Da la Cjasaline alla tavola #1

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Da La Cjasalìne alla tavola

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La prima raccolta di ricette ispirate ai prodotti de La Cjasalìne

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Da La Cjasalìne alla tavola

Raccolta no. 1 dei post apparsi su Ma che ti sei mangiato e dedicati a La Cjasalìne.

Marzo 2013

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Un’avventura si comincia con tanto vento in poppa, un mare di energia, tanto olio di gomito per

affrontare i giorni e le burocrazie della vita moderna, e la sana voglia di far da sé che sta alla base di

tanti piccoli gesti.

In mezzo ci si mettono anche gli amici. Assistono, esortano, incitano. Loro ci sono e lo vogliono far

sapere.

Così quando La Cjasalìne ha aperto i battenti a Settembre 2012 una blogger si mise a scrivere.

Mentre a San Daniele del Friuli Francesco apriva i battenti e Laura soprassedeva al varo de La

Cjasalìne, un’amica da Roma seguiva i giorni incalzanti che davano un nuovo volto alle loro giornate.

Così comincio la serie di post che sono apparsi e continueranno ad apparire su Ma che ti sei mangiato

(http://machetiseimangiato).

Il nome venne spontaneamente. In un blog che tende ad essere essenzialmente un foodblog, i prodotti de

La Cjasalìne non avevano altro destino che finire in cucina e subito dopo sulla tavola.

Ecco allora che Da La Cjasalìne alla tavola partì.

Mi armai di saperi, di voglia di imparare, di certezze e dubbi. Scambia messaggi ed email per farmi

ricordare quali ingredienti dentro La Cjasalìne c’erano. Mi divertii a partire da una ricetta o dal

semplice pensiero “è ora di far qualcosa”. Semi, cereali e affini, farine, miele: già c’erano nella mia

credenza ed il loro fascino già lo esercitavano sulla mia tavola. Non mi rimaneva che trasmetterlo.

Pian piano i post de Da La Cjasalìne alla tavola divennero più facili. Si colmarono di ricordi ed

atmosfere quasi a mimare un incontro che si evolve prima in conoscenza e poi in amicizia.

Raggiunta la prima soglia critica, i dieci articoli per Da La Cjasalìne alla tavola mi prese il ghiribizzo di

traslare su carta quanto era apparso sul web. Spesso in cucina io finisco con un pezzo di carta in mano.

Nuovo, desunto, unto, schiribacciato.

Non mi sono allontanata molto dai fogli volanti che la mamma custodisce ancora in una cartella di

cartone verde. I più cari me li conservo, altri li butto, facendo affidamento sul blog.

Sarà la voglia di lasciare scritto qualcosa, di lasciare un segno tangibile dell’amicizia che mi lega a

Laura e Francesco. Sarà l’egoismo insito in ogni persona, che mi porta a fare questo. Sì questo.

Una raccolta dei primi post, articoli, apparti su Ma che ti sei mangiato dal titolo Da La Cjasalìne alla

tavola. Ho raccolto le prime dieci ricette che sono finite online sotto lo stendardo Da La Cjasalìne alla

tavola. Gli articoli apparsi in realtà sono undici, il primo l’ho chiamato qui il Preambolo.

Per il resto, troverai le ricette anche nel blog.

Il testo è stato in qualche modo adattato alla versione cartacea per starti accanto durante i momenti di

lettura piacevole ed istruttiva che vorrai dedicargli.

Buona lettura,

Rossella

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Da La Cjasalìne alla tavola ....................................................................................................................................... 1

Preambolo tra barattoli e conservazione ......................................................................................................................... 6

Formadi tal cit? .................................................................................................................................................... 9

Il tempo dei fagioli.................................................................................................................................................. 10

Insalata di fagioli con salame e spezie ....................................................................................................... 12

La forza delle lenticchie ............................................................................................................................................ 13

Insalata di lenticchie e piselli secchi ............................................................................................................ 15

Quinoa time .......................................................................................................................................................... 16

Insalata di quinoa e foglie di carota ........................................................................................................... 17

Quinoa alle foglie di ravanello ..................................................................................................................... 19

L’incantesimo dei biscotti .......................................................................................................................................... 20

Di polenta, miele e vino ............................................................................................................................................ 23

Torta di polenta, miele e vino ....................................................................................................................... 24

Anacardi, miele e Natale ............................................................................................................................................ 25

Anacardi speziati ......................................................................................................................................... 26

Nocciole natalizie ......................................................................................................................................... 27

Torta di polenta e grano saraceno allo yoghurt............................................................................................................... 28

Torta di polenta e grano saraceno allo yoghurt ........................................................................................... 29

Pete .................................................................................................................................................................. 30

Pasta di farro e pitina ............................................................................................................................................. 32

Pasta al farro con pitina e radicchio rosso ................................................................................................... 34

Cioccolata e miele ................................................................................................................................................... 35

Cioccolata ricca invernale ............................................................................................................................. 36

Albicocche, cioccolata e semi vari ................................................................................................................................ 37

Albicocche al cioccolato ................................................................................................................................ 39

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Preambolo tra barattoli e conservazione

L’amicizia è fatta di tempo. Incontri, chiacchiere, timori sussurrati, silenzi, vicinanze lontane.

Nel mio blog più e più volte ho scritto di un’amica di una vita. La prima a definirla così credo sia stata

mia madre. Dopo averla invitata a casa nel 1986 l’ha vista crescere tra me e mia sorella.

Io l’ho vista arrivare, svoltare l’angolo blu di casa e comparire.

Capelli quasi ricci, intimorita al pari di me. Non la conoscevo. Ci eravamo intraviste solo qualche volta

nelle domeniche pomeriggio in cui mia nonna mi portava fino dalla bisnonna. Era l’epoca in cui uno o

due chilometri in bicicletta costituivano una gita fuori porta.

Da lì ne è passato di tempo, di pagine di vita voltate e riposte nei ricordi. Momenti spensierati e pesanti.

Sempre e solo in sottofondo l’ansia di vivere ha animato incontri, telefonate, email, viaggi.

Oggi l’amica di una vita, Laura, tenta assieme a Francesco una nuova avventura. Una di quelle piena di

slanci e timori. Una di quelle che forse in un clima morale ed economico come quello attuale sembra ben

più di un azzardo. Eppure alla prima notizia, data quasi timidamente mesi fa, sono rimasta a bocca

aperta e piena di felicità per tutto il coraggio che han covato dentro questa loro novità.

Apre La Cjasalìne a San Daniele del Friuli in via Garibaldi 12.

Francesco Folla e Laura Di Bidino si dedicano alla vendita di prodotti alla spina (alimenti e detergenti),

a Km zero, biologici certificati, di artigianato. L’attenzione è a ciò che offre il territorio e che ha a vedere

con la casa, quella dolce e da coccolare, perché come si diceva in friulano “mior paron di une cjasute che

servidor di cjastiel” (meglio padrone di una casetta, che servitore di un castello). E la casa, grande o

piccina che sia, merita cure e attenzione.

Questo blog supporta La Cjasalìne sfornando ricette con prodotti che potete trovare da Laura e

Francesco. Io ci metterò quel che so e che sento.

Per iniziare Da La Cjasalìne alla tavola ho pensato al tempo.

L’amicizia si crea nel tempo, un progetto come la La Cjasalìne richiede tempo, la vita è intrisa di quel

tempo che a volte fugge via.

Crescendo, direbbe mia madre (e forse anche la tua), si impara ad amare questo tempo sebbene a volte

scappa, scarseggia e lascia il segno. E il segno lo può lasciare anche banalmente sugli alimenti alla spina

che si possono trovare da La Cjasalìne.

E allora come conservare gli ingredienti alla spina?

Riso, legumi, spezie, farine: una volta comprati che farne?

Ovviamente mangiarli, usarli, ma se come normalmente accade non tutto si mangia subito la migliore

soluzione è passare dal sacchetto di plastica al contenitore di vetro.

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Spesso in casa giungono anche altri prodotti alimentari

dentro dei graziosi o banali contenitori in vetro.

Ammetto che ho una Cavia che ama il caffè liofilizzato.

Come ogni buona Cavia di casa, assiste ai miei

esperimenti culinari, da un po’ di mesi porta una fede al

dito, e contribuisce, come si suol dire, al bilancio

famigliare. Assiste questa foodblogger donando pareri

culinari ed esistenziali sul da fare in cucina e nei dintorni

della vita. Il suo nome, Cavia, è quasi un riconoscimento,

più morale che altro, a questo suo saper stare acconto a

chi scrive.

Lascio fare alla Cavia. Lui ed il suo caffè liofilizzato è

concesso l’ingresso nella cucina. Lo faccio perché mi da,

la Cavia, tante altre soddisfazioni. Però mi pareva uno

spreco sovraumano sprecare tutto quel vetro e gettarlo

nell’immondizia, anche se differenziata.

Se un tempo la mamma aveva fallito nell’insegnarmi

all’essere sistematica ed ordinata, tutto quel vetro, il

sorriso della Cavia e la voglia ballerina di essere donnina

di casa, qualcosa di buono hanno combinato.

Così prima lenticchie rosse, poi le germe di grano e via via lo zucchero ed il riso hanno riempito quei

barattoli ben bene puliti e asciutti.

Da parte avevo anche tenuto l’accattivante barattolo del formadi dal cìt dove finirono i semi dell’alfa

alfa. In un altro contenitore risalente alla mia visita ad una distilleria finirono i semi di girasole. Così si

conservano ricordi e buoni prodotti.

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Ma si sa, io donna ogni tanto non resisto ad acquistare qualcosa di nuovo. Così il grande contenitore di

vetro, per i suoi 2 euro, era irresistibile. Insomma, quell’irresistibile che nasce da ricordi e sogni di una

casa ordinata ed invitante. Un irresistibile per una donna sognante.

Una donna sognante come quella che leggendo online Delicious Days e ammirando la cucina di

un’amica non ha potuto che ordinare anche lei quegli efficienti, garbati e ottimizza spazio di contenitori

per le sue “poche” spezie.

Per meglio conservare legumi ed altro, ho riposto tutti questi barattoli di variegate forme dentro le

credenze, il più possibili al riparo dalla luce.

A volte però, lo ammetto, che mi stufo o mi dimentico dei quegli ultimi grammi di farro. Dopo un po’

torna la voglia, ma sorge il dubbio se siano ancora buono. Ovviamente se non passati anni mi bacchetto

da sola e la decisione di buttarli è abbastanza ovvia. Altrimenti mi lascio guidare dallo sguardo.

Così è accaduto dal ritorno dalle ferie che mi son ritrovata col farro che aveva cominciato a diventare

potenziale obiettivo delle mal sopportate farfalle. Sì, quelle che si vedono girare ove c’è della farina

vecchia. E’ bastato vedere il barattolo per capire che era tempo di svuotarlo, pulirlo e di fare la scorta di

farro.

Non si finisce mai di sbagliare, imparare e comprare farro.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 5 settembre 2012

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Formadi tal cit?

Poco fa ho accenato ad un barattolo in vetro di Formadi tal cit.

Sì, hai letto bene. E’ il formadi del cit o formài dal cit. Parlando in italiano si tratta del Formaggio nel

bidone o del vaso del latte.

Il Formadi tal cìt nasce per recuperare le forme non riuscite perché non ben amalgamate. Cìt qui poi non

è il cìt del nonno, di cui racconto sotto, ma un vaso in pietra. E’ originario della Val Tramontina in

provincia di Pordenone.

E’ una sorta di formaggio latteria fatto stagionare per 6-7 mesi. Ha un sapore tra il piccante ed il pepato.

Una volta ricevuto (o comprato) va mangiato in tempi brevi. Si dice che sia per pochi, anche perché vien

prodotto da poco. L’unico formadi tal cìt che ho avuto l’onore di provare è di Tosoni (Spilimbergo), però

la storia del suo recupero è legata anche al caseificio Tre Valli di Travesio. Quest’ ultimo ha vinto la

medaglia di bronzo nella categoria Formaggi a pasta molle aromatizzati alla fiera di Verona del 2005.

Per mangiarlo consiglio di sbriciolarlo sopra della pasta calda o del farro, mescolare e scoprire la bontà

della cremina che ne esce. Dopotutto nasce da formaggio sbriciolato, coperto con latte, panna ed aromi e

questi quell’anima di panna rimane.

Il cìt dei miei ricordi? Il cìt è, meglio era, anche il bidoncino di metallo dove veniva posto il latte per

essere portato nella latteria del paese. Ricordo nei tardi anni Settanta e primi Ottanta il nonno la sera

mettersi in sella alla sua bicicletta pluridecennale con uno o due cìt posti sul manubrio.

Non ho mai avuto l’onore di unirmi al gruppo di gente grande che si ritrovava in latteria la sera. La

latteria era un luogo semplice, su un incrocio, che quando fu demolito mi mancò assai. Tutti i grandi si

recavano là nel tardo pomeriggio mentre le luci del tramonto si trasferivano sulle case. Uomini vestiti di

blu, il blu degli abiti da lavoro, e nonne corpulente abilmente guidavano la bici pesante per il latte.

Ricordi.

Per quanto riguarda il nome, il Formadi tal cìt, per me è tal cìt perchè sta nel cìt e non del cìt, perchè non

è il cìt a fare il formaggio. Ogni interpretazione però è accettata, non sono una fondamentalista.

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Il tempo dei fagioli

Sarà che la soglia dei trentanni genera cambiamenti.

Sarà che poi oltre i 35 anni si diventa saggi e

morigerati. Di sicuro c’è il fatto che mai e poi mai si

sarei immaginata nei ruggenti anni universitari a trarre

piacere da ciò. Insomma, cucinare, aspettare, godermi

il tempo e la vita non c’erano proprio nel mio primo

DNA. Pure i gusti sono cambiati.

Niente rampantismo galoppante, niente rivendicazioni

sessuali, niente lotte per l’eguaglianza, nessuna

questione di principio. Qui si tratta di temi di cui pochi

hanno il coraggio di scrivere.

Parliamo liberamente dei fagioli.

Dopo anni di ribrezzo verso i fagioli, di disprezzo quasi

del loro essere naturali. Dopo giorni di “non ho il

tempo di cuocerli“, “non ho voglia di comprarli in

scatola“, “non sono mica Bud Spencer“. Oggi sono uno

dei piatti che più associo alle domeniche vissute fino in

fondo.

Per me una domenica è bella se so darmi il tempo di

fare ciò che mi piace. Nei nostri 35mq quel “mi piace”

diviene leggere, far lievitare il pane e cuocere i legumi

messi in ammollo il sabato. Capisco che possa essere un genere di piacere propriamente non codificato e

diffuso. Eppure„

Il trucco sa nel trarre profitto, se non proprio piacere, dal sapersi organizzare senza fatica la vita.

Sì, perché se io metto in ammollo i fagioli il sabato di ritorno dal mercato, se prima di andare a dormire il

sabato cambio l’acqua di ammollo, la domenica in un momento qualsiasi, di noia o di delirio, li posso

mettere a cuocere in acqua non salata. Basta poco!

Durante l’ammollo succede che l’acido fittico si decide e libera i minerali quali calcio, ferro e magnesio.

In tal modo noi siamo in grado di digerire questi, che sono detti minerali chelati, durante la digestione. E

tutto perché l’acido fittico si scinde in fitina e fosfato. Chi l’avrebbe mai detto!

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Dopo la fase di ammollo, metto i fagioli a

cuocere per un’oretta. Mi concedo una

pulizia di casa, una lettura o qualsiasi altro

momento casalingo di domenicale riposo.

Ad un certo punto ripasso in cucina a

togliere la schiuma bianca che fanno in

cottura. Controllo come stanno e ritorno

alle mie pigre faccende. Basta

incredibilmente poco!

Quando mi pare siano quasi cotti, salo

l’acqua. Dopo alcuni minuti li scolo.

Li faccio raffreddare passandoli sotto

l’acqua fredda. Uso uno scolapasta dentro

una ciotola così li tengo in acqua fredda

alcuni, pochi minuti e senso se si stanno

raffredando usando le mani. Basta poco!

Una volta raffreddati, quando son sicura

che la cottura non continui anche fuori dalla

pentola, li faccio sgocciolare casomai sul

davanzale illuminato dal sole. Ancora una

volta dico che: Basta poco!

Freddi ed asciutti li metto in sacchetti di

plastica che chiudo. E via verso il freezer.

Poi quel giorni in cui non so cosa cucinare

apro il freezer e li trovo. Basta poco!

Attenzione a chi, come un marito, ad un certo punto potrebbe vedervi sgocciolare i fagioli e dirvi:

“Belli, si mangiano oggi?”

Così almeno è successo a me mentre preparavo questi fagioli, che mi erano stati indicati come ottimi con

la carne.

Ogni regione italiana ha i suoi fagioli. Limitando gli esempi al Friuli, ci sono i fagioli borlotti di Pesariis,

dell’omonimo paese nel comune di Prato Carnico nell’alta Val Pesarina. Accanto a questi ci sono i

fagioli autoctoni detti “borlotti Carnia”. Ma non meno invitanti sono quei piccolo fagioli rotondi e verdi-

gialli chiamati fagioli Cesarins. Di più “antica” origine sono Fasui dal Santisim o Da l’Aquile dove è la

forma della macchia che circonda l’ilo a dare il nome al fagiolo.

Non finisce qui. Quando l’ilo si fa scuro e fuori regioni è chiamato semplicemente fagiolo dell’occhio, in

Friuli si parla di fasui dal voglut. Mentre il fagiolo Laurons è un borlotto dalle piccole dimensioni. Ed il

fagiolo Militons, originario di Forni di Sopra, può offrire buoni raccolti.

Ah, non dimentichiamo il “Belli, si mangiano oggi?”

Perché è qui che entra il gioco la donnina (o l’uomo) di casa.

Ecco la ricetta che da tale espressione è nata.

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Insalata di fagioli con salame e spezie

Ingredienti per un piatto unico per 2 persone

3-4 manciate fagioli già lessati

5 rondelle di porro

1/2 cucchiaino di cumino in polvere

1 cucchiaino di zatar

1 pomodori di media grandezza (uno cotto

ed uno no)

3 fette di salame piccante (io avevo del

chorizo)

2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva

Parmigiano Reggiano

Parto col presentarti gli ingredienti diversi

dal solito.

Il Chorizo è un salamino piccante tipico

della Spagna. Mentre lo zatar è un misto di

spezie. Timo, origano, maggiorana,

santoreggia e coriandolo: queste sono le

spezie che ritrovo dentro il mio zatar. Poi

ogni Paese dell’area mediterranea riesce a

personalizzare, o adattare, il suo zatar.

Per la ricetta, come il solito ho cominciato

pulendo il porro e tagliandone 5 rondelle.

Poi è stata la volta dei pomodori. Puliti e

tagliati a fettine.

Infine, ho tagliato tre fette del chorizo che

mi ritrovavo in frigorifero grazie ad un recente viaggio di lavoro in Spagna. Del salame nostrano va

benissimo in suo sostituzione. Le fette le ho poi tagliate a dadini.

In una padella ho versato circa 2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva. Ho accesso il fuoco che ho

mantenuto ad un livello medio.

All’olio ho aggiunto il mezzo cucchiaino di cumino in polvere e un cucchiaino di zatar. Ovviamente anche

il mix di spezie può essere personalizzato pur non esagerando nella sua quantità.

Ho mescolato il tutto.

Poi ho aggiunto prima il porro e poi uno dei pomodori. Nonché ho versato anche i dadini di salame.

Ho fatto cuocere a fiamma media per 5 minuti circa (il tempo di preparare una sorta di macedonia a base

di pesca, succo di limone e zucchero di canna. Così, come contorno al pranzo frugale. La frutta fa bene).

Ho spenso la fiamma.

In una ciotola ho messo i fagioli lessati, raffreddati ed asciutti.

Ho unito il pomodoro non cotto e il rapido sugo.

Et voilà. Una mescolata e del Parmigiano Reggiano grattugiato ed il gioco è fatto.

Basta poco a rendere la tavola diversa dal solito. Un po’ di curiosità del marito, un po’ di pigrizia della

moglie, una pentola e perché no, un salto a La Cjasalìne. What else?

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 12 settembre 2012

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La forza delle lenticchie

Se la rondine non fa primavera, le

lenticchie non fanno inverno.

Per la serie Da La Cjasalìne alla

tavola non perderò tempo a dirti che

le lenticchie fan parte della famiglia

delle Papilionacee. Non starò qui a

delineare un albero genealogico che

risale fino al 7000 a.C.. Voglio solo

tessere le lodi del variegato mondo

delle lenticchie.

In un paese della Mancia,

di cui non voglio fare il nome,

viveva or non è molto uno di quei cavalieri

che tengono la lancia nella restrelliera,

un vecchio scudo, un ossuto ronzino

e il levriero da caccia.

Tre quarti della sua rendita se ne andavano

in

„lenticchie il venerdì

e qualche piccioncino di rinforzo alla

domenica.

Decantate anche da de Cervantes nel

suo Don Chisciotte.

Rosse, verdi, bionde, marrone.

La lenticchia rossa detta anche

egiziana, spesso la si trova

decorticata, ossia senza “buccia”. Si

cuoce così velocemente che è difficile

farle mantenere il carattere sodo.

Facilmente si spappola e viene per

questo usata nelle zuppe. Le ho provate in zuppa con i cardi e il cavolo nero.

Le lenticchie verdi spuntano un po’ ovunque, da Puy in Alta Loira fino al Salento. Mentre le bionde sono

le più grosse.

Le più comuni, forse, sono quelli marroni. Qui in Lazio rinomata è la lenticchia di Onano e quasi magica

appare la lenticchia di Castelluccio di Norcia, un posto da visitare.

A parte il colore, puntando alla sostanza: le lenticchie fanno bene.

Molto bene. Io le adoro. Lessi mesi, quasi anni fa, che contenevano acido folico. I comuni mortali forse

non lo conosco sebbene quest’acido combatte la loro stanchezza. Viene spesso consigliato alle donne

incinta di prendere integratori come la folina. Io con la folina ci ho litigato per altre ragioni. Ogni tanto

capitavano quasi a sorpresa dei giorni in cui non ce la facevo proprio ad alzarmi. I “pazienza”,

“abituati” non mi bastavano. Era stanchezza totalizzante e solo a mezzogiorno riuscivo a mettere un

piede per terra.

Lessi così lenticchie ed acido folico assieme e mi buttai nel variegato mondo delle insalate di lenticchie.

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E sì perché la lenticchia non finisce solo in minestra. Avendo Castelluccio di Norcia vicino (anche se non

credo che tutte le lenticchie vengano da lì) mi sono rifornita di lenticchie che non richiedevano l’ammollo.

Ho imparato a lessarle in acqua non abbondante, sennò il loro potere nutritivo si affievolisce. Dopo 20-

30 minuti le scolo. Poi le raffreddo sotto l’acqua fredda e sono così diventate un regolare ingrediente dei

pranzi del fine settimana.

Hanno funzionato? Sì. La stanchezza c’è ancora, meno frequente e meno forte. Però sapessi che gioia

scoprire che una lenticchia può eliminare una pastiglia al giorno. I risultati sono stabili, il miglioramento

ha superato la soglia dell’anno. Non credo però che il mio sia un caso accertato clinicamente (ihihhih),

ma tenevo ad avvicinarti al mondo infaticabile degli alimenti ricchi di acido folico. Accanto alle

lenticchie trovi anche spinaci, cavolo, broccoli, piselli secchi (come quelli che appaiono nella ricetta

seguente), asparagi, arance, fragole. Tutti ricchi di acido folico.

Per chi invece non vuole fermarsi all’acido folico le lenticchie contengono per il 25% proteine, il

53% carboidrati e per il 2% olii vegetali. Fosforo, ferro e vitamine del gruppo B non si sprecano. Oltre

che sulla mia stanchezza agiscono positivamente nel caso di arteriosclerosi, bisogno di fibre, livelli

elevati del colesterolo, dato che ne sono prive. Eppure hanno proprietà antiossidanti, che aiutano a

fronteggiare al meglio l’inquinamento. Hanno anche tutto il necessario per agire positivamente sul

sistema nervoso e sulle capacità di memorizzazione.

Cosa ho detto? Lenticchie!

Ora bando alle chiacchiere e passiamo alla ricetta.

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Insalata di lenticchie e piselli secchi

Ingredienti ad occhio come da buona e sana

ricetta casalinga per un piatto unico

4 cucchiai abbondanti di lenticchie di

Castelluccio di Norcia

2 cucchiai abbondanti di piselli secchi

4 pomodori

1 friggitello (o un peperone verde)

la buccia di mezzo limone biologico

Aceto aromatizzato allo zafferano

Olio extra vergine d’oliva

Sale

Pepe nero macinato sul momento

Timo secco

Ho cotto le lenticchie (circa 4 cucchiai) per

25 minuti circa assieme a 2 cucchiai

abbondanti di piselli secchi. Per i tempi di

cottura regolati sul tipo di lenticchie a cui

hai accesso.

La ricetta qui è per lenticchie marroni o

verdi. Non è valida per quelle rosse,

destinate ad altri usi.

Una volta cotte le ho scolate e le ho passate

sotto l’acqua corrente per raffreddarle e

bloccarne la cottura.

Le ho lasciate scolare e raffreddare.

Poi ho predisposto l’insalata.

Ho tagliato a rondelle i pomodori e a dadini il friggitello.

Ho mescolato lenticchie, pomodori e friggitello. Ho grattugiato sopra la buccia del limone.

Infine, ho condito con dell’aceto aromatizzato allo zafferano ricordo della pedalata lungo il Danubio.

Infatti, nella Wachau in Austria, quasi alle porte di Vienna, si coltivano i crocus da cui si estrae questa

spezia. Tu puoi usare l’aceto di vino e aggiungere una punta di cucchiaino di zafferano, senza esagerare.

Poi olio extra vergine d’oliva, sale, pepe nero macinato sul momento e poco timo secco.

Et voilà che lenticchie si colorano di tarda estate.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 21 settembre 2012

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Quinoa time

Nome strambo. Sulle labbra diventa quínoa o quínua.

Apparenza quasi timida. Ti ritrovi tra le mani tanti piccoli

grani. Tondi, bianchi, minuscoli rispetto al miglio, quasi simili

al cous cous. Ma noi non ci lasciamo intimorire dalle novità,

vero?

Non è cereale, non è legume.

Suoi parenti stretti sono gli spinaci e la barbabietola. Credici.

Appartiene alle alla famiglia delle Chenopodiaceae, più

banalmente è un’erbacea annuale. Cresce e cresceva sulle Ande

e per gli Inca era la madre di tutti i semi, che in dialetto locale

si diceva chisiya mama.

Ne esistono diverse varietà. La gamma dei suoi colori passa per

il bianco e prosegue per il rosso e persino il nero. Ammetto di

avere appena comprato a Londra della quinoa rossa, per la

solita curiosità femminile senza limiti.

Qui, in casa nostra, è oramai un ospite se non fisso, almeno

frequente. Alla cuoca piace per la facilità d’uso. Dosi fisse per la cottura. Come direbbe la mamma: 1 tot

di quinoa, 2 tot di acqua. Ossia, nella pentola se si mette 1 bicchiere di quinoa, vanno aggiunti 2 bicchieri

di acqua.

Poi si accende la fiamma e si fa cuocere per circa 15 minuti o finché l’acqua non è stata del tutto

assorbita. Gli ultimi minuti di cottura, quando oramai rimane poco liquido sul fondo, possono essere fatti

anche lontano dal fuoco.

Infine, si mescola e si decide come condire il tutto.

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Quanta quinoa a persona?

Non farti ingannare dal suo aspetto indifeso. Non essere tentato di aggiungerne ancora un po’. Lei si

gonfia durante la cottura, diventa quasi trasparente e poi estrae il suo pedice quando è pronta.

C’è chi suggerisce di usare 70-80 grammi a persona. Io oramai mi regolo ad occhio.

Come condirla?

Io tendo a farne insalata con le verdure del mercato, qualche volta aggiungo dei dadini di formaggi, altre

persino di salame. C’è, insomma, libertà e fantasia assoluta. Ne puoi persino fare zuppa.

Perché provarla?

Per il solito “ti fa bene”. Su, su, chi non vuole rimpiersi di fibre e minerali?!

Fosforo, magnesio, ferro, zinco si accompagnano alle proteine vegetali,

mentre il glutine è assente all’interno di quei piccoli grani. Dopotutto non c’è

posto per tutti là dentro.

Sennò provala per scoprire cosa kullku, un uccello sacro degli Inca, portò

agli umani come regalo. La quinoa sopravvisse all’arrivo degli spagnoli nel

Cinquecento, che tentarono di imporro orzo e grano. Quei grani si salvarono

fino agli anni ’70 quando vennero “riscoperti” e diventarono quasi una

moda oltreoceano. Tale longevità va premiata almeno con un assaggio.

Io oggi te la propongo con pochi e semplici ingredienti:

Insalata di quinoa e foglie di carota

Dosi rigorosamente ad occhio, ciò che ti serve però è:

1 bicchiere e mezzo di quinoa

1 carota

le foglie della carota

1/2 cipollotto

1 friggitello (o peperoncino verde dolce)

poco formaggio di capra (io avevo dei rimasugli di formaggi francesi)

poco olio extra vergine d’oliva

sale

Prima la quinoa l’ho lavata in altra acqua usando un colino.

Poi ho versato la quinoa nel bicchiere (1+1/2 bicchiere) e l’ho versata

in pentola. Ho aggiunto 3 bicchieri di acqua.

Ho fatto cuocere per 15 minuti circa.

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Intanto, ho spelato la carota.

Ho lavato la carota, il cipollotto ed il friggitello sotto l’acqua.

Ho tagliato carota, cipollotto, friggitello a dadini. Nonchè ho tagliuzzato le “foglie” della carota. Mai

buttare via niente se non va male.

Dal frigorifero ho tolto e tagliato anche i resti dei formaggi di capra.

Una volta pronta, ho tolto la quinoa dal fuoco e l’ho mescolata con la forchetta.

L’ho lasciata riposare qualche minuto.

Poi ho mescolato la quinoa e gli altri ingredienti.

Infine, ho condito con poco olio extra vergine d’oliva e un pizzico di sale.

Può essere servita sia calda che fredda. In quest’ultimo caso aggiungi il formaggio solo al momento di

servire.

PS Oltre le foglie di carota puoi usare anche le foglie di ravanello, sfoglia ancora po’ e trovi un’altra

idea.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 5 ottobre 2012

19

Quinoa alle foglie di ravanello

La quinoa può essere abbellita con:

un po' della parte verde dell'aglio fresco, per

abituare i commensali al suo sapore e

profumo

finocchio, sia la parte bianca che quella

verde, in modica quantità

alcune fave da sgusciare

il ravanello bianco e rosso e le sue foglie

Se hai in casa dei carnivori convinti,

stuzzicali con una fetta o due di salame

tagliata a dadini e mescolata al tutto. Nulla più. Li convincerai con questo piccolo trucco. Da me ha

funzionato.

Ecco gli ingredienti uno ad uno, perché a volte le immagini valgono mille parole:

Una ricetta che nasce dal mercato contadino riesce spesso a conquistare o quanto meno ad incuriosire

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 18 maggio 2011.

20

L’incantesimo dei biscotti

“Con questi biscotti domani troverai marito”

Non gli credevo. Lo avevo chiamato perché mangiasse i

Nidi di marmellata che erano venuti male. Quindi lo

lascia mangiare mentre assieme ad Elena si faceva fuori

un biscotto dietro l’altro con tè.

“Che bell’invito. Non ero mai stato invitato per un tè” e

via si prendeva un altro biscotto. Quei biscotti a Fausto

erano veramente piaciuti.

Il giorno dopo il sole. Come se non fosse febbraio. Mi

ammiravo Roma in groppa al mio bus. L’azzurro del

cielo lo ricordo, quasi fosse poesia silenziosa. A piazza

Mazzini era già arrivato Peter. Due parole e poi eccolo

Paolo. Non lo conoscevo, mi aveva solo promesso che per

dei biscotti mi avrebbe portato non solo a Canale

Monterano ma fino al Canale di Panama. Ed io aspetto!

Mi piacque, ma era sposato.

Eppure mentre andavamo solo a Canale Monterano mi sorse finalmente il dubbio che non lo fosse. Mi

tenevo il dubbio, era troppo piacevole parlarci. Tanto poi tra una chiacchiera e l’altra appresi del suo

stato libero.

Arrivò la neve. Sì, nello stesso giorno. Qualche nube già fuori Roma e poi, appena visto il paese, ecco i

fiocchi, Di corsa in auto, sotto gli ombrelli. Ora si che era inverno.

Per scaldarci, una volta superata la tormenta ecco i biscotti.

Nidi di marmellata il loro nome. Retaggio di quando la cucina si faceva sui libri di cucina. Sabato li ho

riproposti a mio marito. E sì, perché Fausto ha avuto drammaticamente ragione. Ho trovato marito, mio

non di altre„ grazie a questi biscotti.

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Per l’incantesimo dei biscotti suggerisco calma, pazienza e un pizzico tosto di fortuna. Nel frattempo

mescola 150 gr di farina integrale e 100 gr farina tipo 00. Per il lato dolce della vita, unisci 50 gr di

zucchero semolato e 50 gr di zucchero di canna. Non dimenticare 1 tuorlo freddo e 150 gr di burro (non

salato). Consigliato è anche un goccio di essenza di vaniglia. Imprescindibile è un pizzico di sale. Lavora

il tutto.

Non devi scaldare il burro, che deve essere tolto da poco dal frigorifero.

Lavora, pazienza, zen, calma e costanza.

L’impasto si fa e va posto qualche ora in frigorifero, avvolto nella pellicola o in un canovaccio.

Quando ti sembra giunto il momento della magia, mescola qualche cucchiaio di marmellata di ciliegie o

comunque rossa. Qui piace molto anche quella dei ribes. Tutto però dipende dall’uomo (o dalla donna)

dei tuoi sogni.

Il colore, invece, è stato scelto per rappresentare la passione. In un incantesimo tutto ha una sua ragione

di essere, anche se in queste cose la ragione a tratti è un po’ criptica.

Prendi un pezzo di impasto dal frigorifero, un po’ alla volta senza esagerare.

Accendi il forno a 210°C perché si preriscaldi. Tutto va fatto in tempo, per poi lasciare spazio e tempo

alle cose importanti.

Con un pezzo di impasto grande quanto una nocciola, fai una pallina.

Quanto ne hai accumolate abbastanza da riempire la teglia del forno, coperta con carta forno, munisciti

di un mestolo di legno. Le palline devono essere un po’ distanti le une dalle altre. Non si danno

confidenza, non è ancora tempo per questo.

Col fondo del mestolo fai un piccolo avvallamento in ogni pallina. Le cose importanti della vita devono

lasciare una piccola traccia.

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Con due cucchiaini distribuisci poca marmellata in ogni avvallamento. Un punta di cucchiaino basta e

avanza.

Cuoci per 12-15 min a 210°C.

Tolti dal forno ecco i Nidi di marmellata. La magia sarà già nell’aria.

Con una paletta metti delicatamente i biscotti su un piatto di ceramica a raffreddare. Non mettere un nido

sopra l’altro finché non sono completamente freddi. Rischiano di non separarsi mai più.

Qui finisce l’incantesimo replicabile.

Per realizzarlo in maniera unica devi metterci del tuo.

Non c’è una vita migliore dell’altra, non c’è una storia d’amore identica alle altre. Ogni cosa è speciale e

ogni Nido di marmellata ha una vita a se„a volte troppo breve, data la ricetta.

Ottimi in automobile sotto la neve, ma anche a casa tua con un bel tè caldo.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 12 ottobre 2012

23

Di polenta, miele e vino

Col freddo si fa presto a dire polenta.

Si fa talmente presto che si scorda che la farina di

polenta può nascondere anche altro. Non intendo le

rivisitazione della polenta come polenta riscaldata con

sopra il Pestat o simili. Non parlo neppure del pane di

polenta che arriva fino ad essere presidio Slow Food col

nome Pan di Sorc. Non parlo neanche dei diversi tipi di

farina di polenta. Non mi riferisco ai biscotti con farina

di polenta, stavolta vado sul dolce, un dolce grande e

tondo. Ossia vado sulle torte.

Sì, la farina di polenta può essere alla base di succulente

torte.

Io alla polenta dedicherei un inno. Già l’Amor di

Polenta, in epoca precedente alla mia esistenza

blogghifera, mi ha travolta. La Pete di friulana origine

ha poi in me confermato l’ecletticità della bistrattata

farina di polenta. Stavolta però ho raggiunto un altro

livello con lei.

Con in mano Baking: From my home to yours e negli

occhi La Cjasalìne finalmete visitata, da una ricetta statunitense sono arrivata ad una torta più friulana.

Il miele, lo ammetto, viene dall’Abruzzo. Lucia e le sue api mi avevano regalato un signor miele. Io l’ho

unito a farina di mais rigorosamente friulana e ad un vino bianco, per la cronaca un Sauvignon Blanc del

Collio, che ha retto il gioco.

Fatti tentare da questa torta. E’ morbida, saporita e persino profumata.

I grani di polenta si fanno sentire garbatamente in bocca. Il miele lo colse prima la Cavia della cuoca, la

quale già si faceva trasportare dal vino. Non esplode in altezza, niente lievitazioni miracolose. Ha il

fascino di chi è prima di apparire.

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Torta di polenta, miele e vino

150 gr farina di polenta gialla

60 gr farina di farro

1 cucchiaino di lievito per dolci

un pizzico di sale integrale

170 gr ricotta fresca

60 gr vino bianco (nel mio caso Sauvignon Blanc)

100 gr zucchero di canna

95 gr miele millefiori biologico

120 gr burro

2 uova medie

Ho mescolato in una ciotola la farina di polenta, di farro, il

lievito ed il sale.

Subito dopo ho fatto sciogliere nel forno a microonde il burro

tagliato a dadini. In alternativa, lo puoi far sciogliere a

bagnomaria.

Poi in un’altra ciotola ho lavorato con le fruste elettriche la

ricotta col vino.

Ho aggiunto lo zucchero e ho sbattuto il tutto alcuni minuti.

Ho aggiunto il miele e ho mescolato. E’ a questo punto che il composto cambia colore. Il miele lo

arrichisce.

Poi è stata la volta del burro fuso (e non caldo).

Subito dopo ho aggiunto e sbattuto un uovo alla volta.

Così è giunta l’ora degli ingredienti secchi mescolati assieme all’inizio.

Subito dopo ho preriscaldato il forno a 170°C.

Nel frattempo ho imburrato ed infarinato uno stampo apribile tondo da 26 cm diametro.

Ho versato il composto. La consistenza è particolare. Sembra quasi troppo liquida, ma ho avuto fiducia.

L’ho fatto cuocere nel forno preriscaldato per 40 min circa.

Alla fine ho tenuto la torta dentro il forno spento alcuni minuti e poi l’ho fatta raffreddare fuori.

Mangiato il giorno stesso sentirai soprattutto il vino. Il giorno dopo compare il miele.

Un avvertimento: una fetta tira letteralmente l’altra. Almeno con noi è successo questo. Ci ha stregato

tanto che mi è già stato richiesto un bis.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 9 novembre 2012

25

Anacardi, miele e Natale

Incomincia a farsi largo quella parola.

Torna e ritorna, ogni anno la si sente. Si crea quell’atmosfera,

tutto si colora e qualche canto ancora anima le strade tra un

clacson e l’altro. Le case si vestono, i bambini chiedono e

pretendono. I grandi tra insofferenti e maniaci non si

sottraggono a questa epidemia.

Natale.

Sì lui. Un giorno. Una ricorrenza. Un dovere: fare regali.

Il regalo può essere un appunto un dovere, ma merita di

diventare un pensiero. Un modo per non sentirsi al centro di un

vortice che spesso ci travolge durante l’anno. E’ il momento

giusto per scambiare quell’attimo di pace che tutti vorremmo.

Così io comincio a fare il mio Natale.

Nel pacco ricevuto dalla mamma c’erano degli ingredienti che

anche tu puoi trovare a La Cjasalìne a San Daniele del Friuli o

che sempre tu puoi scovare agevolmente anche altrove lontano

dal Friuli.

La prima idea di regalo è facile, veloce, come prometto oramai sempre più spesso.

E’ una soluzione buona per regali anche multipli. Il necessario, oltre quanto indicato nella ricetta, sono

contenitori in vetro, anche riciclati. Basta poco. Un barattolo di marmellata ripulito, un contenitore di

Pestat etc. etc. : il vetro ha molte vite ancor prima di finire nella doverosa raccolta differenziata.

Nocciole ed anacardi, spezie, olio e miele. E che miele della fotografia, miele friulano.

Se per gli anacardi partivo dall’esperienza con i semi di girasole e ed i ceci, per le nocciole è stato

proprio il Miele dal Cont al Tiglio/Castagno ad ispirarmi. Tiglio che si unisce al Castagno, non in

alternativa, ma in simbiosi.

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Anacardi speziati

120 gr anacardi

1 cucchiaio di olio extra vergine d’oliva

pepe nero macinato sul momento

1 cucchiaino di sale

1 cucchiaino di zucchero di canna

1 cucchiano non colmo di peperoncino macinato (o harissa)

Metto in una padella l’olio extra vergine d’oliva.

Accendo il fuoco.

Unisco gli anacardi, il sale, lo zucchero ed il peperoncino col pepe.

Mescolo il tutto e faccio saltare in padella alcuni minuti. Il peperoncino non si deve scurire.

Lascio raffreddare e servo o metto in un contenitore di vetro.

Personalizzando il barattolo di vetro si avrà un regalo per qualche amico.

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Nocciole natalizie

100 gr nocciole

1 cucchiaio di miele tiglio/castagno

1/2 cucchiaino di chiodi di garofano in polvere

poco pepe nero macinato sul momento

Preriscaldo il forno a 140°C.

In una ciotola mescolo assieme le nocciole col miele, i chiodi di garofano ed il pepe.

Metto le nocciole (appiccicose) sulla teglia del forno cercando di farne grumi.

Faccio cuocere per 10 minuti.

Apro il forno e le giro.

Faccio cuocere altri 5-10 minuti, facendo attenzione che il miele non bruci.

Il miele che ho usato io risultava liquido durante la cottura, quindi non mi si è bruciato.

Dopo tolgo la teglia dal forno.

Lascio raffreddare un attimo e separo le nocciole mettendole nel contenitore ricoperto con la carta forno.

Non lasciare le nocciole troppo a lungo a raffreddare sulla teglia, sennò sarò duro separarle da essa.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 28 novembre 2012

28

Torta di polenta e grano saraceno allo yoghurt

Spesso è una delle prime torte che si impara a fare.

Ricordo ancoro lo stampo che si metteva sul fornello e non nel forno per farla. C’era yoghurt ed olio a

renderla particolare. Ero giovane, intrisa di scuola media, qualche patema esistenziale tra adolescenza e

capriccio. Ma lei c’era di già.

Quel lei è la persona che segue con Francesco La Cjasalìne. Con Laura ci si vedeva ogni pomeriggio

d’estate, o quasi, tra un ritardo ed un’ansia di puntualità. C’erano i famosi cornetti che si intestardivano

a non venire e c’era la torta allo yoghurt. Era quasi un marchio da brava donnina di casa farla e

personalizzarla.

Tra un bignè, dei biscotti magici e torte varie, ecco che a casa di una o dell’altra spuntava la torta allo

yoghurt.

Ora da grandi ci siamo ancora noi: io, Laura ed il resto del mondo.

Qualche chilometro ci separa, ma un po’ alla Don Camillo e Peppone, mica ci lasciamo sole.

La Cjasalìne già vende un misto di farina di mais e grano saraceno, ma ho preferito dare risalto in

questa torta alla yoghurt al grano saraceno. Gli aromi sono tutti naturali: scorza di arancia e limone.

Qualche cucchiaino di semi di papavero per rendere più curioso il tutto.

Non resta che accendere il forno e scoprire cosa ne vien fuori.

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Torta di polenta e grano saraceno allo yoghurt

125 gr farina di grano saraceno

65 gr farina di mais

1 + 1/2 cucchiaini di lievito per dolci

un pizzico di sale

155 gr zucchero di canna

2 cucchiaini di semi di papavero

scorza grattugiata di mezza arancia e poco

limone

120 gr yoghurt magro

3 uova medie

75 gr olio extra vergine d’oliva

Mescolare assieme in una ciotola le farine di

grano saraceno e polenta con il lievito, il sale,

lo zucchero, i semi di papavero e le scorze di

arancia e limone.

Preriscaldare il forno a 180°C.

Si passa quindi ad unire agli ingredienti secchi

lo yoghurt e subito dopo le uova. Qui si usa

senza problemi lo sbattitore a fruste.

Da ultimo amalgamare l’olio extra vergine

d’oliva.

Versare in uno stampo da plumcake. Essendo il

mio ultimo acquisto uno stampo di silicone non

ho avuto bisogno di imburrarlo ed infarinarlo.

Cuocere a 180°C per 55 minuti circa. D’obbligo

è la prova di cottura con lo stecchino.

Far raffreddare e servire per un rilassato tè pomeridiano o altro ugualmente importante momento di

relax.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 16 gennaio 2013

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Pete

Per completare o arricchire il capitolo delle torte a base di farina di mais, mi è quasi d’obbligo tornare

con la mente ed il ricettario ad un aperitivo friulano organizzato per alcuni intimi e fidati amici romani.

Tentai per l’occasione la ricetta della Pete, quasi mitica Pete.

Pete. E’ una torta tipica friulana che si distigue dalle altre per l’uso di farina di mais cotta. Per il resto la

ricetta è facile e veloce. La farina di mais cotta non richiede di fare una polenta, ma chiede una cottura

nel burro. Sì, hai letto bene, chiede una cottura in tanto burro. Non lasciarti impressionare dalle

proporzioni.

Farina di mais cotta

1 kg di burro (che io ho ridotto a 850 gr)

200 gr farina di mais

Sciolto il burro unire la farina di mais e far cuocere per il tempo necessario affinché la farina diventi di

un color oro antico. Io nell’incertezza della mia prima volta ho fatto cuocere a fuoco moderato per una

ventina di minuti.

Poi „

bisogna far raffreddare il tutto e

separare infine la farina dall’ont,

ossia dalla parte liquida di burro

rimasta. In passato, l’ont veniva

messo nel piter e conservato per

altri uso. Lo scopo era anche

conservare il burro più a lungo

tramite la sua cottura.

Scoperto come si ottiene la farina di mais cotta è giunto il tempo di procedere a fare la Pete. Servono:

200 gr farina di mais cotta

150 gr farina di mais

150 gr farina tipo 00

1 uovo

la scorza grattugiata di un limone

150 gr zucchero

1 pizzico di sale

un bicchiere di latte. Dalla mia esperienza la quantità di latte incide sulla morbidezza del tutto. Usa un

bel bicchiere!

50 gr pangrattato (non va nell’impasto)

Mescolo assieme la farina cotta, la farina di mais “cruda” e la farina tipo 00.

Unisco l’uovo, lo zucchero, il sale, il latte tiepido e la scorza di limone.

Amalgamo il tutto fino ad ottenere un composto morbido e omogeneo.

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Preriscald0 il forno a 150°C. Intanto, verso l’impasto in una tortiera da 26 cm di diametro.

Cospargo la torta col pane grattugiato mescolato con un cucchiaio di zucchero.

Cuocio per 35-40 minuti.

Servire fredda.

La ricetta l’ho imparata da Vecchia e Nuova Cucina di Carnia di Gianni Cosetti e l’ho scoperta, in

versione tortine/muffin, a casa della gentile Anna Cosetti. La sua Pete era migliore della mia, ma son qua

per imparare.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 28 aprile 2011

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Pasta di farro e pitina

Sottotitolo: tu e le cosidette paste integrali in che rapporti siete?

Svolgimento:

La pioggia gabba villani solleticava Roma oramai da alcune ore.

Persistente e leggera, gabbava facendo sperare in schiarite. Si dice che i contadini, villani, nell’incertezza

sul da farsi, intanto si recassero ai campi.

Tra un sanpietrino e l’altro, un ombrello aperto, qualche momento di compere in saldo e necessità,

rieccoci a casa.

Intirizziti dall’allarme di neve disatteso, il pranzo vissuto assieme non poteva passare inosservato.

Volersi bene a tavola per noi due, insaziabili giovani, è un dovere nel fine settimana.

Così mentre la Cavia si distraeva davanti lo schermo luminoso del computer, la “cuoca” mescolava

ingredienti.

Se presso La Cjasalìne puoi scegliere tra fusilli al farro od integrali, sfusi o confezionati, e mezze penne

al farro, io allora avevo delle penne rigate al farro e soprattutto della pitina di daino arrivata

direttamente da Maniago (Pordenone). Di romano c’era il radicchio rosso tardivo mischiato all’Asiago.

Tocco finale una manciata di anacardi.

Ero sicura che così quella naturale ritrosia verso la pasta etichettata come integrale l’avrei superata

anche nella giovanissima Cavia. Niente problemi di dieta, niente sapori smorti, sono un buon piatto sano

con un pizzico di tradizione. E così „

Usando il freddo come scusa, ho ceduto al fascino di eccedere. La pitina ha un sapore equilibrato di

carne fatta rotolare nella farina di polenta. Secondo i regolamenti dei Presidi Slow Food, una vera pitina

è fatta di carne di ovino e di lardo di suino.

Si parte ovviamente disossando il povero animale destinato a diventare sublime pitina. Poi si passa per la

pestadora, che un ceppo di legno incavato usato per tritare finemente la carne.

Questi ingredienti vengono lavorati a mano assieme aggiungendo anche del sale, pepe, del vino Refosco,

varie piante aromatiche di montagna ed aglio di Resia (altro presidio Slow Food, altro perchè la pitina è

anch’essa Presidio). La tradizione vuole anche che la pitina si faccia con carne di selvaggina, come il

daino appunto, che all’arrivo del freddo deve essere pur conservata a dovere. L’amica Sara T. si presentò

mesi fa con una pitina di muflone (meravigliosa!), stavolta è Serena ad avermi fatto pervenire della pitina

di daino, non meno apprezzata.

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Alla vista la pitina è una polpetta (non cotta) leggermente schiacciata e passata nella farina di mais.

Al naso si percepisce l’affumicatura leggera fatta ponendo le pitine sotto la cappa del camino per circa

una settimana e nel camino dove sono fatti bruciare legni di faggio, carpine e ginepro. Ricorrere

all’affumicatura permetteva di ovviare all’assenza in montagna di budella per insaccare la carne.

Ultimo stadio è il “riposo”. Le pitine sono poste in un ambiente fresco e ventilato. Se dopo due settimane

compaiono delle muffe bianche è buon segno. Queste vengono poi ovviamente tolte lavando la pitina con

acqua ed aceto.

Non resta che addentare la pitina, che non è nè un insaccato, nè un salame. E’ però relativamente

giovane. L’usanza di far pitina (o peta e petuccia, le varianti più grandi) dovrebbe risalire al 1800.

Il giorno che avrai una pitina tra le mani, ti impongo di assaggiarla prima cruda. Tagliane una fetta e

scoprila o riscoprila.

Solo dopo potrai provarla scottarla in padella con l’aceto o usarla in cucina come vuoi. Però avvertimi se

usi per fare il cao, ovvero se la cuoci nel latte di vacca appena munto.

Io stavolta l’ho utilizzata con i fusilli al farro.

La mia idea è infatti farne:

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Pasta al farro con pitina e radicchio rosso

Ingredienti per 2 persone

1 cucchiaio di olio extra vergine d’oliva

alcune rondelle di cipollotto

100 gr radicchio rosso tardivo tagliato a

striscioline

4 fette di pitina di daino

200 gr pasta al farro (penne o fusilli al farro)

acqua leggermente salata

50 gr Asiago

10 anacardi tagliuzzati

Ho cominciato col versare in una padella l’olio

extra vergine d’oliva

Ho acceso la fiamma e ho unito il cipollotto.

Ho fatto cuocere alcuni minuti mescolando di tanto

in tanto.

Poi ho unito il radicchio rosso e ho mescolato.

Quando il radicchio a cominciato a sgonfiarsi ho unito la pitina tagliata a dadini.

Ho fatto cuocere solo 2-3 min mescolando nel frattempo.

Ho tolto dal fornello e mi sono dedicata alla cottura della pasta.

Le mie penne si sono cotte al dente in acqua calda leggermente salata in 8-9 minuti.

Ho scolato la pasta.

Rimessa nella pentola l’ho saltata prima con i dadini di Asiago.

Dopo aver mescolato, ho unito il radicchio e la pitina.

Amalgamato il tutto ho completato con gli anacardi a pezzi.

Servire ovviamente caldo per apprezzare l’Asiago fuso, l’affumicato delicato della pitina ed il quasi dolce

degli anacardi. Ovviamente anche il radicchio rosso arricchisce il tutto.

Quando c’è la pioggia gabba villani, la “friulana” fa la pasta gabba villici .

Tutto grazie a La Cjasalìne e al suo spirito di riscoperta dei cibi e dei ritmi umani della vita.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 23 gennaio 2013

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Cioccolata e miele

Lo ammetto. In fatto di libri ho a volte gravi e

profondi pregiudizi.

Così fu con Harry Potter e con Johnny Deep. Certo,

lui non Harry ma Johnny , quello che forse a te piace

non si è certo messo a scrivere un best seller. Eppure

sullo schermo c’è stato. Ha voluto interpretare

qualcuno. E film tratto da libro fu.

Ed ecco me: giovane, critica, prevenuta. Vedevo solo

quello (senza fare ironie eh). Il bello ed il buono. Anzi

il belloccio ed il fondente. Come se passione e poesia

fossero più mescolate per motivi commerciali che per

altro. Lo pensavo, oh mamma, come lo pensavo.

Diamine cosa si combina e si pensa a vent’anni.

Lo ammetto. In fatto di libri so ricredermi quando è il

libro a chiamarmi.

Nel caso specifico, Chocholat l’ho iniziato a leggere

ora, dopo anni di fama, e mi ha abbracciata. Senza

rancore.

Ricordi. Vita di paese. Intrecci famigliari. Caste. Sì,

le caste dei piccoli paesi.

Personaggi strani, presunti perdenti. Silenti battiglie, lontane dai destini del mondo.

Saper scrivere, poter raccontare, un pizzico di favola: ecco che ora non ne posso far meno.

Di quel libro son vittima.

Non strattonata in un intreccio non mio. Non banalizzata nel profumo del Chocolat e non impanata nel

Qualunque. Ho dimenticato il film e mi son fatta cullare da uno stile preciso nella sua leggerezza.

Subito è esplosa la voglia di mendiants e di La Cjasalìne, come ad incrociarsi sogni.

Venne la domenica pomeriggio. Stanca e poltrona, irrequieta se abbandonata a sè.

Un guizzo di poesia. Immagina, puoi.

Mi sognavo in cucina intenta a chiacchiere con Laura de La Cjasalìne.

Accadde quel giorno con i primi bignè, forse era un venerdì prima di Pasqua. Anni ’90. Cielo grigio. Un

tocco finale di freddo.

Accadde quel giorno, quando mi imbarcai nell’avventura dei krapfen. Talmente lunga che trascinai Laura

nel cucinotto di casa. Un’estate. Sole brillante quasi sudato.

Accadde molte altre volte, per un tè o una torta. Per una fugace risata o un discorso infinito.

Ma di domenica„a trenta e altri anni„e sì immaginavo, ma non accadeva.

I mendiants„.banali„comuni„

Poi la pigrizia creò. Una ricetta più pigra ancora.

Eppure poi stupì.

Poco dopo anche si dileguò.

Ecco la:

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Cioccolata ricca invernale

100 gr cioccolata fondente al 70% di cacao

40 gr nocciole snocciolate ma con la pelle

5 gr pinoli

1/2 cucchiaino di miele al tiglio e castagno

pepe nero macinato sul momento

Ho cominciato col tritare nel tritatutto le nocciole assieme ai

pinoli. Non serve ridurli tutti in farina. Ho preferito lasciarne

alcuni a pezzi.

Poi ho tagliato il cioccolato a dadini, l’ho messo in una ciotola

di ceramica.

Ho sciolto nel forno a microonde il cioccolato. La durata per

sciogliere il cioccolato varia molto dal cioccolato stesso.

Oramai mi regolo a vista, controllando ogni 30 secondi il livello

di scioglimento.

Dopo 1-2 minuti a 600W semplicemente mescolando si riesce ad

amalgamare il cioccolato.

Sciolto tutto il cioccolato, l’ho tolto dal forno.

Ho aggiunto il miele e ho mescolato ancora.

Ho macinato nel cioccolato il pepe nero e ho mescolato ancora.

Infine, ho unito le nocciole ed i pinoli. Ed indovina un po’? Ho mescolato ancora.

Su una vassoio lungo e rettangolare ricoperto con carta forno, ho versato il cioccolato arricchito.

L’ho steso ben bene e più fine possibile usando una spatola di plastica.

Ho lasciato raffreddare il tutto (pulendo nel frattempo tutta l’attrezzatura utilizzata).

Dopo 10-15 minuti si ottiene quasi una sorta di tavoletta di cioccolata morbida.

L’ho spezzata in vari pezzi di varie dimensioni. E ho invogliato la Cavia ad assaggiarla. Mi è stato facile.

Ma non è finita qui.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 22 febbraio 2013

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Albicocche, cioccolata e semi vari

Pulita la casetta. Il sole primaverile continuava a non voler farmi stare ferma sul divano.

Era però un giorno pigro, come ogni buona domenica.

C’era voglia di sentirmi ragazzina in cucina. Due o tre gesti dovevano creare la sorpresa. E quel poco

doveva bastare.

Chocolat ancora bussava nella mia testa. Finita la lettura rimaneva la magia.

Mi sentivo una scintilla che doveva essere accesa e brillare indifferente ai pensieri, ai gesti, al caos e

persino alla poesia di quei momenti qualsiasi. Volevo trasmettere dell’energia, una piccola energia per

incitare anche solo un’altra piccola fiammella a farsi viva e a sentirsi viva.

Alla ricerca di questo insignificante, ma prezioso, effetto domino, mi ricordai delle albicocche secche che

a Natale erano diventate fruitcake e cantucci. Sapevo che erano rimaste in parte con me.

Aperta la credenza, la cioccolata si fece notare.

Ma la scintilla ancora non brillava.

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Spalancato un altro sportello ecco i preziosi semi di papavero

frutto di un acquisto della mamma a La Cjasalìne. Tornavo da

lavoro, all’altezza della stazione di San Pietro, mi chiamò.

“Sono a La Cjasalìne, cosa ti piglio?”. Mi passò Laura, tra lo

stupore e l’interdizione scambiammo liste di prodotte in liste di

spesa. Ed i semi giunsero pochi giorni dopo a Roma. Preziosi

per quel piccolo ricordo di vicinanza a distanza.

Mi parve di vedere una piccola luce.

Quando mi misi al davanzale di casa con il cioccolato fuso nella

ciotola e le albicocche, mi ricordai anche di quel trucco

imparato da Veronica. Correvano le pagine dei libri

dell’università ed il sole era udinese. Mi portò in una drogheria,

prendemmo all’epoca le arance candite e le immergemmo nella

cioccolata.

Fino ad arrivare ad un anno, sulla via per l’altare, con Veronica

ed il suo “Vai Rossella“.

E la scintilla proruppe.

Il primo pezzo del domino cadde.

Ora non mi resta che vedere se qualche altre pezzo di dominio, alias lettore, segue.

L’ingrediente principale di questa ricetta viene considerato uno dei segreti degli Hunza. Oltre l’aria

dell’Himalaya sembra che la loro passione sfrenata per le albicocche secche sia alla base dell’invidiabile

longevità. Potassio, betacarotene, fibre: sono tutti elementi di cui sono ricche.

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Albicocche al cioccolato

100 gr cioccolato fondente al 70% di cacao

1 cucchiaio di Pinot Grigio

1 cucchiaino di semi di papavero

1 cucchiaino di semi di sesamo

25 albicocche secche

Il procedimento è di una semplicità disarmante.

Prima ho tagliato a metà le albicocche secche.

Avendo un forno a microonde l’ho usato, ma può

bastare una semplice cottura a bagnomaria.

Ho fatto sciogliere il cioccolato tagliato a dadini nel

forno a microonde.

A 600W per 2-3 minuti, avendo cura di non far bollire

nulla ed aiutando lo scioglimento mescolando di tanto

in tanto la cioccolata: et voilà. Il gioco è quasi fatto.

Sciolto il cioccolato, ho aggiunto ad esso il Pinot

Grigio, il sesamo ed i semi di papavero.

Mescolato il tutto ho intriso mezza albicocca dopo

l’altra nel cioccolato fuso. Per meglio distribuire il

cioccolato mi sono aiutata con le dita. Semplicemente

e sfacciatamente.

Se nel mentre il cioccolato si indurisce nuovamente, basta ripassarlo al microonde a 600W ma solo per

20-30 secondi.

Le albicocche incioccolate vanno poste sulla carta forno

e lasciate raffreddare, senza cedere al loro richiamo.

All’assaggio si riveleranno garbate in fatto di tasso

alcolico e stuzzichose grazie ai semi vari utilizzati.

In uno o due bocconi saranno un curioso intermezzo di

attimi, pensieri e gesti casalinghi.

Adattamento del post apparso su Ma che ti sei mangiato il 8 marzo 2013

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