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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E DI SCIENZA POLITICA 3/2011 on-line

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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA

DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E

DI SCIENZA POLITICA

3/2011

on-line

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DAEDALUS Quaderni di Storia e Scienze Sociali Direzione scientifica

Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni, Al-berto Ventura

Redattori e collaboratori Luca Addante, Olimpia Affuso, Rosa Maria Cappelli, Re-nata Ciaccio, Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Fran-cesco Di Vasto, Loredana Donnici, Aurelio Garofalo (†), Teresa Grande, Salvatore Inglese, Donatella Loprieno, Francesco Mainieri, Matteo Marini, Patrizia Nardi, Saverio Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina Pellegrino, Maria Perri, Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Manuela Stran-ges, Pia Tucci

Direzione e redazione e amministrazione Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria 87036 Arcavacata di Rende (Cosenza).

Tel. 0984 492568-67-65-32 E-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected]

Direttore Responsabile Pia Tucci

Numero 3/2011 on-line Numero 22/2011seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea

Pubblicato on line nel Marzo 2011

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Daedalus 2011 Sguardi incrociati sul Mediterraneo

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BRUNELLA TOCCI

LINGUA E LINGUE NEL MEDITERRANEO

La parola è come l’acqua di fonte, un’acqua che ha in sé i sapori del-

la roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata. Le pa-

role che ci giungono da età remote, sono fossili (…)1

Giorgio Pasquali

INTRODUZIONE

Forse non è molto lontano dal vero pensare che oggi in chi si accinge

ad occuparsi della lingua e delle lingue del Mediterraneo, la reazione

più comune sia quasi sempre mista tra il fascino e il disagio. Le ragio-

ni del fascino sono più facili a dirsi, evocate anche dalla citazione in-

troduttiva che ben riflette lo spirito che ha accompagnato la stesura di

questo scritto, vale a dire la consapevolezza di trovarsi di fronte alla

storia millenaria delle popolazioni mediterranee che, venendo a con-

tatto nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni, hanno generato feno-

meni linguistici e culturali di straordinaria forma e bellezza. Il disagio

è invece legato alla presenza di concetti che a volte resistono ai tenta-

tivi più raffinati dell‟esegesi specialistica, per la valenza interdiscipli-

nare e multiplanare dello studio che li riguarda, talmente ampio da in-

durre primariamente a limitare l‟oggetto stesso dell‟analisi e il campo

di indagine. Non ci si deve illudere perciò: il discorso sulla lingua e

sulle lingue del Mediterraneo si configura complesso e assolutamente

non scontato. Riferirsi alla lingua – al singolare - e alle lingue – al plurale – in

uso in un determinato territorio, significa ipotizzare la presenza in un

dato periodo storico di un idioma comune e, al tempo stesso, di un

certo numero di varietà linguistiche2.

1G. Pasquali, (1952) Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo, Firenze, La Nuova Italia,

s.n.p. 2Nel nostro caso l‟area mediterranea, costituita dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo e dal

Mediterraneo stesso, cioè dai popoli che transitano attraverso di esso.

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Rispetto ad un territorio che costituisce uno stato-nazione è ab-

bastanza agevole individuare ed esplicitare le varie categorie linguisti-

che, mentre rispetto ad un‟area geografica comprendente parti di più

stati-nazioni, differenti etnie, religioni e culture, risulta, come vedre-

mo, alquanto spinoso e assolutamente non ovvio discutere sul signifi-

cato di questa opposizione dialogica, ma a volte dicotomica, che sta

alla base della trattazione, tra una lingua del Mediterraneo e le lingue

del Mediterraneo.

Senza indulgere in preliminari, è stata avviata la ricerca di elementi

che avvalorassero l‟esistenza di un‟unità linguistica del Mediterraneo

o, al contrario, la escludessero. Ciò si è concretizzato nella ricerca di

caratteri comuni tra le lingue e le identità dei popoli del Mediterraneo,

per lo stretto rapporto, seppure non ovvio, esistente tra esse.

Oggi scrutando il Mediterraneo non si riesce ad intravedere una lingua

di tutti; tuttavia, se trattare di lingua del Mediterraneo in una prospet-

tiva diacronica ha un suo senso, come si vedrà in seguito, occuparsene

con riferimento al presente richiede la formulazione della questione in

un‟altra forma, che tenga conto:

dei tratti comuni fra le lingue attualmente parlate nel bacino del

Mediterraneo, derivanti dal contatto tra gli spazi linguistici e

culturali di comunità linguistiche sporgenti su di esso;

del fenomeno del plurilinguismo, che negli ultimi anni sta con-

ferendo alla regione un nuovo aspetto;

del se e del come si comunica in questa area geografica etero-

genea dal punto di vista etnico, religioso, politico, economico,

linguistico e culturale.

Intersecando gli strati della lingua e dei dialetti delle società

Mediterranee è stato agevole cogliere stratificazioni di singolare inte-

resse storico, fenomeni di sostrato, sedimentazioni e innovazioni: voci

antiche che si proiettano sul presente e voci moderne che poggiano

sulle rovine storiche, mai cancellate, del passato, lasciandolo soprav-

vivere anche là dove il parlante non ne riconosce più la presenza3.

Alla ricerca di risposte, è iniziato un interessante ed intrigante

viaggio attraverso la storia linguistica del Mediterraneo volto a confe-

3Un esempio è la Sicilia dove arabo, gallo-romanzo e ibero-romanzo hanno dato luogo a ibrida-

zioni linguistiche stupefacenti.

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rire un ordinamento storico-cronologico al fenomeno linguistico, ma

soprattutto a focalizzare i due fenomeni sociolinguistici più ampi e ri-

correnti nell‟evoluzione del Mediterraneo, che sono la colonizzazione

linguistica e il plurilinguismo. La cronologia è stata utile per stabilire

un ordine degli eventi, ma la sintesi operata ha consentito di indagare

la lingua in una prospettiva di lungo periodo come struttura culturale

e antropologica, più che come struttura storica contingente.

Attraverso questa ricostruzione storica si è giunti alla raffigura-

zione odierna delle lingue nella regione, raggruppandole in famiglie

linguistiche e, soprattutto, delineando quei fenomeni sociolinguistici e

culturali rilevanti in atto.

In conclusione si è discusso sul senso della riscoperta di una

unità mediterranea dal punto di vista linguistico, nella prospettiva più

ampia della traduzione eterolinguale e interculturale, in vista della co-

struzione di una alternativa mediterranea contrassegnata dalla coope-

razione culturale. Senza pretesa di esaustività - non si ha la presunzio-

ne di coprire la totalità delle discipline interessate al contatto tra lin-

gue - e anteponendo i limiti della posizione esperienziale di chi scrive,

si cercherà di fornire delle risposte collocandosi all‟interno di

un‟analisi integrata di tipo sociolinguistico: il Mediterraneo costituisce

il campo di applicazione perfetto per questa disciplina, che focalizza il

rapporto tra lingua e società e, in particolar modo, le variazioni dia-

croniche e sincroniche della lingua nello spazio, negli strati, nelle si-

tuazioni, negli scritti e nei discorsi orali, formali e informali, della vita

quotidiana. Il Mediterraneo rappresenta un laboratorio ideale per lo

studio della natura e delle manifestazioni della variabilità linguistica e

della covarianza tra i fatti linguistici e le variabili sociali.

Quella proposta, quindi, è una riflessione sul Mediterraneo e sulle co-

munità linguistiche presenti al suo interno, finalizzata a delineare, an-

che se in forma necessariamente schematica, il contributo e il ruolo

che diverse – diatopicamente - e varie – diastraticamente - esperienze

e realtà extralinguistiche di questa zona hanno esercitato ed esercitano

sulla lingua dei popoli del Mediterraneo.

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STORIA LINGUISTICA DEL MEDITERRANEO

Corrispondendo ai temi enunciati in apertura si procede ad analizzare

la storia della lingua dal punto di vista sociolinguistico e, quindi, in

una prospettiva esterna, le lingue nell‟ampio contesto della storia so-

ciale e culturale del popolo che le usa e in relazione alle altre lingue e

dialetti con cui queste comunità linguistiche sono entrate a contatto

nel lungo periodo (Marazzini 2007).

Si può constatare che, in senso lato, la colonizzazione è stata un

fenomeno costante dell‟umanità intera. Tutte le occupazioni da parte

di una comunità che procede da un territorio ad un altro con la forza,

l‟intimidazione o la minaccia, o in generale per l‟esplorazione, sono

atti di colonizzazione a cui si accompagnano la messa in tutela delle

popolazioni indigene, l‟espulsione o lo sterminio.

Nella preistoria si ipotizzano migrazioni rese necessarie

dall‟esigenza di cercare luoghi più consoni alla pratica dell‟agricoltura

e della pastorizia, ma anche in seguito e in forza di mutamenti climati-

ci. Queste migrazioni sono state alla base della diffusione delle lingue.

Allo stesso modo, nella tarda preistoria e nelle prime epoche storiche,

alcune famiglie linguistiche hanno ampliato il loro sviluppo grazie

all‟effetto trainante di culture che sono riuscite ad imporre il loro do-

minio su altre culture con l‟organizzazione o il prestigio derivante dal

possesso di determinate tecnologie, dai saperi e dalla potenza milita-

re4. Le forme più antiche e documentate di colonizzazione sono quelle

che hanno riguardato proprio le coste del Mediterraneo la cui storia

risulta molto contrastata, complessa e segnata da due espansioni lin-

guistiche molto forti: quella del latino e quella dell‟arabo.

Al termine delle guerre puniche - I secolo a.C. - con la creazio-

ne dell‟impero romano d‟Occidente e d‟Oriente - I e II secolo d.C. - la

lingua latina venne imposta nell‟attuale Africa del Nord, nell‟Asia

Minore e in Turchia imponendo la latinizzazione forzata ai territori

conquistati. Le lingue autoctone non scomparvero del tutto, seguitaro-

4Tale, ad esempio, lo sviluppo delle famiglia indoeuropea verso l‟Iran, il Pakistan e l‟India set-

tentrionale nel II millennio a.C. e lo sviluppo della famiglia altaica nell‟Asia centrale basata sulla forza dei guerrieri a cavallo e, in una prospettiva a noi più familiare, l‟evoluzione della presen-

za del greco e della koinè greca, del latino e dell‟arabo nel bacino del Mediterraneo.

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no ad essere parlate, ma col tempo furono corrotte irrimediabilmente e

sempre in misura maggiore dalla lingua dei dominatori.

Il greco fu l‟unico idioma straniero verso il quale i romani pro-

varono rispetto: ritennero utile impararlo al fine di completare e perfe-

zionare la propria cultura e, forse per tale motivo, la parte orientale

dell‟impero, prima e dopo la divisione ufficiale tra Arcadio e Onorio,

non fu mai latinizzata: oltre che nei Balcani, dalla Cirenaica all‟Egitto e nelle province romane dell‟Asia si parlava diffusamente il greco

5.

Se all‟inizio del Medioevo, al momento della caduta

dell‟impero romano d‟Occidente, il latino si era ormai consolidato at-

traverso l‟espansione politica di Roma e costituiva ancora la lingua

parlata in gran parte d‟Europa e del Mediterraneo, alla fine del Medio-

evo, la situazione era ormai ben diversa: il latino non era più compre-

so né parlato dal popolo, e il suo spazio, ancora considerevole, era

ormai confinato alla scrittura. Come si desume, il grande fenomeno

della trasformazione linguistica aveva riguardato prima di tutto lo spa-

zio dell‟oralità: la comunicazione parlata venne affidata a nuove lin-

gue, soprattutto alle lingue romanze6, vale a dire il portoghese, lo spa-

gnolo, il catalano, il francese, l‟occitano, l‟italiano e i suoi dialetti, il

sardo e il rumeno.

Vale la pena però sottolineare che nella diacronia il continuum

del parlato non subisce mai nessuna interruzione improvvisa: infatti

questi processi sono lenti e graduali e nessuna generazione, nel passa-

to come nel presente, ha usato una lingua del tutto diversa rispetto a

quella della generazione precedente. Inoltre sincronicamente, cioè nel-

lo stesso momento, sono differenti le varietà della lingua usate nei vari

ambiti della vita sociale, per cui accanto ad una lingua dominante sus-

5Più precisamente in epoca romana si era diffuso largamente nel Mediterraneo il greco ellenisti-

co, in cui è inclusa la koinè dialèctos o koinè greca, e successivamente il greco bizantino e me-

dievale fino alla conquista araba. Dopo la vittoria sui goti, l‟impero d‟Oriente conservò a lungo il controllo di alcuni territori italiani, quali l‟esarcato di Ravenna, la Pentapoli, il corridoio umbro,

Roma e il Lazio, la Calabria e il Salento dove sopravvissero isolate colonie greche, le cui tracce

sono giunte a noi attraverso i secoli. 6Il termine romanze associato a lingue permette di riconoscere subito, sotteso il nome di Roma:

anche se una corretta interpretazione etimologica ci mostra che il termine romanze designante le

lingue derivate dal latino non ci è giunto direttamente, ma è passato attraverso il francese antico romanz, a sua volta derivato dall‟avverbio presente nella locuzione medievale “romanice loqui”

(parlare romanamente)

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sistono dialetti, linguaggi settoriali, varietà diastratiche e via dicendo

(Tocci, 2008).

Più tardi il divario tra il latino e il volgare, più propriamente la-

tino parlato o comune, emerse e fu accettato. L‟unità latina lasciò il

posto a profonde differenziazioni locali avviando in quasi tutti gli stati

europei un confronto tra le nuove parlate, non tutte destinate al mede-

simo successo, nell‟acquisizione di ciò di cui essi ancora erano privi:

la scrittura e la cultura. In Italia prevalse il toscano, in Francia il dia-

letto parigino, in Spagna il castigliano e via dicendo.

Ciò non accadde nell‟Africa settentrionale: prova ne è che se si

fosse formata una lingua romanza, avrebbe avuto verosimilmente al-

cune analogie con le lingue neolatine. Questa parte dell‟Africa, abitata

da popolazioni berbere, come si vedrà meglio in seguito, fu coinvolta

in eventi che ne condizionarono l‟evoluzione linguistica anche nei

luoghi in cui la romanizzazione non era stata superficiale.

In seguito la crisi dell‟impero significò in primo luogo la fine

della funzione omologatrice dell‟amministrazione, dell‟istruzione e

della comunicazione, cui fece seguito la differenziazione linguistica,

un processo già in atto, ma che il prestigio di Roma aveva saputo fre-

nare.

L‟altra grande lingua del Mediterraneo antico, come già antici-

pato, fu il greco, ma esso per quanto prestigioso non fu altrettanto pro-

lifico e diffuso quanto il latino, infatti da esso non nacquero idiomi

nuovi e diversi. Col tempo, nei luoghi in cui il greco sopravvisse, si

stabilì semplicemente una situazione di diglossia, per l‟opposizione

tra lingua popolare - da cui derivò il greco moderno - e greco scritto7.

Un certo ruolo nella storia linguistica del Mediterraneo ebbero

anche le Crociate e le grandi città marinare, in particolare Venezia e

Genova. A questo proposito ci limiteremo a dire che il Mediterraneo,

nella fattispecie le isole di Cipro, Rodi e Creta, conservano le tracce di

entrambe queste influenze.

7Successivamente, a parte i prestiti lasciati alle altre lingue, il regresso del greco come lingua

parlata fu costante: infatti nel Medioevo attorno all‟anno Mille, l‟area grecofona fu ridimensiona-

ta da nuove componenti slave e balcano - romanze in Macedonia, nella penisola calcidica setten-trionale e in Laconia. Più tardi, nei secoli XI e XII, un ulteriore ridimensionamento della greco-

fonia fu causato dall‟avanzata dei turchi alla conquista dell‟Asia minore.

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Le modalità della radicale trasformazione, spesso della sostitu-

zione, di culture che si ebbero con l‟arrivo degli arabi, non possono

non stupire. Identificare la presenza araba in Africa solo come tappa di

espansione verso la Spagna o la Sicilia viene considerato un errore

storico, in quanto essa va intesa come elemento storico di popolamen-

to e di organizzazione civile portato avanti sulla base del Corano

(Scorcia Amaretti 2006).

Il predominio arabo nel Mediterraneo durò dal 647 al 1518 ri-

guardando dapprincipio l‟Africa settentrionale, vale a dire Egitto,

Tripolitania, Tunisia e Maghreb, territori abitati da tempi immemora-

bili da popolazioni berbere in parte cristianizzate, che da questo mo-

mento in poi furono coinvolte in un processo di fusione con gli inva-

sori (Camps 1996).

Le migrazioni arabe cambiarono la fisionomia etnica di questa

vasta regione, che subì radicali trasformazioni anche in termini di or-

dinamento sociale e amministrativo, di lingua e di religione. Questi tre

elementi di trasformazione furono alla base di tutte le vicende norda-

fricane susseguenti.

La diffusione della lingua araba venne in qualche modo raffor-

zata dall‟obbligo di pronunciare in questa lingua le frasi essenziali per

l‟adesione all‟Islam e le procedure fondamentali della liturgia; il Co-

rano non poteva essere tradotto in altra lingua, cosicché l‟arabo assun-

se il carattere di lingua sacra esemplare, divenendo un tesoro da con-

servare e preservare.

In un primo momento, tra il VII e il XI secolo, la penetrazione

linguistica araba interessò le città; qui, di fatto, l‟arabo letterario urba-

no dette origine, nella conversazione quotidiana, a un arabo maghre-

bino popolare con termini berberi. Successivamente si propagò pres-

so le tribù berbere nomadi e soprattutto tra gli Zeneti, nell‟attuale Al-

geria. Sebbene l‟Africa fosse abitata dalla preistoria e ancorché siano

state trovate tracce di sistemi indigeni di segni e ideogrammi, questi

non avrebbero acquisito l‟ampiezza e la diffusione necessaria per esse-

re considerati scritture sino alla conquista araba. In un continente co-

me l‟Africa, in cui si era edificata una civiltà della parola, intesa qui

nel senso dell‟oralità, i primi scritti fecero la loro apparizione sola-

mente con gli arabi, primi a mettere per iscritto le lingue locali, ma

seguiti dagli europei che in massima parte lasciarono ai missionari il

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compito di trascrizione e traduzione, senza curarsi adeguatamente del-

le modalità con cui queste attività venissero messe in atto. Questa ten-

denza si manifestò nei secoli seguenti e ogni volta che, secondo una

visione etnocentrica diffusa e venata di razzismo, tutte le manifesta-

zioni della vita comunitaria in Africa venivano sistemate in un ordine

inferiore, perché non c’era nulla da imparare dagli africani.

Dall‟Africa settentrionale, l‟avanzata degli arabi proseguì verso

il mare, raggiungendo solo saltuariamente la Sardegna, ma coloniz-

zando profondamente la Sicilia e assoggettandola ad un intenso pro-

cesso di acculturazione cui fu sottratta parzialmente dalla riconquista

operata dai normanni8. Ancora più vigoroso fu il movimento verso la

Spagna, causa della distruzione del regno visigoto e, successivamente,

dello sviluppo economico e culturale dell‟emirato di Cordova.

Le conseguenze linguistiche e culturali dei rapporti tra

l‟universo arabo e quello dell‟Europa mediterranea sono stati di note-

vole portata. Dopo il periodo dei quattro successori di Maometto (632

- 661) e quello dei califfi Umayyadi (661 - 750), che avevano colloca-

to Damasco al centro politico dell‟impero, il territorio dell‟Islam si

ampliò a spese del cosiddetto territorio di conquista sotto i califfi Ab-

basidi. Costoro, almeno formalmente, mantennero il potere finché Ba-

gdad fu conquistata dai mongoli nel 1258. Tra la fine del IX secolo e

gli inizi del X secolo, l‟impero Abbaside si frantumò in una serie di

regni locali, alcuni dei quali si spinsero fino alla Spagna e alla Sicilia.

Fra questi il califfato Umayyade in al-Andalus, che resistette fino alla

Reconquista terminata simbolicamente con la presa di Granada nel

1492.

Ben presto, dopo l‟avvento dei Selgiudichi, l‟ethnos turco che

costituiva la parte più forte dei ranghi militari dei vari regni musulma-

ni, finì con l‟imporsi alla guida del mondo islamico e l‟impero otto-

mano, con la conquista di Costantinopoli, rappresentò a partire da XV

secolo, una nuova minaccia per l‟Occidente europeo fino alle soglie

del secolo scorso.

Per quanto riguarda le relazioni linguistiche tra Islam e Occi-

dente, il periodo più interessante è stato quello Abbaside: l‟altissimo

livello raggiunto dagli arabi nei vari ambiti del sapere tra il IX e il

8 La cultura e la lingua araba rimasero vive in Sicilia fino all‟epoca sveva.

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XIII secolo e la disposizione, da parte dell‟Occidente, ad assorbire e a

farsi penetrare da apporti orientali permisero un fecondo interscambio

tra culture, che durò fino alla metà del „400 quando il periodo, per così

dire, aureo cedette il passo a quello successivo, nel quale la distanza

tra sponde del Mediterraneo aumentò.

Più tardi, dopo la liberazione dagli arabi, Segovia, Toledo e Sa-

ragozza divennero importanti centri di traduzione, da cui si diffusero

notevoli testi scientifici. Le traduzioni dall‟arabo, tra i secoli XI e

XIII, costituiranno la porzione più rilevante della cultura medievale

(Benjamin 1962).

Bisogna ricordare a questo proposito che i percorsi filosofici

dell‟alto Medioevo erano stati caratterizzati in modo profondo dalla

scarsità delle fonti e dalla perdita di contatto con i testi chiave

dell‟antichità, vale a dire i classici greci, e quindi agli arabi va ricono-

sciuto il merito di aver veicolato in Occidente buona parte della cultu-

ra greca dando così vigore alla riscoperta delle fonti classiche a partire

dal XII secolo. A partire da allora, e progressivamente per circa due

secoli, ci troviamo di fronte ad un insieme di influenze definite come

eredità greco - arabe. La sempre maggiore disponibilità di testi in lin-

gua araba si è accompagnata alla crescita di importanza della figura

culturale dei traduttori, ai quali, in larga parte, si deve questa rapida

diffusione9. Nel giro di pochi secoli, quindi, proprio grazie ai contribu-

ti dell‟eredità greco - araba il mondo latino entrò finalmente a contatto

con l‟intera filosofia di Aristotele, anche se, inevitabilmente, la tradu-

zione ha risentito di influssi di diverso genere, che ne hanno trasfor-

mato il senso originario, adeguandolo alle esigenze culturali dei dibat-

titi universitari e, soprattutto, all‟elaborazione teologica e dottrinale

dei nuovi ordini dei mendicanti che si occuparono della conservazio-

ne della cultura per molti secoli. Tutto il XIII secolo e buona parte del

9La vera svolta, in questo senso, si è avuta nella seconda metà del XII secolo con l‟organico la-

voro di traduzione compiuto a Toledo per volontà politica del vescovo Raimondo de Sauvetat. Citiamo solo alcune tra i più eminenti figure di traduttori dall‟arabo: Gerardo da Cremona, a cui

si deve la prima grande parafrasi dall‟arabo in latino della Fisica di Aristotele e del Libro delle

Cause; Giacomo Veneto, che si occupò degli Analitici e della prima parte della Metafisica; A-vicenna, cui si deve il contributo decisivo alla diffusione della filosofia di Platone in Occidente

attraverso la sua filosofia araba; Boezio, Giovanni Scoto ed altri. Il testo arabo era tradotto o-

ralmente e ad alta voce da uno studioso ebreo in lingua romanza. Il brano in lingua romanza ve-niva poi tradotto in latino ed eventualmente in italiano da uno scienziato del settore. Ciò spiega

la straordinaria polimorfia degli islamismi.

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XII secolo furono caratterizzati proprio dai dibattiti nascenti dalle di-

verse linee di lettura e dall‟ermeneutica greco - araba.

Sul finire del Medioevo, gli insediamenti arabi in Spagna co-

minciarono a disintegrarsi: la fine dell‟emirato arabo di Granada nel

1492 segna la caduta dell‟ultimo baluardo arabo in Spagna, abbattuto

da Ferdinando ed Isabella di Castiglia. Contestualmente avviene la

pubblicazione della prima grammatica a stampa in una lingua europea,

quella castigliana, da cui germinò lo spagnolo.

La ricostruzione appena compiuta pone di fronte ad una scelta

di campo: schierarsi con chi addebita all‟espansione dell‟Islam la tra-

sformazione del Mediterraneo da grande via di comunicazione tra O-

riente e Occidente a barriera insormontabile fra Occidente cristiano e

Oriente islamico; o con chi l‟attribuisce alla fine della singolare espe-

rienza di al-Andalus, famoso luogo-simbolo di feconda convivenza di

etnie, culture e lingue che attraverso l‟attività di traduzione realizzò

quella idea di cooperazione culturale tornata, come vedremo, di gran-

de attualità alle soglie del XXI secolo.

In seguito, allorché nacquero le nazioni con una sola lingua e

una sola religione, sul Mediterraneo calò l‟oblio: nel periodo coloniale

esso riapparve sulle carte geografiche ma con una nuova connotazio-

ne, quella di “lago d‟Europa”.

Proseguendo nella composizione del quadro della storia lingui-

stica e culturale dei paesi del Mediterraneo, operando un grande salto

temporale, si giunge proprio al periodo coloniale che ha inizio a parti-

re dal 1830, quando una nuova ondata di colonizzazione da parte dei

paesi europei cominciò ad interessare le coste dell‟Africa e buona par-

te delle sue zone interne.

La Francia colonizzò il Maghreb, parte del Madagascar e del

Medio Oriente; l‟Inghilterra il Nord-Est, l‟Est e il Centro-Sud

dell‟Africa; il Belgio il Congo; il Portogallo la Guinea Bissau, l‟Angola e il Mozambico; la Spagna il Rio de Oro e altre zone; l‟Italia

l‟Eritrea, l‟Etiopia, la Somalia e la Libia (Hobsbawm 2005; Pombeni

2005).

Le forme di colonizzazione volte allo sfruttamento economico e

al controllo militare di punti strategici assunse diverse forme, sempre

però crudeli, violente e sanguinose: in alcuni casi implicò la distruzio-

ne completa delle cariche statali precedenti e l‟amministrazione diretta

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da parte dello stato colonizzatore; in altri non avvenne la cancellazio-

ne delle istituzioni precedenti, ma si concretizzò una dominazione di

tipo economico; in entrambi questi casi l‟egemonia colonizzatrice si

manifestò anche a livello linguistico e culturale: lo stato più forte ma-

nipolava quello più debole e la lingua e la cultura del primo acquisi-

vano una posizione di prestigio10

.

Per quanto una visione etnocentrica avesse sostenuto per secoli

il contrario, occorre ribadire che il processo di colonizzazione interes-

sò popoli eredi di civiltà e di culture molto antiche, il cui sviluppo fu

interrotto non solo dal tempo e dalle calamità naturali, ma soprattutto

dallo spietato sfruttamento dei paesi europei: prima dalla tratta degli

schiavi, poi dal colonialismo e dall‟imperialismo. I colonizzatori cer-

carono di far dimenticare a quei popoli la loro cultura, la loro lingua e

il loro passato; non riuscirono in questo, ma furono capaci di rendere

più difficile e lento la loro evoluzione (Rainero 1966; Fanon 2007).

Passando ad esaminare più da vicino i processi linguistici, si ri-

leva che la colonizzazione linguistica si manifestò in due stadi succes-

sivi. Il primo si palesò a livello di classi sociali: la lingua del coloniz-

zatore tese ad essere adottata dalle persone prossime al potere colonia-

le. Il secondo fu orizzontale: la differenziazione primariamente stabili-

ta secondo una gerarchia di classe, cominciò a diffondersi geografi-

camente procedendo dalle città alle campagne.

Avviene così che i colonizzatori impongono la loro cultura e la

loro lingua insieme alla loro visione del mondo assegnando loro pre-

stigio sociale: la lingua del gruppo culturale egemonico, di quello che

è riuscito ad imporsi, diviene paradossalmente lingua di pregio e la

popolazione nativa viene condotta ad acquisire una certa conoscenza

di questa, che però, in forza del contatto, viene a sua volta contamina-

ta da quella dei vinti.

Quasi mai la decolonizzazione, processo lungo e complesso e

ancora non totalmente compiuto, restaura la condizione linguistica e

culturale originaria ormai trasformata irreversibilmente in un sistema

linguistico e culturale misto11

.

10

Esiste un altro tipo di colonizzazione, quella interna che si ha quando lo stato colonizzato - o

uno stato qualunque - può avere interesse ad integrarsi linguisticamente e culturalmente rispetto

allo stato colonizzatore o ad un altro stato.. 11

Si rimanda la trattazione di questo fenomeno al paragrafo successivo.

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- 12 -

Esempi emblematici sono le vite e le opere di Fadhma Aïth

Mansour Amrouche e di Assia Djebar. Come sottolinea Renate Siebert

si tratta di due donne algerine, diverse per collocazione storica, estra-

zione sociale e biografia, ma legate da un filo sottile e resistente nello

stesso momento: quello della scrittura in francese, la lingua dei colo-

nizzatori, dei conquistatori, ma anche la lingua dell‟emancipazione e

della liberazione dai muri chiusi della discriminazione sessuale e degli

harem (Siebert 2000).

Le donne cui si riferisce la Siebert, muovendosi e attraversando

diversi sistemi linguistici e simbolici, declinano al femminile la que-

stione delle lingue, quelle delle origini, come il berbero e i dialetti lo-

cali; e quelle imposte dai conquistatori, vale a dire il francese e

l‟arabo; una questione che rappresenta ancora oggi uno dei nodi prin-

cipali delle riflessioni postcoloniali.

La volontà di imporre la lingua da parte dei colonizzatori non fu

però una costante né tantomeno i colonizzati restarono sempre inermi

rispetto a questa forma di violenza, per così dire, morale. È vero, infat-

ti, che durante tutto il periodo coloniale l‟insegnamento della lingua

del colonizzatore fu dispensato ad una minoranza di individui coloniz-

zati, che appresero l‟altra lingua per motivi pragmatici. A questo pro-

posito Calvet menziona il caso della Tunisia paese in cui i colonizza-

tori erano convinti che fosse più vantaggioso mantenere nell‟ignoranza della loro lingua il popolo indigeno. Anche in Algeria,

sempre secondo Calvet, parlare di colonizzazione linguistica forse è

considerata una forzatura visto che la maggioranza della popolazione

era analfabeta (Calvet 1977).

Il passaggio di lingue non avviene mai in modo omogeneo, ge-

neralmente sono i cambiamenti nei rapporti sociali che modificano il

repertorio linguistico e il passaggio linguistico si realizza sovente at-

traverso uno stadio intermedio di durata variabile in cui i gruppi colo-

nizzati parlano una o due lingue. Quindi, la colonizzazione implica

sempre l‟incontro di due organizzazioni linguistiche, poi, quando su-

bentra la decolonizzazione, anche se il paese colonizzato ha riacqui-

stato l‟indipendenza, esso continua a restare legato da altri tipi di rap-

porto – spesso economici - con i colonizzatori; è il caso dei paesi afri-

cani in cui anche la lingua continuò ad essere parlata perché ormai as-

similata o perché l‟indipendenza li aveva trovati impreparati ad una

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- 13 -

sostituzione di istituzioni, lingua e via dicendo. Tale situazione è co-

mune ad alcuni paesi del centro dell‟Africa dove la lingua un tempo

dominata diviene dominante rispetto ad altre lingue minoritarie.

Nel periodo postcoloniale, fatta salva l‟integrità politica di stati

artificiali spesso eredi di assetti coloniali, l‟indipendenza economica e

il progresso sociale per la maggior parte delle popolazioni colonizzate

non si sono realizzati. Ciò ha causato nuovi e imponenti flussi migra-

tori dall‟Africa e dall‟Asia, alla ricerca di migliori condizioni di vita

verso i paesi europei impegnati ad affrontare il problema dei vuoti

demografici e professionali. Il Mediterraneo continua a svolgere in tal

modo la sua funzione di luogo di transito – ma ha mai smesso di esser-

lo? - o, a seconda dei punti di vista, di confine e di frontiera, di varco

e di muro.

Una modalità diversa dello scambio linguistico tra i popoli del

Mediterraneo è costituita dalle lingue veicolari utilizzate come mezzo

di comunicazione e di relazione tra due o più comunità non aventi una

lingua in comune. Il concetto di lingua franca o sabir si è ridefinito nel

corso dei secoli. L‟aramaico è un chiaro esempio di lingua franca usa-

ta nell‟antichità nel vicino Oriente e sulla costa orientale del Mediter-

raneo, finché all‟inizio del VII secolo tale funzione fu assunta

dall‟arabo. Mentre la lingua franca mediterranea con base fondamen-

talmente romanza, quindi italiana con elementi greci, turchi e arabi,

era usata nei porti del Mediterraneo da marinai e mercanti europei,

turchi e arabi, dall‟epoca delle Crociate fino agli inizi del XX secolo.

Oggi la lingua inglese potrebbe essere considerata una lingua

franca in ambito mondiale; ad essa, però, non possono essere applicati

i criteri delle lingue franche antiche, perché l‟uso veicolare

dell‟inglese moderno avviene secondo modalità diverse rispetto a que-

ste (Turchetta 1996). Occorrerebbe ricostruire la storia della diffusione

dell‟inglese, risalire all‟evoluzione dell‟economia e della società, par-

lare degli interventi militari, della comunicazione mediata dal compu-

ter e di internet, per comprendere l‟inglese come paradigma di incor-

porazione del plurilinguismo, la cui struttura della lingua ricorre nei

secoli pur in forme diverse; ma si rimanda questo tipo di trattazione ad

una diversa sede.

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- 14 -

LINGUE MEDITERRANEE OGGI E NUOVE MODALITÀ DI

CONTATTO LINGUISTICO

Quanto detto fin ora contribuisce a spiegare i fenomeni linguistici più

salienti che hanno condizionato il modo di comunicare dei popoli me-

diterranei, svelando le avvenute reciproche restituzioni culturali. Per

capire quali siano oggi le lingue parlate nel Mediterraneo osserviamo

una delle classificazioni linguistiche più recenti, all‟interno della quale

sono presenti tre macrofamiglie linguistiche12

: cioè la famiglia indoeu-

ropea, rappresentata dalle lingue romanze, dalle lingue slave meridio-

nali, dal greco e dall‟albanese; la famiglia afroasiatica, rappresentata

dalle lingue semitiche, con l‟ebreo e l‟arabo principalmente, e il ber-

bero con le sue varianti in una microarea prospiciente lo stretto di Gi-

bilterra13

; la famiglia altaica, con il turco e mongolo come rappresen-

tanti più significativi (Rulhen 1987).

All‟interno delle tre grandi famiglie linguistiche risultano coesi-

stere lingue molto diverse tra loro. Tale compresenza è stata spiegata

tramite ricerche collegate a studi di tipo paleo - antropologico e arche-

ologico sulle mutazioni culturali e sulle migrazioni, effettuate ricor-

rendo a metodi di datazione scientificamente attendibili, le quali sono

giunte a fornire elementi di conferma delle ipotesi di diffusione delle

lingue trattate in precedenza. Come affermano Ramat (Ramat e Roma

2007), alcune lingue sono geneticamente imparentate, altre sono di-

ventate affini per via della prossimità geografica, per cui la ricerca e lo

studio delle similarità strutturali, anche nel caso del Mediterraneo,

hanno potuto fornire informazioni finalizzate a confermare l‟esistenza

di somiglianze o similarità strutturali tra le diverse lingue. Lo stato at-

tuale di queste interessanti ricerche è, però, ancora inadeguato a dare

risposte esaustive.

Per sottolineare la complessità di ogni singola macro - famiglia,

si pensi all‟Africa, continente in cui esistono quattro grandi gruppi

12 Tale esemplificazione trascura le migliaia di varianti di lingue locali e dialetti. 13La denominazione di questa famiglia linguistica ha sostituito nella classificazione odierna quel-

la prima denominata camito-semitica ispirata all‟ipotesi camitica formulata da C.G. Seligman,

che attribuiva tutti gli avvenimenti culturali o artisticamente rimarchevoli ad apporti di popola-zioni non africane, o se africane non nere, superiori rispetto alle popolazioni indigene troppo

primitive per ogni forma di progresso e di bellezza.

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linguistici per un totale di circa millecinquecento tra lingue e dialetti,

dove la sola famiglia afroasiatica, che include l‟antico egiziano,

l‟ebreo, l‟aramaico, la lingua nigeriana hausa e numerosi dialetti arabi

parlati da circa duecentocinquanta milioni di persone, costituisce il

gruppo che conta il maggior numero di parlanti14

.

Classificare o mappare le lingue del Mediterraneo può essere

proficuo a condizione di tenere conto di alcuni fattori che la necessaria

sintesi, implicita nelle classificazioni, appiattisce o cancella. Innanzi-

tutto bisogna considerare quelle lingue, come il bretone e il gallego, in

uso in regioni non affacciate sul mare, ma appartenenti a paesi del

Mediterraneo, connotandole rispetto a quelle utilizzate nei territori ri-

vieraschi. Non vanno poi trascurate le minoranze linguistiche, per il

valore che esse assumono oggi alla luce di una prospettiva ecolingui-

stica, e una lingua, l‟inglese, che, come abbiamo visto, pur non essen-

do una lingua mediterranea, è la lingua ufficiale di Malta ed è cono-

sciuta e usata sostanzialmente da tutti i popoli del Mediterraneo. Spo-

standoci su un altro piano di analisi, è anche necessario prendere atto e

indagare quei fenomeni importanti, quale il plurilinguismo, che attra-

versano tutte le dimensioni della variazione linguistica pur non essen-

do visualizzati su alcuna mappa.

Si pone il problema, cioè, dello stabilire frontiere aldilà dei con-

fini, di definire dei criteri diversi da quello puramente geografico che

autorizzino a dire “popoli del Mediterraneo” e che legittimino la seg-

mentazione del continuum spaziale, sociale, linguistico in un modo

piuttosto che in un altro, collocando gli individui all‟interno o

all‟esterno di un perimetro o di un aggregato15

.

Possiamo allora affermare che l‟individuazione e la classifica-

zione delle famiglie linguistiche presenti oggi nel Mediterraneo non

riflettono opportunamente la realtà dinamica attuale, a meno che non

la si immagini libera dalla griglia della classificazione che tradizio-

nalmente ai fini della descrizione le viene attribuita.

14Altre importanti famiglie linguistiche africane sono quella khoisan, che include il boscimano e

l‟ottentotto, nel Sud Africa; la famiglia niger-kordofanian, tra cui spiccano mandinka, swaili, yo-ruba e zulu; la famiglia nilotica - nilo-saharan - che include il maasai. 15I confini sono fissi, la frontiera è mobile. Il confine è frutto di un accordo, di un patto sociale:

deve essere riconosciuto; la frontiera necessita di un‟operazione mentale; essa è un simbolo che definisce uno spazio antropologico e non geografico, su cui si confrontano lingue diverse e cultu-

re differenti.

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Immaginiamo allora uno spazio geografico in cui si realizzino

circolazioni linguistiche e intersezioni di lingue dalle origini lontane,

specchio delle culture di popoli dissimili, e scopriamo che questa im-

magine non è molto lontana da quella che ci rimandano le grandi città

moderne, luogo di confluenza di flussi migratori che attraverso il Me-

diterraneo si stanno dirigendo da sud verso nord a partire dalla metà

dello scorso secolo e che, ancora adesso, stanno innescando un pro-

cesso di trasformazione linguistica.

Il plurilinguismo, o multilinguismo è il fenomeno sociolingui-

stico più significativo degli ultimi anni, il cui studio si inserisce

nell‟ampio dibattito sul multiculturalismo che ha assunto recentemen-

te una posizione centrale nel dibattito pubblico e in quello scientifi-

co16

.

La concentrazione locale della diversità culturale e linguistica

nei centri urbani corrisponde alla creazione di punti di condensazione

dei processi sociali, politici e linguistici per cui le città diventano i

luoghi scelti dei conflitti e dei processi identitari nelle società multi-

culturali e plurilingue. Questa situazione diffusa inizialmente nei

grandi centri urbani dell‟America del Nord, dell‟Australia e della Cina

si avvia a divenire sempre più frequente nei centri urbani di tutti i pae-

si europei che si affacciano sul Mediterraneo. Il fenomeno è invece

ridotto nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, ma anche in

queste regioni in cui già si parla l‟inglese o il francese come seconda

lingua, nelle università e nelle scuole lo studio di altre lingue e cultu-

re, europee e non, è in costante ascesa: una richiesta cui corrisponde

un‟espansione continua di opportunità per accostarsi a queste lingue

spesso collegate a iniziative culturali, a scambi e a relazioni con im-

prese. Il plurilinguismo identifica una condizione facente parte della

vita quotidiana di ogni parlante, il quale usa diverse varietà linguisti-

che nei diversi ambiti della vita; il contenuto semantico del concetto

slitta, quando è riferito non ad un soggetto o ad un gruppo ben defini-

to, ma alle comunità urbane in cui capita più di frequente di entrare a

contatto con le multiformi lingue delle immigrazioni.

16L‟immigrazione non è la sola causa del plurilinguismo; altri fenomeni, meno evidenti ma indi-cativi di cambiamento, lo nutrono come, ad esempio, il rinnovato interesse culturale della Tur-

chia per lo studio dell‟Italiano, della sua letterature e dell‟arte.

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Gli agglomerati urbani relativamente grandi risentono di una

complessa situazione di differenziazione linguistica; in quanto punto

di confluenza di migrazioni, regionali, nazionali e internazionali indot-

te da motivi economici, politici, religiosi e culturali, che si va a com-

binare con un plurilinguismo a ripartizione regionale, agendo così

sull‟equilibrio sociale.

Contesti siffatti diventano terreno ideale di coltura per la forma-

zione di lingue di contatto e di lingue miste, lingue pidgin, varietà ru-

dimentali e semplificate o interlingue approssimative di una delle lin-

gue materne dei gruppi in contatto o di un‟altra lingua che funge da

lingua franca. Si tratta di situazioni sociolinguistiche speciali in cui un

contatto particolarmente intenso o un marcato plurilinguismo senza

contatto intensivo, ma con la necessità di uno strumento comunicativo

di emergenza, portano a una vera e propria fusione delle grammatiche

di due lingue di contatto.

I pidgin, spesso annoverati fra le lingue miste, sono in realtà

nuove lingue, valide per la comunicazione essenziale e quindi funzio-

nalmente ridotte e semplificate, che attingendo materiali vari dalle lin-

gue con cui sono venute a contatto, li rielaborano e ristrutturano fino a

creare fenomeni di grammaticalizzazione. Quando una lingua mista fa

carriera, si stabilizza e si diffonde incrementando il raggio delle sue

funzioni e cominciando ad essere impiegata da gruppi significativi,

anche come lingua della socializzazione primaria in famiglia, diventa

un creolo. I creoli possono evolversi in lingue scritte, scolastiche e na-

zionali (Berruto 1995).

L‟idea di una società multiculturale è ambivalente e controversa

testimoniata da una vasta letteratura sociologica (Crespi 2005). Sem-

bra che però tutti, o quasi, siano d‟accordo sul fatto che il diritto alla

propria cultura, e quindi alla propria lingua, abbia la stessa pregnanza

di qualsiasi altro diritto, quale quello alla manifestazione della fede,

alla scelta sessuale, alla privacy ecc. Esso deve essere un diritto di tut-

ti, garantito da politiche di riconoscimento che rivendichino il rispetto

dei diritti fondamentali e l‟uguaglianza dello status tra i diversi gruppi

culturali (Habermas e Taylor 1998; Dal Lago 1999; Siebert 2003).

Nell‟arco di un trentennio lo studio della variabilità della situa-

zione linguistica ha dato luogo a teorie sociologiche e linguistiche sul

linguaggio con lo scopo di chiarire le relazioni tra le strutture della vi-

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ta sociale urbana, le caratteristiche della situazione del contatto, le ri-

percussioni sulle diverse identità sociali e sui linguaggi del popolo ur-

bano. Nonostante ciò, lo stato della ricerca risulta ancora deficitario:

numerosi lavori con molteplici oggetti che non è facile raggruppare,

anche perché utilizzano metodologie differenti. Diversa la situazione

in America e Cina, paesi in cui sono stati condotti studi più organici

che hanno contribuito alla messa in atto di politiche di integrazione e

di coesistenza linguistica.

È interessante valutare anche le esperienze concrete maturate ri-

spetto a questo fenomeno da paesi come il Canada, gli Stati Uniti, la

Svizzera, la Germania e la Spagna, in cui più di frequente la compre-

senza di lingue a livello statale ha dato luogo a rapporti conflittuali

ponendo il problema di come ordinare questa molteplicità di lingue

diverse trovando tra le differenti etnie un‟unità nella pluralità.

Le condizioni di dislocazione spaziale e linguistica dei soggetti

in transito sono elementi che, se da una parte rendono quanto mai at-

tuali gli incontri di culture come prerogative di alto profilo del presen-

te, dall‟altro si scontrano con codici e istituzioni, sociali e politici, nel

migliore dei casi impreparati, nel peggiore dei casi ostili a questi cam-

biamenti in atto. I problemi sollevati dal confronto tra soggetti cultu-

ralmente diversi spesso si risolvono in soluzioni politiche a metà stra-

da tra l‟esigenza di identità nazionale e il multiculturalismo.

L‟enorme distanza culturale delle origini si traduce in strategie

discorsive divergenti, creando i problemi tipici della comunicazione

interculturale. La questione è certamente sociale e politica, ma anche

linguistica e culturale. Ci si chiede come ricondurre una società mul-

tietnica sotto un‟identità nazionale collettiva, ma anche se sia giusto

avviare un processo di questo tipo. A questo proposito Franco Crespi

rileva che: “Gli interventi volti a pianificare la diffusione e la supre-

mazia di una lingua sulle altre, se sono dettati da esigenze di omoge-

neità e di consolidamento della solidarietà generale, acquistano sem-

pre un significato politico legato alla volontà di determinati gruppi di

potere, maggioranze etniche o classi sociali, di prevalere su altre forze

sociali. Si origina in tal modo una vera competizione linguistica che è

espressione e fonte, al tempo stesso di conflitti sociali” (Crespi 2005,

p. 127).

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La coesistenza di gruppi culturali diversi, rispetto ai quali nes-

suna forma culturale è legittimata a costituirsi cultura dominante, deve

essere garantita da regole per la convivenza basate sull‟assoluta parità

e sul reciproco riconoscimento17

, perché la lingua, la cui diffusione

esprime un aumento o una diminuzione dell‟influenza delle relative

comunità di parlanti, troppo spesso diventa strumento permanente o

potenziale di egemonia, dominazione e supremazia dei popoli gli uni

sugli altri (Crespi 2004, 2006).

Gli sforzi di pianificazione in tutti i campi, quindi, si orientano

verso la messa in contatto di diverse etnie senza minacciare la loro e-

sistenza, incoraggiando la popolazione ad acquisire conoscenze lin-

guistiche.

Ancora una volta, indipendentemente dalla prospettiva adottata,

il quadro della situazione risulta marcato dalla differenziazione lingui-

stica, ma anche dall‟arricchimento progressivo degli spazi linguistici.

In un simile contesto, il più importante mezzo di agilità culturale è la

conoscenza delle lingue e la competenza comunicativa intesa come

conoscenza di un certo numero di stili comunicativi18

.

Al conseguimento delle abilità linguistiche deve essere collega-

ta l‟abilità di traduzione, in senso lato, che sovrasta e ingloba la tradu-

zione interlinguistica e eterolinguale. Renate Siebert scrive a questo

proposito che proprio per questo motivo gli studi culturali e in partico-

lare quelli postcoloniali negli ultimi decenni hanno mostrato grande

interesse per la traduzione. Il tradizionale percorso delle teorie lingui-

stiche è stato però invertito: non più dalle lingue alle culture, ma dalle

culture e dalle differenze culturali alla lingua (Siebert 2010).

Perciò la traduzione non più intesa come una transcodifica di

parole, frasi o testi da una lingua ad un‟altra, ma un‟operazione arti-

colata e complessa in cui il traduttore produce informazioni su un te-

sto in condizioni funzionali, culturali, e linguistiche nuove.

Sulla stessa linea, altri studiosi parlano di mediazione tra le cul-

ture nell‟attività traduttiva in cui ad interagire sono i fattori di abilità

18Per capire questi meccanismi può essere utile il modello della diglossia tra dialetto e lingua applicato alla costellazione linguistica delle società plurilingue, a patto di riconoscerne la supe-

riore complessità.

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bilingue e visione biculturale, coinvolgenti la sfera dei sistemi ideolo-

gici e etici e le strutture sociopolitiche.

Negli studi sulla traduzione, l‟elemento cultura ingloba l‟ampio

ventaglio della sociolinguistica, vale a dire le caratteristiche divergenti

tra una lingua e un‟altra sul piano dell‟organizzazione fonologica,

morfologica, sintattica e tra i registri. L‟attraversamento concretizzabi-

le tramite la traduzione è un percorso tanto necessario quanto inevita-

bile e produttivo che ridisegna l‟interno e l‟esterno di ogni cultura,

coinvolgendo anche i soggetti sociali in un processo continuo di tra-

duzione in senso lato, inteso come adattamento e trasformazione an-

che di se stessi.

La traduzione interlinguale è, dunque, fondamentale dal mo-

mento che, come si è detto, le lingue sul piano della loro formazione

storica non comunicano: ciò che è detto in una lingua può essere e-

spresso in un‟altra lingua, ma questo può accadere solo se viene ope-

rata una traduzione da un parlante bilingue che non abbia difficoltà

traduttive linguistiche e semiotiche e, più in generale, culturali, che

vanno a incrementare la capacità metalinguistica. Tuttavia l‟esistenza

e lo sviluppo delle lingue culturali è possibile solo attraverso contatti

reciproci e paritari. Si parla a proposito di una sorta di seconda socia-

lizzazione che dovrebbe interessare l‟immigrato, ma anche coloro che

volendo o non volendo si trovano ad interagire con esso (Sayad 2002).

Anche i Translation Studies attuali, in forte interazione con i

Cultural Studies, hanno abbandonato l‟idea che la traduzione sia una

operazione prettamente linguistica, considerandola piuttosto come una

comunicazione interculturale nella quale si esprime l‟incontro, ma an-

che lo scontro, tra le diverse identità culturali.

Se la cultura riflette il modo di vivere di una comunità le cui

manifestazioni passano prevalentemente attraverso la lingua, la co-

scienza interculturale nasce dall‟esperienza delle culture, e come tale,

si pone come concetto ancora più complesso di quanto possa esserlo ai

fini della mera attività traduttiva (Lotman 1983). Pertanto, se è vero

che la conoscenza delle culture e delle diversità intercorrenti tra queste

hanno da sempre occupato ampi spazi nelle formulazioni teoriche in

tema di traduzione, è anche vero che l‟intraducibilità di termini e lo-

cuzioni legate al vincolo culturale costituisce un ostacolo per i teorici

della traduzione che richiede di essere superato.

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PUNTI DI ARRIVO (O DI PARTENZA)

Le categorie concettuali proprie della sociolinguistica sono state uti-

lizzate per la disamina delle dinamiche intercorrenti tra i vari paesi che

si stagliano sul Mediterraneo, per comprendere la rete attuale di rela-

zioni, non solo idiomatiche, ma anche sociali e culturali che insistono

al suo interno.

Ci siamo chiesti se, e in che modo, il Mediterraneo plurilingue

possa diventare paradigma di coesistenza di comunità linguistiche di-

verse e quale ruolo possa rivestire in un contesto multiculturale, non

più monolingua, ma ibrido, tradotto e creolizzato, la ricerca di fattori

linguistici e culturali comuni. Abbiamo verificato, alla fine, se questa

ipotesi, opportunamente esplicitata, possa costituire un‟alternativa alla

improbabile quanto dibattuta unità linguistica nella prospettiva di una

riscoperta del Mediterraneo.

Il lavoro compiuto è stato utile per spiegare in che modo e per-

ché i popoli del Mediterraneo hanno condiviso vicende ed esperienze

storiche che hanno avuto ripercussioni considerevoli, a volte differen-

ti, sulla loro cultura e sulla loro lingua e, quindi, sulla loro identità.

L‟impostazione metodologica, tipica dell‟analisi storica suggerita da

Edmond Burke III19

in un‟intervista rilasciata a Marta Petrusewicz20

,

che guarda al Mediterraneo dal punto di vista della storia del mondo,

nel medio e nel lungo periodo, con una lente storico-mondiale, ha

consentito di cogliere omogeneità culturali tra i paesi d‟Europa e quel-

li del mondo arabo21

.

Più complesso è stabilire se e come le influenze di quelle espe-

rienze sui popoli si siano integrate le une con le altre o se siano rima-

ste semplicemente affiancate senza risolversi in un‟esperienza simul-

tanea e unitaria.

L‟analisi finalizzata a dare una visione d‟insieme sui temi e sui

problemi connessi al plurilinguismo ha confermato la vocazione

dell‟area Mediterranea ad essere luogo di rimescolamento di sistemi

19Edmund Burke è uno storico direttore del Center for World History presso UC Santa Cruz,

California che si occupa di storia del Mediterraneo. 20Intervista di Marta Petrusewicz a Edmund Burke in Daedalus. Quaderni di storia e scienze

sociali, vol.2/2009. 21Cristianesimo e islamismo secondo questa visione costituiscono un carattere comune dei popoli

mediterranei in quanto rappresentano le due maggiori religioni monoteiste.

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linguistici, culturali e sociali in cui il confronto tra le immagini e le

percezioni delle lingue a contatto orienta gli atteggiamenti verso

l‟apprendimento, ma anche i processi di inserimento sociale, la cono-

scenza di dinamiche metalinguistiche del contatto tra lingue e gli im-

maginari delle lingue al suo interno.

Si manifesta, in questo momento, una tendenza alla reciproca

riscoperta delle culture mediterranee per mezzo della traduzione etero-

linguale, che dovrebbe dare impulso all‟autodescrizione delle culture e

alla rinarrazione della storia europea e del colonialismo: gli europei

hanno un debito da pagare ai popoli africani e del Medio Oriente pri-

ma di cominciare a costruire un rapporto paritario in vista di una coo-

perazione culturale e non solo economica.

Abbiamo rilevato l‟inesistenza di un‟unità linguistica nel Medi-

terraneo ed abbiamo concluso che esso non è un mondo, ma una plu-

ralità di mondi da far incontrare in un contesto estraneo al conflitto e

in un rapporto basato sul rispetto e sul riconoscimento reciproco, al

momento ostacolato da discorsi e pratiche che riproducono la costru-

zione sociale delle differenze, rimandando a rapporti asimmetrici e di

potere che spesso si fondano sul linguaggio (Siebert 2010).

Come suggerisce Franco Cassano, ciò può avvenire ridefinendo

il rapporto antico esistente tra le genti del Mediterraneo in modo to-

talmente nuovo, attraverso la riscoperta delle radici comuni e la deco-

struzione della prospettiva dello scontro tra civiltà (Cassano e Zolo

2007).

Ma Predrag Matvejevič rileva a proposito una realtà sconcertan-

te: “Non è davvero possibile considerare questo mare come un “in-

sieme” senza tenere conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti

che lo dilaniano: oggi in Palestina, ieri in Libano, a Cipro, nel Ma-

ghreb, nei Balcani, nell‟ex Jugoslavia, riflessi delle guerre più lontane,

quelle in Afghanistan, quella ancora più vicina, in Iraq” (Matvejevič

2003, in Cassano e Zolo 2007, p. 435).

Pensare al Mediterraneo evoca in molti il timore

“dell‟immigrato proveniente dal mare”, il degrado ambientale, i loca-

lismi, la mancanza di solidarietà e a ciò né la politica né la cultura an-

cora sono riuscite a porre rimedio. Come dice ancora Predrag Matve-

jvič: “ (…) il Mediterraneo non riesce a diventare un progetto

(…)”(Matvejevič 2003, in Cassano e Zolo 2007, p. 436).

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Se l‟insieme mediterraneo è composto da più sottoinsiemi che

sfidano o rifiutano idee unificatrici, trovare dei punti d‟incontro sul

terreno delle culture è possibile, anche se concretamente non facile,

purché si miri alla condivisione di visioni differenziate e si riconosca

l‟Altro che sta vicino a noi.

Il Mediterraneo plurilingue può diventare paradigma di coesi-

stenza di comunità linguistiche diverse all‟interno di una società mul-

ticulturale, a patto che non si continui a negare la realtà del plurilin-

guismo a vantaggio di un monolinguismo che non corrisponde più alla

realtà. Sono in atto dei processi che sembrano andare nella direzione

della cooperazione culturale, anche se ancora è troppo presto per pre-

vederne gli esiti 22

.

22Uno dei settori di intervento ritenuto importante è quello della comunicazione; infatti il Medi-terraneo costituisce un‟area in cui la comunicazione è insufficiente, nelle due direzioni cioè

dall‟interno all‟esterno e dall‟esterno all‟interno: gli eventi catastrofici sono immediatamente

noti, tutto il resto, tutto ciò che rappresenta la cultura, lo sport, la vita quotidiana ecc. rimane sconosciuto.

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