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SCIENZA POLITICA E RELAZIONI INTERNAZIONALI Appunti di Relazioni internazionali INDICE Luisiana Schiera – Alberto Presti 1. Natura ed evoluzione delle relazioni internazionali 2. Balance of power 3. Le teorie realiste 4. Le teorie egemoniche 5. Le teorie marxiste 6. Interdipendenza complessa e regimi 7. Il paradigma groziano 8. Le teorie pluraliste 9. Rapporto tra democrazie e conflitti 10. L’evoluzionismo 11. Il costruttivismo 12. L’organizzazione del sistema politico internazionale 13. Il mutamento del sistema politico internazionale 14. Sicurezza internazionale e conflitti armati 15. Conflitti armati e operazioni di pace 16. La globalizzazione

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SCIENZA

POLITICA E

RELAZIONI

INTERNAZIONALI Appunti di Relazioni internazionali

INDICE

Luisiana Schiera – Alberto Presti

1. Natura ed evoluzione delle relazioni internazionali

2. Balance of power

3. Le teorie realiste

4. Le teorie egemoniche

5. Le teorie marxiste

6. Interdipendenza complessa e regimi

7. Il paradigma groziano

8. Le teorie pluraliste

9. Rapporto tra democrazie e conflitti

10. L’evoluzionismo

11. Il costruttivismo

12. L’organizzazione del sistema politico

internazionale

13. Il mutamento del sistema politico internazionale

14. Sicurezza internazionale e conflitti armati

15. Conflitti armati e operazioni di pace

16. La globalizzazione

Luisiana Schiera – Alberto Presti

Natura ed evoluzione delle Relazioni Internazionali

Per comprendere la politica nazionale occorre capire cosa avviene in territorio internazionale. Tra

India e Pakistan vi è un conflitto a bassa tensione, che è uno dei più importanti del momento; pur

essendo distinti tra loro, sono profondamente influenzati da quello che avviene nell’altro paese. Tra i

due i rapporti sono altamente legati dal terrorismo: in India vi sono stati numerosi attentati terroristici

che hanno matrice pakistana. L’influenza reciproca potrebbe essere originata dalla vicinanza

territoriale. Ma ad esempio in Italia arrivano flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana.

Provare a considerare gli Stati come autosufficienti è irrealistico. Quando si parla di relazioni

internazionali si parla di relazioni tra stati che prendono decisioni. Gli attori possono cambiare, e

sono ampiamente cambiati nel tempo; ad esempio la Vallonia (Belgio) ha bloccato per molto tempo

il trattato tra Europa e Canada, è un caso in cui una realtà regionale ha avuto un ruolo importante.

L’approccio delle relazioni internazionali considera insoddisfacenti gli studi che sono stati svolti in

precedenza; ad esempio le relazioni internazionali avevano portato al fatto che le guerre fossero

sempre più mortali. Prima era sufficiente vincere una battaglia, non si trovava la necessità di

distruggere il nemico. Nella contemporaneità le guerre diventano guerre di nazioni: l’elemento

identitario è fondamentale. Si arriverà poi alle guerre totali, dove è fondamentale annientare il nemico.

La guerra diventa sempre più inaccettabile; prima era considerata positivamente, ma questo fattore

cambia proprio per la distruzione che causa. Se la guerra è un fattore negativo, come si fa a non andare

in guerra? Gli Stati cominciarono a darsi delle regole che devono essere rispettate. Il problema che si

crea è però che queste regole non vengono rispettate; allora quali sono le cause che spingono a

rispettare o no le regole? L’approccio storico è utile ma serve qualcosa che spieghi cause ed effetti.

Nel quadro di dare più ampio spazio alle relazioni internazionali, nascono le relazioni internazionali.

È proprio questo che porterà alla creazione della Società delle Nazioni; questa benne quasi imposta

da Wilson a Gran Bretagna e Francia in un momento in cui la Gran Bretagna era la forza egemone.

In Gran Bretagna la disciplina delle relazioni internazionali nasce con la prima cattedra in Galles, che

aveva come scopo la volontà di creare pace tra le nazioni, ricercando l’antidoto alla guerra generale.

Gli Stati che svolgono ruoli primari hanno il maggiore interesse nelle relazioni internazionali, per

questo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si è sviluppata maggiormente la materia. Nel corso degli

anni molto è cambiato, e si è sempre più sviluppato un approccio eurocentrico. Quando si parla di

relazioni internazionali ci si riferisce ad una materia che cerca di capire cose che altre materie non

sarebbero in grado di comprendere. Alla base c’è il rapporto matematico se 𝑋 allora 𝑌, come nella

scienza politica. se per lo studioso di storia gli eventi sono rilevanti singolarmente, gli studiosi di

relazioni internazionali cercano di individuare elementi comuni che daranno la possibilità di tracciare

linee di tendenza; cercherà di individuare le relazioni tra le principali variabili. Sono importanti i nessi

causali, solo così possono essere fatte previsioni sul futuro. L’analisi che viene fatta è atemporale, si

parte dalla storia per arrivare a generalizzazioni. Altra differenza può essere fatta con il diritto

internazionale; esso è legato alla regolamentazione, per cui dovrebbe essere rispettato, ma non esiste

un’autorità superiore quindi è anarchico. Unico soggetto dotato di autorità parziale è il Consiglio di

Sicurezza dell’ONU, ma non è paragonabile ad un governo mondiale. Nei fatti non c’è nessuno che

possa obbligare un altro stato a fare qualcosa. L’aspetto che interessa allo studioso di relazioni

internazionali è capire i vantaggi che hanno portato alla sottoscrizione di un determinato trattato:

cristallizzando un rapporto di egemonia. Altra differenza è la differenza tra scienza politica e relazioni

internazionali. Nella seconda, i fattori da tenere insieme sono molti di più: non è una differenza

banale. Se si tiene in considerazione il contesto esterno, può essere compresa la politica estera di un

paese.

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Balance of Power

Dall’anarchia deriva l’insicurezza degli Stati. Rilevante per le politiche degli stati sono le capacità

relative. L’assunto principale della balance of power è la caratteristica che distingue gli statti. Già

nella fase di Utrecht troviamo caratteristiche dell’equilibrio di potenza ante-litteram. Esso ha assunto

diversi significati, come stabilità all’interno di un sistema. Alcuni Stati sono ritenuti necessari per

l’equilibrio; l’equilibrio è necessario per far sì che uno Stato non sovrasti l’altro. Il sistema è composto

da tutti gli Stati, ma vengono presi in considerazione solo quelli necessari all’equilibrio, che si

mantiene attraverso le guerre e la diplomazia. Gli studiosi realisti e neo-realisti partono dal fatto che

la guerra è naturale. Hans Morgenthau sostiene che la balance of power è l’unico strumento che riesce

a mitigare l’anarchia, o meglio le conseguenze di essa. Gli Stati sono naturalmente anarchici e per

questo esiste la balance of power, per mitigare la propensione alla guerra. Se l’unico fine fosse la

stabilità allora non servirebbe che uno stato egemone, ma il fine è la stabilità e il mantenimento degli

elementi centrali deli sistema che non possono essere soppressi, per questo Morgenthau sottolinea

l’importanza della balance of power. Le politiche di ban vagoning non servono, ma quelle di

balancing invece sì: i più deboli contro il più forte fa sì che si mantenga l’equilibrio. Fino a quando

c’è l’equilibrio, la sopravvivenza degli Stati è assicurata, mentre se l’equilibrio non fosse presente, si

potrebbe arrivare alla guerra generale. La regola principale che deve guidare gli allineamenti è quella

della Realpolitik, il nemico del mio nemico è mio amico. Vi sono due schemi principali della balance

of power: opposizione diretta e competizione. Il primo si basa sul fatto che lo stato 𝐴 può

intraprendere una politica imperialistica verso 𝐵 e 𝐵 può intraprendere una politica dello status quo

o imperialistica, sperando di avere successo. 𝐴 => <= 𝐵. Se 𝐴 utilizza una politica imperiale

incrementando le proprie risorse, 𝐵 per resistere non potrà che incrementare le risorse in egual misura;

il tutto va in un crescendo, l’unica cosa che potranno fare sarà incrementare le proprie risorse (è quello

che è successo durante la Guerra Fredda); se 𝐵 non è capace di incrementare la propria potenza,

morirà. Se aumenteranno entrambi sempre, arriveranno ad un punto dove accetteranno la distorsione

bipolare; questa convivenza in equilibrio permetterà il momento di pace come non-guerra, ma

l’equilibrio è precario, perché si basa sul fatto che gli stati abbiano chiare le regole del gioco e abbiano

la percezione di equilibrio uguale. Quindi sono grandi potenze che hanno pari potere. il secondo si

basa sul fatto che 𝐴 e 𝐵 hanno potenza tale da contrapporsi e bilanciarsi. Se 𝐴 vuole annettere 𝐶, 𝐵

deve fare il possibile per far sì che non succeda altrimenti 𝐵 sarebbe minore di 𝐴. La sopravvivenza

di 𝐶 sarà assicurata dal conflitto di 𝐴 e 𝐵. Se le relazioni volgessero comunque a favore di 𝐴, 𝐶

sarebbe in pericolo, perché 𝐵 non potrebbe assicurare la sopravvivenza di 𝐶. Altra questione è se 𝐴

dovesse cambiare obiettivo, che dovesse non interessare 𝐵. Allora la politica imperialistica di 𝐴 si

sposterebbe in 𝐷 e quindi la sopravvivenza di 𝐶 è garantita perché il pericolo è stato spostato in un

altro teatro. Queste analisi spiegano benissimo quello che succede in situazioni regionali e per questo

non spiegano tanto bene quello che succede in teatri globali come quello odierni. L’idea principale di

questi schemi è la deterrenza, ovvero la paura di scomparire. Per i realisti l’equilibrio arriva

volontariamente, per i neo-realisti invece spontaneamente. La prima strategia della balance of power

è quella del dividi et impera, occorre evitare la creazione di coalizioni troppo forti, ostacolo

all’ottenimento dell’equilibrio; occorre dividere la presenza di poli troppo robusti. Tutto ciò che

ostacola l’equilibrio deve essere eliminato. La seconda strategia della balance of power è quella delle

compensazioni e spartizioni territoriali, sempre per evitare che ci sia una potenza troppo forte. Oggi

è più difficile che questo avvenga. La terza strategia della balance of power è quella delle strategie

dissuasive, cioè corsa agli armamenti; se diventa troppo costoso andare contro qualcuno, finisce per

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non essere opportuno. La quarta strategia, è quella delle alleanze mirate per la flessibilità degli

allineamenti, anche un amico dello Stato più forte dovrebbe passare dall’altra parte.

Gli attori principali tendono a sopravvivere, perché troveranno sempre coalizioni che garantiranno la

loro sopravvivenza. L’idea della balance of power è fortemente influenzata dalla visione ciclica della

storia, gli Stati non potranno che comportarsi in un certo modo. Per portare il sistema in equilibrio

non si deve guardare alla dimensione etica degli Stati, perché la loro sopravvivenza dipende

dall’equilibrio e da ciò che fanno per mantenerlo. Sia nella versione dei realisti sia dei neo-realisti la

teoria dell’equilibrio ha bisogno che gli Stati si alleino per volontà di potenza. Le alleanze tendono a

non sopravvivere dopo la loro vittoria, perché queste sono alleanze di scopo.

Le teorie realiste

Il mondo delle teorie realiste è molto variegato. Ad esempio è molto difficile decidere se il sistema è

bipolare o multipolare: Kenneth Waltz tra i due pensa che il sistema bipolare sia il più stabile.

Morgenthau invece pensava che il sistema più stabile fosse quello multipolare. Gli errori di

percezione sono sempre dietro l’angolo: il sistema può rimanere in equilibrio solo se tutti conoscono

le regole del gioco (altrimenti guerra generale). La balance of power è il meccanismo che ha

funzionato molto bene nel XVIII secolo, successivamente è stato messo in discussione dalle stesse

grandi potenze. Sono molti i casi che mettono in discussione questo meccanismo: spesso gli Stati

seguono politiche di ban vagoning non di balancing. Waltz pensa che un correttivo vada introdotto:

è legato alla minaccia che uno stato pone; grado di minacciosità, cioè se sei una potenza imperialista

oppure no, è l’elemento di cui tenere conto nella politica internazionale. Questa correzione aiuta a

spiegare cose non spiegabili: ad esempio perché nella Prima guerra del Golfo gli Stati Uniti si

allearono con il Kuwait? Perché l’Iraq era revisionista; questa teoria è meno falsificabile. All’interno

delle teorie realiste si riescono ad individuare quattro correnti: quella classica di Morgenthau,

democrazia essenziale; strutturale, ovvero è sufficiente che gli Stati si accorgano che l’anarchia

naturale li porti alla balance of power; offensiva, ovvero una ramificazione della seconda, la quale

ritiene che lo Stato per sopravvivere sia costretto ad avere sempre di più, per questo tutti gli Stati

cercheranno di annettere più Stati fino all’equilibrio: gli Stati sono più violenti ovviamente;

eterodossa, ovvero l’elemento dell’ideologia qui è importante, si sofferma sulla tendenza a fare

cambiamenti di natura interna; gli Stati che hanno alcune ideologie non mirano solo ad aumentare

risorse, ma anche a cambiare il sistema interno negli Stati, porta ad un tipo di conflitto più sanguinoso,

il diverso deve essere distrutto (aumenta l’instabilità del sistema). L’ultima corrente è quella

difensiva, il meccanismo dell’equilibrio di potenza è di deterrenza, perché gli Stati rispondono solo

se ritengono che la loro esistenza è messa in pericolo e quindi non sono violenti, la politica interna e

l’ideologia sono rilevanti. Ovviamente sono state mosse delle critiche, la balance of power è troppo

fragile per farci affidamento, il rischio che porta a non capire quando sia stato raggiunto l’equilibrio

è troppo elevato; è più un’illusione che un meccanismo sul quale basare la politica internazionale. Ci

sono poi elementi nuovi come la nessificazione della politica, o anche la crescita della democrazia:

ciò comporta un irrigidimento delle linee di potenza (la flessibilità è essenziale per la balance of

power); proprio per le ideologie, molti stati democratici si sono alleati e si trovano bene insieme.

Altro pericolo è lo sviluppo tecnologico elevato: le guerre non sono più come prima, e questo cambia

in continuazione, vi è l’impossibilità di fare affidamento all’equilibrio di potenza e alla riduzione di

conflitti intrastatali. Secondo Ikenberry si è passati dalla balance of power ad un ordine costituzionale

negoziato che si basa sull’idee della sicurezza collettiva; la sicurezza è garantita meglio da un

egemone o da un meccanismo di ordine negoziato anche dall’egemone stesso. Per capire quali son le

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grandi potenze oggi bisogna partire dalle capacità militari, economiche, attrazione ideologica e

volontà: bisogna capire quali sono gli stati che hanno proiezione globale delle risorse militari; ci

interessa capire chi ha capacità economiche tali da organizzare il sistema e inoltre chi ha ideologia

ammirate da altri e volontà di diventare stato egemone.

Le teorie egemoniche

L’equilibrio di potenza non dovrebbe mai portare ad una forma egemonica, ma non è così. A

dimostrazione che la soluzione dell’equilibrio di potenza non sia un assetto definitivo, può evitare le

guerre generali, ma è necessario che ci siano piccoli conflitti. Rappresentano quindi una

contraddizione rispetto alla balance of power. Le teorie egemoniche nascono come critica ad alcuni

aspetti delle teorie realiste. Se solo il fattore militare fosse importante non staremmo a parlare della

Corea del Nord. Certamente rilevanti sono i fattori militari, ma dagli anni ’70 vi è la consapevolezza

che altri fattori sono altrettanto importanti. Nel 1973 scoppia la crisi petrolifera, ci si accorge che la

dimensione economica è importante (si crea interdipendenza tra stati). Di conseguenza si fa un passo

avanti, la gestione dell’ordine economico internazionale diventa importante quanto l’ordine politico

internazionale. L’ordine egemonico, secondo Robert Gilpin, è un ordine contemporaneamente

economico e militare, di portata globale: questo significa che a livello mondiale non si viene a creare

una coalizione alternativa che sfidi l’ordine egemonico. La potenza egemone ha bisogno del controllo

funzionale. L’egemone può avere disinteresse su alcuni stati regionali dove si crea un equilibrio di

potenza; l’ordine che si crea nel teatro regionale deve essere sopportabile dalla potenza egemone.

Quando si parla di egemonia, si parla di una disuguaglianza multidimensionale e nell’organizzazione

producono regole e istituzioni sulle quali troveranno maggior consenso o opposizione. Lo stato che

riceve più consenso sarà quello che diventerà egemone. Quello che rimane è che il sistema è

gerarchico, il potere dell’egemone sarà superiore rispetto a quello degli altri stati del sistema. Nella

Seconda guerra mondiale la Germania era uno sfidante della Gran Bretagna, volendo creare un

sistema alternativo. Quando la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si alleano, viene promossa una nuova

organizzazione. Per mantenere i costi della situazione egemonica, la potenza deve dare qualcosa in

cambio. Gli stati sono attori razionali e Gilpin trae spunto dalle teorie microeconomiche: l’egemone

ha un costo e dei benefici, inizialmente i benefici supereranno i costi, ma alla fine addirittura i costi

supereranno i benefici. Con il passare del tempo, come si erodono i profitti, si erode il consenso.

Dall’insoddisfazione degli Stati del sistema, si creerà una organizzazione dell’insoddisfazione e lo

stato scelto come egemone creerà uno sfidante che porterà ad una guerra totale egemonica. Dallo

scontento delle organizzazioni esistenti, si creano alternative. È un meccanismo ciclico, l’egemone

nasce ma non può non morire.

Gilpin introduce l’elemento del consenso, nessuno stato ha potere da solo per organizzare l’egemonia

(insostenibile non avere consenso, fondamentale mantenerlo): è diverso dall’impero mondiale che si

caratterizza per la costrizione. Per le teorie realiste quello che succede oggi o domani è sempre lo

stesso; per gli egemonici l’aspetto del cambiamento della leadership è significativo. Lo scopo dello

stato egemone è quello di convincere che la situazione egemonica è ancora la migliore. Nella struttura

l’organizzazione rimane uguale, ma nelle fasi cambia. Gilpin ha formulato 5 assunti fondamentali: il

primo è che il sistema internazionale è in equilibrio se nessuno stato vuole cambiare il sistema; il

secondo è che uno stato cercherà di cambiare la situazione se i benefici attesi sono minori dei costi

attesi, la sfida verrà lanciata quando l’egemone sarà in declino, di conseguenza questo deve mantenere

alta la spesa militare; il terzo è che uno stato cercherà di cambiare il sistema attraverso l’espansione

politica, economica e territoriale fin quando il beneficio marginale è maggiore del costo marginale:

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inizialmente c’è una crescita rapidissima fin quando non si manifesta il dissenso, l’egemone è

inarrivabile e inarrestabile. Il quarto è che una volta raggiunto l’equilibrio tra costi e benefici, i costi

successivamente per mantenere lo status quo cresceranno sempre più, e questo è fonte di

indebolimento. Il quinto infine è che se lo squilibrio del sistema internazionale non si risolve, verrà

stabilito un nuovo equilibrio periferico, un nuovo assetto del potere (ad esempio gli Stati Uniti utilizzò

agli inizi del ‘900 il sistema fordista, che gli consentì di essere economicamente più forte di altri

paesi; Gilpin fa notare che poi anche gli altri stati hanno imparato a produrre allo stesso modo e quindi

il divario di produzione si è ridotto, il vantaggio si riduce progressivamente).

Altra teoria egemonica riguarda Charles Kindleberger; l’ordine economico liberale non può esistere

senza un egemone che lo sostenga: questo viene dall’esperienza storica. Affinché l’egemone possa

sostenere l’ordine, la potenza egemonica deve essere creata su fondamenti liberali anche dall’interno:

se c’è competizione politica all’interno, si aprono competizioni in ambito economico. Inoltre i

principali protagonisti devono trasferire gli ideali del liberismo anche in campo socio-politico,

l’egemone per esercitare quel ruolo deve avere non solo capacità ma anche volontà, questo si applica

anche alo sfidante: deve avere la volontà di portare aventi la sfida egemonica e di comportarsi come

stato egemone. Per di più, gli attori principali del sistema internazionale devono avere relazioni

economiche con la potenza egemone, questa deve essere luogo di attrazione. La politica egemonica

non può permettersi gli alti costi di una politica competitiva, gli altri stati devono volere mettersi in

relazione con la potenza egemone. Deve essere diffusa e condivisa la credenza che la potenza

egemonica sia legittimata e necessaria, gli stati devono essere convinti che accettare la potenza sia

meglio per loro, non devono avvertire l’elemento coercitivo. I protagonisti del sistema politico

internazionale non devono percepire che la potenza stia facendo i propri interessi, l’organizzazione

egemonica è utile solo per l’egemone ma questo gli altri paesi non lo devono capire. Allo stesso

modo, anche i cittadini della potenza egemonica non devono avere la percezione che mantenere

l’egemonia comporti più costi che benefici; quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti.

George Modelski elabora la teoria dei lunghi cicli, che ha qualche punto di contatto con Gilpin. I

fattori di disuguaglianza sono anche politici e culturali, oltre a quelli economici e militari. Per

Modelski l’organizzazione politica internazionale dipende dalla capacità della potenza di controllare

l’esito dei processi più importanti, non deve impegnarsi in ogni territorio altrimenti s’indebolisce.

Questa teoria analizza un periodo più lungo: Gilpin dà due cicli di egemonia, quello della Gran

Bretagna e quello degli Stati Uniti; Modelski identifica il primo ciclo di egemonia nella guida

portoghese, si guarda a quel periodo come inizio dell’egemonia; il secondo lo identifica nella guida

danese, il terzo e il quarto a guida inglese e infine il quinto a guida statunitense. Questi sono durati

cinque secoli, quindi più o meno un ciclo di egemonia dura un secolo. Modelski individua alcune

caratteristiche degli egemoni: capacità militare, storicamente quella più importante ovvero quella

navale, ma non sappiamo se oggi la capacità aeronautica o satellitare possano sostituire la dimensione

navale. L’egemone deve avere una società stabile, aperta e pluralista, chi non ha queste capacità non

può vincere, perché si ritiene che questa modalità organizzativa fornisca un vantaggio nella sfida

egemonica, chi è abituato a gestire la pluralità, può gestire l’egemonia. Deve essere in grado di gestire

diritti e doveri. Deve possedere un’economia significativa, la ricchezza non basta, l’economia del

paese egemone deve poter influenzare le altre. L’egemone deve avere la capacità di innovare, la

capacità di rispondere ai problemi mondiali e proporsi come guida nella risoluzione dei problemi: se

il problema è sempre il consenso, fondamentale è la sfera politico-culturale. Modelski è tra quelli che

pensano che il controllo territoriale sarà fatale per l’egemone. La potenza sarà costretta ad imbarcarsi

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in forme di controllo di potere che la porteranno alla rovina. La potenza egemone deve assumere

poteri globali e non territoriali.

Le teorie marxiste

Con gli studiosi marxisti l’attenzione di sposta totalmente sulla dimensione economica e ideologica.

L’analisi marxista considera il sistema internazionale come un insieme di questioni che portano a

disuguaglianze. L’analisi di Marx che analizza i sistemi politici interni, pone in luce un aspetto

rilevante per le relazioni internazionali, ovvero il sistema capitalistico è un sistema che produce

inevitabilmente disuguaglianze e sfruttamento causate da caratteristiche tipiche del capitalismo, che

costringevano i capitalisti all’uso della forza; debellarli per debellare il conflitto armato. Lenin si

concentra più sulla politica estera e sostiene che l’imperialismo è fase suprema del capitalismo; è un

periodo in cui l’idea di impero/colonie è normale e anzi la situazione attribuisce loro maggiore status.

L’impero era qualcosa di auspicabile. L’eccessi di produzione, la ricerca di nuovi mercati, per Lenin

spingevano gli stati ad adottare politiche imperialiste. L’imperialismo ha avuto anche la funzione di

ritardare la rivoluzione del proletariato: rinviare crisi che sono insite del capitalismo. Aspetto che è

importante per questo filone, è la distinzione tra centro sfruttatore dominante e periferia sfruttata.

L’analisi di Lenin non era originale, si rifà a John Hobson; la differenza tra i due è che per Lenin il

profitto è un bene finito, mentre per Hobson il profitto non è un bene finito e viene anche dimostrato

nel moltiplicatore keynesiano; egli quindi criticò Lenin. Questo però acquista senso se si pensa al

periodo storico, l’accrescimento delle potenze europee con le colonie era pratica diffusa, ma avveniva

per cause insite del capitalismo o per altri scopi, come motivazioni strategiche?

Altra critica mossa a Lenin fu fatta attraverso un’osservazione empirica; quello che egli sostiene

comporterebbe che la motherland dovrebbe vendere i suoi beni alla colonia, l’analisi empirica ci dice

che la motherland finivano per commerciare tra di loro, quindi il commercio verso le colonie era

marginale. Quello che accadeva più spesso era invece l’afflusso di materie prime dalle colonie. L’idea

che la dimensione economica sia importante è stata messa in risalto da Immanuel Wallerstein, il quale

ha introdotto l’idea del sistema mondo: una sola unità di portata mondiale con tante sub-unità

culturali. Per Wallerstein esistono due tipi di sistema mondo: il primo fa riferimento all’età

capitalistica, ovvero al mondo-impero, in cui esisteva un potere centrale che usava la forza per portare

le risorse dalle zone periferiche al centro; il secondo è il mondo-economico nel quale esistono tanti

centri di potere in competizione tra loro, i principi economici guidano la redistribuzione delle risorse,

e non esisterà un centro dominante. Il sistema modo si divide in centro, periferia e semiperiferia. Nel

sistema centro vi sono governi democratici, salari elevati, esportazione di manufatti, servizi di

welfare, importazione delle materie prime e investimenti elevati. Nel sistema periferia i governi non

sono democratici, i salari sono sotto il livello di sussistenza, vi è l’esportazione di materie prime,

l’importazione di manufatti, e non vi sono servizi di welfare. Nel sistema semiperiferia vi è una

condizione intermedia, i governi sono autoritari, i salari bassi, vi è sia l’importazione che

l’esportazione dei manufatti e delle materie prime, e il welfare poco evoluto. La discriminante per

Wallerstein è la struttura economica che determina il potere. Esistono poi sistemi di crisi: il sistema

capitalista è arrivato al suo capolinea con la globalizzazione; non esistono modalità d’espansione. La

ricchezza di produce in più paesi e non c’è solo in un paese: il centro tende a diluirsi, con la

globalizzazione si ha avuta una redistribuzione della ricchezza tra paesi ricchi e poveri; quelli poveri

sono meno poveri, quindi si è ridotto il divario; all’interno però dei paesi del Nord il divario tra ceti

si è esteso, creando quindi l’opposizione global-no global. Il sistema mondo capitalista non è più

capace di anestetizzare e inglobare i movimenti antisistema, oggi si presentano con sempre maggiore

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evidenza. L’idea dei movimenti no global sono un’opposizione non eliminabile, al sistema mondo e

questo non può dare risposte e ci sarò qualcuno che continuerà a chiederle. Dietro al non potere e non

sapere rispondere ci sta dietro la globalizzazione: il movimento no global si presenta sotto diverse

forme; ad esempio manifestazioni contro l’integrazione europea, più forti in questi momenti perché

sono in grado di organizzarsi entro i confini. La cultura di protesta si mondializza e diventa

incontrollabile: non si può né soddisfare le loro domande perché a volte sono anti-sistemiche né si

possono reprimere. Secondo Wallerstein il sistema mondo capitalista è entrato quindi in crisi. Per

molti di questi studiosi, la crisi economica non si colloca nel 2000 ma negli anni ‘70: in quel momento

l’enorme potere economico degli Stati Uniti viene indebolito. Questo è il principio del declino

(relativo, ma declino). Per Peter Katzenstein il mercato è il fattore principale dell’organizzazione del

sistema politico internazionale e questo deriva dal sistema economico: la diffusione delle tecniche

produttive, cambiamenti nei tassi di profitto, sono condizioni di mutamento. Per Katzenstein

l’egemonia è risultato di due fattori: potere coercitivo che porta più vantaggio dei suoi soggetti

economici, le imprese cha stanno dentro lo stato operano e sono competitive nel sistema economico

mondiale. Robert Cox invece, sostiene che il ruolo di produzione determina lo stato e questo

determina il sistema mondiale. Esistono un ordine egemonico e un non egemonico; nel primo vi è la

supremazia di un soggetto sociale che può essere lo stato ma può essere una classe, secondo ideologia

e interessi; nel secondo non c’è internazionalizzazione della produzione e non vengono usati

strumenti per far prevalere la produzione interna. L’ordine naturale viene creato, il dominio di uno

stato di per sé non da egemonia ma quando i modi di fare e pensare dello stato egemone sono stati

riconosciuti anche dagli altri paesi, allora l’ordine viene percepito come ordine naturale e legittimo.

Interdipendenza complessa e regimi

Robert Keohane e Joseph Nye, intorno agli anni ’70, hanno messo in discussione il fatto che la politica

internazionale fosse analizzata con la lente degli stati: vedono sempre più quella che è la politica

transnazionale in opposizione alle teorie realiste, teorie di tipo hobbesiano. In quegli anni vi furono

crisi petrolifere e le organizzazioni internazionali fecero sentire la loro presenza. Questo portò gli

studiosi a studiare le relazioni tra gli stati e questi soggetti e tra questi soggetti. Gli attori

transnazionali a volte sono anche più forti dei governi, ad esempio in un piccolo paese una

multinazionale detta al governo di questo paese le politiche da adottare; la presenza di questa

multinazionale diventa fondamentale. Ma vi sono anche esempi in stati più potenti, dove soggetti non

statali hanno determinato l’agenda: ad esempio la CNN all’interno della Nazioni Unite o la Bill &

Melinda Gates Foundation, principale attore nel campo delle politiche sanitarie globali; grazie a loro

si inseriscono in agenda determinati problemi. Le decisioni di questi soggetti non sono soggetti a

controlli, nessuno gli può dire cosa devono fare, sono nuovi soggetti della politica internazionale.

Grazie alle donazioni di fondazioni private si realizzano dei progetti, e si instaurano nuovi soggetti

della politica internazionale, e quello che ci si deve chiedere, in quanto studiosi della politica

internazionale, se queste fondazioni sono subordinabili all'unità statali.

L’interdipendenza genera situazioni caratterizzate da effetti reciproci tra paesi o attori in situazioni

specifiche. Perché si abbia interdipendenza queste relazioni devono comportare dei costi, senza questi

si parlerebbe di interconnessione non di interdipendenza. Perché questi abbiano costi, ci deve essere

dietro un beneficio, la dimensione politica. L’interdipendenza è sempre asimmetrica e vengono

distinte relazioni caratterizzate da sensibilità, quando il cambiamento di un attore influenzerà il

cambiamento nell’altro (relazione tra Stati Uniti e Canada; gli Stati Uniti, in base ai bisogni della

Canada, o viceversa, possono modificare le proprie politiche o adattarsi); e da vulnerabilità, quando

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i cambiamenti in un paese avranno conseguenze negative nell’altro, il quale non potrà adattarsi ai

cambiamenti (relazione tra Stati Uniti e Haiti, il quale non è capace di gestire i cambiamenti).

L’interdipendenza quindi porta effetti costosi, asimmetria di potere, e non è detto che produca

benefici reciproci. Il potere è l’abilità di un attore di far sì che gli altri facciano qualcosa che gli altri

non farebbero a costi sostenibili dall’attore 𝑥. Il potere non è fungibile, in ciascun settore funzionale

il potere sarà caratterizzato da funzioni di tipo diverso. C'è una scomposizione delle aree, soprattutto

il potere di un settore, non è detto che a cascata si ripercuota sugli altri settori, quindi il potere è

settoriale. Occorre rivedere l'idea che noi abbiamo dell'importanza dei diversi settori, la loro è

un'analisi secondo la quale, infondo la politica internazionale è determinata dal fattore militare. Però,

sostiene Waltz, che il potere militare non basta a determinare gli esiti. È possibile che nel settore

militare avere un esercito importante sia fondamentale, ma non nel settore economico, c’è quindi uno

scollegamento dei vari settori, quindi il potere è settoriale, a seconda dei settori ci sarà uno stato più

potente. Waltz e Morgenthau vedono il fattore militare determinante, come ha mostrato la storia fino

alla Seconda guerra mondiale. Da quel momento però la contrapposizione degli stati avviene in altri

settori. Ci sono delle caratteristiche del modello di interdipendenza complessa, quando il numero

delle unità di interdipendenza diviene così elevato da non poter essere controllato dai singoli stati. La

prima caratteristica è che esistono molteplici canali di comunicazione, transnazionali e

intergovernativi. Le politica interne di ogni paese hanno sempre più conseguenze negli altri paesi,

confondendo i confini tra politica interna e politica estera. Il confine che sembrava netto tra interno

ed esterno è sempre più sfocato; ciò è massivamente evidente nei paesi europei, per cui è difficile

capire chi ha preso la decisione. La High policy diventa l’unica che determina la low policy. La

seconda caratteristica è l’assenza di un ordine gerarchico, alcuni aspetti della high policy saranno

determinati da aspetti di low policy, la sicurezza militare non è in cima all’agenda. La terza

caratteristica è l’esclusione dell’uso della forza tra paesi che appartengono ad alcuni gruppi; la forza

spesso non è il modo per ottenere altri scopi che stanno diventando più importanti.

Esistono anche processi politici dell’interdipendenza complessa: linkage strategies cioè capacità che

si ha di legare una tematica ad un’altra; io ti do una cosa in un settore se tu mi dai una cosa in un altro

settore, questa è agevolata dalla presenza di organizzazioni internazionali. Agenda setting cioè

capacità di inserimento di un tema nell’agenda degli stati, il problema deve essere per lo meno

discusso; fare in modo che il problema venga inserito in agenda, da potere allo stato o al soggetto non

statale che c’è riuscito. Relazioni transnazionali e transgovernative, ad esempio una riunione del G7

incide sulla stessa idea di ridefinizione di interesse nazionale; se questo interesse nazionale si

definisce e ridefinisce continuamente, si sta andando contro i realisti che sostenevano che ce ne fosse

soltanto uno. Attribuzione di maggiori ruoli alle organizzazioni intergovernative, queste agiscono per

la formazione di coalizioni; se nelle arene internazionali è possibile creare coalizioni, anche gli stati

più piccoli riescono a contare nel ruolo internazionale.

I regimi, secondo la definizione di Krasner, sono principi, norme (standard comportamentali), regole

(prescrizioni precise), procedimenti decisionali (pratiche che servono a prender edecisioni) impliciti

o espliciti, attorno ai quali convergono le aspettative degli attori in una data area delle relazioni

internazionali. Due tipi di regimi sono ad esempio il Fondo Monetario Internazionale, ovvero un

regime economico e la NATO, ovvero un regime di sicurezza. Il regime non è formalizzato, esiste

nella misura in cui gli stati si uniformino a quei determinato principi; aiuta a mitigare l’incertezza che

vaga negli stati. Il sistema è anarchico ma non anomico, rispettano sono principi e adottano

comportamenti che sono prevedibili. Non essendoci governo del sistema, gli stati si comportano

Luisiana Schiera – Alberto Presti

secondo la loro convenienza; il regime c’è nell’aspettativa che si sia. Keohane ha messo in evidenza

che è vero che molti regimi nascono sotto interesse dell’egemone, ma riescono a sopravvivere anche

nell’assenza di esso (dopo la sua morte). Ad esempio le Nazioni Unite sono nate sotto l’input degli

Stati Uniti, e a questo punto possono sopravvivere anche se gli Stati Uniti uscissero. Il problema è

quello che potrebbe succedere se gli Stati Uniti creassero un sistema alternativo; in questo caso,

secondo le teorie egemoniche, alcune nazioni si sposterebbero da un sistema all’altro. Non tutti i

regimi poi sono egemoni (come l’OPEC), fondamentale è il capitale politico iniziale. Un regime non

esiste oggettivamente ma esiste nel caso in cui gli stati si aspettano che esista; è un ordine naturale

perché è anarchico. La cooperazione è qualcosa di auspicato e gli stati tendono a considerare più

importanti i costi assoluti e non quelli relativi, al contrario dei realisti.

Il paradigma groziano

Il paradigma groziano identifica relazioni di tipo cooperativo, le cui teorie si sono formate

recentemente. Gli stati saranno sì diseguali, ma soprattutto hanno reciproca legittimità; hanno quindi

iniziato a stipulare dei trattati che sono stati rispettati anche senza un governo centrale. Soprattutto in

area europea, si è capito che la sicurezza non si raggiunge con la costruzione dell’impero, l’idea

dell’impero viene superata e altre organizzazioni diventano importanti. Il passaggio consente di

apprezzare la possibilità che i problemi tra stati possano essere affrontati pacificamente. La vita

associativa degli stati comincia ad essere apprezzate; le diseguaglianze di potere non scompaiono,

ma, accanto a queste, gli stati intrattengono relazioni cooperative. Questo perché riconoscono

l’esistenza di alcuni principi sociali che sono fondati sull’elemento della pari sovranità. Verranno così

guidati ad agire ed attenersi spontaneamente ai principi sociali dei quali riconoscono i vantaggi;

ritengono più conveniente il costo del principio piuttosto che la sua assenza. Il diritto internazionale

assume diversi significati: paradigma hobbesiano, ovvero i trattati sono cara straccia; su questo il

paradigma groziano invece ci dice esattamente il contrario, ci sono elementi così importanti che

spingono gli stati a rispettare prevalentemente le norme del diritto internazionale. Quali norme sono

le più importanti? Il diritto internazionale consuetudinario si forma sulla base di quello che gli stati

fanno abitualmente, non ingerendo negli affari interni degli stati, sanciscono l’esistenza del diritto; il

diritto internazionale pattizio invece, viene concordato, rappresenta però una norma inferiore anche

quando sottoscritta da tutti gli stati. L’esistenza stessa del diritto internazionale fa capire che gli stati

si sono obbligati a comportarsi in un certo ruolo. Il paradigma groziano ci dice che gli stati vogliono

autolimitarsi perché lo ritengono utile a raggiungere certi obiettivi. Questo paradigma ha prodotto

meno teorie, ma tutte importanti. Ad esempio l’ordine sociale di Hedley Bull, appartenente alla scuola

inglese delle relazioni internazionali, il quale scrisse The Arnarchical Society. L’elemento

dell’anarchia non viene messo in discussione, ma gli stati vivono come in una società. Gli stati

accettano i vincoli autoimposti, perché ritengono conveniente il vivere insieme. Bull si concentra sui

principi sociali fondamentali che possono essere: principio di non ingerenza degli stati, limitazione

nell’uso della forza in caso di un conflitto armato. Gli stati hanno adottato questi principi attraverso

le loro interazioni continue; i principi si sono cristallizzati nel tempo. È quando i principi sociali si

istituzionalizzano che diventano più forti. Per Bull l’ordine sociale viene prima dell’ordine politico,

esso nasce quando si sono consolidati i principi sociali. Ci sarà sempre interazione tra i due, ma

l’ordine sociale è preminente. I principi sociali possono cambiare e cambiano, l’affermazione del

rispetto dei diritti umani ha cambiato la situazione, ad esempio, la norma della responsabilità di

proteggere nasce come alternativa a quella della non ingerenza, come sua opposta. Con il passare del

tempo si capirà quale delle due prevarrà. Bull dice in pratica che non perché si è una grande potenza

Luisiana Schiera – Alberto Presti

si può fare quel che si vuole, la grande potenza potrà essere sanzionata. La violenza, soprattutto nel

caso dei conflitti armati, non deve essere usata indiscriminatamente. È ritornato utile adattare

comportamenti condivisi così che uno stato non potesse schiacciare un altro solo per superiorità

militare. Le istituzioni diventano rilevanti, perché sottolineano che i principi sociali abbiano un ruolo

di cogenza. Le guerre contemporanee non rispettano i principi. Quando i principi sociali vengono

violati anche per Bull l’unico strumento è ricorrere all’uso della forza. Inoltre, chi compie la

violazione è fondamentale, dato che uno stato grande e potente ha più facilità nell’imporre l’uso della

forza, ma persino lui deve spiegare l’intervento che sta mettendo in atto. L’uso della forza è comunque

l’ultima soluzione, anche se non va messo da parte. La guerra diventa l’ultima istituzione ma la più

importante. L’ordine politico inizialmente sarà debole ma con il passare del tempo si rafforzerà.

Coteau ha individuato una sorta di continuum che va dagli accordi taciti a regole negoziate, stipulate

a tavolino. La loro violazione non provoca le stesse conseguenze della violazione dei principi. Le

regole del gioco servono a fare in modo che il gioco funzioni. Tendono a rispettarle perché riducono

l’incertezza e insieme ai principi riescono a costituire l’ordine politico. Nel momento in cui si deve

prendere una decisione politica, ci sono elementi che incidono su essa; come ad esempio le dottrine

adottate in quel momento come la Dottrina Monroe o Truman. Inoltre anche le analogie storiche

condizionano le scelte che gli stati fanno; di fronte ad un caso che si presenta simile, si agisce in un

certo modo per evitare delle conseguenze, è possibile che però possano essere inappropriate. E infine

anche le metafore e i miti, come il comunista che mangia i bambini.

Le teorie pluraliste

Il padre del funzionalismo si concentra sulla formazione delle organizzazioni intergovernative. Il

bisogno è l'elemento organizzativo fondante, contrariamente a quanto detto da realisti, in realtà se gli

stati si mettono insieme lo fanno perché hanno bisogno e soltanto mettendosi insieme, cooperando

riusciranno a trovare soluzioni a quel bisogno. Non è il potere che porta alla costituzione

organizzativa ma l'esigenza che gli stati hanno di risolvere un problema che da singoli non

riuscirebbero a risolvere: sovranità funzionale. Nel momento in cui gli stati aumentano nelle

organizzazioni ci devono essere delle regole comuni. Siccome le regole e le procedure sono

concordate, questo risolve un bisogno a costo che queste regole o procedure sono dettate

dall'organizzazione internazionale non dal singolo governo. Quando gli stati traggono un vantaggio

diretto dalla sovranità funzionale, la cedono senza obiezione. Proprio perché il mercato unico è

diventato forte, Trump sta cercando di spaccare il fronte europeo, in alcuni settori emerge chiaramente

la formazione di organizzazioni non governative alle quali gli stati cedono la propria sovranità. Per

fare questo lo stato si indebolisce, e il continuo bisogno di delegare alle organizzazioni internazionali

una molteplicità di funzioni abbassa il controllo degli stati su vari settori. Stiamo parlando di delega,

quindi lo stato potrebbe riprendersi il potere, ma questo significa non fornire servizi, magari, che

prima forniva. La situazione diventa più complessa quando abbiamo una serie di organizzazioni

internazionali che sono a loro volta, un insieme di altre organizzazioni, il tutto per fornire dei bisogni.

Quindi abbiamo dei molteplici livelli, come fa lo stato a controllare o influenzare il processo

decisionale delle nazioni. Oggi è facile parlare di terze generazioni di organizzazioni internazionali.

Se è questa la dimensione, il singolo stato per quanto potente, non riesce a influenzare né

l'organizzazione dell'organizzazione, la forma segue la funzione: il potere è solo uno degli elementi

organizzativi, ma è la necessità di risolvere un problema, che diventa essenziale, il processo

decisionale stesso sarà più tecnico che politico. Gli interessi e i vincoli che gli stati pongono in questi

casi, sono meno frenabili. Un'altra questione sulla quale si sofferma Mitrani è l'espansione alla quale

Luisiana Schiera – Alberto Presti

si assiste, gli stati nel momento in cui iniziano a cooperare fra di loro, apprendono il processo politico,

e apprendono anche quali sono gli elementi più rilevanti. I paesi fondatori dell'unione europea hanno

iniziato a cooperare in questi settori specifici. Iniziando a cooperare in questi settori, ci si rende conto

che si possono mettere assieme altri settori funzionanti, e quindi sarà utile procedere all'integrazione

di altri settori. Con il passare del tempo si ritiene che perché la cooperazione funzioni meglio, anche

l'aspetto politico sia fondamentale. Tutto questo avviene perché da un lato c'è l'esigenza di rispondere

ai bisogni, poi perché funzioni la cooperazione questa si deve espandere. Dall'altra parte questo

avviene perché si creano legami transnazionali, cioè man mano che i funzionari degli stati membri si

incontrano a Bruxelles per parlare della materia di cui si occupano, ci sono nuove pratiche che si

possono adottare. Le imprese iniziano ad investire, i commerci partono e legano insieme attori diversi

in diversi mercati europei. Quindi per incidere non basta più rivolgersi a Roma o Berlino ma

direttamente a Bruxelles. In quel settore funzionale si sposteranno gli interessi funzionali. Gli stati

perdono sovranità con questi passaggi, e noi in Itali abbiamo assistito a questa resistenza.

Balton sostiene che esiste una pluralità di centri di identificazione, lo stato è indebolito da processi

transnazionali. In qualche modo quindi i conflitti politici e sociali sono determinati da percezione di

appartenenza ad una o più comunità piuttosto che allo Stato, questa è una delle cause di conflitto.

Quindi questo richiama al concetto di fedeltà nei confronti dello Stato. Questa pluralità di centri di

identificazione fa sì che lo stato sia uno dei centri di identificazioni ma non il principale.

Rapporto tra democrazie e conflitti

L’osservazione dalla quale si parte è quella che il progressivo aumentare del numero degli stati

democratici nel mondo ha provocato conseguenza importanti; ma allo stesso tempo anche i processi

di globalizzazione hanno provocato conseguenze importanti. Da queste considerazioni sono nati

quattro filoni di pensiero. Il primo filone si occupa dell’analisi sugli effetti della globalizzazione e in

particolar modo gli effetti negativi che questi hanno nelle democrazie interne. La complessità delle

democrazie moderne porta gli stati a cooperare tra di loro poiché non sono in grado di risolvere certe

problematiche, una conseguenza è la nascita di pluralità di centri decisionali; i processi di

globalizzazione presentano sia un sovraccarico di input che arrivano agli stati democratici, sia una

tendenza a ricorrere sempre di più a soluzioni tecnocratiche; questo provoca una contrazione della

democrazia. Un secondo filone riguarda le forme possibili della democratizzazione, l’accento viene

posto sul fatto che con il passare del tempo gli stati hanno perso la capacità di controllare i processi

decisionali, in particolar modo la tendenza a creare organismi multilaterali intergovernativi è finita

con l’alterare la capacità dei cittadini degli stati democratici a partecipare al processo di formazione

delle decisioni. Il terzo filone riguarda il fatto che se è vero che il regime democratico si è diffuso,

quindi il numero di stati democratici è cresciuto, è anche vero che sempre di più i cittadini si aspettano

che il regime sia interno che internazionale sia democratico, è un passaggio importante, se il regime

democratico è diventato la norma per quel che riguarda i sistemi politici interni, è vero che si è diffusa

l’aspettativa che a livello internazionale ci siano processi e organizzazioni democratiche. Oggi si

sente sempre di più la volontà di legittimare le decisioni che vengono prese anche a livello

internazionale perché si riconosce che queste decisioni hanno impatto diretto sulla vita dei cittadini.

Antonio Papisca, studioso italiano, si è concentrato sul tema dei diritti umani e sull’espansione di

questi a livello internazionale; egli mette in evidenza l’importanza delle organizzazioni non

governative, che riescono a esercitare una funzione di proposta e controllo anche nelle organizzazioni

inter-governative. Sempre di più oggi le organizzazioni intergovernative operano attraverso quelle

non-governative per svolgere compiti che spetterebbero a loro; da un lato la relazione con

Luisiana Schiera – Alberto Presti

organizzazioni non governative presenta dei vantaggi, come per esempio una razionalizzazione delle

operazioni che devono essere fatte, dall’altro lato invece diventa problematico, nella misura in cui il

settore dello sviluppo e della sicurezza si sovrappongono. L’ultimo filone è il cosiddetto filone della

pace democratica, ovvero la relazione tra regime politico interno e propensione a ricorrere all’uso

della forza. Il mondo è possibile suddividerlo in zone di pace e zone di guerra, tipicamente le zone di

pace sono zone in cui la pace regna da un periodo molto lungo e sono caratterizzate dalla presenza

omogenea di regimi democratici, quelle di guerra invece, hanno regimi non democratici o in alcuni

casi vi è la presenza di regimi democratici e non allo stesso tempo. Gli studiosi quindi, si sono chiesti

se i regimi democratici sono più pacifici rispetto a quelli non democratici. Già Kant nello scritto Per

la Pace Perpetua in qualche modo ci suggerisce che i regimi politici possono incidere alla

propensione all’uso della forza. Dagli anni ’80 in poi sono state svolte delle analisi per vedere se vi

fossero delle correlazioni tra i regimi democratici e l’uso della forza. Sulla base di queste analisi si è

arrivati a sostenere che non è vero che i regimi democratici di per sé siano più pacifici di quelli non

democratici, la stabilità interna non è considerata un indicatore di pacificità; però è pur vero che i

regimi democratici combattono meno guerre, i regimi democratici sono più pacifici nei loro rapporti

reciproci. Un conflitto tra due regimi democratici non genererà in un conflitto armato, quindi non

sono più pacifiche di per sé ma lo sono tra di loro. Michael Doyle, studioso della pace democratica,

incrocia i dati sulle guerre e cerca di comprendere che tipo di rapporto esiste tra democrazia e guerra,

dando una propria definizione di democrazia: viene considerata democrazie se tale è presente da

almeno tre anni, de presenta un’economia di libero mercato, la proprietà privata, è uno stato sovrano,

esiste la tutela giuridica dei cittadini, vi è la subordinazione dei militari all’esecutivo, il potere

legislativo è autonomo ed eletto tramite almeno il 30% percento degli uomini e dalle donne da almeno

un anno da quando si è stabilito il suffragio universale. Le democrazie vanno in guerra secondo Doyle,

ma non si sono verificati mai conflitti tra regimi democratici. Il punto è che questa relazione vale solo

quando ci si trova con due stati democratici, ma non vale se vi sono delle alleanze che si

contrappongono. L’analisi di Maoz del 1989 su 332 coppie di stati afferma che nella relazione diadica,

solo il 5% dei conflitti avviene tra stati democratici e comunque questi non sono mai combattuti sul

campo aperto. L’analisi di Russet invece, del 1993, dimostra che in particolar modo nell’arco di

tempo 1946-1985 le coppie di stati democratici non si fanno mai la guerra. Sulla base di questi

elementi risulta un dato rilevato empiricamente con regolarità, il fatto che quando si ha un conflitto

tra due stati democratici, questo non degenera in conflitto armato. Come spieghiamo allora questa

regolarità empirica che si verifica tra regimi democratici? I regimi non democratici tendono a

mostrare un ricorso più frequente alla forza. Vi sono diverse cause che dimostrano quanto appena

citato. La prima spiegazione è data dalle cause istituzionali, quindi dagli assetti istituzionali e dai

meccanismi decisionali delle democrazie; il primo e banale meccanismo riguarda il fatto che in una

democrazia il governo deve rispondere all’elettorato quindi ha bisogno di consenso sulla decisione di

utilizzare la forza; questo costituisce un freno rispetto ai regimi non democratici, i quali ricorrono

all’uso della guerra più facilmente e questo costituisce un pericolo. Un secondo elemento che viene

ritenuto importante tra le cause istituzionali è che nei regimi democratici esistono dei controlli e dei

contrappesi, che non sono presenti nei regimi non democratici, questi meccanismi interni controllano

le azioni del governo, ma dall’altra parte rallentano le decisioni che un governo possa decidere di

adottare; esistono più veto players in una democrazia. Un’altra questione collegata al primo punto è

che la guerra comporta dei costi sia finanziari che umani, sono i cittadini che pagano i costi finanziari

(tasse e meno servizi); anche nel caso dei regimi non democratici succede questo, però in un regime

del genere, i cittadini non sono in grado di potersi ribellare. I costi umani sono sempre più divenuti

Luisiana Schiera – Alberto Presti

insostenibili sia perché la guerra è diventata sempre più distruttiva, sia perché morire in guerra non è

più visto come un atto nobile. Il ruolo dell’opposizione è un elemento importante, fa sì che i

governanti si aspettino dei costi politici molto più alti in un regime democratico che in uno non

democratico. La divisione dei poteri e la trasparenza degli atti sono tipici dei regimi democratici.

Quando c’è una disputa tra uno sto democratico e uno non democratico, il non democratico sa tutto

di quello democratico per via della trasparenza delle azioni, mentre il democratico non sa nulla del

non democratico. Situazione diversa è quella tra due stati democratici che, adottando entrambi un

regime di trasparenza, sono in grado di conoscere le condizioni l’uno dell’altro. La propensione alla

guerra è più elevata tra uno stato democratico e uno non, ed è sempre lo stato democratico ad attaccare

per primo proprio per la paura dell’ignoto. Esistono poi le cosiddette cause normative che spingono

due democrazie a comportarsi tra di loro in maniera diversa. La cultura politica che caratterizza la

classe politica e i cittadini presenta delle caratteristiche diverse rispetto agli stati non democratico; in

primo luogo perché nei regimi democratici, anche internamente, la violenza non può essere utilizzata

per mantenere o per conquistare il potere, ricorrere all’uso della forza per motivi politici è considerato

inaccettabile. All’interno dei regimi democratici per quanto lo scontro politico possa essere duro, alla

fine si deve arrivare a una soluzione di compromesso, e quindi la capacità di superare le controversie

attraverso processi politici diventa un elemento caratterizzante della cultura politica democratica. La

capacità di raggiungere un compromesso è utile quando un conflitto tra due stati democratici sta per

degenerare. Infine esistono delle cause economiche che fanno riferimento alla tutela della proprietà

privata e alla libertà economica; l’esistenza di liberi mercati provoca un’interdipendenza tra gli stati

che finisce per disincentivare l’uso della forza, perché il costo della guerra sarebbe anche porre fine

a questa interdipendenza. Anche la credibilità delle democrazie è un elemento importante; questo

riguarda il fatto che le posizioni negoziali dei governanti dei paesi democratici che affrontano dispute

internazionali hanno costi più alti, perché ci sono dei costi reputazionali nel caso in cui non si

rispettassero gli accordi presi.

L’evoluzionismo

Con le teorie evoluzionistiche si riprendono i cosiddetti cicli di Modelski, dal nome del professor

George Modelski, che si occupò di cercare di comprendere i cambiamenti politici di lungo periodo

del sistema; con un’analisi, si cerca di comprendere come mutano le organizzazioni del sistema

politico internazionale, che tipologia organizzativa è possibile e come essa cambia nel tempo, e si

cerca di immaginare la direzione verso la quale ci si sta muovendo. L’attenzione è data alle mutazioni

strutturali del sistema organizzativo internazionale, in particolar modo andando indietro nel tempo,

dal 1000 in poi, la costatazione che Modelski fa riguarda questo passaggio organizzativo. L’aspetto

interessante è che l’area più adatta dal punto di vista evolutiva è l’area europea e atlantica. Quello che

è avvenuto dalla seconda metà del XII secolo con l’estensione dei regimi democratici è la creazione

delle organizzazioni internazionali e dei trattati multilaterali; tutti questi elementi hanno spinto verso

la creazione di un’organizzazione globale meno incentrata sulla leadership e la cui aspirazione è

quella di tipo democratico. Visto che gli stati si stanno abituando ai principi della democrazia, si viene

a creare l’aspettativa che i principi e le norme dell’organizzazione del sistema politico internazionale

diventano anch’essi democratici, vi è ovviamente ancora solamente un’aspettativa e una richiesta.

Quando si parla di evoluzione non si sta dicendo che la soluzione verso cui ci si muove è migliore,

non c’è un disegno di movimento verso un’organizzazione superiore, c’è la comprensione che la

nuova organizzazione verso dove ci si muove è più complessa, ma non c’è nessuna pretesa che questa

sia migliore, e i cambiamenti sono probabilistici. Per comprendere come avviene il cambiamento e

Luisiana Schiera – Alberto Presti

quali sono le strategie che vengono seguite con regolarità, è necessario analizzare i problemi che

nascono a livello internazionale. I problemi che si creano nel tempo sono diversi tra di loro, per

adattarsi a questi problemi e per rispondere a questi nuovi problemi anche i sistemi politici mutano,

perché altrimenti non sarebbero in grado di sopravvivere. Chi riesce a fornire una risposta – che non

deve essere la migliore risposta - diventa una sorta di paragone e di modello per gli altri. Questo fa sì

che questa modalità organizzativa diventa quella che si diffonderà successivamente. Nel momento in

cui questa risposta è stata selezionata diventa difficile cambiarla, fino a quando arriverà un altro

problema e un altro modello che risponderà a questo nuovo problema. Il processo di selezione di

questa organizzazione, secondo Modelski, è quello delle guerre mondiali, e la capacità degli stati di

adattarsi ai nuovi organismi, potrebbe essere l’unico elemento che ci aiuterebbe a cambiare la

modalità di selezione, portando dunque ad una selezione in grado di gestire il conflitto politico senza

un conflitto armato. Questo cambiamento di selezione è basato anche sull’idea che gli stati

democratici sono diventati in numero maggiore rispetto a i non democratici e anche il numero di

popolazione democratica è superiore a quella sotto ai regimi non democratici. È la guerra generale

che fino ad adesso ha determinato i cambiamenti. In un sistema come questo, il leader globale persiste

nonostante esistano delle organizzazioni internazionali, però questo, per i negoziati, deve avvalersi

delle organizzazioni internazionali. Modelski spera, ma non ne ha la certezza, che con il passare del

tempo l’egemonia andrà diluendosi; anche se essa dovesse rimanere, avrebbe un ruolo molto minore

rispetto ad adesso, e comunque sarebbe sempre di più un ruolo politico piuttosto che militare. Questo

ciclo è una spirale, non sono cicli chiusi, ma aperti, le organizzazioni internazionali successive

saranno sempre più complesse rispetto a quelle precedenti. Modelski non considera i cambiamenti

politici come se fossero isolati, questi sono strettamente collegati ai cambiamenti tecnologici ed

economici, i tre settori si influenzano reciprocamente, influenzandosi si creano nuovi problemi che

devono essere risolti, questo costringe il sistema a reagire, sono problemi importanti per il sistema, e

per poterli individuare è necessario che questi siano inseriti nell’agenda-setting; chi riesce a far

inserire un problema in agenda ha un potere enorme. Nella fase di coalition-building invece, gli stati

si aggregano attorno ai problemi al fine di affrontarli e risolverli; con il passare del tempo si creano

delle macroaggregazioni di stati che si scontreranno nelle guerre globali e le potenze vincitrici

saranno coloro che eseguiranno le decisioni attuate nei loro programmi. A partire dagli anni settanta

hanno iniziato a manifestarsi dei problemi importanti per il sistema, in particolar modo i paesi usciti

dalla fase di decolonizzazione, manifestano la loro condizione all’interno delle istituzioni esistenti,

ma ci sono state delle decisioni contrastanti tra le potenze anche all’interno delle stesse coalizioni che

li hanno portati ad attuare decisioni differenti.

Il costruttivismo

Tra gli anni ’80 e ’90 ritroviamo un periodo in cui tutta la complessità della politica internazionale è

venuta fuori; è emerso che la politica militare non comprendeva l’interezza delle politiche

internazionali. Dal punto di vista ontologico ed epistemologico le teorie delle relazioni internazionali

presentate fino ad esso presentavano dei problemi. Il costruttivismo pone una svolta sociologica, si

pone come processo in cui non si guarda più ai fattori materiali, così come facevano le teorie che

facevano riferimento alla dimensione militare ed economica, si ritiene che i fattori ideali sono

importanti tanto quanto quelli materiali. Se le teorie che abbiamo visto erano prevalentemente

incentrate sull’agente, il costruttivismo ritiene invece che agente e struttura siano ugualmente

importanti. Proprio perché c’è uno spostamento importante rispetto alle teorie precedenti vi è un altro

elemento che riguarda la nuova attenzione posta sulla costruzione sociale dei significati, il che include

Luisiana Schiera – Alberto Presti

la conoscenza, ovvero come si studia il mondo, come si apprende dal mondo, e come si impara. Se si

mette in discussione il modo in cui si impara, questo ci insegnerà a tenere in considerazione che anche

la realtà sociale è costruita, la realtà è socialmente costruita; come noi leggiamo il mondo non è

oggettivo. Un altro aspetto particolarmente importante è l’attenzione posta al cambiamento. La

stragrande maggioranza delle teorie delle relazioni internazionali non analizzarono il cambiamento,

il che significa che vi è un interesse sul permanere delle strutture e non sul cambiamento. Sicuramente

Weber e Durkheim diedero dei grandi contributi, ma anche i neokantiani; ugualmente Heidelberg e

Habermas influenzarono il pensiero costruttivista. Tra i precursori ritroviamo abbiamo John Searle il

quale afferma che “ci sono porzioni del mondo reale, che sono fatti soltanto sulla base dell’accordo

umano, esistono soltanto perché noi crediamo che essi esistano”. Egli sostiene che l’interazione è

determinante affinché si vengano a formare conoscenze oggettive, e queste si esprimeranno attraverso

le pratiche che gli stati adottano, è proprio questo che rende le strutture statali reali e oggettive. Gli

interessi sono socialmente costruiti e quindi soggetti a cambiamento. Come cambiano gli interessi

cambiano anche le identità, i costruttivisti sostengono che a seconda di come viene identificata

l’identità di un paese, questo può portare a diverse condizioni politiche.

Alexander Wendt è il più noto tra i costruttivisti, e in particolar modo la sua analisi parte con una

critica nei confronti di Kenneth Waltz, neoclassico, al quale contesta gli assunti pre-teorici su cui si

fonda il neorealismo; ma effettua anche una critica di tipo epistemologico, ritiene che sia

l’epistemologia che viene portata da Waltz a portare ai risultati a cui egli arriva. Wendt si sofferma

sull’incidenza della cultura della sicurezza che si sono diffuse in un particolare periodo; distingue in

cultura hobbesiana, lockiana e kantiana.

Per i costruttivisti esistono delle regole importanti che vengono distinte in norme regolative e norme

costitutive. Le norme costitutive definiscono l’insieme delle pratiche che compongono le azioni di

un’attività organizzata, rende un comportamento possibile; sono essenziali perché si venga a costruire

la politica internazionale. L’attenzione deve essere nei confronti di ciò che è costitutivo. Le norme

regolative non tengono conto delle azioni. La logica utilizzata dai costruttivisti non è la logica delle

conseguenze ma dell’adeguatezza, ci si comporta in una certa maniera perché è adeguato, dopodiché

si cercherà di ridefinire le regole, ma finché le regole non cambiano, ci si comporterà adeguatamente,

come un buon membro della comunità, un member notwithstanding.

Un filone costruttivista è quello che fa riferimento alle autorità. I costruttivisti sostengono che

esistono delle forme di autorità, non vi è solo l’anarchia, e la presenza di questa consente di regolare

le relazioni interstatali, riducendo l’incertezza. La forma di autorità alla quale i costruttivisti hanno

posto maggiore attenzione è individuata nelle Nazioni Unite, e in particolare nel Consiglio di

Sicurezza, non generalizzando; le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono automaticamente

efficaci nei confronti di tutti gli Stati, sono vincolanti, questi sono tenuti a rispettare le decisioni prese;

diverse sono le decisioni prese all’interno dell’Assemblea Generale, quelle non hanno effetto

coercitivo. Il Consiglio di Sicurezza viene considerato un mini parlamento che delibera azioni

vincolanti; è un paragone sporco ma è effettivamente così. Un altro filone di ricerca è quello che

riguarda la costituzione di comunità di sicurezza. Questo tipo di ricerche hanno identificato quali sono

gli strumenti normativi che consentono alle comunità pluralistiche di sicurezza di istituirsi. Sono

delle comunità i cui membri hanno reciproca aspettativa di cambiamenti pacifici, sanno che potranno

regolare le loro relazioni o cambiarle ma mai usando la forza. Il più chiaro indicatore dell’esistenza

di queste comunità è l’assenza, nel lungo periodo, di piani di aggressione e di difesa nei confronti di

un altro stato; sappiamo che esistono nel momento in cui gli stati hanno deciso di smettere di

pianificare attacchi. Queste comunità continuano a pianificare attacchi solo verso gli stati che non

Luisiana Schiera – Alberto Presti

fanno parte della stessa comunità, mai nei confronti degli stessi membri. Oltre all’area euro-atlantica,

che è considerata una comunità di sicurezza, queste si sono diffuse anche in altre parti del mondo

come l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), che è considerata il cuore di una

nuova comunità pluralistica di sicurezza o come l’Unione Africana. Le stesse comunità di sicurezza

sono come un uomo, non si può dare per scontato che sia destinata a durare nel tempo; mentre per gli

studiosi precedenti al costruttivismo, le strutture create tendono a permanere, per i costruttivisti il

cambiamento può avvenire, è un fattore reale. Un altro filone di studio riguarda il ciclo delle norme,

mette in evidenza diversi aspetti importanti, ancora una volta si parla di cambiamento; le norme

possono essere proposte e vengono proposte da un imprenditore di norme che deve ottenere un

consenso sufficiente da parte degli stati affinché la norma proposta posa essere presa in

considerazione, una volta che questa norma è ampliamente condivisa verrà estesa molto facilmente a

tutti. È importante perché ci spiega chi e in che condizioni si possono proporre nuove norme e quali

sono le chance di successo; le norme non sono presentate solo dagli stati ma manche dalle ONG.

Nella nascita delle nuove norme il potere militare ed economico valgono poco, vale la capacità di un

certo attore di imporsi come fautore di queste norme. Da questo punto di vista una delle applicazioni

più rilevanti di questo tipo di analisi è stata fatta in base alle norme sui diritti umani che hanno iniziato

a formarsi lentamente e che sono cresciute con il passare del tempo. Non si può dare per scontato che

una norma sia destinata a perdurare nel tempo, si deve avere la consapevolezza del cambiamento. Tra

le norme più rilevanti per le relazioni internazionali troviamo quelle riguardanti l’intervento militare

e in particolar modo gli interventi per i fini umanitari. Le analisi hanno dimostrato che la possibilità

di intervenire per fini umanitari era riservata alle grandi potenze, che precedentemente intervenivano

anche arbitrariamente, definendo un intervento umanitario una vera e propria azione militare; con il

passare del tempo si è creata una norma tale per cui solo se questo intervento avviene in una cornice

multilaterale l’intervento non viene considerato aggressione ma intervento umanitario legittimo;

questo è un cambiamento legato alla questione dell’autorità. Se fino a qualche secolo fa gli stati

potenti potevano fare sostanzialmente quello che volevano, più recentemente sono nate delle

istituzioni multilaterali che hanno acquisito legittimità e che conferiscono a loro volta legittimità;

adesso molto difficilmente uno stato interviene senza chiedere l’autorizzazione.

L’organizzazione del sistema politico internazionale

Quando si parla di sistema politico internazionale ci si riferisce all’insieme di soggetti che

interagiscono, si influenzano, e producono regole e istituzioni con le quali provvederanno alla

creazione di politiche pubbliche del sistema. Il sistema politico internazionale non si differenzia molto

da quello nazionale, le uniche variazioni riguardano i soggetti, poiché non si parla più di cittadini ma

di Stati; nella nostra idea di sistema politico internazionale sono gli Stati ad essere centrali. Gli Stati

oggi sono sempre più affiancati da soggetti non statali che acquisiscono rilievo, in questo stadio allora

parliamo di sistema politico globale, si considerano questi soggetti in alcuni settori alla stregua degli

stati, e questo è un cambiamento importante. Il sistema politico internazionale è composto dai soggetti

statali, dall’organizzazione che è composta a sua volta da ruoli, regole e istituzioni, e dal mutamento,

perché il sistema politico è soggetto al mutamento. Le regole sono l’elemento essenziale

dell’organizzazione del sistema politico internazionale, gli Stati le accettano e si sentono vincolati da

queste; esse sono di tipo diverso e hanno una diversa cogenza: il primo tipo è dato dai principi sociali

fondamentali, di questi fanno parte tutti quei principi organizzativi che gli Stati rispettano perché

ritengono sia loro interesse vivere all’interno di una società internazionale; ad esempio ritroviamo il

già citato principio di non ingerenza, oppure del principio per cui gli stati non possono esagerare

Luisiana Schiera – Alberto Presti

nell’uso della forza. Come tutti i principi e le norme di una società, esse sono soggetti a cambiamento

motivo per il quale principi sociali che per secoli sono stati rispettati adesso vengono messi in

discussione da principi sociali emergenti; quando questi si manifestano devono trovare sufficiente

consenso prima di potersi affermare. Molti di questi principi sono talmente importante da essere

indicati nei preamboli delle carte costituzionali oppure in alcuni casi li troviamo all’inizio di

dichiarazioni solenni particolarmente fondanti per la comunità. Però nel momento in cui si ha una

violazione di questi principi la sanzione non è particolarmente forte e non è automatica, dipende dalla

volontà degli Stati di mantenere la norma o fare rispettare la nuova; è un’ambiguità elevata, perché

gli Sati sostanzialmente non si siedono a tavolino decidendo quale norma si deve rispettare, ma questa

si afferma semplicemente supportandola e sostenendola; possono esistere però più norme che

contemporaneamente regolano un determinato comportamento creando un po’ di confusione. Un altro

tipo di regola che ha invece maggiore cogenza è quello delle norme del diritto internazionale, queste

proprio perché si sono affermate come tali hanno maggiore grado di sanzionabilità rispetto ai principi

sociali fondamentali; gli Stati accettano di essere legati a queste norme prevalentemente e

normalmente (prevalentemente ovvero non sempre e normalmente nel senso che ci potrebbero essere

comportamenti differenti); se uno Stato ritiene che il costo della sanzione sia minore del perseguire

la norma, allora non la rispetterà e la norma sarà indebolita ma certamente la reazione sarà

verosimilmente maggiore rispetto ai principi precedentemente elencati, che saranno tendenzialmente

reazioni di isolamento e strumenti di monito di non appartenenza alla comunità; nel caso invece della

violazione del diritto internazionale ci sono più strumenti, che sono però sempre strumenti limitati,

come le sanzioni. Un altro tipo di regole sono le regole del gioco, tutte quelle regole che sono stabilite

per giocare, per regolare il comportamento di un determinato settore in un certo momento storico, ad

esempio le regole perseguite durante la Guerra Fredda. Queste sono regole che si rispettano fino a

quando i giocatori hanno la volontà di farlo, sono regole piene di ambiguità. Oltre alle regole parte

del sistema sono le istituzioni. Le istituzioni sono singoli insiemi coerenti di regole e procedure e

quasi sempre organi e strutture decisionali, amministrative e operative sulle quali gli Stati convergono

per la gestione di problemi comuni. Queste hanno la funzione di diminuire l’incertezza, incentivano

la conformità tra Stati, incentivano l’omologazione dei comportamenti statali e sono utili poiché

danno assetto stabile alle relazioni tra gli Stati. Esistono due tipi di istituzioni, quelle intergovernative,

che sono create con negoziati formali e i regimi, che si formano attraverso azioni ripetute da parte

degli Stati; in alcuni regimi hanno trovato spazio le ONG. Le istituzioni intergovernative nascono per

essere permanenti e stabili. L’organizzazione internazionale che organizza maggiormente il sistema

è quella delle Nazioni Unite, un pilastro organizzativo fondamentale. Però va anche detto che un

elemento da non sottovalutare è la capacità di queste organizzazioni di cambiare nel tempo, di mutare

non gli scopi ma di aggiungerne altri. Nella relazione con gli stati più forti e le istituzioni, l’uso

strumentale e il rapporto di distacco, finisce con l’incidere per la propensione a far gestire

all’istituzione determinati problemi. Il regime ha come caratteristica di essere un insieme di

procedure, si basa sull’aspettativa; è utile perché possono essere prese delle decisioni che possono

essere rilevanti; incide moltissimo la diversa capacità degli Stati in relazione alla materia di

occupazione del regime.

Le regioni sono molto importanti per il sistema politico internazionale poiché a livello regionale

(macro aree) si verifica la frammentazione del sistema politico internazionale; di conseguenza è

necessario identificare la distribuzione spaziale e la presenza di regioni all’interno

dell’organizzazione del sistema internazionale e dei ruoli che ricoprono. Le cause principali della

frammentazione regionale sono ad esempio la diversa penetrazione dell’economia capitalistica che

Luisiana Schiera – Alberto Presti

crea quindi una diversa capacità di rispondere ai problemi di carattere economico; se prendiamo in

considerazione il periodo della Guerra Fredda è chiaro che le economie che facevano capo all’URSS

erano economie in cui il capitalismo non penetrava, e quando incominciò a penetrare provocò il crollo

di questi regimi. Non possiamo negare l’importanza di sistemazioni geopolitiche a livello locale, è

chiaro che nel contesto europeo l’uso della forza è un fenomeno molto marginale, nel contesto

africano la presenza di fragilità statale è motivo di molti dei conflitti interni e interstatali ma

sostanzialmente questi conflitti tendono a essere contenuti a livello regionale, l’unica ripercussione

extra-regionale è il flusso migratorio, ma comunque questi conflitti non hanno la probabilità di

estendersi a livello mondiale; in contesto asiatico invece, la situazione è completamente diversa, ci

sono dispute regionali importanti che se dovessero trasformarsi in conflitti armati rischierebbero di

trasformarsi in guerre generali. Tutto questo incide su quanto gli Stati sono disposti a seguire le regole.

L’organizzazione universale che è importante a livello internazionale, diventa poco rilevante a livello

regionale: la presenza o assenza di integrazione regionale porta la frammentazione del sistema

politico internazionale. Nel caso della regione europea abbiamo un processo di integrazione molto

avanzato che è in linea con l’organizzazione del sistema politico internazionale, e questo è

fondamentale; nel caso della regione africana o di quella latino-americana abbiamo qualcosa di simile

ma non è paragonabile al contesto europeo; nel caso della regione asiatica ci sono nuove spinte verso

un processo di integrazione regionale ma che sono diverse dal processo europeo. Nel caso asiatico

l’attenzione è su un processo che lascia intatta la sovranità dello stato e non viene consentito

l’ingerenza sugli affari interni, e questo non è necessariamente in linea con il sistema politico

internazionale. Quando si pensa al processo di globalizzazione, questo ha eliminato molte

discontinuità regionali, con il passare del tempo si è creata una maggiore omogeneità tra le varie

regioni; la presenza di reti locali di cooperazione riesce a configurare la possibilità di discontinuità

territoriali. Un altro aspetto che riguarda il rapporto tra globalizzazione e discontinuità territoriale è

che se in passato i conflitti potevano avvenire nella stessa regione, adesso questo può avvenire tra

regioni diverse; i conflitti economici sono più probabili tra are regionali diverse.

Un altro elemento dell’organizzazione del sistema politico internazionale riguarda i ruoli; secondo le

teorie egemoniche c’è una differenza significativa tra i ruoli esercitati. È necessario distinguere quindi

tra ruoli primari e ruoli secondari. I ruoli organizzativi più importanti, ovvero quelli primari, sono

ricoperti dallo Stato egemone e dagli Stati che giocano o che ambiscono a giocare. Questi Stati

riescono ad esercitare ruoli primari perché organizzano loro il sistema, non solo ne danno le regole,

ma nel caso di quelli sfidanti, modulano la resistenza nei confronti di queste regole e propongono

alternative. Gli Stati che esercitano ruoli primari non fanno altro che imporre agli altri Stati di

conformarsi e lo fanno attraverso gli strumenti che hanno a disposizione, militari, economici o

ideologici. In questo senso, la volontà di giocare il ruolo di leader o di sfidante è necessaria nel

momento in cui i due Stati si accollano l’onere di organizzare due gruppi che si andranno a

contrapporre. Sostanzialmente nel momento in cui uno Stato ambisce a guidare il sistema o a sfidarlo

non può limitarsi a controllare i propri ideali, deve avere la volontà e la capacità di essere presente in

tutti i contesti negoziali dell’organizzazione del sistema politico internazionale; ogni volta che c’è un

negoziato per cui il sistema rischia di cambiare, i due Stati, leader e sfidante, devono essere presenti

perché se non lo sono perdono di credibilità. Gli stati che ricoprono ruoli secondari sono quelli che

contribuiscono, in maniera secondaria, all’organizzazione del sistema politico internazionale; essi

partecipano anche per migliorare il proprio status, per presentarsi come uno Stato che può contare,

come l’Italia con le operazioni di pace in Timor Est (sud-est asiatico). Esiste però un altro gruppo di

Stati che è il cosiddetto gruppo dei free riders. I free riders sono quegli Stati che si avvantaggiano dei

Luisiana Schiera – Alberto Presti

benefici dati dell’organizzazione, senza partecipare all’organizzazione; si differenzia dagli stati

secondari poiché lo stato free riders non mette a disposizione le proprie risorse, nemmeno per

un’operazione di pace, trae benefici a prescindere dall’organizzazione e di conseguenza però, non

può chiedere nulla in cambio.

Molto importanti sono le forme organizzative che il sistema politico internazionale può assumere nel

tempo. I tentativi di analisi che sono stati fatti fino ad ora identificano la possibilità di variazioni,

nelle forme organizzative, in relazione all’elemento della pariteticità, ovvero alla misura in cui i ruoli

sono rappresentati; quindi la diseguaglianza può essere un elemento presente. La misura in cui la

diseguaglianza può incidere, è relativa alla presenza o assenza di gerarchie e di gerarchizzazioni

organizzative; possiamo immaginare una sorta di continuum in cui in un estremo la gerarchia è

massima, e quindi è un’organizzazione di tipo imperiale, e nell’altro la gerarchia è irrilevante, e quindi

è un’organizzazione di tipo democratico. È chiaro che più il sistema è gerarchico, inferiore è il numero

di soggetti che saranno in grado di organizzare il sistema;

meno il sistema è gerarchico più saranno gli Stati a

contribuire all’organizzazione del sistema, e anche

all’imposizione di regole e istituzioni. Se però andiamo a guardare alle esperienze storiche, in realtà

il tentativo di creare un impero mondiale non è mai riuscito, si è arrivati ad avere solo forme di tipo

egemonico, mai un estremo imperiale; quando noi pensiamo all’estremo gerarchico dell’impero, nella

realtà dobbiamo renderci conto che questo estremo non si è mai verificato quindi si parlerà di estremo

egemonico. Dall’altra parte va detto che la storia è rilevante per comprendere quale tipologia

organizzativa può essere considerata legittima e quale no, se quindi la nostra esperienza storica è tale

per cui tutte le tipologie organizzative finora realizzatasi si sono collocate solo su una porzione del

continuum; si colloca sempre nella metà dell’egemonia non nella porzione democratica. Sulla base

di questa esperienza è più facile considerare legittima una tipologia organizzativa che si colloca sulla

porzione del continuum egemone; qualora ci siano proposte di spostamento verso il continuum

democratico, ci sarà sempre la tendenza a spostarsi verso l’egemonia, perché storicamente sono

legittimate e già esistite e conosciute; le esperienze passate tendono a limitare le spinte affinché ci si

sposti verso l’assetto democratico; la storia passata fa attrito e rallenta il processo. Questo sistema è

stato messo in evidenza da Alan Watson, esponente della scuola inglese. Sia chiaro, nel momento in

cui immaginiamo l’estremo democratico stiamo immaginando che un elevato numero di Stati

contribuiranno nei ruoli primari e secondari. Si ampia il numero di Stati che si prendono la

responsabilità che queste regole e istituzioni siano efficaci e rispettate; questo comporta un onere per

un numero più elevato di Stati; finisce per essere uno effetto frenante per il cambiamento.

Un altro elemento che assume rilievo è quello della centralizzazione del sistema, ovvero quanto il

sistema è centralizzato e quanto diviso in regioni o altre realtà territoriali; possiamo avere tipologie

organizzative che possono ampliarsi all’intero mondo, all’intero sistema internazionale, o tipologie

organizzative che possono avere carattere di regionalismo e frammentazione; nel caso in cui

l’organizzazione riesce ad essere di tipo globalista, estesa, questo

significa che dovremmo immaginare la capacità di queste regole

e istituzioni di essere efficaci; quando vi è la frammentazione

significa che regole e istituzioni non si applicano ovunque, ma

solo a livello localizzato e regionale. In questo senso abbiamo

degli indicatori per queste due dimensioni. Per esempio quando si

cerca di comprendere quanto è paritetico un sistema andiamo a

guardare alla procedura di elaborazione delle decisioni;

Luisiana Schiera – Alberto Presti

guardiamo anche al contenuto delle decisioni prese, vedendo se questa favorirà qualcuno o pone gli

Stati sullo stesso piano; guardiamo anche se le politiche che vengono adottate saranno politiche che

favoriscono qualcuno o pongono tutti sullo stesso piano. Quando guardiamo alla centralizzazione è

importante come vengono prese le decisioni, ovvero se si coinvolge un gruppo ristretto, un gruppo

regionale o tutti quanti. Tutti questi elementi ci fanno capire quanto è centralizzato il sistema politico

internazionale o quanto non lo è. Sulla base di questo prossimo identificare quattro tipologie

organizzative. Quando la centralizzazione e la pariteticità sono alte, allora l’organizzazione sarà

democratica; quando la centralizzazione è alta e la pariteticità bassa allora l’organizzazione sarà

egemonica; quando la centralizzazione è bassa ma la pariteticità è alta allora l’organizzazione sarà

frammentata; quando la centralizzazione e la pariteticità sono basse allora l’organizzazione sarà

policentrica. Le organizzazioni egemoniche sono quelle che storicamente si sono presentate più

frequentemente, le regole sono di tipo gerarchiche e il ruolo organizzativo è limitato allo Stato

egemone, a quello sfidante e gli stati secondari: il punto è che questo tipo di organizzazione produce

effetti a livello globale. L’organizzazione policentrica è un’organizzazione in cui abbiamo pochi Stati

che sono in grado di imporre regole e istituzioni; sono piccoli gruppi su aree disparate, per essere

chiari non a livello regionale ma a piccole porzioni. L’organizzazione frammentata si riferisce a livelli

regionali, più soggetti del sistema sono in grado di incidere nella formazione di regole e istituzioni,

non c’è un unico Stato che decide, tutti gli Stati appartenenti in quella porzione sono in grado di

contribuire. L’organizzazione democratica dà la possibilità a tutti gli Stati di contribuire alla

formazione di regole e istituzioni, e di rispondere e di essere chiamati a sostenerle attivamente ogni

qual volta ci sia una violazione. Le organizzazioni democratiche ed egemoniche sono globaliste, i cui

effetti tendono a dispiegarsi ovunque all’interno del sistema; le organizzazioni frammentate e

policentriche sono di tipo regionale, contesti in cui il sistema si frammenta regolarmente fino a non

identificare un unico sistema. Un aspetto fondamentale è che il mutamento opera i suoi effetti, è

possibile che esista un passaggio di tipologia organizzativa, si può cambiare, ma è anche possibile

che ci si muova anche all’interno dello stesso quadrante. Tipicamente lo spostamento più importante

avviene con le guerre generali, è un mutamento di lungo periodo, ma anche tra due guerre generali

possono accadere degli spostamenti.

Il mutamento del sistema politico internazionale

Una questione rilevante è il mutamento nell’organizzazione del sistema politico internazionale; in

questo senso in molte teorie delle relazioni internazionali il mutamento è stato scarsamente

considerato, recentemente ha acquisito valore. Quando parliamo di questo dobbiamo concentrarci su

diversi aspetti, il cambiamento del contenuto delle regole, delle procedure e delle decisioni del

sistema; anche a livello del sistema politico internazionale sono presenti delle fratture: per identificare

i “partiti” a livello internazionale dobbiamo cercare le grandi formazioni competitive formatisi nel

tempo. Queste grandi aggregazioni possono formarsi sia attorno grandi questioni che attorno a Stati

che si propongono di guidare l’aggregazione stessa; la frattura è un conflitto sociale, che riesce a

essere talmente visivo da portare gli Stati a formare aggregazioni competitive che si contrappongono

tra loro; la rilevanza delle aggregazioni dipende dalla capacità degli Stati, anche di comunicare,

potranno essere collegate tramite contatti o potranno avere delle relazioni istituzionalizzate o

specifiche istituzioni per regolare le loro consultazioni.

Una delle fratture che tende ad essere presente è quella nord-sud, che si struttura intorno al conflitto

politico tra paesi industrialmente avanzati e quelli emergenti; questa aggregazione ovviamente si

struttura intorno alla diffusione del regime capitalista, quindi è di tipo economico; si è strutturato a

Luisiana Schiera – Alberto Presti

partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e grazie alla capacità degli Stati Uniti di strutturare

il sistema di Bretton Woods. A partire dagli anni ‘60 e a partire dal momento in cui si è assistito alla

creazione di vengono a creare nuovi Stati grazie al processo di decolonizzazione, la politicizzazione

di questa frattura è aumentata, e ha iniziato a portare a una serie di rivendicazioni da parte di alcuni

Stati per la volontà di riformare le regole in ambito economico. È esploso in seguito agli anni ‘70, in

cui la concorrenza tra paesi del nord e paesi del sud inizia a manifestarsi in maniera più evidente.

Questa frattura è anche sottolineata dalla presenza del G7 e del G77. La frattura nord-sud è una

frattura che certamente ha dispiegato i suoi effetti all’interno di molte sedi, ma una delle sedi che ha

visto particolarmente attivi gli stati del G77 è stata l’Assemblea Generale dell’ONU, che ha visto

interagire questi stati tra di loro.

Un’altra frattura importante è la frattura centro-periferia, che scaturisce dal processo di formazione

del sistema politico contemporaneo. I conflitti si sono innescati dall’estensione della dimensione

politica, ma dopo il secondo conflitto mondiale e il processo di decolonizzazione, la frattura si è

modificata, facendo emergere la volontà di alcuni Stati di entrare a far parte del sistema

internazionale; queste richieste erano state lette erroneamente nella chiave della Guerra Fredda, la

frattura esistente in quel periodo, quella est-ovest (quella presente durante la Guerra Fredda ma che

ha esaurito la sua esistenza) nascondeva quella centro-periferia. La chiave della Guerra Fredda era

stata data poiché i paesi non allineati tendevano a votare all’interno dell’Assemblea Generale

dell’ONU più verso l’Unione Sovietica che verso gli Stati Uniti; ma la vera chiave di lettura era la

volontà di indipendenza. A partire dalla fine della Guerra Fredda si cominciò a notare di più questa

frattura. Quando guardiamo a questa, e alle principali esperienze aggregative, ovvero quella dei non

allineati, notiamo che essi rivendicavano la stessa posizione degli altri Stati ma con la volontà di

inserire nell’agenda nuove problematiche. Esistevano anche dei paesi che avevano delle posizioni

istituzionali complesse, come l’India che era il maggiore esponente dei non allineati, la quale

presentava delle questioni interne ovvero quelle relative al Pakistan, il quale si rivolgeva di più verso

gli Stati Uniti mentre l’India tendeva a rivolgersi verso l’URSS. Il movimento dei non allineati ha

avuto poco impatto, e questo è collegato alla scarsa coesione interna; essi si presentavano come

movimento unitario, ma non riuscivano mai ad agire come un blocco coeso, al contrario, le posizioni

di questi Stati finivano per sparpagliarsi, e i singoli Stati potevano essere comprati tra virgolette, e la

loro posizione facilmente spostata. La responsabilità di proteggere fu chiesta dai paesi appartenenti

alla periferia, perché erano i paesi che più subivano il problema. Le differenze culturali, e il rispetto

di queste, tende ad essere un’altra delle caratteristiche e delle istanze dei paesi delle periferie. Un’altra

questione che è di assoluto rilievo riguarda l’importanza della religione nell’organizzazione politica,

in questo senso per quanto non si possa in alcun modo affermare che esista uno scontro di civiltà, è

possibile affermare che essa rappresenti una profezia che si auto-avvera. Va anche detto che vi sono

delle distinzioni di tipo culturale di paesi a maggioranza musulmana con delle differenze anche

interne, che rischia di essere una delle tematiche che in futuro avranno maggiori influenze.

Sicurezza internazionale e conflitti armati

Dei cambiamenti molto importanti sono stati fatti nell’ampliamento dell’agenda della sicurezza

internazionale e nell’evoluzione dei conflitti armati. La globalizzazione ha impresso nella strategia

di sicurezza nazionale degli Stati Uniti un cambiamento importante; se dapprima nell’agenda

statunitense erano inserite minacce tradizionali, da qualche anno iniziano a essere incluse come

minacce di sicurezza la crisi economica globale, le epidemie globali di difficile controllo, il

cambiamento climatico, le interruzioni importanti nel mercato energetico e le significative

Luisiana Schiera – Alberto Presti

conseguenze di sicurezze associate agli stati canaglia o falliti. Stiamo parlando di minacce che con la

dimensione militare hanno poco a che fare; la dimensione militare entra di straforo nella misura in

cui anche i militari devono essere utilizzati per gestire queste minacce: nel caso dell’epidemia di ebola

2014-2016, furono necessari per la costruzione veloce di infrastrutture che servivano alla gestione

dell’epidemia. Dalla Guerra Fredda in poi, la sicurezza e la dimensione militare diventano

indistinguibili, prima invece non era così, adesso ci si concentra sugli aspetti militari e strategici della

sicurezza; è questo il periodo in cui fioriscono i pensieri strategici. Con la costatazione che lo scontro

diretto tra Stati Uniti e Unione Sovietica stava diventando remoto, si ha l’abbattimento dei confini sia

interni che esterni, sia della dimensione spazio-temporale; l’abbattimento dei confini è il primo che

si effettua perché i problemi sono di carattere transnazionale. Fino ad ora le teorie delle relazioni

internazionali puntavano molto sulla deterrenza, più capacità militari hai, più gli Stati hanno paura ad

attaccarti, però prendiamo il caso del terrorismo, il terrorista non ha paura delle testate nucleari,

percepisce come irrilevante la deterrenza. Questi elementi mettono in dubbio la deterrenza per questo

tipo di minacce, la deterrenza rimane utile solo nel caso militare. Va detto che comprendere cosa

viene inserito nella nuova agenda della sicurezza è piuttosto importante, tra i temi inseriti sono inclusi

minacce come la povertà, il degrado ambientale, la diffusione di malattie, la sovrappopolazione, i

movimenti di massa di riguidati, il nazionalismo, il terrorismo e la catastrofe nucleare. Queste sono

considerate minacce di sicurezza, si ha la consapevolezza che questi nel lungo periodo possano

diventare non solo problemi specifici ma vere e proprie minacce di sicurezza internazionale. Un altro

aspetto importante relativo alla espansione del concetto di sicurezza, è legato alla Scuola di

Copenaghen, che inizia a manifestare il proprio pensiero dagli anni ’80 e ’90; secondo questa scuola,

non si può più considerare il sistema internazionale come l’unico in cui si affacciano le minacce di

sicurezza internazionale, ma dobbiamo andare a guardare cosa avviene dentro gli stati, vedendo se

sono deboli o forti in relazione alle capacità politica di mantenere il monopolio del potere legittimo

della forza; sono elementi rilevanti per comprendere la sicurezza internazionale odierna. La Scuola

di Copenaghen ritiene che essenziale sia un altro aspetto, ovvero quello societario, che attiene alla

dimensione sociale dei paesi, il che comporta, in seguito ai processi di integrazione e globalizzazione,

l’idea che i cittadini di determinati paesi si sentano minacciati da questi processi di integrazione e

globalizzazione; già negli anni novanta immaginavano che il processo di integrazione europea potesse

essere visto come minacce da quelle società ancorate alle identità nazionali. Questo comporta una

securitizzazione, ovvero identificare un problema come relativo alla sicurezza; questo è un grande

contributo della Scuola di Copenaghen. Le minacce sono sempre intersoggettive, non oggettive,

vengono costruite attraverso rapporti intersoggettivi, devono essere percepite come problemi per

poter entrare nell’agenda. Quindi si può vedere come si costruiscono o decostruiscono le minacce di

sicurezza; si costruiscono attraverso un attore securitizzante, come un governo o qualcuno

particolarmente rilevante, che identifica qualcosa come minaccia di sicurezza e chiede

l’autorizzazione all’opinione pubblica di usare misure eccezionali per contrastare queste minacce, se

l’opinione pubblica approva la misura, la mossa securitaria ha successo, al contrario invece non

l’avrà. Può accadere però che si risponda ad una minaccia sbagliata, oscurandone un’altra. Potrebbe

anche succedere che il governo utilizzi l’identificazione di minacce per costruire consensi e non per

la vera e propria minaccia. Un altro filone di studi che ha preso piede e che dal punto di vista teorico

poco contribuisce però è importante, è il filone della sicurezza umana; secondo questo filone,

l’elemento principale attorno al quale si deve costruire la sicurezza non è lo stato ma l’individuo, la

sicurezza dell’individuo è prevalente. C’è quindi un allontanamento dalla protezione dello stato alla

protezione dei cittadini. Se uno stato fallisce la protezione dei cittadini, gli altri stati intervengono. La

Luisiana Schiera – Alberto Presti

possibilità di intervento si amplia enormemente, e finisce con il creare sempre maggiori possibilità di

scontro. È cambiato il modo in cui l’intervento si possa attuare, quindi vi è l’importanza di elementi

ideali, culturali e normativi.

Altro cambiamento importante riguarda l’evoluzione dei conflitti armati. Ole Holsti, scienziato

politico americano, identifica tre tipi di guerre:

• Guerre del I tipo, conflitti dell’epoca moderna. Questo tipo di guerre riflettevano gli interessi

politici del monarca e coinvolgevano solo limitatamente la popolazione, questo conflitto vedeva

la partecipazione solo di forze armate professioniste e centralmente organizzate. Un altro

elemento rilevante è che questo tipo di esercito comportava dei costi di mantenimento elevati, il

monarca non si lanciava in guerra per qualsiasi cosa, ma solo se fosse stato necessario; la forza

era utilizzata al fine di fare arrendere l’avversario più che annientarlo, ed era diretta contro i

militari non i civili; si dovevano raggiungere gli obiettivi, il nemico si combatteva non si

annientava. Una volta vinte delle battaglie la guerra finiva, in modo da poter sfruttare quei

territori.

• Guerre del II tipo, a partire dalle guerre napoleoniche. Lo scontro non è più tra sovrani ma tra

nazioni, la guerra è animata dallo spirito nazionalista; si passa quindi dalle guerre di professionisti

alle guerre di leva di massa; l’annientamento inizia a diventare un elemento che entra a far parte

delle logiche di questo tipo di guerra, non interessa più solo il militare ma anche il civile; è uno

scontro tra popoli, quindi vanno attaccati. Il nemico deve essere annientato e ri-forgiato.

• Guerre del III tipo, dalla fine della seconda guerra mondiale. Questi elementi continuano anche

qui, si bombardano le città perché i civili sono un obiettivo, viene considerato legittimo

distruggere il civile. I combattenti non sono forze armate organizzate, ma gruppi di truppe regolari

e irregolari, cellule di vario tipo, entità che non rispondono ad un’autorità centrale. La guerra

diventa una guerra di terrore, in cui gli scontri frontali tra le parti sono limitati e i civili sono

direttamente coinvolti sia in quanto fornitori di sostegno, sia in base alla propria appartenenza

etnica o religiosa. Vi è l’eliminazione della distinzione civile/militare che autorizza un uso

indiscriminato della violenza contro i civili. È una guerra prevalentemente interna, non vi è una

crisi iniziale né dichiarazioni di guerra, sono di lunghissima durata. Si verifica in stati deboli,

dove vi sono più centri di potere, vi è la personalizzazione dello stato e una significativa

frammentazione interna. Questi cambiamenti non è un caso che si presentino in paesi che sono

deboli o addirittura falliti. L’elemento di una molteplice presenza di centri di potere porta

facilmente uno scontro tra questi centri di potere; la frammentazione interna è un altro elemento

rilevante, se all’interno di un paese sono presenti diverse minoranze finisce per essere un altro

ostacolo per raggiungere un accordo. Anche la personalizzazione dello stato in un uomo (tipo

Gheddafi) stato può portare ad un conflitto.

Conflitti armati e operazioni di pace

Quando analizziamo i conflitti armati contemporanei c’è un elemento che deve far riflettere, ovvero

uno stato particolarmente fragile ha maggiori probabilità di cadere in un conflitto armato. Lo stato in

questione è sottoposto a diverse pressioni sia dall’alto che dal basso che porterà alla sua implosione

e alla probabilità che finisca in un conflitto armato. Ole Holsty, scienziato politico americano, afferma

che la legittimità verticale porta al riconoscimento di un’autorità superiore a cui rispondere, quella

orizzontale porta al riconoscimento di ogni singolo come parigrado, ma questo non è presente in uno

stato fragile. Lo stato è sottoposto a pressioni anche dall’esterno, grazie alla globalizzazione,

chiunque ambisca ad occupare ruoli governativi deve avere consapevolezza di doversi occupare di

Luisiana Schiera – Alberto Presti

più problemi rispetto a prima della globalizzazione. I problemi transnazionali sono di difficile o

addirittura impossibile soluzione per ogni stato che agisce da solo, la legittimità di qualsiasi autorità

governativa verrà percepita come inferiore vista l’incapacità di rispondere ai nuovi problemi. Vi è

un’erosione delle capacità dello stato che non è in grado di controllare i vari processi. Un altro

elemento che diventa particolarmente rilevante è l’intervento di attori esterni e transnazionali; nei

conflitti di nuova generazione oltre ad avere la confusione sul campo dei vari attori e quindi

l’impossibilità di distinguere tra le parti in causa, abbiamo un altro elemento legato all’intervento di

attori esterni o di reti transnazionali: un attore rilevante è quello legato alle diaspore ovvero le

comunità di quel paese che vivono all’estero, che sono di enorme rilevanza; come ad esempio la

comunità armena o quella dell’Irlanda del nord. La capacità di far giungere risorse dall’esterno

diventa di cruciale importanza perché un conflitto armato possa continuare. Un altro attore è la

presenza di gruppi come mercenari. Non dimentichiamo gli attori ufficiali: perché gli aiuti

raggiungano la popolazione civile che si trova in difficoltà bisogna attraversare una rete di

combattenti, una parte regolarmente viene sottratta dai gruppi combattenti che pongono l’assedio, e

questo entra a far parte del circolo armato, perché aumenta le risorse anche degli altri combattenti.

Tutto questo viene ad essere amplificato nel momento in cui è possibile disporre di risorse che

possono essere trafficate illegalmente per alimentare il conflitto: quando si viene a creare un conflitto

armato si viene a creare un’economia di guerra, nessuno andrà a fare degli investimenti in quel paese

che probabilmente andranno persi, si avrà allo stesso tempo la distruzione delle infrastrutture e ciò

che era necessario per portare avanti il ciclo economico di produzione, e si ha la creazione di

un’economia parallela, come il mercato nero, che sottrae la possibilità degli stati di far ricorso alle

tasse, e questo finisce per indebolire ulteriormente gli stati. Storicamente la risorsa principale che

trafficata è la droga, anche il traffico di diamanti come in Sierra Leone, traffico di legno in particolar

modo che viene da aree africane, anche il petrolio, le sigarette, gli animali. Più recentemente a questi

traffici si è aggiunto il traffico degli esseri umani che sta sostituendo la droga come merce di scambio;

il traffico illegale finisce con l’incidere significativamente sulla durata dei conflitti armati perché

fornisce alle parti in causa risorse aggiuntive. Come intervenire nelle nuove guerre? Da questo punto

di vista è da molti anni che si discute su cosa fare viste le caratteristiche peculiari, e in particolar

modo si è cominciato a riflettere grazie ad un’analisi fatta da Lund, uno dei lavori più importanti.

Lund parla di spostare l’attenzione nella fase della prevenzione, riuscendo a prevedere i casi in cui la

caduta in conflitto armato è più probabile; non si possono usare solo approcci militari, ci sono dei

limiti di cui occorre avere consapevolezza; più utile risulta invece la minaccia esterna di usare la forza

nel caso in cui dovesse iniziare un conflitto armato. Più rilevante sono gli approcci non militari legati

allo sviluppo e alla governante: particolarmente importanti sono le misure coercitive diplomatiche e

le misure diplomatiche non coercitive; legati allo sviluppo e governane gli approcci tendono a

promuovere lo sviluppo sociale ed economico, tendono a rafforzare le istituzioni e

contemporaneamente sostengono i diritti umani e standard di democrazia, e la promozione pacifica

della risoluzione del conflitto. Le misure diplomatiche coercitive possono andare dalle sanzioni

diplomatiche, sanzioni economiche, sanzioni morali; per quanto riguarda quelle non coercitive,

ritroviamo la propaganda e le negoziazioni bilaterali. Per quanto riguarda gli approcci legati allo

sviluppo e alla governane, vi è gli investimenti privati, i commerci, gli aiuti di sviluppo, l’integrazione

economica, i programmi di cooperazioni bilaterali; per quanto riguarda al supporto dei diritti umani

abbiamo la condizionalità politica che può essere positiva, sostenendo che se lo stato continua a

svolgere politiche da noi suggerite allora riceverà ulteriori aiuti, e negativa, minacciando lo stato che

se non svolgerà le politiche da noi suggerite allora gli aiuti saranno interrotti; poi vi sono il

Luisiana Schiera – Alberto Presti

monitoraggio delle elezioni, e le azioni legali nel campo dei diritti umani. Per quanto riguarda le

strutture di governo per creare la pacifica risoluzione dei conflitti, vi è la divisone del potere, il

federalismo ecc.

Un altro elemento rilevante riguarda le operazioni di pace delle nazioni unite, che sono un’attività

recente, sviluppatesi progressivamente nel tempo e che hanno avuto una crescita esponenziale con la

fine della Guerra Fredda. Oliver Richmond distingue tra 3 generazioni di operazioni di pace:

1. La prima generazione è legata alle primissime operazioni che vanno fino alla fine della Guerra

Fredda; queste operazioni erano monodimensionali, l’unico elemento rilevante era quello militare

e si basavano su una diplomazia stato-centrica, se anche ci troviamo con un governo contestato,

questo governo prende comunque tutte le decisioni e deve dare il consenso per le operazioni di

pace; l’operazione di pace non poteva usare la forza a meno che non fosse stato necessario per

l’auto difesa del personale dispiegato nell’operazione; il contributo volontario doveva essere dato

da contingenti da parte di paesi piccoli e neutrali; necessaria era l’imparzialità, agire in maniera

imparziale; e infine vi era il controllo dell’operazione da parte del segretario generale dell’ONU.

Le operazioni di pace tradizionali furono lanciate nel 1956 per risolvere la crisi di Suez; il primo

periodo di operazioni si chiuse nel 1989.

2. La seconda generazione nasce con la fine della Guerra Fredda, nel momento in cui ci si rende

conto che l’ONU può fare molto di più; nasce in un momento di euforia riguardo le possibilità di

agire, nasce con la consapevolezza che le operazioni della prima generazione non erano

propriamente efficaci. È una generazione di operazioni che ha come obiettivo risolvere le cause

profonde di conflitto, e non basta il solo intervento militare, ma occorre che sia

multidimensionale, multilaterale, multinazionale e multiculturale. Le operazioni sono

mulitlaterali perché al suo interno vedono il coinvolgimento di diversi attori come le ONG o le

organizzazioni regionali, è un passaggio importante, molte delle operazioni contemporanee sono

condotte da organizzazioni regionali, tipo NATO e UE, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Sono

multidimensionali perché le dimensioni che compongono le operazioni sono molteplici, dal

dispiegamento preventivo, dal monitoraggio degli accordi di cessate il fuoco, dal supporto delle

elezioni, dall’aiuto nel ritorno dei rifugiati e sfollati, allo sminamento, fino all’arresto dei

criminali internazionali; questa gamma è molto più ampia. È multinazionale e multiculturale

poiché diventa molto rilevante il fatto che a partecipare alle operazioni sia personale proveniente

da molti stati e rappresentate di molte culture diverse, non deve essere presente un’idea di tipo

imperiale, un prevalere netto di una potenza; questo ha portato nei primi anni al dispiegamento di

un numero particolarmente elevato di operazioni di pace.

3. La terza generazione è una generazione che finisce con l’essere più ambiziosa, perché ci si rende

conto che data le complessità dei conflitti contemporanei, non ci si può limitare ad agire quando

tutto è finito, l’idea era quella di autorizzare interventi che potessero andare ad imporsi tra le parti

ancora combattenti per arrestare il conflitto. L’idea era che dovesse essere presente la volontà

politica di combattere al costo di azioni rischiose e costose, le capacità militari devono essere

imponenti, e che questi interventi non richiedono più il consenso da parte dello stato nel quale si

sta intervenendo, e non esiste più un’imparzialità. Queste operazioni investono tutta l’autorità del

consiglio di sicurezza perché sono autorizzate dal capitolo 7 del trattato delle Nazioni Unite; si

passa dal peace keeping al peace enforcement, dal mantenimento della pace all’imposizione della

pace.

Luisiana Schiera – Alberto Presti

Le operazioni di pace sono finanziate dagli Usa, che sono più direttamente coinvolti nel

finanziamento, seguito a grande distanza da Giappone, Francia, Germania, Gran Bretagna, Cina,

Italia, Federazione Russa, Canada e Spagna. Quando andiamo a vedere chi contribuisce militarmente

attraverso le truppe, gli attori principali sono completamente diversi, infatti ritroviamo Bangladesh,

Pakistan, Etiopia, India, Ruanda, Nepal, Ghana, Nigeria, Marocco, Tanzania.

La globalizzazione

L’opinione pubblica è diventata sempre meno limitata dai confini nazionali e invece sempre più

spesso si ha la discussione a livello mondiale dei problemi che si sentono più vicini alle opinioni

pubbliche, che porta quindi all’espansione dello spazio pubblico globale. Particolarmente importante

è stata la diffusione di principi sociali legati ai diritti umani e alla possibilità che la comunità

internazionale (comunità nella misura in cui gli scambi tra gli stati sono sempre crescenti, il singolo

stato non può non tener conto di quello che stanno facendo gli altri) si assuma la responsabilità di

proteggere le vittime. L’altra questione strettamente legata ai processi di globalizzazione è quella che

sono state create con il passare del tempo delle istituzioni multilaterali di portata globale, questo ha

portato dei cambiamenti nelle dinamiche del sistema politico internazionale; sono state create delle

sedi dove gli stati possono regolare le controversie senza bisogno dell’uso della forza. Un altro

cambiamento è legato ad un altro fenomeno, ovvero il crescere di attori non statali e che sono in grado

di sfidare sia i governi che le organizzazioni internazionali: sono rilevanti nella misura in cui

intraprendono azioni di portata globale. Le organizzazioni internazionali sono sempre più spesso la

sede in cui vengono prodotte politiche di portata globale. Quando parliamo di globalizzazione

intendiamo quel processo o insiemi di processi di trasformazione multidimensionale di lungo periodo

di portata mondiale; la capacità di trasformazione è essenziale. A livello politico ha portato

all’emergere di istituzioni di portata planetaria e la ridefinizione dell’organizzazione sociale. Non è

un processo lineare, è considerato un processo a tratti, Modelski sottolinea che l’inizio della

globalizzazione dal punto di vista politico si colloca intorno all’anno 1000 ed è legato al fatto che gli

stati incominciano a mettersi in contatto tra di loro, e l’esperienza della via della seta era un percorso

essenziale per il contatto fra stati lontani tra di loro; anche i progetti di conquista mondiale e le imprese

di scoperta al di là degli oceani sono momenti particolarmente importanti per la globalizzazione del

sistema politico internazionale. Questa stessa periodizzazione si può rintracciare in altri studiosi che

si sono concentrati sull’analisi della globalizzazione come processo, David Held e Anthony McGrew.

Secondo Held, la globalizzazione può essere concepita come un processo o insieme di processi che

incarnano la trasformazione nello spazio organizzativo delle relazioni sociali e transazioni, espresse

in una rete di attività e flussi transcontinentali o interregionali, interazioni di potere. La

globalizzazione è caratterizzata da quattro tipi di cambiamenti:

1. Il primo cambiamento riguarda l’allargamento delle attività sociali, politiche ed economiche

attraverso le frontiere, le regioni e i continenti

2. Il secondo cambiamento è marcato dall’intensificazione, o dalla crescente grandezza

dell’interconnessione dei flussi di commercio, investimento, finanza, migrazione, cultura ecc…

3. Il terzo cambiamento può essere collegato all’accelerazione delle interazioni e dei processi

globali, come lo sviluppo del sistema, a livello mondiale, dei trasporti e delle comunicazioni, e

che ha aumentato la velocità di diffusione delle idee, delle merci, delle informazioni, dei capitali

e delle persone. È nel momento in cui si ha maggiore capacità di ridurre il tempo necessario per

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gli spostamenti e per la comunicazione che abbiamo delle interazioni significative, quindi delle

opportunità non dei vincoli.

4. In riferimento al quarto cambiamento vi è la crescita dell’estensione, dell’intensità e della velocità

delle interazioni globali che possono essere associate al loro profondo impatto come gli effetti

degli eventi lontani possono essere molto significativi altrove e gli specifici sviluppi locali

possono essere considerati come conseguenze globali.

In questo senso, i confini tra gli affari domestici e quelli globali diventano sempre più fluidi. La

globalizzazione, in breve, può essere pensata come l’allargamento, l’intensificazione, l’accelerare e

la crescita dell’impatto di interconnessione mondiale. Secondo la letteratura della globalizzazione

esistono diverse periodizzazioni della globalizzazione come quella di McGrew che afferma che la

globalizzazione è un processo storico secolare attraverso il quale le civiltà umane debbano formare

un unico sistema mondiale. Egli quindi identifica tre ondate di globalizzazione:

1. Nella prima ondata (1450 - 1850), ovvero l’età delle scoperte, la globalizzazione fu decisamente

modellata dalle espansioni e dalle conquiste europee.

2. La seconda ondata (1850 – 1945) evince una maggiore espansione nella diffusione e nella

radicalizzazione degli imperi europei.

3. La terza ondata (1960 – oggi) porta alla globalizzazione contemporanea che crea dei cambiamenti

all’ordine vestfaliano, identificandolo come post-vestfaliano.

McGrew quindi suddivide l’ordine post-vestfaliano in territorialità, dove i territori e i confini

rimangono tutt’ora politicamente significanti; nonostante ciò, sta nascendo una nuova geografia delle

organizzazioni politiche e del potere politico che trascende dai territori e dai confini. Sovranità, che

viene sempre più identificata come l’esercizio condiviso del potere pubblico e di autorità, tra le

autorità nazionali, regionali e globali. Autonomia, sia intesa come scambio di politiche pubbliche

efficaci a soddisfare le richieste dei propri cittadini, sia in relazione al terrorismo transnazionale.

Uno dei passaggi importanti della globalizzazione è stato il passaggio da occidente a oriente che ha

portato a una creazione di stati che rappresentano una sfida rispetto all’ordine internazionale come

Cina e India. La crisi finanziaria partita negli Stati Uniti nel 2007 e poi propagatasi in Europa ha

messo alla prova la tenuta dell’organizzazione del sistema politico internazionale istituita dagli Stati

Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. In particolar modo a essere messo in discussione è stato lì

autorità di quell’ordine e la legittimità delle sue istituzioni, ritenute non più rappresentative e ormai

incapaci di fornire risposte adeguate. A fronte di un indebolimento della coalizione occidentale, la

crisi ha creato le condizioni perché si manifestassero una latente insoddisfazione nei confronti del

sistema e richieste di cambiamento. Nonostante le stime sulla crescita dei cosiddetti BRICS (Brasile,

Russia, India, Cina, Sudafrica) - paesi che in qualche modo si opponevano al fatto che

l’organizzazione del sistema politico internazionale contemporaneo fosse dominato dagli Usa e i

paesi europei sovra-rappresentati - siano oggi considerate sopravvalutate e si parli di nuove potenze

emergenti, la capacità di questi stati di reclamare una ridefinizione dei ruoli nell’organizzazione del

sistema e di aggregare consenso intorno alle proprie richieste suggerisce alcune riflessioni sulla

capacità di adattamento dell’ordine multilaterale occidentale.