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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 1 Relazioni di cura e cura della relazione. II dialogo Martin Buber - Carl R. Rogers (1957) Daniele Bruzzone Introduzione Il dialogo tra il filosofo Martin Buber (1878-1965), considerato "il più radicale" e "il più influente pensatore religioso del ventesimo secolo" 1 e lo psicologo e psicoterapeuta Carl R. Rogers (1902-1987), riconosciuto come "il più influente psicoterapeuta" e "uno dei più influenti psicologi" della storia americana, viene proposto in queste pagine per la prima volta al lettore italiano, sulla base di uno studio filologico che ne conserva, attraverso la traduzione, il clima originario e ne puntualizza, mediante il commento critico, le questioni nodali, relative alla comunicazione interpersonale e alla relazione d'aiuto 2 . Martin Buber era stato invitato, per iniziativa di Leslie Farber e con il supporto della William Alanson White Foundation, a tenere un ciclo di lezioni presso la Washington School of Psychiatry, prestigiosa istituzione fondata dal massimo rappresentante della psichiatria relazionale, Harry Stack Sullivan. Il Rev. DeWitt C. Baldwin, coordinatore religioso presso l'Università 1 L. Streiker, The Promise of Buber. Desultory Phillippics and Irenic Affirmations, Lippincott, Philadelphia, 1969, p. 12. 2 H. Kirschenbaum, "Author's note", in M. M. Suhd, Positive Regard: Carl Rogers and Other Notables He Influenced, Science & Behavior Boote, Palo Alto 1995, p. 98.

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Relazioni di cura e cura della relazione. II dialogo Martin Buber - Carl R. Rogers (1957) Daniele Bruzzone

Introduzione

Il dialogo tra il filosofo Martin Buber (1878-1965), considerato "il più radicale" e "il più influente pensatore religioso del ventesimo secolo"1 e lo psicologo e psicoterapeuta Carl R. Rogers (1902-1987), riconosciuto come "il più influente psicoterapeuta" e "uno dei più influenti psicologi" della storia americana, viene proposto in queste pagine per la prima volta al lettore italiano, sulla base di uno studio filologico che ne conserva, attraverso la traduzione, il clima originario e ne puntualizza, mediante il commento critico, le questioni nodali, relative alla comunicazione interpersonale e alla relazione d'aiuto2 .

Martin Buber era stato invitato, per iniziativa di Leslie Farber e con il supporto della William Alanson White Foundation, a tenere un ciclo di lezioni presso la Washington School of Psychiatry, prestigiosa istituzione fondata dal massimo rappresentante della psichiatria relazionale, Harry Stack Sullivan. Il Rev. DeWitt C. Baldwin, coordinatore religioso presso l'Università

1 L. Streiker, The Promise of Buber. Desultory Phillippics and Irenic Affirmations, Lippincott, Philadelphia, 1969, p. 12.

2 H. Kirschenbaum, "Author's note", in M. M. Suhd, Positive Regard: Carl Rogers and Other Notables He Influenced, Science & Behavior Boote, Palo Alto 1995, p. 98.

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del Michigan, colse l'opportunità della presenza del filosofo di Gerusalemme per organizzare ad Ann Arbor un convegno di tre giorni in suo onore. La sera del secondo giorno (giovedì 18 aprile 1957) avvenne l'incontro pubblico con Carl Rogers, a quell'epoca professore di Psicologia e responsabile del Counseling Center dell'Università di Chicago. Moderatore della serata fu Maurice Friedman (allora giovane docente del Sarah Lawrence College, oggi professore emerito dell'Università di San Diego, California), uno dei più autorevoli interpreti americani del pensiero di Buber, che aveva intrattenuto con il pensatore ebreo uno scambio epistolare nel corso degli anni Cinquanta e aveva notato in un suo libro3 le assonanze tra i principi della filosofia dialogica4 e quelli della terapia centrata-sul-cliente5.

I due interlocutori si impegnarono in una conversazione della durata di un'ora e mezza circa, svolta in presenza di un folto e qualificato uditorio (tra cui anche la moglie di Buber, Paula, e sua nipote Judith, nota sociologa), mettendo a confronto le proprie idee e la propria esperienza dei rapporti interumani. L'incontro si rivelò per molti versi un'esperienza "memorabile"6. Secondo Rogers, il dialogo si dimostrò, ben oltre le aspettative, "molto significativo per entrambi"7, come del resto sarebbero stati in seguito i suoi famosi incontri con B. F. Skinner, P. Tillich, M. Polanyi e C. Bateson8 . Si tratta in effetti di un momento estremamente interessante nella storia della filosofia e della psicologia delle relazioni interpersonali: grazie alle molteplici affinità tra i due autori, ma anche in virtù delle loro non meno significative divergenze, la dimensione del dialogo, che comporta un'opzione antropologica fondamentale e si traduce in precisi atteggiamenti comunicativi, emerge come la via regia di un profondo e autentico incontro da persona a persona, capace di liberare le potenzialità evolutive e costruttive insite nell'individuo e di catalizzare i dinamismi della crescita e del cambiamento. L'interazione dialogica si pone quindi chiaramente come un imprescindibile criterio metodologico della relazione d'aiuto, con importanti risvolti di carattere psico-pedagogico.

La registrazione audiomagnetofonica dell'incontro, che Rogers ottenne nonostante l'iniziale reticenza di Buber (il quale non aveva permesso che venissero registrate le sue lezioni alla Washington School of Psychiatry), fu trascritta probabilmente da una segretaria dello stesso Rogers e pubblicata

3 M. Friedman, Martin Buber: The Life of Dialogue, University of Chicago Press, Chicago, 1955. 4 M. Buber, I and Thou, T.&T. Clark, Edinburgh, 1937. 5 C.R. Rogers, Client-Centered Therapy. Its Current Practìce, Implìcations, and Theory, Houghton Mifflin, Boston, 1951. 6 M. Friedman to C. Rogers, New York - 23 April 1957 (Lettera non pubblicata). The Carl R. Rogers Collection, Manuscript Division, Library of Congress, Washington DC (box 6, folder 1). 7 R.l. Evans, Carl Rogers: The Man and His Ideas, Dutton, New York, 1975, p. 111. 8 cfr. H. Kirschenbaum, V.L. Henderson (eds.), Carl Rogers: Dialogues, Houghton Mifflin, Boston, 1989. "Dialogue Between Martin Buber and Carl Rogers", Psychologia, 1960, 3, pp. 208-221.

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dapprima in una rivista giapponese9 cui fecero seguito altre edizioni in inglese10 e una in tedesco11 , sebbene tutte rechino in varia misura lacune e imprecisioni. Il testo di riferimento adottato per la traduzione italiana è quello dell'edizione critica più recente12 e si avvale dell'accesso a documenti di prima mano conservati in diversi archivi13. Si è cercato, per quanto possibile, di fornire una versione in lingua italiana che rispettasse fedelmente lo sviluppo letterale della conversazione, benché le frequenti interiezioni del parlato, le esitazioni, le inflessioni vocali e le interruzioni della sintassi abbiano in qualche caso reso difficile l'impresa. Le note di commento che accompagnano il testo hanno lo scopo di chiarire gli eventuali problemi linguistici e interpretativi, di precisare laddove necessario i rimandi bibliografici impliciti nella conversazione, e di sottolineare di volta in volta gli snodi teorici e le implicazioni degne di nota emergenti dal discorso14 .

Poiché Rogers e Buber nel corso dell'incontro hanno affrontato alcuni temi cruciali del loro pensiero, il dialogo offre molteplici spunti utili ad accostare l'opera dei due interlocutori e a svilupparne il significato teoretico e operativo. L'incontro tra Buber e Rogers, mentre testimonia il valore del confronto interpersonale, è emblematico anche della difficoltà del dialogo: alcune delle questioni che vengono affrontate non sono definitivamente risolte, tra i due interlocutori permangono elementi di reciproca incomprensione e, al di là degli evidenti punti di contatto, anche qualche elemento di disaccordo. Ma ciò, in fondo, appartiene alla natura del dialogo in quanto tale, e rende la conversazione doppiamente interessante: non solo

9 "Dialogue Between Martin Buber and Carl Rogers", Psychologia, 1960, 3, pp. 208-221.

10 Cfr. M. Friedman, "Dialogue Between Martin Buber and Carl Rogers", in Id. (ed.), The Worlds of Existentialism: A Criticai Keader, Random House, New York, 1964, pp. 485-497; M. Buber, The Knowledge of Man: A Philosophy of the Interhuman, Harper & Row, New York, 1965; H. Kirschenbaum, V.L. Henderson (eds.), Carl Rogers: Dialogues, cit., pp. 41-63. " 11 "Dialog zwischen Martin Buber und Carl Rogers", Integrative Therapie, 18 (1992), pp. 245-

260.R. Anderson, K.N. Cissna, The Martin Buber - Carl Rogers Dialogue. A New Transcript With Commentary, State University of New York Press, New York, 1997. 12 R. Anderson, K.N. Cissna, The Martin Buber - Carl Rogers Dialogue. A New Transcript With

Commentary, State University of New York Press, New York, 1997. 13 Il fondo documentale di Carl R. Rogers è confluito in maniera significativa presso la

Donald C. Davidson Library dell'Università della California a Santa Barbara (Department of Special Collections, collection number: HPA Mss 32), ma un'altra parte notevole dei materiali è conservata presso la Manuscript Division della Library of Congress di Washington DC

14 Per una trattazione puntuale e analitica dei problemi tecnici relativi al significato del

dialogo e alle vicende relative alle sue diverse trascrizioni, si rinvia agli studi più significativi pubblicati sull'argomento: K.N. Cissna, R. Anderson, "The 1957 Martin Buber-Carl Rogers Dialogue, as Dialogue", lournal of Humanistic Psychology, 34 (1994), pp. 11-45; M. Friedman, "Reflections on the Buber-Rogers Dialogue", lournal of Humanistic Psychology, 34 (1994), pp. 46-65.

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per gli argomenti che vi sono discussi, ma anche per il modo in cui avviene il colloquio. Anche per questa ragione, il testo dell'incontro Buber-Rogers, a cìnquant'anni di distanza, rimane una pagina memorabile della psicologia e della filosofia delle relazioni umane, densa di suggestioni per gli studiosi (filosofi, psicologi, pedagogisti) e i professionisti della cura (psicoterapeuti, consulenti, psichiatri, insegnanti, educatori) e per tutti coloro che sono interessati alle risorse terapeutiche e alle potenzialità educative insite nella relazione da persona a persona.

1. REV. DEWITT BALDWIN: [I primi 11 minuti di registrazione sono perlopiù incomprensibili] ... il dottor Maurice Friedman come interprete o moderatore... e sono sicuro che molti di voi hanno atteso questa opportunità di vedere lo scambio e di sentire... [incomprensibile] di due uomini come il dottor Carl Rogers e il dottor Buber. E così15 , il mio stasera è un compito molto piacevole, quello [la qualità della registrazione migliora] di darvi il benvenuto e di dirvi accomodatevi e godetevi almeno un'ora di tempo in cui poter pensare con due uomini che vogliono pervenire ad una comprensione un po' più ravvicinata delle loro idee. Voglio soltanto presentarvi una persona e lasciare poi che sia lui a parlare degli altri. Il moderatore è il professor Maurice S. Friedman, professore di filosofia al Sarah Lawrence College di Bronxville, New York. Il professor Friedman, come tutti coloro che hanno partecipato al convegno sanno bene, è uno dei migliori interpreti americani di Martin Buber. Egli ha studiato ad Harvard prima della laurea, e dopo la laurea alla Ohio State University di Chicago, dove ha conseguito il dottorato, e forse è conosciuto in relazione a Martin Buber soprattutto per il suo libro, Martin Buber: The Life of Dialogue. Quindi, Maurice, a te la parola, so che ti divertirai16 .

2. MAURICE FRIEDMAN: Grazie, DeWitt Baldwin. Mi fa molto piacere fare da moderatore perché posso dire che forse sono stato io ad avviare il dialogo tra il professor Buber e il professor Rogers alcuni anni or sono, quando qualcuno mi fece notare certe somiglianze nel loro pensiero; scrissi al dottor Rogers e lui gentilmente mi fornì dei materiali e in seguito ci scrivemmo per un po', poi inviai questo materiale a Buber,

15 Qui DeWitt Baldwin esita e si schiarisce la voce. Nella trascrizione originale sono

fedelmente riportati i numerosissimi segnali paralinguistici che accompagnano e intercalano la conversazione (schiarimenti di voce, balbettii, ripetizioni di singole parole, errori e autocorrezioni, suoni vocali che significano esitazione o stupore o assenso, ecc.) ma per non ostacolare la lettura si è preferito ometterli in questa traduzione. Alcune indicazioni relative a interruzioni, risate, segnali di partecipazione del pubblico, ecc. sono invece state conservate tra parentesi. Per il resto, si è tentato di mantenere la massima aderenza possibile al testo parlato nelle sue forme grammaticali e sintattiche.

16 Questa versione dell'introduzione di Baldwin è più estesa e dettagliata di quella contenuta

nel dattiloscritto originale e spesso omessa nelle trascrizioni pubblicate.

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inclusi degli articoli del professor Rogers, e fui davvero molto felice quando venne fuori l'idea di averli entrambi qui a parlare in dialogo. Penso che sia un incontro estremamente significativo, non solo in rapporto a - [breve interruzione prevalentemente incomprensibile apparentemente dovuta alla posizione del microfono] non solo in rapporto alla psicoterapia, ma per il fatto che tutti e due questi uomini hanno... [incomprensibile] la nostra ammirazione, come persone che hanno un approccio alle relazioni personali e al divenire personale. Ci sono così tante somiglianze rilevanti nel loro pensiero che è persino affascinante avere il privilegio di vederli parlare insieme e vedere quali questioni potranno anche venirne fuori. E il mio ruolo di moderatore è solo, se si presenterà l'occasione, di precisare tali questioni od interpretarle in un modo o nell'altro. Non avete bisogno, penso, che vi presenti il professor Buber, dal momento che il convegno è incentrato su di lui, e sono sicuro che non avete neppure bisogno che vi presenti il dottor Rogers. Egli, naturalmente, è stato famoso per moltissimi anni come il fondatore della terapia un tempo cosiddetta "non direttiva", ora, credo, ribattezzata terapia centrata-sul-cliente, ed è il direttore del Counseling Center dell'Università di Chicago, dove ha avuto rapporti molto fecondi con il gruppo dei teologi e i corsi sulla personalità e la religione. E la forma di questo dialogo sarà che il dottor Rogers stesso porrà delle domande al dottor Buber e il dottor Buber risponderà, forse con una domanda, forse con un'affermazione. Lasceremo che siano loro a continuare, adesso. Dottor Rogers17 .

3. CARL R. ROGERS: Una cosa che sento di voler dire all'uditorio prima di iniziare a parlare con il dottor Buber è che questo è assolutamente un dialogo non preparato. Le condizioni del tempo mi hanno costretto a impiegare tutto il giorno per arrivare qui, e così è stato soltanto un'ora fa o due che ho incontrato il dottor Buber, anche se l'ho incontrato molto tempo fa nei suoi scritti. Penso che la prima domanda che mi piacerebbe porle, dottor Buber, potrebbe suonare un tantino impertinente, ma vorrei spiegarla e dopo forse non sembrerà impertinente. Mi sono chiesto: come ha fatto a vivere relazioni interpersonali così profonde e a raggiungere una tale comprensione

17 Il ruolo centrale di Buber, attorno al quale ruota l'intero convegno, è chiaramente delineato

nell'intervento introduttivo di Friedman, tanto che la funzione di Rogers, solo in parte rispettata nel corso della conversazione, dovrebbe essere quella di porre domande e attendere risposte. In genere, l'atteggiamento degli interlocutori, soprattutto inizialmente, appare piuttosto diverso: Buber tende a rispondere in maniera più assertiva e solo progressivamente cede alla dialettica; Rogers, invece, assume immediatamente un ruolo più problematizzante. Sembra che fosse stato stabilito precedentemente anche la posizione eminentemente passiva dell'uditorio, per cui nessuno, in queste prime battute, menziona la possibilità di porre domande da parte del pubblico. È comunque immediatamente evidente che il tema della discussione è duplice ma allo stesso tempo unitario: "le relazioni e il divenire personale", non come due questioni parallele, bensì nelle loro intersezioni specifiche. Il tema delineato fin dall'inizio è quindi quello del rapporto tra la comunicazione interpersonale e i dinamismi del cambiamento, ovvero la questione cardine della stessa natura del dialogo come processo terapeutico ed educativo.

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dell'essere umano, senza essere uno psicoterapeuta? [Buber ride; il pubblico ride] La ragione per cui lo chiedo è che mi sembra che molti di noi sono arrivati a intuire e sperimentare alcune di quelle acquisizioni che lei ha espresso nei suoi scritti, ma molto spesso ci siamo arrivati attraverso la nostra esperienza di psicoterapia, lo penso che ci sia qualcosa nella relazione psicoterapeutica che ci permette, quasi in modo formale, di entrare in un rapporto profondo e intimo con una persona, e in questo modo noi tendiamo ad apprendere in maniera molto profonda. Penso a un mio amico psichiatra che dice che18 non sente mai totalmente o così tanto una persona, come nei suoi colloqui terapeutici; e io condivido questa impressione. E quindi, se non è troppo personale, mi interesserebbe sapere quali sono stati i canali di conoscenza che le hanno permesso di imparare davvero così tanto sulle persone e sulle relazioni19?

4. MARTIN BUBER: Hmmm. È piuttosto una questione biografica. Penso che dovrò dare due risposte anziché una. Una, - [poco chiaro: aber, "ma" in tedesco, o forse rather] questo è solo un particolare - è che io non sono del tutto estraneo, me lo lasci dire, alla psichiatria, perché quand'ero studente -molto tempo fa - ho studiato per tre trimestri psichiatria e quella che in Germania chiamano "Psychiatrische-Klinique". lo ero più che altro interessato a quest'ultima. Vede, non ho studiato psichiatria per diventare uno psicoterapeuta. L'ho studiata per tre trimestri. Prima con Flechsig a Lipsia, dove ero uno degli allievi di Wundt. Poi a Berlino, con Mende], e il terzo trimestre con Bleuler a Zurigo, che era il più interessante dei tre. Volevo, allora... [incomprensibile: frase in tedesco?] - ero anche un uomo molto giovane, senza esperienza, e non molto perspicace. Ma ebbi l'impressione che volevo conoscere l'uomo e l'uomo nel cosiddetto stato patologico. Dubitavo anche allora che fosse il termine giusto. [Rogers: "Oh, capisco"] Volevo vedere, incontrare se possibile, quelle persone, e - per quanto posso ricordare - stabilire la relazione, la vera relazione tra quello che noi chiamiamo un uomo sano e quello che chiamiamo un uomo patologico. E questo l'ho imparato in qualche misura - per quanto un ragazzo di circa vent'anni può [Buber

18 La trascrizione originale riporta qui 2,5 secondi di pausa, e indica i momenti successivi di

attesa o di silenzio indicando tra parentesi la loro durata cronologica. Benché non siano prive di significato, per rendere più scorrevole la lettura si è deciso di omettere tali indicazioni. 19 Rogers dichiara fin dall'inizio la presenza e l'importanza del pubblico e puntualizza che

l'incontro non è stato preparato. Dalle carte rogersiane conservate nella sezione manoscritti della Library of Congress (Washington DC) emerge come Rogers conoscesse gli scritti di Buber almeno da alcuni anni: nel 1952, per esempio, ne fece oggetto di insegnamento nei suoi corsi a Chicago. Egli aveva approntato nove domande da porre a Buber, ma riuscì a farne soltanto quattro. Le cinque rimaste inespresse con-cernevano i seguenti argomenti: se Buber considerasse la natura umana fondamentalmente positiva; quali fossero secondo Buber gli elementi decisivi per produrre cambiamento in una relazione lo-Tu; se Buber fosse d'accordo nel dire che una persona, una relazione, una nazione o una scienza sono migliori o più efficienti quando sono in un processo di divenire; quale fosse l'idea buberiana di apprendimento e di educazione; se anche Buber credesse che le scienze del comportamento minacciano di produrre una prevaricazione del rapporto Io-esso sulla relazione lo-Tu.

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sorride] imparare queste cose. Ma ciò che soprattutto ha formato ciò che lei mi chiede, è stato qualcos'altro. È stata una certa inclinazione a incontrare le persone, per quanto possibile, per cambiare se possibile qualcosa nell'altro, ma anche per lasciarmi cambiare da lui. In ogni caso, non vi opponevo resistenze, lo - già allora, da giovane - sentivo che non avevo il diritto di voler cambiare un altro se non ero disposto ad essere cambiato da lui per quel tanto che è giusto. Qualcosa deve essere cambiato e il tocco dell'altro, il suo contatto, è capace di cambiarlo più o meno. Non posso stare, per così dire, al di sopra di lui e dire: "No! Sono fuori gioco! Tu sei matto". Quindi - vediamo - ci sono state due fasi. La prima fase fino all'anno '18-'19, fino quasi ai miei quarant’anni20 .

5. ROGERS: Fino a quasi quarant’anni?21

6. BUBER: Esatto. E poi, nel 1819, sentii qualcosa di piuttosto strano. Sentii che ero stato, fortemente influenzato da qualcosa che stava finendo proprio allora, cioè la seconda, la prima guerra mondiale22.

7. ROGERS: Nel 1918. 8. BUBER: Mhmmm. Finì allora, e durante la guerra, non mi resi granché

conto di questa influenza. Ma alla fine mi accorsi: "Oh, sono stato terribilmente influenzato", perché io, non potevo resistere a ciò che stava accadendo, ero quasi costretto, se così posso dire, a viverlo. Capisce? Le cose che accadevano in quel momento. Si potrebbe chiamarlo "immaginare il reale". Immaginare ciò che stava accadendo. Questo immaginare, per quattro anni, mi ha influenzato terribilmente. Proprio quando finì con un certo episodio, forse nel '19, quando un mio amico, un grande amico, un grande uomo, fu ucciso dai soldati antirivoluzionari in modo barbaro, e io, ancora una volta - e fu l'ultima - fui, costretto ad immaginare questo assassinio, non solo però in modo visivo, ma se così posso dire, con il mio corpo23 .

20 Buber appare interessato fin dall'inizio alla situazione patologica - di pertinenza specifica

della psichiatria e della psicoterapia - come situazione limite per la comunicazione. Nonostante faccia riferimento ad una cura di tipo clinico, però, non rinuncia a chiarire che il dialogo consiste in una certa predisposizione alla reciprocità e non in una tecnica per la manipolazione unilaterale dell'altro.

21 Nell'approccio centrato-sulla-persona, la ripresa della verbalizzazione dell'interlocutore,

anche nella semplice forma della ripetizione delle sue ultime parole da parte del terapeuta-facilitatore, tende a supportare l'interazione, confermando l'altro e incoraggiando il prosieguo della comunicazione.

22 Buber, già dalla frase precedente, dice "eighteen nineteen" invertendo le cifre per errore:

in realtà vuole dire "nineteen eighteen", cioè indicare l'anno 1918, come risulta evidentemente dal riferimento alla fine della prima guerra mondiale e dalla correzione di Rogers subito dopo.

23 II "grande amico" cui Buber fa riferimento è Gustav Landauer, incontrato nell'ambito del movimento filo-socialista Die neue Gemeinschaft e tragicamente scomparso nel 1919. I biografi considerano la sua morte uno dei tre eventi maggiormente incisivi nell'esistenza di Buber. (Cfr. anche M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici, trad. dal tedesco, Città Nuova, Roma 1998).

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9. ROGERS: Con i suoi sentimenti24. 10.BUBER: E questa è stata la... [incomprensibile] decisiva o meglio, il

momento decisivo, dopo di che, dopo alcuni giorni e notti in questo stato, sentii che: "Oh, mi è accaduto qualcosa". E da allora in poi, questi incontri con le persone, in particolare con i giovani, con le persone giovani, furono - diventarono - in qualche modo diversi. Avevo avuto un'esperienza decisiva, un'esperienza di quattro anni, un'esperienza molto concreta e da allora dovevo dare qualcosa di più, che la mia inclinazione a scambiare pensieri e sentimenti, e così via. Dovevo dare il frutto di un'esperienza.

11. ROGERS: Sembra che lei stia dicendo che la conoscenza forse, o una parte di essa, è venuta negli anni '20, ma poi parte della saggezza che lei ha in fatto di relazioni interpersonali, è venuta dal voler incontrare le persone apertamente, senza volerle dominare. E poi - la vedo come una sorta di triplice risposta - terzo, dall'aver vissuto realmente la guerra mondiale, ma dall'averla vissuta nei suoi sentimenti e nella sua immaginazione25.

12.BUBER: Hmm. Proprio così. Perché quest'ultimo è stato veramente, non posso dirlo con altre parole, è stato veramente un vivere con quelle persone. Persone ferite, uccise in guerra.

13.ROGERS: Lei sentiva le loro ferite26 . 14.BUBER: Sì. Ma non è abbastanza forte la parola "sentire". 15.ROGERS: Vorrebbe qualcosa di più forte. Vorrei suggerire una cosa,

anche se ci interrompe un po'. Non posso guardare il microfono e guardare lei contemporaneamente. Le dispiace se giro un po' il tavolino27?

16.BUBER: Sì, prego, prego. 17.ROGERS: Allora 18.BUBER: Devo sedermi qui?

24 Esempio di risposta di riformulazione o delucidazione: Rogers cerca di esplicitare ciò che

Buber vuole esprimere. 25 Il riferimento agli "anni '20" è da intendersi piuttosto come un riferimento ai vent'anni

del giovane Buber. Riassumendo e riorganizzando la risposta di Buber pur senza aggiungervi elementi estranei, Rogers offre un esempio del procedimento metodologico dell'"ascolto attivo".

26 Risposta-riflesso che tenta di cogliere empaticamente e rinviare all'altro il vissuto

espresso nella comunicazione, in modo che egli vi si riconosca o tenti di esprimerlo più accuratamente.

27 La riformulazione "Vorrebbe qualcosa di più forte" predispone ad un'ulteriore

esplicitazione dell'esperienza, ma in questo caso l'opportunità decade a causa dell'interruzione dovuta allo spostamento del tavolino. Del resto, anche quest'attenzione alla strutturazione fisica del setting dell'interazione e alla posizione reciproca è un elemento fondamentale dell'attenzione al contesto comunicativo, a cui Rogers sembra molto sensibile anche in questa occasione.

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19.ROGERS: Sì. Lo sposti avanti solo un po' e poi penso che – 20.BUBER: Così va bene? 21. ROGERS: Mi sembra meglio. Spero vada bene per il pubblico. 22.FRIEDMAN: Mentre si sta spostando, dirò questo, che la domanda del

professor Rogers mi ha fatto venire in mente uno studente di teologia di un seminario battista che mi parlò per un'ora del pensiero del professor Buber, e quando se ne andò disse: "Devo farle una domanda. Il professor Buber è così buono. Come mai non è un cristiano?" [Risate]

23. BUBER: Posso raccontarle una storia, non su di me, ma una storia vera, non un semplice aneddoto. Un ufficiale cristiano, ufficiale- non so, colonnello, o qualcosa del genere -doveva spiegare ad alcune persone in - penso - in Galles, doveva spiegare loro qualcosa durante la guerra, la seconda guerra... [incomprensibile] spiegare - ai soldati - qualcosa sugli ebrei. Iniziò, naturalmente, con la spiegazione di ciò che dice Hitler e così via, e spiegò loro che gli ebrei non sono proprio una razza barbara, hanno una grande cultura, eccetera; e poi indicò un soldato ebreo che era là e che ne sapeva qualcosa e gli disse: "Ora va avanti tu e di' loro qualcosa". E questo giovane ebreo raccontò loro qualcosa su Israele e perfino su Gesù. E uno dei soldati rispose: "Vuoi dire che prima del tuo Gesù non eravamo cristiani?" [Lunga risata]

24. BUBER: Ora vada avanti lei. 25. ROGERS: Oh no... [Incomprensibile - "Non dopo questo"?] 26. BUBER: No? [Ancora risate] 27. ROGERS: Bene, vorrei passare a una domanda che mi sono fatto

spesso. Mi sono chiesto se il suo concetto - o la sua esperienza - di ciò che ha chiamato la relazione lo-Tu è simile a ciò che io vedo come il momento efficace in una relazione terapeutica. E - se me lo permette - vorrei spendere qualche istante per dire ciò che ritengo [Buber: "Sì, sì".] essenziale in essa, e poi forse lei potrà commentarlo dal suo punto di vista. Sento che quando sono efficace come terapeuta, entro nella relazione come una persona, non come un esaminatore, non come uno scienziato, eccetera. Sento anche che quando sono più efficace, allora in certo senso io sono intero in quella relazione, o la parola che mi sembra significativa è "trasparente". Ossia, non c'è nulla - certamente ci possono essere molti aspetti della mia vita che non sono portati all'interno della relazione, ma ciò che c'è nella relazione è trasparente. Non c'è nulla, nulla di nascosto. Poi penso anche che in tale relazione sento una vera e propria volontà che quest'altra persona sia ciò che è. lo la chiamo "accettazione". Non so se sia una parola molto buona, ma ciò che voglio dire è che voglio che ella abbia i sentimenti che ha, abbia gli atteggiamenti che ha, sia la persona che è. E poi suppongo che un altro aspetto che per me è importante è che io penso in quei momenti di essere veramente capace di percepire con una certa chiarezza come la sua esperienza le appare, vedendola davvero dal suo interno, e tuttavia senza perdere in questo la mia personalità o la mia distinzione. E poi se, in aggiunta a queste cose da parte mia, il mio cliente o la persona con cui sto lavorando è capace di percepire qualcosa di questi miei atteggiamenti, allora mi sembra che ci sia un vero incontro esperienziale tra persone, in cui ciascuno viene cambiato. Non so - penso a volte che il

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cliente venga cambiato più di me, ma penso che entrambi siamo cambiati in questo genere di esperienza. Ora, mi pare che ciò abbia una qualche somiglianza con il genere di cose che lei ha detto sulla relazione lo-Tu. Tuttavia, sospetto che vi siano delle differenze. In ogni caso, mi interesserebbe molto il suo commento su come questa descrizione le sembra, in relazione a ciò che ha pensato nei termini di due persone che si frequentano, o di una relazione del tipo lo-Tu28 .

28.BUBER: Posso provare - ma mi permetta di fare qualche domanda anche su ciò che lei pensa. Anzitutto, direi, questa è l'azione di un terapeuta. È un ottimo esempio di un certo modo di esistenza dialogica. Voglio dire: due persone hanno in comune una certa situazione. Questa situazione è, dal suo punto di vista - punto non è una buona parola, ma vediamola pure dal suo punto di vista - è che un uomo malato viene da lei e le chiede un particolare tipo di aiuto. Ora, provi a guardare... [incomprensibile - Rogers si sovrappone] - che cosa vedrebbe?

29. ROGERS: Posso interromperla qui? 30. BUBER: Sì, prego. 31. ROGERS: lo sento che, se dal mio punto di vista questa è una persona

malata [qualcuno versa dell'acqua], allora probabilmente non sarò d'aiuto come potrei essere. Sento che questa è una persona. Sì, qualcun altro la chiamerebbe malata, o se la guardassi da un punto di vista in qualche modo oggettivo, potrei anche essere d'accordo: "Sì, è malata". Ma entrando in relazione mi sembra che se la guardo come "lo sono una persona relativamente sana e questa è una persona malata" -

32. BUBER: No, ma non intendo questo.

28 Rogers pone il problema degli atteggiamenti nella relazione efficace, e inizia da quel prerequisito fondamentale che consiste nell'autenticità o congruenza (qui "trasparenza"), per poi incentrarsi sulla condizione sine qua del cambiamento terapeutico, cioè in quell'atteggiamento di "accettazione", di accoglienza calorosa e non giudicante dell'altro, che progressivamente si verrà definendo come "considerazione positiva incondizionata", che ha la funzione di creare un clima psicologico di sicurezza e di fiducia, incrementando l'autoaccettazione e l'autostima, cosicché le resistenze autodifensive vengano eliminate alla radice. Il terzo atteggiamento caratterizzante la relazione d'aiuto, qui solo accennato, è quello della comprensione empatica, mediante la quale si riesce a cogliere l'esperienza vissuta dell'altro senza sovrapporvi interpretazioni indebite e senza cadere nel rischio della identificazione. Rogers fa riferimento infine alla necessità che l'altro percepisca tali atteggiamenti, ovvero alla dimensione della "implementation" che esige di tradurre le disposizioni interiori in comportamenti operativi e in qualche misura concretamente percepibili nella comunicazione da persona a persona. È forse utile ricordare che, proprio in quei mesi, Rogers stava elaborando il suo studio sulle condizioni "necessarie e sufficienti" della relazione efficace (cfr. C.R. Rogers, "The Necessary and Sufficient Conditions of Therapeutic Personality Change", Journal of Consulting Psychology, 21 11957], 2, pp. 95-103). Circa lo sviluppo delle concettualizzazioni rogersiane e i progressi della ricerca empirica sulle condizioni della relazione terapeutica efficace, si rinvia ai 4 volumi della serie Rogers' Therapeutic Conditions: Evolution, Theory and Practice, vol.1 : Congruence (a cura di C. Wyatt), voi. 2: Empathy (a cura di S. Haugh e T. Merry), voi. 3: Unconditional Positive Regard (a cura di J.D. Bozarth e P. Wilkins), voi. 4: Contaci and Perception (a cura di G. Wyatt e P. Sanders), PCCS Books, Ross-on-Wye 2001-2002.

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33. ROGERS: - non va bene. 34. BUBER: Non intendo questo. Mi permetta di tralasciare questa parola,

"malato". Un uomo viene da lei in cerca d'aiuto. La differenza - la differenza essenziale - tra il suo ruolo e quello di lui in questa situazione è ovvia. Lui viene da lei per un aiuto. Lei non va da lui per un aiuto. Non solo, ma lei è capace, più o meno, di aiutarlo. Lui può fare diverse cose, ma non aiutare lei. Non solo. Lei lo vede, in realtà. Non intendo dire che lei non può sbagliare, sa, ma lei lo vede, come diceva, come egli è. Lui non può, affatto, vedere lei. Non solo nella stessa misura, ma anche con lo stesso tipo di sguardo. Lei è, naturalmente, una persona molto importante per lui. Ma non una persona che lui voglia e possa vedere e conoscere. Lei è importante per lui. Dal momento che viene da lei, lui è, direi, intrappolato nella sua vita, nei suoi pensieri, nel suo essere, nella sua comunicazione, eccetera. Ma non gli interessa lei in quanto tale. Non può. Lei è interessato, dice così e ha ragione, a lui come persona. Questo tipo di presenza distaccata lui non può averla né darla. Ora questo è il primo punto, per come la vedo io. E il secondo è - ora, prego, dica -

35. ROGERS: ... [incomprensibile] Sì, io non sono del tutto sicuro - 36. BUBER: Può interrompermi in qualsiasi momento. 37. ROGERS: Oh, va bene, lo, per la verità, volevo capire. Il fatto che io sia

capace di vederlo in maniera meno distorta di come lui veda me, e che io abbia il ruolo di aiutarlo e che lui non stia provando a conoscermi nello stesso senso - è questo che intende per "presenza distaccata"?

38. BUBER: Sì, hmmm hmm. 39. ROGERS: Volevo solo essere sicuro - 40. BUBER: Hhmm. Hmmm. 41. ROGERS: Okay. 42. BUBER: Sì, solo questo. 43. ROGERS: Uh huh. 44. BUBER: Ora, il secondo fatto, perché lo vedo come un fatto, consiste in

questa situazione, che lei ha in comune con lui, solo da due lati. Lei è da un lato della situazione, per così dire, più o meno attivo, e lui più o meno passivo, non del tutto attivo, non del tutto passivo, naturalmente - ma relativamente. E questa situazione - guardiamo adesso a questa situazione comune dal suo punto di vista e da quello di lui. La stessa situazione. Lei può vederla, sentirla, sperimentarla, da entrambi i lati. Dal lato di lui - oh, incominciamo dal suo lato, vedendolo, osservandolo, conoscendolo, aiutandolo -ma lui - dal lato suo e da quello di lui. Lei può sperimentare, oserei dire, sperimentare completamente, il suo lato della situazione. Quando lei fa, per così dire, qualcosa a lui, lei si senfe toccato da ciò che gli ha fatto. Lui non può affatto farlo. Lei è dalla sua parte e dalla parte di lui contemporaneamente. Qui e là, o diciamo meglio, là e qui. Dove è lui e dove è lei. Lui non può che essere dove è. E questo lei lo vuole, non solo lo vuole, lo pretende. I suoi bisogni inferiori possono essere quelli che sono. Lo accetto. Non ho nulla da obiettare. Ma la situazione presenta un'obiezione. Lei ha necessariamente un atteggiamento nei confronti della situazione diverso da quello che ha lui. Lei può fare qualcosa che lui non può fare. Non siete uguali, e non

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potete esserlo. Lei ha un grande compito - autoimposto - un grande compito autoimposto di integrare questo bisogno di lui e di fare di più che in una situazione normale. Ma, naturalmente, ci sono dei limiti, e se posso dirlo - certamente nella sua esperienza di terapeuta, di persona che guarisce o aiuta a guarire, deve sperimentarlo continuamente - [sono] limiti alla semplice umanità. "Alla semplice umanità" significa: all'essere, io e il mio partner, per così dire, simili l'uno all'altro, sullo stesso piano. Capisco che lei intenda essere sullo stesso piano, ma non può esserlo. Non c'è soltanto lei, il suo modo di pensare, il suo modo di fare, c'è anche una certa situazione - le cose stanno così e così - che talvolta può essere tragica e persino più terribile di ciò che definiamo tragico. Lei non può farci niente. [Buber sospira] L'umanità, la volontà umana, la comprensione umana, non sono tutto. C'è una realtà con cui ci confrontiamo, che si confronta con noi. Non possiamo - non ci è permesso - dimenticarla per un momento29 .

45. ROGERS: Be', indubbiamente ciò che lei ha detto suscita dentro di me molte reazioni. Una, penso, è questa. Mi lasci iniziare da un punto sul quale penso che saremo d'accordo. Suppongo che lei sarà anche d'accordo che se questo cliente arriva al punto da poter sperimentare ciò che sta esprimendo, ma anche la mia comprensione di ciò e la mia reazione ad esso e così via, allora davvero la terapia è quasi finita.

46. BUBER: Sì. È proprio quello che voglio dire. 47. ROGERS: Okay. Ma l'altra cosa che sento è questa. Mi sono chiesto

talvolta se questa è semplicemente una mia idiosincrasia, ma mi sembra che, quando un'altro esprime davvero se stesso e la sua esperienza e così via, io non mi sento, nel modo da lei descritto, diverso da lui. Cioè - non so precisamente come dirlo - ma sento che in quel momento il suo modo di guardare alla propria esperienza, per quanto possa essere distorto, è qualcosa che posso considerare come se avesse la stessa autorità, la stessa validità rispetto al modo in cui io vedo la vita e l'esperienza. E mi pare che ciò sia la vera base dell'aiuto, in un certo senso.

48. BUBER: Sì. 49. ROGERS: E sento che c'è un autentico senso di parità tra noi.

29 Gran parte della divergenza che contrappone Rogers e Buber in questa parte della loro conversazione è dovuta probabilmente, come emerge sempre più chiaramente nella prosecuzione del discorso, ad una differenza di punti di vista: da un lato, l'adozione rogersiana di una prospettiva fenomenologica radicale, per cui ciò che conta non è tanto la situazione reale quanto l'esperienza personale che il soggetto ha della realtà "esterna"; dall'altro, invece, l'esigenza buberiana di considerare la relazione terapeutica come una forma sui generis e specializzata di esistenza dialogica, nella quale, per il fatto stesso che si tratti di una relazione "d'aiuto", è impedita una perfetta reciprocità. È necessario osservare, però, che la "pariteticità" a livello comunicativo e relazionale (caratteristica tipica dell'approccio centrato-sulla-persona) consiste principalmente in uno strumento metodologico per assicurare un rapporto entro il quale si faciliti la libertà di cambiare, e non intende in ogni caso negare la "asimmetria" che "oggettivamente" costituisce ogni relazione terapeutica o educativa.

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50. BUBER: Nessun dubbio su questo. Ma io non sto parlando dei suoi sentimenti, bensì di una situazione reale. Voglio dire, voi due guardate, come lei ha appena detto, alla esperienza di lui. Né lei né lui guardate alla sua esperienza. Il soggetto è esclusivamente lui e l'esperienza di lui. Lui non può nel corso, diciamo, di un colloquio con lei, non può cambiare la sua posizione e domandarle: "Oh, dottore, dov'è stato ieri? [Risate] È andato al cinema? Cosa davano e che impressione le ha fatto?" Lui non può fare questo. Quindi io vedo e capisco molto bene il suo sentimento, il suo atteggiamento, il suo coinvolgimento. Ma lei non può cambiare la situazione data. C'è qualcosa di oggettivamente reale di fronte a lei. Non solo lui, la persona, ma la situazione stessa. Lei non può cambiarla.

51. ROGERS: Be', ora mi sto chiedendo, chi è Martin Buber, lei o io, perché ciò che sento -

52.BUBER: Eh eh eh! [L'uditorio si unisce alla risata] 53. ROGERS: perché - 54.BUBER: lo non sono, diciamo così, "Martin Buber", come si dice, con i

segni, le parentesi? Sì - no30? 55. ROGERS: In questo senso, neppure io sono "Carl Rogers". [Risata] 56. BUBER: Sì, vede, io non sono un uomo tra virgolette, che pensa così e così, eccetera. 57. ROGERS: Lo so. 58. BUBER: Stavamo dicendo [Rogers: Certo. Giusto.] qualcosa che ci

interessa, forse, nella stessa misura. Lei è diverso, lei è sempre in contatto, in contatto pratico con -

59.ROGERS: Adesso dimentichiamo questa osservazione scherzosa. Quello che volevo dire è questo: penso che lei abbia ragione, che c'è una situazione oggettiva, che si potrebbe misurare, che è reale [qualcuno versa dell'acqua], sulla quale molte persone potrebbero convenire se esaminassero la situazione da vicino. Ma la mia esperienza è che quella è la realtà quando è osservata dall'esterno, e che non ha veramente nulla a che fare con la relazione che produce la terapia. Che è qualcosa di immediato, di paritetico, un incontro tra due persone su una base uguale - anche se nel mondo [Buber sospira] dell'lo-esso, questa potrebbe essere considerata una relazione molto diseguale.

60. BUBER: Hmm. Ora, dottor Rogers, questo è il primo punto sul quale dobbiamo dirci: "Non siamo d'accordo".

61. ROGERS: Okay. [Risate] 62. BUBER: Vede, io non posso guardare soltanto lei, le sue cose, la sua

esperienza. Mi permetta, prendiamo il caso che anch'io potessi parlargli,

30 Buber dice "brackets" [parentesi] in luogo di "quotes" [virgolette], ma il senso è immediatamente ristabilito. Buber, del resto, parlava correntemente nove lingue, ma a quanto pare apprese l'inglese relativamente tardi: la sua prima conferenza in inglese non avvenne prima del 1947, quando egli aveva ormai 68 anni. Ciò giustifica qualche incertezza linguistica e alcune difficoltà di comprensione dovute all'accento.

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al suo paziente. Sentirei, naturalmente, da parte sua, un racconto molto diverso su questo stesso momento. [Rogers: Sì.] Ora, vede, io non sono un terapeuta. A me interessate lei e lui. lo devo vedere la situazione. Devo vedere lei e lui in questo dialogo ostacolato dalla tragedia. A volte, in molti casi, una tragedia che può essere superata. Secondo il suo metodo, lo non ho affatto alcuna obiezione sul suo metodo, sa? Non c'è bisogno di parlarne. Ma a volte il metodo non basta, e non può fare quello che era - che è - necessario fare. Ora, mi permetta di farle una domanda che apparentemente non centra niente, ma è sempre lo stesso punto. Lei ha certamente molto a che fare con gli schizofrenici. Vero?

63. ROGERS: Alcuni"31. 64. BUBER: Lei ha, ha anche a che fare, mi permetta, con dei paranoici? 65. ROGERS: Alcuni. 66. BUBER: Hum? 67.ROGERS: Alcuni. 68. BUBER: Ora, lei direbbe che la situazione è la stessa nell'uno e

nell'altro caso? Cioè, la situazione per quanto concerne questa relazione tra lei e l'altra persona. Questa relazione che lei descrive è dello stesso tipo nell'uno e nell'altro caso? Può dire - questo è un caso, una domanda che mi interessa molto, perché mi interessava molto la paranoia quando ero giovane. Ne so molto di più di schizofrenia, ma spesso sono molto impressionato e vorrei, mi piacerebbe sapere, lei ha - questo significherebbe moltissimo - lei può, incontrare il paranoico nello stesso modo?

69. ROGERS: Mi permetta prima di precisare un po' la mia risposta, lo non ho lavorato in un ospedale psichiatrico. I miei rapporti sono stati con persone che per la maggior parte sono capaci almeno di adattarsi in qualche modo alla comunità, per cui non conosco quelli davvero cronicamente malati.

70. BUBER: Oh, capisco. 71. ROGERS: D'altro canto, noi trattiamo con individui che sono

schizofrenici ed altri che certamente sono paranoici. E una delle cose che io dico con molta esitazione, perché mi rendo conto che è combattuta da gran parte dell'opinione psichiatrica e psicologica, ma direi che non c'è nessuna differenza nella relazione che io stabilisco con una persona normale, con uno schizofrenico, con un paranoide. Non sento veramente alcuna differenza. Ciò non significa, ovviamente, che

31 È utile ricordare che Rogers proprio nell'autunno del '57 avrebbe lasciato Chicago per trasferirsi all'università del Wisconsin, dove avrebbe avuto modo di collaborare con psicologi e psichiatri e di realizzare presso il Mendota State Hospital di Madison una ricerca su un campione di 48 pazienti schizofrenici: questa esperienza avrebbe avuto largo influsso sullo sviluppo del suo pensiero, contribuendo soprattutto a confermare la validità delle sue intuizioni sulle condizioni della relazione di cura e inducendolo a porre maggiore enfasi sull'esigenza di un atteggiamento di congruenza e genuinità da parte del terapeuta, quale condizione fondamentale dell'incontro terapeutico. (Cfr. C.R. Rogers, E.T. Gendlin, D.J. Kiesler, C.B. Truax, The Therapeutic Relationship and Its Impact. A Study of Psychotherapy with Schizophrenics, University of Wisconsin Press, Madison, 1967).

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quando - be', di nuovo è questione di guardare dall'esterno. Guardando dall'esterno, si possono riconoscere molte differenze.

72. BUBER: No, no. Non voglio dire- 73. ROGERS: Neppure io. E mi sembra che, se la terapia è efficace, ci sia

questo stesso tipo di incontro tra persone, non importa quale sia l'etichetta psichiatrica. E c'è un altro punto, in relazione a quanto lei ha detto, che mi ha colpito. Mi pare che i momenti in cui le persone sono più disposte a cambiare, o penso anche i momenti in cui le persone di fatto cambiano, sono i momenti in cui forse la relazione viene esperita come la stessa da entrambe le parti. Quando lei dice che potrebbe parlare al mio paziente e ne avrebbe un'immagine molto diversa, sono d'accordo - sarebbe vero riguardo moltissime delle cose che sono accadute nei colloqui. Ma sospetto che in quei momenti in cui accade il vero cambiamento, accade perché c'è stato un vero incontro tra persone che è stato sperimentato ugualmente da entrambe le parti32 .

74. BUBER: Sì. Questo è davvero importante. E - 75.FRIEDMAN: Posso inserire [Buber inizia a parlare] una domanda qui?

come - 76. BUBER: No. Può, può aspettare un momento? [Friedman: Va bene,

grazie ma-] Voglio soltanto spiegare al dottor Rogers perché questa domanda è partico-larmente importante per me, e anche la sua risposta. [Buber sospira]. Un punto molto importante del mio pensiero è il problema dei limiti, cioè, io faccio qualcosa, tento qualcosa, voglio qualcosa, e impiego tutti i miei pensieri, tutta la mia esistenza - nel farlo. E giungo, in un certo momento, ad un muro, ad un confine, ad un limite che non posso ignorare. Questo è vero, anche, per ciò che mi interessa più di tutto: l'effetto umano del dialogo. Attraverso, cioè, il dialogo, non il semplice parlare. Il dialogo può essere silenzioso. Potrebbe, potremmo, forse, senza il pubblico. Raccomanderei di farlo senza un pubblico. Potremmo sedere insieme, o meglio camminare insieme in silenzio, e questo sarebbe un dialogo. Quindi anche al dialogo, al dialogo pieno, è posto un limite. Per questo mi interessa la paranoia. Qui c'è un limite al dialogo. A volte è molto difficile parlare con uno schizofrenico. In certi momenti - per quella che è la mia esperienza di queste cose, naturalmente, [sospira] come posso dire, da dilettante? lo posso parlare ad uno schizofrenico nella misura in cui lui vuole lasciarmi entrare nel suo mondo particolare, che è il suo mondo; e nel quale in genere non vuole che tu entri, tu o altre persone. Ma lascia entrare alcuni. E quindi può lasciare entrare anche me. Ma, nel momento in cui si chiude, io non posso proseguire. E lo stesso, soltanto in un modo terribile,

32 Questa affermazione di Rogers circa la relazione terapeutica con pazienti schizofrenici o paranoici chiarisce ulteriormente il presupposto fondamentale per cui, quale che sia la situazione "oggettiva" entro la quale due persone si incontrano, l'efficacia della relazione dipende dalla capacità di comunicare in modo simmetrico, autentico ed empatico. Ciò, del resto, spiega la vasta applicazione delle condizioni rogersiane ad una serie di contesti comunicativi e relazionali anche lontani dall'iniziale esperienza psicoterapeutica.

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terribilmente forte, è il caso del paranoico. Lui non si apre e non si chiude. Lui è chiuso. C'è qualcos'al-tro che gli è stato fatto che lo chiude. E questo destino terribile io lo sento fortemente perché nel mondo delle persone normali, ci sono casi del tutto analoghi in cui un uomo sano si comporta, non con tutti, ma si comporta con alcune persone proprio così, chiudendosi. E il problema è se possa essere aperto, se possa aprirsi, e così via. [Buber sospira] E questo è un problema per gli esseri umani in generale.

77. ROGERS: Sì, penso di vederlo come, come - 78. BUBER: Sì, ora forse il dottor Friedman vuole intervenire - 79.FRIEDMAN: Questo è il mio ruolo in quanto moderatore. L'unico ruolo

che gioco qui - Non sono del tutto sicuro per quanto riguarda, in questo interscambio, appena prima del paranoico-schizofrenico, fino a che punto sia una questione, fino a che punto possa essere un uso diverso delle parole, quindi permettetemi di chiedere al dottor Rogers un passo avanti. Per quanto ho capito, ciò che Buber ha detto è che la relazione è una relazione lo-Tu, ma non una relazione pienamente reciproca, nel senso che nel momento in cui ha l'incontro, tuttavia lei vede dal punto di vista dell'altro e lui non può vedere dal suo. E nella sua risposta lei ha insistito più volte sull'incontro che ha luogo e anche sul cambiamento che può aver luogo da entrambe le parti. Ma non le ho sentito mai affermare che lui veda dal suo punto di vista, o che sia pienamente reciproco, nel senso che anche lui sta aiutando lei. E mi chiedevo se questa non potrebbe essere forse una differenza, se non di parole, di punti di vista, ove lei stava pensando a come si sente verso di lui, cioè che egli è una persona uguale e che lei lo rispetta. [Alcuni secondi di pausa - poi risata]33

80. BUBER: Resta una differenza decisiva. Non è una questione di obiettare all'aiuto dell'altro. È una questione di voler aiutare l'altro. Lui è un uomo che vuole aiutare l'altro. [Rogers: Sì.] E lui, tutto il suo atteggiamento è questo atteggiamento attivo, di aiuto. Questa è - uso dire, totalità di differenza, quanto il cielo intero, ma preferirei dire quanto l'inferno intero - la differenza dal suo atteggiamento. Questo è un uomo nell'inferno. Un uomo nell'inferno non può pensare, non può immaginare di aiutare un altro. Come potrebbe?

81. ROGERS: Ma è qui che sorgono alcune differenze. Perché a me sembra, di nuovo, che nei momenti più veri della terapia non credo che questa intenzione di aiutare sia qualcosa di più che un substrato da parte mia. In altri termini, sicuramente non farei questo lavoro se questa non fosse

33 In modo non del tutto esplicito, Friedman coglie nel segno. La differenza nell'uso del concetto di reciprocità e di simmetria tra i due interlocutori consiste nel fatto che essa non significa, per Rogers, indifferenza o confusione di ruoli o perfetta reversibilità, bensì un'intesa psicologica ed emozionale profonda in cui il terapeuta coglie il vissuto dell'altro e lo accetta, e nello stesso tempo l'altro è consapevole di questa comprensione ed accettazione: ciò gli consente di conoscersi, di evolversi e di crescere. Questa interpretazione, del resto, è confermata da Rogers poco dopo.

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parte della mia intenzione. E quando vedo il cliente per la prima volta, ciò che spero di poter fare è essere capace di aiutarlo. Tuttavia, nell'interscambio del momento, non penso che la mia mente sia occupata dal pensiero: "Adesso voglio aiutarti". È molto più un: "Voglio capirti. Che persona sei dietro questo schermo paranoide, o dietro tutte queste confusioni schizofreniche, o dietro tutte quelle maschere che rivesti nella vita reale?" "Chi sei tu?" E non penso che - mi sembra che questo sia un desiderio di incontrare una persona, non: "Ora voglio aiutarti". Mi sembra che sia piuttosto questo: ho imparato dalla mia esperienza che quando possiamo incontrarci, allora l'aiuto accade, ma è un sottoprodotto34 .

82.FRIEDMAN: Dottor Rogers, non sarebbe d'accordo, però, che questo non è pienamente reciproco, nel senso che quell'uomo non ha lo stesso atteggiamento verso di lei: "lo voglio comprenderti. Che tipo di persona sei tu?"

83. ROGERS: Questo è - l'unica modifica che ho fatto è che forse nei momenti in cui avviene il vero cambiamento, allora mi chiedo se non è reciproco nel senso che sono capace di vedere questo individuo come egli è in quel momento e lui realmente percepisce la mia comprensione e accettazione. E questo penso sia ciò che è reciproco e forse ciò che produce il cambiamento35 .

84. BUBER: [Sospira. L'uditorio ride] Hmmm. Vede, io, naturalmente, sono completamente dalla sua parte quanto alla sua esperienza. Non posso esserlo se devo guardare all'intera situazione, la sua esperienza e quella di lui. Vede, lei da a lui qualcosa per renderlo uguale a sé. Lei integra il bisogno di lui nella relazione. Lei lo fa, di certo - se posso esprimermi in modo così personale - a motivo di una certa pienezza lei gli da ciò che lui vuole per poter essere, soltanto per questo momento, per così dire, sullo stesso piano con lei. Ma anche questa - veramente - è una tangente. È una tangente che può non durare che un momento. Non è, per come la vedo, la situazione di un'ora; è la situazione di alcuni minuti. E questi minuti sono resi possibili da lei. Assolutamente non da lui36 .

34 Questa definizione rogersiana dell'aiuto come "sottoprodotto", quasi un effetto collaterale, un risultato preterintenzionale della relazione efficace è molto significativa: il primato della modalità comunicativa sullo scopo terapeutico equivale al primato dell'individuo sul ruolo e al primato dell'incontro fra persone sul motivo concreto e contingente che ha determinato la richiesta d'aiuto.

35 L'interpretazione che i due interlocutori danno della parola "reciproco" sembra essere

leggermente discrepante, e questo probabilmente è all'origine della discussione: se da un lato Buber intende "reciproca" una relazione perfettamente simmetrica in cui gli stessi atti compiuti dall'Io siano possibili al Tu (cosa che renderebbe impossibile e forse anche inopportuna una piena reciprocità nella relazione d'aiuto), Rogers usa d'altro canto il termine "reciproco" riferendosi al fatto che il terapeuta comprende il cliente in senso profondo e il cliente deve poter cogliere questa sua comprensione.

36 Che la relazione d'aiuto sia qualificata da "minuti", brevi momenti o attimi significativi in cui l'interazione

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85. ROGERS: Tuttavia, io percepisco - con quest'ultima cosa sarei completamente d'accordo - ma percepisco un qualche disaccordo perché mi pare che ciò che io do a lui è il permesso di essere. Che non è - che è un po' diverso, in certo senso, dal concedergli qualcosa, o roba del genere.

86. BUBER: lo penso che nessun essere umano possa dare più di questo. Rendere possibile all'altro la vita, fosse solo per un momento. Il permesso37 .

87. ROGERS: Bene, se non stiamo attenti, ci troveremo d'accordo. [Risate] 88. BUBER: Adesso andiamo... [incomprensibile: avanti?] 89. ROGERS: Mi piacerebbe passare da questo ad un altro argomento,

perché, se ho capito ciò che lei ha scritto eccetera, mi pare di distinguere un altro tipo di incontro molto significativo per me nel mio lavoro, di cui, per quanto ne so, lei non ha parlato. Ora, posso sbagliarmi, non so. Ma ciò che voglio dire è che mi sembra che uno dei più importanti tipi di incontro o di relazione sia la relazione di una persona con se stessa. Nella terapia, di nuovo, che devo tirare in ballo perché è il mio campo [Buber: Certo.] di esperienza -

90. BUBER: Naturalmente. 91. ROGERS: - ci sono alcuni momenti molto vividi in cui l'individuo

incontra qualche aspetto di sé, un sentimento che non aveva mai riconosciuto prima, qualcosa di significativo in se stesso che non aveva mai conosciuto prima -Potrebbe essere qualunque cosa. Può essere il suo intenso sentimento di solitudine, o il sentirsi terribilmente offeso, o qualcosa di totalmente positivo come il suo coraggio, e così via. Ma in ogni caso, in quei momenti, mi pare che sia presente qualcosa dello stesso tipo di ciò che colgo in una vera relazione di incontro. Che lui è nel suo sentimento e il suo sentimento è in lui. È qualcosa che lo soffonde. Non l'ha mai sperimentato prima. In senso molto concreto, penso che possa essere descritto come un incontro reale con un aspetto di sé che non aveva mai incontrato prima. Ora, io non so se questo le sembra che possa ampliare il concetto che lei ha usato. Mi piacerebbe avere una sua reazione in proposito. Se a lei questo sembra un tipo possibile di relazione reale o di "incontro"? Perché, be', credo che mi spingerò un poco oltre. Credo di essere convinto che è proprio quando una persona ha incontrato se stessa in questo modo, probabilmente in molti aspetti differenti, che poi, e forse solo allora, è davvero capace di incontrare un'altra persona in una relazione lo-Tu38 .

apre la possibilità di una rivisitazione del vissuto e delle proprie percezioni e quindi produce cambiamento, è una convinzione che Rogers e Buber sembrano condividere ampiamente.

37 Su questo punto le prospettive dei due autori sembrano riconciliarsi: dare all'altro il permesso di esistere e di essere ciò che è, significa non soltanto rinunciare a cambiarlo in maniera coercitiva, ma anche permettere che si evolva in modo libero e costruttivo.

38 Rogers sta descrivendo l'esperienza dell’insight, per cui ogni sviluppo autodiretto del

soggetto è accompagnato da un aumento di consapevolezza e responsabilità: ogni

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92. BUBER: [Buber sospira] Qui siamo dinanzi a un problema di linguaggio. Lei chiama dialogo qualcosa che io non posso chiamare così. Ma posso spiegare perché non posso farlo, perché vorrei un altro termine tra dialogo e monologo per questo. Ora, per quello che io chiamo dialogo, c'è bisogno essenzialmente del momento della sorpresa. Voglio dire39 -

93. ROGERS: [Sovrapponendosi] Momento della sorpresa? 94. BUBER: Sì, essere sorpresi. Un dialogo - prendiamo una immagine

piuttosto banale. Il dialogo è come una partita a scacchi. Tutto il fascino degli scacchi sta nel fatto che io non so e non posso sapere che cosa il mio partner farà. Sono sorpreso da ciò che fa e su questa sorpresa si basa tutto il gioco. Ora, lei ha accennato al fatto che un uomo può sorprendere se stesso. Ma in modo molto diverso da come una persona può sorprenderne un'altra -

95. ROGERS: Penso che... [stenta a riprendere il discorso] lo spero che forse un giorno potrò farle ascoltare qualche registrazione di colloqui per mostrarle come l'elemento sorpresa possa essere realmente presente. Cioè, una persona può esprimere qualcosa e immediatamente essere colpita dal significato di ciò che è uscito da qualche parte dentro di lei e che non riconosce. In altre parole, è realmente sorpresa di se stessa. Ciò può indubbiamente accadere. Ma l'elemento che io vedo maggiormente estraneo al suo concetto di dialogo è che è assolutamente vero che questa alterità in se stessi non è qualcosa da apprezzare, lo penso che - in questo tipo di dialogo di cui sto parlando - è quella alterità che probabilmente viene abbattuta. E mi rendo conto che questo è probabilmente, in parie - che l'intera discussione può anche essere fondala su una differenza Ira noi nell'uso delle parole. Voglio dire che40 -

96. BUBER: E vede, posso aggiungere una questione tecnica? Ho imparato nel corso della mia vita ad apprezzare le parole. E penso che la psicologia moderna non lo faccia in maniera adeguata. Quando trovo

cambiamento autentico è accompagnato da una ristrutturazione del campo percettivo, per cui è solo comprendendosi più profondamente e aprendosi a quelle dimensioni dell'esperienza (significati e sentimenti) che erano state rimosse o misconosciute per effetto di una struttura del sé troppo rigida, che la persona può imparare ad essere diversa.

39 L'obiezione buberiana è solo in parte giustificata: Rogers, parlando del rapporto dell'individuo con se stesso, non ha usato la parola (in questo contesto molto specifica) "dialogo", bensì unicamente e ripe-tutamente la parola "incontro" [meeting]. In ogni caso, è chiaro che Buber disapproverebbe l'uso del termine dialogo in un contesto intrapsichico e non interpersonale. A quanto pare, il tema era stato oggetto di dibattito anche nel corso delle sue recenti lezioni a Washington.

40 L'alterità nel cuore dell'individuo stesso, che viene "abbattuta" nella relazione terapeutica,

sembra essere qui l'alterità inconscia, per cui il processo di crescita coincide sempre con una riappropriazione di sé e della propria esperienza organismica e in un progressivo abbandono dei criteri nevrotici di valu-tazione "esterna" o estrinseca che minacciano l'integrità personale. L'insight consiste in una riconquista alla coscienza di un pensiero o di un sentimento prima non adeguatamente simbolizzato, e in questo senso rappresenta una fondamentale esperienza di apprendimento.

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qualcosa di essenzialmente diverso da qualcos'altro, voglio una parola nuova. Voglio un nuovo concetto. Vede, per esempio, la psicologia moderna, in genere, dice dell'inconscio che è una certa modalità dello psichismo. Per me non ha nessun senso. Se qualche cosa è così diversa da un'altra - se due cose sono così diverse tra loro come questo urlo dell'anima, che cambia in ogni istante, dove non posso afferrare nulla, quando tento di afferrarlo fugge via, da una parte - questo essere puramente nel tempo, ciò che chiamiamo l'inconscio, non è affatto un fenomeno. Non possiamo - non abbiamo nessun accesso ad esso, noi abbiamo solo a che fare con i suoi effetti, eccetera. Noi non possiamo dire questo è psichico e questo è psichico; l'inconscio è qualcosa in cui psichico e fisiologico sono, come posso dire, "mescolati?"; e non basta. Sono compenetrati in modo tale che noi vediamo che in relazione a ciò le parole "corpo" e "anima" sono, per così dire, parole recenti, [Rogers ride] concetti recenti - e che la coscienza è una realtà primordiale 41. Ora, come possiamo comprendere questo concetto qui? Ma questo è solo 42- "

97. ROGERS: lo sono molto d'accordo con lei su questo, ma penso che - quando un'esperienza è indubbiamente di un altro tipo, allora merita una parola diversa. Penso che su questo siamo d'accordo. Forse, visto che il tempo corre, vorrei sollevare un'altra questione che è molto significativa per me, e non so come porla. Penso che forse si tratta di questo: per come vedo le persone che entrano in relazione nella terapia, penso che una delle cose che sono arrivato a credere e a percepire e a sperimentare è che ciò che concepisco come la natura umana o la natura umana originaria - è un termine povero, forse lei ha un modo migliore per dirlo - è qualcosa in cui bisogna veramente avere fiducia, f. mi sembra di aver colto in qualcuno dei suoi scritti, qualcosa di simile a questo sentimento. Ma, ad ogni modo, ho sperimentato moltissimo nella terapia che non c'è bisogno di fornire una motivazione verso il positivo o verso il costruttivo. Essa esiste nell'individuo. In altre parole, se riusciamo a liberare ciò che di più originario c'è nell'individuo, questo sarà costruttivo. Ora, non lo so. Di nuovo, spero che forse [Buber: Sì.] ciò provocherà qualche commento da parte sua43.

41 Significativa questa critica buberiana all'ipostatizzazione psicoanalitica dell'inconscio: la realtà primordiale è la coscienza, anteriore ad ogni distinzione euristica tra corpo, psiche e spirito. In questo senso, è verosimile che Buber abbia detto "questo è psichico e questo è psichico", ma intendesse dire piuttosto: "questo è psichico e questo è fisico" (l'allitterazione tra i due termini phisical e psychical rende probabile l'errore).

42 A questo punto il nastro subisce un'interruzione, per cui alcune parole di Buber sono

andate perdute. Nelle varie trascrizioni dell'incontro compare la medesima spiegazione: mentre il nastro viene cambiato, Buber prosegue nella trattazione del dialogo, dicendo che una seconda caratteristica dell'incontro autentico è proprio l'apprezzamento dell'alterila dell'altro. La registrazione riprende dall'inizio dell'intervento di Rogers [§ 97].

43 La questione che qui viene sollevata è una questione dirimente: si tratta di definire il principio antropologico di base, di qualificare cioè la natura umana originaria che, secondo Rogers e la sua teoria della "tendenza attualizzante", è fondamentalmente buona e degna di fiducia, in quanto capace - se messa nelle condizioni ideali e in questo senso "facilitata" da

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98. BUBER: Non colgo ancora l'esatta domanda. 99. ROGERS: L'unica domanda che sto ponendo, suppongo, è: "Lei è

d'accordo?". O, se non sono stato chiaro, la prego mi faccia altre domande. Proverò a metterla, forse in un altro modo. Be', potrebbe essere un modo per contrasto. Mi pare che molto del punto di vista della psicoanalisi ortodossa almeno ha sostenuto l'opinione che quando un individuo si rivela, voglio dire quando si scende in ciò che davvero c'è dentro le persone, si trovano soprattutto istinti, atteggiamenti e così via, che devono essere controllati. Ora, ciò è diametralmente opposto alla mia esperienza personale, cioè che quando si arriva a ciò che vi è di più profondo nell'individuo, questo è veramente l'aspetto in cui maggiormente si può confidare che sia costruttivo o che tenda verso la socializzazione o verso lo sviluppo di migliori relazioni inter-personali, eccetera. Questo ha qualche significato per lei?

100. BUBER: Capisco. La metterei in un modo un po' diverso. Per come la vedo io, quando ho a che fare con, mi lasci dire, una persona problematica, o proprio una persona malata, una persona problematica, una persona che la gente chiama, o vuole chiamare, una persona "cattiva". Vede, generalmente coloro che hanno a che fare davvero con ciò che chiamiamo lo spirito non sono chiamati per le persone buone, ma per le persone cattive, o problematiche, o inaccessibili, e così via. Le persone buone, noi possiamo essere loro amici, ma loro - naturalmente - loro non ne hanno bisogno. Quindi, a me interessano proprio i cosiddetti cattivi, problematici, eccetera. E la mia esperienza è che se ci riesco - e questo è vicino a ciò che lei ha detto, ma in qualche modo differente - se mi avvicino alla realtà di questa persona, io la sperimento come una realtà polare.

101. ROGERS: Come cosa? Una realtà -? 102. BUBER: Realtà polare. Vede, in genere diciamo che una cosa è A o

non-A. Non può essere A e non-A contemporaneamente. Non può. Non può. Voglio dire, ciò di cui lei dice che ci si può fidare. Direi che ciò sta in relazione polare con ciò di cui in questa persona ci si può fidare di meno. Lei non può dire, e forse dissento da lei su questo punto, lei non può dire: "Oh, cerco in lui solo ciò di cui ci si può fidare". Direi che quando io lo vedo, lo afferro più a pieno e più a fondo di prima, vedo la sua polarità e quindi vedo come il peggio e il meglio di lui dipendano

una relazione rassicurante - di evolversi in maniera positiva e costruttiva, verso l'autorealizzazione e l'integrazione sociale. Un criterio che Buber può condividere solo in parte, essendo legato - come lui stesso chiarisce subito dopo - ad una visione meno ottimistica e più polarizzata dell'essere umano, tra orientamenti positivi e orientamenti distruttivi. Come risulta evidentemente dallo scritto "Sull'educativo", che riproduce la relazione di Buber in occasione della Terza Conferenza Internazionale di Pedagogia dal titolo "II dispiegarsi delle forze creative nel bambino" (Heidelberg, 1925), il filosofo non si trova d'accordo né con il concetto di "dispiegamento", né con la riduzione dell'attività educativa al semplice sviluppo delle "forze creative" insite nella natura umana. (Cfr. M. Buber, II principio dialogico ..., cit., pp. 159-182). Ciò nonostante, la posizione buberiana è da interpretarsi decisamente non in senso moralistico: la sua idea del bene come "direzione" e non come "sostanza" [cfr. § 102] preserva da una tale interpretazione e, in ultima analisi, concorda con la visione rogersiana della "vita buona" e della "vita piena" come processo continuo e non come stato dell'essere.

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l'uno dall'altro, siano attaccati l'uno all'altro. E posso aiutarlo - posso essere capace di aiutarlo - proprio aiutandolo a cambiare la relazione tra i poli. Non solo per scelta, ma [sospira] per una certa forza che lui da al primo polo in relazione all'altro, essendo essi molto diversi tra loro, lo direi [esita a lungo per pensare] che non ci sono, come perlopiù pensiamo, nell'anima di un uomo il bene e il male contrapposti. C'è continuamente in diverse maniere una polarità, e i poli non sono il bene e il male, ma piuttosto sì e no, piuttosto l'accettazione e il rifiuto. E noi possiamo rinforzare, possiamo aiutare lui a rinforzare il polo positivo. E poi, magari, possiamo rinforzare la forza di direzione in lui, perché questa polarità è molto spesso priva di direzione. È uno stato caotico. Possiamo introdurvi una nota cosmica. Possiamo aiutare a mettere ordine, a dare una forma. Perché penso che il bene, o ciò che possiamo chiamare il bene, è sempre solo la direzione. Non una sostanza44 .

103. ROGERS: Uh huh. Bene. E se prendo l'ultima parte in particolare, lei dice che forse possiamo aiutare l'individuo a rinforzare il "sì", cioè ad affermare la vita piuttosto che a rifiutarla. È questo -

104. BUBER: Mhmmm. Mhmm. E, sa, dissento solo su questa parola, io non direi "vita". Non metterei un oggetto.

105. ROGERS: Uh huh. 106. BUBER: Direi semplicemente "sì". 107. ROGERS: Uh huh. Uh huh. Uh huh. Uh huh. 108. ROGERS: Lei [Rivolgendosi a Friedman] sta guardando come se

volesse dire qualcosa... [Incomprensibile] Be', potrei - 109. FRIEDMAN: Sono tentato di - 110. ROGERS: Be', potremmo andare avanti per sempre nel – 111. FRIEDMAN: II mio ruolo di moderatore, uno, è di sottolineare i

problemi e credo che ci siano due cose correlate che sono state toccate qui, ma forse non esplicitate, e penso che siano di particolare importanza, che mi piacerebbe vedere. Quando il dottor Rogers prima ha chiesto al professor Buber quale fosse il suo atteggiamento verso la psicoterapia, ha menzionato come uno dei fattori che fanno parte del suo approccio alla terapia, la "accettazione". Ora, il professor Buber, come abbiamo visto ieri sera, spesso usa il termine "conferma", e personalmente sento, in base a quanto hanno detto stasera e alla mia conoscenza dei loro scritti, che potrebbe essere di grande importanza chiarire se intendono in qualche modo la stessa cosa. Il dottor Rogers, circa l'accettazione, oltre a dire che è una calorosa considerazione per l'altro e un rispetto per la sua individualità, in quanto è una persona dal valore incondizionato, scrive che significa "un'accettazione e una considerazione dei suoi atteggiamenti del momento, non importa quanto negativi o positivi, non importa quanto possano contraddire altri atteggiamenti che ha tenuto in passato", e che "tale accettazione di ogni aspetto transitorio di quest'altra persona costituisce per lei una relazione di calore e sicurezza". Ora, mi chiedo se il professor Buber consideri la conferma qualcosa di simile, oppure vedrebbe la conferma

44 Cfr. M. Buber, Immagini del bene e del male, trad. dal tedesco, Edizioni di Comunità, Milano, 1965.

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come qualcosa che include forse il non essere accettato, che include qualche richiesta all'altro che potrebbe significare in certo senso una non accettazione dei suoi sentimenti del momento, per confermarlo più tardi45 .

112. BUBER: Hmm. Vorrei dire [sosta per riflettere] che ogni vera, diciamo, relazione esistenziale tra due persone, inizia con l'accettazione. L'accettazione - per "accettazione" io intendo - forse i due concetti sono non del tutto simili - ma per "accettazione" io intendo essere capaci di dire, o forse non di dire, ma solo di far sentire all'altra persona che io l'accetto esattamente come ella è. Ti prendo proprio come sei. Ma questo non è ancora ciò che io intendo per "confermare l'altro". Perché accettare, è accettare l'altro per come è in questo momento, nella sua attualità. Confermare significa anzitutto accettare tutte le potenzialità dell'altro, e fare anche una decisiva distinzione nelle sue potenzialità, distinguendo tra - e questo è, naturalmente [sospira due volte], possiamo ingannarci continuamente in questo, ma è una possibilità tra gli esseri umani, lo posso riconoscere in lui, conoscere in lui, più o meno, la persona che - riesco a dirlo solo in questo modo - è stato creato per diventare. Nel linguaggio semplice dei fatti, non troviamo le parole per dirlo perché non troviamo in esso la parola, il concetto "essere inteso nel proprio divenire". Questo è ciò che dobbiamo, nella misura in cui ci è possibile, cogliere, se non dal primo momento, almeno in seguito. E quindi, io non solo accetto l'altro per come è, ma lo confermo, in me stesso, e poi in lui, in relazione a questa potenzialità che è intesa da lui ed essa allora si può sviluppare, può evolversi, può entrare a far parte della realtà della vita. Egli può fare di più o di meno per questa possibilità, ma anche io posso fare qualcosa. E questo attraverso obiettivi anche più profondi del l'accettazione. Prendiamo, per esempio, un uomo e una donna, marito e moglie. E lui dice, non espressamente, ma attraverso tutta la sua relazione con lei: "Ti accetto come sei". Ma questo non significa "Non voglio che tu cambi". Vuoi dire piuttosto: "Scopro in te, proprio attraverso il mio amore e la mia accettazione, scopro in te ciò che tu sei destinato a diventare". Questo, naturalmente, non è qualcosa che si possa esprimere in parole esplicite. Ma può essere che cresca sempre più con gli anni di vita in comune46 .

45 Friedman sta citando passi dal testo "Some Hypotheses Concerning the Facilitation of

Personal Growth", allora non pubblicato, che sarebbe diventato il secondo capitolo nel best seller di C.R. Rogers, On Becoming a Person, Houghton Mifflin, Boston, 1961.

46 La sollecitazione di Friedman consente molto opportunamente ai due protagonisti di chiarire i rispettivi concetti di "accettazione" e "conferma" e permette, soprattutto, di comprendere la loro sostanziale affinità per cui, secondo Martin Buber ma anche per Carl Rogers, "accettare" l'altro non significa solo accogliere in maniera non giudicante ciò che egli attualmente è, ma intuire e aiutarlo a portare a compimento ciò che ancora può diventare. Anzi, Rogers sembra ritenere che l'accettazione di ciò che uno è sia la condizione affinché egli si evolva verso la realizzazione delle proprie potenzialità.

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113. ROGERS: Be', io penso che - 114. BUBER: È questo che lei intende? [Rogers: Uh huh. Sì, sì.] Bene. 115. ROGERS: E penso che suona molto simile alla qualità che è insita

nell'esperienza che io definisco accettazione, anche se ho teso a descriverla in modo differente, lo penso che accettiamo un individuo e le sue potenzialità. Penso che la vera domanda è se possiamo accettare l'individuo com'è, perché spesso egli è magari in una condizione abbastanza triste, se non fosse per il fatto che - in qualche modo - cogliamo e riconosciamo anche le sue potenzialità. Credo, anche, che l'accettazione del tipo più completo, l'accettazione di questa persona per come è, sia il fattore più forte che io conosca che contribuisce al cambiamento. In altre parole, penso che liberi il cambiamento o liberi le potenzialità sapere che così come sono, esattamente come sono, sono pienamente accettato - allora non posso fare a meno di cambiare. Perché allora, penso, c'è - [si schiarisce la gola], allora non c'è più alcun bisogno di barriere difensive, quindi ciò che assume il controllo sono i processi progressivi della vita stessa, penso.

116. BUBER: Temo di non esserne così sicuro come lo è lei, forse perché io non sono un terapeuta. E io ho necessariamente a che fare con il lato problematico dell'uomo problematico. Non posso - nella mia relazione con lui - prescindere da questo. Non posso metterlo da parte. Come ho detto, ho a che fare con entrambi gli uomini. Ho a che fare con il problematico che è in lui. E ci sono casi in cui devo aiutarlo contro se stesso. Lui vuole che lo aiuti contro se stesso. Vuole, capisce, lui - la prima cosa di tutte è che lui ha fiducia in me. Sì, la vita è diventata precaria per lui. Non può camminare su un terreno solido, sulla terra ferma. È, per così dire, sospeso nell'aria. E che cosa vuole? Ciò che vuole non è soltanto un essere in cui possa avere fiducia come un uomo ha fiducia in un altro, ma un essere che gli dia ora la certezza: "C'è un terreno. C'è un'esistenza. [Buber picchia due volte sul tavolo sull'"è" delle due frasi precedenti] II mondo non è [Buber picchia di nuovo sul tavolo] condannato alla deprivazione, alla degenerazione, alla distruzione. Il mondo può essere salvato, lo posso essere salvato perché c'è questa fiducia". [Buber picchia sul tavolo quattro volte mentre dice "perché c'è questa fiducia"] E se si arriva a questo, allora posso aiutare quest'uomo anche nella sua lotta contro se stesso. E ciò lo posso fare soltanto se distinguo tra "accettare" e "confermare" 47.

117. ROGERS: Penso proprio che una difficoltà nel dialogo sia che facilmente ci potrebbe non essere una fine, ma penso che, per pietà del dottor Buber e del pubblico, basti così - quindi io non - [Risata]

47 La resistenza di Buber ad accogliere l'identità tra il concetto di "accettazione" e quello di "conferma" sembra motivato in realtà dalla preoccupazione di dover salvaguardare la visione antropologica di fondo, per cui la "problematicità" e l'ambiguità originaria dell'uomo gli impedisce di orientarsi spontaneamente in maniera positiva, come invece vorrebbe l'idea più ottimistica e progressiva sostenuta da Rogers.

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118. BUBER: Questo - come dice? 119. ROGERS: Dico che per riguardo a lei e per riguardo al - 120. BUBER: Non a me. Eh eh 48 121. ROGERS: Oh, va bene - [Risata] Solo per riguardo al pubblico – 122. FRIEDMAN: Posso essere così impietoso da fare un'ultima domanda?

l'impressione che il dottor Rogers sia più centrato-sul-cliente che - 123. BUBER: Cosa? 124. FRIEDMAN: Più centrato-sul-cliente - più interessato [Risate] - più

interessato al divenire della persona. Ed egli parla nel suo secondo articolo di essere capaci di aver fiducia nell'organismo, nel fatto che troverà soddisfazione, che esprimerà me. E parla del luogo dei valori come interiore, mentre ho l'impressione, dal mio incontro con il dottor Buber, che egli veda i valori più nel "mezzo". Mi chiedo, questa è una questione reale tra voi due?49

125. ROGERS: Potrei esprimere la mia visione a riguardo in un modo che la pone in termini completamente differenti rispetto a quelli da lei usati, tuttavia penso che si riferisca alla stessa cosa. Visto che ho tentato di pensarci negli, negli ultimi mesi, mi sembra che si potrebbe parlare dello scopo a cui tende la terapia, e io immagino lo scopo verso il quale si muove la maturità in un individuo, come un essere "in divenire", o essere, sapendolo e accettandolo, ciò che uno è più profondamente. In altre parole, anche questo esprime una fiducia reale nel processo che noi siamo, che forse non può essere interamente condiviso da entrambi50.

126. BUBER: Ora [sospirando] forse sarebbe di qualche aiuto se aggiungessi [sospira ancora] un problema che ho trovato proprio nel leggere questo suo articolo, o un problema che [sospira] riguarda me. Lei parla di persone, e il concetto di "persona" è, apparentemente, molto vicino al concetto di "individuo". Penserei che è consigliabile distinguere tra di essi. Un individuo è una certa unicità di un essere umano. E, se può svilupparsi, può svilupparsi solo sviluppando la sua unicità. Questo è ciò che Jung chiama "individuazione". Che - può diventare sempre più un individuo senza diventare sempre più umano, lo ho molti esempi di uomini divenuti molto, molto individui, molto distinti dagli altri, molto

48 Le frequenti pause di sospensione e le esitazioni negli ultimi scambi possono aver

suggerito a Rogers che forse il suo interlocutore, anche in ragione dell'età più avanzata, si stava stancando. Forse però Buber credette di essere trattato con eccessiva accondiscendenza, e per questo può aver tentato di rassicurare il pubblico di poter continuare ancora.

49 Friedman si riferisce qui al testo di Rogers "What II Means to Become a Person", che divenne in seguito il capitolo sesto del già citato On Becoming a Person.

50 Forse Rogers si riferisce ai suoi scritti "A Process Conception of Psychotherapy" e "A

Therapist's View of Personal Goals", che più tardi sarebbero diventati i capitoli settimo e ottavo di On Becoming a Person.

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sviluppati nel loro essere in un certo modo, senza essere affatto ciò che io chiamerei un uomo. Perciò la persona, direi, l'individuo è proprio questo, questa unicità, che può essere sviluppata, e via dicendo. Ma la persona, direi, è solo un individuo che vive realmente con il mondo. E con il mondo, non voglio dire nel mondo, ma in reale contatto, in autentica reciprocità con il mondo in tutti i punti in cui il mondo può incontrare l'uomo. Non dico solo con l'uomo, perché talvolta incontria-mo il mondo in altre forme diverse da quella dell'uomo. Ma questo è ciò che io chiamerei una persona e io sono, se posso dire espressamente "sì" e "no" ad alcuni fenomeni, io sono contro gli individui e per le persone51 .

127. ROGERS: Uhm huh. Giusto. [Molto rapido, molto debole - lontano dal microfono?] [Applauso]

128. FRIEDMAN: Abbiamo ragione di sentirci profondamente in debito con il dottor Rogers e il dottor Buber per un dialogo unico. È certamente unico nella mia esperienza: anzitutto perché è un dialogo reale, che avviene dinanzi a un uditorio, e io penso che lo sia in parte per ciò che loro volevano darci e ci hanno dato, e in parte perché voi [rivolgendosi al pubblico] vi avete preso parte, quasi come in un "trialogo" o, aggiungendo me, un "quadralogo" al quale voi avete partecipato silenziosamente. [Applauso - Buber dice alcune parole incomprensibili durante l'applauso].

51 Buber accenna forse qui un'interpretazione del concetto esistenzialista di essere-nel-mondo non come situazione di fatto (il mero trovarsi nel mondo), ma come intenzionalità progettante, ovvero "in reale contatto, in autentica reciprocità" (quindi in un rapporto di cura e responsabilità) con il mondo. Inoltre, la distinzione qui richiamata dal filosofo tra la nozione di "individuo" e quella di "persona" tocca effettivamente uno snodo cruciale, in quanto Rogers sembra frequentemente utilizzare i due termini in maniera indifferenziata e quasi sinonimica. L'appunto sull'uso dei termini non deve trarre in inganno: non significa di per sé che Buber stia accusando la terapia centrata-sul-cliente di produrre più "individui" che "persone" (critica che altri peraltro hanno mosso all'orientamento non direttivo), ma semplicemente che i due termini possono indicare cose diverse. Nondimeno è evidente che, nel complesso del pensiero rogersiano, ('"individuo" sano di cui si parla non sia un essere isolato, egocentrico e narcisista, bensì l'uomo aperto al mondo, agli altri e all'esperienza, dotato di un'intrinseca natura relazionale e di una originaria propensione all'attualizzazione di sé e all'integrazione sociale. (Cfr. C.R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, cit., pp. 182-195; Id., Libertà nell'apprendimento, cit., pp. 322-346).