Soltanto alcuni anni prima della guerra dell’oppio, nel
secolo XIX, a causa degli sconvolgimenti nella società cinese, l’isolamento del villaggio di Kume si
attenuò, e l’arte del combattimento, a lungo nascosta dietro le sue mura, poco a poco cominciò
diffondersi con il nome di Nahate, la tecnica o la mano di Naha, poiché questo villaggio dipendeva
dalla città di Naha.
Il cambiamento e le tradizioni.
L’aspetto dello Zen che forse ha influenzato maggiormente la cultura guerriera, è stato il suo
approccio con l’idea della morte: influssi filosofici e religiosi hanno sempre permeato le Arti
Marziali orientali e occidentali ed il confronto con la morte è sempre stato per il guerriero stimolo
per una profonda introspezione. Le esigenze del combattimento chiedono molto alle capacità
individuali e queste richieste possono funzionare da occasioni d’apprendimento grandemente
stimolanti per la scoperta e il confronto di sé stessi, e possono essere usate per ulteriori prove
spirituali, ma forse la più importante di queste è proprio il confronto con la morte poiché la
incontriamo in ogni scomparsa o cambiamento nella nostra vita. Tali confronti possono essere elusi
se pensiamo di avere a che fare con un
cambiamento specifico senza capire
l’origine del cambiamento in sé stesso, ma
noi tutti ci troveremo di fronte alla nostra
morte, nel modo più diretto ed inevitabile e
sarà un evento improvviso e certo.
Vittorio Gassman nel film Brancaleone alle
Crociate: Brancaleone incontra la Morte.
Ogni sistema spirituale ha un suo modo di confrontarsi con la morte; le pratiche basilari
preparatorie del Buddismo prevedono il ricordarsi che la propria vita è breve e di durata incerta, che
si può morire anche subito. Nella tradizione Buddista le pratiche preparatorie all’idea della morte
sono viste come fortemente motivanti e per questo sono essenziali. La coscienza della realtà e
dell’inevitabilità della propria morte può essere un incredibile erogatore d’energia, offrendo livelli
insospettati di motivazioni per cambiamenti radicali. Comprendere che si deve morire, e che quindi
si ha un tempo limitato, può eliminare una gran quantità di debolezze dalla propria vita.
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I rimpianti per il tempo sprecato e le opportunità perdute, possono essere riportati al presente,
finché ancora esistono le occasioni e le possibilità per assumersi consapevolmente le responsabilità
per vivere una vita integra: il confronto con la morte rappresenta perciò non solo la consapevolezza
di sé stessi ma anche e più d’ogni altra cosa il cambiamento spirituale.
In contrapposizione al cambiamento le tradizioni conservano gli antichi valori: il rituale che ancor
oggi esiste nelle palestre, in cui sono insegnate le Arti Marziali Tradizionali, esprime un profondo
spirito di rispetto per le conoscenze originarie. Fanno parte di questo rituale la cerimonia del saluto,
le relazioni fra maestri e allievi e fra studenti anziani e nuovi apprendisti, la gerarchia dei gradi, la
cortesia, l’ossequio per gli antichi capiscuola, il sentimento di riverenza per il maestro.
Gichin Funakoshi esegue il saluto insieme ai suoi allievi.
La pratica si svolge all’interno di un dojo, con il pavimento ricoperto di parquet. S’inizia sempre
con il triplice saluto, al dojo, ai compagni ed al maestro, poi un breve riscaldamento di tutte le
catene muscolari, in seguito si affronta lo studio delle tecniche vere e proprie e si termina ancora
con il triplice saluto; tutto ciò non deve essere pura esteriorità, ma la manifestazione genuina di uno
stato d’animo interiore d’apprendimento da parte degli allievi che ammirano, rispettano ed amano il
loro maestro che, con spirito paterno, li guida lungo la via della tecnica e della saggezza. Non a caso
un maestro d’arti marziali è chiamato in cinese Shih Fu che significa maestro e padre, quindi:
Senza il loro millenario rituale, le arti marziali perdono il loro spirito più autentico e
inevitabilmente si trasformano in attività violente e poco educative o, nella migliore delle ipotesi, in
semplici sport.
Il contrasto paradossale tra cambiamento e
tradizioni è attentamente valutato dal primo
concetto buddista cioè quello del Risveglio, o
Bodhi, in altre parole l’illuminazione.
Al momento del Risveglio, Siddartha Gotama
pensò di riconoscere quattro verità fondamentali
dell’esistenza:
1. Dukkha, il dolore recepito come realtà dell’esistenza e del mondo esteriore, consistente
nell’immutabilità delle condizioni: nascita, malattia, morte, mancanza di ciò che si desidera,
unione con ciò che dispiace, separazione da ciò che si ama;
2. Maya, il desiderio di esistere, quindi l’origine del dolore ed il bisogno del piacere ed anche il
suo rifiuto, vale a dire l’Illusione cosmica;
3. Nirvana, in cui la sete generatrice di rinascite è estinta nell’eliminazione del desiderio;
4. Dharma, la via che conduce all’arresto del dolore, vale a dire l’Ottuplice Sentiero.
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Dharma è un termine sanscrito che nelle filosofie orientali riveste
numerosi significati. Può essere tradotto come Legge cosmica o
naturale, oppure realtà delle cose: vivendo in accordo con questa legge,
è possibile porre fine alla sofferenza dovuta al ciclo delle morte e della
rinascita, Samsara, giungendo alla liberazione, Moksha. Tutte le azioni,
Karma, producono frutti piacevoli o spiacevoli, perciò l’unico modo
per ottenere la liberazione è attenersi all’Ordine Universale senza
provare attaccamento per i frutti piacevoli dei gesti virtuosi compiuti, in
modo da giungere progressivamente a moksha.
La parola Dharma o Dhamma, in lingua Pali, è usata nella maggior
parte delle filosofie e religioni d’origine indiana: Induismo o Sanatana Dharma, Buddismo,
Jainismo e Sikhismo. È difficile fornirne una definizione sintetica, poiché questa parola ha una
storia lunga e complessa ed un intricato insieme di significati ed interpretazioni: deriva dalla radice
dhri, che significa sostenere, reggere, e il suo originale valore metafisico è quello di seguire il
Principio creativo divino che opera dall’interno dell’individuo. Rappresenta la legge interiore
dell’uomo, a cui occorre prestare obbedienza se si vuole che la propria vita sia in accordo con la
volontà degli dei. Dharma ha inoltre significato di principio edificante del sistema di caste, in altre
parole classi sociali all’interno delle quali gli individui sono fedeli ad un ordine interiore a cui non è
possibile ribellarsi.
Nel Buddismo indica gli insegnamenti del Buddha sull’origine della sofferenza, o la pratica di tali
insegnamenti, di conseguenza il Buddismo stesso: è la legge universale che regola il funzionamento
del mondo, e che i buddisti s’impegnano a trasmettere e spiegare, sin dal primo discorso pubblico di
Buddha, il Dharmacakrapravartana.
“La retta via, disse Buddha, sta nel mezzo ed è la Via Mediana”.
Il segreto della felicità è accettarsi così come si è, rinunciando ai desideri, la cui cognizione rende
infelici non meno del loro compimento: ogni desiderio soddisfatto, infatti, porta a maturarne un
altro ancora più grande. Rinunciare ai desideri significa perciò rinunciare ad un’inutile sofferenza.
La condizione suprema della felicità è quella del Nirvana, in cui l’uomo è felice pur non
desiderandolo, è appagato perché ha vinto l’Illusione cosmica.
Il risveglio presuppone un sonno, che non è altro che lo stato della nostra coscienza ordinaria. La
concezione, di cui qui si tratta, è che la nostra ordinaria percezione, di noi stessi e del mondo, sia
fondamentalmente illusione: viviamo in pratica in un mondo di miraggi e di fantasmi ed agiamo in
un teatro interno tutto nostro di sogni e di proiezioni. Al centro di questo mondo c'è un’illusione o
indeterminatezza fondamentale: il sogno che ci fa credere di esistere come qualcosa d’individuato e
separato dal tutto. È come se un’onda credesse di esistere
separatamente dal mare. Le onde si raccolgono, s’infrangono e si
rimescolano nel mare: l’acqua stessa che le costituisce non è mai la
stessa. L’onda è soltanto un disegno che emerge e si dissolve nel
caleidoscopico movimento complessivo dell’acqua: ma, se l’onda
s’identifica con la propria esistenza separata, essa viene a trovarsi
inevitabilmente in una lotta disperata con la realtà della propria
condizione transitoria. Il sé, che s’illude di esistere, non può che
attaccarsi a tutto ciò che nutre la sua esistenza separata e cercare di
respingere tutto ciò che avvicina la sua dissoluzione nel tutto. L’ illusione primaria dell’esistenza di
un sé è perciò seguita dalla strutturazione di coppie di stati di coscienza opposti: attrazione e
repulsione, desiderio e avversione, conservazione e cambiamento, amore e odio.
Il Dharmachakra, la
ruota del Dharma.
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L’Ottuplice Sentiero è formato dalle otto vie fondamentali del Dharma:
1. Giusta visione, ottenuta dalla contemplazione della realtà non inquinata da pregiudizi;
2. Giusto pensiero, possibile solo tramite la ricerca della conoscenza;
3. Giusta parola, attuabile solo attraverso l’assoluta correlazione con le entità enunciate;
4. Giusta azione, fattibile tramite l’appropriata scelta di condotta;
5. Giusto comportamento, ottenibile mettendo in pratica i concetti etici e morali;
6. Giusto sforzo, realizzabile nella conciliazione tra azione e scopo da conseguire;
7. Giusto spirito, intensificato dalla memoria delle azioni commesse;
8. Giusta meditazione, raggiungibile tramite la separazione dagli stati d’animo depressi od esaltati.
Seguendo queste otto strade l’uomo giunge alla perfezione e sprofonda nel Nirvana, il quale,
secondo la scuola Mahayana, rappresenta il completo annientamento o il non-essere, raggiungibile
anche in vita e quindi definibile in senso buono, come stato di pace totale, di gioia assoluta e di
verità ultima, che però solo gli illuminati scorgono. Invece, per la scuola Hinayana, il Nirvana
sfugge a qualsiasi definizione poiché rappresenta la fine della vita accessibile alla coscienza ed il
passaggio ad un’altra esistenza inconsapevole o possibile solo dopo la morte. In entrambi i concetti,
Nirvana presume l’interruzione della catena delle reincarnazioni, il samsara. Secondo i buddisti, lo
stesso Buddha, prima di nascere come Gotama, avrebbe subito una lunga serie di rinascite, ma egli
fu però anche in grado di raggiungere l’Illuminazione, perciò la sua morte ha rappresentato
l’immediato passaggio al Nirvana, dunque, anche se letteralmente significa estinzione,
spiritualmente vuol dire beatitudine.
Fondamentale per percorrere l’Ottuplice sentiero è la meditazione, che si esamina su due linee
diverse e complementari:
1. Acquietamento o Purificazione: propone una
condizione di completa limpidezza stabile della
coscienza, o atarassia, consistente nel
focalizzare l’attenzione su un solo punto, che in
realtà è un’immagine simbolica da utilizzare
come supporto per il processo, operando una
graduale esclusione degli stimoli sensoriali
periferici, percepiti normalmente come
avversione, torpore, irrequietezza e scetticismo.
L’atto meditativo si sviluppa su 4 livelli di
perfezionamento: quieto benessere, interruzione
del pensiero logico e discorsivo, controllo dei
fattori emotivi e ponderatezza nel sentimento di
felicità ed infelicità. Il pensiero diventa
coscienza.
2. Visione penetrativa o Intuizione: consiste nella vigile attenzione sugli eventi fisici, anche
minimi, ed ai processi mentali. Conduce ad una serie d’approfondite purificazioni del pensiero,
il quale deve giungere alla consapevolezza che l’essenza degli elementi della realtà è loro
attribuita dallo stesso pensiero che li identifica, ma che, di per sé, è inesistente. La realtà va
sperimentata come un vuoto, in particolare come vuoto noetico, percepito cioè dalla conoscenza
intuitiva del pensiero immediato. Aristotele definì Dio come nóesis noeseos, ovvero pensiero
del pensiero.
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Il Dojo.
Il karate si pratica nel dojo, termine giapponese con il quale s’indica uno spazio definito sia fisico
sia mentale, destinato all’allenamento. Tuttavia questa definizione non ha origini marziali, ma
proviene dalla tradizione buddista ed indica la sala dove i monaci svolgevano le loro pratiche di
meditazione e respirazione. Letteralmente vuol dire luogo per la ricerca della via, posto ove deve
quindi regnare un’atmosfera attenta e rispettosa come si addice ad un luogo di culto: nella ricerca di
un allenamento di qualità, con lo scopo di purificare il corpo e lo spirito, è auspicabile che il luogo
dove avviene la pratica, ne sia degno. In realtà fu con l’avvento dell’epoca Edo, all’inizio del XVII
secolo, che una certa spiritualità cominciò a coniugarsi con l’arte della spada e l’utilizzo della sala
del dojo divenne abituale.
Di solito l’uomo è facilmente influenzabile da ciò che lo circonda, non è difficile perciò capire
come cambino lo stato d’animo e la coscienza dei praticanti, nei diversi dojo: il loro desiderio di
progredire, il loro coraggio ed i loro comportamenti sono sottomessi alle influenze degli elementi
esterni, fuorché questi individui non si trovino già nella condizione in cui tutto ciò li lascia
indifferenti, quello della perfezione.
Un dojo in mezzo alla natura o all’aperto e l’ideale, ma di solito consiste in una sala quadrata o
rettangolare, i cui lati, disposti in direzione dei punti cardinali, hanno nome e funzione ben definiti:
Kamiza è il lato principale del dojo, dove è affisso il simbolo del dojo stesso, oppure l’immagine del fondatore della scuola; in alcuni ambienti o istituzioni vi si può trovare un
piccolo altare scintoista, denominato Zushi. È il lato riservato al maestro, agli ospiti d’onore ed
ai rappresentanti del dojo in occasioni particolari ed è collocato a Nord.
Shimoseki situato ad Ovest è talvolta utilizzato per disporre gli studenti, quando l’insegnante si trova sul lato opposto, joseki.
Shimoza è il lato d’ingresso, dirimpetto a kamiza perciò disposto a Sud, dove sono posizionati
gli allievi, quando l’insegnante si trova sul lato kamiza; gli studenti si dispongono dal grado più alto a quello più basso, da senpai a kohai, da joseki verso shimoseki.
Joseki, posto ad Est, è utilizzato talvolta in scelta a kamiza come lato riservato al maestro ed
agli ospiti d’onore.
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Oggi, come dojo sono utilizzate palestre e strutture sportive, non costruite con criteri idonei ad una
corretta applicazione degli orientamenti sopra descritti, perciò le disposizioni possono subire
piccole variazioni; ciò non cambia il comportamento reverente che deve essere mantenuto nel dojo
stesso.
Costituito da un gran numero d’elementi
culturali, riconoscerne e rispettarne le
regole permette di capire la Tradizione
che a sua volta consente di praticare
un’attività diversa da una meramente
sportiva.
È doveroso imparare le buone maniere e
l’etichetta: l’attenzione per la tradizione
e la pratica premurosa dei kata, sono ciò
che differenzia il Karate Do dallo sport.
Sono richieste tre qualità indispensabili: buona educazione, grande amore per l’arte e fiducia nel
maestro, perciò può accedere al dojo solo chi vuol praticare, e solo quando è già vestito con il
giusto abbigliamento. Gli spettatori interessati ad assistere alle lezioni devono rimanere in silenzio,
avendo cura di non creare alcun disturbo.
È altresì importante seguire alcune buone regole comportamentali:
1. Assumere sempre un atteggiamento coscienzioso.
2. Essere sempre sinceri, lieti e senza pregiudizi. L’ardore nella pratica deve unirsi ad
un’atmosfera di ricerca interiore: il dojo, oltre che luogo di pratica, è scuola morale e culturale.
3. Osservare scrupolosamente le regole generali della cortesia.
4. Aiutare i propri compagni con diligenza e cordialità, evitando d’essere causa d’imbarazzo o di
fastidio.
5. Rispettare i compagni di grado superiore ed accettarne i consigli senza obiezioni.
6. Inchinarsi, in segno di rispetto al compagno, prima e dopo ogni esercizio.
7. Mantenere una corretta postura e dimostrare un appropriato spirito combattivo anche quando
non si pratica, evitando assolutamente posizioni ed atteggiamenti scomposti anche in condizioni
d’estrema fatica.
8. Mantenere il silenzio e parlare solo se necessario ed a bassa voce.
9. Non allontanarsi mai dall’area di pratica senza ricevere il permesso dell’insegnante.
10. Curare la pulizia e l’integrità dell’abbigliamento.
11. Mantenere sempre un’attenta igiene personale, tagliare le unghie delle mani e dei piedi e
svestirsi, durante l’allenamento, da orologi, catenine, anelli ecc.
12. Rispettare l’orario degli insegnamenti.
Reigi, l’etichetta nel dojo.
Cambiamento e tradizioni convivono insieme nella metodica d’apprendimento di tutti coloro che
praticano le Arti Marziali Tradizionali generando in loro lo spirito di miglioramento. È per questo
motivo che, dal momento in cui si entra nel dojo, è opportuno seguire l’etichetta, in altre parole la
forma estetica dell’etica morale.
Il Maestro Masatoshi Nakayama nel suo Dojo.
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Entrati nel dojo ci si dirige verso lo spogliatoio nel quale si lascia l’abbigliamento
quotidiano e, indossato il kimono, con un paio di ciabatte si arriva fino al tatami:
quando si sale o si scende dal tatami, guardando sempre verso kamiza, si esegue il
saluto in posizione eretta, chiamato Ritsu rei, un breve inchino in piedi con le
braccia lungo i fianchi, i talloni uniti e le punte dei piedi leggermente divergenti,
posizione chiamata musubi dachi. All’inizio ed al termine della lezione il maestro
dispone tutti gli allievi in fila per ordine di grado e rivolti verso di lui. Chi arriva in
ritardo all’allenamento, assume, sul bordo del tatami, la posizione seiza no shisei
verso il maestro, attende il suo saluto ed esegue poi ritsu rei. Chi deve lasciare
l’allenamento in anticipo, chiede il permesso al maestro poi, passando dietro tutti e
mai davanti, si dirige verso l’uscita, assume la posizione seiza no shisei, sempre sul
bordo del tatami e rivolto verso il maestro, ed attende il suo saluto: a quel punto si
rialza in piedi, esegue ritsu rei ed esce.
Il saluto eseguito dalla posizione seduta seiza no shisei, prende il nome di Za rei:
Per sedersi correttamente ed assumere quindi la postura seiza no shisei, da
hachinoji dachi, posizione naturale con i piedi divaricati e separati dalla larghezza
delle anche, occorre passare in posizione musubi dachi, accostando il piede destro
a quello sinistro; con le braccia lungo i fianchi, ruotare leggermente le anche,
portando a terra prima il ginocchio sinistro, poi quello destro, distanti tra loro di
circa 25 o 30 cm, senza spostare i piedi, con i talloni alzati da terra e tenendo il
busto eretto, distendere le caviglie e le dita dei piedi, avvicinando quest’ultime tra
loro, oppure sovrapponendo l’alluce destro a quello sinistro. Sedersi in modo
comodo sui talloni, mettendo le mani sulle cosce, con le dita distese.
Dalla posizione seiza, bisogna inchinare in avanti la parte superiore del corpo, posare a terra la
mano sinistra e poi la destra ed unire le punte dei pollici e degli indici per formare un piccolo
triangolo. Percependo una sensazione di rispetto, continuare ad inchinarsi fino a che i gomiti
toccano naturalmente il suolo e, dopo una breve pausa, rialzarsi gentilmente, riportando prima la
mano destra e poi la sinistra sulle cosce, concentrando la propria energia nell’addome, rilassando le
spalle e portando il petto in fuori con naturalezza: raddrizzare la parte posteriore del collo e la testa
e guardare a circa 4 o 5 metri in avanti, socchiudendo gli occhi e praticando Enzan no Metsuke,
guardare le montagne lontane, che dà a intendere di considerare l’insieme e non qualcosa di
specifico, per cercare di essere consapevoli di tutto ciò che ci circonda.
Il saluto in posizione seiza no shisei è chiamato za rei.
Il saluto in
posizione
musubi
dachi è
chiamato
ritsu rei
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Per rialzarsi in piedi, kiritsu, occorre sollevare il corpo, puntando le dita dei piedi sul piano
d’appoggio, compiere i movimenti eseguiti per raggiungere la posizione seiza, ma in ordine inverso
e senza piegare in avanti il busto, e pervenire di nuovo alla posizione musubi dachi e quindi
hachinoji dachi.
Senpai è il vocabolo giapponese che, in
ambito scolastico, indica gli studenti più
anziani; è di solito usato anche in campo
lavorativo e nelle associazioni. Il termine
opposto è kohai, che indica quindi gli studenti
più giovani. All’inizio ed al termine
dell’allenamento, senpai ordina seiza e gli
allievi, udito il comando, devono, incominciando da kohai uno dopo l’altro in ordine di grado,
assumere la posizione seiza, poi senpai comanda mokuso, occhi chiusi per la meditazione, e in
seguito mokuso yame, istante in cui finisce la meditazione e si riaprono gli occhi. Talvolta, durante
mokuso, si recita il Dojo Kun del Maestro Tode Sakugawa, nella foto seguente, formato da 5 frasi:
senpai le enuncia ad alta voce una per una e gli altri studenti le ripetono.
HITOTSU, JINKAKU KANSEI NI TSUTOMURU KOTO;
prima di tutto perfezionare il carattere.
HITOTSU, MAKOTO NO MICHI O MAMURU KOTO;
prima di tutto percorrere la via della sincerità.
HITOTSU, DORYOKU NO SEISHIN O YASHINAU KOTO;
prima di tutto rinforzare instancabilmente lo spirito.
HITOTSU, REIGI O OMONZURU KOTO;
prima di tutto mettere in pratica un comportamento irreprensibile.
HITOTSU, KEKKI NO YU O IMASHIMURU KOTO;
prima di tutto ripudiare la violenza ed acquisire l’autocontrollo.
Dojo Kun, letteralmente significa luogo dove si studia e si segue la
via. Esso varia in base alla scuola e allo stile, quello qui riportato si
riferisce allo stile Shotokan. L’educazione secondo il Dojo Kun è
l’aspetto principale su cui insistere: una vita ed una condotta
governate da questi propositi, sicuramente tendono al bene, al buon
risultato ed alla serenità.
Al termine di mokuso, senpai inizia il rituale del saluto e pronuncia 3
comandi e per ognuno di questi si esegue Za rei:
Shomen ni rei rivolto in avanti, all’effige del maestro fondatore.
Sensei ni rei rivolto in avanti, all’istruttore o maestro del dojo.
Otagai ni rei il saluto tra gli allievi, ma sempre rivolto in avanti.
In seguito senpai comanda kiritsu, in piedi, e solo a questo punto gli studenti possono alzarsi per
iniziare o terminare la lezione.
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CAPITOLO SECONDO
L’ emozione nel Karate Do
Otto versi sulle Arti Marziali. 1. La mente è la stessa cosa col cielo e la terra.
2. Il ritmo circolatorio del corpo è simile al sole e la luna.
3. La Legge include durezza e soavità.
4. Agire in accordo col tempo ed il cambiamento.
5. Le tecniche succederanno in presenza di un vuoto.
6. Il Maai vuole avanzamento e retrocessione e separazione ed incontro.
7. Gli occhi non vengono tratti in inganno nemmeno dal più leggero dei cambiamenti.
8. I sensi percepiscono bene in tutte direzioni.
“La prima connotazione che indica kara è che la
tecnica di Karate permette di difendersi con le
proprie mani e senza armi. Conseguentemente, così
come il chiaro specchio riflette senza distorsione, o
come l’eco della valle tranquilla ripete un suono, lo
studente di Karate deve ripulirsi da egoismi e brutti
pensieri, perché solo con una mente chiara e
cosciente può capire ciò che riceve. Questo è un altro
significato dell’elemento kara in Karate Do. Coloro
che studiano Karate Do devono essere sempre
interiormente umili ed esteriormente gentili. Tuttavia,
chi decide di appoggiare la causa della giustizia, deve
avere il coraggio espresso nella frase "contro dieci
milioni di nemici, io vado!". Così si è come il verde
fusto di bambù, con kara all’interno, simbolo di
rettitudine, generosità, gentilezza e moderatezza;
anche questo significato è contenuto nell’elemento
kara di Karate Do”.
Il Buddismo Ch’an insegna a vuotare la mente, a liberarla da ogni idea preconcetta, da ogni
influenza esterna. Si può così arrivare ad uno stato di ricettività totale che permette di reagire
istintivamente al minimo stimolo. Una mente libera da ogni pensiero, priva d’aggressività o paura,
può percepire l’intenzione di un avversario ed agire di conseguenza; si può coltivare, vale a dire, un
sesto senso che permette di prevedere il pericolo. Invece se la mente è turbata da pensieri o da
preoccupazioni d’attacco o di difesa, non può cogliere correttamente le intenzioni dell’avversario e
può essere tratta in inganno anche da una banale finta.
Il Maestro Gichin Funakoshi.
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Il vuoto della mente ed il duro allenamento del corpo permettono di raggiungere l’unità di spirito e
corpo, il quale, temprato dall’esercizio e non più frenato dalla mente svuotata, è pronto a reagire
istantaneamente nel modo più efficace. Non vi è più nessun freno fra percezione e reazione il cui
tempo è il più breve possibile e la tecnica diventa perfetta. Le tecniche perfette sono sempre
eseguite in maniera inconscia, paradossalmente prima eseguite e poi pensate.
Si comprende perciò perché le arti marziali
tradizionali si svilupparono nei monasteri Ch’an,
luoghi ideali per praticare: alimentazione
frugale, il sonno permesso solo lo stretto
necessario, per di più su duri giacigli, lavoro ed
esercizio fisico molto intensi e disciplina severa.
Erano richiesti puntualità, resistenza al caldo, al
freddo e al dolore, autocontrollo, serenità di
fronte al pericolo ed alla morte.
Monastero e monaci Shaolin.
I Quattro Veleni.
Esistono quattro atteggiamenti mentali o intellettuali
negativi: ku la paura, gi il dubbio, kyo la sorpresa e
waku la confusione. Queste paure sono conosciute
come i Quattro Veleni del Ken Do. Un modo per
superarle è seguire l’insegnamento poiché, come nel
Ken Do, anche nel Karate Do ci si misura contro
questi quattro veleni. Confrontandosi risolutamente
con molti oppositori è possibile raggiungere la
calma della mente in modo da percepire qualunque
situazione con chiarezza ed obiettivamente:
esclusivamente in questo stato mentale l’azione
intuitiva diventa equilibrata.
Coloro che si dedicano a sport e attività pericolose, spesso affermano di recuperare una coscienza
acuta, nuova, della vita e delle sue bellezze, come risultato della loro lotta con la morte. Nelle Arti
Marziali, naturalmente, la morte è una presenza costante. L’intera attività ruota intorno ad essa e
attacco, difesa e contrattacco dovrebbero essere eseguiti tutti come se si trattasse veramente di una
questione di vita o di morte: in questo modo insieme all’impeto cresce l’abilità delle azioni. Il
confronto con la morte è inoltre il più importante elemento della spiritualità e la paura, che da esso
scaturisce, è l’ostacolo più grande per chi pratica arti marziali, che si presenta sotto forma di rigidità
o paralisi, oppure perdita di controllo: si può essere gelati dal terrore o si può esser presi dal panico
e reagire ciecamente e irrazionalmente. Una qualunque di queste reazioni, che s’insinui nel
combattimento al momento cruciale, significherà morte, anche per il lottatore tecnicamente più
preparato; ma la libertà da questa paura che immobilizza, concede grandi possibilità. Un
atteggiamento propizio predispone quindi a vivere una condizione migliore, infondendo maggior
sicurezza nelle proprie capacità, aumentando così la possibilità di raggiungere gli obbiettivi
prefissati: si può perciò affermare che un adeguato stato d’animo agisce come lubrificante sui
meccanismi decisionali migliorando così le condizioni di vita.
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Esiste, a proposito, un aneddoto che parla di un maestro della cerimonia giapponese del Tè, della
provincia di Tasa, un uomo privo d’abilità marziali ma di gran ricchezza spirituale. Egli, senza
volere, fece offesa ad un Samurai d’alto rango e fu sfidato a duello. Andò dal Maestro Zen per
trovare consiglio e questi affermò che aveva poche probabilità di sopravvivere ma che poteva
assicurarsi una morte onorevole affrontando il combattimento come fosse stato il rito formale della
cerimonia del Tè. Doveva raccogliere la propria mente, senza degnare d’attenzione i pensieri sulla
vita e sulla morte, impugnare la spada diritta davanti a sé, come avrebbe fatto con il cucchiaio della
cerimonia del Tè e, con la stessa precisione e concentrazione mentale con cui avrebbe versato
l’acqua bollente sul Tè, doveva avanzare senza pensare ed abbattere il suo avversario in un solo
colpo. Il Maestro del Tè si preparò secondo le istruzioni, liberandosi da ogni paura di morte. Giunse
la mattina del duello, ed il Samurai, trovandosi di fronte l’assoluta calma e mancanza di paura
dell’avversario, fu così colpito che per rispetto abbandonò il combattimento.
Nella cerimonia del Tè, Cha no Ju o Cha Do, eseguita dai Samurai prima di avventurarsi in
battaglia, si ricerca, attraverso la ripetizione ed il perfezionamento dei gesti, la perfetta
interiorizzazione dell’armonia. La mente, svuotata da
influssi negativi, è raccolta nel momento unico che
sta vivendo e che non tornerà più: qualsiasi oggetto
utilizzato, ogni gesto, diventa la dimostrazione
concreta dell’unione tra Sé e l’Universo.
Jet Li nel film Fearless: Huo Yuanjia, a sinistra,
celebra il rituale del Tè con il suo avversario
La concezione giapponese dell’ideale guerriero vede nel Samurai un fiero combattente, ma nello
stesso tempo un uomo di gran sensibilità affinata dal continuo confronto con la morte. Non per
niente il giovane Samurai era educato ad una gran cultura letteraria e religiosa affinché oltre a
divenire un valente uomo d’armi, non dimenticasse mai di dover essere un uomo completo.
Il dubbio è la sospensione del giudizio: quando le ragioni che sostengono un’opinione sono, o ci
paiono, equivalenti a quelle dell’opinione contraria, non possiamo pronunciarci a favore di una o
dell’altra, ma restiamo sospesi tra le due, dubitiamo. Il dubbio può essere definitivo, in altre parole
scetticismo, o momentaneo, prodotto transitorio della riflessione o strumento di ricerca. Nel primo
caso si tratta di dubbio sistematico, nel secondo di dubbio metodico, applicato e raccomandato da
Cartesio, il quale ha stabilito appunto questa differenza.
Gli scettici sono in dubbio per dubitare; Cartesio è in dubbio solo per
pervenire alla verità: il dubbio scettico è un fine e non è scientifico,
quello cartesiano un mezzo, un metodo per verificare e sperimentare
tutte le conoscenze. Cartesio lo enuncia così nel suo Discorso sul
metodo:
“Il primo (precetto) era di non accettare mai nessuna cosa per vera se
prima non l'avevo riconosciuta evidentemente essere tale [...] e di non
comprendere nei miei giudizi niente di più di ciò che si presentasse
così chiaramente e distintamente al mio spirito che io non avessi
alcuna occasione di metterlo in dubbio”.
Cartesio, Discorso sul metodo
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La sorpresa è un improvviso turbamento dello stato in cui ci si trova determinato da una o più cause
impreviste giunte repentinamente; nell’arte militare è uno dei fattori fondamentali d’impiego delle
forze nella condotta delle operazioni: sorpresa strategica, sorpresa tattica. L'esplorazione, i
dispositivi di sicurezza, l’osservazione, ecc. si attuano per prevenire le azioni di sorpresa del
nemico. Il sorprendere può generare esitazione e indecisione caratteristiche dell’incertezza in altre
parole di ciò che è instabile e poco sicuro: la persona incerta su ciò che avverrà può trovarsi in uno
stato di confusione tale da indurre turbamento e agitazione d’animo, i quali, a loro volta, possono
sviluppare impotenza temporanea a svolgere correttamente le azioni mentali, soprattutto quelle
sintetiche. La confusione mentale che ne scaturisce può condurre ad uno stato di disordine e di
sregolatezza di condotta tale da originare reazioni scomposte e disordinate. Il racconto del samurai e
del maestro Zen può essere d’insegnamento:
Un giorno, un samurai molto orgoglioso vide un maestro Zen nel suo tempio e, nonostante il
samurai fosse molto famoso, sorpreso dalla compostezza e dall’armonia del maestro Zen, si sentì
improvvisamente inferiore e rivolgendosi a lui con tono sommesso chiese:
Perché mi sento così inferiore? Solo un attimo fa tutto era normale ed ora invece, dopo averti visto,
mi sento più modesto. Non mi ero mai sentito così. Molte volte ho affrontato la morte, e non ho mai
avuto alcuna paura, ed ora invece sono intimorito.
Attendi, rispose il maestro, quando tutti saranno andati, io risponderò.
Per tutto il giorno le persone continuavano a fare visita al maestro Zen. Il samurai attese fino a sera,
quando non ci fu più nessuno, e chiese:
Puoi rispondermi ora?
Era una notte di luna piena e la luna stava sorgendo sola sull’orizzonte. Il maestro disse:
Vieni a guardare questi alberi: questo è alto nel cielo e questo accanto è piccolo. Da anni entrambi
esistono vicino alla mia finestra, e non ci sono mai state incertezze. Il più piccolo non ha detto mai
al più grande “Perché mi sento inferiore di fronte a te?”. Questo albero è piccolo e quello è
grande, perché non ho sentito mai alcun bisbiglio?
Il samurai rispose:
Perché loro non
possono paragonarsi.
Ed il maestro:
Non hai quindi
bisogno di chiedere a
me, tu conosci già la
risposta.
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Educare la mente.
L’arte, nel suo significato più ampio, ha per fine la sublimazione delle passioni, l’idealizzazione, la
purificazione o la spiritualizzazione in senso morale e la loro eliminazione in senso fisiologico: in
pratica ci libera dalla schiavitù dell’emotività perché l’emozione che essa ci procura è una medicina
che guarisce, fenomeno che possiamo ritrovare in maniera esplicita nella pratica del karate.
L’effetto della pratica nella continua ripetizione delle tecniche sviluppa una particolare disponibilità
della psiche, che come tale, non è tipica solo delle culture orientali, ma appartiene in generale
all’uomo. La condizione fisica che si accompagna alla pratica serve ad entrare in un particolare
stato mentale, definito di rilassatezza attenta, zanshin, condizione che per certi versi potrebbe essere
simile a quella del mistico o all’ispirazione dell’artista. Chiaramente l’ispirazione per esprimersi ha
bisogno di una tecnica per acquistare forma, e la tecnica per essere acquisita ha bisogno di studio e
di duro lavoro, quindi di pratica costante.
Zanshin si può tradurre anche come stato di vigile attenzione, dove shin è il
fuoco, in altre parole lo spirito che abita il corpo, come Mens Suprema
insita nella materia. Nel karate la parola zanshin è usata per intendere due
cose:
1. Determinazione per continuare lottando senza interruzione e senza
rinuncia.
2. Intenzione di guidare l’avversario, per condurlo ad una conclusione
idonea, tramite la forza di volontà.
Il concetto di zanshin ha gran significato, poiché insegna che in ogni caso
occorre concentrare l’attenzione sugli avversari e tuttavia esalta le capacità
dell’essere umano, poiché spinge l’individuo ad essere sempre fiducioso
nelle proprie azioni ed in grado di portarle a buon fine.
Zanshin si applica anche alla normale vita quotidiana, nelle attività pratiche, intellettuali e spirituali,
attività tra le quali non può esservi separazione, come spesso la visione occidentale induce a
credere. Nella condizione zanshin, quindi, la concentrazione e la fiducia nelle proprie capacità
impediscono allo spirito di dissiparsi e lo mantengono sotto controllo.
La scelta del metodo attraverso il quale è possibile allenare zanshin è molto importante, poiché,
nell’azione dinamica di un combattimento, molto dipende dalla consapevolezza che ognuno di noi
possiede riguardo questa condizione. Modelli rigidi di pensiero ed emozioni confuse tendono
sempre ad ostruire la comprensione, così l’anticipazione delle azioni dell’avversario diventa
difficile: attraverso la meditazione, o mokuso, è possibile aprire la mente per percepire meglio la
realtà. Ecco come praticare mokuso:
1. Sedersi sui talloni, con le gambe piegate, il collo dei piedi disteso ed appoggiato a terra, torace
in fuori, spalle e ascelle rilassate, le mani appoggiate sulle cosce con i gomiti vicini al busto ed
il naso allineato verticalmente con l’ombelico. È opportuno che le donne abbiano le ginocchia
vicine, mentre gli uomini alla distanza di due o tre pugni una dall’altra: questa postura, chiamata
anche zazen, prende il nome di seiza no shisei;
2. Mantenere la schiena dritta e lo sguardo in avanti per 1 - 2 minuti poi socchiudere gli occhi e
guardare, per altrettanti minuti, un punto sul pavimento ad un paio di metri di distanza;
3. Chiudere completamente gli occhi per altri 2 minuti, cercando di continuare a vedere, nella
propria immaginazione, il punto sul pavimento.
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Mokuso dovrebbe essere ripetuto idealmente almeno una volta ogni giorno per cinque o dieci
minuti ed integrato con gli esercizi di respirazione prima e dopo gli allenamenti.
Il Maestro Xhuangzi o Zhuang Zhi, 368 - 286 a.C, filosofo taoista cinese, scrisse forse il più antico
ed importante testo letterario indirizzato alle tecniche respiratorie ed alle pratiche fisiche. I suoi
insegnamenti si basavano sul metodo del Xin Zha o Digiuno della mente. Il fine è di acquisire uno
stato di percezione pura dell’intuizione, che non contempla in pratica alcuna conoscenza
intellettuale, in totale dimenticanza di sé stessi e del mondo circostante: pura esperienza senza che
su di essa si sia consumata l’elaborazione propria di un processo intellettivo.
Il digiuno della mente è lo stare seduti in completa dimenticanza: sedersi con Buddha è la pratica
della meditazione chiamata za zen nella filosofia Zen.
“Mi siedo e dimentico tutto.” sosteneva Xhuangzi. “Mi spoglio del corpo, dimentico i miei sensi,
abbandono ogni forma, annullo ogni ragione e mi congiungo a colui che abbraccia tutto. Ecco ciò
che intendo, quando affermo mi siedo e dimentico tutto”.
Nel Tao Te Ching, il libro della Via e della Virtù, Lao Tse, o Lao Tsu, esprime
il concetto del Wu Wei, letteralmente non fare, affermando di non desiderare
di intromettersi nell’organismo dell’Impero, immagine allegorica del cosmo.
L’unica azione concessa è il controllo degli eccessi: parlando della diversità
delle cose che formano il complesso dell’universo, non vuole altro che
accennare alla sconvenienza di chi, volendolo alterare, intendesse insinuarsi in
quel miracoloso ingranaggio che deve essere invece lasciato funzionare da sé.
Egli afferma:
Quand’un tien l’Impero e vuole agirlo, al fine io vidi ch’ei non lo raggiunge.
L’Impero è un meccanismo delicato, che non si può trattare.
Chi’ l tratta lo guasta, chi l’afferra lo perde,
Perché, in riguardo alle cose,
Alcuna va avanti e alcuna segue, alcuna è vampa e alcuna è fredda,
Alcuna è vigorosa e alcuna è debole, alcuna è duratura e alcuna è fragile,
E perciò, l’uomo saggio
Rigetta l’eccesso, rigetta la fastosità, rigetta la fama.
Frontespizio
dell’edizione del
Tao Te Ching
del 1775.
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L'incontro, tra Confucio e Lao Tsu, è spesso raffigurato nell’arte cinese e si racconta che Confucio
rimase così sconcertato che disse:
“So come volano gli uccelli, come nuotano i pesci, come
corrono gli animali. Ma c’è anche un drago, e io non so in
che modo sale sul vento attraverso le nuvole e vola in cielo.
Oggi ho visto Lao Tsu e posso paragonarlo al drago”.
Ciò che colpì Confucio fu un pensiero di Lao Tsu, quello di
ripagare l’offesa subita con la gentilezza. Confucio sosteneva
che era utile dare bene in cambio di bene e male in cambio di male ma Lao Tsu replicò:
“Con coloro che con me sono buoni, io sono buono, e con coloro che non lo sono, sono ugualmente
buono, così tutti diventeranno buoni. Con coloro che sono sinceri con me, io sono sincero e con
coloro che non lo sono, sono egualmente sincero, così tutti saranno sinceri”.
L’aggressività.
“L’aggressività fa parte della condizione umana ed ha un
ruolo molto importante nello sviluppo del bambino. La violenza
interiore dà l’energia e la motivazione necessaria al
superamento di Sé e facilita il successo fintanto che resta nei
limiti controllati del soggetto. L’educazione non consiste,
quindi nel distruggerla, ma nell’indirizzarla per sfruttarne l’energia al servizio d’obbiettivi giusti per sé stessi e per il
prossimo”, tratto da: L’aggressività, di Edwige Antier.
La pratica del Karate, vista da questa prospettiva, non predilige gli obiettivi più classici come
l’agonismo o l’autodifesa ma utilizza questi ultimi come veri e propri strumenti educativi utili allo
sviluppo della personalità dell’individuo, sia in direzione degli allievi sia degli stessi insegnanti. Il
karate analizzato da un punto di vista fisiologico migliora il controllo respiratorio, la contrazione
muscolare, l’equilibrio e soprattutto l’aspetto psicofisico poiché il rinvigorimento delle proprie
capacità aiuta nell’affrontare le difficoltà: un allenamento di karate è una vera e propria palestra
emotiva, ed il gioco combattimento scatena molteplici reazioni che contribuiscono a strutturare
modalità comportamentali stabili e funzionali al fine di superare esperienze di disagio e di
conflittualità. L’ arte marziale diventa così una disciplina che induce nel tempo all’acquisizione di
regole di vita basate sul rispetto, sul rafforzamento della volontà di superare le difficoltà, sia fisiche
sia mentali, e sui principi, di forza e lealtà, tipici delle dottrine orientali. Le tecniche taoiste di
respirazione e di meditazione, hanno, infatti, avuto importanza decisiva, dal punto di vista
psicologico, nello sviluppo delle arti marziali. Lo stesso Lao Tsu afferma:
“Un buon guerriero non è bellicoso”.
“Un buon combattente non è collerico”.
“Un buon vincitore non dà battaglia”.
“Un buon comandante è un uomo umile”.
“Non c’è disgrazia più grande che prendere alla leggera il proprio avversario”.
“Fra due combattenti vince colui che cede”.
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La morbidezza e la cedevolezza sono quindi qualità necessarie nella pratica delle arti marziali: non
bisogna, infatti, opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzarne la forza, aspetto studiato
particolarmente nel T'ai Chi Ch’uan, creato dal monaco taoista Chang San Feng, e nell’Aikido, di
Morihei Ueshiba. I principi di queste dottrine sono in perfetto accordo con i precetti del Taoismo:
possono, infatti, considerarsi arti marziali in cui i principi della morbidezza e della cedevolezza
sono di fondamentale importanza. Possono inoltre essere considerate come forme di ginnastica utili
a conferire longevità e salute al corpo umano ed anche forme di meditazione dinamica. L’umiltà
diventa perciò una delle virtù fondamentali del praticante.
Lo Zen e così il Karate pongono di sicuro il praticante
di fronte ai propri limiti e paure: se la pratica è
corretta, l’addestramento tecnico si congiunge
naturalmente ad una trasformazione interiore.
La violenza, intrinseca alla tecnica marziale, allenata
al fine di annientare l’avversario, è sublimata dal
profondo sentimento di rispetto e d’umiltà che
guidano l’esperienza nel Dojo.
Scena di riprovevole violenza sportiva.
Chi esercita le arti marziali, inevitabilmente diventa consapevole che l’incontro con l’avversario è
l’incontro con sé stessi: le paure, le incertezze, le debolezze, come l’aggressività e l’arroganza, sono
riconosciute per ciò che sono; la pratica costante conduce alla percezione di una legge ferrea, dettata
dalla propria volontà, che impone di non utilizzare le proprie abilità marziali se non in caso di
assoluta necessità. Questo concetto è ben espresso dal Maestro Sokon Matsumura uno dei primi
grandi Maestri d’Okinawa Te, il quale scrive:
“Le tre specie, nella via dell’arte marziale, sono:
1. L’arte marziale dell’intellettuale.
2. L’arte marziale del pretenzioso.
3. L’arte marziale del Budo.
Nell'arte marziale dell’intellettuale, si pensa ai vari modi d’allenamento e si
cambiano spesso senza approfondirli. Si conoscono numerose tecniche, ma
la pratica è come una danza e si è incapaci di applicarle in combattimento.
Nell'arte marziale del pretenzioso ci si agita molto senza allenarsi realmente, tuttavia si parla
spesso delle proprie imprese gloriose. Si provocano zuffe e si offendono gli altri. Secondo le
circostanze si rischia di distruggersi o di disonorare la propria famiglia.
Nell'arte marziale del Budo le cose vanno a buon fine: con uno studio ed una pratica costanti, si
resta calmi anche quando gli altri sono agitati e si vince dominando il proprio spirito e quello dell’avversario. Elaborare la propria arte conduce a manifestare le capacità superiori e sottili, a
restare senza turbamento in ogni situazione, a non essere al di fuori di sé, e se si tratta di lealtà e
di fedeltà verso il proprio signore e i propri genitori, si diventa una tigre feroce, un’aquila piena di
dignità; avendo la rapidità di visione di un uccello, si può vincere qualunque nemico.
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L'obiettivo dell’arte marziale consiste in:
Sviluppare le qualità della persona,
Dominare la violenza,
Non usare le armi,
Proteggere il popolo,
Assicurare al popolo la tranquillità,
Creare armonia tra i gruppi,
Accrescere i beni della società.
Inutile è l’arte marziale dell’intellettuale e del pretenzioso. Io desidero che tutti proseguano nel
senso dell’arte marziale del Budo e che siano capaci di reagire opportunamente secondo le
mutevoli situazioni, dominandole. Ho scritto quanto sopra senza alcuna reticenza, poiché è con
questo spirito che ognuno deve continuare ad approfondire il proprio allenamento.”
L’equilibrio di In e Io.
Il Taoismo ha influenzato in modo importante le Arti Marziali Tradizionali.
Per il principio del Wu Wei queste arti non sono aggressive, ma
esclusivamente di carattere pacifico: non bisogna, infatti, agire attaccando,
ma adattare la nostra azione a quella dell’avversario. La parola cinese Yin
rappresenta ciò che è negativo o passivo, inerte, muto, materiale, pesante,
tenebroso. Yang ciò che è positivo, attivo, espansivo, leggero, luminoso. Yin
segue il movimento e Yang lo esegue. Niente è interamente Yang o Yin: Yin
genera Yang, Yang genera Yin. I suoi analoghi giapponesi sono: In e Io. Nel
budo il positivo Io, si dice omote o irimi, il negativo In, ura o tenkan.
La pratica costante del karate rafforza l’idea che prima di affrontare qualsiasi conflitto è necessario
conoscere bene se stessi, per poter essere in grado di incontrare l’avversario: in poche parole il
karate è un’arte marziale introspettiva, e in conseguenza di ciò, solo attraverso la reale conoscenza
di sé stessi è possibile intraprendere la vera via del karate. A tal fine è indispensabile:
1. Essere consapevoli del proprio stato emotivo, in pratica riconoscere le proprie emozioni e la
loro importanza, al fine di sviluppare l’intuito per orientarsi nelle decisioni;
2. Essere in grado di valutare le proprie capacità, riconoscendo i propri limiti e punti di forza al
fine di sviluppare la sensazione d’empatia, vale a dire la percezione dell’emozione degli altri
individui per comprenderne il punto di vista;
3. Essere in grado di gestire le risorse emozionali e fisiche tramite l’autovalutazione;
4. Essere fiduciosi in sé stessi nella giusta misura, al fine di superare qualunque ostacolo senza per
questo precludere la consapevolezza di doversi costantemente migliorare;
5. Essere trasparente, avere in altre parole la mente vuota, pulita ed integra, affinché l’energia
interiore possa scorrere liberamente;
6. Essere adattabile, vale a dire avere la capacità di adeguarsi alle situazioni mutevoli per evitare di
essere colti impreparati;
7. Avere spirito d’iniziativa, in pratica essere pronti all’azione per poter afferrare le opportunità;
8. Essere concretamente orientati verso il raggiungimento del risultato prefissato.
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Il karate è una disciplina che richiede poca forza e può essere praticato a qualsiasi età e per tutta la
vita; l’allenamento è sia fisico, in modo prevalente nei principianti, che mentale, in età avanzata.
Scopo fondamentale del karate è senza dubbio, quello di coltivare un potere di osservazione tale da
permettere di comprendere la vera essenza delle cose. Obbiettivo da raggiungere è quello di
acquisire la capacità di conoscere la propria realtà. Quando si raggiunge questo stadio non si ha più
né ego né presunzione alcuna, si può esaminare sé stessi con imparziale correttezza:
Muga No Kyochi, stato di non ego;
Meikyo Shisui No Kyochi, mente lucida, chiara come specchio senza macchia o acqua immobile;
Sono espressioni che si riferiscono al medesimo stato mentale e coloro che lo raggiungono sono
detti Tatsu Jin, uomini realizzati o uomini perfetti, dai quali è impossibile avere opinioni errate o
incomplete. Le persone presuntuose o avide sono generalmente sconfitte, però, attraverso la
sconfitta, la loro presunzione viene meno ed essi apprendono gradualmente ad esaminare sé stessi
oggettivamente, fino a far scomparire ogni traccia di egoismo così da giungere alla calma della
mente totalmente purificata come uno specchio senza nubi. Solo una mente di questo genere
conterrà un infinito movimento controllato dal nulla:
Sei Chu Do, movimento in tranquillità;
Fudo Shin, mente immobile;
Shi Shin, mente libera da ostacoli;
Choku, determinazione nel perseguire i propri obiettivi lealmente senza esitazioni;
Sei, imperturbabilità, lucidità e concentrazione per prendere le decisioni migliori;
Soku, rapidità, tempestività d’azione e risolutezza di giudizio.
Il confronto con gli stati emotivi che si susseguono nelle fasi della pratica, attraverso il kata, il
kihon ed il kumite, fanno del karate un’arte marziale che non solo sviluppa l’autocontrollo, la
consapevolezza, l’incanalamento e l’utilizzo delle proprie energie, ma soprattutto migliora le
relazioni personali ed il carattere.
Haragei.
La parola eroe deriva dal latino hera, o ara, e rappresenta la divinità della Terra. Quindi eroe è il
figlio di Ara, ossia della Terra, divinizzazione del grembo materno, e la sua più grande qualità è
l’arethe, cioè la virtù guerriera, termine greco derivante dal sanscrito arya, poi esteso per designare
il ceppo indoeuropeo o Ario.
Molti vocaboli derivano dall’originario ceppo linguistico indoeuropeo, ed anche in giapponese il
ventre è chiamato hara.
L’haragei è la capacità di intuire il pericolo; tradizionalmente questo speciale intuito è appunto
localizzato nell’hara. Si narra che i più abili samurai intuivano, tramite le percezioni dell’hara,
l’arrivo del colpo anche ad occhi chiusi.
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Nel film di Akira Kurosawa, I sette samurai, un samurai esperto, avverte il pericolo prima di
varcare una soglia, dimostrando piena padronanza dell’haragei.
Oltre il mito, la moderna fisiologia parla di un
centro propriocettore o analizzatore cinestetico
che è un sistema che percepisce il movimento a
livello del sistema nervoso periferico.
In ogni persona è insito un lato oscuro nel quale si
celano gli istinti naturali che la civiltà moderna
tende a rimuovere: poiché essi non sono
riconosciuti e canalizzati verso un’adeguata
manifestazione, riappaiono con la veste degenere
della paura e della violenza.
È indispensabile perciò riconoscere i nostri demoni
interiori che sono i veri nemici: la via del
miglioramento è quindi dentro di noi, nel
laboratorio in cui si opera costantemente la
trasformazione di sé stessi, delle proprie
potenzialità, attraverso un processo di modifica e
rinnovamento, per giungere, infine, alla reintegrazione di spirito, anima e corpo.
Conoscenza delle tradizioni, modifica e cambiamento, sono dunque le regole auree delle arti
marziali; percorrendo la Via, è possibile raggiungere l’armonizzazione d’ogni funzione vitale e
corporea, trasformando un gesto qualsiasi in un vero gesto marziale.
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Nelle originali scuole marziali del Giappone antico, l’apprendimento della
tecnica di combattimento, chiamata jutsu o jitsu, aveva valenza militare. Con
l’avvento dell’era Meiji, verso la fine dell’Ottocento, con la forzata
modernizzazione del Giappone e la fine della casta dei Samurai, si
accantonò l’aspetto guerriero delle arti marziali per accentuarne soprattutto
il lato spirituale e educativo: la ricerca della Via o Do. La desinenza jutsu, in
parole come ju jutsu, ken jutsu, bo jutsu, diventa il do delle moderne arti
marziali: ju do, karate do, aiki do, ken do, ed il termine bu jutsu si trasforma
in budo, nel quale le tecniche di lotta perdono il riferimento militare ed
acquisiscono il senso di perfezionamento, appunto la ricerca della Via.
Tuttavia, chi vuol comprendere e studiare a fondo le arti marziali, non può trascurare la conoscenza
delle tradizioni e del mito che ne originano la nascita. Il tempo del mito, come scrive Eliade Mircea,
è circolare e quindi infinito, ed è perciò che lo spirito dell’antico guerriero della storia è racchiuso
nel mito:
Solo studiando il mito è possibile ricostruire la storia.
Nel Mahabharata, testo sacro vedico probabilmente
del V secolo a.C. del quale a fianco un’illustrazione, è
scritto: “È un guerriero colui che si oppone al caos.“
Caos inteso non come mero disordine, ma come
smarrimento dei reali valori della vita e della
comprensione del loro enorme significato, spesso
rivelato da simboli.
Il Dojo, il luogo ove si praticano le arti marziali, è un
simbolo sacro per eccellenza, essendo il luogo dove si
consegue la conoscenza per proseguir nella Via, il
kimono è bianco perché è il simbolo dell’anima che va
verso la luce ed il nodo della cintura è a forma di 8,
simbolo dell’infinito.
Nel karate l’apprendimento è fondato sul principio giapponese Shin Gi Tai, Spirito, Tecnica e
Corpo, dove ogni condizione è sempre strettamente legata, e in parte inclusa, nelle altre due:
1. Shin, la mente o lo spirito, il quale deve tendere al più alto livello, ovvero al bene dell’umanità,
totalmente votato al conseguimento di questo ideale;
2. Gi, la tecnica cioè il mezzo, il metodo con il quale si percorre questo cammino;
3. Tai, il corpo, lo strumento che concede, tramite il metodo, di educare lo spirito.
La ricerca dell’equilibrio tra questi tre aspetti conduce al ritrovamento dei valori etici e morali.