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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA

DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E DI

SCIENZA POLITICA

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Daedalus 2012 La violenza della linea retta…

DAEDALUS

Quaderni di Storia e Scienze Sociali

Direzione scientifica Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni, Alberto Ventura

Redattori e collaboratori Luca Addante, Olimpia Affuso, Luigi Ambrosi, Rosa Maria Cappelli, Renata Ciaccio, Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Francesco Di Vasto, Loredana Donnici, Valentina Fedele, Aurelio Garofalo (†), Sabrina Garofalo, Teresa Grande, Salvatore Inglese, Donatella Loprieno, Francesco Mainieri, Matteo Marini, Adele Valeria Messina. Patrizia Nardi, Saverio Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina Pellegrino, Maria Perri, Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Manuela Stranges, Pia Tucci

Direzione e redazione e amministrazione Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria 87036 Arcavacata di Rende (Cosenza).

Tel. 0984 492568-67-65-32 E-mail: [email protected]; [email protected];

[email protected]; [email protected]

Direttore Responsabile Pia Tucci

Numero 4/2012 on-line

Numero 23/2012 seguendo la numerazione della precedente

edizione cartacea Pubblicato on line nel settembre 2012

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Daedalus 2012 La violenza della linea retta…

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STEFANIA SALVINO

“LA VIOLENZA DELLA LINEA RETTA”.

RIFLESSIONI SU OCCHIO A PINOCCHIO,

DI JARMILA OČKAYOVÁ, COSMO IANNONE, ISERNIA 2006

Così lo straniero, per definizione senza luogo, quindi facile al

fraintendimento, non parla ma è parlato, dietro le sue parole si ha

sempre la tendenza a leggere ciò che egli vorrebbe dire, o meglio, ciò che non vuole dire ma che suo malgrado dice (con il colore della

pelle, i gesti, i modi, l’insito esotismo), come se la parola dello

straniero fosse un pleonasma e la sua verità, ossia la verità umana profonda, soltanto una forma di irresponsabilità o di immaturità.

T. Lamri, I sessanta nomi dell'amore

Il romanzo Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová, pubblicato nel

2006 da Cosmo Iannone Editore, è l’ultimo di quattro romanzi1 scritti in

italiano dall’autrice. L’aver scelto la lingua italiana per scrivere questi

romanzi colloca l’autrice – slovacca di nascita e immigrata in Italia

ormai da più di trentacinque anni – nel filone della “letteratura della

migrazione” o “scrittura migrante”. E della migrazione i suoi libri

narrano, conducendo la riflessione – sua e nostra – sulle complesse

ricomposizioni del sé a partire dallo strappo biografico esperito con la

dipartita – temporanea o definitiva – dal paese d’origine, ma anche sulle

dinamiche relazionali che si intrecciano tra gli individui all'interno della

società, che è anche società d'approdo per chi giunge da un altrove.

Nata in Slovacchia nel 1955, da giovanissima pubblica racconti e

poesie su alcune riviste di Bratislava. Si laurea a Bologna per poi

trasferirsi a Reggio Emilia, dove vive e lavora. Dopo essere rimasta

sospesa tra due lingue per dieci anni, l’autrice riprende a dedicarsi alla

scrittura, stavolta optando per l’italiano2, perché – come lei ha sostenuto

in diverse interviste – se uno scrittore decide di scrivere in una lingua

diversa da quella del paese in cui vive, è condannato a una sorta di

isolamento interiore, perché la lingua è come l'aria, che ci avvolge e

penetra attraverso i polmoni, entrando fin “negli anfratti affettivi,

psicologici, metaforici”(Očkayová 2002, p. 60).

1 I tre romanzi precedenti scritti dall'autrice sono: Verrà la vita e avrà i tuoi occhi 1995;

L'essenziale è invisibile agli occhi 1997; Requiem per tre padri, 1998. 2 In Italia ha scritto saggi e interventi in vari campi, un racconto per ragazzi

(Appuntamento nel bosco, 1998) ed è stata curatrice e traduttrice di una raccolta di

antiche fiabe slovacche, raccolte da Pavol Dobsinsky e pubblicate da Sellerio col titolo

Il re del tempo, che nel 1998 è stato premiato dall’Unione degli Scrittori Slovacchi.

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La scelta di scrivere nella lingua dell’altro si rivela, dunque,

principio e occasione sostantiva di arricchimento dell’immaginario

linguistico e semantico. Pone a confronto le due culture consegnando

loro “una bella lezione di reciprocità” (Očkayová 2002, p. 60) e,

liberandole da ogni particolarismo, punta apertamente all’essenziale. Le

due lingue corrono parallelamente, ognuna con i propri universi di

senso, traducendosi in una sinfonia dell’anima che tiene insieme –

eseguendole come in un’orchestra – tutte le note che meglio si

adeguano alla melodia cui si desidera dar vita. È uno spogliarsi e

indossare abiti sempre diversi, a seconda dei luoghi e dei momenti. Un

poter scegliere tra due strumenti in relazione all’umore e allo stato

d’animo. Un essere diviso e doppio che dà conto di una ricchezza e

dovizia espressiva – di modi, temi, essenze e lingue – tanto più fertile,

quanto più è messa al lavoro.

PINOCCHIO E LA SUA AUTRICE: DUE UNIVERSI PARALLELI A

CONFRONTO

L’incontro con il romanzo Occhio a Pinocchio di Jarmila

Očkayová (e con i diversi materiali che su di lei, o per mezzo di lei –

interviste, saggi, riflessioni varie – sono stati scritti), è stato foriero di

infinite suggestioni. Così tante da dover necessariamente operare una

scelta tematica3 . Il mio sguardo si è, quindi, posato solo su alcune

questioni – migrazione, identità e riconoscimento – su cui tenterò di

svolgere delle brevi riflessioni, plausibili di ulteriore indagine, rispetto a

questo testo così ricco e complesso, i cui piani di lettura si intersecano,

complicandosi all'infinito in un continuo giochi di rimandi tra il fantastico

e il reale.

La storia che l’autrice racconta è proprio su quel burattino a noi

ben noto, le cui avventure rocambolesche e un po’ angoscianti – ma pur

sempre a lieto fine – vengono narrate nel classico di Carlo Collodi. Quel

burattino qui si presenta da sé, divenendo io narrante e raccontando in

prima persona un’altra storia, la sua storia – che è anche storia dell’

3 Un’attenzione speciale andrebbe rivolta all'uso spregiudicato e giocoso riservato alla

lingua, alle capovolte e torsioni eseguite dalle parole che prospettano un immaginario

pulsante di mondi onirici, intrecciandosi a personaggi fantastici che sbucano da ogni-

dove, popolando le pagine di una intensa vitalità. L’apparato testuale appare intessuto

di chiari intenti ironico-parodistici e un assiduo ricorso alle metafore, il cui uso, come la

stessa autrice dichiara, è mutuato dalla cultura degli ex-paesi sovietici, dove in un clima

di rigida censura costituiva una modalità espressiva usuale e necessaria alla

sopravvivenza stessa.

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‘umanità’ che con lui ha interagito – narrata dal suo punto di vista, che

diventa focale e de-stabilizzante. Dopo ben 250 anni di silenzio il

burattino prende finalmente la parola e ne sovverte il senso, fornendo

spiegazioni inedite, s-velandone misteri e capo-volgendo immagini e

racconti. Il rovesciamento del punto di vista – che io ho provato a

leggere attraverso le lenti di Viktor Šklovskij e Mikhail Bachtin –

propone la rappresentazione di una realtà inedita, capovolta, in cui un

burattino, liberandosi dai “fili che lo manovrano”, decide di darsi voce

facendosi “soggetto di enunciazione” (Sabelli 2007, p. 178).

La parola, “indiscussa protagonista” del romanzo (Camilotti

2008, p. 96), assurge qui ad una funzione assolutamente significativa,

divenendo dimora del disallineamento tra i differenti universi di senso,

spazio che “reca le tracce dell’alterità con cui interagisce” (Floriani

2004, p. 15). Ma anche sorgente ristoratrice e rivelatrice delle infinite

possibilità verso cui la comunicazione può muovere. È una parola che si

fa sostanza, scarnificata fino all’essenziale, sovversiva nel suo essere

costituita da mille sguardi e periferie e da nessun centro, se non quello,

profondo, primigenio, dell'animo umano.

Očkayová mostra avere una particolare predilezione per la

dimensione fiabesca, sostenuta dall’intima convinzione che essa

configuri – insieme al sogno – gli “spazi interiori della coscienza” e

come tale ci possa spronare “ad avere uno sguardo inedito sulla realtà,

più acuto, più penetrante, più partecipe” (Očkayová 2002, p. 65). La

fiaba è, dunque, assunta a parabola di vita: metafora della condizione

esistenziale e delle sue complesse, e spesso dolorose, trasformazioni.

Rispetto ai precedenti romanzi si nota un cambio di ‘umore’ della

scrittrice, che, in una intervista immediatamente successiva alla

pubblicazione di Pinocchio, afferma: “dopo tre quinti della mia vita

passati in Italia, ora mi sento più che mai, dolorosamente, straniera”

(Pegoraro 2007, p. 1). Per spiegare l’insorgere di questo suo stato

d’animo Očkayová ripercorre le fasi della sua parabola migratoria

discendente, individuando in essa tre momenti peculiari: l’abbandono

del paese d’origine e l’arrivo in Italia, segnati dall’ambizioso

conseguimento dell’integrazione e da una forte tensione verso il

presente, in una dimensione ancora venata da una pungente nostalgia

verso il passato. La necessità di ripercorrere le proprie radici per poter

giungere alla costruzione di una identità nuova, allargata. E, infine – e

siamo allo stadio da cui è scaturito Pinocchio –, la percezione che non

c’è costruzione senza ‘disintegrazione’ e sedimentazione profonda delle

diverse culture e appartenenze di cui l’esistenza ci ha fatto carico: un

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percorso interiore che deve puntare a tirare fuori il meglio da ciò che si

è (ricevuto) facendolo “macerare”, “tentando di distillarne l'essenza”

(Pegoraro 2007, p. 1). L’impossibilità di tradurre questa dinamica

individuale in un confronto aperto, in un processo di reciproca

accoglienza ha instillato nella scrittrice l’acuta coscienza di una

solitudine profonda e il convincimento che la costruzione dell’identità

può avvenire solo in rapporto all’alterità. Solo nella reciprocità ci può

essere riconoscimento. Ed è solo riconoscendo l’altro che possiamo

riconoscere noi stessi.

Un movimento, dunque, di andata e ritorno da e su se stessi. Il

Pinocchio di Očkayová ripercorre il medesimo cammino, giungendo

alla stessa amara conclusione. Pungolando la vita (e il lettore) affinché

si ri-svegli dal sonno in cui è rovinosamente scivolata. Perché “la fiaba

non è stata creata, come le ninne nanne per i bambini perché si

addormentino. È nata come confessione degli adulti fatta agli adulti,

perché si sveglino”4.

PINOCCHIO E LA METAFORA DELLA MIGRAZIONE 5 : TRA

TRADIZIONE E MODERNITÀ

Pinocchio di Očkayová è una storia di duplice appartenenza che

rovina nella non appartenenza. La duplice appartenenza è quella che

Pinocchio sente nei confronti del bosco, da cui ha avuto origine, e del

mondo degli uomini, cui è stato destinato. La non appartenenza è

sancita nei suoi confronti dai ‘contesti’ cui il nostro celebre personaggio

fiabesco indirizza le sue domande di riconoscimento. Attraverso la

figura di Pinocchio l’autrice interroga, quindi, la nozione di identità: dal

punto di vista del soggetto – il burattino che tenta di conciliare le duplici

nature da cui è segnato – e della comunità – l’atteggiamento di rifiuto nei

riguardi del ‘difforme’, il non accoglimento della soggettività altra. Il suo

essere diverso, “così nudo senza la corteccia che mi aveva protetto per

secoli, e comunque fino a quel momento” (Očkayová 2006, p. 18) e lo

sforzo di vivere in between, sono ostacolati e percepiti dai contesti di

appartenenza come una minaccia alla “sicurezza di una comunità”

(Očkayová 2006, p. 18):

4 La citazione, del poeta slovacco Milan Rufus, è stata scelta da Očkayová come

epigrafe al libro di favole slovacche. 5 Come la stessa scrittrice sostiene, nell’intervista rilasciata a Pegoraro nel 2007, una

delle possibili chiavi di lettura del romanzo è vedere in Pinocchio una metafora della

figura del migrante, benché questa non corrisponda ad una sua precisa e consapevole

scelta iniziale.

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questo coso è davvero cadaverico. Ha un’aria decisamente malsana, d’altro mondo. Ma, dico io, vi siete chiesti da dove venga questa specie di burattino?! Vi siete chiesti che cosa

ci porteremmo a casa portandolo con noi?! Avete pensato ai vostri figli, che potrebbero

venirne contagiati? […] questa bizzarria, questa amputazione, questo ibrido che hai creato è uno sberleffo alle leggi della natura.

E da qui lo sciorinare delle varie proposte-rimedio alla

risoluzione dell’imbarazzante ‘problema’:

Propongo di attaccarlo seduta stante all’albero d’origine. […] propongo di portarlo nel luogo più appropriato: al museo cittadino. Lì appronteremo un’apposita sezione dandogli

il rilievo che merita. […] Propongo perciò di scavare una buca e seppellirlo dentro e

aspettare il tempo necessario perché metta radici e germogli: solo così potremo scoprire con chi avremo a che fare. […] E questa situazione esige anzitutto questo: il controllo.

Anzi, di più: la verifica. Immediata. […] è pur sempre un ramo che si è messo a

camminare! È un fatto anormale, inquietante. In una sola parola: diabolico. […] Propongo dunque di dargli fuoco immediatamente. Se è solo un burattino, poco male, avremo ridotto

in cenere un semplice pezzo di legno; se invece è qualcosa d’altro, riusciremo a prevenire

il peggio. - E se è qualcosa d'altro ma innocente? […] Chi siamo noi per erigerci a giudici così estremi? Il fuoco è talmente...talmente definitivo![...] Propongo una prova più equa:

acqua...Portiamolo giù al fiume e buttiamolo dentro: se rimarrà a galla è senz'altro un

ramo; se affogherà assai probabilmente è un ragazzino. (Očkayová 2006, pp. 20-22)

La condizione esperita da Pinocchio, che rimanda a quella

dell'autrice, è la condizione di un soggetto-frontiera, costretto ad abitare

un ‘terzo spazio’, il limen, lo spazio del margine, della sospensione, non

appartenendo più interamente né al contesto di partenza né a quello di

approdo.

in quel momento ero ancora in quello stato di sospensione tra il non essere più e il non

essere ancora: un ramo spezzato che prendeva lentamente la forma umana. (Očkayová 2006, p. 12)

È la condizione di chi è tenuto a contrastare il disorientamento

provocato dall'evento della migrazione, il senso frantumato di sé e lo

‘stato di transitorietà’ e di imprevedibilità che caratterizzano la nuova

dimensione in cui si ritrova. È la condizione di chi ha introiettato la

“capacità di coabitare con – e di assimilare – universi simbolici in

tensione con il proprio”(Sparti 2009, pp. 261-262), tanto da farsi

“spazio che incorpora la differenza come costitutiva dell’identità” (Hall,

cit. da Giaccardi, Magatti 2001, p. 35). La soggettività del migrante

diviene alterità essa stessa, sia rispetto alla comunità d’origine che a

quella ricevente. E come tale è letta da entrambi i (o dai diversi)

contesti.

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Mi ascoltavano sì, ma come si ascolta il rintocco di una campana, l’ululare di una sirena, l’abbaiare di un cane lontano. Come se le mie parole fossero la colonna sonora di un film.

Un loro film. Una musica qualsiasi, dei suoni astratti. E invece io non ero astratto: io ero

un burattino in legno e ossa, e stavo male (Očkayová 2006, p. 106).

L’identità trasloca, senza quietarsi nel contesto d’arrivo -

“desideravo ridiventare ramo. Ma il mio pino era lontano e il mio corpo

di burattino reclamava la vita” (Očkayová 2006, p. 139) -, dando atto ad

un processo di ripensamento del sé che dovrà ricucire insieme i pezzi di

due vissuti, che si collocano, temporalmente e spazialmente, in due

differenti dimensioni dell’esperienza.

L’identità si scuce. E ricuce. Aggiungendo, come in un puzzle,

pezzi “nuovi”, che andranno a ridefinire un sé che non sarà più

appartenente e completamente identificabile con la società di partenza,

come, forse, non sarà mai completamente parte della società d’arrivo6.

Significativa è la discussione tra Geppetto e i Maestri, gli alberi del

bosco, che non riconoscono più Pinocchio come ‘uno di loro’:

– Dimentichi un particolare Geppetto.

– E cioè?

– E cioè che questo è un ramo del mio albero.

– Questo è Pinocchio, - precisò Geppetto.

– Un orfano, - precisò il maestro Abete.

– Uno sbandato, - precisò il maestro Ciliegia.

– Un intruso, - precisò il maestro Pioppo.

– Un capro espiatorio, - precisò il maestro Platano.

6 Il pensiero va ad un film del 2009, Io sono l’amore, di Luca Guadagnino. La

protagonista principale è una donna russa che sposa un uomo italiano e si trasferisce a

Milano, dove crea una famiglia. Finché lei scopre l’Amore – un amore travolgente – che

la porterà ad abbandonare figli, marito ed una vita confortevole. Durante una

conversazione-narrazione con l’‘amante’ – in cui la donna tenta di mettere a fuoco il

proprio vissuto biografico – lei racconta del profondo senso di spaesamento e di

disorientamento avvertito nella sua esperienza di migrante. E dice: “Quando sono

arrivata a Milano ho smesso di essere russa. Per me c’era troppo di tutto: nelle strade,

nei negozi. Ho dovuto imparare ad essere italiana”. La sua esperienza della migrazione

è vissuta come una sostituzione di identità, a cominciare dal cambio del nome, di cui

non serba più memoria. Emerge il chiaro senso di sospensione e frammentazione che, in

questo caso, trovano un certo sollievo nella verità della relazione amorosa. Come

afferma Paolo Jedlowski: “Se la ricerca del sé ha qualche possibilità di incontrare un

punto in cui rinfrancarsi è presso l’altro: un altro solidale e amoroso che ci riconosce nel

doppio senso di attribuirci una dignità esistenziale e di farci sentire compresi”

(Jedlowski 2000, p. 119).

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– Un essere embrionale di origine sconosciuta, - precisò il maestro Cipresso.

– Un'opera del diavolo, - precisò il maestro Castagno.

– Un mistero da svelare, - precisò il maestro Salice.

– Un'occasione da cogliere al volo, - precisò il maestro Noce. (Očkayová 2006, p. 23)

Pinocchio prova a ripensare la sua identità di uomo-burattino

anelando la nascita di una “forma” dell’essere, capace di contenere in sé

il prima e il dopo, senza essere costretto a sottrarre nessuno dei due

momenti fondanti, ma “vivendo per addizione” (Abate 2010),

riconciliato con una vita non più disgiunta e inconciliabile, ma

interiorizzata attraverso uno sguardo policromatico e polifonico.

L’identità del migrante – come costitutivamente avviene anche

per l’uomo contemporaneo – si dispiega in una ricerca che si riproduce

e si ridefinisce costantemente, restando indefinitamente incompiuta. In

fondo siamo tutti un po’ – noi individui della e nella modernità –

migranti: “siamo forse tutti stranieri sulla faccia della terra. Ogni

individuo chiuso nella sua complessità e nella sua unica e insondabile

realtà”. (Lamri 2009, p. 71) Nomadi. Viandanti. Alla ricerca mai

conclusa di una identità comprendente, che tenga insieme le infinite

dimensioni in cui l’esistenza contemporanea, sfaccettata e disomogenea,

si esplica. Homeless. Perché si è perso il senso di sicurezza ontologica,

del radicamento in uno spazio familiare in cui prevalgano

l’intellegibilità e la prevedibilità dell’agire altrui.

Il Pinocchio-migrante fa del dubbio il suo elemento biografico e

identitario costitutivo, istituzionalizzandolo, declinandolo e

ricomponendolo attraverso il paradigma della riflessività (Giddens

1994), divenuto uno dei tratti cardine della modernità.

Pinocchio non si riconosce più, non ritrova più l’identità tra il sé

che abitava l’altrove e il sé che alberga il qui e l’ora: è la tensione tra

identità e non identità, di cui parla Crespi, che qui si acuisce. È quel

“bisogno confuso di perdersi e di ritrovarsi” a cui accenna Melucci

(2000, p. 38). È quel fuoriuscire dalla cornice a cui allude Frida Kahlo7.

È come un trasloco che, dopo aver avuto luogo, richiede una

riorganizzazione “interna”: non sempre i “moduli” pensati per la prima

abitazione risultano adatti per la nuova, quasi mai si incastrano bene:

c’è sempre qualche variazione da fare, qualche aggiustamento, qualche

sostituzione. Si sperimentano così diverse soluzioni possibili: alcuni

7 Ci si riferisce alla citazione: “È necessario che le nuvole fuoriescano anche dalla

cornice. Tutto esce sempre da se stessi: il sangue, le lacrime, le nuvole, la vita stessa”.

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pezzi che nel prima avevano una rilevanza maggiore, dopo potranno

apparire meno rilevante, magari usati in forma indebolita, non

egemonica. Non si tratta di costruire un’identità ex-novo, ma di ri-

modularla, arricchendola di nuovi elementi, trovando i giusti

adattamenti.

L’identità si configura, quindi, come sistema e processo,

permanenza e mutamento. Se assumiamo l’incertezza come una delle

dimensioni qualificanti l’esperienza contemporanea dell’individuo

moderno, riusciamo a cogliere meglio il senso e la portata delle

trasformazioni ‘subite’ dall’identità e il carattere processuale da essa via

via assunto.

L’esistenza di Pinocchio è una continua domanda; la sua identità un

dubbio irrisolto; la relazione con l’altro, una contraddizione dolorosa. In

questo senso l’identità si traduce in un “campo di possibilità e di limiti”

(Melucci 2000, p. 34) – soggetto ad aperture e chiusure, variazioni e

persistenze – che si costruisce in relazione con l’altro. E, sicuramente, il

Pinocchio di Očkayová si delinea come una figura intrisa, dalle radici

ai rami protesi verso il cielo, di modernità.

I “FILI” DELLA DIFFERENZA: LA DIFFICOLTÀ DEL

RICONOSCIMENTO

Il riconoscimento dell’altro si configura come “l’imperativo

morale fondamentale” dell’individuo, la cui violazione comporta la

violazione della stessa natura di essere umani (Cortella cit. da Crespi

2011, p. 8). Sparti la definisce come un atto di response-ability, verso

l’altro e verso noi stessi. Come lo stesso autore precisa, il termine

‘riconoscimento’ è usato non nel senso hegeliano, ripreso da Crespi, di

riconoscimento ‘reciproco’, né nel senso kantiano di “eguale rispetto”,

ma come “riconoscimento pratico” o, con il termine inglese,

acknowledgement. Quando ad essere riconosciuta è un’altra persona,

l’acknowledgement si traduce in “risposta alla sua presenza”, che

significa essere sensibili o “responsivi” nei suoi confronti8.

Pinocchio durante il suo “viaggio iniziatico” – come lo definisce

la scrittrice in una sua intervista – “dal bosco/albero/natura a qualcosa

8 In particolare Sparti opera una distinzione tra identificazione cognitiva o recognition e

riconoscimento etico espressivo o acknowledgement: mentre il primo è un capire “con

chi abbiamo a che fare”, e identifica “una funzione di orientamento sociale”; il secondo

è un approvare, un “conferire valore alla presenza dell’altro”, che “contribuisce sia a

formare geneticamente una identità personale che a mantenere eticamente la dignità

della nostra appartenenza alla metasfera dell’umanità” (Sparti 2000, pp. 54-55).

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di autenticamente umano. O atrocemente disumano, laddove l'umanità

viene calpestata, negata” (Pegoraro 2007, p. 2), sperimenta il

fraintendimento, il dissenso e il conflitto: elementi che impediscono il

processo dell’incontro con l’altro. Il tentativo di spogliare lo sguardo

dai confini che lo vincolano, viene qui ostacolato dalle comunità di

‘appartenenza”, che incatena la sua lacerante parole9, impietosamente

profanando “tutto ciò che oggi vuole dirsi ancora umano” (Očkayová

2006, p. 184)10. La sua soggettività non è, dunque, riconosciuta nella

sua identità totale, ma subisce un processo di emarginazione e di

misconoscimento, che impedisce la reciprocità.

Nell’atto del riconoscimento è insita la scelta dell’altro, che si

traduce in un atto di responsabilità. Si tratta di tessere trame di

inclusione o di esclusione dell’altro. E l’esclusione, nella storia di

Pinocchio, è “ad alta gradazione angoscica” (Očkayová 2006, p. 119),

benché da essa il nostro burattino tenti di sfuggire, smaterializzandosi in

uno ‘stoppino’ – “Stoppinocchio” – tramite il quale recupera la libertà

del pensiero e dell’immaginazione11. Credo che questo passaggio sia

significativo: Pinocchio consegna al proprio ‘doppio’ le sue aspirazioni

(emotive e sociali) recondite, non realizzate; le consegna all'ombra di se

stesso, che si ritaglia nel sogno-visione uno spazio di libertà irriducibile,

una via di fuga da una realtà che ha scartato la propria soggettività,

ricusandola12. Come ci ricorda ancora Sparti, l’atto del riconoscimento

9 Il riferimento è chiaramente ai concetti di langue e parole di de Saussure, che qui non è dato approfondire. 10 A un certo punto della storia Pinocchio viene trascinato sotto la Quercia grande da

Mangiafuoco e incatenato e minacciato di morte se non avesse pronunciato le parole

fatali: “Desidero avere dei fili!”. Il rifiuto gli costa l’incarcerazione in un casotto a forma di pescecane, da cui non ne uscirà, se non in forma ‘rarefatta’. 11 Alla fine anche Pinocchio di Očkayová si trasformerà in uomo: ma sarà un uomo in

catene e rinchiuso a vita in un gabbiotto soffocante, benché ancora irriducibilmente

aggrappato alla sua immaginazione e alla speranza. 12 Esempi di questo sdoppiamento si possono riscontrare in molta parte della letteratura

moderna, in cui troviamo diversi personaggi che “non avendo una chiara coscienza del

proprio Io”, si sdoppiano, sostituendolo “con quello di un altro, estraneo” (De Vidovich,

p. 47). Tra questi, ricordiamo due tra i tanti personaggi della tradizione letteraria slava:

Akakij Akakievič, protagonista del romanzo Il cappotto di Gogol’ e Goljadkin, del Sosia

di Dostoevskij. E la lista potrebbe continuare: penso soprattutto a Gregor Samsa de La

metamorfosi di Franz Kafka. In relazione alla vicenda di Pinocchio, molto ci dice il

racconto di Gogol’. A differenza di Pinocchio, il personaggio del racconto di Gogol’,

attua la strategia dell’isolamento dal mondo, rintanato nel guscio della sua pensione,

dove conduce un’esistenza monadica. È la resa dell’individuo di fronte ad una società

da cui è disconosciuto. Ed è proprio al fine di ottenere riconoscimento – oltre che per

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all’interno di una relazione – che non è il risultato scontato dell’incontro

con l’alterità – conferisce alla persona riconosciuta un ‘bene d’identità’,

determinandone una ‘fioritura’. Quando ci accostiamo, ci ‘esponiamo’

all’altro nell’incontro, siamo generalmente colti da un ‘impulso scettico’

(che è ciò che succede per esempio ai ‘maestri’ nei confronti di

Pinocchio), per mezzo del quale tendiamo ad eluderlo, cosicché

nascosto ai nostri occhi, l’altro non si vede, non gli si dà la giusta

considerazione etica e sociale.

Tale scetticismo può, dunque, sfociare in una elusione (che è

disconoscimento della stessa condizione umana, ovvero della finitudine,

dei limiti e della vulnerabilità che le sono proprie) che crea indifferenza

e separatezza; o tramutarsi in un riconoscimento che può essere,

appunto, di tipo cognitivo (l’individuo viene identificato all’interno

della categoria di ruolo) o espressivo (riconoscimento della singolarità

dell’individuo e della sua dignità). Ciò che accade in ‘questa’ storia di

Pinocchio è proprio l’elusione, la separatezza, una percezione distorta

dell'alterità, giustificata dall’assunzione di una prospettiva ‘centrista’ che

stabilisce aprioristicamente chi è (o dev’essere) illuminato “dai raggi di

‘valenza universale’” (Očkayová 1995, p. 102). Per dirla con le parole

della nostra autrice, il mondo non è altro che “un mosaico di idee, o meglio

di raccoglitori di idee, tessere viventi che si accostano l’una all’altra e

nell'accostarsi percepiscono l’alterità accanto e ne sono percepite e così

disegnano i confini di sé, che sono contemporaneamente i confini dell’altro

e l’idea che ci facciamo del mondo intorno a noi. Dunque, non solo il

mondo non esiste se noi non lo percepiamo, ma nemmeno noi esistiamo se

non veniamo percepiti dal mondo” (Očkayová 1995, p. 23).

Il riconoscimento è, dunque, un bisogno inalienabile

dell’individuo, e viene prima ancora del riconoscimento di sé. È un atto

che potremo considerare come elementare e fondativo dell’esistenza

umana, che si gioca, come nella comunicazione, tra un emittente e un

proteggersi dal freddo pungente di San Pietroburgo – che Akakij Akakievič decide di

dar fondo ai suoi risparmi e farsi cucire finalmente un cappotto nuovo, per mezzo del

quale, sebbene per un tempo brevissimo, ‘conquisterà’ una nuova identità – omologante

– che gli permetterà finalmente di essere visto e considerato dai suoi colleghi, e di

assumere un’inedita, benché momentanea, consistenza, dando luogo ad un principio di

quel riconoscimento etico, attraverso il quale si attua la cura dell’identità, nella

relazione con l’altro. Il racconto si conclude con la morte di Akakij, il quale, non

riuscendo a sopportare la ‘perdita’ del cappotto nuovo, si trasfigurerà in un fantasma

che, nella notte – a mo’ di rivincita – sbeffeggia i malcapitati strappando loro i cappotti

da dosso…

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destinatario, o nei racconti, tra un soggetto narrante e un uditore. È la

modalità dialogica e relazionale che si instaura tra due soggetti

interlocutori e, come tale, non è neutra, ma può essere positivamente o

negativamente connotata, e aggettivata con una vasta gamma di

espressioni. Il riconoscimento è essenziale per la costruzione

dell’identità individuale: la sua non concessione, il suo

misconoscimento divengono condizioni distruttive dell’identità. Che è

quanto si verifica a conclusione della fabula romanzata da Jarmila

Očkayová.

Il finale del romanzo di Pinocchio, che si presenta come una

sbavatura rispetto al classico collodiano, destabilizzando il lettore che si

aspetta il lieto fine, ci consegna l'impressione di un dialogo interrotto.

L'invito alla speranza sembra infrangersi contro un'incomunicabilità che

si fa pietra, tramutandosi gradualmente in una dimensione di

indifferenza stagnante, che tutto copre e raggela. Essa si tradisce quale

piaga incurabile del soggetto in relazione, in cammino verso la ricerca

della propria identità e del senso universale del vivere. Punte di

angoscia si introducono nelle pieghe dell’animo del lettore – che,

ritornato quasi bambino, si chiede: ma perché?, ma che fanno?, ma non

si rendono conto che così lo ridurranno alla morte? –, disorientandolo

fin quasi allo smarrimento di fronte ad una fine così inaspettatamente

amara e (quasi) fraudolenta. È l’ombra dell’(insopprimibile?) umana

incomprensione che transita attraverso le parole palpitanti, insinuando

trepidazione e inquietudine. La costernazione che ne promana è appena

spezzata dal farsi carne di una flebile speranza: una nostalgia per un

futuro che si traduce in un sogno muto: “la felicità dell'attesa del

sole”(Abate 2007, p. 75), che Pinocchio pare rincorrere “come un

assetato che segue un miraggio” (Lamri 2009, p. 69).

E Pinocchio, “occhio di pino”, con “quel suffisso che nel mio

nome specifica la facoltà visiva” (Očkayová 2006, 18), muove verso

l’ultimo viaggio: il viaggio di ritorno verso di sé. Controvento. Perché

qui il ribaltamento della storia si manifesta sino alla sua conclusione:

l’eroe non vince, ma, alla stregua di una visione onirica, si dilegua nel

bosco incantato, sconfitto dal drago13.

Se è vero che “lo straniero conosce “in vita” l'esperienza della

morte – “Si muore a degli affetti, a dei paesaggi, dei pensieri per

13 Questa considerazione riecheggia volutamente la conclusione della proesia

‘Germanese’ di Carmine Abate: “[...] L'eroe vince sempre / e il drago sconfitto ma vivo

/ si dilegua nel bosco incantato” (Abate 2011, pp. 67-68).

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rinascere ad altri affetti, altri paesaggi, altri pensieri” (Lamri 2009, p.

44)] - lo straniero-Pinocchio muore senza aver la possibilità di

rinascere a nuova vita: di trovare ciò per cui si era messo in cammino,

di veder fiorire unitamente le sue due identità attraverso una parabola di

metamorfosi interiore. E muore per volontà di chi non ha saputo

(voluto?) riconoscerlo, di chi lo ha estromesso – isolandolo ed

escludendolo – in nome di una diversità che spiazza e intimorisce: è

l'impossibilità di categorizzarlo, di farlo rientrare in forme ingessate ma

immediatamente riconoscibili che induce la comunità a respingerlo.

Concluderei con le parole della stessa autrice:

sono profondamente convinta che le radici etniche siano importantissime: forgiano il nostro senso di appartenenza, la coscienza della nostra identità, il nostro primo alfabeto

dei valori, dei sogni, delle emozioni. Ma non siamo alberi per cui le nostre radici hanno

davvero un senso, soltanto se sappiamo protenderle verso gli altri (Očkayová 2002, p. 62).

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