CURARE CON LA PSICOTERAPIA E GLI PSICOFARMACI: ESAME DI TRATTAMENTI INTEGRATI

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1 CURARE CON LA PSICOTERAPIA E GLI PSICOFARMACI: ESAME DI TRATTAMENTI INTEGRATI Una psicoterapeuta e una psichiatra si confrontano su un modello integrato di trattamento Gennaio 2005 Anna Emanuela Tangolo Psicoterapeuta e consulente aziendale Marina Zazo Psicoterapeuta e psichiatra

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Anna Emanuela Tangolo

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CURARE CON LA PSICOTERAPIA E GLI PSICOFARMACI:

ESAME DI TRATTAMENTI INTEGRATI Una psicoterapeuta e una psichiatra si confrontano su un modello integrato di trattamento Gennaio 2005

Anna Emanuela Tangolo Psicoterapeuta e consulente aziendale

Marina Zazo

Psicoterapeuta e psichiatra

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Chi siamo Siamo una psicologa psicoterapeuta analista transazionale (Tangolo) e una psichiatra psicoterapeuta (Zazo), colleghe e socie fondatrici di PerFormat. Ci siamo conosciute dieci anni fa lavorando in un programma di riabilitazione per tossicodipendenti. All’interno del programma per tossicodipendenti abbiamo avviato percorsi per pazienti con “doppia diagnosi”, pazienti dipendenti da sostanze stupefacenti che presentavano una complessa sintomatologia psichiatrica e che le comunità terapeutiche tradizionali non accoglievano perché non accettavano di tenere persone in trattamento farmacologico né disponevano di personale competente a trattare la complessità dei casi. L’esperienza di attivazione di itinerari terapeutici più flessibili per i tossicodipendenti ci ha fatto conoscere e adesso pratichiamo questo modello integrato di trattamento anche nell’ambulatorio privato che abbiamo aperto insieme da sei anni. Filosofia e principi del trattamento Il primo incontro del paziente può avvenire indifferentemente con l’una o con l’altra. Già la scelta di chiedere il primo colloquio ad un medico o ad uno psicologo ci dà una prima informazione sul grado di percezione che il paziente ha del proprio problema e spesso anche sui pregiudizi che lo accompagnano (dallo psichiatra vanno solo i malati gravi, lo psicologo ti fa il lavaggio del cervello, mai i farmaci o al contrario andare in psicoterapia è una vergogna). Per quanto ci riguarda accogliamo il paziente che arriva così come vuole lui; può venire da solo o con un familiare, può chiedere di vederci tutte e due o no. In ogni caso il processo di definizione contrattuale del trattamento ci impegna come prima fase ed è già un obiettivo da raggiungere insieme al paziente. Il paradigma sotteso all’intervento con i pazienti con un disturbo psichico è quello della complessità. Tale concetto implica un modello teorico multifattoriale della patogenesi del disturbo ed un progetto terapeutico che si articola quindi tenendo conto di vari aspetti, biologico, psicologico, ma anche di ciò che è la storia di vita del paziente e il contesto relazionale e sociale in cui si è svolta. Inoltre l’accettazione della complessità vuol dire anche accettazione profonda del paziente, consapevolezza dei limiti dell’intervento e disponibilità a rivedere costantemente le letture e interpretazioni che facciamo dei problemi e delle sofferenze che ci vengono presentati. Tra queste due sponde si declina quell’apertura all’altro che non è solo indispensabile nella relazione terapeuta-paziente, ma anche nella relazione tra psicoterapeuta e psichiatra che desiderino lavorare in modo realmente integrato nel trattamento di un paziente. Ricordiamo che un trattamento può essere: sequenziale, dove prima si svolge l’intervento farmacologico e successivamente l’invio in psicoterapia, parallelo, in cui il medico e lo psicoterapeuta incontrano il paziente nello stesso periodo, ma senza incontrarsi tra loro, integrato, in cui il medico e lo psicoterapeuta si incontrano tra loro per ri-pensare insieme il paziente e, se e quando lo ritengono opportuno, possono insieme incontrare il paziente e i suoi familiari. Questo presupposto culturale - come un condiviso colore di fondo – è la premessa fondamentale che rende possibile il nostro lavoro, con un superamento di pregiudizi di vario tipo che sono purtroppo ancora presenti dall’una e dall’altra parte. Si pensi a quanti medici, tesi nell’affermazione di una psichiatria oggettivante, negano l’importanza della relazione nella cura, e, viceversa a quanti terapeuti vedono i farmaci come un ostacolo al manifestarsi di emozioni significative per il processo psicoterapico. E’ questo, a nostro avviso, un pregiudizio ancora più

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sottile, perché implica l’idea di una “potenza” del farmaco, che in fondo in fondo andrebbe ad alterare la personalità e/o affettività ed emozioni del paziente. Qui occorre sottolineare come un trattamento integrato presuppone anche la messa a disposizione reciproca di alcune informazioni proprie dei rispettivi bagagli culturali. In particolare i punti che abbiamo messo a fuoco nella nostra condivisione sono: la prescrizione medica corretta di farmaci in terapia ambulatoriale non comporta una sedazione del paziente tale da impedirgli autonomia di vita e possibilità di relazione; similmente la prescrizione medica corretta di farmaci evita la possibilità che si instauri una dipendenza farmacologica. Molti farmaci, in particolari gli antidepressivi serotoninergici, che vengono utilizzati nella terapia del DAP (Disturbo da attacchi di panico), nel DOC (Disturbo ossessivo-compulsivo), nella Depressione, agiscono regolando la disponibilità del neurotrasmettitore - in questo caso la serotonina - già presente nei neuroni del paziente. Gli accadimenti della vita relazionale, ciò che avviene, emerge, viene ricordato nella seduta, può modificare ugualmente, sia nel senso di una sedazione, sia in quello di un’attivazione la vita psichica del paziente. E’ dunque chiaro che consideriamo sia i farmaci, sia le tecniche del metodo psicoterapico, sia la relazione stessa tra terapeuta e paziente come strumenti, che appartengono, per dirla con Paolo Migone, alla stessa “logica di pensiero”, e che ugualmente possono essere utilizzati quando la necessità di alleviare la sofferenza psichica del paziente lo richiede. La coppia terapeutica Crediamo che l’efficacia dell’intervento possa venire significativamente accresciuta da una comprensione psicodinamica del processo terapeutico, per questo i momenti salienti dell’intervento sono le nostre discussioni cliniche e i tempi che ci prendiamo per fare supervisione. Troviamo questi tempi fondamentali per la comprensione del caso, ma anche per l’elaborazione delle nostre emozioni e per la possibilità che l’essere in coppia ci dà di alleggerire i sentimenti transferali e la pesantezza che alcuni pazienti portano in terapia. Noi percepiamo la coppia terapeutica come una risorsa preziosa per uno studio privato perché spesso invece ciò che caratterizza il lavoro del professionista della salute mentale è proprio la solitudine. Sappiamo dalla letteratura che lo psichiatra che prescrive i farmaci è una figura transferale non meno di quanto lo sia lo psicoterapeuta. Da parte dei pazienti la decisione di conformarsi o meno alle raccomandazioni del medico attiva tematiche inconsce di aspettative genitoriali. Anche per questa ragione abbiamo riscontrato che l’accordo e la comunicazione tra psicoterapeuta e psichiatra favorisce la compliance non solo ai farmaci, ma complessivamente all’intero trattamento e ci dà quindi generalmente esiti significativamente più favorevoli rispetto ai casi che non sono trattati “in rete”, cioè in staff. Per quanto entrambe noi due siamo psicoterapeute generalmente preferiamo proporre al paziente una figura per la prescrizione dei farmaci e una persona diversa per la gestione della psicoterapia perché ciò ci permette di analizzare con più chiarezza i vissuti del paziente rispetto ai due livelli della cura ed evitare al tempo stesso le difficoltà del “ rapporto bimodale” (Docherty,American Journal of psychiatry,1977, n.134). Farmacoterapia psicodinamica Quando l’incontro con il paziente rende necessaria la prescrizione di farmaci ci chiediamo il significato che la prescrizione assume per la persona. Ciò è fondamentale per migliorare la

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compliance farmacologia. I dati delle ricerche suggeriscono che almeno il 50% dei pazienti ad un certo punto rifiuta i farmaci nel corso della terapia (Jamison e altri,1979). Ci sono studi che indicano che tra il 25% e il 94% dei pazienti in terapia ambulatoriale in realtà non assume i farmaci come è stato loro prescritto (Baekeland, Undwall, 1975; Eisenthal, 1979). La non-compliance può essere capita con l’aiuto di principi psicodinamici, come afferma Gabbard. L’esperienza clinica conferma che è sempre utile chiedere la collaborazione dei pazienti nell’esplorare le loro preoccupazioni ad assumere i farmaci. La prescrizione dei farmaci è talvolta avvertita come un fallimento empatico da parte del terapeuta (es. la pastiglia è un modo di zittirmi). I pazienti con tendenze caratteriali a controllare ed essere dominanti vedono i farmaci come una minaccia al loro essere controdipendenti. Prendere una pastiglia significa sottomettersi al dominio di una potente figura genitoriale. Con i pazienti iperadattati ed eccessivamente sottomessi è l’inverso. Le pastiglie fanno loro sentire che qualcuno li “nutre” e li cura al punto da poter evitare di prendersi responsabilità rispetto alla malattia . Transfert e controtransfert Le battaglie transferali sono intense con i pazienti lamentosi “manipolatori respingi aiuto“ (Groves, 1978). Sono pazienti che hanno un alto grado di risentimento e amarezza verso le figure genitoriali che non avrebbero dato loro sufficiente nutrimento. Rifiutando l’aiuto che viene loro dato questi pazienti possono inconsciamente vendicarsi contro i propri genitori (Gabbard, 1978). Quando questi pazienti sentono che stanno rendendo le cose insopportabili al proprio medico, spesso provano un segreto trionfo. Una paziente, Diana, fantasticava spesso di guarire e di nascondere alla terapeuta la sua soddisfazione, che invece sarebbe andata a raccontare ad un altro dottore che pure non l’aveva curata. C’è poi un transfert verso il farmaco stesso quando il terapeuta è assente le pastiglie possono fungere da oggetti transizionali per mantenere il contatto con il terapeuta. Tenere in borsa un ansiolitico è noto che può avere un aspetto rassicurante per il paziente che soffre di attacchi di panico e disturbi di ansia; compito della psicoterapia diventa elaborare i significati di questi comportamenti. Il controtransfert può intaccare anche la prescrizione dei farmaci come qualunque altro intervento terapeutico. La prescrizione eccessiva è un esempio di come alcuni pazienti evocano nei terapeuti intensi sentimenti di impotenza e di rabbia. La disperazione controtransferale dello psichiatra può spiegare le prescrizioni eccessive. D’altra parte negli psicoterapeuti talvolta accettare di inviare un paziente ad un collega psichiatra può essere difficile perché ciò suscita una ferita narcisistica: prescrivere il farmaco equivarrebbe a riconoscere l’inefficacia delle proprie abilità terapeutiche. Resistenza al cambiamento La malattia può essere preferibile alla salute per varie ragioni. I pazienti con disturbo bipolare possono godere dei loro episodi maniacali al punto da interrompere l’assunzione di litio, ma anche i pazienti con disturbo alimentare possono interrompere le terapie quando temono di ingrassare e/o dipendere da qualcuno, oppure i pazienti dipendenti da sostanze psicoattive mantengono

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spesso una profonda nostalgia per la vita “tossica” poiché temono terribilmente la normalità e la noia. Alcuni pazienti poi preferiscono l’esperienza della grandiosità psicotica alle cure. Per altri pazienti assumere farmaci e andare in psicoterapia comporta il marchio della malattia mentale. Invece ci sono persone che assumono volentieri farmaci, ma resistono al tempo stesso agli effetti terapeutici degli agenti farmacologici. Questi pazienti hanno un investimento talmente potente nella loro malattia da aggrapparsi tenacemente ai propri sintomi, anche quando questi vengano tenacemente contrastati da forti agenti psicotropi. L’approccio psicoterapico è il trattamento più opportuno per questi casi. Alleanza terapeutica L’attenzione all’alleanza sin dalla prima seduta previene la non-compliance al trattamento. Occorre esplorare le aspettative dei pazienti per ottenere una partecipazione al trattamento sia psicoterapico sia farmacologico. Il trattamento contrattuale, a cui l’analisi transazionale dà una centralità significativa, è diventato per noi lo strumento principale per arrivare al coinvolgimento e alla collaborazione con l’Adulto del paziente. Così alcune domande che si utilizzano in AT per la definizione del contratto come la domanda “In che modo potresti sabotare questa decisione di curarti?” si sono rivelate utili anche nelle situazioni in cui si prescrive una cura farmacologica. La nostra esperienza di trattamento combinato e integrato Il nostro lavoro si inserisce in una tradizione clinicamente consolidata di trattamento combinato, già descritta in letteratura. Luborsky e coll. (1976) hanno esaminato 26 studi di ricerca che valutavano il trattamento combinato e nel 69% dei casi questo si era rivelato più efficace della sola psicoterapia o della sola psicofarmacoterapia. Karasu (1982) osserva che i farmaci hanno maggiore influenza sulla formazione e remissione dei sintomi e sul disagio affettivo, mentre la psicoterapia influenza più direttamente le relazioni interpersonali e l’adattamento sociale. Noi preferiamo al trattamento combinato il trattamento integrato, nel senso che dove c’è la disponibilità del paziente lavoriamo in tandem incontrandolo anche insieme per alcune sedute ed elaborando insieme il piano terapeutico. Dal 1995 ad oggi abbiamo seguito con trattamento integrato un gruppo di trenta pazienti. L’ipotesi diagnostica è sempre stata discussa e valutata insieme sia per quel riguarda la diagnosi strutturale di orientamento psicodinamico sia per la diagnosi categoriale psichiatrica. Alcuni pazienti hanno abbandonato la terapia dopo breve tempo, ma l’invio reciproco è stato coronato da successo nella quasi totalità dei casi. Nelle fasi iniziali di terapia e con i pazienti più gravi –ad esempio persone con disturbi bipolari, persone con disturbi alimentari e di dipendenza da sostanze psicoattive - il lavoro integrato si è rivelato prezioso per impostare il trattamento anche coinvolgendo altre persone utili del contesto familiare del paziente, che abbiamo incontrato insieme, e per coinvolgere il medico di medicina generale che conosceva e seguiva il paziente spesso da molti anni. La nostra coppia terapeutica ci è apparsa come l’interlocutore più appropriato per ascoltare, comprendere e riconoscere le spinte emotive, a volte incontrollabili, del contesto familiare, per

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fare in modo che si alleasse con noi e non sabotasse le cure. L’idea è sempre stata quella di creare “uno spazio articolato per la deposizione e rielaborazione di identificazioni proiettive” secondo il modello di Winnicott e con pazienti gravi e adolescenti questi spazi sono stati fondamentali per sostenere il paziente al cambiamento intervenendo anche sul contesto di supporto. Anche l’impiego dei farmaci non sfugge alla condivisione, nel senso di una comprensione del meccanismo di azione che è avvenuto prima tra di noi e che poi viene passato al paziente, come messaggio sul significato della sua malattia e degli strumenti di cura. Così ci siamo accorte che è di grande sollievo per certi pazienti ricevere un’informazione corretta; ad esempio sapere che gli antidepressivi serotoninergici si limitano ad aumentare la disponibilità di un neurotrasmettitore già presente nel nostro sistema nervoso, rende possibile rassicurare le persone sul loro uso, sfatando il pregiudizio che lo psicofarmaco sia una camicia di forza della mente. Il dialogo sereno tra noi e la possibilità per i pazienti di percepirci insieme nel fornire informazioni e un programma integrato di cure funziona generalmente come un potenziamento del setting e dunque della struttura normativa e protettiva del contesto terapeutico, ma anche come un rinforzo della cooperazione con l’Adulto del paziente. Inoltre l’esperienza clinica con pazienti tossicodipendenti ha poi condotto ad un nostro rigore estremo nell’uso di benzodiazepine (BDZ) e ad una grande attenzione ai fenomeni di tolleranza, dipendenza e abuso di tali farmaci che si riscontrano invece purtroppo di frequente nella popolazione generale. È capitato anche che la psichiatra dopo la consultazione abbia ritenuto inopportuna o inutile la prescrizione farmacologica. Con i pazienti affetti da DAP (disturbo da attacchi di panico) ci siamo accorte che è particolarmente importante sia far accettare il protocollo di cura farmacologica in modo corretto (è frequente la tendenza ad interrompere il trattamento alla prima remissione dei sintomi) sia proporre una strategia di riconoscimento ed elaborazione degli stress emotivi, di cui questi pazienti sembrano poco forniti. Con i pazienti bipolari la psicoterapia inoltre permette che acquisiscano consapevolezza degli impulsi che annunciano l’insorgere di un episodio maniacale o depressivo e che dunque si possa modulare la farmacoterapia, prevenendo le punte più alte delle crisi.

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