cuspide magazine dicembre 2011

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arte e spettacolo, cultura direttore responsabile michele luca nero

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ROMA. LA STORIA DELL'ARTE

Lezioni di arte sul museo a cielo aperto di Roma.

Ieri la conferenza stampa presso il Bookshop dell'Auditorium Parco della Musica per

presentare la seconda edizione di “Roma. La storia dell'arte”. “L'università-Auditorium continua la sua attività didattica”: così Carlo Fuortes, amministratore delegato della fondazione Musica per Roma, introduce la presentazione della rassegna ai giornalisti,

insieme a Claudio Strinati, il primo dei docenti che terranno le lezioni presso la Sala Sinopoli. Un ciclo di sei incontri da dicembre a maggio tenuti da personalità illustri del

mondo artistico italiano per ripercorrere col pubblico alcuni momenti fondamentali della storia dell'arte romana. Strinati fa notare come “metodologia involontaria” dei docenti sia stata quella di

concentrare le lezioni su tre secoli che occupano un posto essenziale nel rapporto con la tematica della Classicità/ Anticlassicità: il Cinquecento come il secolo della Classicità

per eccellenza; il Settecento, alla riscoperta archeologica del Classico; il Novecento come andirivieni tra i canoni classici e la prepotente rottura con essi. La prima lezione verterà su due statue cardine del Rinascimento italiano, che aprono e

chiudono il Cinquecento: la “Pietà” di Michelangelo (1499-1500) e la “Santa Cecilia” di Stefano Maderno (1599-1600) rilette attraverso i travagli politici e spirituali del

papato. Sempre inerente a San Pietro sarà la seconda lezione tenuta da Antonio Paolucci (direttore dei Musei Vaticani) su Raffaello e la Stanza della Segnatura. Il terzo

incontro farà un salto nel tempo per arrivare con Maria Vittoria Marini Clarelli (Soprintendente di Arte Moderna) a Roma nell'età delle Avanguardie. Francesco Dal Co (docente e architetto) incentrerà la sua lezione sulle varie interpretazioni che i

vedutisti veneziani del XVIII secolo diedero di Roma. Ancora di Settecento si parlerà con la professoressa Anna Ottani Cavina, e nello specifico della Villa innalzata su via

Salaria dal cardinale Alessandro Albani. Infine Achille Bonito Oliva (professore e critico) riporterà uno sguardo sullo stato attuale dell'arte contemporanea a Roma e sui poli che si sono sviluppati nella capitale a partire dal secondo dopoguerra.

Le lezioni, introdotte da Beatrice Luzzi, saranno riprese dalla Rai e trasmesse su Rai5 a partire da marzo 2012.

L'edizione dello scorso anno ha avuto un successo impressionante, con quasi 4500 spettatori in totale, sommati ai moltissimi utenti che hanno potuto usufruire del servizio Podcast di Rai5 per godere delle lezioni in differita. Quando a Fuortes viene

chiesto qual'è la motivazione per tanto riscontro di pubblico, risponde: “Anche la conoscenza può dare il piacere che dà uno spettacolo”.

sara iacobitti

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IL MARE

Anna Maria Ortese tra palme, spaghetti alle vongole e “Bésame mucho”. Non è un

sogno ma è Paolo Poli.

Sala gremita per la prima de “Il mare”, scritto e diretto da Paolo Poli su testi di Anna Maria Ortese. Il mare come filo conduttore attraverso quarant'anni di storia italiana, rivissuta con estratti presi da “Angelici dolori” e da “Il mare non bagna Napoli”. Anche

se l'autrice era originaria di Roma, a Napoli trascorse alcuni anni prima e dopo la seconda guerra mondiale; la città le ispirò storie che spaziano dal “realismo magico”

(sotto l'influsso di Bontempelli) al neorealismo investigativo del dopoguerra. Questi racconti, intessuti del vissuto privato della scrittrice, vengono riletti da Paolo Poli attraverso il suo teatro personalissimo, portando sulla scena momenti di realtà

tragica tra gli anni Trenta e gli anni Settanta sotto una veste comica e brillante. Tappe fondamentali della Ortese come l'infanzia, l'adolescenza, gli amori, i dolori per la

perdita dei cari, riaffiorano parodiate dalla grazia irriverente del protagonista, che seduce e rapisce gli spettatori in una dimensione tragicomica. Grazie anche al quartetto dal talento straordinario che lo accompagna (Mauro Barbiero, Fabrizio

Casagrande, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco), lo spettacolo è sottilmente velato di ironia, di malizia, di ammiccamenti e allusioni al pubblico, con una mimica un

po' meno celata e più provocatoria.

“Il mare” è un alternanza continua e vorticosa: i monologhi dell'ideatore, che

impersona la Ortese in varie mise, sono inframmezzati da stralci recitati da tutti gli attori, ricreando spaccati della vita quotidiana dei napoletani, e da brani musicali da

varietà cantanti da Poli e danzati dagli attori, di volta in volta cambiati all'uopo (spose incinte, ballerine di samba, cuoche...). Il tutto condito dalle pregiate varietà cromatiche delle splendide scenografie dipinte di Emanuele Luzzati, e degli sfavillanti

costumi di Santuzza Cali’. Le musiche midi di Jacqueline Perrotin e le coreografie di Claudia Lawrence esaltano le situazioni grottesche e giocose con una buona dose di

ilarità: le canzonette en travesti riportano il sapore di un'Italia che, nonostante i travagli storico-politici, non perde il brio proprio del Bel Paese, anche nella fame e nella miseria.

“Il mare” di Paolo Poli è soprattutto il mare delle infinite possibilità attraverso i ricordi e la memoria di un tempo che non c'è più ma che, grazie alla sua eccezionale bravura,

trasfonde negli spettatori con una naturalezza disincantata.

sara iacobitti

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SWEENEY TODD

Sweeney Todd, (Londra, 16 ottobre 1756 – Londra, 25 gennaio 1802) serial killer

inglese, fu la musa ispiratrice di George Dibdin Pitt che nel 1842 portò sulla scena un dramma teatrale, da cui prenderà spunto Tim Burton per il suo film uscito nelle sale

nel 2007, nonché Stephen Sondheim e Hugh Wheeler per il loro musical. La versione italiana è di Andrea Ascari e vede come regista Marco Simeoli. Si tratta di un musical macabro che punta anche sul lato sentimentale. Forse è proprio a causa dell’intensità

delle emozioni e delle situazioni portate in scena, che si arriverà alla tragica conclusione degli eventi.

Il barbiere Benjamin Barker, arrestato ingiustamente e condotto in Australia ai lavori forzati, riuscito a fuggire torna nella sua patria, dove però non trova più su moglie e sua figlia ad attenderlo. Il giudice Turpin, che lo aveva condannato, invaghitosi della

bella moglie di Barker (Lucy) le fece violenza, inducendola al suicidio. Non contento, dopo aver rapito la figlia Johanna, ne divenne tutore. Scoperta la vera identità del

barbiere, che nel frattempo aveva modificato il suo nome in Sweeney Todd, Mrs. Lovett, proprietaria del negozio di pasticci di carne, decise di raccontargli tutto. Meditando vendetta Todd riapre il negozio con la complicità di Mrs. Lovett. Durante il

viaggio di ritorno Todd fu salvato da Anthony, un giovane marinaio. Destino volle che Anthony, vedendo la bella Johanna se ne innamorò, ma gli fu impedito ogni contatto

con la donna. Recatosi al mercato con Mrs. Lovett, Todd scopre una truffa da parte del barbiere italiano Pirelli. I due si sfideranno a colpi di rasoio e il vincitore sarà Todd.

Sentendosi scoperto dal barbiere italiano, che lo ricattò, Sweeney decise di farlo fuori, mentre Mrs. Lovett, per non destare i sospetti del garzone Tobias, lo assunse. Mentre Todd stava per uccidere il giudice, che si era recato da lui, per rendersi bello agli occhi

di Johanna, irrompe Anthony che cerca di rivelargli un piano per far fuggire la sua amata. Il giudice, irato, si allontana mentre Anthony viene cacciato in malo modo dal

negozio. Per sfogare la sua ira, Todd inizia a uccidere tutti i suoi clienti, aiutato da Mrs. Lovett che ne farà ingredienti per i suoi pasticci di carne. Scoperto dove si trovava Johanna, Anthony si reca da lei e fuggono insieme, ma il barbiere avvisa il giudice. Le

azioni diaboliche del barbiere e di Mrs. Lovett continuano, finchè un giorno la mendicante che si aggirava quotidianamente in Fleet Street, inizia a predicare per le

strade, dicendo che in quel negozio c’era il diavolo. Nel frattempo Toby accortosi della malvagità di Todd cerca di avvisare Mrs. Lovett che, intimorita, lo rinchiude nello scantinato. Anche l’usciere Bramford subirà lo stesso trattamento dei clienti del

barbiere, il suo corpo, finito nello scantinato, provocherà la fuga di Toby. Johanna fu condotta da Anthony nel negozio di Todd e mentre si trovava lì, fece irruzione la

mendicante, che venne uccisa dal barbiere perché sapeva troppo.

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Stesso destino toccò anche al giudice. Solo Johanna riuscì a salvarsi, per amaro

destino, proprio grazie al giudice, che aggrappatosi alle vesti di Mrs. Lovett, la fece urlare. Fu proprio in quel momento che Todd riconobbe nella mendicante la moglie.

Fingendo di aver perdonato la menzogna di Mrs. Lovett, ballò con lei salvo poi gettarla nel forno. La triste storia si conclude con l’uccisione di Todd da parte di Toby.

Si tratta di uno spettacolo di due ore e mezzo, diviso in due atti. Le scenografie sono essenziali, il cambio avviene a scena aperta ad opera dei 30 attori della compagnia. Il

pubblico si troverà di fronte a un musical, ironico, impegnativo ma che al tempo stesso è in grado anche di strappare qualche sorriso. Nonostante tutti conoscano la

trama, ci si riesce ancora una volta a emozionare e stupire. Non mancheranno sorprese per gli spettatori, che prima di entrare in sala potranno acquistare pasticci di carne ed Elisir Pirelli, da una simpatica Mrs. Lovett.

maria merola

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GOTA DE PLATA

Aria, acqua, terra e fuoco: i quattro tempi del flamenco.

Uno spettacolo carico di suggestione e sensualità è stato allestito ieri sera al Teatro Italia. Gota de plata, fusione di musica, canto e danza, ha catturato gli spettatori in un

viaggio attraverso la riscoperta di un mondo sempre più distante dall'uomo contemporaneo: la natura. La Compagnia Algeciras Flamenco, su progetto di Francisca

Berton e Maria Cristina Gionta, racconta di una donna che sfugge al rumore chiassoso e caotico della vita metropolitana, fatta ormai di gesti alienati e meccanici, e rinasce a poco a poco grazie al contatto fisico con gli elementi della natura.

Protagonista, coreografa e danzatrice di flamenco, la stessa Francisca Berton, che ha dato vita ad una interpretazione magistrale ed emozionante: una tecnica eccezionale

unita ad un'espressività eccelsa, ha danzato senza sosta e con passione. Con il linguaggio del suo corpo si è fatta tramite per la ricerca del suono e del ritmo, sia in una dimensione più propriamente fisica, sia in uno spazio quasi mistico, in cui le

sonorità prodotte dalle mani di fata e dai piedi di fuoco divengono simboli profondi. Ad accompagnare la Berton, uno gruppo di artisti altrettanto valenti: la penetrante

voce di Rosarillo, le chitarre di Sergio Varcasia e Carlo Soi (il primo anche direttore delle musiche), le percussioni di Paolo Monaldi e il flauto traverso di Francesca Agostini. La musica è stata non meno evocativa della danza, poiché i suoni caldi e

seducenti del flamenco sono stati costruiti in un crescendo progressivo: dai suoni confusi e spigolosi della città, a quelli delicati e leggiadri dell'acqua o dell'aria, fino alle

possenti e travolgenti vibrazioni del fuoco e della terra. Un percorso simbiotico quello tra la natura e il flamenco: l'acqua che zampilla porta a scoprire il dolce suono delle nacchere; il contatto con la polvere della terra stimola alla

scoperta del ritmo prodotto dalle scarpe da flamenco; la luce del fuoco dà vita alla ampia e lavorata gonna rossa per la danza; uno scialle verde librato svela la plasticità

della materia nell'aria. Il disegno luci (curato da Michelangelo Vitullo) ha funto da narratore della vicenda, sottolineando le movenze sul palco ma raccontando anche gli stati d'animo della

protagonista.

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Ad elevare lo spettacolo al simbolismo, la scenografia inesistente, costituita dal buio: il

nero che avvolge i musicisti sullo sfondo e la tenebra della platea da cui la ballerina sale sul palco all'inizio del suo racconto, e alla fine, quando l'oscurità tra le poltrone la

inghiotte di nuovo. Dopo la conoscenza con il mondo naturale la donna è pronta a tornare nella realtà di tutti i giorni, ma con la ricchezza che questa esperienza le ha

regalato: il flamenco, danza di tradizione popolare per eccellenza, permette di riscoprire il proprio corpo e lo spazio circostante, riconducendo l'essere umano alle sue radici naturali.

sara iacobitti

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STRANI-IERI

Da un mondo all’altro. Storie di migranti nostrani, mirabilmente fuse e raccontate tra lacrime e sospiri.

Lo spettacolo ideato da Simone Schinocca racconta l’intreccio di storie, situazioni, luoghi, personaggi, attimi di un passato italiano non così remoto.

La macrostoria vide uomini e donne lasciare il Sud per andare a lavorare al Nord, lontano dalla propria terra, da cui spesso si sentirono respinti e inascoltati (Terra ca nun senti è una delle colonne sonore).

Durante il ventennio 1950-1970 la meta privilegiata fu Torino. In questo contesto generale s’inscrivono le vicende di Strani-ieri, un mélange di reali testimonianze

fornite da chi ancora conserva memoria di quei momenti. A esordire sono le donne, che dall’alto di un monte urlano la disperazione e il nome del proprio marito, emigrato a Torino per lavoro. Consce della vanità di quel gesto,

desiderano illudersi che i mariti possano a loro volta rispondere… Ci troviamo all’improvviso su uno scomodo vagone del “treno del sole” diretto a

Torino. Tre uomini (un napoletano, un siciliano e un pugliese) e tre donne (tra cui vi è anche una veneziana sradicata) si trovano gomito a gomito, fianco a fianco in un’avventura

dai contorni ancora incerti. Le difficoltà si presentano ancor prima di giungere a destinazione: non è semplice ammettere che a Torino non si va per “un gianduiotto e

un caffettino”, come dirà uno dei compagni di viaggio, ma per bisogno, per un bisogno che accomuna tutti: il lavoro. Il viaggio è disagio, incertezza, bizzarria: i viaggiatori sono sbattuti qua e là dal

movimento del treno, metafora dei pensieri che li agita continuamente. L’arrivo a Torino è accompagnato dai turbamenti dovuti ai ritmi di una città sempre in

corsa e dall’entusiasmo incredulo dei personaggi che, storditi da sentimenti contrastanti, intonano: “Torino, torino che bella città! Si mangia, si beve e bene si sta!”

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Le prime difficoltà non si fanno aspettare: la ricerca della casa non è cosa semplice

per i nostri sette, che ricevono sempre la solita, netta risposta: “NON SI AFFITTA A MERIDIONALI!”.

Un’aspra ironia investe la descrizione di una ricerca disperata che spesso si risolve con strambi éscamotages: il siciliano riesce a prendere alloggio dopo aver persuaso la

padrona di casa di esser lì per motivi di studio e non di lavoro. Più agevole è invece l’accesso al lavoro, soprattutto alle mansioni più dure e pericolose della fabbrica. L’entusiasmo dei primi giorni di lavoro si smorza fino corrodere animo e

corpo dei nostri sette. Dietro l’ampleur della FIAT si cela un mondo di lavoratori estenuati e meccanizzati.

La catena di montaggio umano compone una robotica coreografia, scandita da ritmi martellanti, che mima una situazione già tipizzata e conosciuta, senz’altro memore delle più note scene di Tempi Moderni.

Pian piano questi nuovi operai percepiscono il disprezzo dei torinesi, che evitano i “napuli” come la peste. Man mano che il fenomeno dell’immigrazione prende piede, la

città cerca di porvi un freno: l’istruzione, la casa e in seguito anche il lavoro sono da ostacolo all’integrazione. Del resto bisogna stare in guardia, lo dice anche “La Stampa” che una moltitudine di persone sale su con le carovane!

Col tempo la brigata si abitua alla nuova realtà perché ha dato loro lavoro, amicizia, amore; ma vi è anche chi rimpiange la vita di prima, come il napoletano, che non si

sente amato dai torinesi e non accetta il cielo di quella città, sempre così bigio. Innumerevoli clichés, del resto, si sovrappongono nella definizione di sud e di abitante meridionale (così come vengono formulati dai torinesi) e nella descrizione di Torino e

dei suoi abitanti (magri, smunti, tristi). I momenti più tragici della rappresentazione sono improvvisamente interrotti da

exploits di euforia e pazzia robotica, musica e balli, perché del resto la spirale degli eventi di quegli anni abbraccia la gioia e la morte, il dolore e la vita. Così si assiste all’impazzita girandola di eventi che travolge i nostri migranti: le serate di festa in città

e in paese, i riti ancestrali, il matrimonio tra migranti; la morte di uno dei protagonisti; la solitudine delle donne; la nascita dei bambini, frutto dell’unione tra

due migranti. Cade sotto gli occhi degli spettatori un’incredibile miscela di ironia e malinconia, di situazioni e linguaggi: ma cos’è l’immigrazione se non un mélange, un fecondo

incontro? Torino non ha pur tratto vantaggio da questo incontro-scontro di mentalità, culture, linguaggi?

È uno spettacolo ricco di spunti di riflessioni, di ricordi, di oggetti, di istanti di vita che non sono del resto così estranei al presente. L’eccellente compagnia teatrale è

esplosiva, energica; la storia va oltre lo stanco sentimentalismo che così spesso accompagna le storie di emigrazione, esaltando al contrario aspetti come il realismo, il dinamismo, il coraggio, oscillanti tra la vita e la morte, la gioia e il dolore.

vincenza accardi

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GYMNASIUM

Il centro Elsa Morante sta ospitando la mostra di Mauro Bellucci che coniuga arte e

sport. Si tratta di un ristretto nucleo di opere: 19 tele e un obelisco che colgono un'istantanea degli sportivi colti nella loro pose più classiche. Sulla tela, presi in

posizioni piuttosto plastiche, possiamo osservare giocatori di football americano e schermidori che vengono rappresentati in maniera fluida e sinuosa sulla tela, mentre compiono un'azione di placcaggio gli uni e una stoccata gli altri. Tutto nelle cromie del

bianco, nero e grigio, come se si volesse rappresentare solo l'essenziale e il visibile, lasciando all'immaginazione il resto. Il tutto è reso su un fondo bianco che quasi si

fonde con lo sportivo raffigurato sulla tela. Rilevante, quindi, il tocco di contrapposizione di cromie che ricordano le vecchie fotografie in bianco e nero. Le dimensioni delle opere sono ridotte, quasi a mostrare una natura umana, più vicina

all’osservante. I volti sono celati dalle maschere protettive, nascosti all'osservatore, una scelta voluta quella dell'artista che intende mostrare solo l'aspetto tecnico, lo

sport nella sua essenza, lasciando solo all'immaginazione la figura dell'uomo, dello sportivo che sceglie di non mostrare il suo volto e di non farsi riconoscere da chi si trova al di fuori. Da qui anche la scelta di intitolare la mostra Gymnasium, ovvero

l'allenamento e l'esercizio fisico. Attraverso il colore steso a pennellate fluide e corpose il Bellucci ci mostra la preparazione a quello che sarà poi l'atto agonistico e la

sfida finale frutto del duro allenamento. Mauro Bellucci ha frequentato la Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti e la Sezione Pittura

della Scuola San Giacomo del Comune di Roma con relativo attestato. Ha conseguito il Diploma di scuola superiore di 2° grado e frequentato la facoltà di Lettere indirizzo Storia dell’Arte.

maria merola

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SATURNO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL

Il “Saturno International Film Festival”, giunto ormai alla settima edizione, ha tra i suoi intenti fondamentali quello di evidenziare l’intenso rapporto tra cinema e storia,

focalizzando l’attenzione sulla capacità delle pellicole di fungere da strumento di memoria e di ricostruzione delle identità culturali. Quest’anno il filo conduttore della manifestazione è la musica, che ci aiuta a ripercorrere la storia italiana dagli anni ’50

agli anni ’80 attraverso i videoclip, le immagini della televisione e i cosiddetti “musicarelli”, cioè gli arcinoti film degli anni ’60 basati sui successi musicali del

periodo, che occuperanno le intere mattinate del 14, 15, 16 dicembre. Ma a questo fenomeno è dedicata addirittura un’intera giornata, quella del 15 dicembre , durante la quale vi sarà la proiezione di vari spezzoni di “musicarelli”,

seguita da un incontro con il pubblico, a cui parteciperanno tra gli altri i cantanti Dino e Little Tony.

Il 14 dicembre invece è incentrato sul tema “ La musica napoletana tra radio e cinema” con un incontro aperto a tutti che vede tra i partecipanti Carlo Luglio, regista di “Radici”, film che sarà presentato proprio in questa sede, insieme al documentario

musicale “Passione”, girato da John Turturro. Venerdì 16 è invece la volta della proiezione dell’opera rock “Il poliedro di Leonardo”,

film girato nel 1989 con la regia di Filippo Mileto e Vittorio Giacci e con gli effetti speciali di Vittorio Rambaldi (questi ultimi due saranno presenti al dibattito successivo alla proiezione del film insieme ad altri protagonisti del progetto).

Nella giornata conclusiva di sabato 17 dicembre il tema della musica sarà affiancato da altri argomenti. In primis, la mattinata si aprirà con la conferenza del ricercatore

Ornello Tofani dal titolo “La città con mura poligonali. Nuove scoperte”, con proiezioni di immagini animate che illustreranno le sue ricerche sulle mura di Alatri. In seguito verrà offerto un tributo a Tina Lattanzi (la grande doppiatrice ciociara che per

trent’anni ha prestato la sua voce a dive hollywoodiane quali Greta Garbo e Marlene Dietrich), che sarà presente per un incontro – dibattito che avverrà alle 15,30 dello

stesso giorno. Infine, l’argomento più volte affrontato nelle varie edizioni del “Saturno International Film Festival” e riproposto anche quest’anno, è quello della legalità. Se ne inizia a parlare già nella prima giornata di festival, quella del 13 dicembre, con

un dibattito sulle ecomafie, che prevede la partecipazione di diverse associazioni (“Libera” di don Ciotti, “Libera” di Casal di Principe, “Le Terre di Don Peppe Diana”di

Casal di Principe, “Libera” di Frosinone) e di Don Luigi Merola (che riceverà un premio dal Comune di Frosinone) seguito dalla proiezione di due film documentari, “ La

pedata di Dio” e “ Biùtiful cauntri”.

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Sabato invece, sarà presentato il trailer del film “ L’industriale” di Giovanni Montaldo

(tra l’altro, presidente del festival) con Carolina Crescentini e Pierfrancesco Favino, cui seguirà un dibattito sui temi del film e l’incontro col regista, accompagnato dalla

consegna del premio a lui assegnato dall’Amministrazione Provinciale di Frosinone. Il 7 dicembre, presso la Sala del Consiglio della Provincia di Frosinone si è tenuta la

presentazione del programma, con la partecipazione dei rappresentanti dell’associazione Agenzia del Tempo che organizza l’evento, la coordinatrice Mariella Li Sacchi, il direttore artistico Ernesto G. Laura, i rappresentanti delle associazioni

coinvolte e i rappresentanti istituzionali che hanno finanziato l’evento, Antonio Abbate, assessore alla cultura della Provincia di Frosinone e Angelo Pizzutelli, omologo del

Comune di Frosinone. Il festival è finanziato, oltre che dalla Provincia e dal Comune di Frosinone, dalla Regione Lazio – Assessorato alla Cultura, dal Ministero dei Beni e Attività Culturali e

da Cinecittà Holding e si svolge, come è stato anche negli anni precedenti, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.

adriana farina

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OMBRE DI GUERRA

Pillole di follia umana in 90 scatti, vecchie immagini per nuove speranze

Apre oggi al pubblico la mostra basata su un progetto Contrasto, nato su proposta

della Fondazione Veronesi nell’ambito delle iniziative legate alla terza Conferenza internazionale Science for Peace e promossa da

Roma Capitale, Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico – Sovraintendenza ai

Beni Culturali, a cura di Alessandra Mauro e Denis Curtis dell’Agenzia Contrasto. La mostra è dedicata a Tim Hetheringtone e Chris

Hondros, fotoreporter che lo scorso aprile sono rimasti vittime del conflitto libico, professionisti

“deceduti in servizio” così come molti dei loro colleghi le cui opere sono oggi esposte.

Le immagini proposte vanno dalla Guerra Civile Spagnola del 1936 ai recenti accadimenti in Afghanistan del 2007, raccogliendo gli

avvenimenti più famosi e quelli meno noti. La scelta del periodo considerato non è casuale: con la Guerra Civile Spagnola, infatti, nasce un nuovo modo di fare fotogiornalismo, grazie ad apparecchi più compatti e maneggevoli che permisero di

seguire da vicino i momenti più critici della storia umana; terminando con l’Afghanistan del 2007, invece, si è voluta lasciare allo spettatore la possibilità di

riflettere su eventi recenti ma non odierni. Le Ombre di Guerra non sono solamente nelle armi, nei combattenti e nei morti, ma anche nelle conseguenze (sociali, psicologiche, ambientali…) che ogni conflitto porta con sé, nelle persone che

coinvolge. Civili, spesso donne e bambini, vengono coinvolti nelle lotte, come alcune immagini testimoniano. Ed è proprio di una donna -Gerda Taro, amica di Robert Capa

e sua collega nel conflitto spagnolo- la prima foto della mostra. Uno sguardo al femminile sul mondo della guerra che ritroviamo in poche ma significative occasioni nel corso della mostra.

Ogni scena ha il proprio valore documentale e simbolico, denso di significati ed

emozioni. Non è difficile ritrovare nelle foto pose plastiche che richiamino le scene tipiche delle rappresentazioni sacre. Tali similitudini nella composizione delle immagini

fanno riflettere sul dolore come esperienza universale, che prescinde da ogni nazionalità, credo politico e religioso. In questo contesto ci si rende conto di quanto le icone religiose di sofferenza, note ma apparentemente distanti, siano molto più reali e

attuali di quanto si possa credere. Una mostra che, per la durezza di alcune immagini, richiede una grande forza, specie se la si vuole vivere pienamente e non da spettatore

distratto e superficiale. Nonostante la tv ci abbia abituato a sequenze cruente, la fotografia ribadisce la sua capacità di cogliere l’attimo, di fissare un’impressione. La realtà catturata in una frazione di secondo diviene, così, emozione eterna.

Un’emozione “forte” creata dall’orrore per la guerra che, secondo il Prof. Umberto Veronesi, può e deve generare amore per la pace. Istantanee che possano essere un

monito per i giovani nello scegliere da che parte stare quando si presentino situazioni critiche, come auspica il Sindaco Alemanno. Un messaggio di pace da un luogo importante e simbolico dedicato proprio alla

promozione del dialogo interreligioso e della concordia tra i popoli.

fabiola scarizza

© Henri Bureau/Sygma

L’incendio dei pozzi petroliferi. Abadan, Iran, 1980

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RINALDO IN CAMPO

“Bianca, rossa e verde la bandiera tricolor”: Natale patriottico al Sistina.

Lo spettacolo che il teatro Sistina propone per le vacanze natalizie di quest'anno chiude il ciclo di celebrazioni che durante il 2011 si sono tenute per i 150 anni

dell'Unità d'Italia. Rinaldo in campo infatti è una commedia musicale che porta in scena una storia d'amore tra un bandito e una baronessina, ambientata nel 1860 nella Sicilia borbonica liberata dai garibaldini.

La tematica è certamente significativa: Rinaldo Dragonera, una sorta di Robin Hood

siculo che ruba ai ricchi per dare ai poveri, si innamora di Angelica, nobildonna che sostiene la causa di Garibaldi, la quale convince Rinaldo ad abbandonare la vita di bandito per unirsi ai rivoltosi e liberare la sua terra dall'oppressione dei Borboni.

Ancor più forte è il legame con l'Unità d'Italia se si pensa che la prima di questo

spettacolo fu proprio in occasione del centenario, ed ebbe come protagonisti artisti illustri della cultura italiana: Domenico Modugno, Delia Scala, Paolo Panelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Autori della commedia i celebri Pietro Garinei e Sandro

Giovannini, mentre le musiche furono composte dallo stesso Modugno. Nel 1961 lo spettacolo ebbe un gran successo e la prima si tenne al Teatro Alfieri di Torino, città

cardine dei processi risorgimentali. Una seconda edizione fu ripresa nel 1987 con attori altrettanto validi, tra i quali

Massimo Ranieri, Laura Saraceni, Rodolfo Laganà (trait d'union con l'edizione del 2011), Luigi Maria Burruano e Giacomo Civiletti.

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All'incontro con i giornalisti, tenutosi ieri presso il teatro, il regista Massimo Romeo Piparo ha specificato che non si tratta di “rimessa in scena” o di “riedizione” bensì di

una “reinterpretazione”: “Naturalmente la Sicilia di allora è molto cambiata. Se fu giusto proporla in un certo modo 50 anni fa oggi occorre darle un volto diverso, che

conservi gli antichi sapori ma aggiunga il segno di tante mutazioni. Una Sicilia viva.”. Piparo è intervenuto soprattuto per dare un nuovo ritmo allo spettacolo, capace di coinvolgere e divertire lo spettatore odierno: “Non ho tolto nulla, ma ho ridistribuito le

cose in modo diverso”.

Il Rinaldo in campo che viene presentato al Sistina avrà anche un legame forte con l'attualità, non solo per l'anniversario nazionale tanto festeggiato quest'anno, ma proprio in relazione al delicato momento storico che l'Italia sta vivendo: proiettando

sullo sfondo articoli di cronaca di questi ultimi mesi, Piparo porterà l'attenzione dello spettatore sulla distanza che separa l'Italia di ieri da quella di oggi.

La commedia musicale vedrà come interpreti principali Serena Autieri (Angelica), Fabio Troiano (Rinaldo), Rodolfo Laganà (Chiericuzzo), Gianni Ferreri (Barone di

Castrovillari), Giuseppe Sorge (Facciesantu), Rosario Terranova (Prorunasu) e Paride Acacia (cantastorie siciliano). Agli attori si unirà un gruppo di solisti ed un corpo di

ballo. Le coreografie sono di Roberto Croce, le scenografie sono affidate a Giancarlo Muselli, mentre i costumi sono di Santuzza Croce.

sara iacobitti

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ROME BURLESQUE FESTIVAL

Quando l'arte della seduzione diventa spettacolo. Al Micca Club il Rome Burlesque Festival .

Giunge alla settima edizione il Festival del Burlesque della capitale, con quattro giorni dedicati alle regine della sensualità, dal 15 al 18 dicembre al Micca Club. Ospiti

internazionali, debuttanti dall'Accademia d'Arte del Burlesque, artisti dal Velvet Cabaret e musica dal vivo sono gli ingredienti di questo “spettacolo spettacolare”. Il tutto condito dallo “spumeggiante” maestro di cerimonie, nonché direttore artistico,

Alessandro Casella.

Ieri la prima serata dedicata alle artiste che si sono esibite per la prima volta dopo la preparazione in Accademia, fondata e diretta dallo stesso Casella. Tre performer molto dotate che, nonostante un po' di emozione, hanno tenuto il palco con maestria ed

eleganza, ammaliando il pubblico con movenze provocanti. La prima è stata Candy Rose, che si è esibita in numeri classici, vestendo le mise di

una sexy cameriera e di una accattivante sposina: figura sinuosa e leggiadra, ha sfoggiato nei passi di danza sobrietà e stile. Insés Boom Boom, prorompente ed esplosiva soubrette, ha impersonato una spietata

lady-killer, con tanto di pistola e sparo tra il pubblico, e una affascinante signora d'élite, accompagnando le performance con la bella interpretazione di due celeberrimi

brani, Feeling Good e Minnie the Moocher. Ultima artista, l'impetuosa e passionale Sophie d'Ishtar, che ha giocato sul palco travestita da gentleman nella prima uscita, e poi da esotica danzatrice del ventre:

eccellente ballerina, ha riservato anche una spaccata e qualche numero da circense.

Special guest della serata Mr. Joe Black, cantante e cabarettista londinese che ha divertito gli spettatori con rivisitazioni parodiche, dark e un po' decadenti di alcuni successi molto noti, tra cui Baby one more time e You are my sunshine.

L'intera serata è stata accompagnata dai Velvettoni (clarinetto, sax, contrabbasso, batteria e piano), band stabile del Velvet Cabaret al Micca, è guidata da Edoardo

Simeone, pianista e arrangiatore dei brani. A presentare la serata Alessandro Casella, punto di riferimento del Burlesque italiano, e Dixie Ramone, la principale artista di Burlesque della penisola, che si esibirà nel

Festival le ultime due sere.

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Rispetto al contesto in cui è nato, certamente il Burlesque oggi ha sul pubblico un

altro effetto: basti pensare che i fischi, che un tempo si sprecavano, adesso si affacciano timidi e non senza qualche incitamento dai presentatori. Non si tratta più

tanto di sbirciare da voyeur il proibito, quanto più di godere di uno spettacolo che racchiude in sé molti aspetti (danza, recitazione, canto) e di immergersi nelle

atmosfere speziate che accompagnano queste performance. Insomma rapiti dalla sensualità ma soprattutto dal talento delle artiste.

sara iacobitti

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LA TRILOGIA DEGLI OCCHIALI

Dopo l’appuntamento di marzo, torna in scena al Teatro Palladium il teatro fisico di

uno dei migliori talenti nel panorama del teatro italiano, Emma Dante.

Sotto il titolo de La trilogia degli occhiali vengono presentate tre pièces indipendenti, ma unite dalla presenza degli occhiali, di cui i protagonisti non sono semplicemente dotati per necessità. Gli occhiali sono talvolta inforcati, talaltra dismessi, avvicinati agli

occhi, allontanati, in modo tale da accentuarne volta per volta il significato, nonché il soggettivo bisogno che spinge all’utilizzo di quello strumento. Del resto, questo

oggetto ha da sempre catturato l’attenzione dei letterati, dalla curiosa immagine offerta dalla poesia barocca (aggettivo che ben s’addice allo stesso teatro della Dante), all’idea che ne dà la Ortese nel romanzo Il mare non bagna Napoli, di cui

senz’altro Emma Dante serba memoria. La prima piéce della trilogia, ovvero la più estesa, intitolata Acquasanta, inscena il

dramma tutto personale di un uomo di cui conosciamo solo il soprannome, o’ Spicchiato (Carmine Maringola), dovuto al riflesso provocato dai suoi occhiali, di cui si serve per scrutare il reale, che non è oggettivo, ma conforme a sé, ai propri

desideri. Gli occhiali sono il simbolo della sua “intelligenza sovrana”, arriverà ad affermare il protagonista, poiché gli consentono di modificare il mondo secondo la

propria volontà. Al centro della rappresentazione vi è la solitudine di un uomo che aveva lasciato la terra per abbandonarsi nelle braccia del grande mare, nonostante tutte le angherie a

cui un semplice mezzo mozzo poteva senz’altro andare incontro. La sua passione per il mare, dichiarato senza inibizioni, lo renderà in definitiva oggetto di derisione da parte

della ciurma. O’ Spicchiato è ora sulla terraferma, che egli stesso definisce un’illusione – ottica, aggiungerei –, dopo anni vissuti sul mare, al cui ricordo rimane letteralmente

attraccato per mezzo delle funi collegate a tre ancore. È ossessionato dalla sua vita passata come mezzo mozzo, di cui rivive le esperienze emotive e corporee: la potenza

dell’interpretazione di Carmine Maringola si spinge oltre ogni barriera imposta dalla finzione, tanto da riuscire a consegnarsi all’animo e alla pelle dello spettatore. L’attore è quasi un saltimbanco, un acrobata della recitazione: recita contestualmente la parte

del protagonista, del secondo mozzo e del capitano, da cui riceverà la finale ingiunzione di lasciare la nave.

La forza e la profondità del suo canto sciolgono ogni residuo di realtà, conducendolo in un altro universo e intensificando il suo rapporto con quel mare, carico di suggestioni

leopardiane, che per lui è un infinito non soltanto spaziale. Il secondo segmento di questo trittico, Il castello della Zisa, porta sulla scena due donne (Claudia Benassi e Stéfanie Taillandier) animate da movimenti e bisbigli

così rapidi ed insensati da apparire schizofreniche. Queste sono impegnate a prendersi

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cura di Nicola (Onofrio Zummo) che, pur avendo gli occhi aperti, non è in grado di

vedere ed è in stato catatonico da quando era bambino, ovvero da quando fu portato via dalla zia Marisa, con cui viveva nel quartiere palermitano della Zisa.

Le due donne, ad un certo punto, gli fanno indossare un paio occhiali. Dopo una serie di stimoli volti a far uscire dallo stato di immobilità a cui Nicola sembrava condannato,

questi riprende gradualmente a muoversi, fino a giungere ad uno stadio opposto di incontrollata esagitazione. Il silenzio è improvvisamente rotto: Nicola racconta rapidamente ma con passione il

suo passato e la sua malinconia dovuta alla lontananza dalla zia e dal Castello della Zisa, così alto da sfiorare la luna, dove da bambino aveva cacciato i diavoli, e da cui

era ben presto stato allontanato. Gli occhiali sono anche qui un oscuro simbolo di alienazione, disinteresse e rifiuto del reale, per chi ha subito l’annientamento della spirito e del corpo e conosce la realtà solo grazie ai frammenti mitici di un passato

distrutto. L’ultima piéce, Ballarini, ha come protagonista una coppia di anziani (Elena Borgogni

e Sabino Civilleri) che, legati da un sentimento antico, si stringono in un abbraccio per abbandonarsi in un accorato lento. Segue poi la dolce e pacata euforia per l’avvento di un nuovo anno: l’orologio da taschino di lui si carica di un duplice

significato, perché la malinconia per l’avanzare del tempo si mescola all’allegria per l’arrivo di un nuovo anno da trascorrere insieme. Da un baule, l’anziana donna estrae

attimi di un passato nel quale, abbandonata la maschera dell’anzianità, entrambi si immergono ripercorrendone i momenti salienti. Gli eventi rievocati nella rappresentazione scenica si susseguono in modo disordinato

(il matrimonio, la nascita dei figli, la gravidanza, la passione, il primo incontro): tale è, del resto, l’azione di recupero di attimi impressi nella memoria.

In Ballarini gli occhiali vengono inforcati solo nella giovinezza, quando ancora era tutto da vedere e si era per così dire affetti da una particolare miopia, ovvero l’impossibilità di immaginare il futuro, che si vive solo durante la piena giovinezza o nei momenti di

intensa felicità. Uno scroscio di applauso fa da cornice agli spettacoli de La trilogia degli occhiali, che

vanta la presenza di artisti a tutto tondo sia sul palcoscenico che dietro le quinte. vincenza accardi

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IL RINASCIMENTO A ROMA NEL SEGNO DI MICHELANGELO E RAFFAELLO

La grandezza del Cinquecento romano narrata attraverso le opere degli stessi protagonisti, in un’atmosfera suggestiva e capace di coinvolgere il visitatore a 360°.

Sono più di 180 le opere esposte al Museo Fondazione Roma per descrivere e mettere

in luce il periodo che va dal pontificato di Giulio II della Rovere ( 1503 __ 1513 ) alla morte di Michelangelo, avvenuta nel 1564, un anno dopo la chiusura del Concilio di Trento: evento, questo, che modificò il clima sociale, culturale e artistico di tutta

Europa, immersa ormai nello spirito controriformistico. Ma andiamo per ordine, ripercorrendo le sette sezioni in cui è articolata l’esposizione,

curata da Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli e organizzata dalla “Fondazione Roma __ Arte __ Musei” con “ Arthemisia Group”, in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per

il Polo Museale della Città di Roma. La prima parte è intitolata “ La Roma di Giulio II e Leone X” e illustra il periodo

compreso tra il pontificato di Giulio II della Rovere ( 1503 __ 1513) e quello di Leone X de’ Medici (1513 __ 1521) , uno dei più straordinari di tutta la storia dell’arte: è proprio in questo ventennio che nascono capolavori come la Cappella Sistina, le

Stanze di Raffaello in Vaticano e la Loggia di Psiche alla Farnesina. In mostra troviamo capolavori quali il celebre Autoritratto, nonché il Ritratto di Fedra Inghirami e il

Ritratto del cardinal Alessandro Farnese (il futuro Paolo III) del “divino” Raffaello Sanzio. Dello stesso artista balza agli occhi l’affresco su intonaco staccato e

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trasportato su pannello raffigurante un Putto, proveniente dall’Accademia di San Luca.

Assolutamente suggestivo è anche lo Studio per una figura maschile nuda seduta di Michelangelo, disegno che è da ricondurre alla grande impresa della volta della

Sistina. Nella stessa sezione è inoltre possibile ammirare opere di artisti del calibro di Lorenzo Lotto ( di cui è visibile il famoso San Girolamo), Perin del Vaga ( la cui Sacra

Famiglia è stata scelta per rappresentare la mostra), Giulio Romano, Sebastiano del Piombo, Baldassarre Peruzzi, Parmigianino. La seconda sezione è invece dedicata al tema “Il Rinascimento e il rapporto con

l’antico” e si propone di mettere in luce il profondo legame che la città di Roma intesse con la classicità, legame inscindibile che la accompagna in ogni epoca. A

testimonianza della grande importanza che assumevano le vestigia antiche nella cultura degli artisti rinascimentali sono presentate in mostra mirabili imitazioni, come quella dello Spinario ad opera di Guglielmo della Porta o quella del Laocoonte di Pietro

Simoni da Barga. Degni di attenzione sono anche la serie di incisioni del Caraglio su disegni di Perin del Vaga riguardanti gli Amori degli dei e il disegno di Giulio Romano

con gli Amanti. La terza parte, “ La Riforma di Lutero e il Sacco di Roma” , è incentrata sul tragico evento del Sacco messo in atto dai lanzichenecchi di Carlo V, nel fatidico giorno

del 5 maggio 1527. Era allora papa Clemente VII ( 1523 __ 1534), che troviamo qui ritratto da Sebastiano del Piombo in due versioni, una del 1526, l’altra del 1531/32. La

particolarità è che in quella dipinta precedentamente il papa è rappresentato imberbe, mentre nella versione successiva esso ha una lunga barba, fattasi crescere come voto dopo il nefasto evento.

La quarta, dal nome “I fasti farnesiani”, ripercorre gli anni del pontificato di Paolo III Farnese ( 1534 __ 1549 ), sotto cui avviene la rinascita della città dopo il Sacco.

Proprio in questi anni Michelangelo dipinge il Giudizio Universale della Sistina, opera di cui viene qui presentata una copia di Marcello Venusti. Del Buonarroti sono esposti l’Apollo – Davide del Museo del Bargello, il Crocifisso di Oxford e la Pietà di Buffalo (

queste ultime due attribuite recentemente al grande artista ma non in maniera unanime ). La suddetta Pietà di Buffalo è stata soggetta ultimamente ad un restauro,

documentato da un video visibile durante il percorso espositivo, che cattura l’attenzione con la ricchezza di informazioni e la precisione dei lavori illustrati. La successiva area è dedicata a “ La Basilica di San Pietro” ed è volta a

documentare la più grande impresa architettonica romana (a cui lavorarono artisti come Raffaello, Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo, Pirro Ligorio e il

Vignola) tramite disegni, piante, libri a stampa, medaglie e un grande modello ligneo dell’abside.

Facendo un piccolo salto in avanti, la settima sezione si occupa de “Gli arredi” presentando oggetti dell’epoca di splendida manifattura, come piatti da portata, maioliche, elmi e le bellissime mattonelle pavimentali delle Logge Vaticane, disegnate

da Raffaello e realizzate da Luca della Robbia. Ho voluto concludere con la sesta sezione, “La Maniera a Roma a metà secolo”

perché essa rappresenta il completamento del percorso finora seguito, presentando le opere di quegli artisti che hanno assorbito e rielaborato gli insegnamenti di Michelangelo e Raffaello, arrivando a nuove soluzioni. Degli esempi significativi

possono essere il Torchio mistico di Marco Pino, ispirato alla Trasfigurazione raffaellesca, e le due Pietà di Jacopino del Conte e Taddeo Zuccari, che riprendono un

tema tipicamente michelangiolesco. Uno dei protagonisti di questo periodo è Federico Zuccari ( artista che fonderà nel 1593 l’Accademia di San Luca) di cui sono esposte diverse opere, tra cui il Ritratto di Michelangelo come Mosè e il Ritratto di Raffaello

come Isaia, che mostrano quanto i due grandi maestri fossero ancora tenuti in gran conto.

La mostra si conclude con una frase del Vasari, che facendo riferimento alla Roma di

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Giulio III ( 1550 - 1555), scrive nelle sue celebri Vite ( Edizione Giuntina, Firenze,

1568): “Io già mi rallegro di vedere queste arti arrivate nel suo tempo al supremo grado della

sua perfezione, e Roma ornata di tanti e sì nobili artefici … “.

Un’ultima informazione, senza dubbio degna di nota, riguarda il contributo dato a

questa esposizione dall’ENEA: grazie alla tecnica laser dell’ITR 100 lo spettatore può ammirare in sede espositiva la Loggia di Amore e Psiche alla Farnesina e la Cappella Sistina in 3D, semplicemente indossando degli occhiali e facendo volare la fantasia.

adriana farina

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CROSSING GROOVE

Funky e mare all'Archivio 14 di Roma.

Ieri sera nell'intimo ed accogliente spazio culturale dell'Archivio 14 si sono esibiti per

la data prenatalizia i CrosSing Groove. La band funky e soul ha dato vita ad un concerto pieno di energia ed intensità, trascinando il pubblico con ritmi dinamici ed incalzanti.

Il repertorio è stato ampio e ha permesso di ascoltare brani celebri presi a prestito da grandi artisti: The Letter di Joe Cocker, You're No Good di Linda Ronstadt, Why can't

we live together di Timmy Thomas, ma anche Ain't No Sunshine di Bill Withers e You've Got The Love di Chaka Khan sono solo alcuni dei pezzi eseguiti durante la performance. Un tuffo nell'adrenalina degli anni Settanta, proponendo anche Superfly

di Curtis Mayfield, colonna sonora dell'omonimo film di Gordon Parks jr (titolo principale del Blaxploitation) e Shining Star dello storico gruppo Earth, Wind and Fire.

Proprio il maggior successo di questi ultimi Let's Groove dà il nome ai CrosSing Groove, formati nel 2009, che evoca la carica ritmica da cui si viene spinti a muoversi e a ballare. I componenti del gruppo sono: Giorgio Amendolara alle tastiere, Gianni

Del Popolo alla chitarra, alla batteria Alessandro Gigli, Francesco Lionetti al basso e le due voci di Mario D'Alessandri e di Rosa Messina. Ad intensificare lo spessore ritmico

lo special guest della serata il percussionista Massimiliano Di Loreto. Linee vocali graffianti, assoli di chitarra wah wah e soprattutto di ritmi sincopati e taglienti sono stati gli ingredienti principali di un concerto che è riuscito a fine serata a

coinvolgere gli spettatori che all'inizio erano sembrati un po' restii alle danze.

All'insegna del ritmo anche la mostra di Maria Cristina Fasulo intitolata Rit-mare, allestita sempre presso l'Archivio 14 dallo scorso 30 novembre. La mostra di opere grafiche e pittoriche si ispira appunto al ritmo del mare costante e perpetuo: “La

nostra vita” dice la Fasulo “è un ritmo che varia con il variare delle sensazioni, attimo dopo attimo per tutta la vita”. Vari contrasti danno il ritmo all'allestimento delle opere:

bianco/nero-colore, dentro/fuori, calmo/agitato, sereno/inquieto spingono l'osservatore attraverso il ritmo prodotto dall'alternanza degli opposti.

sara iacobitti

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CARTONI SOTTO L'ALBERO

I giorni 17 e 18 dicembre si è tenuto l’evento dal titolo Cartoni sotto l’albero, organizzato dall’associazione Satyrnet (Gianluca Falletta) in collaborazione con

Zetema, Parcosplay (Vincenzo D’Amico) Consorzio Unitario Torrino Mezzocammino, nonché il Centro culturale Elsa Morante che ha ospitato l’evento. Ma di cosa si tratta

precisamente? Perché questo titolo? Non si tratta di una carnevalata, come tanti possono pensare. Si chiama cosplay ossia costume player e sta prendendo piede in Italia da alcuni anni ormai. E’ un fenomeno che proviene dal Giappone e interessa

fasce d’età disparate, non c’è un limite alla fantasia. Il Centro Elsa Morante, che sorge nel quartiere di Roma dedicato al fumetto italiano, si è fatto quindi teatro di evento

coloratissimo aperto ad adulti e bambini e mai luogo è stato più adatto per ospitare eventi di questo genere. Il tutto si è sviluppato su tre padiglioni, il teatro che ha accolto un’ospite d’eccezione e la gara cosplay della domenica, ovvero una sorta di

sfilata/competizione tra giovani cosplayer appassionati di fumetti e videogiochi, uno dedicato agli standisti che vendevano gadget di fumetti e manga, anche realizzati a

mano, e un padiglione dedicato ai videogiochi e giochi da tavolo. Nonostante il tempo non sia stato molto clemente l’evento è riuscito ad attirare numerosissime persone tra residenti e cosplayers. Non sono mancati regali, sorprese, Babbi Natale un po’ fuori

dal comune, cavalieri Yedi della saga “Guerre Stellari” e una meravigliosa Cristina D’Avena, in forma e spirito sempre smagliante. Cristina si è offerta per autografi e

l’incontro con fan grandi e piccini ed è stata intervistata dal bravissimo e giovanissimo giornalista Simone Toscano. Grazie a questa intervista abbiamo potuto scoprire come è nata la curiosa collaborazione con i Gem Boy e come Cristina sia finita a cantare

sigle dei cartoni animati: in poche parole un racconto della sua carriera artistica. Un altro importante ospite è stato Roberto Recchioni, graffiante fumettista satirico

contemporaneo.

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Da non dimenticare è che questo è stato un evento significativo, non solo perché ha

permesso a tutti di ritornare bambini e di dimenticare i problemi del vivere quotidiano, ma anche perché ha dato la possibilità di far conoscere e crescere il nuovo quartiere di

Torrino Mezzocammino, che si avvia verso un futuro prospero di eventi culturali ed artistici, complici personaggi di rilievo quali Lorenzo Maria Sturlese, Presidente della

Commissione problemi sociali e associazionismo, il Dott. Maurizio Nicastro presidente del consorzio unitario Torrino Mezzocammino, il presidente del Municipio XII Pasquale Calzetta e l’architetto Marco Strickner. Infatti, durante l’evento è stato possibile

mettere in contatto gli abitanti del Municipio XII e il quartiere Torrino Mezzocammino, le cui vie sono dedicate a numerosi fumettisti. Insomma è tutto un incontro di

personalità disparate e con interessi diversi che è stato però in grado di portare a un risultato senza ombra di dubbio ottimo. Si spera perciò di vedere realizzati altri eventi di questo tipo e perché no, ospiti di nuovo del Centro Culturale Elsa Morante che oltre

a calzare proprio a pennello grazie alla sua location è dotato di spazi suggestivi per scattare fotografie e fare riprese.

maria merola

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BEYOND THE EAST

Una moltitudine di isole, una pluralità di etnie, eppure un unico paese, che finalmente

riesce a sollevarsi da una storia travagliata e a occupare il proprio posto nella società contemporanea. È questo forse il principale successo di Beyond the East, la mostra

che svela l'anima dell'Indonesia di oggi.

Astari Rashid – Every Wall is a Door, 2011, installation, mixed media 346 x 233 x 83 cm – Museo MACRO Testaccio, Roma – courtesy of Museo MACRO Testaccio

Ospitata nel moderno contesto del MACRO Testaccio e curata dalla storica d'arte Dominique Lora, la mostra si presenta come una finestra aperta sulla realtà attuale dell'Indonesia, proponendo un confronto con l'altro e l'altrove, ovvero con un Oriente

su cui raramente cade lo sguardo del mondo, tranne quando drammatici fatti di cronaca, come il tragico tsunami del 2004, vanno a scuotere la sensibilità globale.

Con una storia segnata da influenze straniere e da tensioni politiche, sociali, etniche e religiose, non è stato certo facile per il popolo indonesiano trovare la propria identità e il proprio posto nel mondo. Ma è proprio questa faticosa ricerca il motore che anima le

opere dei quindici artisti protagonisti della mostra. Consapevoli di trovarsi nel pieno di una fase di transizione, rappresentata da quello

sviluppo economico che progressivamente sta coinvolgendo tutti i paesi dell'Asia, questi artisti scavano nel proprio passato per trovare un'identità culturale unitaria, un punto fermo da cui costruire qualcosa di nuovo. “Change” è l'imperativo che si legge

sulla borsa di una delle marionette a grandezza umana nell'opera Every Wall is a Door di Astari Rashid, simbolo di un'umanità in continua trasformazione, non più

circondata da solide mura, ma che si apre progressivamente al mondo. Un'apertura non certo priva di difficoltà, caratterizzata dai disagi sociali e ambientali tipici di uno sviluppo economico e urbanistico che separa l'uomo dall'ambiente naturale e toglie

personalità allo spazio in nome di una maggiore praticità. Questi principi sono alla base di opere come Roda Roda Gila di Arya Panjalu o This Shirt Fits us all di Mella

Jaarsma, che si pongono su quella linea sottile che distingue “modernizzazione” da “occidentalizzazione”, alla ricerca di uno sviluppo che non implichi la perdita delle proprie origini culturali.

Così, mentre artisti come Heri Dono ed Eko Nugroho individuano le radici di una cultura comune nell'iconografia dell'arte tradizionale giavanese, rivisitata in chiave

moderna anche grazie all'ausilio di elementi tecnologici, altri artisti cercano di esorcizzare i fantasmi di un passato oscuro, nella speranza che gli stessi errori non vengano ripetuti in futuro. È questo il caso di Monumen Bong Belung di Fx Harsono,

un documentario e un monumento commemorativo alle vittime dell'occupazione olandese del 1946, quando moltissime famiglie cinesi di Java furono massacrate e

trasferite fuori dalla città, mentre i corpi venivano gettati in fosse comuni.

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La ricerca di opere concettualmente ricche, capaci di esplorare i sentimenti umani più

intimi e le problematiche sociali legate al progresso, unita alla piacevole ironia che caratterizza molte delle opere esposte, rende Beyond the East una preziosa occasione

di dialogo tra Italia e Indonesia, toccando tematiche che coinvolgono l'uomo in quanto individuo e cittadino del mondo, al di là dei confini tra Oriente e Occidente.

martina ticconi

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SPECIALE LEONARDO DA VINCI

Il genio di Leonardo

Organizzata dall’ Associazione Antropos, grazie al successo di pubblico, legato all’interesse per la figura di Leonardo, la mostra “Il genio di Leonardo”, è divenuta

stabile e conta ben 50 modelli. Leonardo, è stato uno dei pochi artisti ad essere aperto a molteplici e diversi aspetti del fare umano, non si occupò solo di arte ma anche di fisica, anatomia, meccanica, astrologia. Fu anche ingegnere ed inventore, come

testimoniano i suoi schizzi raffiguranti macchine da guerra e volanti, dispositivi meccanici. Gli schizzi erano contenuti nei vari codici di Leonardo: Atlantico, Hammer,

Trivulziano, Arundel, Madrid. Quello di Leonardo restò solo un progetto, ma con la mostra “Il genio di Leonardo” tutto quello che era stato reso solo ed esclusivamente su carta è stato realizzato in modelli coi quali è possibile interagire. Non modellini

dunque, ma vere e proprie macchine in scala reale e perfettamente funzionanti e manovrabili. Tutto ciò è stato reso possibile grazie alle abili mani di grandi artigiani

coadiuvati da ingegneri, che hanno così garantito la possibilità di poter creare un’interazione col pubblico che si reca a visitare la mostra, un modo di unire una realtà sempre vista come piuttosto chiusa, che è quella museale, con la possibilità di

entrare in contatto diretto con gli oggetti esposti. I materiali utilizzati sono: legno, stoffa, metallo. Tra le invenzioni esposte si può ammirare la bicicletta, l'aliante e

l'elicottero e il paracadute. E’ presente anche il modello in compensato ed in scala della città perfetta. Siamo di fronte quindi a una mostra dal forte carattere didattico/culturale, intenta a celebrare quell’aspetto meno conosciuto (ai più) della

vita di Leonardo e legato a un fare più manuale e tecnico. A corredo delle macchine sono state poste delle tavole esplicative in sette lingue e scritte su fogli di papiro,

complete di schizzo di base. E’ possibile vedere copie dei Codici che contengono i disegni, pannelli illustrativi, copie di dipinti e audiovisivi che forniscono un rapporto più moderno con l’antichità. Come i suoi predecessori, che erano spinti dalla voglia di

sperimentare il volo, anche Leonardo compirà i suoi studi sull’anatomia degli uccelli elaborando anche una teoria del volo completata da studi di fisica e sui venti. La più

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grande scoperta è legata alla resistenza dell’aria e alla sua capacità di essere

compressa, per cui il volo era una pura azione meccanica e pertanto riproducibile. Nel 1405 realizza il primo prototipo di paracadute, una sorta di struttura piramidale in

legno e stoffa inamidata e quindi impermeabile, contemporaneamente abbiamo la vite aerea, che rappresenta un’anticipazione del moderno elicottero e che si basa sul

principio che l’aria può comportarsi come un corpo solido. Uno studio più particolareggiato e dettagliato è riservato allo studio dell’ala, realizzata in forma battente. Dopo aver considerato forma e struttura si dedicherà ai materiali, giungendo

al punto che era importante la realizzazione di una struttura il più leggero possibile. Successivamente si dedicherà all’energia necessaria per il moto e alla portanza, ossia

la capacità di sostenere il peso della macchina e dell’uomo. Andando avanti con lo studio, abbandonerà il prototipo di ala battente per passare a quella di tipo fisso, tutto ciò osservando che i grandi uccelli per muoversi in aria non battevano le ali, ma

veleggiavano. Così realizzò quello che si può definire il padre del moderno aliante e del deltaplano, con una macchina avente un’unica ala. A questo unisce anche un’analisi

delle condizioni meteorologiche studiando strumenti per la navigazione aerea, igroscopi e anemometri. Allo studio tecnico Leonardo unì anche quello metodico e concettuale tutto grazie all’analisi scientifica e alla sua grande dote di osservatore.

maria merola

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Leonardo e Michelangelo, capolavori della grafica e studi romani

Dal 27 ottobre al 12 febbraio i Musei Capitolini (Palazzo Caffarelli) ospitano la mostra

dedicata a due grandi artisti, nonché maestri del Rinascimento italiano. La mostra, dal titolo “Leonardo e Michelangelo, capolavori della grafica e studi romani”, costituisce

una delle tappe di un percorso che coinvolgerà anche Palermo, Milano e Napoli. Per la prima volta un’esposizione che pone a confronto queste due personalità tanto diverse eppure tanto simili. Sono trascorsi ormai 500 anni dalla “competizione” nata durante

la decorazione del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, e ora si cerca di riproporre questa contrapposizione in un’ottica tutta nuova e diversa. La mostra,

curata da Pietro Marani e Pina Ragionieri, è composta da 66 disegni ed è nata dall’incontro di due volontà: quelle della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, che presenta i disegni di Leonardo, e quelle della Fondazione Casa Buonarroti che

presenta, ovviamente, disegni di Michelangelo. I disegni di Leonardo provengono dal famoso Codice Atlantico (26 fogli), di Michelangelo sono in mostra alcuni dei suoi più

famosi disegni, la Cleopatra e la testa di Leda. Dietro l’evento, che si svolge sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica Italiana, promosso da Roma Capitale, ruotano altre figure di forte spicco, come l’Assessorato alle Politiche Culturali

e Centro Storico – Sovraintendenza ai Beni Culturali – Commissione Cultura, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Arcus S.p.a., Regione Lazio e Provincia di

Roma, l’Associazione Culturale Metamorfosi e da Zètema. Una prima anticipazione del carattere della mostra romana era già stata fornita dalla fiorentina: “La scuola del mondo” che ne fornisce una sorta di anteprima. Nella mostra dei Capitolini si parte,

dapprima dall’analisi dei capolavori, con la sezione “Capolavori tra capolavori”, per analizzare poi l’attività romana di entrambe gli artisti. Non restano nel dimenticatoio le

passioni, le caratteristiche di Leonardo e Michelangelo. Si va alla ricerca del rapporto che li lega, cercando di dimenticare l’ottica che li ha sempre inquadrati come rivali, quando invece ognuno studiava l’arte dell’altro per arricchirsi e crescere. Sarà una

mostra incentrata, dunque, in maniera speculare e alla ricerca di un trait d’union tra la volontà sperimentatrice di Leonardo e quella creativa di Michelangelo. In particolare

un contatto reso evidente dallo studio dell'antico, dal disegno della figura e dai progetti architettonici, il tutto sotto l’influenza dell’opera di urbanizzazione e decoro voluta dai papi ai tempi del rinascimento. Di Leonardo sono presenti nove capolavori

che mostrano la sua passione per le macchine e la meccanica e, immancabile, il volo, la tecnica utilizzata va dall’inchiostro colorato, alla matita nera, alla penna. Altrettanti i

disegni di Michelangelo incentrati principalmente su tratti anatomici e che fanno parte di un nucleo di opere date in regalo dall’artista. Dedicata agli studi e al soggiorno

romano è, invece, la sezione “Appunti su Roma e studi romani di Leonardo” che prevede altre sottosezioni: Antico, Architettura, Specchi Ottica e Geometria e Disegni di figura. Mentre per Michelangelo saranno approfonditi i temi: Utopia e Pratica di

cantiere, l’Anatomia, Cappella Sistina e Paolina. A conclusione abbiamo la sezione “A seguito del genio” che prevede opere di seguaci di Michelangelo e allievi di Leonardo.

Per quanto riguarda Leonardo, da sempre ha considerato il disegno come forma più alta dell’espressione, come qualcosa di già completo, il modo migliore di rappresentare la natura, dotato di una forte componente comunicativa. Michelangelo

invece, realizza i tratti anatomici rappresentandoli nella maniera più possibile vicina al vero. Tornando alle radici dello “scontro” creatosi tra i due artisti, facciamo riferimento

all’episodio della decorazione del Salone dei Cinquecento, in quella che era la sede del governo. Il gonfaloniere Piero Sederini vicino agli ideali della Repubblica Veneziana. Il suo intento era quello di riunire lo spirito patriottico dei fiorentini cercando al tempo

stesso di uniformarlo con quello della repubblica e di chi la gestiva. Fu indetto quindi un concorso per la realizzazione di un affresco che doveva incarnare a pieno questi

ideali. Alla selezione finale giunsero due “big” della pittura dell’epoca, Leonardo, a cui fu affidata la parete di destra (Battaglia di Anghiari) e Michelangelo, quella di sinistra

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(battaglia di Cascina) dipinti che avrebbero dovuto avere uguali dimensioni (17 x 7).

Ci si aspettava molto dai due, Leonardo ormai aveva ottenuto una fama internazionale, mente il giovane Michelangelo era sempre più deciso, carico della

volontà di rientrare nei circoli ufficiali della Repubblica fiorentina. A causa di una forte antipatia reciproca fecero in modo di poter ottenere di lavorare separati in modo da

evitare il più possibile litigi che avrebbero rallentato il lavoro. Nonostante tutto la decorazione non venne mai portata a termine, Leonardo commise un errore tecnico che gli costò il suo lavoro, mentre Michelangelo fu chiamato da Giulio II a decorare i

Palazzi Apostolici. Dai cartoni pervenuti si evince una differenza stilistica molto forte. Da un lato un Leonardo tutto carico di dinamismo e drammaticità, dall’altro uno studio

incentrato esclusivamente sull’anatomia e la sua resa più realistica. Leonardo a bottega dal Verrocchio

L’incontro di Leonardo da Vinci col Verrocchio avviene col suo trasferimento nel 1469 a

Firenze. Il padre, Piero, vedendo l’innata propensione, nonché l’acuirsi dell’interesse di Leonardo, nel "disegnare et il fare di rilievo”, lo mandò fino al 1470 in una delle botteghe più importanti: quella di Andrea del Verrocchio, uno dei più famosi maestri

fiorentini del Quattrocento. Fu proprio il padre Piero che prese l’iniziativa di mostrare alcuni disegni di Leonardo al suo caro amico Verrocchio, il quale rimasto colpito dalla

bravura del ragazzo, incoraggiò il padre a condurlo presso la sua bottega. In quel periodo le botteghe d’arte oltre a essere molto in voga, sfornavano numerosissimi talenti come ad esempio Botticelli, Perugino, il Ghirlandaio e Lorenzo di Credi che

influenzò di molto lo stile di Leonardo. Essendo delle vere e proprie scuole dove non si imparava soltanto l’arte e la tecnica pittorica, le botteghe fornivano agli allievi un

ampio bagaglio culturale. Difatti fu proprio grazie a questi studi che Leonardo poté divenire non solo pittore ma anche ingegnere, riuscendo ad esaltare i rudimenti che gli venivano forniti fino a portarli all’apice, grazie alle sue capacità naturali. Inserito in un

ambiente poliedrico, imparò a concepire la figura umana in tutte le sue forme artistiche: varie tecniche di scultura, pittura e arti minori. Non veniva tralasciata la

pratica del disegno, anche grazie al valore che gli verrà attribuito nel Rinascimento. Fu questo il periodo che vedrà la rivalutazione della figura dell’artista e la collocazione della figura nello spazio. L’artista veniva così considerato sotto molteplici aspetti della

cultura e tutto ciò era favorito anche dalle corti dei mecenati. Importante ricordare i contatti che il Verrocchio aveva con la corte dei Medici, che favoriva una corrente

neoplatonica, e che vede anche un contatto con il giovanissimo Leonardo. Un altro aspetto che ricorre nella bottega del Verrocchio, oltre alle numerose ore di esercizio su

carta, era la copia dal vero, come vediamo nei disegni raffiguranti le pieghe dei vestiti realizzate dagli allievi. Il Vasari nelle Vite mostra come Leonardo “non solo esercitò una professione, ma tutte quelle ove il disegno si interveniva; ed avendo uno intelletto

tanto divino e meraviglioso, che essendo bonissimo geometra, non solo operò nella scultura, facendo nella sua giovinezza di terra alcune teste di femine che ridono […] e

parimente teste di putti che parevano usciti di mano d’un mestro”. La bottega, però, non era solo un luogo di formazione ma era anche un’attività redditizia, per cui gli allievi dovevano far fronte a ritmi sostenuti, trovandosi a realizzare anche grandi cicli

pittorici. Nel primo anno di tirocinio venivano fornite nozioni elementari e gli allievi venivano messi da subito a disegnare. Si puntava a fornire nel minore tempo possibile

le conoscenze pratiche che gli avrebbero poi permesso di affiancare in maniera adeguata il maestro. Quindi, inizialmente, a Leonardo vennero affidate solo cose più semplici e fu solo in un secondo momento che imparò a mischiare i colori e preparare

pigmenti e tele. Nel 1472 Leonardo si iscrisse alla corporazione dei pittori fiorentini, la Compagnia di San Luca, ciò non gli impedì di proseguire la sua attività col Verrocchio

fino al 1476. Fu proprio nella bottega del suo maestro che potè dare vita alla sua prima grande opera d’arte, dimostrando così la sua abilità. Si parla del Battesimo di

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Cristo (1475) per cui realizzò l’angelo di sinistra, le velature trasparenti a olio che

unificarono i piani del paesaggio in profondità e il paesaggio sullo sfondo. La testa dell'angelo leonardesco è più bassa nella superficie probabilmente perchè il pittore

dovette raschiare via una vecchia preparazione prima di ridipingerla. Il suo angelo, posto di profilo, presenta già il caratteristico stile sfumato. L'intervento di Leonardo

sul corpo di Cristo si riconosce in alcuni dettagli dove è possibile cogliere la minuzia dei particolari più naturalistici, come i morbidi peli del pube, molto diversi dal lucido e spigoloso perizoma rosso rigato. La mano di Leonardo intervenne anche nelle acque

del fiume in primo piano, che si estendono fino ai piedi di Gesù e del Battista. Il suo intervento venne richiesto solamente nella fase finale. A differenza del suo maestro,

Leonardo rifiuta l’utilizzo della tempera a favore di un composto a base d’olio, questo a dimostrazione della sua brillante capacità di artista. Tutto ciò gli costò accuse di arroganza. Tra il 1472 e il 1477 Leonardo inizia ad assumere quello che si può definire

un ruolo manageriale nella bottega. Infatti iniziò ad occuparsi di una serie di commissioni, tra cui l’Annunciazione (1472), che risente dell’influenza del maestro,

come si può notare nei panneggi lussuosi. Molti aspetti della tecnica di Leonardo, tra cui la sua procedura di disegno preparatorio e l'uso di modello di base monocromo, sembrano provenire dal suo maestro. Sarà però nella scultura del Verrocchio che

coglieremo un suggerimento tra la forza e la fantasia che troviamo in Leonardo. Il legame è vicino ma resta difficile da analizzare. Per capire l’influenza che ebbe sulla

formazione bisogna guardare alle prime sculture realizzate da Verrocchio, mentre si teneva l’apprendistato di Leonardo. E’ così che possiamo vedere come le stesse espressioni facciali che sono colte nei disegni più vecchi di Leonardo si ritrovano nelle

sculture del suo maestro. Molti studiosi, però, sostengono che questa vicinanza con le sculture non sia poi così veritiera, poiché si riscontrerebbe soltanto in alcune opere

scultoree come il David, precedente il 1470. Si troverebbero quindi, delle somiglianze nei dettagli ma non nei contenuti. Tratti in comune si evidenziano anche nel primo disegno datato di Leonardo «adì 5 d’aghossto 1473» qui l’artista si rifà ad una

tradizione della pittura fiorentina cara al Verrocchio: si tratta di un disegno a inchiostro che raffigura un paesaggio della valle dell’Arno. Il collegamento è tutto

insito nella rappresentazione del paesaggio “alla fiamminga”, tanto che nel Battesimo di Cristo vengono ripresi una parete rocciosa composta di massi squadrati, l’attenzione particolare rivolta ai riflessi dell’acqua colta in movimento, e il disperdersi dello

sguardo in profondità verso l’orizzonte.

Le due Lisa

Il primo febbraio il giornale « El Pais » riporta una notizia eclatante: “El Prado descubre una copia de ‘La Gioconda’” (Il Prado scopre una copia della Gioconda) e: “ ‘La Gioconda’ renace en El Prado” (la Gioconda rinasce al Prado). Le fonti, provenienti

dalla pinacoteca di Madrid, sono affiancate anche da un articolo molto dettagliato contenuto nel periodico «The Art Newspaper ».

Ponendo di fianco le due opere non si può fare a meno di notare l’elevata somiglianza delle donne ritratte. Inizialmente, sulla tela era visibile solo un volto, ma dopo il restauro, oggi ben evidente dalla luminosità dei colori che riprendono nuova vita sulla

tela, si è potuto notare come non solo il volto, ma anche lo sfondo sia effettivamente uguale a quello della Gioconda. Non una banale copia quindi, ma un vero originale

gemello della famosa Gioconda conservata al Louvre e dipinta dal grande Leonardo. La Gioconda è un quadro che può vantare numerose copie sparse in tutto il mondo, ma solo quella del Prado sembra essere proveniente dalla mano di un abile allievo di

Leonardo. Lo stesso sorriso enigmatico che campeggia sulla tela, lo sfondo, la posizione delle braccia, anche le dimensioni sono simili: 76 x 57 centimetri la Monna

Lisa madrilena, 77 x 53 centimetri quella del Louvre. Tutto riporta a Leonardo, al suo genio e al suo stile. Quella che sembrava solamente una brutta copia realizzata da

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qualche pittore fiammingo, si è rivelata un’opera interessante sotto molteplici punti di

vista. L’opera arrivò nella collezione reale spagnola nel 1666 e si tratta, secondo gli studiosi spagnoli, della più antica copia esistente. Secondo il conservatore per l’arte

italiana e francese, Miguel Falomir e la studiosa Ana Gonzalez Mozo, si tratta di un dipinto eseguito in contemporanea con l’originale e non ci sarebbe la mano di

Leonardo, che si limitò solamente a seguirne lo svolgimento. Forse Andrea Salai o Francesco Melzi potrebbero essere i veri autori della seconda Lisa, ci troviamo quindi tra il 1503 e il 1506 all’interno della bottega di Firenze. Il quadro, della cui esistenza

gli studiosi erano già a conoscenza e che era a lungo rimasto nei magazzini del Museo, è stato restaurato per volere del Direttore, dando così la possibilità di compiere studi

più approfonditi. Partendo da un’analisi con Raggi X si è potuto vedere come la patina scura che avvolgeva la donna era stata aggiunta successivamente, per la precisione nel XVII secolo. Rimossa la brutta patinatura è affiorata sulla tela una splendida

figura, nonché una splendida sorpresa per tutti gli studiosi e amanti della storia dell’arte. Come due gocce d’acqua, che quasi confondono chi le osserva affiancate,

due tele gemelle che lasciano l’osservatore basito, ma un’unica donna misteriosa che pone molteplici interrogativi. La Gioconda, da sempre avvolta da un alone di mistero, con questa importantissima scoperta pare voglia continuare il suo primato di opera

enigmatica. Non solo si è all’oscuro su chi possa essere la donna raffigurata e attualmente ci si muove ancora nel campo dell’ipotesi, ma ora ci sono addirittura due

Lisa. Perché due? Forse Leonardo voleva avere la certezza che almeno una delle due opere potesse conservarsi ed arrivare al futuro? Voleva mettere il suo allievo preferito alla prova? Questo forse non lo sapremo mai. Sappiamo però che grazie a questa

rivelazione sarà possibile effettuare studi più approfonditi sui materiali pittorici utilizzati, tutto ciò grazie al buono stato conservativo dell’opera, e questo potrebbe un

giorno risultare decisivo ai fini della soluzione del rebus che da secoli avvolge la Gioconda. Un altro fattore che accomuna i due dipinti è quello della “fuga dall’Italia”, nessuna delle due opere è rimasta nella sua patria, entrambe “emigrate” l’una in

Francia, l’altra in Spagna. Stesso destino dunque, e, ironizzando, si potrebbe dire che forse, prospettando i brutti tempi attuali hanno preferito rifugiarsi in posti più

accoglienti e sicuri. E magari un giorno, sempre per destino, torneranno nella loro casa a Firenze.

La Monna Lisa madrilena sarà presentata al pubblico il 21 febbraio, mentre dal 29 marzo al 25 giugno sarà al Louvre per la mostra «La Sant’Anna di Leonardo».