Critica

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Francesco Morandini, S. J. «CRITICA» Pug, Romae 1963 (Ad usum privatum) INTRODUZIONE 1. Il problema della scienza. L'esperienza insegna che l'uomo in primo luogo dirige la sua attenzione esplicita verso le cose e dopo ritorna verso se stesso, a considerare esplicitamente le sue proprie conoscenze. Ugualmente la storia della filosofia most ra che i filosofi investigarono in primo luogo le realtà oggettive , e più tardi rifletterono sulla propria scienza soggettiva di quella realtà. Benché questa investigazione sorgesse tardiva, prevalse dopo l'abitudine di esporre il problema della scienza, n el suo senso radicale, con una certa precedenza sugli altri, al fine di ottenere una dottrina sistematica generale sulla possibilità e la natura della scienza umana , per dopo applicarla con destrezza nello sviluppo di ogni scienza. Questo problema, artico lato in modo complesso ed orientato ad una dottrina generale, fu detto il «problema della scienza umana considerata in genrale», e più brevemente: il problema della scienza . 2. Origine umana del problema. L'uomo non attende la soluzione di questo problema per incominciare a pensare e a dare valore ai propri pensieri. Ma lo stesso uso spontaneo della sua conoscenza lo rende già tenacemente certo di molte verità . Per esempio: d i vivere nel mondo concreto delle cose sensibili; di avere una relazione speciale con gli altri uomini; di avere molti obblighi, eccetera.... Ma questo esercizio spontaneo della sua vita, lo rende anche cosciente della fallibilità e della limitazione della sua capacità di conoscere : sperimenta in sé o negli altri il fatto dell'errore, la diversità di opinioni sullo stesso punto, la difficoltà di determinare la verità in casi di confusione. Questa constatazione lo porta a riflettere spontaneamente sulle cose che conosce ed sui suoi pensieri, per sapere perché sbaglia, e per vedere come può, entro certi limiti, evitare gli errori e stabilire la verità. Questa riflessione spontanea fa sì che ogni uomo si formi queste persuasioni abituali : a) che il nostro intel letto, senza alcun dubbio, può raggiungere alcune verità oggettive

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Il testo è un classico esempio di filosofia scolastica, precisamente un trattato di gnoseologia impostata secondo il realismo aristotelico-tomista.

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Francesco Morandini, S. J.

«CRITICA»

Pug, Romae 1963(Ad usum privatum)

INTRODUZIONE 1. Il problema della scienza. L'esperienza insegna che l'uomo in primoluogo dirige la sua attenzione esplicita verso le cose e dopo ritorna verso sestesso, a considerare esplicitamente le sue proprie conoscenze. Ugualmente lastoria della filosofia mostra che i filosofi investigarono in primo luogo le realtà

oggettive, e più tardi rifletterono sulla propria scienza soggettiva di quellarealtà. Benché questa investigazione sorgesse tardiva, prevalse dopo l'abitudinedi esporre il problema della scienza, nel suo senso radicale, con una certaprecedenza sugli altri, al fine di ottenere una dottrina sistematica generale

sulla possibilità e la natura della scienza umana, per dopo applicarla condestrezza nello sviluppo di ogni scienza. Questo problema, articolato in modocomplesso ed orientato ad una dottrina generale, fu detto il «problema dellascienza umana considerata in genrale», e più brevemente: il problema della

scienza. 2. Origine umana del problema. L'uomo non attende la soluzione diquesto problema per incominciare a pensare e a dare valore ai propri pensieri.Ma lo stesso uso spontaneo della sua conoscenza lo rende già tenacemente

certo di molte verità. Per esempio: di vivere nel mondo concreto delle cosesensibili; di avere una relazione speciale con gli altri uomini; di avere moltiobblighi, eccetera.... Ma questo esercizio spontaneo della sua vita, lo rende

anche cosciente della fallibilità e della limitazione della sua capacità di

conoscere: sperimenta in sé o negli altri il fatto dell'errore, la diversità diopinioni sullo stesso punto, la difficoltà di determinare la verità in casi diconfusione. Questa constatazione lo porta a riflettere spontaneamente sulle coseche conosce ed sui suoi pensieri, per sapere perché sbaglia, e per vedere comepuò, entro certi limiti, evitare gli errori e stabilire la verità. Questa riflessione

spontanea fa sì che ogni uomo si formi queste persuasioni abituali: a) che ilnostro intelletto, senza alcun dubbio, può raggiungere alcune verità oggettive

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ed evidenti, ma che in caso di confusione e di avventatezza, è facile cadere inerrore e difficile conseguire certezze; b) che la nostra ragione, senza dubbio,può ragionare rettamente sulle cose conosciute, ma che deve distinguere traragionamenti ovvi e più difficili. 3. Origine filosofica del problema. Tali convinzioni pre-filosofichesono sufficienti per orientarsi nella vita, ma non costituiscono una scienzasistematica e, pertanto, non possono essere utili per risolvere le difficoltà chesorgono. Per questo motivo il filosofo, spinto dal suo desiderio naturale ditrovare la causa adeguata di tutto, pensa di porsi direttamente e radicalmente ilproblema della scienza. I motivi che lo incoraggiano sono simili a quelli dellavita spontanea. Da un lato il motivo costante delle certezze naturali cheresistono ad ogni tentativo di dubbio; d'altra parte, i molti tentativi di alcunifilosofi per debilitare quelle certezze, basati sulla constatazione metodica deinostri errori e dei nostri limiti, e sulla discrepanza tra dottrine, non solo inmerito alla natura della scienza, ma anche alla sua possibilità. La stessa naturadi questi motivi dimostra che il problema della scienza, non solamente si devedire: a) un problema umano, perché in realtà ogni uomo se lo pone e se lorisolve con una constatazione ed una riflessione spontanee, ma anche b) unproblema filosofico, perché i filosofi lo suscitano, ne disputano, lo sviluppano erisolvono nei modi più diversi. 4. Senso filosofico del problema. La scienza umana può dirsi una nelsuo insieme, dal punto di vista dell'individuo che conosce, perché è uno l'uomoche l'investiga; ma parlando con rigore si deve dire molteplice, dal punto divista dell'oggetto conosciuto, che è ciò che la specifica. Dunque non si occupasolo delle cose mondane, sotto i suoi diversi aspetti intelligibili, bensì anchedegli stessi uomini, in quanto esistono nel mondo con un modo di essereproprio più perfetto. Nella ricerca delle sue cause prossime, si declina in moltinomi di scienze particolari; e nella ricerca delle sue cause ultime, prende ilnome di filosofia. Ma anche la filosofia, come vedremo, non è una scienza"una", bensì "molteplice" così che le scienze filosofiche che trattano del mondoe dell'uomo si sottomettono ad una filosofia prima o metafisica che vertesull'ente in quanto ente e si estende fino alla prima causa e al fine ultimo di tuttigli enti. Così, il problema filosofico della scienza a) è ordinato ad esaminarenon solo il valore e la natura della nostra conoscenza in riferimento al mondo eall'uomo, ma anche all'ente in quanto ente, b) occupandosi specialmente delsignificato proprio delle certezze naturali e dei molti e complessi tentativi

filosofici di indebolire queste certezze. 5. Natura del problema. Il problema filosofico della scienza è

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specificamente un problema riflesso. Non solo perché sorge in un momento dimaturità riflessiva, ma anche perché per la sua stessa natura si orienta ad unariflessione sulle conoscenze umane, fin dall'inizio e costantemente manifestatealla coscienza. Di qui si deducono chiaramente le sue caratteristiche proprie. Laprima caratteristica, che nasce dalla sua stessa natura riflessa, è che fin dall'inizio si sviluppa "nell'ambito da una coscienza certa". Perché come non puòpartire da una carenza totale di conoscenza cosciente, poiché in questa ipotesinon ci sarebbe nessuna possibilità di riflessione, neanche può partire da unacarenza totale di conoscenza certa, poiché in questa ipotesi non ci sarebbepossibilità di esserne certi di riflettere. La seconda caratteristica, che scaturiscedella sua origine umana e filosofica, è quella di arrivar a evidenziare tanto ilsenso naturale ed umano, quanto il senso necessario e filosofico delle nostrecertezze. La terza caratteristica, sorge dalla sua finalità, ovvero che il suometodo progressivo è prima di tutto "dichiarativo", in modo che descriva egiudichi i dati certi della coscienza; poi "difensivo", in modo che confermi estabilisca, mediante un confronto con le opinioni opposte, i dati previamentegiudicati; ed infine "risolutivo", in modo da comporre ordinatamente edspiegare sistematicamente i dati così stabiliti. 6. Parti del problema. Il problema della scienza bisogna affrontarlosotto questi due aspetti principali. In primo luogo, "se la scienza è a noipossibile", ed a questo problema risponde prevalentemente la Critica. Insecondo luogo, "che cosa è scienza, a noi possibile", ed a questo problemarisponde prevalentemente la Logica. Il problema logico si suddivide a sua voltasecondo che tratti la verità della conseguenza scientifica, ed a questainvestigazione risponde la parte della Logica chiamata formale; o secondo chetratti i requisiti della verità del conseguente scientifico, ed a questainvestigazione risponde la parte della Logica chiamata applicata o materiale.La scienza infatti è ordinata a concludere la verità, per questo motivo il logicodeve considerare entrambe le verità, come lo conferma la stessa divisionearistotelica in Analitici Primi e Secondi. Nella pratica prevalse l'abitudine di insegnare ai principianti, a modo diintroduzione, ciò che riguardava la verità della conseguenza (Summulae, oLogica Dialectica, o Logica Minor), e dopo, di modo più scientifico, ciò cheriguardava la verità del conseguente (Quaestiones, o Logica Critica, o Logica

Magior); perché così come non conviene cominciare i trattati filosofici senzaun'introduzione, neanche conviene trattare le questioni logiche più importantiin una forma solo introduttoria. In base a questa divisione, la Logica Magiorecominciò a trattare i nuovi problemi critici, giacché la dottrina sulla possibilitàe sulla natura della scienza vera sono strettamente colleti e si completano a

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vicenda. Per queste ragioni noi, per evitare omissioni e ripetizioni, tratteremo

anche le principali questioni critiche insieme alle corrispondenti questioni

logiche, sotto l’unica denominazione oggi più diffusa di Critica. Siccome già abbiamo studiato (nel libro intitolato Logica Maior) checosa è la Logica come scienza e che cosa è la Logica formale, solo rimane oradire una parola sulla Critica e la Logica materiale, per portare a conclusionel'unità e divisione del nostro trattato. 7. Che cosa è la Critica? Critica, etimologicamente viene da "krínein",giudicare, e suona come scienza giudicativa. Nell'uso filosofico, è la dottrinasul valore della conoscenza umana per raggiungere la scienza; o, piùbrevemente, è la parte della filosofia che giudica sulla possibilità di una

scienza oggettiva.

Per capire il suo fine ed il suo ambito bisogna considerare due aspetti. a)Lo stesso discernimento delle affermazioni scientifiche singolari è già undiscernimento critico, ma non appartiene alla scienza Critica fare quest'ultimodiscernimento; perché questa critica concreta si identifica con le stesse scienzesingolari. b) Spetta alla Critica, in quanto che la Critica precede le altre scienze,giudicare nel suo insieme comune il valore dell'affermazione scientifica, per poidi lì dedurre quella dottrina generale sulla possibilità dalla scienza, alla cuiluce possano lavorare con sicurezza e speditamente le scienze particolari. Il trattato critico viene anche detto Teoria della conoscenza, oGnoseologia (scienza della conoscenza), o Epistemologia (scienza dellascienza, benché questo nome rimanga oggi ristretto alla teoria della conoscenzadelle scienze particolar), o Noetica (scienza della conoscenza intellettuale, allaquale si sottomettono le altre conoscenze,) o Criteriologia (scienza delle veritàmotivate in un criterio genuino), e così via. L'utilità e l'importanza della Criticaappare sufficientemente da quanto detto. Infatti, mediante la soluzione delproblema critico si consolida e difende riflessivamente la possibilità dellaMetafisica e delle altre Scienze, disponendo bene la mente a trattarli esvilupparli con sicurezza. 8. Che cosa è la Logica applicata? Logica applicata o materiale è laparte della Logica che, supposta la dottrina sulla giusta forma, tratta della formadella materia che deve applicarsi per ottenere la verità; o è la parte della Logica

che tratta dei presupposti della verità del conseguente.

Sulla Logica bisogna notare altri due elementi. a) La stessa applicazionedella forma alla materia che si fa nelle argomentazioni scientifiche particolari, ègià un'applicazione logica. Ma non spetta alla Logica fare questa ultimaapplicazione, perché questa logica concreta si identifica con le stesse scienze

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singolari. b) Ma appartiene alla Logica, dal momento che la Logica precede lealtre scienze, considerare nel loro insieme comune ciò che presuppone unascienza vera, per dedurre poi quella dottrina generale sulla natura dalla

scienza umana alla cui luce possano lavorare con ordine e speditamente lescienze particolari. Già abbiamo trattato l'importanza e l'utilità della Logica. Basti quiricordare che normalmente precede le altre parti della filosofia: "perché le altrescienze dipendono da essa, in quanto insegna il modo di procedere nellescienze particolari. E prima ancora di conoscere la stessa scienza, convieneconoscere il modo di conoscere" (In Boet. De Trin. q.6, a.1 ad 3). 9. Unità e divisione del trattato. Da quanto detto si vede che alla Criticaspetta innanzitutto indagare riflessivamente se esistono concetti veri, giudiziveri e ragionamenti veri, per poi risolvere il problema se è possibile per noi unascienza vera. È evidente che anche tocca in modo principale alla Logicamateriale il compito di indagare riflessivamente che cosa sono i concetti, igiudizi ed i ragionamenti veri, per poi risolvere il problema di che cosa è lanostra scienza vera. Quindi, le speculazioni proprie della Critica e della Logicamateriale, non solo sono concordi nel considerare la verità delle nostreconoscenze in ordine alla scienza, ma si relazionano reciprocamente. Proprio lespeculazioni sul fatto della conoscenza vera giustificano ed esigono ulterioriinvestigazioni sulla natura della conoscenza vera; e queste, a loro volta,chiarificano e stabiliscono lo stesso fatto della conoscenza vera. Pertanto, comedalla loro convenienza si deduce legittimamente l'unità della nostra trattazione,così dalla loro mutua relazione si deduce legittimamente la stessa divisione deltrattato. In primo luogo stabiliremo riflessivamente il fatto della conoscenzavera. Stabilito il fatto, investigheremo e determineremo la natura della nostraconoscenza vera. Con questi presupposti, porteremo a conclusione il problemadella conoscenza rispetto alla possibilità ed alla natura della scienza vera.Pertanto dividiamo il trattato in tre parti generali. La prima tratta dellaconoscenza della verità; la seconda, della natura della verità conosciuta; laterza, della verità della scienza umana.

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Per più dati su bibliografie particolari, cf. Enciclopedia Filosofica, I-IV.Venezia-Roma 1957.

PARTE PRIMALA CONOSCENZA DELLA LA VERITÀ

Senso e divisione della parte. - 1. I problemi critici vengono sollevati per

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ottenere una dottrina precisa e sistematica sul valore della conoscenza. A voltecolui che inizia a filosofare ignora ciò che si riferisce a questa dottrina. Ma altrevolte l'ha già in un certo modo pre-conosciuto, ed in questo caso i problemivengono posti per ottenere un riconoscimento riflesso ed esplicito. 2. Il primo problema critico è quello che secondo l'ordine bisogna porsiprima degli altri. E poiché, negata la possibilità di conoscere con certezza laverità, non potrebbe esporsi seriamente nessun altro problema, mentre,riconosciuta questa possibilità, possono suscitarsi ordinatamente tutti gli altriproblemi, il primo problema critico bisogna formularlo così o in modoequivalente: se per riflessione filosofica consta con certezza che l'uomo ècapace di conoscere la verità, o più brevemente "se l'uomo può conoscere laverità". Si vede chiaramente che per rispondere a questo problema nonpossiamo procedere a priori, poiché le nostre capacità si riconoscono nei loroatti. Bisognerà pertanto riflettere in prima istanza ed esaminare direttamente sein realtà conosciamo alcune verità, per poi di lì concludere riflessivamente edesplicitamente che siamo capaci di conoscere la verità. 3. A questo problema che ha un senso semplice e facile, si sono datesoluzioni complicate e difficili: a) Soluzione dichiaratamente negativa, proposta dagli Scettici. LoScetticismo difende la tesi che la nostra conoscenza umana non è propriamentecapace di captare niente come è in sé, da cui conclude che conosciamo tuttosolo come a noi appare, e così conclude con la convinzione definitiva di undubbio universale rispetto a tutto. Simile alla soluzione scettica è la posizionerelativista. Il Relativismo distingue tra una conoscenza assoluta della verità, percui conosciamo le cose come sono in sé, ed una conoscenza relativa, per cuiconosciamo le cose solo come appaiono. E siccome mantiene lo stessopregiudizio scettico che la nostra conoscenza non può conoscere niente come èin sé, conclude che la conoscenza umana è capace di conoscere la veritàrelativa, ma non l'assoluta. b) Soluzione meno dichiaratamente negativa, proposta dagliIdealisti ed Antintellettuali. Generalmente questi sono d'accordo nell'escluderela soluzione scettica ed ammettono concordemente che necessariamente ilRelativismo radicale si risolve in una forma di Scetticismo. Ma siccomeritengono dello Scetticismo che non possiamo conoscere col nostro intelletto lecose come sono in sé, parlano diversamente sulla nostra possibilità diraggiungere la verità. L'Idealismo ammette che conosciamo la verità per viadell'intelletto, ma escludendo che siamo capaci di conoscere la cosa come è insé, limita la nostra conoscenza solo all'oggetto interno della conoscenza oall'oggetto come si configura nella mente. L'Antintellettualismo non esclude la

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nostra capacità di captare la cosa esistente in sé, ma escludendo che possiamocoglierla con l'intelletto, limita il nostro contatto genuino con la realtàricorrendo a qualche intuizione pre-logica o solo a qualche intenzionalitàinfra-logica. c) Soluzione negativa dal punto di vista dell'oggetto, proposta daiSoggettivisti rispetto all'esistenza del nostro mondo sensibile. Il Soggettivismosull'esistenza del mondo sensibile, ammette che l'Idealismo el'Antintellettualismo radicali si risolvano logicamente in una forma diRelativismo, ma ritenendo dello Scetticismo che non siamo capaci di conoscereil mondo sensibile come è in sé, conclude che non abbiamo nessuna certezzaspeculativa sull'esistenza reale del mondo sensibile. d) Soluzione positiva, proposta dai Realisti che a loro volta sidistinguono come posizioni in un realismo mediato o immediato. Il RealismoMediato ammette che immediatamente conosciamo la realtà attuale dei nostriatti e del nostro io. Ma siccome ritiene dello Scetticismo che, da partedell'oggetto conosciuto, conosciamo immediatamente solo la nostrarappresentazione interna, afferma che solo raggiungiamo la certezzadell'esistenza del mondo in sé mediante una dimostrazione in senso stretto. IlRealismo Immediato afferma che la dimostrazione strettamente dettadell'esistenza del mondo sensibile è impossibile, poiché non possiamo mediareciò che sempre e necessariamente si presenta come immediato; e così trattasolo di mostrare esplicitamente, mediante una riflessione filosofica, che noiconosciamo la realtà esistente in sé del nostro concreto mondo sensibile inmodo valido ed immediato. 4. Questa complessità di soluzioni mostra l'importanza del primoproblema critico e la precisione con cui dobbiamo esporlo. In questa primaparte tratteremo della conoscenza della verità in senso realista; primo in modopositivo, e poi in modo difensivo. Così divideremo questa prima parte in duecapitoli: nel primo tratteremo della conoscenza naturale della verità, nelsecondo, delle principali negazioni della verità.

CAPITOLO PRIMOLA CONOSCENZA NATURALE DELLA VERITÀ

Senso e divisione del capitolo. - 1. Come abbiamo visto, lo Scetticismo non èsolo un'opinione semplicemente negativa, ma è anche una posizione teorica chepresta più o meno i suoi principi alle altre opinioni negative. Per ciò è beneconoscere come inizialmente e metodologicamente si presenta lo Scetticismo e

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come ugualmente si presenta la teoria della conoscenza non scettica che, inquanto coerentemente opposta allo Scetticismo, normalmente viene chiamataDogmatismo moderato. 2. Lo Scetticismo esagerando il fatto dell'errore e la difficoltà di stabilirela verità, incomincia il problema critico professando un dubbio universaleesteso ad ogni persuasione spontanea, e perciò esige una dimostrazione insenso stretto sulla conoscenza certa della verità; ma notando che taledimostrazione è impossibile, conclude: a) dubitando speculativamente di ogniverità e con ciò della stessa attitudine della nostra mente per la verità, e b)ammettendo incoerentemente che dobbiamo vivere con alcune certezzepratiche. Il termine Dogmatismo (da "dokéo", stimo, sono persuaso), si usa a volteper designare l'affermazione criticamente illegittima della certezza, cioè, nonmotivata o insufficientemente motivata (Dogmatismo esagerato). A questoDogmatismo si oppone il Criticismo che professa la necessità diun'affermazione motivata e legittima. Ma in senso più tecnico col nome diDogmatismo deve intendersi l'affermazione della certezza criticamentelegittima e sufficientemente motivata (Dogmatismo moderato). In questo sensoil Dogmatismo moderato coincide col Criticismo moderato e si oppone alDogmatismo e al Criticismo esagerati. 3. Tra gli Scolastici moderni che sostanzialmente aderiscono a questoDogmatismo, si danno alcune divergenze accidentali. Alcuni, che sembranoessere sotto l'influsso di un certo Dogmatismo esagerato, negano la legittimitàdell'esigenza critica, e conseguentemente che il filosofo debba fare un esamecritico di tutte le convinzioni spontanee. Altri, che sembrano essere sottol'influsso di un certo Criticismo esagerato, esasperano l'esigenza critica edesigono che il filosofo intraprenda l'esame critico professando un dubbiouniversale su ogni persuasione spontanea. Gli altri, ammettono la legittimitàdell'esigenza ed esame critico su ogni persuasione spontanea, ma negano che sidebba incominciare con una dubbio universale. Brevemente, la loro dottrina siriassume così: a) Dal fatto che nella conoscenza spontanea ci sbagliamo qualchevolta e sperimentiamo la difficoltà di fondare alcune verità, non è lecitoconcludere che ci sbagliamo sempre, e non raggiungiamo mai la verità.Soprattutto tenendo conto che per l'esercizio spontaneo della conoscenzaconosciamo naturalmente alcune verità fermissime, nell'ordine dell'esperienza enell'ordine universale, che sono a fondamento “di ogni conoscenza ulteriore chesi acquisisce per l'applicazione speculativa o pratica", e nelle quali "se siinsinuasse qualche errore, non si darebbe nessuna certezza in ogni futura

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conoscenza" (De Virt. In Comm., a.8; De Verit., q.16, a.2). b) Inoltre è proprio del saggio incominciare il problema criticosenza professare un dubbio universale ampliato ad ogni persuasione spontaneae per lo stesso motivo, non pretendere una dimostrazione in senso stretto, bensìun riconoscimento e la difesa ordinata delle persuasioni naturali genuine. E cosìconcludono a) affermando speculativamente che ci risulta di conoscere alcuneverità, e che quindi si segue come ovvia l'attitudine della nostra mente per laverità, b) esigendo poi coerentemente che la certezza pratica, sia legittimamentemotivata nella certezza speculativa. 4. Riguardo a questo Dogmatismo moderato che viene anche dettoRealismo critico, o Realismo intellettuale moderato, cominceremo a trattaresistematicamente in questo capitolo sotto l'aspetto positivo. Divideremo lamateria in sei articoli: nel primo vedremo la legittimità dell'esigenza critica; nelsecondo e nel terzo vedremo la conoscenza naturale della verità dell'esperienzae della verità universale; nel quarto definiremo l'attitudine della nostra menteper la verità; finalmente nel quinto e nel sesto, come sintesi risolutiva di tutta laquestione, tratteremo del metodo del primo problema critico e dello statoiniziale della mente.

ARTICOLO PRIMO

La legittimità dell'esigenza critica Senso dell'articolo. - Poiché la soluzione corretta del problema critico dipendedalla retta intelligenza della legittimità dell'esigenza critica, convieneinnanzitutto esaminare se e in che modo conosciamo che l'esigenza critica sialegittima. TESI I. Colui che incomincia a filosofare conosce con certezza, alla luce diuna critica naturale, che l'esigenza di un filosofare critico è legittima. Prenozioni - 1. Per esigenza (da "exigo", richiamo, chiedo quello che mi èdovuto) significhiamo nella tesi, la tendenza dell'uomo ad ottenere quello chegli è dovuto e gli è conveniente. Per esigenza scientifica, intendiamo l'esigenzadella nostra mente di acquisire la scienza colta come conveniente. Un'esigenzascientifica è legittima, quando è conveniente alla nostra mente; e si riconoscecome legittima, quando si capisce che è conveniente alla nostra mente. Per esigenza filosofica intendiamo l'esigenza di investigare tutte le coseconosciute per determinare e spiegare profondamente la loro natura. Per

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esigenza critica capiamo l'esigenza di indagare tutte le conoscenze della realtàper stabilire e spiegare fino in fondo il loro valore. Nella tesi affermiamosoprattutto che l'esigenza filosofica e critica, per il fatto stesso di manifestarsiin noi, riteniamo con certezza che sono legittime. 2. Come all'inizio la Logica la distinguiamo in Logica naturale escientifica, così in Critica si è soliti distinguere tra Critica naturale e Criticascientifica. Per Critica naturale intendiamo la certezza del valore dellaconoscenza ottenuta per l'esercizio e la riflessione spontanei della conoscenza.Per Critica scientifica, la certezza del valore della conoscenza acquisita per unostudio sistematico. L'esigenza filosofica e critica sorge in un momento di maturità, dietro unlungo esercizio quotidiano della conoscenza spontanea. Perciò in ogni uomo sidà una critica naturale. Stando così le cose, è chiaro che dobbiamo esaminare sequesta critica naturale è valida o no per il filosofo. Nella tesi affermiamoinizialmente che il filosofo deve ammettere alcuna critica naturale come valida,perché proprio alla sua luce, colui che incomincia a filosofare, può capire lalegittimità di quell'esigenza filosofica e critica insorta, e quindi il modolegittimo di suscitare il problema critico. Dividiamo la prova della tesi in tre parti: nella prima facciamo vedereche capiamo con certezza che l'esigenza filosofica è legittima; nella secondache capiamo ugualmente con certezza che l'esigenza critica è legittima; nellaterza che questa legittimità ci risulta valida alla luce di una critica naturale. Nelcorollario trattiamo del modo legittimo di esporre il problema critico. Opinioni. - Nelle prime tesi, inizialmente generali, anche le opinioni verrannoprese in considerazione in modo preliminare e generale, lasciando per lequestioni successive i dettagli più specifici. È ovvio che tra i filosofi non esistono avversari dell'esigenza filosoficaintesa in modo semplice e generale. Rispetto all'esigenza critica, come già alludevamo, si oppongono: a) perdifetto, alcuni sostenitori del Dogmatismo esagerato che negano la legittimitàdell'esigenza critica e negano anche la legittimità di sottomettere ad un esamecritico tutte le persuasioni spontanee; b) per eccesso, alcuni sostenitori delCriticismo esagerato che esasperano il senso dell'esigenza critica, e chiedonoun esame critico per legittimare dalla radice tutte le persuasioni spontanee,come se nessuna di esse fosse per se stessa legittima. Di questi tratteremospecificamente nel capitolo quinto e sesto. Coincidono con la dottrina della tesi le posizioni di coloro cheammettono un esame critico su tutte le persuasioni spontanee, e con questoesame critico pretendono: a) di riconoscere le legittime, b) di legittimare le

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legittimabili, c) e di correggere o respingere le illegittime. Prova della prima parte della tesi. – Chi incomincia a filosofare conosce concertezza che l'esigenza filosofica è legittima.

Per le caratteristiche dell'esigenza legittima. Si capisce con certezza cheun'esigenza è legittima quando: a) per il mero fatto di venir alla luce, siriconosce in tal modo legittima, b) che questa sua legittimità si suppone sempredopo, perfino negli stessi argomenti con cui la si controbatte. Ed è così chequeste caratteristiche si verificano nell'esigenza filosofica. Quindi si capiscecon certezza che l'esigenza filosofica è legittima. La minore. Perché: a) partendo dalla spontaneità con la quale ognunoammette che gli è conveniente darsi ragioni delle cose, si vede chiaro chel'esigenza filosofica, per il mero fatto di sorgere, si riconosce come legittima; b)partendo dal fatto che tutti i tentativi di controbatterla si risolvononecessariamente in un esercizio di filosofia, sia in riferimento al soggetto checonosce sia in riferimento all'oggetto conosciuto, si vede chiaro che lalegittimità dell'esigenza filosofica si suppone sempre dopo, anche negliargomenti che la contrastano. Il che non sarebbe possibile senza supporre lalegittimità della pretesa filosofica. Molte volte Platone mostrò la legittimità dell'esigenza di filosofare.Dopo di lui, Aristotele cominciò a spiegare la legittimità di questa esigenzafilosofica all'inizio del Primo Libro della Metafisica, notando che l'esigenza chesi fonda sulla natura umana è legittima, perché “tutti gli uomini desiderano pernatura sapere”,( c. I. inizio). Più tardi difese questa legittimità in diverseoccasioni, mostrando che la filosofia solo si può negare mediante qualchefilosofia, per esempio nel classico argomento del Protreptico: "se non bisognafar filosofia, bisogna far filosofia" (Fragm. 50, 1483-84). Seconda parte. – Chi incomincia a filosofare conosce con certezza chel'esigenza critica è legittima.

1. Partendo dall'implicazione necessaria: L'esigenza critica è implicatanella stessa esigenza filosofica. Quindi è legittima nello stesso sensodell'esigenza filosofica. L’antecedente si manifesta per il fatto che nell'esigenza filosofica èimplicata l'esigenza di arrivare ad una scienza valida. Ma non possiamo arrivaread una scienza valida, fino a che non conosciamo quella validità, dal momentoche finché non la conosciamo rimaniamo incerti. Quindi nell'esigenza filosoficasi contiene l'esigenza di conoscere la validità della scienza. E l'esigenza diconoscere la validità della scienza è la stessa esigenza critica. Quindinell'esigenza filosofica è implicata l'esigenza critica.

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Alcuni Contemporanei considerano in modo particolare questaimplicanza dell'esigenza critica nella stessa esigenza filosofica, e concludonogiustamente che anche nei filosofi antichi esisteva l'esigenza critica. Di qui chequesta seconda parte può provarsi con lo stesso argomento della prima: 2. Partendo dalle caratteristiche dell'esigenza legittima. Infatti, a) Ogniuomo capisce spontaneamente la convenienza di essere certo del valore dellesue conoscenze; ed è chiaro che b) ogni argomento contrario si risolvenell'esercizio di alcuna criticha riguardo al soggetto che conosce e agli oggetticonosciuto, il che non potrebbe darsi senza supporre la legittimità dell'esigenzacritica. Terza parte. – Chi incomincia a filosofare conosce tutto ciò alla luce di unacerta critica naturale.

Per la necessaria presupposizione. È la stessa cosa riconoscere chel'esigenza filosofica critica è legittima che conoscerla come conveniente allanostra mente, cioè, come conveniente alla natura conoscitiva della nostramente. Sulla base di tale premessa procediamo così: Conosciamo validamente che l'esigenza critica conviene alla nostramente, solo quando, con qualche senso veritiero, conosciamo validamente lanatura della nostra mente. E dal momento che questa conoscenza valida dellanatura della nostra mente non può darsi alla luce della Critica scientifica,perché è antecedente alla Critica scientifica. Quindi si dà alla luce di una criticanaturale; e pertanto il filosofo deve ammettere una certa critica naturale comevalida. La conclusione della tesi è la seguente: a) se colui che incomincia afilosofare ammette una certa critica naturale, procede coerentemente; b) se nonl'ammette, la sua incoerenza può guarirsi dal fatto di portarlo a consentirealmeno questo: che l'esigenza critica si nega solo supponendo che è legittimonegarla. Dunque da tale concessione si vede logicamente obbligato ad accettareche l'esigenza critica, per il fatto stesso di manifestarsi, si intende con certezzache è legittima, e pertanto che deve esistere una certa critica naturale valida. Corollario. -Dunque colui che incomincia a filosofare può con ognisicurezza porsi il problema critico; non certamente dubitando di tutte le suepersuasioni spontanee, bensì esaminandole con ordine e giudicandole. La ragione del primo asserto è che colui che incomincia a filosofare hagià una certa conoscenza valida della natura della sua mente. E motivato in talevalidità può con sicurezza dirigere la sua mente al proponimento del problemacritico.

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La ragione del secondo è che se qualcuno professasse un dubbio rispettoa tutte le persuasioni spontanee, dovrebbe estendere anche questo dubbio allepersuasioni genuine della critica naturale. E così non avrebbe più la possibilitàdi porsi con sicurezza il problema critico. La ragione del terzo è che non tutte le persuasioni spontanee hanno lostesso valore, perché molte volte vediamo che le conoscenze spontanee sonolimitate e fallaci. Quindi conviene che il filosofo le sottometta ad un esameminuzioso. Obiezioni. - 1. Se l'esigenza critica si capisce che è legittima per il mero fattodi venire alla luce, non sarebbe necessario fondarla su una critica naturale. Mala tesi afferma che l'esigenza critica è legittima, per il mero fatto di sorgere.Quindi non è necessario fondarla su una critica naturale. Risposta. Distinguo la maggiore: se si intende che è legittima, senza chepreceda nessuna altra esperienza né conoscenza certa, acconsento; precedendonecessariamente alcune esperienze e conoscenze certe, lo nego. Econtraddistinguo la minore. 2. Se la critica naturale fosse valida per il filosofo, potrebbe eliminaretutte le difficoltà. Ma dal momento che non può, non è valida per il filosofo. Risposta. Distinguo la maggiore: potrebbe eliminare le difficoltàfilosofiche e pre-filosófiche, almeno indirettamente, acconsento; potrebbeeliminarle direttamente, lo nego. E contraddistinguo la minore. Una difficoltà si rimuove indirettamente, quando conoscendo concertezza la verità contro la quale si dirige la difficoltà, si intende che quelladifficoltà non può distruggere la verità conosciuta; si rimuove direttamente,quando conoscendo già la dottrina esplicita sulla verità contro la quale si dirigela difficoltà, si applica quella dottrina conosciuta alla soluzione della difficoltà.Pertanto la critica naturale è certamente valida per il filosofo, ma il filosofodeve esplicitarla e completarla con una Critica scientifica. Per completare larisposta, si deve notare che nella stessa Critica scientifica, e nelle restanti partidella filosofia, si rimuovono direttamente solo le principali difficoltà, ma nontutte.

ARTICOLO SECONDO

La verità fondamentale dell'esperienza Senso dell'articolo. - Sappiamo dall'articolo precedente che l'esigenza critica èlegittima e che per ciò possiamo con sicurezza porci il problema critico;

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sappiamo inoltre che alcuni filosofi pensano illegittimamente che ogniconoscenza spontanea non è valida per un filosofo. Per potere confutaredirettamente questa opinione, cominciamo il nostro esame critico domandandose si intende con certezza che, durante conoscenza spontanea, noi conosciamonecessariamente alcune verità, o “se l'uomo conosce naturalmente alcuneverità”. In questo articolo esaminiamo la conoscenza della verità nell’ambitodell'esperienza, mentre nel seguente esmineremo la conoscenza della verità sulpiano universale. TESI II. - L'uomo conosce naturalmente la verità fondamentale dellarealtà dell'ente, da parte dell'oggetto e da parte del soggetto. Prenozioni - 1. I termini di questa tesi iniziale si intendono nel loro senso piùovvio e comune: a) Giacché l'esame critico procede mediante una riflessione suinostri atti conoscitivi, e ciascuno di noi può riflettere solo sui propri atti, la tesiintende principalmente col nome di uomo ciascuno di noi nella sua singolarità,ed estensivamente gli altri uomini in quanto supponiamo che hanno la stessaconoscenza specifica. Col nome di conoscenza, intendiamo quell'attività nostranotissima per la quale l'oggetto conosciuto si fa presente al soggetto checonosce. Nella tesi distinguiamo la conoscenza naturale dell'artificiale: perconoscenza naturale intendiamo la conoscenza che necessariamente edinfallibilmente abbiamo per lo stesso esercizio spontaneo della conoscenza; perconoscenza artificiale, la conoscenza che acquisiamo mediante un studioordinato e metódico. b) Dal momento che spontaneamente ogni uomo è persuaso cheegli conosce la verità quando afferma che il suo oggetto è come realmente è,intendiamo per verità la convenienza o conformità tra la nostra conoscenza (oaffermazione giudiziale) e la cosa (o l'oggetto sul quale versa il giudizio). Perverità di esperienza intendiamo la conformità tra la nostra affermazione ed ildato di esperienza, in quanto è oggetto dell'affermazione. Nella tesidistinguiamo la verità fondamentale, verità che si deve conoscere per conoscerele altre, dalla verità fondata, verità che non può conoscersi se non alla lucedelle fondamentali. Affermiamo nella tesi che l'uomo conosce naturalmente alcune verità

fondamentali dell'esperienza con la cui certezza giudica le altre. 2. Tanto per chiarificare le prenozioni, come per basare la tesi,procederemo mediante un'esplicitazione della nostra vita conoscitiva concreta: a) Come una persuasione ovvia e comune, intendiamo per ente ciòa cui compete l’essere in qualche modo, ed in questo senso, tutto ciò che non è

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puro niente. Intendiamo per ente reale ciò che è indipendentemente dell'attivitàconoscitiva per la quale conosciamo in atto, ed in questo senso, tutto ciò checon la sua stessa entità si impone alla mente giudicante e la determina (o“misura”); e intendiamo per ente reale attuale, l'ente reale concretamenteesistente, ed in questo senso, tutto ciò che non è meramente possibile. b) Il senso della tesi si risolve così. Ci domandiamo se nella nostraesperienza umana totale si dà necessariamente e infallibilmente qualcosa che sidebba dire genuinamente certo. E rispondiamo che, sottoponendo alla nostraanalisi la coscienza stabile secondo la quale viviamo, bisogna riconoscere chesenza alcun dubbio se ci si presenta come genuinamente certa la reale attualitàdell'ente, tanto da parte dell'oggetto conosciuto, come da parte del soggetto checonosce; e che in questo senso, l'uomo è naturalmente certo della verità dellarealtà dell'ente. Rimettiamo alle tesi seguenti ogni ulteriore determinazione diquesta verità generica ed iniziale. La prova della tesi avrà due parti: nella prima mostreremo che l'uomo perl'esercizio spontaneo della sua conoscenza è fermamente certo della verità dellarealtà dell'ente; nella seconda che questa verità è fondamentale. Opinioni. - Alla tesi si oppongono direttamente gli Scettici e i Relativistiradicali che, negando la conoscenza della verità assoluta, negano anchel'attitudine della mente per la verità assoluta. Si oppongono almenoindirettamente gli Idealisti ed Antiintellettuali che, benché convengano nellaconfutazione generica dello Scetticismo e del Relativismo, professano unaconcezione diversa della verità e pertanto della nostra attitudine per la verità. Sioppongono anche, almeno inizialmente, tutti i Soggettivisti rispetto all'esistenzadel mondo sensibile che, non ammettendo la conoscenza naturale della realtàdel mondo, negano anche la disposizione diretta della nostra mente all'entesensibile, oggetto proprio del nostro intelletto. Di queste opinioni tratteremoseparatamente nel capitolo secondo. Gli Scolastici moderni concordano comunemente nella dottrina della tesi,ma differiscono sugli esempi con i quali bisogna cominciare la considerazione.Alcuni preferiscono considerare solo esempi soggettivi, come l'esistenzapropria o i propri atti interni. Altri preferiscono considerare anche gli esempioggettivi, o l'oggettività del mondo sensibile, e lasciano per un altro trattato laconfutazione definitiva dell'attività soggettiva come produttrice del mondo.Noi, tenendo anche in conto la coerenza del trattato, pensiamo che bisognaincominciare: a) per un riconoscimento esplicito della nostra coscienzagiudiziale, in quanto che insieme direttamente aperta alla stessa realtà dell'entesensibile e riflettente nell'esercizio dell'atto ("exercite reflectens") sugli attireali e sul soggetto reale, b) considerandola primo nei suoi aspetti più semplici

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e fondamentali, per dopo procedere ordinatamente su quelli più complessi ederivati. Considerazioni previe. - 1. Il termine di coscienza, in senso proprio, significala conoscenza attuale che abbiamo dei nostri atti interni. Ma oggi si impiegaanche con un senso più ampio per significare la conoscenza cosciente cheabbiamo tanto di dati soggettivi, come di dati oggettivi. 2. Possiamo pensare solo di porre il problema critico sulle nostreconoscenze, se siamo coscienti che noi conosciamo e se coscientementeriflettiamo sui nostri atti. Così, è facile costatare che da questo testimonio dellacoscienza, noi prendiamo non solo tutti i dati dai quali nasce il problemacritico, ma anche il fatto che la stessa coscienza si offre come un dato originario(ut datum primum) attraverso il quale si presentano tutti gli altri. 3. Considerando la nostra coscienza come il dato primo attraverso ilquale si danno gli altri dati, è facile notare che questa nostra coscienzaconcreta: a) non è coscienza di un io astratto e comune, bensì di un io

individuale e personale; b) né è una coscienza dell'io puro, bensì di un io che

ha molti atti, per esempio: che sente, intende, vuole, opera, etc.; c) non è unacoscienza dell'io puro coi suoi atti, bensì dell'io che per i suoi atti tende ad un

oggetto opposto; d) non è una coscienza del puro oggetto indeterminato edastratto, bensì determinato e concreto del mondo oggettivo degli uomini e lecose; e) non è una coscienza che solo si limitata al mondo sensibile, ma che con

l'aiuto della cosa sensibile si alza alle cose sovrasensibili. 4. L'atto conoscitivo pienamente cosciente per noi è il giudizio, ed inquesto senso la coscienza nel suo senso pieno è la coscienza giudiziale.Innanzitutto abbiamo giudizi diretti, per i quali in primo luogo giudichiamol'essere dai dati dell'esperienza oggettiva. Poi, abbiamo giudizi riflessi, per iquali secondariamente giudichiamo l'essere dei dati dell'esperienza soggettiva.Finalmente, poiché il mondo dell'esperienza ci è offerto come appetibile edoperabile sotto molti aspetti, oltre a giudizi speculativi abbiamo anche giudizi

pratici, con i quali dirigiamo la nostra vita. 5. Questa coscienza giudiziale non si può negare sinceramente, poiché lasperimentiamo sempre e la manifestiamo sempre nelle nostre espressioni. Epertanto, si può sempre difendere, mostrando che si trova affermata in

esercizio ("exercite affirmata"), in ogni volta che si tenta di negarla. La provadella tesi si fonderà sull'analisi dichiarativa di questa coscienza concreta.

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Prova della prima parte della tesi. – L'uomo conosce naturalmente la veritàdella realtà dell'ente, da parte dell'oggetto e da parte del soggetto.

Per un riconoscimento dichiarativo. Per l'esercizio spontaneo della suaconoscenza l'uomo è fermamente cosciente che egli conosce il mondo concretodegli uomini e delle cose, e che, conseguente con questa conoscenza, egli vuoleed opera sullo stesso. È cosicché per questo si sente fermamente certo dellaverità della realtà dell'ente, tanto da parte dell'oggetto, come da parte delsoggetto. Quindi per l'esercizio spontaneo della sua conoscenza l'uomo èfermamente certo della verità della realtà dell’ente, tanto da parte dell'oggettocome dal parte del soggetto. La maggiore, nel suo senso constativo, enuncia un fatto di coscienzacertissimo, sempre conosciuto per noi e dal quale non possiamo maiprescindire. La minore nel suo senso declaratorio, non è altro che il riconoscimento diquesta nostra coscienza costante, nel suo senso più semplice ed evidente. Perché per il fatto che siamo permanentemente coscienti che conosciamoil mondo concreto degli uomini e le cose, e che conseguentemente vogliamo edoperiamo su di esso: a) da parte dell'oggetto, al quale si orienta direttamente la nostraconoscenza, siamo certi che questo mondo dato a noi, se è qualcosa, è un ente

attuale reale: perché chiaramente capiamo che l'insieme degli uomini e delle

cose non è un puro niente, bensì qualcosa di contrapposto al niente, cioè un

ente; e che, precisamente in quanto termine concreto delle nostre conoscenze,desideri ed azioni, non è un ente puramente possibile, bensì attuale, e in quantocosì attuale, reale. b) da parte del soggetto, sul quale riflessivamente ritorna la nostraconoscenza, ugualmente siamo certi che i nostri atti concreti se sono qualcosa,sono un ente reale attuale: perché egualmente capiamo con chiarezza che nonsono puro niente, né ente puramente possibile, ma anche essi col suo modoproprio un ente attuale, e in quanto così attuale, reale. Del fatto che permanentemente siamo certi che conosciamo il mondoconcreto degli uomini e le cose, e che in conseguenza vogliamo ed operiamo sudi esso, siamo certi che mediante la nostra esperienza obiettiva e soggettiva, sequalcosa c'è offerto evidentemente, c'è offerto l'ente reale attuale; ed in questosenso siamo certi della verità della realtà dell'ente, da parte dell'oggetto e daparte del sogetto. Dell'argomento si deduce che la nostra attività giudiziale è per sé stessaordinata a captare direttamente l'ente obiettivo ed “esercitamente” (cioè,nell'esercizio dell'atto) l'ente soggettivo; e pertanto che il nostro giudizioumano raggiunge la sua perfezione ogni volta che con evidenza afferma essere

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quello che è o non essere quello che non è. Obiezione: Nell'ipotesi che l'attestazione della coscienza soggettiva edobiettiva sia illusoria, non sarebbe criticamente certo che noi conosciamonaturalmente la verità della realtà dell'ente. Risposta 1ª. Questa ipotesi può rimuoversi con ogni sicurezza, poiché inun certo modo vero implica le stesse verità delle quali tenta di dubitare. Infatti, l'ipotesi che l'attestazione della coscienza sia illusoria, solo si puòpresentare, essaminae o discutere, ammettendo nell'esercizio dell'atto("exercite") che il fatto della presentazione, esame e discussione è un fattocertamente cosciente. Quindi rimane sempre come verità che il testimonio dellacoscienza, nella sua attestazione attuale, non è illusorio. Con queste premesse che difendono il senso della maggiore, rispondiamocosì per difendere il senso della minore: Anche nell'ipotesi che l'attestazione della nostra coscienza soggettiva siaillusoria, rimane sempre vero che se ci sbagliamo in atto, pensiamo in atto, epertanto esistiamo in atto. Egualmente, anche nell'ipotesi che l'attestazionedella nostra coscienza obiettiva sia illusoria, e che pertanto, il mondo degliuomini e delle cose sia "un grande fenomeno interno", rimarrebbe sempre comevero che questo concreto oggetto conosciuto, voluto e operato non sarebbepuro niente, né qualcosa di puramente possibile, bensì in qualche senso veroattuale per noi e reale in noi. Dietro questi chiarimenti, affinché non sembri che metodologicamentevogliamo fin dall'inizio occultare quello che ci appare naturalmente evidente,illustriamo ulteriormente il senso proprio della minore del seguente modo: Risposta 2ª. Contro il fatto non vale l'argomentazione, e con maggioreragione non vale l'ipotesi. Se vogliamo incominciare, e solo possiamoincominciare per l'attestazione della nostra coscienza; e se seguiamol'attestazione della nostra coscienza senza nessun pregiudizio né teoriapreconcetta, come è del tutto legittimo: è necessario riconoscere che con lastessa evidenza con la quale siamo coscienti della realtà del nostro io ed i nostriatti, stiamo altrettanto certi che i nostri atti tendono al mondo degli uomini edelle cose come oggettivo e opposto a noi, che si offre come termine in sé realedelle nostre conoscenze, volontà ed azioni. Data l'importanza delle opinioni che negano la realtà del mondo in séesistente, nelle seguenti tesi undicesima e dodicesima, torneremo a trattareordinatamente l'aspetto genuino dell'evidenza del nostro mondo sensibile; maper coerenza della dottrina è necessario che, già da questa tesi, riconosciamoalmeno in un modo iniziale questa evidenza stabile e necessaria.

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Seconda parte. – La verità della realtà dell'ente è fondamentale. Partendo delle caratteristiche delle verità fondamentali: Sono

fondamentali quelle verità che se sono distrutte si rovina con esse ogni altracertezza. È così che di questo tipo è la verità della realtà dell'ente, tanto da partedel soggetto come da parte dell'oggetto. Quindi la verità della realtà dell'ente èfondamentale. La minore. Poiché: a) Se si rovina la certezza della reale attualità delnostro io e dei nostri atti, si rovina ogni certezza da parte del soggetto, e cosìnon avremmo nessuna certezza; b) Se si rovinata la certezza della reale attualitàdel nostro mondo sensibile, si rovina non solo ogni certezza ulteriore sulmondo, ma anche ogni altra certezza prossima o remotamente motivata nellarealtà del mondo. Possiamo dunque concludere senza paura che l'uomo conoscenaturalmente, o necessariamente ed infallibilmente per lo stesso esercizio dellasua conoscenza, la verità fondamentale della realtà dell'ente, cioè la conoscenzapresopposta per tutte le altre verità, tanto da parte dell'oggetto conosciuto,quanto da parte del soggetto conoscente. Obiezioni. - 1. Se la certezza naturale fosse valida per il filosofo, non sarebbenecessaria un'investigazione riflessa su di essa. È così che nella tesi si è fattaun'investigazione riflessa. Quindi la certezza naturale non è valida per ilfilosofo. Risposta. Distinguo la maggiore: Non sarebbe necessariaun'investigazione riflessa, per avere per la prima volta la certezza, acconsento;per riconoscerla come esplicita e sistematicamente, lo nego. Contraddistinguola minore. Come già abbiamo mostrato prima, alla luce della critica naturale,capiamo la legittimità dell'esigenza critica ed il modo legittimo di porrel'investigazione critica, per raggiungere una dottrina esplicita e sistematica sulvalore della conoscenza umana. In questo senso, il primo problema criticosorge e si sviluppa nell'ambito di una coscienza certa, e si pone, non perottenere per la prima volta una certezza, bensì per riconoscere esplicitamente esistematicamente la certezza che abbiamo già. 2. Se tutti conoscessero naturalmente alcune verità, nessuno potrebbedubitare di esse. È cosicché alcuni filosofi dubitarono delle suddette verità.Quindi… Risposta. Distinguo la maggiore: Nessuno potrebbe dubitare realmente,acconsento; con parole o illusoriamente, lo nego. E contraddistinguo la minore. Il dubbio illusorio è lo stato della mente in cui qualcuno pensa di

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dubitare, senza che realmente dubiti; perché può dire solo che dubita di alcunaverità nella misura in cui, nell'esercizio dell'atto ed implicitamente diventa certodella verità stessa. Ugualmente, la negazione illusoria è lo stato della mentenella quale qualcuno pensa di negare, senza realmente negare; perché può diresolo che nega una qualche verità, in quanto nell'esercizio dell'atto edimplicitamente afferma la verità. Orbene, le verità fondamentali si esercitanosempre implicitamente. Quindi come di esse possiamo avere solo un dubbioillusorio, possiamo proferire altrettanto solo una negazione illusoria. 3. Lo scienziato non accetta niente che non sia dimostrato. Ma le veritàfondamentali non possono essere dimostrate. Quindi lo scienziato non deveaccettarle. Risposta. Distinguo la maggiore: Lo scienziato non può accettare nientedi dimostrabile che non debba dimostrarsi, acconsento; niente di indimostrabileche non sia dimostrato, lo nego. E contraddistinguo la minore. Istanza. Quello che è indimostrabile si deve esaminare scientificamentee si deve legittimare. Risposta. Distinguo l'asserzione. Deve esaminarsi scientificamente, omediante una riflessione scientifica, acconsento; deve legittimarsiscientificamente, suddistinguo. Si deve legittimare in senso ampio, cioè la sualegittimità si deve riconoscere esplicitamente e difendere, acconsento; si develegittimare in senso stretto, come se ancora non avesse una sua proprialegittimità, lo nego. Per chiarire le risposte, dobbiamo notare innanzitutto che chi dice chebisogna dimostrare tutte le cose, dovrebbe incominciare dimostrando questa suaaffermazione; e poiché non potrà dimostrarla senza incominciare da alcunepremesse, dovrebbe dimostrare quelle premesse, e le premesse con le qualidimostra le premesse e così all'infinito. E se qualche volta si ferma, deveammettere che non bisogna dimostrare tutte le cose, e pertanto che non è lecitodire che lo scienziato non accetta niente che non sia dimostrato. Poi bisogna notare che le verità naturali fondano ogni dimostrazione, eche pertanto sono certe antecedentemente ad ogni dimostrazione; o che sononecessarie ed immediatamente evidenti. Ed è impossibile mediare ostrettamente dimostrare quello che è per la sua stessa natura immediato. Quindiè impossibile dimostrare le verità naturali. Il che può essere anche spiegatocosì: se qualcuno volesse dimostrare le verità fondamentali, dovrebbeprescindere nelle premesse dalle stesse, perché nella dimostrazione strettamentedetta, non è lecito supporre nelle premesse quello che bisogna dimostrare. Maquesto è impossibile, perché senza la luce delle verità fondamentali, non si può

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porre validamente nessuna premessa. Pertanto è impossibile dimostrare leverità fondamentali. E di lì appare sufficientemente chiaro che non è propriodel saggio esigere una dimostrazione delle cose immediate indimostrabili; e cheè del saggio riconoscere con sincerità e difendere ordinatamente quelle coseche sono originariamente ed immediatamente valide. In fine bisogna notare che queste stesse cose si possono direproporzionalmente a colui che esige legittimare in senso stretto, mediante unariflessione scientifica, le cose che sono per loro stessa natura necessariamenteed immediatamente legittime. Perché la legittimazione in senso stretto siimpiega per legittimare per la prima volta quello che non è ancora legittimo, edin critica, legittimare quello che non è ancora legittimo, vorrebbe dire faregenuinamente certo quello che non è ancora genuinamente certo, cioèdimostrarlo in modo stretto.

ARTICOLO TERZO

La verità universale fondamentale Senso dell'articolo. Nella tesi precedente riconoscendo che abbiamo unaconoscenza naturale della verità dell'esperienza, abbiamo incominciatospontaneamente a formarci una qualche dottrina universale intornoall'esperienza. Per confermare inizialmente la legittimità dell'universalità diquesta scienza, e per completare la nostra indagine sulla conoscenza naturale,esamineremo in questo articolo se conosciamo naturalmente una qualche veritàuniversale.

TESI III.- L’uomo conosce naturalmente la verità fondamentale delprincipio di contraddizione, nella cui luce giudica di tutto.

Prenozioni.- 1. Questa tesi bisogna prenderla anche nel suo senso ovvio ecomune e similmente bisogna stabilirla mediante una spiegazione della nostravita conoscitiva concreta:

a) Per verità universale o comune capiamo la verità che si verifica inmolti casi. Per verità comunissima o in senso pieno fondamentale, la verità chesi verifica in tutti i casi, perché tutto si conosce mediante la sua applicazione.

b) Il principio di contraddizione afferma che ogni ente, in quanto ente,non può essere non ente. Normalmente si adduce questa formula classica:"Qualcosa non può simultaneamente e sotto lo stesso aspetto essere e nonessere"; o anche: "Dello stesso soggetto non può simultaneamente affermarsi enegarsi lo stesso predicato".

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2. Per riconoscere il valore fondamentale di questo primo principio sirichiede cogliere tre cose: a) che la nozione di ente ha valore oggettivouniversalissimo o comunissimo; b) che dell'ente dobbiamo affermare che nonpuò essere non ente; e c) che alla luce di questa verità giudichiamo tutto. Nellatesi consideraiamo le tre cose, e così affermiamo che l'uomo conoscenaturalmente la verità del principio di contraddizione; poi per completare ladottrina in tesi successive si tratterà la natura dei principi e del primo principio. La prova della tesi avrà tre parti: nella prima mostreremo di conoscerecon certezza che la nozione di ente ha valore comunissimo; nella secondamostreremo di conoscere con certezza la verità del principio di contraddizione;nella terza, che questa verità è la più fondamentale di tutte. Opinioni. - Oltre agli Scettici e i Relativisti, si oppongono direttamente aquesta tesi: a) gli Empiristi radicali negando le conoscenze propriamenteuniversali; e b) i Concettualisti radicali negando che le conoscenze universaliabbiano valore oggettivo. Di tali opinioni tratteremo separatamente nel capitoloterzo. Prova della prima parte. - Conosciamo con certezza che la nozione di ente havalore comunissimo. Per un riconoscimento dichiarativo. Mediante l'esercizio spontaneo dellaconoscenza, non solo conosciamo l'ente come esistente in atto, ma ancheconosciamo l'ente come ciò a cui compete l'essere. Ma conoscendo l’ente comeciò a cui compete l'essere, conosciamo con certezza il valore comunisssimodella nozione di ente. Quindi mediante l'esercizio spontaneo della conoscenza,conosciamo con certezza il valore comunisssimo della nozione di ente.

La maggiore: ci è conosciuta da quanto abbiamo detto nella tesiprecedente. Infatti: a) Dal fatto che siamo certi che la realtà concreta attualedell’esperienza, se è qualcosa, è un ente reale attuale, conosciamo l’ente comeesistente in atto; b) Poi, dal fatto che siamo certi che tutto quanto non è niente,se è qualcosa, è ente, conosciamo l’ente come ciò a cui compete l’essere inqualsiasi modo.

La minore: anche ci è manifesta da quanto abbiamo già detto. Perché dalfatto di essere persuasi che tutto quanto non è niente è ciò a cui comppetel’essere, siamo certi che questa nozione di ente si verifica in tutte le cose. Ora,la nozione che si verifica in tutte le cose, ha un valore comunisssimo. Seconda parte. - "Conosciamo con certezza la verità del principio di

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contraddizione" Per un riconoscimento dichiarativo. Come abbiamo visto nella tesiprecedente, mediante l'esercizio spontaneo della conoscenza, conosciamo concertezza alcune verità di esperienza. Ora, questo ci rende certi di conoscere laverità del principio di contraddizione. Quindi, mediante l'esercizio spontaneodella conoscenza, conosciamo con certezza la verità del principio dicontraddizione.

La minore: Giacché noi conosciamo con certezza la verità di esperienzasolo nella misura in cui siamo certi che alla cosa significata per il soggetto glicorrisponde realmente il predicato che gli attribuiamo, escludendo chesimultaneamente possa corrispondergli il predicato contraddittorio: altrimentirimarremo sempre incerti. Ma facendo questo siamo certi dell'applicazionenecessaria del principio di contraddizione e, pertanto, della sua necessariaverità. Quindi conosciamo la verità di esperienza nella misura in cui siamo certidella verità necessaria del principio di contraddizione.

Da tutto ciò si mostra sufficientemente che la verità del principio dicontraddizione deve apparire a noi necessariamente per la stessa comparazionedei suoi termini: perché se noi vediamo necessariamente la sua applicazione,vediamo necessariamente la sua verità. Ed in realtà, comparando la nozionepositiva semplicissima che si verifica in tutti, cioè la nozione di "ente", e lanegazione positiva di ente, cioè, il non-ente, apertamente vediamo che laseconda nozione deve negarsi assolutamente dalla prima. Perché siamocoscienti che l'ente, precisamente in quanto ente, non può essere non ente; e chequindi ogni ente singolare determinato non può simultaneamente e sotto lostesso aspetto essere singolare e non singolare, determinato e non determinato. Terza parte. - Tale verità è la più fondamentale di tutte. Partendo delle caratteristiche delle cose fondamentali. Veritàfondamentale è quella che, se viene distrutta, si distrugge con essa ogni altracertezza. Ora, tale è la verità del principio di contraddizione: poiché con la suaapplicazione giudichiamo ogni verità, e senza la sua applicazione non possiamogiudicare nessuna verità. Quindi la verità del principio di contraddizione èfondamentale. Domanda: Quale è la differenza tra la conoscenza naturale e laconoscenza spontanea? Risposta: Ogni conoscenza naturale è spontanea, ma non ogniconoscenza spontanea è naturale. Infatti, la conoscenza spontanea, (quella cioè che acquista per l'esercizio

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spontaneo della conoscenza), può essere immediata o mediata, necessaria ocontingente, defficiente o incrollabile, certa o incerta, comune o individuale, ecosì via.

Invecce, la conoscenza naturale (quella cioè che si dà necessariamente edinfallibilmente per l'esercizio spontaneo della conoscenza) è quella conoscenzaspontanea che è immediata, necessaria, incrollabile, fondamentale, ed in questosenso, la più certa di tutte e comune a tutti noi: come se fluisse dalla stessanatura del nostro intelleto. Corollario. - Quindi si dà in noi un criterio naturale della verità, cheultimamente si risolve in un'evidenza dello stesso oggetto. Il problema di se esiste un criterio genuino della verità è una formulaequivalente ed intimamente legata al nostro primo problema, poiché se nonpossediamo qualche criterio genuino, non possediamo nessuna certezzagenuina. Lasciando a dopo lo studio più completo del criterio della verità, quiesplicitiamo solo alcuni punti sul suo valore naturale. Per evidenza capiamol'intelligibilità chiara dell'oggetto come esistente in sé, in questo modo e non inaltro, cioè, la necessità dell'oggetto manifestata alla mente. La ragione del primo asserto, si deduce dal fatto che noi in realtàconosciamo alcune verità, sia nell’ambito dell’esperienza che in quellouniversale. Ma non possiamo conoscere alcuna verità se non si dà un suocriterio genuino. Quindi si dà un criterio genuino della verità. La ragione del secondo asserto, si deduce dal fatto che noi giudichiamodi tutto alla luce del principio di contraddizione. Perché realmente, fino a chenon vediamo che l'oggetto è così e non altrimenti, rimaniamo incerti; ed alcontrario, quando lo vediamo, siamo sempre sicuri. E siccome è la stessa cosavedere che l'oggetto è così e non altrimenti che cogliere qualche evidenza dellostesso oggetto; noi non siamo certi fino a che non cogliamo qualche evidenzadell'oggetto. Ed in questo senso, siamo naturalmente coscienti che l'evidenza èil criterio genuino della verità. Obiezioni. - 1. Una nozione indeterminata non può avere valore oggettivo sucose determinate. È così che la nozione di ente è indeterminata. Quindi non puòavere valore oggettivo su cose determinate. Risposta. Distinguo il maggiore: Non può avere valore oggettivo rispettoal modo come noi la concepiamo, acconsento; rispetto a ciò che si concepisce,lo nego. E contraddistinguo la minore. Per spiegare questa distinzione conviene fare attenzione che noiarriviamo a scoprire il modo con quale noi concepiamo (modum quoconcipitur), quando riflettiamo su una nozione già posseduta e giudicata. In

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questa maniera noi cogliamo che la nozione di ente è comune, e in quantocomune indeterminata secondo il suo modo proprio. Invece, quando noiconcepiamo spontaneamente questa nozione e giudichiamo secondo essa,facciamo attenzione solo a ciò che concepiamo (id quod concipitur), e solo

questo attribuiamo alle cose. Infatti, noi non pretendiamo di dire che le cosesono in loro stesse enti indeterminati, bensì vogliamo solo dire che le cosesingolari determinate, se sono qualcosa, sono ente. 2. Alcuni filosofi non scettici negarono il principio di contraddizione.Quindi il principio di contraddizione non è certo. Risposta. Distinguo l’antecedente: negarono il principio nel suo sensoovvio, contemplato nella tesi, lo nego; in alcune delle sue applicazioni piùdifficili, lo concedo (o suddistinguo: illegittimamente ed illusoriamente, comesi vedrà dopo, lo concedo; realmente, lo nego). E secondo queste distinzioninego la conseguenza. 3. Un principio che ha applicazioni oscure, non è evidente. È cosicché ilprincipio di contraddizione ha applicazioni oscure. Quindi non è evidente. Risposta. Distinguo la maggiore: un principio che ha applicazioni oscureper ragione dell'oscurità dello stesso principio, non è evidente, lo concedo; perragione dell'oscurità della materia alla quale si applica, lo nego. Econtraddistinguo la minore. Così come la proposizione "l'uomo è animale razionale" appare evidentealla mente, benché non si veda come debba applicarsi ad un ente distante chenon si distingue se è uomo o albero, a maggiore ragione il principio dicontraddizione appare sempre evidente alla mente, benché qualche volta non siveda chiaro come si debba applicarlo ad alcune materie oscure. In questo casol'applicazione non dipende dall'oscurità del principio, bensì dell'oscurità dellamateria. 4. Di fronte al primo problema critico è meglio cominciare dal minimonecessario. Quindi è meglio non cominciare dalla dottrina delle verità naturali. Risposta. Distinguo l'antecedente: trattando del problema critico sotto unaspetto polemico e negativo, è meglio cominciare da un minimo necessario, loconcedo, ( perché è meglio cominciare, per quanto possibile, dalle cose checoncede o deve concedere l'avversario); trattando il problema critico, sotto unaspetto sistematico e positivo, lo nego. Perché è meglio cominciare dalle cosepiù fondamentali e più semplici, per potere arrivare con ordine alle piùcomplesse e derivate. Ed ugualmente distinguo il conseguente.

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ARTICOLO QUARTO

L'attitudine della mente per la verità Senso dell'articolo. Nell'articolo secondo e terzo abbiamo mostratoesplicitamente che noi conosciamo di fatto alcune verità. Di qui possiamoconcludere già legittimamente che siamo capaci di conoscere la verità.

Ma prima di trarre questa conclusione esplicita, è utile vedere come gliscettici tentano di annullare la sua legittimità. Obiettano che non possiamoessere certi della verità senza esser certi della capacità della nostra mente per laverità e non possiamo essere certi della capacità della nostra mente senza essercerti di alcune verità. E così concludono che ogni tentativo di affermare laverità e la capacità della mente per essa è viziato con una petizione di principioo con un circolo vizioso. È ovvio che se la verità e la capacità della mente per la verità, in un certosenso non si affermano simultaneamente, questa difficoltà degli scettici non hauna soluzione diretta. Quindi prima di concludere positivamente il nostro primoproblema critico, bisogna esaminare di proposito: se ed in che maniera puòl'uomo conoscere simultaneamente la verità e la capacità della sua mente peressa. TESI IV. – Quando conosce la verità, l'uomo capta simultaneamenteesercitando questo atto ("simul exercite"), la capacità della sua mente perla verità. Prenozioni - 1. Questa tesi spiega e si stabilisce mediante un'ulterioredichiarazione e riflessione sui dati della coscienza già considerati: a) La coscienza ci riferisce che il giudizio è l’atto per il quale la mentedice di essere quello che è o non essere quello che non è; o in altre parole: cheil giudizio è una composizione speciale di due termini che esistono come uno, enella quale la cosa significata per il soggetto si dice che è lo significato per ilpredicato. Il giudizio può essere diretto o riflesso: il giudizio diretto verte sullacosa oggettiva, per esempio "Pietro è uomo"; il giudizio riflesso verte sull'attosoggettivo, per esempio "Il giudizio Pietro è uomo era vero". b) Il giudizio è l'atto perfetto della mente, cioè: formalmente visivo, omotivato per la stessa evidenza della cosa giudicata; formalmente cosciente, oautotrasparente, nel quale molte cose si conoscono come se fossero una (inmodo sintetico), tanto da parte dell'oggetto come del soggetto. Quando in unatto di conoscenza si conoscono le cose che si danno o succedono in quell'atto,quella conoscenza si chiama conoscenza nell'esercizio dell'atto (in actuexercito). In questo senso normalmente si dice che: nel giudizio diretto, nel

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mentre si realizza l'atto (cioè, "exercite"), conosciamo che noi conosciamo lacosa; e che nel il giudizio riflesso, nel mentre si realizza l'atto (cioè, "exercite"),conosciamo che noi conosciamo l'atto precedente. c) Il giudizio è l'atto per il quale l'uomo può riflettere su se stesso. Lariflessione è naturale se si dà necessariamente ed infallibilmente con lo stessoesercizio spontaneo della conoscenza, (per esempio: la riflessione per la qualenello stesso atto del giudizio conosciamo che noi conosciamo). È artificiale seprocede dell'intenzione e si produce per un studio metodico (per esempio, laserie ordinata di giudizi riflessi per la quale sviluppiamo la nostra indaginecritica). La riflessione naturale si chiama riflessione completa ("reditiocompleta"), quando nello stesso esercizio dell'atto, dalla cosa conosciuta siritorna all'atto conoscitivo e al soggetto da cui procede quell'atto. d) Dunque è chiaro che l'uomo in ogni giudizio vero: direttamente sidirige alla cosa sulla quale fa il giudizio, ma simultaneamente, nel mentre fal’atto ("exercite"), ritorna al suo atto in quanto tende alla cosa, ed a se stesso inquanto tende per il suo atto alla cosa. Quindi, “dal fatto che intende unintelligibile, intende il suo stesso intendere, e attraverso l'atto conosce lapotenza intellettuale” (I, q. 14 a. 2 ad 3). 2. È chiaro che il nostro intelletto per la riflessione completa coglie moltecose, durante l’essercizio dell’atto (exercite), che utilmente verranno esplicitatein questa tesi.

Come già abbiamo accennato dichiarativamente, la verità è laconvenienza o conformità tra la nostra conoscenza attuale e la cosa. Pertanto lacapacità della nostra mente per conoscere la verità è la capacità della nostramente per conformarsi alle cose e per conoscere questa sua conformità oconvenienza alle cose. Questa capacità può considerarsi: come ancora inpotenza (prima di conoscere la verità), o come già realizzata in atto, (quando laverità si conosce in atto). Nella tesi, tenendo in conto l'istanza scettica affermiamo che in ognigiudizio vero, conoscendo alcuna verità simultaneamente per riflessionecompleta captiamo la capacità della nostra mente per la verità in quanto giàrealizzata in atto. Nel corollario, per concludere legittimamente il nostro primo problemacritico, passeremo dal fatto della conoscenza vera al riconoscimento ordinatodella capacità della nostra mente in quanto ancora in potenza. Opinioni. - S. Tommaso nel De Veritate, q. 1 a. 9, domandando se la verità sitrova nei sensi risponde che la verità non può trovarsi formalmente nei sensi,perché i sensi non possono esercitare la riflessione completa. E così dipassaggio ma acutamente, spiega come l'intelletto, mediante la riflessione

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completa, conosce che appartiene alla natura della sua conoscenza conformarsialle cose. Nel secolo scorso KLEUTGEN citò espressamente questo testo di S.Tommaso per spiegare che noi siamo certi della realtà dell'ente sensibile, nellamisura in cui, attraverso la riflessione completa, capiamo che appartiene allanatura della nostra conoscenza conformarsi alle cose sensibili. MERCIER usòlo stesso testo per risolvere il problema, da lui esplicitamente proposto, sullaconoscenza certa della capacità della nostra mente per la verità. E nellasoluzione fa attenzione soprattutto alla riflessione completa che il filosofo fanei giudizi riflessi conclusivi dell'analisi criteriologica. Gli Scolastici Moderniesaminarono soprattutto il valore della riflessione completa che noi abbiamoesercitando l'atto del giudizio vero, pubblicando molti studi sul senso di questotesto, sulla natura e sulla funzione della riflessione completa, le sueimplicazioni formali e virtuali. Noi, in questa tesi tentiamo di esplicitare il valore e il ruolo dellariflessione completa nel momento di captare la capacità della nostra mente perla verità, in quanto già resa operativa nell’atto. Per questo motivo bisogneràconsiderare come Avversari, gli stessi che abbiamo indicato nella tesi seconda,cioè: direttamente, gli Scettici e i Relativisti universali; almeno indirettamentegli Idealisti ed Antintellettuali radicali; ed inizialmente i Soggettivisti rispettoall'esistenza reale del mondo sensibile. Prova della tesi. - Conoscendo la verità, l'uomo coglie simultaneamente,esercitando questo atto ("simul exercite"), la capacità della sua mente per laverità. Mediante un riconoscimento dichiarativo. Quando conosciamo concertezza alcuna verità, non conosciamo solo la cosa, né conosciamo solo lanostra conoscenza, bensì conosciamo simultaneamente la nostra conoscenza ela cosa; perché siamo coscienti della nostra conoscenza come conforme allacosa. È così che, nello stesso esecitare l’atto (exercite) conosciamo, la capacitàdella nostra mente per la verità in quanto già portata a compimento nell'atto.Quindi quando conosciamo con certezza alcuna verità, nello stesso esecitarel’atto (exercite) conosciamo la capacità della nostra mente per la verità, inquanto già portata a compimento nell'atto. La maggiore risulta dal fatto che: a) la verità non è solo la cosa, né solol'intelletto, bensì la conformità o convenienza tra la cosa e l'intelletto. Dunque,quando conosciamo con certezza la verità, simultaneamente siamo coscientidella nostra conoscenza e della cosa, o della nostra conoscenza come conformealla cosa. Ciò viene confermato dal fatto che: b) fino a che non abbiamo lacoscienza di questa conformità, proseguiamo incerti, ed ogni volta che la

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possediamo, diventiamo certi. La minore. Perché essendo coscienti della nostra conoscenza in quantoconforme alla cosa, conosciamo nel mentre esercittimao l'atto ("exercite") cheappartiene alla natura della nostra conoscenza attuale il conformarsi alle cose.Ed in questo senso, conosciamo la capacità della nostra mente per la verità, inquanto compiutamente esercitata nell'atto. Ed è ovvio che siamo coscienti della nostra conoscenza attuale comeconforme alla cosa, solo in quanto siamo capaci di riflettere completamente,cioè in quanto siamo capaci di ritornare dalla cosa conosciuta alla conoscenzadella natura del nostro atto, e mediante l'atto, alla natura conoscitiva dellostesso soggetto. E risulta per lo stesso argomento prima addotto che questariflessione si realizza esercitando l'atto del giudizio vero. L'argomento siconferma anche per riduzione all'assurdo: Se non fossimo capaci di riflettere completamente mentre esercitiamol'atto del giudizio, bisognerebbe dire che siamo solo capaci di farlo in ungiudizio riflesso successivo. E cosicché questo conseguente è falso, perché intale ipotesi il giudizio riflesso varrebbe al massimo come riflesso delprecedente, ma non come esercitato su se stesso. Allora, per conoscere lalegittimità di un giudizio, bisognerebbe riflettere all'infinito. E quindi anchel’antecedente è falso. Di questo tema tratta S. Tommaso nel suo celebre testo: La verità siconosce "per l'intelletto, quando l'intelletto riflette sul suo atto, non solo inquanto conosce il suo atto, bensì in quanto conosce la proporzione del suo attorispetto alla cosa; la quale non può esser conosciuta senza conoscere la naturadello stesso atto; la quale non può neanche esser conosciuta senza conoscere lanatura del principio attivo che è l'intelletto, la cui natura è quella di conformarsialle cose" (De Verit. q. 1 a. 9). "E la ragione è che le cose perfette, come sono le sostanze intellettuali,ritornino alla loro essenza con un ritorno completo. Nel conoscere qualcosa chesta fuori di esse, in un certo modo escono da sé; ma conoscendo che conoscono,cominciano già a ritornare su se stesse, perché l'atto di conoscenza media tra ilconoscente e la cosa conosciuta" (Ibid). "Conoscere la suddetta relazione di conformità, equivale a giudicare cheè così, o non è così nella cosa, il che equivale a comporre e a dividere", (In IPeriherm, lect. 3). Per completare la dottrina è utile segnalare che per lo stesso fatto chesiamo coscienti di avere alcuni giudizi veri sulla realtà del mondo sensibile, lariflessione completa ci dà la coscienza: a) che i nostri concetti, sui quali sireggono i giudizi, sono obiettivi delle cose sensibili, e che pertanto, b) che i

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nostri sensi, a partire dai quali formiamo i concetti, hanno valore oggettivo sulmondo sensibile, come dopo vedremo espressamente. Corollario. - Dunque doppiamente siamo capaci di conoscere l'attitudine dellanostra mente per la verità: in primo luogo, naturalmente, esercitando l'atto diqualunque giudizio vero; in secondo luogo, artificialmente e scientificamente,intraprendendo un riconoscimento ordinato. Ragione del primo asserto: perché ogni uomo conosce la verità, cogliendosimultaneamente nell'esercizio dell'atto ("exercite"), la capacità della sua menteesercitata nell'atto. Ragione del secondo: perché l'uomo che filosofa, dopo un riconoscimentoesplicito della sua conoscenza attuale della verità, può intraprenderelegittimamente il riconoscimento metodico della sua potenza per conoscere laverità. Il riconoscimento metodico, conclusivo del primo problema critico,potrebbe proporsi in questa forma: dall'essere alla potenza, vale l'illazione. Ècosì che di fatto noi conosciamo alcune verità, tanto nell'ordine dell'esperienzacome nell'ordine universale. Quindi possiamo anche, (siamo capaci di),conoscerle. Questo riconoscimento dichiarativo che ora facciamo sulla capacità dellamente per conoscere alcune verità e per mettere che risolvere alcuni problemifilosofici, bisogna riproporlo in ogni passo successivo del nostro trattato, finoalle conclusioni finali sul problema della scienza. Nota. Relazione tra la critica naturale e la Critica scientifica. Da quantodetto in precedenza, possiamo concludere già determinatamente quale relazioneintercorre tra la critica naturale e la Critica scientifica. Entrambe appartengonoalla critica umana e si riferiscono l'una all'altra. Per la critica naturale l'uomo ècerto delle verità fondamentali alla cui luce giudica il tutto, e così èabitualmente certo della capacità della sua mente per la verità. Alla lucenaturale di queste certezze che da sole bastano per eliminare indirettamente ledifficoltà, l'uomo filosofo capisce spontaneamente la legittimità dell'esigenzacritica quando questa sorge, e si pone senza paura il problema critico: in primoluogo, riconoscendo le verità che già possiede; poi, tentando di acquisire veritànuove. Così, con la Critica artificiale acquisisce a poco a poco una dottrinaprecisa e sistematica sul valore della sua conoscenza, necessaria per risolveredirettamente le difficoltà. Pertanto: a) la critica naturale fonda e sostiene laCritica scientifica, b) la Critica scientifica esplicita e completa la criticanaturale.

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Obiezioni. - 1. Non si può affermare nessuna verità, se prima non sipresuppone la capacità per la verità. E così che questo non è legittimo, perchécadremmo in una petizione o in un circolo. Quindi non può affermarsi nessunaverità. Risposta. Distinguo la maggiore: non può affermarsi nessuna verità, seprima non si presuppone la capacità per la verità nell'ordine reale, lo concedo:perché nell'ordine reale, la potenza attiva è un presupposto per poter fare l’atto;se prima non si presuppone la capacità nell'ordine logico, lo nego: perchénell'ordine logico, si conoscono simultaneamente nell'esercizio dell'atto(exercite) tanto la verità come la capacità per la verità, in quanto già esercitatain atto. Contraddistinguo la minore, e distinguo la ragione aggiunta: cadremmoin una petizione o in un circolo, se nell'ordine logico primo affermassimo lacapacità e dopo la verità, acconsento; se li affermiamo simultaneamente, lonego. 2. In ogni giudizio riflettiamo completamente. Quindi in ogni giudiziodobbiamo conoscere la verità. Risposta. Distinguo l'antecedente: in ogni giudizio riflettiamocompletamente, nel senso che dall'atto validamente conosciuto ritorniamo alsoggetto conosciuto, lo concedo; nel senso che dalla cosa validamenteconosciuta ritorniamo all'atto validamente conosciuto e mediante l'atto alsoggetto validamente conosciuto, suddistinguo; nei giudizi veri, concedo; neigiudizi falsi, nego. E nego la conseguenza. Dalle distinzioni segue che anchenel giudizio falso conosciamo qualcosa di vero; ma che solo nel giudizio veroconosciamo la verità, o la convenienza o conformità tra l'affermazione delgiudizio e l'oggetto sul quale proferiamo il giudizio. 3. Il filosofo afferma l'attitudine della mente o a priori, o dopol'investigazione filosofica. È così che questo non lo fa non a priori: perché ifatti non possono supporsi a priori. Quindi dopo l'investigazione filosofica. Risposta. Aggiungo un terzo: o esercitando l'atto ("exercite") primadell'investigazione filosofica, e segnatamente ("signate") al termine dellaconclusione dell'investigazione filosofica. Concedo la minore secondo laragione addotta, e nego la conseguenza. Bisogna dire che l'attitudine dellamente si afferma o a priori o a posteriori; e se a posteriori, almeno esercitandol'atto ("exercite"), o anche segnatamente ("signate"). Quindi la maggiore dalladifficoltà non è strettamente disgiuntiva. 4. Nell'esercizio della conoscenza spontanea si dà una sicurezza dellamente, tanto nei giudizi veri come in quelli falsi. Quindi nella vita spontanea

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non si manifesta ancora la verità, e pertanto non consta dell'attitudine dellamente per la verità. Risposta. Distinguo l'antecedente: nella vita spontanea si dà unasicurezza genuina della mente nei giudizi veri e solo stimata nei giudizi falsi, loconcedo; si dà la stessa sicurezza della mente tanto nei giudizi veri come neigiudizi falsi, lo nego. E nego entrambe le conseguenze. Istanza: Nella vita spontanea non siamo capaci di distinguere tra unacertezza solo stimata ed una certezza davvero genuina. Risposta. Distinguo: non siamo capaci in tutte le cose, lo concedo; nonsiamo capaci in alcune cose del tutto manifeste, per esempio, nellefondamentali, lo nego. Come mostreremo a tempo debito, la facoltà la cui natura è conoscere laverità per la stessa evidenza dell'oggetto, solo può essere necessitata per lastessa evidenza; quindi se sbaglia, sbaglia sempre in un certo modo, dovuto adun'inavvertenza e sotto l'influsso della volontà, cioè, per qualche violenza econtro la sua natura: per ciò mai nel giudizio erroneo vi è una sicurezza genuinadella mente. Detto questo in generale, bisogna notare che questo influsso dellavolontà non può darsi sulle verità naturali, perché l'influsso della volontà nonpuò cambiare la natura dell'intelletto(25). E la capacità per distinguerechiaramente nella vita spontanea alcune certezze genuine da altre certezze solostimate ma non genuine, si dimostra nella spontaneità con la quale aderiamoalla verità della nostra esistenza, del principio di contraddizione, etc.,nonostante tutte le obiezioni contrarie proposte o proponibili. 5. Secondo S. Tommaso "ciò che per primo concepisce l'intelletto, comenotissimo, ed in cui risolve tutte le sue concezioni, è l'ente" (De Verit, q. 1 a.1); mentre che il principio di contraddizione "è naturalmente il primo nellaseconda operazione dell'intelletto, che compone e divide" (In IV Metaph, lect.6, n. 605). Dunque, almeno secondo S. Tommaso, quello che l'intellettoconosce per primo non è la sua attitudine per la verità. Risposta. Concedo il testo e distinguo il senso: secondo S. Tommaso,quello che l'intelletto capisce per primo apprendendo, è l'ente tratto dalle cosesensibili, lo concedo; quello che l'intelletto intende per primo giudicando,suddistinguo: è solo ed unicamente il principio di contraddizione, lo nego; èl'ente sotto la legge del principio di contraddizione da parte dell'oggetto, e laconformità della conoscenza con tale ente da parte del soggetto, lo concedo. Edi modo simile distinguo il conseguente. Secondo questa dottrina che facciamo nostra e tentiamo di illustrare,

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affermiamo che l'uomo, già dal suo primo giudizio vero, si mette in un stato dicertezza valida su quelle verità fondamentali che riflessivamente abbiamoriconosciuto e difeso nella presente questione. Possiamo dire pertanto che dalsuo primo giudizio l'uomo inizia quella critica naturale alla cui luce capirà, atempo debito, la legittimità dell'esigenza filosofica ed il modo legittimo diproporre i primi problemi della filosofia.

ARTICOLO QUINTO

Metodo del primo problema critico Senso dell'articolo. - Tra i filosofi realisti non si dà differenza fondamentalesul metodo di procedere nella soluzione del primo problema critico, perché tutticominciano in realtà dalla dichiarazione e dalla conferma di alcune esperienzeprescelte. Piuttosto la differenza sta nella spiegazione della natura delproblema. Così, sarà utile esaminare esplicitamente e a modo di sintesi dalladottrina precedente, quale sia la natura propria del primo problema critico. Questa questione normalmente considera due aspetti: la natura dello statodella mente che si propone il problema, e la natura del metodo che bisognaseguire per esporlo, svilupparlo e portarlo a conclusione. Nel presente articolotrattiamo della legittimità del metodo; nel successivo, completando la nostrasintesi risolutiva, tratteremo dello stato iniziale legittimo della mente. TESI V. - Il filosofo si porre con ogni liceità il primo problema critico,come un problema in senso ampio, ed in conseguenza lo risolvepositivamente con un riconoscimento dichiarativo, e difensivamente conun'argomentazione indiretta. Prenozioni - 1. Per metodo normalmente si intende l’ordine che la mente seguenell'acquisizione della scienza. Possiamo avere due conoscenze sulla rettitudinedel metodo: una, concomitante alla stessa acquisizione della scienza, quandoacquisendo la scienza siamo simultaneamente certi della rettitudine del metodocon cui procediamo; altra, susseguente alla scienza già acquisita, quandoriflettiamo sulla scienza già acquisita, per stabilire una dottrina precisa sulmetodo retto usato e da usare in casi simili. In questa tesi vogliamo stabilirequesta dottrina precisa. 2. Per problema normalmente si intende la domanda con cui ci siinterroga se un predicato convenga o no ad un soggetto. Problemaimpropriamente detto, o pseudo-problema, è quello che implica una

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contraddizione o errore nella sua formulazione; problema propriamente detto oproblema di supposizione vera, è quello che non implica né contraddizione néerrore. Il problema propriamente detto si suddivide nella tesi in problemastrettamente ed ampiamente detto: strettamente detto, è quello che si dirige aduna soluzione che ancora si ignora; ampiamente detto, è quello che si dirige aduna soluzione che implicitamente si conosce già in atto. Tanto il problemaampiamente detto, come quello strettamente detto, può esaminare: se qualcosaesiste ("an sit"), o che cosa è un qualcosa ("quid sit"). 3. Così come al problema impropriamente detto può corrispondere solouna dimostrazione illusoria, così al problema propriamente detto, corrispondeuna dimostrazione vera. Al problema strettamente detto corrisponde unadimostrazione strettamente detta, o un processo mentale che va della cosaconosciuta alla cosa ignorata (un sillogismo dimostrativo, o più brevemente unadimostrazione). Al problema ampiamente detto corrisponde una dimostrazioneampiamente detta, o un processo mentale che va della cosa implicita alla cosaesplicita (un sillogismo dichiarativo, o più brevemente una dichiarazione). Alproblema "se esiste qualcosa", gli corrisponde una dimostrazione o unadichiarazione per un mezzo concreto o di esperienza. Al problema "che cosa èun qualcosa", gli corrisponde una dimostrazione o dichiarazione per un mezzoastratto o assolutamente considerato. 4. Trattiamo nella tesi di come si deve proporre il primo problema alivello della riflessione critica e lo consideriamo secondo la sua formulazioneprimaria (cioè: “se risulta con certezza che l'uomo è capace di conoscere laverità”), tenendo in conto che quello che si dice della formulazione primariabisogna dirlo proporzionalmente delle formulazioni equivalenti, per esempio:“se consta con certezza che l'uomo può cogliere l'ente reale”; o: “se consta concertezza che l'uomo è capace di cogliere l'ente reale con l'intelletto”. E cosìaffermiamo che: a) il filosofo può proporre legittimamente questo problema, mache, b) deve farlo a modo del problema ampiamente detto, e conseguentementeaffermiamo che, c) la sua soluzione positiva si ottiene con la dichiarazione diqualche conoscenza immediata e naturale, e che, d) inoltre, sempre può avereuna soluzione difensiva, mediante un'argomentazione indiretta, che mostra lacontraddizione o la falsità delle opinioni opposte. Di qui le quattro parti dellaprova della tesi. Opinioni. - In questa questione la differenza di opinioni normalmente sorge pernon avere bene compreso la distinzione tra la problematica strettamente detta,nella quale spontaneamente pensiamo quando parliamo di far fronte a unproblema, e la problematica ampiamente detta, nella che riflessivamente si

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pensa ogni volta che pretendiamo di iniziare con ordine una qualche dottrinasistematica sulle cose prime e fondamentali. Alcuni, non distinguendo tra il problema strettamente detto el'ampiamente detto, e dato il fatto che in questo caso il problema strettamentedetto conduce allo Scetticismo, pensano che il problema critico è unopseudo-problema, originato da una esigenza critica illegittima, e perciò affermano che il filosofo non debba porsitale problema. Così alcuni Scolastici del secolo scorso che dichiaratamenteconcepivano solo il problema strettamente detto. Altri, al contrario, che neanche distinguono tra il problema strettamenteed ampiamente detto, e pensano che il filosofo debba porsi il problema criticoin modo scrupoloso, l'esposero a modo di problema strettamente detto, cioèusando formulazioni e sviluppi propri del problema strettamente detto. Gliantichi Scettici adoperarono questo tipo di radicalismo, applicandolo allaverità, ed in generale gli Idealisti moderni applicandolo all'ente reale, e gliAntintellettuali all'ente intelligibile. Gli Scolastici moderni, benché in realtà differiscano nella formulazione,concordano nell'ammettere la legittimità del problema critico, nel proporre lasoluzione per mezzo di una dichiarazione, conferma e difesa, ed nell'escludereogni dimostrazione iniziale strettamente detta. Prova della prima parte della tesi. - È legittimo porsi il problema critico:

Questa parte della tesi si è gia nota da quanto detto nella prima tesi.Perché se l'esigenza filosofico-critica è legittima, è anche legittimo porsi ilproblema critico per ottenere una dottrina ordinata e sistematica, primosull'esistenza e dopo sulla natura della conoscenza vera, per poter di lìconcludere coerentemente sulla possibilità e la natura della scienza umana.Questa parte della tesi può essere provata più in particolare, partendo dellecaratteristiche del problema filosofico: Il filosofo può proporsi senza dubbio e legittimamente un problemasincero che verta sulle cause ultime e non implichi nessuna supposizione falsa.Ora, tale è il primo problema critico. Quindi il filosofo può porsilegittimamente il primo problema critico. La minore. Infatti, il primo problema critico: a) è un problema sincero,perché cerca di acquisire una dottrina distinta e sistematica che ancora siignora; b) verte sulle cause ultime, perché tratta della conoscenza fondamentaledell'attitudine della mente per la verità; c) non implica nessuna supposizionefalsa, perché la pretesa di un esame esplicito non contraddice le cose esercitateimplicitamente, e perciò non esige nessuna ritrattazione né sospensione dellestesse.

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L'argomento può essere illustrato partendo della necessità di risolvere ledifficoltà. Perché contro il fatto della conoscenza vera insorgono moltedifficoltà che il filosofo deve considerare direttamente e risolvere. Ma ledifficoltà solo si risolvono direttamente alla luce di alcuna dottrina giàacquisita. E questa dottrina non si possiede prima della filosofia, cioè ancora siignora. Quindi il filosofo deve acquisire questa dottrina. E non si acquisiscesenza un'investigazione ed esame riflessi. Quindi il filosofo deve esaminareriflessivamente il fatto della conoscenza vera, o deve investigare esplicitamentese si manifesta con certezza che l'uomo è capace di conoscere la verità. Seconda parte. - Deve porsi come problema ampiamente detto:

Partendo dalle caratteristiche del problema ampiamente detto: Unproblema ampiamente detto è quello che sorge nella certezza esercitata edabituale della soluzione che si cerca. Ora, tale è il primo problema critico.Quindi il primo problema critico è un problema ampiamente detto. La minore appare per il fatto che ogni uomo: a) conosce naturalmentealcune verità, come vedemmo nella tesi seconda e terza; b) conoscendosimultaneamente, esercitando l'atto ("exercite") ed abitualmente, l'attitudinedella sua mente per la verità, come vedemmo nella quarta tesi. L'argomento può illustrarsi partendo dell'impossibilità di unadimostrazione strettamente detta. Perché come dicemmo già, le verità originariee fondamentali non possono essere dimostrate propriamente e strettamente. E senon si possono dimostrare, neanche possono essere materia di un problemastrettamente detto; perché un problema strettamente detto è quello che si ordinaad una dimostrazione strettamente detta. Quindi il primo problema critico puòessere solo un problema ampiamente detto. Terza parte. – La sua soluzione positiva si ottiene con la dichiarazione diqualche conoscenza immediata e naturale.

Per esclusione: Il primo problema critico non può risolversipositivamente per una dimostrazione strettamente detta: perché è un problemaampiamente detto. Quindi si risolve per una dichiarazione. Ma non per unadichiarazione che usa un termine medio astratto: perché è un problema su seesiste ("an sit") la conoscenza vera. Quindi per una dichiarazione che usa untermine medio concreto, o per dichiarazione di qualche conoscenza concreta.Ora, questa conoscenza concreta: a) non può essere in ultimo termine unaconoscenza mediata: perché ogni conoscenza mediata si risolve in unaimmediata; b) né può essere in ultimo termine una conoscenza artificiale:perché ogni conoscenza artificiale si fonda su una naturale. Quindi il primo

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problema critico si risolve ultimamente con la dichiarazione di qualcheconoscenza concreta, immediata e naturale.

SUAREZ ha espresso con queste parole, riflesso della tradizioneScolastica, la funzione della filosofia prima sulle verità naturalmenteconosciute: "Ammettiamo che la funzione di questa scienza sui primi principi,non è produrre quel'assenso evidente e certo che l'intelletto, guidato dalla lucenaturale, concede senza nessun discorso ai primi principi sufficientementeproposti.... Appartiene a questa scienza adoperare qualche discorso sugli stessiprimi principi, col quale essi vengano in qualche modo confermati e difesi ....La metafisica non aumenta l'evidenza o la certezza, e neanche l'intensità dellostesso assenso.... Infatti l'assenso della metafisica non è né più certo né piùevidente che l'assenso dell'abito dei principi... poiché è sempre necessarioappoggiare l'assenso della metafisica su alcuni primi principi, per se stessiconosciuti. Per questa ragione diciamo che la metafisica non aumentaintensivamente l'evidenza o la certezza sui primi principi, bensì soloestensivamente, conferendo loro una nuova evidenza e certezza" (Disp.

Metaph. D. 1 § 4, nn. 16 et 19). Parte quarta. – Può avere sempre una soluzione difensiva, medianteun'argomentazione indiretta, che mostra la contraddizione o la falsità delleopinioni opposte.

Partendo della stabilità e dalla infallibilità della conoscenza naturale:La soluzione positiva del primo problema critico si dà per la dichiarazione diuna conoscenza naturalmente immediata. È cosicché la soluzione che si dànaturalmente per la dichiarazione di una conoscenza naturalmente immediata,può difendersi sempre mediante un'argomentazione indiretta. Quindi lasoluzione positiva del primo problema critico, può difendersi sempre medianteun'argomentazione indiretta. La minore risultare del fatto che le verità naturalmente immediate, siesercitano sempre infallibilmente, poiché alla loro luce giudichiamo tutto, epertanto solo possono essere negate illusoriamente, e sarà sempre possibilemostrare questa illusione mediante un'argomentazione indiretta. Obiezioni. - 1. Sulle cose primariamente evidenti non si può fare nessunainvestigazione. È cosicché le verità originarie e fondamentali sonoprimariamente evidenti. Quindi su esse non si può fare nessuna investigazione. Risposta. Distinguo la maggiore: sulle cose primariamente evidenti nonsi può fare nessuna investigazione per conoscerle per prima, lo concedo; perriconoscerle riflessivamente e sistematicamente, suddistinguo: non si può fare

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nessuna investigazione strettamente detta, lo concedo; non si può fare nessunainvestigazione ampiamente detta, lo nego. Concedo la minore ed ugualmentedistinguo il conseguente. Istanza: Il nostro intelletto non può cercare con sincerità quello chepossiede già con evidenza. Risposta. Distinguo: l'intelletto non può cercare con sincerità quello chepossiede già distintamente con evidenza e sotto tutti gli aspetti, lo concedo; nonpuò cercare con sincerità quello che ancora non possiede distintamente conevidenza e sotto tutti gli aspetti, lo nego. Le verità originarie e fondamentali sono primariamente evidenti, e cosìprimariamente conosciute e sempre ritenute. Ma la loro tenuta spontanea è"exercita" ed implicita, ed in questo senso, le verità originarie e fondamentalipossono essere riconosciute esplicitamente e distintamente. Il filosofo deveprocedere al loro riconoscimento dottrinale ordinato ed esplicito, non solo perpoi sviluppare sistematicamente la dottrina sulle verità derivate e fondate, maanche per risolvere le difficoltà che sorgono contro le stesse verità originarie efondamentali. Deve dunque analizzare distintamente le sue conoscenze, ed inquesto senso indagare riflessivamente il loro valore. Durante il processo diquesto esame, possono darsi alcune dimostrazioni collaterali strettamente dette,ma questo processo, nel suo senso fondamentale, solo può essere ampiamentedetto. 2. Nell'investigazione critica il filosofo deve procedere con una sinceritàradicale. Ma procedendo con una sincerità radicale mette un problemastrettamente detto. Quindi il filosofo nell'investigazione critica deve mettersi unproblema strettamente detto. Risposta. Concedo la maggiore e distinguo la minore. Quando procedecon una sincerità radicale su cose che semplicemente ignora, il filosofo si metteun problema strettamente detto, concedo; procedendo con una sincerità radicalesu cose che ignora solo in parte ("secundum quid"), nego. Perché in questo casosi mette un problema ampiamente detto. Ed ugualmente distinguo ilconseguente. Un'investigazione genuinamente filosofica deve procedere sempre conuna sincerità radicale, e pertanto prescindendo da qualunque pregiudizio oaffetto. Quando si tratta di una cosa semplicemente ignorata, il filosofo si vedeobbligato per la sua stessa sincerità a sviluppare il problema in un sensostrettamente detto. Ma quando si tratta di una cosa che si ignora solo sottol’aspetto esplicito e distinto, perché sempre si offre validamente ed“esercitamente” conosciuta, il filosofo si vede obbligato per la sua stessasincerità a sviluppare il problema solo in un senso ampiamente detto.

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3. Quando si mette il primo problema conviene evitare il pericolo dimantenere alcuni aderenze false. È cosicché il pericolo di mantenere aderenzefalse si evita sospendendo ogni assenso. Quindi mettendo il primo problemacritico, conviene sospendere ogni assenso, e pertanto si deve mettere ilproblema in un senso stretto. Risposta. Tralascio la maggiore, perché mettendo il primo problemacritico, non conviene solo evitare il pericolo di mantenere aderenze false, bensìconviene anche evitare il pericolo di respingere aderenze vere, e distinguo laminorenne: il pericolo di mantenere aderenze false si evita primo esaminando edopo eliminando le aderenze false, concedo; primo eliminando e dopoesaminando, nego. Ed ugualmente distinguo il conseguente. Se il filosofo cominciasse ritrattando o sospendendo tutti i suoi assensi,dovrebbe ritrattare o sospendere il suo assenso sulla propria esistenza, sullarealtà della propria conoscenza, sulla propria intenzione di esaminare, sulprincipio di contraddizione, etc. E così non avrebbe oramai nessuna possibilitàdi avanzare nel suo esame. In questo senso, il filosofo non deve cominciareritrattando o sospendendo tutti i suoi assensi, né deve cominciare la suainquisizione a modo di problema strettamente detto. Deve esaminarlo piuttostotutto, affinché dopo questo esame possa con coscienza più piena mantenere lesue convinzioni vere e respingere le sue convinzioni false; e precisamente inquesto senso deve cominciare la sua inquisizione a modo di problemaampiamente detto. Da ciò si capisce facilmente, che la questione sul metodogenuino del problema critico implica anche la questione sullo stato inizialegenuino della mente.

ARTICOLO SESTO

Lo stato iniziale della mente Senso dell'articolo. - 1. La questione sul metodo del primo problema critico,può esser trattata prima di avere risolto il problema o dopo averlo risolto:Quando viene trattata prima, l'investigazione si fonda sulla conoscenzaesercitata ("exercita"), ed abituale della natura della nostra mente, o sullaconoscenza della natura della nostra mente, antecedente alla riflessionefilosofica che necessariamente possediamo per la critica naturale. In questocaso il fine è tirare fuori le prime idee dirette sul metodo legittimo per preparareed ottenere la soluzione iniziale. Quando viene trattata dopo la soluzione,l'investigazione si fonda sul riconoscimento riflesso ed esplicito della naturadella nostra mente, o sulla conoscenza della natura della nostra mente già

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acquisita per una critica scientifica. In questo caso il fine è tirare fuori unadottrina esplicita e sistematica sul metodo legittimo, già impiegato perpreparare e risolvere il primo problema, ed utilizzabile in sviluppi futuriequivalenti dello stesso problema. 2. L'investigazione che si compie antecedentemente alla prima soluzione,serve per tirare fuori le prime idee direttive, ma per la sua stessa natura inizialee provvisoria, non offre una dottrina completa né sistematica sul metodo delprimo problema critico. Invece, l'investigazione che segue alla prima soluzione,non serve più per tirare fuori le prime idee direttive, ma sì per ottenere unadottrina completa sul metodo. Per questo motivo noi, nel corollario della primatesi, abbiamo dedotto alcune prime idee direttive, e nella tesi precedente,basandoci sulle anteriori, abbiamo tiramo fuori la dottrina sulla legittimità dellametodologia impiegata e da impiegare nelle successive. 3. La questione su quale sia il metodo legittimo per affrontare il primoproblema, implica anche la questione su quale sia lo stato legittimo della menteche per la prima volta si pone il problema critico. Questo si confermaconstatando come una concezione diversa sulla natura del metodo, porta ad unaconclusione differente sulla natura dello stato iniziale. Già nella prima tesidicemmo qualcosa sulla natura dello stato iniziale della mente, per legittimaredi passaggio la posizione che prendevamo. Ora vogliamo completare la sintesirisolutiva di questa nostra prima investigazione, trattando di proposito dellostato iniziale legittimo. TESI VI. - Lo stato della mente che si pone per la prima volta il problemacritico, è uno stato coscientemente esaminativo ed in senso ampioinquisitivo, motivato in molte certezze spontanee legittime ed ordinato perla sua stessa natura ad ottenere una certezza riflessa. Prenozioni - 1. Per dubbio normalmente si intende l’indeterminazione ofluttuazione della mente tra entrambi le parti della contraddizione.Normalmente si distingue in: a) reale o fittizio, a seconda che si dia veramentenella mente o si simuli solo di averlo; b) negativo o positivo, a seconda che sifondi su un difetto o su un'uguaglianza di motivi su entrambi le parti dellacontraddizione; c) particolare o universale, a seconda che si riferisca ad alcuneo tutte le verità; d) metodico o definitivo, a seconda che si assuma all'iniziodella questione con lo scopo di trovare la verità, o si mantenga alla fine dellaquestione ed in essa si riposi. Il dubbio metodico si distingue in: metodico perla sola intenzione, ma non per la sua stessa natura, e in metodico perl'intenzione e per la sua stessa natura. Il primo si ritiene adatto per trovare la

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verità, ma in realtà piuttosto la ostacola; il secondo si ritiene, ed è realmenteadatto a conseguire la verità.

È ovvio che se il primo problema critico generale fosse un problemastrettamente detto, bisognerebbe dire che iniziava con un dubbio metodicogenerale o universale. Ma siccome solo può essere un problema ampiamentedetto, bisogna escludere tanto la formula del dubbio universale, quanto leformule equivalenti al dubbio universale.

2. Per giustificare questa esclusione negativa, investigheremo ora quale èrealmente lo stato della nostra mente quando si pone per la prima volta ilproblema critico. Consideriamo anche il problema in quanto che si proponecome l'inizio sistematico del filosofare; e, come già sottolineavamo nella tesiprecedente, lo consideriamo nella sua formulazione primaria, notando ognivolta che quello che si dice della formulazione primaria vale proporzionalmenteper le formulazioni equivalenti. Nella tesi affermiamo in primo luogo, che lo stato iniziale della menteche si pone il problema critico è uno stato coscientemente esaminativo ed insenso ampio investigativo. Poi notiamo che questo stato iniziale, precisamente,poiché coscientemente esaminativo ed inquisitivo di quelle verità checonosciamo sempre "exercite", si fonda chiaramente in molte certezzespontanee legittime. Infine concludiamo che questo stato iniziale è per sé, cioè,per la sua stessa natura, adatto per ottenere mediante un riconoscimentoesplicito, la prima certezza riflessa. Di qui le tre parti per provare la tesi. Nel corollario applicheremo questeconclisioni alla formula del dubbio universale e le formule equivalenti. Opinioni. - Consideriamo le diverse opinioni sullo stato della mente che sipone per la prima volta il problema critico, facendo attenzione soprattutto alleloro concezioni generali sul metodo. 1. Nell'Antichità Aristotele, nel cap. 1 lib. III, (B) della Metafisica,afferma che all’inizio di ogni questione conviene esaminare soprattutto leragioni contrarie o le difficoltà, tanto quelle già proposte come quelle chebisognerebbe proporre. Perché considerando la difficoltà (aporía) e penetrandola sua forza, la nostra mente viene come annoda e così rimane impedita(aporeîn) di procedere oltre prima di risolvere la difficoltà, e quindi vienespinta ad investigare, per ottenere in questo modo finalmente la verità(euporêsai). In questo senso conviene saperdi collocare bene di fronte alledifficoltà (diaporêsai kalôs), cioè suscitare e determinare la questione secondo

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il senso della difficoltà (cfr. 975 a 24b 10). Questo metodo aristotelico fu moltousato tra gli antichi, e dopo l'opera di Abelardo, (De sic et non), diventòcomune tra gli Scolastici medievali.

Nei brani inmediatamente sucessivi, Aristotele afferma con frequenzache la filosofia prima (la Metafisica) deve considerare le difficoltà tanto controi principi delle cose come contro i principi della conoscenza delle cose. E nellib. IV, quando tratta esplicitamente della conoscenza naturale della verità delprincipio di contraddizione, mostra molto chiaramente che il filosofo deveconsiderare e risolvere i dubbi e le difficoltà dei sofisti, ma mai deve farle sue(c. 6 ss.). Quindi il metodo aporematico di Aristotele pretende anche diconsiderare il dubbio universale contro la verità, ma escludendo lapartecipazione soggettiva (adesione psicologica) nel dubbio considerato. Ed inquesto senso l'investigazione filosofica si estende legittimamente a tutte lecose. 2. All'inizio della filosofia moderna Cartesio, pensando che prima egliaveva ammesso molte cose false come vere, e che in filosofia non c'è niente sucui non si possa disputare, pensò ad un nuovo metodo per fondare la filosofia.Questo metodo si proponeva di trovare una qualche verità iniziale indubitabile,da cui partire per sviluppare tutta la filosofia, mediante una deduzione rigorosa.La caratteristica principale di questo metodo consiste nell' assumere comeuniversalmente dubbie tutte quelle cose che, in qualche caso particolarepossano accogliere un qualche sospetto di incertezza. "Bisognerà ritenere comefalse tutte quelle cose delle quali abbiamo dubitato qualche volta, affinché cosìappaia, con tanta maggiore chiarezza, quale cosa sia la più certa e la più facileda conoscere" (Princ. Philos., Adam-Tannery, II p.5).

Seguendo questa concezione metodologica generale, e dopo aversistabilito alcune regole diretttive e pratiche, comincia a dubitare intensamente diogni attestazione dei sensi, poiché per causa loro ci sbagliamo qualche volta; diogni stato di veglia, poiché qualche volta nel sonno sogniamo stati identici; ditutte le verità dimostrate, perfino le matematiche, poiché anche in questequalche volta vi si insinua un errore; e infine arriva a pensare all'ipotesi di ungenio maligno, potentissimo che ci inganna in tutti gli atti. “Mi trovo immersoin così tanti dubbi che non posso dimenticarmi più di essi, e non vedo in chemodo li risolverò. Sono tanto turbato, come se improvvisamente mi trovassi inun profondo mulinello che non mi lascia toccare il fondo con il piede nénuotare verso la superficie” (Med. II, inizio). Ma poi repentinamente, questodubbio attuale gli fa avvertire la verità dell'esistenza di se stesso pensante,come evidentemente e necessariamente implicata nello stesso fatto del dubbio:“Ma subito mi accorsi che io, che respingevo le altre cose come false, nonpotevo dubitare totalmente senza che io stesso, dubitando, esistessi. E poiché

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vedevo che l'evidenza di questo enunciato, io penso, dunque sono o esisto("ego cogito, ergo sum sive existo)", era tanto certa e chiara, che nessunScettico sarebbe stato capace di inventare un motivo di dubbio tanto enorme, dacui non si esimerebbe, credetti di poterlo assumere, con ogni sicurezza, comequel primo fondamento della filosofia che cercavo" (Dissert. de Meth., IV,p.558). Il cogito cartesiano è un cogito realistico, ma limitato, per lo stesso suodubbitare, alla realtà del soggetto che pensa le sue idee interne. Il dubbiocartesiano fu un dubbio soggettivament condiviso, metodico per intenzione,frequentemente fondato nei motivi con cui gli Scettici tentano di arrivare aldubbio universale. Il metodo cartesiano esercitò un influsso diretto o indirettosu molti autori posteriori, e gli idealisti l'interpretarono in un modo speciale,prendendo le mosse da un cogito radicalmente inmanentista. 3. Nel pensiero moderno Husserl, osservando di nuovo la diversità diopinioni, cominciò a pensare di trovare una filosofia primaria, motivata inun'evidenza apodittica nella quale tutti potessero coincidere inizialmente. Primadi tutto stabilisce il principio che bisogna procedere con una sincerità radicale,e che tutto quello che si dà originariamente nell'intuizione, bisogna prenderlocome si dà ed entro i limiti in cui si dà. Quindi sviluppa una fenomenologiadalla coscienza, in cui chiede una riduzione eidetica o un prescindere dal qui edora dei dati, per ottenere così, la visione pura delle essenze; e poi anche unariduzione o epoché fenomenologica, cioè prescindere dalla persuasionenaturalista dello stesso essere reale dei dati oggettivi e soggettivi, per ottenerecosì una visione pura della coscienza intenzionale. La visione husserliana,dovuta al pregiudizio che l'essere reale naturalista non è apoditticamenteevidente, si limita al "penso un pensiero pensato in quanto pensato" ("cogitocogitatum qua cogitatum"). La filosofia fondata e sviluppata su tale visione,viene chiamata da Husserl, con un senso proprio, idealismo fenomenologicotrascendentale. Poi molti pensatori Moderni svilupparono la propriafenomenologia, generalmente liberi dal pregiudizio idealista, ma non sempreliberi dal pregiudizio antintellettuale.

4. Tutti gli Scolastici normalmente respingono il dubbio cartesiano comeillegittimo e metodologicamente inetto. Gli Scolastici moderni escludonoanche, in generale, l’esclusione husserliana dell'essere reale, come illegittima emetodologicamente inadatta. Ma si danno tra essi alcune differenze nelleformule con cui descrivono lo stato iniziale. Seguendo Mercier, alcuni Neoscolastici pensarono che il dubbiocartesiano fu metodico, universale, positivo e reale, e lo respinsero come inetto;ma professarono un dubbio metodico universale negativo, sia reale che finto.Professarono il dubbio reale, a quanto pare, lo stesso Mercier, almeno quando

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parla di una scelta iniziale dell'astensione e dell'ignoranza, ed anche Jeannière.Professarono un dubbio finto, Maquart che si rifà a Geny, e recentementeThonnard. Oggi si tende ad abbandonare la formula del dubbio universale. Maalcuni sembrano confondere le certezze spontanee dalle quali il filosofo puòprescindere, con le certezze naturali dalle qualli non può prescindere; come peresempio Zamboni che respinge il dubbio universale, ma afferma l'antinomia trala certezza riflessa e tutte le certezze spontanee. Prova della prima parte della tesi: Lo stato iniziale della mente che si pone ilproblema critico, è uno stato coscientemente esaminativo e in senso ampioinvestigativo. Partendo della coscienza. Lo stato della mente che inizialmente si poneil problema critico, è lo stato della mente che si domanda in modo esplicito serealmente conosce con certezza alcune verità. È cosicché lo stato della menteche si domanda in modo esplicito se conosce con certezza alcune verità, è unostato coscientemente esaminativo ed in senso ampio inquisitivo. Quindi lo statodella mente che inizialmente si pone il problema critico è uno statocoscientemente esaminativo ed in senso ampio inquisitivo.

La minore può chiarirsi brevemente così, da quanto detto anteriormente:a) è uno stato della mente cosciente: poiché la mente, interrogandosi su sestessa, riflette su se stessa e pertanto è in atto cosciente di se stessa; b)esaminativo: giacché la mente, riflettendo sulla sua propria conoscenza, nonpuò procedere senza fare un esame sui suoi atti concreti conoscitivi; c) in senso

ampio inquisitivo: giacché la mente, facendo questo esame, esercita già nel farel'atto (fa "exercite"), quello che esplicitamente cerca. Seconda parte: È uno stato apertamente fondato su molte certezze spontaneelegittime. Partendo dalla coscienza. Lo stato della mente che inizialmente si poneil problema critico, è uno stato coscientemente esaminativo ed in senso ampioinquisitivo sul valore delle sue conoscenze. È cosicché lo stato della mentecoscientemente esaminativo ed in senso ampio inquisitivo sul valore delle sueinquisizioni, si fonda su molte certezze spontanee legittime. Quindi lo statodella mente che inizialmente si pone il problema critico si fonda su moltecertezze spontanee legittime.

La minore. Infatti, lo stato della mente esaminativo ed in senso ampioinquisitivo, è uno stato coscientemente originato, ed in questo senso fondato: a)su alcune conoscenze precedenti, come, per esempio, che esistiamo, che

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conosciamo, che possiamo riflettere, che è impossibile che qualcosasimultaneamente sia e non sia, e via dicendo; b) legittimamente certe, perché sequeste conoscenze originarie non fossero legittime, non sarebbe legittimo lostato iniziale della mente, e così non sarebbe legittimo nessun esame,investigazione e conclusione ulteriore; c) con certezza spontanea, poiché leconoscenze che originano lo stato iniziale, dalle quali inizia la riflessionefilosofica, possono essere solo certe con una certezza prefilosófica o spontanea. Terza parte: È uno stato per la sua stessa natura, adatto per ottenere medianteun riconoscimento esplicito, la prima certezza riflessa. Partendo della coerenza metodica. Come abbiamo visto nelle partiprecedenti, lo stato della mente che inizialmente si pone il problema critico èuno stato coscientemente esaminativo ed inquisitivo, e fondamento su moltecertezze legittime. È cosicché questo stato della mente, si dispone per la suastessa natura ad ottenere legittimamente una certezza riflessa. Quindi lo statodella mente che inizialmente si pone il problema critico, si ordina per la suastessa natura ad ottenere legittimamente una certezza riflessa.

La minore. Perché lo stato iniziale della mente: a) in quantocoscientemente esaminativo ed inquisitivo, spinge per sua natura a cercarequalche soluzione; b) in quanto fondato su molte certezze legittime, contienegià nel fare dell'atto ("exercite"), la stessa soluzione che cerca; c) in quantospinge alla soluzione contenendo già exercite la soluzione che cerca, è per sestesso aperto ad un transito coerente dallo “exertitamente” conosciuto alloesplicitamente riconosciuto; e così è ordinato per sua stessa natura ad ottenerelegittimamente una certezza riflessa. Corollario. - Dunque il primo problema critico non inizia con un dubbiometodico universale, reale o fittizio; e pertanto neanche con un'ignoranza, nécon una sospensione (epoché) universale strettamente detta.

La ragione generale del corollario si capisce da quanto detto prima.Perché se lo stato iniziale della mente è uno stato coscientemente certo eoriginariamente implicante molte certezze legittime, bisogna respingere che ilprimo problema critico sorga con un dubbio universale, un’ignoranzauniversale o un'esclusione strettamente detta di ogni certezza naturale. Più inparticolare, per completare la tesi, possiamo procedere con ordine così: Ragione del primo asserto. Il problema critico non sorge dal dubbiouniversale reale, perché il dubbio universale reale, tanto positivo comenegativo, è realtmente impossibile oltre che è metodologicamente inetto, cosìche per la sua stessa natura ostacola la scoperta (inventio) della verità: perché

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se qualcuno professa che dubita di ogni verità, e conseguentemente della suacapacità per la verità, non potrà usare già più questa sua capacità per trovare lasoluzione, e così affonderà definitivamente nel dubbio. Ragione del secondo. Deve escludersi il dubbio universale finto: a)perché non è del saggio stimolare o fingere la falsità per trovare la verità; b)perché così come il dubbio universale reale è uno stato metodologicamenteinetto per trovare la verità, così il dubbio universale finto è una finzionemetodologicamente inetta per lo stesso fine, soprattutto quando parlando conproprietà, c) possiamo fingere con le parole davanti agli altri, ma non con la

mente davanti a noi stessi. Ragione del terzo. Il problema critico non inizia con un'ignoranzauniversale, perché così come è impossibile dubitare di tutto, così è impossibileignorarlo tutto; e così come il dubbio universale, sia reale che finto, èmetodologicamente inetto, così lo è anche l'ignoranza universale. Ragione del quarto. Deve respingersi anche la sospensione universalepropriamente detta, perché prescindere da una cosa equivale a non considerarlain atto. Ma se qualcuno prescindesse strettamente da tutte le cose, nonconsidererebbe niente in atto o non conoscerebbe niente in atto. Quindi cosìcome è impossibile ignorare tutto, così è impossibile prescindere strettamenteda tutte le cose; e così come l'ignoranza universale è metodologicamente inetta,così è metodologicamente inetta la sospensione universale propriamente detta.E la ragione ultima è: perché non possiamo prescindere mai con la mentedall'esercizio cosciente delle certezze naturali, precisamente in quanto naturali. Obiezioni. - 1. Un problema sincero verte su una soluzione ancora ignorata. Ecosicché il primo problema critico non è un problema finto ma un problemasincero. Quindi verte su una soluzione ancora ignorata; ed in questo senso èleggitimo cominciare da un dubbio o ignoranza universale. Risposta. Distinguo la maggiore: Un problema sincero verte su unasoluzione totalmente (simpliciter) ignorata o solo in parte (secundum quid)ignorata, lo concedo; verte solo su una soluzione totalmene (simpliciter)ignorata, lo nego. Concedo la minore ed ugualmente distinguo il conseguente:il primo problema critico verte su una soluzione solo in parte (secundum quid)ignorata, lo concedo; verte su una soluzione totalmente (simpliciter) ignorata,lo nego; e nego le conclusioni ulteriori. 2. Ciò che si presenta come una posizione imparziale rispetto alle diversesoluzioni proposte, si può assumere leggitimamente come lo stato iniziale delproblema. E' cosicché il dubbio negativo si presenta come una posizioneimparziale rispetto alle diverse soluzioni proposte. Quindi si può assumere

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legittimamente come lo stato iniziale della questione. Risposta. Concedo la maggiore e distinguo la minore: il dubbio negativodi fronte a una questione strettamente detta si presenta come una posizioneimparziale rispetto alle diverse soluzioni proposte, lo concedo o lascio passare;di fronte a una questione ampiamente detta, lo nego. Ed ugualmente distinguo ilconseguente. Perché in una questione ampiamente detta, la soluzione èdeterminata esercitamente (exercite) per la stessa natura della questione. Equindi lo stato iniziale di imparzialità e di sincerità del primo problema criticoconsiste in questo: che prepari all'esame oggettivo di tutte le soluzioni propostee che faccia logicamente possibile la scoperta (inventio) della soluzione vera.Lasciamo passare la maggiore, perché nella questione strettamente detta, èlegittimo il dubbio positivo. 3. Il filosofo può sospendere metodologicamente le verità naturali.Quindi può iniziare con la professione da una sospensione (epoché) universale. Risposta. Distinguo l'antecedente: può prescindere totalmente(simpliciter), lo nego; può prescindere solo in parte (secundum quid), loconcedo. Perché così come non possiamo ignorare mai totlamente (simpliciter)le verità naturali, neanche possiamo prescindere totlamente (simpliciter) daesse. Perché alla loro luce giudichiamo di tutto, e quindi anche del modolegittimo di proporre l’esame critico. 4. S. Tommaso afferma esplicitamente che, come alle scienze inferiori"spetta dubitare in particolare sulle verità singolari", così alla Metafisicagenerale "spetta un dubbio universale (universalis dubitatio) sulla verità; epertanto si propone non un dubbio particolare ma anche una dubbio universale"(In III Metaph, lect. 1 n. 343). Dunque secondo S. Tommaso il filosofo devedubitare universalmente della verità. Risposta. Concedo il testo e distinguo il senso: appartiene allaMetafisica considerare o esaminare il dubbio universale contro la verità, loconcedo; partecipare in esso o professarlo, lo nego. Ed ugualmente distinguo ilconseguente. Infatti, S. Tommaso accetta ed illustra la concezione aristotelicanel seguente modo, già menzionato nelle opinioni: a) Conviene che il filosofo consideri la sua possibilità di conoscere la

verità: "la filosofia prima considera la verità universale degli enti. Pertanto,spetta al metafisico considerare come si comporta l'uomo per conoscere laverità". Perciò, deve considerare anche “le difficoltà per conoscere la verità”,ed in questa considerazione si aiuta anche da quelli che hanno sbagliato sullaverità, poiché "diedero l’opportunità affinché, mediante una diligentediscussione, la verità risplendesse più chiaramente" (In II Metaph, lect. 1 n.273,

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281, 287). b) Conviene che il filosofo susciti il problema considerando le difficoltà

contrarie: "per questa scienza che cerchiamo sui primi principi e sulla veritàuniversale delle cose, è necessario che prima ancora di determinare la veritàaffrontiamo le cose su cui bisogna dubitare,... perché l'investigazione posterioredella verità consiste nella soluzione dei dubbi precedenti". Il filosofo sarámeglio disposto per giudicare "se prima ascolta tutte le ragioni, cose se sitrattase di avversari che dubitano" (In III Metaph, lect. 1 n. 338, 339, 342). c) Conviene che il filosofo non ritratti o sospenda mai il suo assenso

naturale alla verità del primo principio: perché “dal fatto che questo[principio] è necessario per intendere qualunque cosa, si segue che chiunqueconosce altre cose, deve conoscere questo [principio]”, e quindi “noi adesso loaccogliamo supponendo che tale principio è vero”, e “dalla sua veritàmostriamo che è certissimo” (In IV Metaph, lect. 6 n. 598, 606).

In questo senso si vede chiaro che secondo S. Tommaso il filosofo deveintraprendere l'esame critico: a) per raggiungere una dottrina necessaria cheserva per risolvere le difficoltà e per determinare sistematicamente la verità delprimo principio; b) considerando le difficoltà o i dubbi, ma non partecipando adessi.

“Il dubbio universale sulla verità di cui parla S. Tommaso seguendoAristotele, questo mettere in questione, questa aporia universale, che è ilprivilegio della Metafisica, questo videtur quod non per il quale comincia ogniricerca scientifica e che in questo caso non si ferma davanti a niente, non è innessun modo un dubbio vissuto o esercitato - come neanche l'epochéfenomenologica, - è, non già un'epoché vissuta, bensì significata come ipotesiad esaminare, un dubbio concepito o rappresentato (ed in questo senso moltopiù rigoroso e molto più sincero del dubbio cartesiano, perché non comportanessuna finzione o forzatura arbitraria proveniente della volontà, nessunpseudo-dramma); ed il termine al quale lo spirito arriva seguendo questaproblematizazzione universale, è precisamente la coscienza chiara e riflessadell'impossibilità assoluta di realizzare un dubbio universale” (MARITAIN,Les degrés du savoir, ch. III, n. 3, 2º).

SCOGLIO

L'uso critico delle verità fondamentali 1. Sulla verità della propria esistenza e dei propri atti, si esprime cosìAristotele: “Chi vede, sente che vede; chi cammina, sente che cammina.... Così

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possiamo sentire anche che sentiamo, e intendere che intendiamo. E tuttoquesto (quando sentiamo e intendiamo) è intendere con certezza che siamo”(Ethic. IX, c.9, 1170 a 29-33). Aristotele però non usa questa certezza perdifendere la verità contro i Sofisti, ma lo fa solo indirettamente in qualche"confutazione".

S. Agostino usa espressamente la certezza dei propri atti e della propriaesistenza; non la propone però come la più certa di tutte, bensì come adatta perconfutare gli Scettici e gli Accademici, e per mostrare l'esistenza di unaqualche verità intelligibile sicura, (cioè, indipendente del pericolo dell'illusionee defettibilità dei sensi): “Se mi sbaglio, sono. Perché chi non è, non può certosbagliare . E poiché sono, se mi sbaglio.... senza alcun dubbio, nel fatto che hoconosciuto che sono, non mi sbaglio" (De Civ. Dei, XI, c. 26). Anche S. Tommaso considera del tutto certa l'esistenza dei propri atti edel proprio io: “Dal fatto che sentiamo di sentire e intendiamo d’intendere,sentiamo e intendiamo che siamo” (In IX Ethic., lect. XI n. 1908). E con parolesimili fa notare di frequente che: "la scienza dell'anima è certissima", perchéognuno "sperimenta in se stesso che ha un'anima" e “quello che accade nellaanima sua”. Bisogna notare che secondo S. Tommaso, l'esistenza del proprio iosi conosce mediante gli atti per i quali si conosce l'oggetto: "Nessunopercepisce d’intendere, se non è dal fatto che intende qualcosa; perché primoavviene l’intendere qualcosa, che l’intendere che uno intende. Così l'animaarriva a intendere che attualmente esiste, per il fatto (o per l'oggetto: “per illudquod”) che intende e che sente" (De Verit., q. 10 a. 8 in c et ad 8 in contrarium). Cartesio assume come verità prima la stessa esistenza del suo iopensante, spogliata metodicamente della certezza del mondo esterno, perdedurre da essa tutta la filosofia, come già abbiamo spiegato nella tesianteriore. Gli Idealisti iniziano frequentemente la gnoseologia dal cogitocartesiano, una volta spoglio del suo originario senso realistico. Le tendenzerecenti della fenomenologia e dell'esistenzialismo, in opposizione allaconcezione idealistica, calcano sulla nostra correlazione necessaria col mondo. 2. S. Agostino illustra molto vigorosamente la necessità della conoscenzadella verità in generale: "E se la verità muore? Non sarebbe vero che la veritàera morta?... Ora, non può esserci il vero se non esistesse la verità... Dunque èimpossibile che muoia la verità" (Solil. II, c.2). Allo stesso modo S. Tommaso:"Molte proposizioni si comportano in tal modo che chi le nega, si vedeobbligato a ammetterle: come chi nega che esiste la verità, ammette che laverità esiste; perché ammette che la negazione che proferisce, è vera" (ControGent., II c.33; cfr. I, q. 2 a. 1 ad 3). 3. La verità dell'ente sotto la legge del principio di contraddizione, è la

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verità prima dalla quale inizia Aristotele (seguito da S. Tommaso e gli altriScolastici). La ragione di questa preferenza è molteplice: a) perché la nostraconoscenza, come manifesta la testimonianza stabile della coscienza, tendeprincipalmente all'oggetto, sorge per primo dalle cose sensibili e si innalzaimmediatamente sull'esperienza mediante la nozione di ente e il principio dicontraddizione; b) perché così come la verità dei principi per se stessiconosciuti, ha il primato sulla verità dell'esperienza, così il principio dicontraddizione ha il primato su tutti gli altri principi; c) perché il principio dicontraddizione è la prima verità secondo la quale giudichiamo di tutto, in modoche solo abbiamo certezza nell'applicazione di questo principio. Frequentemente troviamo in S. Tommaso importanti considerazioni sulladottrina della verità dell'ente, sotto la legge del principio di contraddizione,come dopo vedremo. Basti qui ricordare alcune: "Nelle cose si trova un ordine,in modo che alcune sono implicitamente comprese in altre; così tutti i principisi riconducono a questo come al primo: è impossibile simultaneamenteaffermare e negare" (II-II q. 1 a.7). "Colui che a causa di qualche dubbio negaquesto principio, dice qualcosa, cioè, significa qualcosa per il nome... Ed unavolta che ammetta questo, avremo subito una dimostrazione contro di lui" (InIV Metaph, lect. 6 n. 608, et lect.7 n.611). 4. Sulla verità dell'esistenza del mondo, Aristotele, nella Fisica II, c.1,nota di passaggio: "Cercare di provare che la natura esiste, è ridicolo; perché èmanifesto che tutti questi enti esistono. E dimostrare ciò che è chiaro per ciòche è oscuro, è proprio di chi è incapace di giudicare tra ciò che è conosciutoper se stesso e ciò che non lo è" (193a 3-6); o, in altre parole, è proprio di chinon sa distinguere l’indimostrabile dal dimostrabile, l’immediato dal mediato.Ugualmente S. Tommaso: "Voler dimostrare lo manifesto per l’occulto, èproprio dell'uomo che non sa giudicare tra ciò che è noto per se stesso e ciò chenon lo è; perché volendo dimostrare ciò che è conosciuto per se stesso, loutilizza come se non fosse conosciuto per se stesso. Ed è noto per se stesso chela natura esiste, perché le cose naturali sono manifeste al senso" (In II Physic.lect. 1, n. 8). 5. Dopo Balmes, che nella sua Filosofia fondamentale parlafrequentemente delle verità prime e fondamentali, Tongiorgi proponeesplicitamente la dottrina delle tre verità originarie: a) "Poiché ci sono molte cose che non possono né devono esseredimostrate, le verità primitive, che è necessario presupporre come fondamenti,prima di ogni investigazione filosofica, sono solo tre: 1º Il primo fatto, che èl'esistenza propria. 2º Il primo principio, che è il principio di contraddizione: lastessa cosa non può simultaneamente essere e non essere. 3º La prima

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condizione, cioè la capacità della ragione per raggiungere la verità" (Logica,Pars II, lib. I, c. III a. IV, Propositio V). b) Più avanti, considerando l'evidenza, conclude: “Benché sianotre le cose che mediante l'evidenza concorrono insieme a generare la certezza,tuttavia ognuna è chiaramente indipendente delle altre in ciò che apportaall'effetto. Il primo principio costituisce la necessità oggettiva, e la suanecessità non dipende da nessun altro principio. Il primo fatto manifesta questanecessità, ed egli non ha bisogno di nessuna manifestazione. La primacondizione mi consegna all'evidenza, e questa forza l'ha da sé stessa” (lib. III c.I a. VI). Queste tre verità sono, senza dubbio, naturalmente conosciute, valide peril filosofo, per sé sufficienti per rimuovere indirettamente le difficoltà scettiche.E lo stesso Tongiorgi ha ragione, quando di passaggio le chiama“immediatamente evidenti alla mente umana”, e sempre tali che“necessariamente prendono l'assenso della mente” (Ibid., Propositio V). Dopotali premesse, conviene tuttavia notare che questa dottrina delle tre verità,necessita alcune correzioni. In primo luogo, conviene precisare che non ènecessario cominciare l'inquisizione critica dal riconoscimento esplicito diqueste tre verità, perché come si diceva nella quinta tesi, basta cominciare daqualunque verità immediata e naturale. Pertanto per un principio valido dellafilosofia, basta la loro luce implicita. Poi, si deve notare che le verità prime efondamentali, sono più di tre, e che si dividono meglio in: principi universaliconosciuti per se stessi a partire dai termini, e verità particolari, conosciute perse stesse, a partire dall'esperienza, e ciò in tal modo che il primato lo detengonoi principi universali, specialmente il principio di contraddizione. Pertanto, ladottrina delle verità originarie, proposta da Tongiorgi, deve: a) correggersi inalcuni dettagli particolari e determinarsi meglio, b) svilupparsi in generale conpiù precisione e sistematicità.

CAPITOLO SECONDOLE PRINCIPALI NEGAZIONI DELLA VERITÀ

Senso e divisione del capitolo. - 1. Il primo problema critico si risolve in duemodi: primo positivamente, riconoscendo ordinatamente la nostra conoscenzadella verità; poi, difensivamente, confermando la verità riconosciuta medianteuna rimozione ordinata delle opinioni opposte o negative. Nel capitoloprecedente abbiamo trattato soprattutto la soluzione positiva, procedendomediante un riconoscimento declaratorio. Ora tratteremo lo stesso problema masviluppato sotto l'aspetto difensivo, cercando di completare la dottrina

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sistematicamente e mediante argomenti indiretti. 2. Quando si spiegava il senso e divisione della prima parte abbiamoenumerato le principali opinioni negative. E vedemmo anche che quelleopinioni diventano più o meno negative nella misura che partecipano deipresupposti scettici. Gli Scettici e Relativistici negano esplicitamente che noiconosciamo la verità assoluta; gli Idealisti ed Antiintellettuali non negano laverità assoluta, ma negano esplicitamente che noi conosciamo l'ente reale, o chelo conosciamo per l'intelletto; i Soggettivistici sull'esistenza del mondosensibile non negano la verità assoluta dell'ente reale intelligibile, ma neganoche noi possiamo conoscere il mondo concreto sensibile come in sé esistente; ei Realisti Mediati negano che questo mondo concreto sensibile sia conosciutoda noi immediatamente. 3. Quindi, per confermare e difendere sistematicamente la soluzionepositiva del capitolo precedente, divideremo questo capitolo in sei articoli,secondo questo ordine: nel primo trattiamo lo Scetticismo universale; nelsecondo, il Relativismo universale; nel terzo, l'Idealismo in generale; nelquarto, l'Antiintellettualismo in generale; nel quinto, il Soggettivismosull'esistenza del mondo sensibile; nel sesto, il Realismo mediato.

ARTICOLO PRIMO

LO SCETTICISMO UNIVERSALE Senso dell'articolo. - Quando s’indaga una dottrina opposta alla veritànaturale, si suole anche esaminare se l'uomo che professa tale dottrina puòanche liberarsi di questa illusione. Quindi ora ci domandiamo: rispetto alloScetticismo, se in realtà è possibile e se come dottrina può essere coerente conse stessa; rispetto allo Scettico, come può essere condotto a riconoscere laverità che naturalmente possiede. TESI VII. - Lo Scetticismo universale se si considera come un fatto, èimpossibile; se si considera come una dottrina, implica contraddizione. Colrisultato che lo scettico può, mediante una "confutazione", essere portato ariconoscere la verità. Prenozioni - 1. Secondo l'origine del nome, scettico, di "esképtomai", è lastessa cosa che osservatore o investigatore; secondo l'uso del nome, si diconoScettici quei "filosofi che professano il dubbio", perché pensano che in realtà

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essi non trovarono né possono trovare la certezza. Quindi, Scetticismo è lastessa cosa che "il dubbio o la professione del dubbio con l'esclusione dellacertezza". Si dice parziale se si estende a qualche ordine di verità; universale osemplicemente Scetticismo se si estende ad ogni ordine di verità. Nella tesi si considera lo Scetticismo universale come un fatto e comeuna dottrina. Lo Scetticismo come un fatto è lo "stato soggettivo interno disospensione universale di ogni certezza". E di nuovo può considerarsi:nell'ordine speculativo, ed in questo caso è la sospensione di ogni certezzaspeculativa; e nell'ordine pratico ed in questo caso è la sospensione di ognicertezza pratica. Lo Scetticismo come dottrina, è l’"insieme di ragioni per cui si concludeal dubbio universale", determinato nel suo senso intelligibile. Tali ragioninormalmente si prendono dal fatto dell'errore, dalla discrepanza di opinioni,dall'inconveniente della petizione o del circolo, dalla relatività delle sensazioni,dai limiti dell'intelletto, e così via. Sesto Empirico descriveva la posizione degli scettici antichi così: 1) Inparagone con gli altri filosofi: "In filosofia, alcuni dicono avere trovato laverità, Aristotele, Epicuro e gli Stoici; altri dicono che la verità non può capirsi,Clitomaco, Carneade e gli Accademici; altri, invece, continuano a cercarla".Perciò "osservando l'equilibrio (equipolenza) tra i fatti e delle ragioni opposte,arriviamo prima alla sospensione dell'assenso (epoché), poi all'indifferenza(ataraxía)". 2) Nel suo significato fondamentale: "Forse nessuno dubita chealcune cose «appaiono» all'individuo. Il dubbio nasce quando si tenta di vederese tale cose «sono» come appaiono. Noi viviamo adattandoci alle apparenze, eosservando ciò che riguarda la vita comune, perché ci sarebbe impossibileprescindere da ogni azione. Ma non stabiliamo nessun dogma" (Inst. Pyrrhon. Ic. 1, 4 et 9. (35) 2. Nel capitolo precedente abbiamo mostrato positivamente, mediante unriconoscimento declaratorio, che noi conosciamo necessariamente alcuneverità. In questa tesi pretendiamo difendere la soluzione già data, mediante laconfutazione dello Scetticismo universale, ricorrendo ad argomentazioniindirette e alla "confutazione." Per argomentazione indiretta, intendiamo ilragionamento che conclude alla contraddizione o la falsità di qualche posizioneod opinione. Per "confutazione", quell'argomento "ad hominem" in cui, da cosemeno conosciute, concesse dall'avversario, si arriva a cose più conosciute,negate dall'avversario. La "confutazione" è così, una forma speciale di disputache, portando l'avversario ad una contraddizione evidente, gli offre occasionedi prendere coscienza esplicita della sua contraddizione. Secondo questo senso, divideremo la prova della tesi in tre parti: nellaprima mostreremo che lo Scetticismo è in realtà soggettivamente impossibile;

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nella seconda che la dottrina scettica, considerata obiettivamente, implicanecessariamente una contraddizione; nella terza, concluderemo che lo Scetticopuò, mediante una "confutazione", essere portato a riconoscere la verità chepossiede. Opinioni. - Lo Scetticismo universale ebbe come precursori molti Sofisti; manel suo senso pessimista lo consacrò rigidamente Pirrone, il quale insegnavache "niente può comprendersi, che deve sospendersi l'assenso... e che non c'èniente che sia più questo che l'altro". Benché egli personalmente non scrivesseniente, ebbe discepoli e seguaci. Enesidemo instaurò ad Alessandria i dieci "tropi", da cui si mostra larelatività delle nostre conoscenze. Agripa aggiunse altri cinque, che portanoalla sospensione di ogni assenso. Sesto Empirico nelle sue Istituzioni

Pyrrhonianae e nell’ Adversus Mathematicos raccolse tante teorie scettiche.Molte dottrine proprie dello Scetticismo furono accettate dagli Accademici chedivulgarono la dottrina ai tempi di S. Agostino. Nell'epoca moderna, sotto l'influsso della cultura Rinascimentalecrebbero nuove tendenze scettiche. M. Montaigne, nei suoi Essais, considera lalimitazione ed inadeguatezza della nostra conoscenza e la convenienza disospendere le nostre affermazioni. F. Sanchez, nel trattato molto metodico,Quod nihil scitur, notando le limitazioni e deficienze delle nostre conoscenze el'impossibilità di arrivare ad una scienza comprensiva delle cose, soprattuttoparagonandola con la scienza divina, concluse che dobbiamo dire che noi nonsappiamo niente(37). Hume si avvicinò allo scetticismo universale col suoempirismo fenomenico. Nel secolo scorso T. Jouffroy, nei Mélanges

philosophiques, sostenne un certo Scetticismo. Più recentemente G. Remsipropose in molte opere uno Scetticismo di tipo irrazionale. Prova della prima parte della tesi: Lo scetticismo è in realtà soggettivamente"impossibile": Gli Scettici professano che speculativamente dubitano di tutto, maconcedono che praticamente vivono come gli altri uomini, o concedono diavere certezze pratiche, per le quali dirigono le proprie azioni. Così permostrare che lo Scetticismo è in realtà impossibile, possiamo procedere per duestrade: 1. Partendo da ciò che è implicato nella certezza pratica. Si dà certezzaspeculativa quando si distingue una cosa di altre senza paura di illudersi;poiché in questo caso si tiene la coscienza indubitabile dell'applicazionenecessaria, e quindi della verità necessaria, del principio speculativo dicontraddizione. È cosicché si tiene certezza pratica quando si distingue una

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cosa di altre, senza paura di illudersi: per esempio l'azione di cercare dell'azionedi evitare, questo che si cerca di quello che si evita, ed in genere quello chebisogna cercare di quello che bisogna evitare. Quindi si tiene certezza praticaquando si tiene anche alcuna certezza speculativa. Ed è cosicché di nuovo: gliScettici concedono che hanno necessariamente alcune certezze pratiche. Quindidevono concedere anche che essi hanno necessariamente alcune certezzespeculative; e pertanto devono concedere che lo Scetticismo universale è inrealtà impossibile. 2. Partendo da ciò che è implicato nella professione speculativa. GliScettici professano che speculativamente dubitano di tutte le cose. È cosicchéquelli che professano che speculativamente dubitano hanno alcune certezzespeculative, e capiscono la natura della propria ragione. Quindi gli Scetticihanno alcune certezze speculative e capiscono la natura della propria ragione, elo Scetticismo è pertanto in realtà impossibile.

La minore: Colui che professa lo Scetticismo, percepiscecoscientemente che dubita e capisce coscientemente i motivi e ragioni per lequali dubita. È cosicché: a) Non può percepire coscientemente che dubita,senza distinguere il dubbio della certezza, il pensiero del non pensiero, a séstesso di ciò che non è sé stesso: e tutto ciò è avere alcune certezze speculative;b) Non può capire coscientemente i motivi e ragioni per le quali dubita, senzacapire che la ragione esige essere determinata ad una cosa (ad unum), permotivi sicuri e conseguenze logiche: e tutto ciò è conoscere la natura dellapropria ragione. Quindi colui che professa lo Scetticismo ha alcune certezzespeculative, e capisce la natura della propria ragione.

Per difendere la certezza speculativa del principio di contraddizione,contro coloro che affermavano che tutto si trova in divenire, Aristoteleargomentava così, partendo dal comportamento vitale: "Perché quando ilmedico gli prescrive questo cibo, lo prendono? Se niente differisce mangiare danon mangiare, che cosa avviene affinché questo sia pane invece di non pane? Ilfatto è che questi, come aggrappandosi alla cosa vera, prendono questo"(Metaph, XI, c. 6 1063 a 28-34). E per mostrare le certezze speculativeimplicite nella stessa professione del dubbio universale, Sant’Agostinoargomentava così: "Se dubita, vive; se dubita, prende coscienza di ciò cheprovoca il dubbio; se dubita, capisce che dubita; se dubita, vuole essere certo;se dubita, pensa; se dubita, sa che non sa; se dubita, giudica che non convieneacconsentire temerariamente. Quindi chiunque dubita di altre cose, di tuttequeste non deve dubitare; perché se non esistesse, di nessuna cosa potrebbedubitare" (De Trinitate, X, c. 10).

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Seconda parte: La dottrina scettica, considerata nei suoi contenuti oggettivi,implica necessariamente una contraddizione.

Partendo dallo stesso significato della dottrina. Quella dottrina chesignifica con certezza che non esiste niente di certo, è una dottrina che implicacontraddizione nel suo significato oggettivo. È cosicché tale è la dottrinascettica. Quindi la dottrina scettica implica contraddizione.

La minore: perché in qualsiasi modo che si proponga la dottrina scetticaporta necessariamente: a) A significare determinatamente qualcosa: poiché se ilsuo significato obiettivo fosse nullo, cioè non significasse determinatamenteniente, non sarebbe una dottrina che meritasse attenzione. Infatti è la stessacosa significare determinatamente qualcosa che significarlo con certezza:poiché significare è indicare determinatamente una cosa e non altra. b) Asignificare che ciò che indica determinatamente, sia precisamente che niente ècerto: perché altrimenti non sarebbe la professione di un dubbio universale.Quindi in qualunque modo si proponga la dottrina scettica, portanecessariamente a significare con certezza che niente è certo, o a significaresimultaneamente che qualcosa è certa e che niente è certo. Obiezione: La dottrina scettica si contraddirebbe, se si proponesse concertezza. È cosicché si può proporre solo dubitativamente. Quindi la dottrinascettica non si contraddice. Risposta. Gli scettici ricorrono a questo sotterfugio per mostrare che inrealtà non si contraddicono, e che la dottrina scettica nel suo senso oggettivonon è contraddittoria. Ma in entrambi i casi non vale il sotterfugio. Primoperché ricorrendo a questo stratagemma mostrano che vedono bene la verità delprincipio di contraddizione. Poi, perché, sia che propongano la dottrina scetticacome certa, sia che la propongano come dubbiosa, sempre nella mente delloScettico, e nella dottrina dello Scetticismo considerata in sé stessa, si dàqualche significato determinato, questo e non altro. La stessa risposta bisogna dare allo Scettico che dice che vede la propriacontraddizione, ma che egli accetta questa contraddizione. Perché solo puòaccettare la contraddizione, se distingue coscientemente l'accettare dal nonaccettare, e quindi in quanto rigetta la contraddizione. Terza parte: "Lo scettico può, mediante una "confutazione", essere portato ariconoscere la verità che possiede." Partendo dai precedenti. Possono essere portati a riconoscere la veritàmediante una "confutazione" quegli a cui si mostra che in realtà dubitano soloillusoriamente, e che la loro dottrina è contraddittoria; perché riducendoli ad

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una contraddizione palese si offre loro l'occasione di prendere coscienzaesplicita della propria contraddizione. È cosicché entrambe le cose possonoessere mostrate agli Scettici, come abbiamo visto nelle parti precedenti. Quindigli Scettici possono essere portati a riconoscere la verità mediante una"confutazione." Nota. Sulla natura illusoria del dubbio degli Scettici. "È vero che ognigiudizio contiene implicitamente la percezione di qualche verità, come quelladel primo principio, della propria esistenza, e perfino della stessa naturaconoscitiva dell'intelletto. Ma l'attenzione dell'intelletto può dirigersi econcentrarsi totalmente su ciò che si afferma esplicitamente. Quindil'affermazione esplicita del dubbio universale benché sia in sé stessacontraddittoria, non necessariamente viene percepita esplicitamente comecontraddittoria. Perché la mente può concentrare l’attenzione sulla conseguenzache collega questa affermazione con le premesse, di cui al meno una ècertamente falsa, che così ritiene qualche parvenza di verità. Come quandodico: “Con ogni certezza l'intelletto sbaglia qualche volta; ora, la facoltà chesbaglia qualche volta non merita fede; quindi bisogna dubitare di ognigiudizio”. Giacché la minore di questo argomento comporta qualche apparenzadi verità, in virtù di tale apparenza, l'intelletto può aderire alla conclusione,concentrando l’attenzione sulla conseguenza più che sulla relazione intrinsecatra il soggetto e il predicato della conclusione. La stessa cosa succederebbe seio dicesse: “La verità esigerebbe di fare una comparazione tra la conoscenza ela cosa conosciuta; ma tale comparazione è impossibile; quindi non si puòraggiungere la verità”. Queste premesse comportano facilmente qualcheverosimilitudine, che determina un’adesione imprudente al conseguente. Perchéè ovvio che per un'interpretazione erronea dei fatti, o per un falso concetto dellaconoscenza, possiamo arrivare ad ammettere con sincerità il dubbio universale;ma illusoriamente, perché la professione esplicita di un tale dubbio non puòdarsi senza che implicitamente comporti insieme alcune cose vere e certe, cheanche vengono affermate con essa nell’esercitare dell'atto ("exercite"). Quindibisogna considerare lo Scettico come il prigioniero di un dubbio universaleillusorio, che sarà confutato o guarirà se gli viene mostrata l’illusione di un taledubbio. E ciò succederà portando alla luce le cose che, colui che dubita,necessariamente compie implicitamente e riconosce "exercitamente". Da questoriconoscimento della verità e della certezza, bisognerà procedere a dissipare leconcezioni false della conoscenza e a dare una spiegazione coerente dei fattiallegati contro il valore dell'intelletto" (Boyer, Cursus Philos, I, p. 200). Obiezioni. - 1. Non possiamo fidarci di facoltà che conducono all'errore.

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È cosicché le nostre facoltà conducono all'errore. Quindi non possiamo fidarcidelle nostre facoltà. Risposta. - Distinguo la maggiore: non possiamo fidarci di facoltà chesempre e per sé inducono in errore, concedo; che qualche volta e per accidenteinducono in errore, nego. E contradistingo la minore. Dal fatto che qualche volta sbagliamo non è lecito concludere che sempresbagliamo. Per concludere così dovremmo conoscere che la facoltà sbaglia persé, cioè, per la sua stessa natura. E ciò è precisamente quello che la tesi hamostrato di essere impossibile. 2. La facoltà che necessariamente ed invincibilmente sbaglia, è unafacoltà che sbaglia per sé. È cosicché l'intelletto è una facoltà chenecessariamente ed invincibilmente sbaglia. Quindi l'intelletto è una facoltà chesbaglia per sé. Risposta. Distinguo la maggiore: la facoltà che fisicamente,necessariamente ed invincibilmente sbaglia, è una facoltà che sbaglia per sé,concedo; che moralmente, necessariamente ed invincibilmente sbaglia, nego. Econtradistingo la minore. Essendo l'intelletto una facoltà visiva e necessaria, quando è presentel'evidenza, viene sempre necessitato ad assentire; quando al contrario non èpresente, non può essere mai necessitato. Quindi nessun errore, neanche nellavita spontanea, è fisicamente necessario. Invece molti errori, dovuti alladebolezza della volontà e ad esigenze pratiche, diventano moralmentenecessari. Ma precisamente perché solo moralmente e non fisicamentenecessari, possono essere sempre evitati, almeno mediante una sospensionedell'assenso imprudente. 3. Quando sbagliamo, o sappiamo o non sappiamo. È cosicché non ilprimo, perché altrimenti non sbaglieremmo. Quindi il secondo; e quindisbagliamo necessariamente. Risposta. Concedo la premessa maggiore alternativa e scelgo il primomembro con distinzione: sappiamo formalmente, nego; sappiamo virtualmente,concedo. Contradistingo il maggiore e la ragione aggiunta. È chiaro che quando sbagliamo, non sappiamo formalmente chesbagliamo, perché in tale ipotesi non accadrebbe nessun errore. Ma non puòconcedersi agli Scettici che in nessun modo sappiamo che sbagliamo, perchéallora la loro argomentazione: “la facoltà che sbaglia e che totalmente ignorache sbaglia, è una facoltà che sbaglia per sé; ora, il nostro intendimento sbagliaed ignora totalmente che sbaglia; quindi è una facoltà che sbaglia per sé”,sarebbe legittimamente un'argomentazione concludente. In questo senso

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diciamo nella tesi che noi, quando entriamo nell'errore, sappiamo virtualmenteche sbagliamo. Che cosa sia sapere virtualmente che sbagliamo, lo tratteremoesplicitamente quando parleremo dell'errore. Basti qui notare che nell'attodell'errore si dà sempre una non evidenzia dell'oggetto e conseguentemente unassenso debole ed un influsso indebito della volontà. In questo senso, nellostesso esercitare l’atto, poiché avviene senza avere coscienza dell'evidenzaobiettiva e con un assenso debole sotto l'influsso della volontà, sappiamovirtualmente che sbagliamo. Si noti che l'inevidenza dell'oggetto, prima delgiudizio, è di per sé sufficiente per sospendere l'assenso; e, una volta che si ègiudicato erroneamente, l'inevidenza insieme alla debolezza dell'assenso è diper sé sufficiente per ritrattare l'assenso erroneo. 4. Si dubita legittimamente quando ci sono ragioni prudenti persospendere l'assenso. È cosicché ci sono ragioni prudenti per sospenderel'assenso: per esempio, le fallacie inevitabili dei sensi, l'ipotesi del geniomaligno, e così via. Quindi si dubita legittimamente. Risposta. Concedo il maggiore e distinguo la minore: si danno ragioniprudenti per sospendere l'assenso su alcune cose, concedo; su tutte le cose,nego; perché la stessa sospensione universale è già un errore. Ugualmentedistinguo il conseguente. È vero che il senso sbaglia nella sua conoscenza, o, più rettamente, chedà all'intendimento occasione di cadere in errore. Ma alcune verità, come lapropria esistenza ed le altre verità fondamentali necessariamente connesse, sicapiscono facilmente come immuni dal pericolo dell'illusione sensibile:“Possono lanciarsi mille tipi di fallacie visive contro colui che dice: «so divivere»; nessuna di queste temerà, se quello che si sbaglia vive" (S. Agostino,De Trinit, XV c. 12). La stessa cosa bisogna dire sull'ipotesi del genio maligno: "Ma allora dicerto non c’è dubbio che io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni pure quantopuò, non riuscirà tuttavia mai a far sì che io non sia nulla, fintanto che penseròdi essere qualcosa", (Cartesio, Medit. II, Adam-Tannery VII, p. 25). Inoltrenotiamo che se è vero che pensiamo, è vero che siamo, e che se pensiamo,pensiamo l'ente. Quindi l'ipotesi del genio maligno non può debilitare lacertezza naturale della realtà dell'ente, come già di modo simile abbiamo vistonella tesi seconda. 5. Non possiamo fidarci di una facoltà il cui valore solo essa testimonia.È cosicché il valore della ragione, solo lo testimonia la stessa ragione. Quindinon possiamo fidarci della ragione.

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Risposta. Distinguo la maggiore: Non possiamo fidarci di una facoltà ilcui valore, a priori e senza un motivo oggettivo, solo essa testimonia, concedo;il cui valore, a posteriori e per un motivo obiettivo, solo essa testimonia, nego.E contradistingo la minore. Per capire le distinzioni, si ricordi che è necessario che il valore dellaragione: a) venga conosciuto dalla stessa ragione, perché se si conoscesse perun'altra facoltà, bisognerebbe procedere all'infinito fuori della ragione; b)venga conosciuto nello stesso atto esercitato, perché altrimenti si procederebbeall'infinito dentro la stessa ragione; c) venga conosciuto a posteriori, perché lecapacità si conoscono per i suoi atti; d) venga conosciuto per un motivooggettivo, o per un motivo di evidenza, perché altrimenti l'assenso sarebbecieco ed illegittimo. Orbene, per il fatto che chi dubita, è certamente cosciente di esisteredubitando: a) si esclude l'assenso cieco o illegittimo, e si dà alcuna certezzaindubitabile; b) il valore della ragione si conosce non a priori, bensì aposteriori; c) nello stesso atto esercitato, e non nel susseguente giudizioriflesso; d) non per un'altra facoltà, bensì per la stessa ragione. Quindi non c'è nessun vizio, o illegittimità nell'attestazione naturaleesercitata nell'atto che la nostra mente si forma sul proprio valore, o sullapropria attitudine. E non c’è conseguentemente nessun vizio o illegittimità nelsillogismo declaratorio per il quale prendiamo coscienza esplicita della nostraattitudine. 6. Non può darsi nessuna dimostrazione contro una dottrina che non haprincipi propri veri, a partire dai quali si confuti. È cosicché tale è loScetticismo. Quindi. Risposta. Distinguo la maggiore: non può darsi nessuna dimostrazionepositiva e diretta, concedo; negativa e indiretta, nego. E contradistingo laminore. Pertanto il fine della tesi contro lo Scetticismo è doppio: a) unoprincipale, per il confutante, affinché si confermi nella certezza della verità,rimovendo indirettamente la dottrina scettica; b) altro secondario, per ilconfutato, per offrirgli un mezzo efficace per riconoscere la verità, procedendoa partire da quelle cose che praticamente e nell'esercizio dell'atto già concede.

ARTICOLO SECONDO

Il Relativismo universale

Senso dell'articolo. - Della rimozione dello Scetticismo universale, possiamo

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concludere legittimamente che noi conosciamo necessariamente alcune verità, oche noi conosciamo qualche oggetto necessariamente è come. Ora, questaespressione “come è” può prendersi in senso proprio o improprio.

In senso proprio, significa “come è in sé”. In questo caso: a) l'oggettoconosciuto, è la cosa secondo l'essere che ha in sé; b) la specie interna sicomporta come ciò per cui o in cui (id quo vel in quo) si conosce la stessa cosa;c) l'oggetto conosciuto regola o misura l'attività conoscitiva per la quale vieneconosciuto in atto; è indipendente della stessa attività conoscitiva, o è assolutodelle condizioni soggettive del conoscente; d) la verità della nostra mente sidice assoluta, e si definisce come l'adeguazione dell'intelletto e della cosa, ol'adeguazione dell'intelletto e dell'oggetto che col suo essere misura la stessaconoscenza.

In senso improprio, significa “solo come s noi ci appare”. In questo caso:a) l'oggetto conosciuto non è la cosa come è in sé, ma solo come vieneinternamente rappresentata; b) la rappresentazione interna si comporta come ciòche (id quod) si conosce; c) l'oggetto conosciuto è regolato o misurato perl'attività conoscitiva che lo conosce in atto; è dipendente della stessa attivitàconoscitiva, o relativo alle condizioni soggettive del conoscente; d) la veritàdella nostra mente si dice relativa, ed in definitiva si definisce comel’adeguazione della conoscenza con se stessa, o l’adeguazione della conoscenzacon l'oggetto misurato nel suo essere per la stessa conoscenza.

Le teorie che affermano che la nostra verità è relativa, convengono nelnome comune di Relativismo. Poiché il Relativismo si fonda sullo stessopregiudizio scettico che niente possiamo conoscere come è in sé stesso,spontaneamente sorge la questione di quale sia la relazione tra il Relativismo elo Scetticismo.

TESI VIII. - Il Relativismo universale, considerato tanto in generale comenella sua forma fenomenista, si riduce logicamente allo Scetticismo, e siconfuta di modo simile.

Prenozioni - 1. Il Relativismo preso in generale, è la teoria filosofica cheafferma che la nostra verità, anche rispetto a ciò che conosciamo, è relativa alsoggetto che conosce, in quanto che l'oggetto conosciuto dipende o è misuratoper l'attività conoscitiva. Il relativismo può essere parziale o universale,secondo che si estenda ad alcune o tutte le verità.

Appartiene alla coerenza del Relativismo universale: a) affermare che noinon conosciamo l'oggetto come è in sé; b) negare che possiamo distinguereadeguatamente tra una conoscenza assolutamente vera ed una conoscenzaassolutamente falsa (poiché la cosa non si considera come misura del nostro

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intelletto); c) concludere che le contraddittorie possono essere simultaneamentevere o simultaneamente false.

2. Il Relativismo universale può considerarsi sotto l'aspetto ontologico ologico secondo che intenda affermare la relatività della verità partendo dallanatura della cosa in sé (per sé stessa non intelligibile, anche se l'intelletto fosseconoscitivo), o dalla natura dell'intelletto (per sé stesso non conoscitivo dellacosa in sé, anche se la cosa fosse intelligibile).

Di questo Relativismo possono distinguersi tre forme: La prima è lafenomenista, che ammette l'esistenza della cosa in sé, e considera l'attivitàconoscitiva come misura dello stesso apparire dell'oggetto nella coscienza. Laseconda è l'idealista, che nega l'esistenza della cosa in sé, e considera l'attivitàconoscitiva come misura integrale dello stesso essere dell'oggetto nellacoscienza. La terza è l'antiintellettuale, che nega la verità intellettuale assoluta,pensando che la nostra conoscenza intellettuale è insufficiente ed invalida.

Il Relativismo, inoltre, dovuto ai motivi e modi di proporlo, può ancoradividersi: a) in probabilista o sofista: se afferma che noi davanti allecontraddittorie possiamo ipotizzare la più probabile, o parifica tutte icontraddittorie; b) in mutabile o stabile, se pensa che l'oggetto è modificato perle condizioni mutevoli o per le funzioni stabili del soggetto conoscente; c) instrettamente o non strettamente progressivo, se spiega che l'evoluzione delleopinioni avviene conforme a una legge o senza legge; d) in individuale, ospecifico, o sociale, se cerca di spiegare la diversità di opinioni partendo dellacostituzione mentale del soggetto, o della specie umana, o dell'influsso dellecondizioni sociali.

3. Nel capitolo precedente abbiamo mostrato positivamente, mediante unriconoscimento dichiarativo, che conosciamo alcune verità, illustrando il lorosenso assoluto. In questa tesi, supposta l'impossibilità intrinseca delloScetticismo e la sua contraddizione, pretendiamo di difendere la soluzione giàdata, procedendo ad una rimozione del Relativismo universale.

La tesi considera il Relativismo in generale ed il Relativismofenomenista, lasciando per tesi posteriori la considerazione esplicita delRelativismo idealistico e antiintellettuale. Concediamo ai Relativistici che laverità della nostra mente è relativa rispetto al modo come conosciamo, maneghiamo che sia relativa rispetto a ciò che conosciamo. Ed affermiamo che ilRelativismo universale, benché si distingua dello Scetticismo rigido, in realtà sifonda su tali presupposti, che logicamente si risolve in una forma diScetticismo. Secondo questo senso, dividiamo la prova della tesi in tre parti: nella primamostriamo che il Relativismo in generale logicamente si riduce allo

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Scetticismo; nella seconda facciamo la stessa cosa col Relativismofenomenista; nella terza concludiamo che il Relativismo si confuta nello stessomodo che lo Scetticismo.

Opinioni. - Tra gli antichi che professarono un Relativismo ontologico bisognaenumerare, secondo l'attestazione di Aristotele, a Cratilo, il quale “pensava chenon bisognava dire niente, e solo muoveva il dito; e rimproverava Eraclito peravere detto che non si può scendere due volte nello stesso fiume; e diceva cheneanche una" (IV Metaph, c. 5, 1010 a 12-15).

Molti Sofisti professarono un Relativismo logico. Protagora diceva chenoi percepiamo la realtà come appare nelle modificazioni soggettive econcludeva: “l'uomo è la misura di tutte le cose”, e "quello che a ognuno glisembra, quello è per lui" (Platone, Theaetetus, VIII 152, a; XVI 162 c.). Gorgiain opposizione alle affermazioni del suo tempo sull'ente affermò che: “l'entenon esiste, e se esistesse noi non potremmo conoscere niente di esso, e se loconoscessimo non potremmo comunicare agli altri niente su esso” (SextusEmpiricus, Adversus Mathem, VII, 65). Qualunque sia l'interpretazione diqueste espressioni, Aristotele senza dubbio giudicava il Relativismo Sofistacome un'opinione che afferma che tutte le cose sono per noi puramenteapparenti, e che quindi logicamente concludeva che le contraddittorie dovevanodirsi ugualmente vere o ugualmente false (Cfr. ad esempio: Methaph. IV,dall'inizio del c. 5, fino al fine del c. 8).

Molti Accademici professarono un Relativismo probabilista. Arcesilaonegava che ci fosse qualcosa che si potesse conoscere, “neanche quello cheSocrate si aveva concesso" (cioè, che lui non sapeva niente); ma ammise laragione più probabile (tó eúlogon), per dirigere la vita pratica. Dopo di luiCarneade determinò il Relativismo degli Accademici, secondo il quale, ilsaggio “considera le cose come probabili, non come comprese, perfino ritieneprobabile che niente si può comprendere" (Cicerone, Acad. Post. I c. 12 et II c.34). Lo stesso Cicerone, benché propose molti argomenti per fondare la moralee la religione, non fu capace, nel suo eclettismo, di superare l'influsso degliAccademici.

Nei nostri giorni sotto l'influsso dell'empirismo, fenomenismo, idealismoed irrazionalismo, il Relativismo si è molto diffuso, non solo sotto l'aspettoteorico, ma anche sotto quello morale e religioso.

Infatti si riducono ad una o altra forma di Relativismo: a)L'Agnosticismo, che pensa che le scienze umane, e soprattutto la metafisica,non servono per cogliere adeguatamente la realtà; b) Il Psicologismo, checonsidera le nostre conoscenze come meri fatti psichici, condizionati solo daleggi psicologiche; c) Lo Storicismo, che risolve il valore delle opinioni nella

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loro contingenza ed importanza storico evolutiva; d) Il Modernismo, cheafferma che “la verità non è più immutabile dell'uomo stesso col quale, nelquale e per il quale si sviluppa” (Denzinger, 2058); e) Il Pragmatismo, chegiudica il valore delle opinioni teoretiche a partire dal loro risultato e dell'utilitàpratica; f) Alcune Teorie Sociali moderne diffuse anche tra i filosofi chestabiliscono i propri principi direttivi dipendendo dal senso intimo, dall'utilità,o delle esigenze di qualche collettività.

Dal secolo scorso molti svilupparono la propria filosofia mantenendopresupposti relativisti. Così per esempio J. Stuart Mill, che professò unRelativismo scientista partendo da presupposti empiristi e soggettivisti; H.Spencer, che arrivò all'agnosticismo scientifico partendo dalla considerazionedella relatività della conoscenza e dalle antinomie delle idee principali; Ch.Renouvier, che sistematicamente propose un neocriticismo o fenomenismocritico; W. Dilthey, negando la validità assoluta della metafisica concettuale,sostituendola con l'esperienza vitale; O. Spengler, che propose spiegazioni econsiderazioni storiche in un senso positivista ed irrazionale; H. Vaihinger,affermando che dobbiamo procedere come se la realtà fosse così come lafingiamo nelle nostre concezioni; C. Guastella, credendo che ogni esperienzaversa su fenomeni puramente apparenti; U. Spirito, sviluppando una filosofia insenso problematico su un piano naturalista.

Anche i Filosofi Scienziati arrivarono spesso a qualche relativismo. Cosìper esempio E. Mach, identificando la realtà con lo stesso contenutofenomenico dell'esperienza, e la scienza con la formula più economica delleesperienze; J. H. Poincare, che prende i principi e postulati matematici comeconvenzionalismi la cui verità relativa si fonda nella loro non contraddizione;A. Pastore, che risolve l'ente nella relazione sotto-oggettiva, variabile indipendenza della variazione degli altri enti del discorso logico.

Prova della prima parte della tesi: Il Relativismo in Generale si riducelogicamente nello Scetticismo."

Partendo della negazione logica del primo principio. Si riduce nelloScetticismo quella teoria dei cui presupposti logicamente si segue la negazionedel principio di contraddizione nella sua accezione universale. È cosicché tale èil Relativismo considerato in generale. Quindi il Relativismo considerato ingenerale si riduce logicamente nello Scetticismo.

La maggiore: consta per il fatto che, come proviamo nell'articoloprecedente, la negazione del principio di contraddizione nella sua accezioneuniversale, equivale allo Scetticismo universale.

La minore si mostra. Il Relativismo nega che l'oggetto conosciuto misurila nostra conoscenza, e conseguentemente afferma che la nostra attività

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conoscitiva misura lo stesso oggetto. Con tale presupposto, argomentiamo così: O questa misura si prende come per sé stessa sufficiente per costituire la veritàdella conoscenza, o come per sé insufficiente, o come in parte sufficiente ed inparte insufficiente. Nella prima ipotesi, tutte le affermazioni contraddittoriesarebbero ugualmente vere, e così si accadrebbe la negazione del principio dicontraddizione nella sua accezione universale. Nella seconda ipotesi, tutte leaffermazioni contraddittorie sarebbero ugualmente false, e così di nuovoaccadrebbe la negazione del principio di contraddizione nella sua accezioneuniversale. Nella terza ipotesi, tutte le affermazioni contraddittorie sarebberougualmente vere e false, senza possibilità di distinguere definitivamente ilsenso nel quale sono vere e il senso nel quale sono false, e così accadrebbesempre la negazione del principio di contraddizione nella sua accezioneuniversale.

Obiezione: tra le contraddittorie incerte possiamo congetturare la piùprobabile.

Risposta. Distinguo: supposta alcuna certezza della cosa vera assoluta,concedo; non supposta nessuna certezza della cosa vera, nego. Perché dovemanca la conoscenza certa della cosa vera manca la norma o la misura percomparazione alla quale si possa conoscere ciò che è più o meno verosimile. Inquesto senso S. Agostino, dice che “Sono da ridere quegli Accademici chedicono che nella vita bisogna seguire il verosimile ignorando che cosa sia ilvero" (Contro Acad. I, c.7).

Seconda parte: Il Relativismo Fenomenico si riduce logicamente nelloScetticismo.

Partendo della negazione logica della certezza: Si riduce logicamenteallo Scetticismo quella teoria dei cui presupposti si segue logicamente laprofessione dell'incertezza universale. È cosicché tale è il RelativismoFenomenista universale. Quindi il Relativismo Fenomenista universalelogicamente si riduce allo Scetticismo.

La minore. Il Relativismo Fenomenista universale, nega che possiamoconoscere alcuna realtà come realmente è, e conseguentemente afferma che noiconosciamo tutta la realtà solo come appare. Con tale presupposto,argomentiamo così:

Quando noi siamo coscienti di cogliere qualche oggetto come realmenteè, sempre siamo certi; mentre quando ancora non siamo coscienti, rimaniamoincerti. Quindi non si dà un mezzo tra la conoscenza certa dell'oggetto come è,e la conoscenza incerta dell'oggetto come meramente appare. È cosicché ilRelativismo Fenomenista universale non può ammettere nessuna conoscenza

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certa: perché se l'ammettesse, non sarebbe più Relativismo universale. Quindideve ammettere solo la conoscenza incerta; ed in questo senso si riducelogicamente alla professione dell'incertezza universale.

Obiezione. - Non è la stessa cosa avere una conoscenza fenomenica ed esserein uno stato di totale illusione.

Risposta. Distinguo: non è la stessa cosa avere una conoscenzafenomenica su alcune cose ed essere in uno stato di totale illusione, concedo,perché in questa ipotesi si conosce come è almeno la stessa realtà attuale deifenomeni; non è la stessa cosa avere una conoscenza fenomenica su tutte lecose ed essere in uno stato di totale illusione, nego, perché in questa ipotesi nonsi conoscerebbe come è neanche la stessa realtà attuale del fenomeno.

Terza parte: Il Relativismo si confuta allo stesso modo che lo Scetticismo.Nelle parti precedenti abbiamo visto che l'ipotesi relativistica si risolve

logicamente nell'ipotesi scettica. E nella tesi precedente abbiamo mostrato chel'ipotesi scettica è in realtà impossibile, e come dottrina, contraddittoria. Quindisimilmente bisogna dire dell'ipotesi relativistica. Perché infatti:

a) Il Relativismo Universale è una realtà impossibile. Gli stessiRelativisti concedono che hanno certezze pratiche con le quali dirigono la lorovita. Ma ogni certezza pratica implica la certezza speculativa sull'applicazioneassoluta, e quindi sulla certezza assoluta, del principio di contraddizione.Inoltre chi professa il Relativismo universale è cosciente di professare questo ecapisce i motivi che lo convincono a fare questa professione. Quindinell'esercizio dell'atto (exercite), è cosciente di alcune verità assolute e dellanatura assoluta della sua conoscenza.

b) Il Relativismo Universale implica contraddizione. Perché in qualsiasimodo che si proponga deve significare sempre qualcosa con certezza, osignificare qualcosa assolutamente; e deve significare insieme che niente èassoluto, perché altrimenti non sarebbe Relativismo Universale. Quindi inqualunque modo che esso si proponga, implica contraddizione.

c) Da ciò si conclude legittimamente che anche il Relativista può essereridotto a contraddizioni evidenti, e così avere la possibilità di prenderecoscienza esplicita delle sue contraddizioni.

La “confutazione” rispetto ai Relativistici si può fare di molte maniere,per esempio: a) Rispetto ai Relativisti in generale: “Colui che dice che «tutte lecose sono vere», provoca che l'opinione contraria alla sua opinione diventianche vera. E siccome la contraria alla sua opinione è che la sua opinione non èvera; allora colui che dice tutte le cose sono vere, dice che la sua opinione nonè vera, e così distrugge la sua opinione. E ugualmente è chiaro che chi dice che

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«tutte le cose sono false», dice anche che egli stesso sta dicendo il falso" (In IV

Metaph, lect. 17, n. 742). b) Rispetto ai Relativisti in particolare: “Chi giudicache ogni conoscenza dipende dal tipo intellettuale, dice implicitamente che egliha colto questa dipendenza, e quindi che ha conosciuto assolutamente (cioè,non solo dipendentemente del suo tipo di pensare) la dipendenza di ogniconoscenza dei tipi di pensare”... “Chi dice che la verità è una funzione dellanostra costituzione psichica (psicologismo), dice implicitamente che egliconosce questa nostra costituzione psichica. E quindi esclude la psicologia dalrelativismo. Ugualmente chi fa dipendere la verità dal fine ad ottenere(pragmatismo), suppone che conosce un certo fine come buono ed appetibile.Cioè, suppone la dottrina del bene come assolutamente vera" (De Vries,Critica, n. 119-120).

Obiezioni. - 1. Se l'intelletto si ordinasse alla verità assoluta, non dovrebberodarsi discrepanze dispute ed errori tra i filosofi. È cosicché si danno, secondoquello di Cicerone: “Niente si può dire tanto assurdo che non l'abbia dettoqualche filosofo” (De Divinat., II c. 58). Quindi il nostro intelletto non si ordinaalla verità assoluta.

Risposta. Distinguo il maggiore: Se il nostro intelletto si ordinasse allaverità indifettibilmente, non si darebbero discrepanze, dispute ed errori tra ifilosofi, concedo; se si ordinasse solo difettibilmente, suddistinguo: non sidarebbero discrepanze, dispute ed errori su tutte le cose, concedo; su alcune,nego. Ed in questo senso distinguo sia la minore che il conseguente.

Istanza: Non esiste niente che non possa disputarsi per entrambe le parti,ed anche a noi ci succede che in diverso tempo pensiamo cose contrarie.

Risposta. Distinguo: nelle cose più difficili, concedo; nelle più evidenti,nego, o suddistinguo: con parole o illusoriamente, concedo; realmente, nego.

Questa difficoltà è molto importante e merita una considerazione piùattenta:

a) Questa difficoltà ha valore nella misura in cui l'hanno i presupposti sucui poggia. E questi sono: la conoscenza certa del fatto della discrepanza edell'errore, delle verità fondamentali senza la cui luce lo stesso fatto non puòconoscersi, e della capacità della nostra mente di inferire conseguenze logiche.Quindi l'indole della conclusione è illusoria, perché poggia su alcune coseassolutamente certe.

b) Il fatto della discussione e della ricerca manifesta un'ordinazioneessenziale della mente per la verità assoluta. Perché se il relativismo fosse lostato connaturale, ognuno dovrebbe fermarsi nella sua relatività, e non sidarebbe nessuna ragione di disputare in pro o in contro. Ma si disputa nella

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misura in cui si pensa che è possibile riconoscere l’opinione più accettabile; equesto si pensa perché si dà la persuasione di poter conoscere alcuna veritàassoluta, di fronte alla quale possiamo discernere le opinioni più accettabili.

c) Non bisogna esagerare il fatto della discrepanza, perché per esempio,nelle cose naturali che stanno a fondamento delle scienze, tutti gli uominispontaneamente, e i migliori filosofi anche riflessamente, convennero sempre.E quelli che divergono, divergono illusoriamente, mentre è necessario checonvengano realmente. In questo senso diciamo nella risposta alla difficoltà chenon si dà discrepanza su tutte le cose, e concediamo che siamo ordinati allaverità non indefettibilmente, bensì difettibilmente.

d) Il fatto che i filosofi giungano a conclusioni assurde manifesta lanatura logica della mente umana. Perché facilmente si nota che, ammesso unprincipio in parte vero ed in parte falso, dopo hanno proceduto da esso con unalogica sistematica. Ma ciò dimostra che tutti sono persuasi che non può darsinessuna filosofia asistematica, cioè, incoerente con sé stessa. L'assurdità delleconclusioni inferite si dà come segno manifesto di qualche errore iniziale. Diqua la necessità di mettere bene gli inizi sistematici, perché “un piccolo erroreall'inizio è grande alla fine” (De Ente et Essentia, inizio).

2. Affinché la scienza sia possibile, devono conoscersi tutte leconclusioni, che convergono all’insieme. È cosicché precisamente ciò èimpossibile. Quindi la scienza è impossibile.

Risposta. Distinguo il maggiore: affinché la scienza sia possibile, sidevono conoscere tutte le conclusioni principali, concedo; tutte le conclusionipossibili, suddistinguo: affinché sia possibile una scienza comprensiva,concedo; adeguata, nego. Contradistingo la minore ed ulteriormente distinguo ilconseguente. In questo senso appare chiaro che la scienza umana non ècomprensiva, bensì adeguata.

Istanza: Quanto più si progredisce nelle investigazioni scientifiche, piùconclusioni diventano oscure.

Risposta. Distinguo: tutte le conclusioni, nego; alcune, cioè le piùlontane dai primi principi e dalle prime conclusioni, concedo.

Perché stabilito il principio di contraddizione, non deve ammettersi soloche il vero non si oppone al vero, che il falso si oppone al vero, etc., ma anchedeve ammettersi che del vero solo si segue il vero. Quindi la certezza deiprincipi e delle conclusioni evidenti non si debilita per conclusioni ancoraprobabili, né si debilita per conclusioni apparentemente antinomiche.

Istanza seconda: Data la continua e progressiva evoluzione delle

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scienze, può temersi prudentemente che qualche volta le nostre conoscenzepresenti, saranno corrette.

Risposta. Distinguo: può temersi prudentemente che si correggano tuttele nostre conoscenze presenti, inclusi i principi evidenti e le conclusionievidentemente connesse con essi, nego; alcune nostre conoscenze, esclusituttavia i pricipi e le conclusioni evidentemente connesse con essi, concedo.

3. Le cose che stanno in continuo cambiamento non si possono comporresistematicamente in una scienza stabile. È cosicché la realtà che noiconosciamo sta in continuo cambiamento. Quindi la realtà che noi conosciamonon si può comporre sistematicamente in una scienza stabile.

Risposta. Distinguo il maggiore: quello che sta in continuocambiamento, in tal modo che non ha nessuna stabilità neppure negativa edipotetica, non si può comporre sistematicamente in una scienza stabile,concedo; quello che sta in continuo cambiamento, in tal modo che conservaqualche stabilità e necessità, nego. E contradistingo la minore. Quale sia lastabilità della realtà lo spiegheremo più avanti quando parleremo dei concettiuniversali.

4. La scienza umana solo può svilupparsi procedendo da ciò che sisperimenta in concreto. È cosicché da ciò che si sperimenta in concreto solopossono dedursi relazioni che collegano i fenomeni. Quindi la scienza umanasolo può svilupparsi con relazioni che collegano i fenomeni; e quindi qualsiasiscienza assoluta è impossibile.

Risposta. Concedo o lascio passare la maggiore, e distinguo la minore:di ciò che si sperimenta in concreto solo si possono dedurre relazioni checollegano i fenomeni tanto essenziali quanto accidentali, concedo; solo sipossono dedurre relazioni accidentali, nego. Ugualmente distinguo il primoconseguente e nego il secondo. Poi spiegheremo come partendo da ciò chesperimentiamo possiamo astrarre nozioni essenziali e comporle e dividerle ingiudizi tanto induttivi come deduttivi.

5. Ciò che è relativo alle condizioni soggettive del conoscente solo puòessere colto come appare. È cosicché il nostro oggetto conosciuto è relativo allecondizioni soggettive del conoscente. Quindi solo può essere colto comeappare.

Risposta. Distinguo la maggiore: ciò che è relativo alle condizionisoggettive del conoscente rispetto a quello che conosce, solo può conoscersicome appare, concedo; ciò che è relativo alle condizioni soggettive delconoscente, solo rispetto al modo come conosce, nego. Contradistingo la

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maggiore.

Istanza: Non può darsi la stessa conoscenza in conoscentispecificamente diversi.

Risposta. Distinguo: non può darsi la stessa conoscenza soggettivamentein conoscenti specificamente diversi, concedo; la stessa conoscenzaobiettivamente, nego.

"Così come ci sono infiniti intelletti possibili, alcuni più perfetti che altri,fino al sommo intelletto che è Dio, così sono pure infiniti gradi di perfezionenella conoscenza della cosa vera. Si può quindi dire che quella conoscenzadella verità che per l’umano è perfetta, è imperfettissima per gli angeli; cosìcome quella scienza che per un bambino si dice grande, farebbe arrossire ildotto filosofo. Ma da ciò non si deve dedurre che ciò che di vero raggiunge ilbambino, non sia ugualmente vero per il filosofo, né deve concludersi che laverità stessa si debba dire relativa ai diversi intendimenti, o alle variecondizioni degli stessi. Poiché l'adeguazione, nella quale consiste la suaragione, non ammette gradi, giacché consiste in questo: che la forma espressaper il predicato conviene veramente al soggetto reale così come l'affermal'intelletto. E questa adeguazione o è, o non è. Quindi il giudizio o èassolutamente vero, o è assolutamente falso" (Billot, De Sacra Traditione,contro la nuova eresia dell'evoluzionismo) Roma 1922, p. 98).

ARTICOLO TERZO

L'Idealismo in generale

Senso dell'articolo. - Della riduzione del Relativismo allo Scetticismo, siconclude legittimamente che la nostra verità è assoluta, e che la verità assolutasi misura per lo stesso essere dell'oggetto. Ma molti idealisti, si distinguono deirelativistici e scettici in quanto che ammettono che la verità è assoluta, maaffermano insieme che la verità assoluta solo può fondarsi su un oggettocompletamente immanente alla conoscenza. Quindi prima di proseguire,conviene esaminare, di proposito, se una conoscenza assolutamente vera puòfondarsi su un oggetto completamente immanente.

TESI IX. - Nel giudizio vero si coglie sempre una certa trascendenzadell'oggetto conosciuto, di tale modo che non ha bisogno di unadimostrazione diretta. Indirettamente può mostrarsi di molte diversemaniere, partendo delle incoerenze interne della posizione idealista.

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Prenozioni - 1. Nella tesi trattiamo dell'Idealismo Moderno Integrale, secondoil quale l'oggetto conosciuto è completamente immanente alla nostraconoscenza. L'Idealismo moderno integrale si distingue in Empirico eTrascendentale secondo che ammetta un soggetto ultimamente individuale, oun soggetto ultimamente comune, come spiegheremo. Nella tesi consideriamoin generale entrambi gli Idealismi, ma soprattutto l'Idealismo Trascendentale, elo esaminiamo, non sotto l'aspetto metafisico che possa avere, bensì in guantoche inizialmente si mette sotto l’aspetto gnoseologico o critico".

Sotto questo aspetto gnoseologico, l'Idealismo si presenta inizialmenteprofessando il "principio dell’immanenza", secondo il quale “noi soloconosciamo l'oggetto interno alla conoscenza”. L'oggetto idealisticamenteinterno alla conoscenza, è un oggetto completamente dipendente dell'attivitàconoscitiva per la quale si conosce in atto, cioè, è un oggetto il cui essereconsiste nel puro essere conosciuto, che solo può esistere mentre siamocoscienti in atto.

Al questo principio dell’immanenza il Realismo oppone il principio dellatrascendenza, secondo il quale “noi conosciamo un oggetto trascendente laconoscenza”. L'oggetto realisticamente trascendente la conoscenza non è unoggetto completamente dipendente dell'attività conoscitiva per la che siconosce in atto, cioè, è un oggetto il cui essere non consiste nel puro essereconosciuto, che può anche esistere mentre non siamo coscienti in atto.

Posto il principio di immanenza, Gli Idealisti, soprattutto i moderni,concludono ulteriormente: a) che la certezza realistica spontanea si devecorreggere mediante una riflessione critica; b) che l'attività conoscitiva precedel'essere (sono perché penso, l'oggetto è perché è pensato); c) che la conoscenzasi risolve nel puro divenire della relazione conoscitiva i cui termini sono “unpensare” senza soggetto che pensi, e “un essere pensato” senza un oggetto chesia pensato, e così via. Fondati su questi presupposti, molti Idealisti sviluppanouna metafisica dall'ente ideale (le cui nozioni proprie sono: il primato deldivenire sull’essere, il puro divenire dialettico, l'identità dei diversi, l'unità deirelativi, l'universale concreto, e così via).

In opposizione all'Idealismo, i Realisti affermano: a) che la certezzaspontanea realista non si deve correggere, ma che bisogna riconoscerlaordinatamente e spiegarla coerentemente; b) che l'essere precede all'attivitàconoscitiva (penso perché sono, l'oggetto si pensa perché già è); c) che laconoscenza consiste nella relazione conoscitiva del soggetto che pensa conl'oggetto che è pensato. Con questi presupposti, i Realisti sviluppano unametafisica dall'ente reale (le cui nozioni proprie sono: il primato dell'essere suldivenire, l'analogia dell'ente, l'identità e la diversità, l'unità e la molteplicità,l’assoluta e lo relativo, la potenza e l'atto, la sostanza e l'accidente, e così via.

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2. Nella presente tesi cerchiamo di stabilire inizialmente la legittimità delRealismo in generale, contemplando l'impossibilità dell'Idealismo radicale.Cerchiamo così di confutare la stessa concezione della conoscenza propriadell'Idealismo, e il principio su cui si fonda questa concezione, lasciando per latesi undicesima la considerazione esplicita della realtà del mondo sensibilecome esistente in sé.

Non mancano Idealisti che dal principio di immanenza arrivano alSolipsismo. I principali, con tutto, respingono il Solipsismo e coincidononell'esclusione negativa dello Scetticismo e del Relativismo. Perciò, laquestione critica iniziale tra l'Idealismo ed il Realismo si riduce ad esaminare:a) se la conoscenza vera è dell'oggetto immanente o trascendente, e b) se,supposta l'immanenza integrale della conoscenza in senso idealista, possanospiegarsi coerentemente i dati dell'esperienza, la natura della conoscenza ed ilvalore assoluto della filosofia.

Nella tesi affermiamo che noi nell'atto del giudizio vero cogliamo alcunatrascendenza dell'oggetto conosciuto, di tale maniera che non necessita di unadimostrazione diretta; e da lì procediamo a difendere questa affermazione,notando che gli Idealisti non sono capaci di spiegare coerentemente i datidell'esperienza, la natura della conoscenza ed il valore assoluto della filosofia.

Dividiamo la prova della tesi in due parti: nella prima, mostriamoesplicitamente che la trascendenza dell'oggetto conosciuto non può esserestrettamente dimostrata, perché viene sempre conosciuta in atto nello stessogiudizio vero; nella seconda, consideriamo le incoerenze della posizioneidealista.

Opinioni. - 1. Il nome di Idealismo rimanda generalmente ad ogni concezionedella vita e della realtà che concede un importanza primordiale alla idea. Nellinguaggio ordinario, si chiama frequentemente idealismo ad ogni programmache tenta di realizzare ideali, e in questo senso si oppone all’egoismo oall’utilitarismo. Nell'uso filosofico, si dice propriamente Idealismo ogni sistemache concepisce la realtà dell'esperienza come la realizzazione di alcuna Idea oPrincipio ideale, ed in questo senso l’Idealismo si oppone al Materialismo.

L'Idealismo filosofico, così come si presenta storicamente, si divide inantico e moderno. L'Idealismo Antico, distingue adeguatamente la menteumana dalla realtà di esperienza e dal Principio ideale della realtà di esperienza.In questo senso normalmente si chiama Idealismo Realistico, non solo ilsistema platonico fondato sulle Idee, ma anche il sistema aristotelico fondato suDio, nel quale l'intelligente e l’intelligibile si identificano. L'IdealismoModerno, non distingue adeguatamente la mente umana dalla realtà diesperienza, né dal Principio ideale della realtà empirica; perciò questo

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Idealismo si chiama anche Idealismo Immanentista. Dopo questeconsiderazioni, bisogna ora ricordare alcune cose su questo l'Idealismomoderno immanentista.

2. Tra gli Antichi non mancarono i Soggettivistici nel senso relativisticofenomenico, che pensavano “che tutte le proprietà e nature delle coseconsistevano nel loro sentirle o pensarle” (In IX Metaph, lect. 9 n. 1800). Ma lateoria dell'immanenza si deve dire propria dell'epoca moderna, e ha la suaorigine remota nel Cogito cartesiano. L'Idealismo Immanentista moderno, sidivide in molte forme, e non sempre allo stesso modo. Considerando la suaorigine storica, può distinguersi spontaneamente in empirico, trascendentaleformale o critico, e trascendentale assoluto.

L'Idealismo Empirico, solo ammette l'io individuale che si dà nella nostraesperienza interna: si chiama Acosmista, se nega l'esistenza reale del mondocorporeo (così Berkeley, il primo che propose il principio: “esse est percipi”,l’essere consiste nel percepire); si chiama con meno proprietà Fenomenista, senega che possiamo trascendere le nostre modificazioni soggettive (Hume); sichiama Integrale, se nega ogni cosa in sé, coincidendo in questo modo colSolipsismo (così C. Brunet ed A. Levi). Di questo Idealismo Empirico Integraletrattiamo anche nella tesi.

Kant distinse tra l'io empirico e l'Io trascendentale, o stabile e comune,del quale sono proprie tutte le “forme a priori”. La materia della conoscenza, o idati sensibili che provengono dalla cosa in sé, sono accolti nelle forme dellasensibilità e nelle categorie dell'intelletto, e in definitiva vengono informati perl'auto-coscienza o per l'Io trascendentale: così l'oggetto è costituito e risulta incontrapposizione al soggetto. Questa dottrina kantiana si chiama ancheIdealismo Trascendentale Formale, ed è un Idealismo dualista, perché col suosenso proprio, mantiene ancora la cosa in sé.

Gli Idealistici poskantiani arrivarono a un Idealismo Monista. Fichte, unavolta soppresa come illogica la cosa in sé kantiana, concepì un Iotrascendentale come Principio primo dal quale nasce e si deduce ognideterminazione empirica e finita; e così fu il primo a proporre un IdealismoTrascendentale Integrale, in senso soggettivo. Dopo di lui, Schelling concepì ilPrincipio primo come un Assoluto inizialmente indeterminato, in sensooggettivo. Più tardi Hegel, affermando che “ogni la cosa razionale è reale, eogni cosa reale è razionale”, concepì l'Assoluto, o l'Idea divina, comedialetticamente realizzandosi attraverso tutte le determinazioni finite, fino allapiena coscienza di sé. L'Idealismo hegeliano si chiama oggi IdealismoOggettivo, o anche Idealismo Metafisico.

Sotto l'influsso della dottrina kantiana, fichtiana e hegeliana, moltiModerni proposero e svilupparono un Idealismo Trascendentale Integrale che

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risolve tutte le cose empiriche oggettive e soggettive in una Coscienza oSoggetto trascendentale. Di questo Idealismo Moderno, trattiamo precisamentein questa tesi, considerandolo come si presenta inizialmente sotto l'aspettognoseologico e critico.

Tra gli Idealisti Moderni bisogna citare: in Inghilterra, T. M. Green,(alcuna distinzione tra la coscienza finita ed infinita), F. H. Bradley(sovra-personalità dell'Assoluto), B. Bosanquet, (infinità dell'Assoluto), J. E.Mc Taggart (impersonalità dell'Assoluto); in America, J. Royce, (Idealismocoscienziale personalista); in Francia, J. Lachelier (Idealismo pluralistico). O.Hamelin, (Idealismo dialettico monista); L. Brunschwigg, (Philosophie de

l'Esprit, che tutto lo risolve in una coscienza); in Germania, la ScuolaNeokantiana Di Marburgo, (che considera la struttura logica dell'oggetto,marginando la considerazione del soggetto); in Italia, B. Croce, (Filosofia dello

Spirito), ed inoltre G. Gentile, (Idealismo attuale, che risolve tutto l’empiriconell’attualità dell'Io trascendentale). Oggi, si abbandona progressivamentel'Idealismo Assoluto, ma in questa reazione contro l'Idealismo, frequentementesi trattengono pregiudizi soggettivisti.

Prova della prima parte della tesi: La trascendenza dell'oggetto conosciutonon può essere strettamente dimostrata, perché è sempre conosciuta in attonello stesso giudizio vero.

Per un riconoscimento declaratorio. Così come non possiamo dimostrarestrettamente che conosciamo la verità, ugualmente non possiamo dimostrare lealtre cose che necessariamente cogliamo nello stesso giudizio vero. È cosicchénello stesso giudizio vero cogliamo necessariamente alcuna trascendenzadell'oggetto. Quindi così come non possiamo dimostrare che conosciamo laverità, ugualmente non possiamo dimostrare che cogliamo alcuna trascendenzadell'oggetto.

La maggiore, è ammessa da tutti quelli che convengono nella rimozionemetodica dello Scetticismo e del Relativismo.

La minore si mostra per un'analisi del giudizio vero. Perché in ognigiudizio vero, tanto rispetto al soggetto che conosce, come alla realtàconosciuta, abbiamo la coscienza chiara di affermare che l'oggetto è comerealmente è: perché altrimenti rimaniamo incerti. E per questo, siamo coscienti:a) che la nostra conoscenza è vera perché afferma che l'oggetto è così, e chesarebbe falsa se affermasse che l'oggetto non è così; e quindi; b) che l'esseredell'oggetto conosciuto regola o misura la conoscenza attuale per la quale èconosciuto in atto; e quindi; c) che, poiché misura la conoscenza attuale, èindipendente di essa, e in quanto indipendente di essa, lo trascende. Quindi inogni giudizio vero, cogliamo necessariamente alcuna trascendenza dell'oggetto.

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Questa conclusione può illustrarsi per la stessa coscienza dell'errore e dellimite, da cui nasce il nostro primo problema. Perché in ogni ordine assumiamouna coscienza esplicita dell'errore quando lo scopriamo e correggiamo. Mascopriamo l'errore quando vediamo che non giudichiamo dell'oggetto comerealmente è, e lo correggiamo giudicando l'oggetto come realmente è. Quindi lastessa coscienza dell'errore conferma che l'oggetto del giudizio vero misura laconoscenza attuale per la quale viene giudicato in atto. La stessa cosa bisognadire rispetto alla coscienza del superamento del limite.

In particolare, rispetto ai filosofi che professano inizialmente il principiodi immanenza, possiamo estendere l'argomento così:

Chiunque respinge lo Scetticismo e il Relativismo universali, deveconcedere che per avere una verità valida per il filosofo: a) non basta affermareche un oggetto è, affinché ipso facto diventi come si afferma (altrimentil'affermazione dell'immanenza o della trascendenza, ed in generale tutte leaffermazioni contraddittorie, sarebbero ugualmente vere); b) ma bisognamostrare senza dubbio che l'oggetto in questione realmente è come si affermadi essere.

È cosicché: a) se non basta affermare che un oggetto è affinché ipso factosia così come si afferma: l'essere dell'oggetto non consiste nel suo affermarlo(perché se consistesse nel suo affermarlo, sarebbe la stessa cosa affermare edessere); b) se bisogna affermare l'oggetto così come realmente è: l'esseredell'oggetto regola o misura la sua attuale affermazione, e per la stessa ragionenon dipende totalmente dalla sua affermazione, ma la trascende.

Quindi affinché il filosofo abbia una verità valida bisogna concedere checonosciamo alcuna trascendenza dell'oggetto.

Obiezione: Giudichiamo anche con verità dell'ente di ragione. È cosicché l'entedi ragione è prodotto per l'attività conoscitiva. Quindi giudichiamo anche converità dell'ente prodotto per l'attività conoscitiva.

Risposta. Distinguo la maggiore: giudichiamo con verità dell'ente diragione nell'atto di apprensione per il quale l'ente di ragione è costituito, nego;nell'atto susseguente atto del giudizio, che stabilmente viene normato per l'entedi ragione già costituito, concedo. Lascio passare la minore e ugualmentedistinguo il conseguente.

Infatti, in ogni giudizio vero diretto su cose oggettive, abbiamo unsoggetto conoscente, che con la sua attività produce il verbo del giudizio, sottol'influsso normativo della cosa sulla quale proferisce il giudizio; ed in ognigiudizio vero riflesso sugli atti reali o sul soggetto reale, abbiamo ugualmenteun soggetto conoscente, che con la sua attività produce il verbo del giudizio,sotto l'influsso normativo della realtà interna sulla quale proferisce il giudizio.

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In entrambi i casi conosciamo qualche ente che trascende la conoscenza per laquale giudichiamo in atto, come già abbiamo cominciato ad illustrare nellaparte prima della tesi seconda.

Con queste premesse, allo scopo di eliminare dell'Idealismo radicale,conviene notare che l'Idealismo radicale si rimuove anche sottomettendo adun'analisi i giudizi veri riflessi sugli enti di ragione. Perché come consta per laverità assoluta della scienza logica, i giudizi logici sono regolati per lo stessoessere dell'ente di ragione sul quale vertono. Quindi i giudizi logici noncostituiscono l'ente di ragione, ma lo presuppongono già costituito (per qualchealtro atto intellettuale precedente al giudizio, cioè, per l'atto della sempliceapprensione). Di qua si conclude inoltre che anche nel giudizio logico vero,cogliamo l'oggetto in quanto che a suo modo trascende la conoscenza per laquale è giudicato in atto, cioè, in quanto che col suo modo proprio imita lastabilità ed indipendenza dell'ente reale, e così resta sotto la nozione comune diente, secondo la quale definiamo la verità come l'adeguazione dell'intelletto edella cosa.

Lasciamo passare la minore, perché la formazione dell'ente di ragionenon procede secondo il nostro piacere, ma anche essa viene misurata da alcunecose previamente conosciute. Quindi l'ente di ragione non è semplicemente ecompletamente prodotto per l'attività conoscitiva che lo apprende, ma si fondaremotamente, o almeno remotissimamente, in qualche ente reale previamenteconosciuto, come poi spiegheremo.

Seconda parte: Indirettamente può mostrarsi di molte diverse maniere,partendo delle incoerenze interne della posizione idealista.

Partendo delle conseguenze logiche. Gli Idealisti che fondano il propriosviluppo filosofico sulla posizione del principio di immanenza: o risolvonotutte le sue conoscenze attuali in un io empirico ed individuale; o pretendono dievitare questo e risolvono tutto lo empirico in un Io trascendentale e comune.Nella prima ipotesi si riducono al Solipsismo Relativistico; nella seconda, siriducono ad incoerenze sistematiche.

La conseguenza della prima ipotesi, consta facilmente: a) si segue ilSolipsismo, perché non si può ammettere nessun soggetto conoscente che nonsia quello individuale che si trova in atto cosciente; b) Relativistico, perchénell'Idealismo, l'io empirico non è sostanza, né ha struttura trascendentale, e perla stessa ragione non può fondare nessuna conoscenza stabile.

La conseguenza della seconda ipotesi, alla quale ricorronogeneralmente gli Idealisti, si mostra in forma così.

Procede con incoerenza interna quella dottrina che proponendo che solo

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può darsi la cosa cosciente in atto, comincia e continua la sua speculazioneammettendo che esiste prima qualcosa incosciente e dopo cosciente. È cosicchétale è la dottrina Idealistica, in quanto che inizialmente si adotta lasupposizione del principio di immanenza. Quindi.

La minore. Innanzitutto bisogna notare che l'uomo che pensa, e quindil'uomo che filosofa, è l'uomo in quanto questo uomo, come già notava S.Tommaso contro gli Averroisti; o con altre parole, che l'investigazionefilosofica sorge in un momento dalla maturità riflessiva individuale di questouomo, come può confermarsi dal fatto che il dialogo filosofico si fa sempre traquesto uomo e quell'uomo. Con queste premesse, la minorenne si può mostraretanto rispetto alla filosofia in generale, come rispetto al modo come gli Idealisticominciano e continuano la loro speculazione.

1. Rispetto alla filosofia in generale. L'uomo incomincia a filosofare inquanto che pretende di arrivare a conoscere sistematicamente quell'aspettoessenziale della realtà che ancora ignora: altrimenti non farebbe nessunainvestigazione filosofica propriamente detta. Quindi necessariamente lafilosofia sorge e si sviluppa nel presupposto realistico che esista qualcosa primasconosciuta e dopo conosciuta.

2. Rispetto all'inizio. Gli Idealisti ammettono che la persuasioneprefilosofica è realistica, e dirigono la loro speculazione a correggere questapersuasione o a scoprire ed illustrare quella natura ideale della realtà che ancorasi ignora nella vita spontanea. Ma questo è procedere con la supposizionerealista, cioè è ammettere che la natura ideale della realtà esiste, primainconscia e dopo conscia.

3. Rispetto alla continuazione. Similmente, esaminando la spiegazioneIdealistica della nostra esperienza oggettiva e soggettiva:

a) Gli Idealisti ammettono generalmente che la nostra esperienzaobiettiva spontanea è dell'oggetto realistamente colto, e perciò distinguono unmomento iniziale (nel quale l'oggetto è certamente creato per lo spirito, benchéignori di crearlo), ed un momento terminale (nel quale si prende coscienzadell'attività creativa spirituale). Ma questo è procedere col supposto realista, o èammettere che l'attività spirituale creativa esiste prima incosciente e dopocosciente.

b) Gli Idealisti ammettono generalmente che la nostra esperienzasoggettiva spontanea è del soggetto individuale, e perciò distinguono unmomento iniziale (nel quale l'Io trascendentale, ancora si ignora), ed unmomento terminale (nel quale l'Io trascendentale si conosce in atto). Ma questoè procedere col supposto realista, o è ammettere che l'Io trascendentale esiste

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prima incosciente e dopo cosciente. Riassumendo brevemente l'argomento: Se fosse vero il principio

idealistico che niente esiste fuori dello cosciente in atto, dovrebbe succedereche la coscienza di conoscere qualche oggetto coinciderebbe conl'auto-coscienza di crearlo. È cosicché il conseguente è falso, come consta perl'esperienza interna. Quindi anche l'antecedente e falso, e pertantol'immanentismo radicale si deve dire in realtà impossibile.

Questa parte si può illustrare ancora con alcune altre conseguenzelogiche della posizione idealista che d'altra parte alcuni Idealisti moderni hannofatto esplicitamente sue. Posto il principio di immanenza, dedusserologicamente la professione del puro divenire o fieri conoscitivo, escludendo chesi possa ammettere una sostanza permanente, tanto da parte del soggetto comedell'oggetto, ed esigendo il processo dialettico nell'evoluzione filosofica. Ora,in quanto che escludono la sostanza permanente, la conoscenza spiegataidealisticamente, si risolve nel un puro divenire della relazione conoscitiva traun puro pensare ed un puro essere pensato, senza un soggetto che pensa néoggetto che sia pensato; e così sarebbe un puro relativo senza assoluto, cioè, ilpensare di nessuno e l'essere pensato di niente: o sarebbe una relazione senzanessun senso intelligibile. Poi, in quanto che esigono il processo dialettico nellosviluppo della filosofia, devono concepire ogni affermazione attuale comesuperamento de la precedente e così di nuovo. Quindi questo superamentodialettico o termina in qualche momento, o procede indefinitamente. Nel primocaso, arrivando questo momento supremo, cessa ogni dialettica, si riconosceche il divenire è la strada all'essere, si ammette il primato dell'essere suldivenire, e così si ritorna virtualmente al Realismo. Nel secondo caso, simantiene il divenire idealistico, rimane il primato del divenire sull'essere, matutte le affermazioni devono dirsi ugualmente in parte vere e in parte false,senza possibilità di distinguere definitivamente la parte vera della parte falsa, ecosì si ricade virtualmente nel Relativismo.

Nota 1ª. L'illegittimità del principio di immanenza. Per procedereadeguatamente nella soluzione delle difficoltà è utile spiegaremetodologicamente alcune cose.

Il primo problema critico visto da parte degli Scettici e Relativistici èstrettamente detto; dal punto di vista dei Realisti è ampiamente detto, come giàabbiamo mostrato nella tesi quinta. Poiché gli Scettici e Relativistici dubitanoinizialmente del valore di ogni conoscenza spontanea esigono perciò unadimostrazione strettamente detta della conoscenza della verità assoluta, e nontrovandola, concludono o alla negazione della verità, o ad una verità solorelativa. I Realisti contrariamente non dubitano inizialmente del valore di ogni

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conoscenza spontanea, perciò esigono solo un riconoscimento edun'argomentazione indiretta, e trovandoli finiscono nell'affermazione dellaverità assoluta.

Ugualmente bisogna dire del primo problema critico visto da parte degliIdealisti ed i Realisti. Poiché nella conoscenza pre-filosofica si dà unapersuasione realistica, i Realisti iniziano riconoscendo mediante unadichiarazione la verità del principio di trascendenza e difendendola conargomenti indiretti. Gli Idealisti ammettono che la conoscenza pre-filosofica èrealistica, e perciò non propongono il principio di immanenza mediante unamera dichiarazione della conoscenza spontanea, ma mediante unadimostrazione strettamente detta mediante la quale pretendono correggere laconcezione spontanea della conoscenza, una volta minato il suo valoremediante il dubbio.

Con queste premesse, è facile capire che gli Idealisti devono dimostrare ilprincipio di immanenza. Ma noi riportiamo che solo dimostrano presupponendoquell'accezione della conoscenza che sta in questione. Perché gli Idealistidimostrano il principio di immanenza partendo dalla presenza dell'oggetto nellaconoscenza, dalla precedenza del soggetto rispetto all'oggetto, e così via. Ècosicché dalla presenza dell'oggetto si segue certamente l'immanenzaintenzionale, ma i Realisti mettono in questione che si segua l'immanenzatotale; dalla precedenza del soggetto si segue certamente la produzione dellaspecie, ma i Realisti mettono in questione che si segua la produzionedell'oggetto. Quindi gli Idealisti che da ciò concludono l'immanenza totale o laproduzione totale dell'oggetto, presuppongono già nelle premessequell'accezione della conoscenza che sta in questione.

Della ciò si deduce anche che gli Idealisti non possono ritorcerel'argomento, riportando che anche i Realisti cominciano supponendo laconcezione realistica della conoscenza che sta in questione. Perché i Realistimettono la questione in un senso ampiamente detto, e pertanto non possonoessere arguiti di petizione di principio, perché l'Avversario non ha diritto diesigere una dimostrazione della cosa indimostrabile. Né possono gli Idealistiriprovare il metodo dei Realisti, perché i Realisti usano rispetto agli Idealistiquello stesso metodo che gli Idealisti usano rispetto agli Scettici.

Nota 2ª. La natura della conoscenza realistica. Per procedere adeguatamentenella soluzione delle difficoltà, è utile anche ricordare come la filosofiarealistica spiega la natura della stessa conoscenza, supposta la trascendenzadella conoscenza. Bisogna ricordare tre cose che appartengono alla spiegazionetomista della conoscenza, come nel suo posto spiegheremo: a) Il conoscente e ilconosciuto si distinguono nell'ordine reale, ma si identificano nell'ordine

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conoscitivo o intenzionale (“intellectum in actu est intelligens in actu”:l’intelligente in atto è lo intelletto in atto: - I, q.85 a. 2 ad 1); b) questa unioneaccade mediante la specie intelligibile, prodotta per l'attività conoscitiva delsoggetto conoscente, sotto l'influsso normativo dell'oggetto conosciuto (“exobiecto et subiecto paritur cognitio”: dell'oggetto e del soggetto nasce laconoscenza); c) la specie si comporta come ciò mediante cui o in cui si conoscela cosa, e non come ciò che si conosce. In questo senso, è proprio dellaconoscenza che trascenda intenzionalmente la stessa specie mediante la specie:in tal modo che nella conoscenza si dà un'immanenza intenzionale dell'oggettoreale.

Obiezioni. - 1. Noi solo conosciamo l'oggetto presente nella conoscenza. Ècosicché l'oggetto presente nella conoscenza è immanente alla conoscenza.Quindi noi solo conosciamo l'oggetto immanente alla conoscenza.

Risposta. - Concedo la maggiore e distinguo la minore: l'oggettopresente nella conoscenza è immanente alla conoscenza intenzionalmente, orappresentativamente, concedo; realmente, o entitativamente, nego, o chiedo laprova. Ugualmente distinguo il conseguente.

Istanza: Se l'oggetto fosse presente nell'intelletto rappresentativamente,si conoscerebbe la rappresentazione, ma non si conoscerebbe la cosa.

Risposta. Distinguo: se la rappresentazione o la specie si comportassecome ciò che si conosce, concedo; se come ciò mediante cui o in cui si conoscela cosa, nego.

Questa obiezione la propongono anche alcuni Realisti non Scolastici chepensano che la specie intelligibile degli Scolastici porta logicamente almediatismo. Ma è precisamente la specie ciò che salva dal mediatismo, come sivedrà nel suo posto; perché solo mediante la dottrina della specie può spiegarsil'unità ed irriducibilità del soggetto conoscente e dell'oggetto conosciuto.

2. Il termine della conoscenza, in quanto termine di un'azione immanente,è immanente. È cosicché il termine della conoscenza è la stessa realtàdell'oggetto. Quindi la realtà dell'oggetto è immanente.

Risposta. – Distinguo la maggiore: il termine prodotto per l'attivitàconoscitiva è immanente, concedo; il termine rappresentato per l'azioneconoscitiva è immanente, suddistinguo: è immanente soggettivamente, cioè,come perfezione del conoscente, concedo; obiettivamente, cioè, rispetto a ciòche si conosce, nego. Contradistingo la minore ed ulteriormente distinguo ilconseguente. In questo senso si può rettamente dire che nella conoscenza èimmanente lo stesso oggetto reale.

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3. Per conoscere la verità fondata nell'ente reale, bisogna conoscerel'adeguazione tra la conoscenza e la cosa. È cosicché ciò è impossibile: perchéil conoscente non può uscire dalla sua conoscenza. Quindi è impossibileconoscere la verità fondata nell'ente reale.

Risposta. Concedo la maggiore e nego la minore. Distinguo la ragioneaggiunta: il conoscente non può entitativamente o psicologicamente uscire dallasua conoscenza, concedo; intenzionalmente o rappresentativamente, nego.

La conoscenza è psicologicamente un atto immanente maintenzionalmente trascendente, perché il conoscente diviene vitalmente lostesso oggetto conosciuto. Così, nessun Realista pensa che per fare unacomparazione si richieda l'assurdo che sarebbe uscire psicologicamente da séstesso. Poiché la comparazione si fa nell'ordine conoscitivo, basta che ilconoscente diventi conoscitivamente la cosa conosciuta, e sia capace diriflettere perfettamente su la sua conoscenza.

4. Affinché un oggetto si conosca, si richiede l'attività soggettiva per laquale diventa conosciuto. È cosicché l'oggetto che prerichiede l'attivitàconoscitiva per divenire conosciuto, ha un essere che consiste nello stessoessere conosciuto. Quindi affinché qualcosa si conosca, il suo essere deveconsistere nello stesso essere conosciuto.

Risposta. Distinguo la maggiore: affinché un oggetto si conosca, sirichiede previamente un soggetto per il quale divenga conosciuto, cioè,intenzionalmente rappresentato, concedo; cioè, completamente prodotto, nego,o chiedo la prova. E contradistingo la minore.

5. La nostra conoscenza concreta non può essere passiva. È cosicché laconoscenza realista è passiva. Quindi la nostra conoscenza concreta non puòessere realista.

Risposta. Distinguo la maggiore: la conoscenza concreta non può esseredel tutto passiva, concedo; in parte attiva ed in parte passiva, nego. Econtradistingo la maggiore.

I Realisti non negano la precedenza del soggetto rispetto all'oggetto chesi deduce della stessa esperienza interna, ma dopo avere riconosciuto chel'oggetto norma e trascende la conoscenza, concludono che bisogna ammettereanche qualche precedenza dell'oggetto rispetto al soggetto: e così concludonoche dell’oggetto e del soggetto nasce la conoscenza.

6. L'oggetto della conoscenza vera non può essere simultaneamentedipendente e non dipendente della conoscenza. È cosicché l'oggetto dellaconoscenza realistica è simultaneamente dipendente e non dipendente dellaconoscenza. Quindi l'oggetto della conoscenza vera non può essere realistico.

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Risposta. Distinguo la maggiore: l'oggetto della conoscenza vera nonpuò essere simultaneamente dipendente e non dipendente della conoscenzasotto lo stesso aspetto, concedo; sotto diverso aspetto, nego. Contradistingo laminore.

L'oggetto è dipendente della conoscenza in quanto conosciuto mediantela specie prodotta per l'attività del conoscente, ed indipendente dellaconoscenza in quanto che norma l'attività conoscitiva del soggetto che producela specie. Secondo questa concezione generale, deve spiegarsi la conoscenza insenso realista.

ARTICOLO QUARTO

L'Antiintellettualismo in generale

Senso dell'articolo. - Dell'impossibilità dell'Idealismo integrale, si concludelegittimamente che la verità assoluta si fonda sull'ente reale, o sull'ente chetrascende la conoscenza mediante la quale si giudica in atto. Ora, gliAntiintellettuali moderni, non negano che possiamo cogliere la realtà che cioffre l’esperienza, negano piuttosto che sia l'intendimento chi captigenuinamente questa realtà. Perciò, per completare l'investigazione sullaconoscenza della verità, conviene esaminare di proposito se la nostra verità insenso proprio è di stampo intellettuale.

TESI X. - La natura intellettuale della nostra verità la cogliamo “exercite”,in tal modo che non ha bisogno di una dimostrazione diretta. Le filosofieche seguono tendenze Antiintellettuali evitano il relativismo soloammorbidendo il principio che professano.

Prenozioni - 1. Col nome di Antiintellettualismo abbracciamo nella tesi quelletendenze filosofiche che: a) pensando che la nostra conoscenza intellettuale,che procede mediante concetti essenziali e quindi mediante giudizi e raziocinisistematici, sia insufficiente ed invalida; b) affermano che noi cogliamo larealtà dell'esperienza per un'intuizione originaria di per sé nonconcettualizabile, o per una intenzionalità volitiva, emotiva o attiva, estraneaall'intelletto e non subordinata ad esso.

L'Antiintellettualismo non è una teoria determinata, bensì un modo tipicodi filosofare che prende diverse forme nei diversi filosofi, e sorgefrequentemente come una reazione esagerata contro l'eccessivo razionalismoidealistico, scientista, e così via.

Condividono questa tendenza Antiintellettuale: a) Il Fideismo e

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Sentimentalismo religioso; b) L’Emozionalismo empirico o sopra-empirico; c)La Filosofia della vita ed il Pragmatismo, e così via. Nei nostri giorni latendenza Antiintellettuale si osserva di modo speciale nella d) la crisibergsoniana del concetto e nelle filosofie esistenzialiste, come spiegheremodopo.

Gli Antiintellettuali, soprattutto i più recenti, reagendo contro il metodoanalitico-deduttivo del Razionalismo esagerato, respingono ogni speculazionedi ordine concettuale essenziale e sviluppano le proprie filosofie in un ordineempirico esistenziale, escludendo programmaticamente ogni mediazionefilosofica propriamente detta da ciò che è immediatamente empirico.

I Realisti Intellettuali, sono d’accordo con queste nuove filosofie nelriconoscere l'illegittimità del Razionalismo esagerato, e nell’ammettere lalegittimità di sviluppare una filosofia di tutto l'uomo, in quanto aperto allarealtà concreta e trascendentale (benché avvertano che, nei tentativi persuperare l'Idealismo, non raramente perdurano presupposti non solo empiristima anche soggettivistici). Ma affermano simultaneamente che la reazionecontro il Razionalismo delle essenze non deve portare all'Irrazionalismoesistenziale, bensì a quell’Intellettualismo moderato che procede mediante unaconsiderazione sintetica dell'ordine essenziale ed esistenziale. E cosìconcludono che bisogna considerare tutte le nostre intenzionalità ammettendoquel proprio valore complementare che hanno, o quella coordinazione concretareale che prendono in noi; ammettendo cioè la priorità della conoscenzaintellettuale sulla sensazione, l'emozione, la volizione e l'azione.

2. In questa tesi pretendiamo difendere inizialmente la legittimità delRealismo intellettuale moderato, considerando l'impossibilità radicaledell'Antiintellettualismo. Nelle tesi seguenti vedremo sistematicamentel'ulteriore spiegazione della nostra verità intellettuale.

Le filosofie moderne di stampo Antiintellettuale, nel distinguersi delloScetticismo e Relativismo, non negano che abbiamo una coscienza certa dialcune verità empiriche e di fatto nel loro sviluppo esercitano qualcheIntellettualismo.

Nella tesi affermiamo prima di tutto che la nostra coscienza certa dellaverità è in definitiva una coscienza giudiziale, mediante la quale diventiamo“exercite” certi della natura intellettuale della nostra verità. Poi, procediamoalla difesa di questa asserzione notando che l'Antiintellettualismo, presoradicalmente, si risolve logicamente nel Relativismo universale. Con talipremesse, concludiamo che i filosofi che professano tendenze Antiintellettuali,evitano il Relativismo universale nella misura che limitano il principio cheprofessano.

La prova della tesi, come nella tesi anteriore, si divide del seguente

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modo. Nella prima parte mostriamo esplicitamente che la natura intellettualedella nostra verità non può essere strettamente dimostrata, perché questa naturanoi la cogliamo “exercite” nella stessa coscienza della verità. Nella secondaparte, che l'Antiintellettualismo radicale si risolve logicamente nel Relativismo.Nella terza parte, che in realtà evita il Relativismo solo nella misura che riduceil principio che professa. Poi nel corollario concludiamo sull'ordinamentonaturale dell'uomo alla verità assoluta dell'ente reale intelligibile.

Opinioni. - L'Antiintellettualismo moderno ha connessioni con la teoriakantiana dell'incapacità del nostro intelletto per cogliere la realtà noumenale, econ le tendenze romantiche ed il volontarismo esagerato di Schopenhauer. Haelementi dell’umanesimo nietzschiano e del vitalismo diltheyano, ma dipendepiù prossimamente dell'anticoncettualismo bergsoniano e sopra tuttodell'antirazionalismo kierkegaardiano.

A metà del secolo scorso, in contrapposizione al monismo razionalisticohegeliano, che risolveva le esistenze dei singoli nella dialettica universale,Kierkegaard cominciò ad insistere nella cosa irripetibilità della nostra esistenzasingolare, esagerando l'opposizione tra l'ordine logico “inautentico” deiconcetti essenziali e l'ordine a-logico “autentico” dell'intenzionalità esistenzialevolitivo-affettiva, e sviluppando concezioni nuove e proprie sul peccato,l'angoscia, la verità soggettiva, la decisione volontaria, il salto alla fede, iparadossi della fede in Cristo ed in Dio.

Poi, all’inizio di questo secolo, in reazione contro lo scientismomeccanicista, Bergson distinse l'intellezione concettuale dell'intuizione. Iconcetti sono elaborazioni frammentarie, quantificate, stabili; non hanno valorespeculativo, bensì solo pratico, per l’uso della vita umana. L'intuizione invece èun atto di interiorizzazione semplice ed emotivo, per il quale tutto l'uomocoincide con la stessa realtà metafisica; e questa realtà si chiama impeto vitale(élan vital) e durata continua, qualitativa, sempre fluente (durée).All'intellezione ricorre l’homo faber, all'intuizione l’homo sapiens.

Sotto questo influsso le Filosofie Esistenziali moderne si svilupparonocon un certa tendenza Antiintellettuale. Benché differiscano molto tra loro,generalmente rimangono d'accordo nell’affermare l'insufficienza edinautenticità dell'ordine logico delle essenze universali e nel cercare unasoluzione al problema della vita e della filosofia per via esistenziale, spesso inun senso sopra-logico o infra-logico.

Secondo Heidegger la struttura dell'esistenza, come si manifesta neimomenti “esistenziali” può essere espressa mediante qualche generalizzazioneuniversale, ma non con categorie essenziali; lo stesso essere si manifesta di unmodo non concettuale. Secondo Jaspers l'esistenza e le sue determinazioni

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sono colte mediante una verità individuale incondizionata, non con categorieessenziali che appartengono al grado inferiore della “coscienza in quanto tale”,e hanno un valore fenomenico. Secondo Sartre, né l'ente “in sé”, né l'ente “persé” sono determinabili con concetti essenziali; le essenze che attribuiamo aglienti sono proiezioni dell'esistenza umana, e l'esistenza umana è “libertà”contingente e radicale. Marcel professa apertamente di non negare il valoredell'ordine essenziale, ma che preferisce sviluppare un'analisi filosofica fondatasull'ordine esistenziale.

La corrente esistenzialista la seguono oggi molti filosofi, e la sviluppanodiversamente sotto i vari aspetti gnoseologico, psicologico, individuale, umano,ontologico, trascendentale, etc. Per giudicare le nuove tendenzeAntiintellettuali sarà utile anche osservare il modo come considerano larivelazione ante-predicativa in relazione all'espressione concettuale eall'affermazione del giudizio, e il valore che attribuiscono ai concetti e principisupremi nei quali si fonda la metafisica, alla stima che mostrano per le proverazionali dell'esistenza di Dio, e così via.

Prova della prima parte della tesi: “La natura intellettuale della nostra veritànon può essere dimostrata strettamente, perché noi la cogliamo “exercite” nelcogliere la stessa coscienza della verità”

Per un riconoscimento dichiarativo. Dalla confutazione dell'Idealismo eRelativismo, si deduce legittimamente che noi abbiamo una coscienzaindubitabile su alcune verità, in senso realistico. Ciò si conferma proprioconsiderando quelle verità di esperienza, nelle quali coincidiamo coi filosofimoderni. Per esempio: che io esisto individualmente, che scelgo in situazionideterminate, che la mia attività ha come scopo o termine il mondo concretodegli uomini e delle cose, che cerco una vita autentica, e così via. Con talipremesse, arguiamo così:

Così come non possiamo dimostrare che conosciamo la verità, neanchepossiamo dimostrare le altre cose che necessariamente cogliamo quandoabbiamo una coscienza certa della verità. È cosicché quando abbiamo unacoscienza certa della verità cogliamo necessariamente la natura intellettualedella nostra verità. Quindi…

La minore consta per l'analisi di quella coscienza. Perché constamediante un’introspezione interna (che solo si può negare con parole) chequando siamo coscientemente certi di alcuna verità: a) siamo coscienti che ciòche cogliamo della cosa empirica, esiste realmente nella stessa cosa empirica;perché altrimenti seguiremmo incerti. E pertanto, b) Siamo coscienti diriflettere completamente, cioè che della cosa conosciuta noi ritorniamo sulnostro atto, cogliendolo proprio come conveniente o conforme alla cosa. E

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pertanto, c) Siamo coscienti che nell'esercizio dell'atto (“exercite”) noiconosciamo la natura intellettuale della nostra verità.

Questa conclusione si conferma considerando un'altra testimonianzastabile della coscienza, cioè, che noi vogliamo ciò che previamente abbiamocapito di essere appetibile, ed operiamo ciò che previamente abbiamo capitoche bisogna fare; e che, mediante un'ulteriore riflessione intellettuale,confermiamo ciò che abbiamo voluto ed operato bene, o correggiamo ciò cheabbiamo voluto ed operato male. Da tutto ciò si deduce: a) la prioritàdell'intenzionalità intellettuale sulla volizione, l’emozione e l’azione vitale; b)l'insufficienza della sola volizione, emozione o azione vitale, per una veritàgenuina.

Più particolare, possiamo argomentare così contro i filosofi cheprofessano l’Antiintellettualismo:

Nessuna teoria filosofica può svilupparsi senza l'uso intellettuale diconcetti, giudizi e raziocini. Questo fatto: a) lo manifesta la nostra coscienza; b)consta considerando le espressioni con cui i filosofi proposero le loro teorie; ec) si conferma per lo stesso modo di esprimersi dei filosofi moderni. Quindi, osi nega il valore di tutti i concetti, giudizi e raziocini, ed allora bisogna negarela stessa possibilità della filosofia; o si sostiene la possibilità della filosofia, edallora bisogna affermare il valore di alcuni concetti, giudizi e ragionamenti.

Obiezione: L'esercizio di una facoltà nel senso direttivo-pratico, non implical'accettazione del valore speculativo di quella facoltà. È cosicché gliAntiintellettauli possono usare l'intelletto in un senso direttivo-pratico. Quindigli Antiintellettuali possono usare l'intelletto senza accettare il valorespeculativo dello stesso intelletto.

Risposta: Distinguo la maggiore: non implica l’accettazione del valorespeculativo della stessa facoltà rispetto a quelle cose che non sononecessariamente connesse con la stessa azione, concedo o lascio passare;rispetto a quelle cose che sono necessariamente connesse, nego. Concedo olascio passare la minore ed ugualmente distinguo il conseguente.

Perché l'accettazione dell'uso dell'intelletto in senso direttivo pratico èl'accettazione del valore dell'intendimento rispetto a quelle cose cheappartengono alla direzione e l'azione. Quindi è un'accettazione del valoredell'intelletto in quanto manifesta lo scopo-termine e il modo di tendere a talescopo-termine. E poiché tutte queste cose si manifestano sotto la ragione diente e alla luce del principio di contraddizione, l'accettazione del valoredirettivo pratico dell'intelletto è anche l'accettazione del valore speculativodello stesso intelletto.

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Prova della seconda parte: L'Antiintellettualismo radicale si risolvelogicamente nel Relativismo universale.

Partendo della conseguenza logica. L'Antiintellettualismo, intessoradicalmente e universalmente, nega il valore di tutte le nozioni intelligibiliessenziali. È cosicché la teoria che nega il valore di tutte le nozioni intelligibiliessenziali, si risolve logicamente nel Relativismo universale. Quindil'Antiintellettualismo, radicale e universale, si risolve logicamente nelRelativismo universale.

La minore consta per il fatto che le nozioni intelligibili essenziali,innalzandosi sull'esperienza singolare, diventano così stabili e comuni. Conquesti presupposti, argomentiamo così:

La teoria che nega il valore di tutte le nozioni stabili e comuni rispettoalla realtà concreta: a) sarebbe una teoria della realtà del tutto instabile, o delpuro divenire: ed in questo senso dovrebbe risolversi nel Relativismo sottol'aspetto ontologico; b) sarebbe una teoria per sé stessa mai identica e semprediversa, cioè, non avrebbe connotati propri stabili e distintivi: ed in questosenso dovrebbe risolversi nel Relativismo sotto l'aspetto logico; c) in unaparola, sarebbe una teoria valida per questo individuo in questo momentoesistenziale, ma non sarebbe valida per gli altri momenti e gli altri individui: ecosì non avrebbe nessun valore nel vero senso, obiettivo ed assoluto.

Prova della terza parte: In realtà evita il Relativismo solo nella misura in cuiriduce il principio che professa.

Partendo delle caratteristiche dell'Intellettualismo. Dovunque si trovinoconstatazioni stabili, principi propri e conclusioni proprie, si trova anchequalche esercizio d’Intellettualismo. È cosicché nelle filosofie che professanotendenze antiintellettuali, sempre si trovano di fatto: a) alcune constatazionistabili, per esempio, quelle che si traggono della fenomenologia dell'esperienza;b) alcuni principi propri, per esempio, quelli che determinano una filosofia neisuoi motivi e connotati specifici per cui si distingue delle altre; c) alcuneconclusioni proprie, per esempio, quelle che spiegano la natura dell'uomo edirigono la sua azione concreta. Quindi nei filosofi che professano le tendenzeantiintellettuali, si trova sempre qualche esercizio d’Intellettualismo. Perciò,evitano il Relativismo universale, solo nella misura in cui di fattoammorbidiscono il principio che professano.

Corollario. - L'intelletto umano è quindi naturalmente ordinato alla veritàassoluta dell'ente reale intelligibile.

La ragione del primo asserto, cioè che l'intelletto umano si ordina allaverità assoluta, si deduce dall'impossibilità dello Scetticismo e Relativismo:

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perché se lo Scetticismo e Relativismo universali sono per noi impossibili edassurdi, la conoscenza di alcuna verità assoluta è per noi necessaria einfallibile, cioè naturale.

La ragione del secondo asserto, cioè che la verità assoluta è la veritàdell'ente reale intelligibile, si deduce ugualmente dall'impossibilitàdell'Idealismo e Antiintellettualismo radicali; perché se l'Idealismo el'Antiintellettualismo radicali sono per noi impossibili ed assurdi, alcunaconoscenza dell'ente reale intelligibile è per noi naturale.

Obiezioni. - 1. Quella realtà che suscita problemi intellettuali sempre piùdifficili ed antinomici non è intelligibile per noi. È cosicché la realtà concretadell'esperienza umana suscita per noi problemi intellettuali sempre più difficilied antinomici. Quindi non è intelligibile per noi.

Risposta. Distinguo la maggiore: non è intelligibile per noi quella realtàche suscita problemi intellettuali sempre più difficili e realmente tra loroantinomici o contraddittori, concedo; solo apparentemente antinomici econtraddittori, nego; e contradistingo la minore.

La proposizione iniziale di un problema può certamente nascere daalcune antinomie, ma cade sotto la stessa luce naturale direttiva del primoprincipio, che mostra che l'antinomia era solo apparente. Questo modomediante il quale di fatto si sviluppa sempre il nostro processo umanofilosofico, mostra la natura intelligibile della realtà di esperienza e la naturaintellettuale della filosofia umana.

2. Non si può dire razionalmente spiegabile quella realtà che èimperfetta, deficiente, colpevole, etc. È cosicché tale è la realtà dell'esperienzaumana. Quindi…

Risposta. Distinguo la maggiore: non si può dire razionalmentespiegabile come indeficiente e perfetta, concedo; come deficiente ed imperfettae così relativa alla Realtà perfetta ed indeficiente, nego. Concedo la minore eugualmente distinguo il conseguente.

3. Non possiamo arrivare all'esistenza singolare per deduzione logica. Ècosicché le filosofie razionali procedono per deduzione logica. Quindi lefilosofie razionali non possono arrivare all'esistenza singolare.

Risposta. Distinguo la maggiore: non possiamo arrivare ad affermare perprima l'esistenza singolare per deduzione logica, concedo; a spiegarlasuccessivamente, nego. Lascio passare la minore e ugualmente distinguo ilconseguente.

Lasciamo passare la minore perché gli Antiintellettuali moderni reagendo

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contro un Razionalismo esagerato, respingono globalmente ogni usosistematico della ragione; mentre al contrario deve distinguersi tra il modo diprocedere del Razionalismo esagerato e dell'Intellettualismo moderato.L'Intellettualismo moderato, supposta l'esperienza oggettiva e soggettiva,procede alla spiegazione filosofica mediante concetti e giudizi motivatinell'esperienza e oggettivi sulla stessa esperienza, come dopo spiegheremo.

4. I dati originari che si ottengono precedentemente all'eserciziodell'intelletto che concepisce e giudica, non possono dirsi intelligibili. Ècosicché le condizioni esistenziali sono dati originari che si ottengonoprecedentemente all'esercizio dell'intelletto che concepisce e giudica. Quindi lecondizioni esistenziali non possono dirsi intelligibili.

Risposta. Distinguo la maggiore: non possono dirsi intelligibili in atto,concedo o lascio passare; non possono dirsi intelligibili almeno in potenza,nego. Concedo la minore ed ugualmente distinguo il conseguente. Lasciamopassare il primo senso della maggiore, perché dopo vedremo come i dati che siottengono per l'esperienza sensibile devono dirsi intelligibili in potenza, mentrei dati che si ottengono per un'esperienza intellettuale interna, in quantospirituali, devono dirsi già secondo il loro modo proprio intelligibili in atto.

Istanza: Sull'ordine concreto dell'esperienza esistenziale non è possibileun'intellezione concettuale. Quindi neanche è possibile la sua intellezionegiudiziale.

Risposta. Distinguo: non è possibile secondo un modo comprensivo,concedo; secondo un modo adeguato e progressivo, nego. Ed ugualmentedistinguo il conseguente.

Concediamo che l'esperienza oggettiva per la quale otteniamo i datisensibili precede la formazione del concetto diretto (per la quale siamo capacidi leggere intimamente, “intus-legere”, la loro essenza) e del giudizio diretto(per il quale siamo capaci di affermare il loro essere); concediamo anche chel'esperienza soggettiva, per la quale cogliamo “exercite” i dati interni, precedela formazione del concetto riflesso e del giudizio riflesso. Ma avvertiamo, comeabbiamo già detto nelle prime tesi, che questi dati, se sono qualcosa, sono ente;e che in questo senso devono dirsi per sé stessi intelligibili nella loro essenza eper la stessa ragione giudicabili nel loro essere: non certamente in un modocomprensivo, ma sì in un modo adeguato e progressivo, come spiegheremonelle questioni seguenti.

ARTICOLO QUINTO

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Il Soggettivismo sull'esistenza del mondo sensibile

Senso dell’articolo: Il Realismo critico è la dottrina che afferma che noiconosciamo con certezza l’ente reale. Esso si distingue in Realismo in generalee Realismo riguardo al mondo sensibile; il primo afferma che noi conosciamoqualche ente reale, il secondo che noi conosciamo anche l’ente reale sensibile.Dal rifiuto negativo dello Scetticismo, Relativismo, Idealismo eAntiintellettualismo, possiamo concludere legittimamente che noi conosciamocon certezza qualche ente reale. Supposto ciò, bisogna ancora esaminareesplicitamente se conosciamo l’ente sensibile come esiste in se stesso, per poipoter procedere coerentemente la formazione del concetto universale a partiredalle cose sensibili.

TESI XI. - L'esistenza del mondo concreto sensibile, più che un postulatoesplicativo, è un fatto reale conosciuto con evidenza naturale. Le ipotesicontrarie non diminuiscono questa certezza.

Prenozioni. 1. Col nome di Soggettivismo sull'esistenza del mondo sensibilecomprendiamo tutte quelle teorie che negano in noi la possibilità di unacertezza speculativa sulla reale esistenza del mondo sensibile degli uomini edelle cose.

Questo Soggettivismo presenta due forme principali. La prima è ilFenomenismo, che dubita dell'esistenza del mondo sensibile perché pensa chenoi solo conosciamo i fenomeni che appaiono soggettivamente. L’altra forma èla dell’Idealismo Acosmista, che nega la stessa esistenza del mondo sensibile,perché pensa che l’essere dei corpi si risolve nel loro percepirli. A queste si puòaggiungere quella forma di Soggettivismo Antiintellettuale che accettal’esistenza del mondo sensibile ma con una certezza volontarista o emotiva oattiva, perché pensa che la conoscenza speculativo dell’intelletto è insufficientee invalida.

2. I Soggettivisti sul mondo, in quanto rigettano il Relativismo,l’idealismo e l’Antiintellettualismo universali sono d’accordo o possono esserlocol Realismo in ciò che riguarda l’esperienza reale soggettiva. Ma in quantoapplicano presupposti relativisti, o idealisti o antiintellettuali alla esperienzaoggettiva, a) pensano che la certezza spontanea sulla realtà del mondo sensibilenon si fonda su un'evidenza genuina; b) prendono tutti i dati dell'esperienzamondana come meri dati soggettivi; e c) affermano che partendo di dati dicoscienza soggettivi, non si può concludere con certezza sulla realtà di unmondo in se esistente.

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Il Soggettivismo sull’esistenza del mondo sensibile, si originò con untriple passo: a) prima incominciò negando la realtà oggettiva dei sensibilipropri, o delle qualità secondarie (v. gr. Locke); b) poi negò la realtà oggettivaanche dei sensibili comuni, o delle qualità primarie (v. gr.. Leibniz); c)finalmente negò la stessa esistenza reale del mondo sensibile, o almeno lacertezza speculativa su questa esistenza, come poi si spiegherà. Giacché dalla negazione della realtà delle qualità primarie si seguelogicamente la negazione delle secondarie e dalla negazione dell’esistenza realedel mondo segue logicamente la negazione delle realtà primarie, il problema delRealismo sul mondo sensibile, deve evolversi con un triplice passo: a) prima sideve esaminare se consta con certezza l’esistenza del mondo sensibile; b) poi,supposta l’esistenza del mondo sensibile, se consta con certezza la realtà dellequalità primarie; c) finalmente, supposta l’esistenza delle qualità primarie, se ecome consta con certezza la realtà delle qualità secondarie. Nella tesi presentecominciamo a fondare il Realismo sul mondo sensibile, analizzandoesplicitamente la sua esistenza.

3. Per determinare lo stato della questione è utile raccogliere ciò che giàpossiamo supporre nella presente tesi riguardo al valore e all’ordine dellenostre conoscenze.

Sul valore della conoscenza, supponiamo nella tesi: a) che il nostrointelletto si ordina naturalmente alla verità assoluta dell'ente reale intelligibile;b) che il criterio naturale dell’ente reale intelligibile è in definitiva la sua stessaevidenza oggettiva; e c) che alla luce di questa evidenza vediamo già concertezza l'esistenza reale dei nostri atti e del nostro io.

Sull'ordine della conoscenza, supponiamo già dalla manifestaintrospezione e diversità degli oggetti: a) la distinzione ovvia tra il senso el’intelletto, in quanto che spontaneamente distinguiamo l’attività chechiamiamo intellettiva (per la quale concepiamo, giudichiamo e ragioniamo) dal’attività che chiamiamo sensitiva (per la quale esperimentiamo le cosecolorate, estese, sonore, dure, etc.); b) la subordinazione ovvia dei sensiall'intelletto, quanto che siamo capaci di intendere ciò che appartiene allasensazione, ma non siamo capaci di sentire ciò che appartiene alla intellezione;e simultaneamente c) la dipendenza ovvia dell'intelletto dai sensi, in quanto chel’intelletto primariamente e direttamente viene portato alle cose sensibili e poisi eleva alle cose intelligibili con l’aiuto delle sensibili.

4. Con tali supposti, nei quali conveniamo o possiamo convenire coiSoggettivisti, affermiamo nella tesi che così come da parte del soggettoabbiamo la certezza speculativa dell'esistenza dei nostri atti e nostro io, cosìanche da parte dell'oggetto abbiamo la certezza speculativa dell'esistenza del

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mondo. Consideriamo dunque il mondo secondo le caratteristiche sensibili peril quale si dà; ma lasciamo per le tesi seguenti la determinazione esplicitadell'oggettività delle qualità primarie e secondarie.

Poiché i Soggettivisti normalmente prendono i dati dell'esperienza comemeri fatti soggettivi: a) incominciamo preparando la soluzione, notando chequesti dati, anche considerati solo soggettivamente, richiedono a modo dispiegazione più spontanea l'affermazione di qualche mondo in sé. Ma poi,considerando già oggettivamente i dati dell'esperienza, b) procediamo a dare lasoluzione, mostrando che l'esistenza del mondo sensibile è un fatto realeconosciuto con evidenza naturale. Finalmente, c) passiamo a completare ilsenso della soluzione esaminando le principali ipotesi contrarie. Di quasorgono le tre parti da provare nella tesi. Nel corollario, trattiamo della naturaconoscitiva dei sensi.

Opinioni. - Anticamente Protagora, equiparando l'intelletto ai sensi, negòl'esistenza del mondo sensibile, e inoltre partendo dal principio che “l'uomo è lamisura delle cose”, arrivò al Relativismo sulle nostre sensazioni della realtàesterna.

Berkeley, fu il primo dei moderni a proporre l'Idealismo Acosmista.Dopo Locke (che diceva che noi abbiamo un'idea oscura della sostanza, efaceva una critica speciale dell'oggettività delle qualità secondarie), Berkeley fupiù lontano, negando l'oggettività delle primaria e criticando l'idea di sostanzamateriale, concludendo che l'essere dei corpi è percepirli (“esse est percipi”)nella nostra immaginazione sotto l'influsso immediato di Dio.

Hume, partendo inoltre della critica del principio di causalità, affermòriguardo al soggetto, che in noi si da solo un fascio di percezioni, negando lacertezza critica della sostanzialità del nostro Io; mentre riguardo all'oggettoaffermò che noi solo abbiamo percezione di alcune impressioni più forti dialtre, negando così la certezza critica dell'esistenza del mondo sensibile.

Kant ammise l'esistenza della cosa in sé. E nell'Analitica dei principiadduce perfino un argomento per provare la sua esistenza. Ma della sua teoriasulla passività dei sensi nel ricevere le impressioni sensibili e sulla spontaneitàinformativa della sensibilità e dell'intelletto, concluse che noi ignoriamo ciòche la cosa in se stessa è.

Husserl trattò di proposito la conoscenza del mondo, considerandolacome un correlato oggettivo della coscienza trascendentale. Husserl pensò cheper ottenere la visione del mondo come correlato della coscienza si deveprescindere dalle persuasioni spontanee e naturaliste sull'essere della realtàmondana.

N. Hartmann cercò di mostrare la realtà in sé del mondo materiale. In

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questo tentativo, distinse gli atti trascendenti, per i quali cogliamo l'ente reale,in conoscitivi ed emozionali, e affermò che solo per gli atti emozionalidiventiamo definitivamente certi della trascendenza della realtà.

In opposizione alle diverse forme del Soggettivismo, oggi si dà unatendenza progressiva verso il Realismo, che si suole fondare su unaconsiderazione oggettiva dei dati della coscienza. Generalmente gliEsistenzialisti, riconoscono, come dato originario, la realtà del mondo che haconsistenza propria e ci resiste, con la quale siamo sempre intenzionalmenteuniti, e della quale siamo certi, come siamo certi della nostra coscienza edesistenza concreta. Ma rispetto alle altre proprietà, che normalmenteattribuiamo spontaneamente al mondo, frequentemente, professano ilrelativismo, perché le considerano come sottomesse alla nostra interpretazionesoggettiva. Gli Scolastici convennero sempre nel riconoscere e difenderel'evidenza dell'esistenza del mondo sensibile. Recentemente si è discusso sequesta evidenza si deve dire immediata o mediata, come esplicitamentevedremo nella tesi seguente.

Considerazioni previe: 1. Per preparare la prova della tesi seconda, abbiamoaccennato per via di constatazione descrittiva che il dato primo e originario peril quale si danno tutti gli altri dati è la nostra stessa coscienza, che coscienza diun io individuale e personale, che per i suoi atti tende al mondo sensibileopposto, che si comporta come il suo oggetto diretto.

2. Attendendo più in concreto a questa nostra intenzionalità diretta almondo delle cose sensibili, possiamo facilmente costatare che la nostra attivitàintellettiva dipende in tal modo dalle cose sensibili che solo può conoscere lecose insensibile con l'aiuto delle cose sensibili. Infatti, non solo: a) tutti i nostriconcetti riflessi che abbiamo sui nostri atti e sul nostro io, si formano in noi peruna conversione ad un fantasma sensibile; ma anche b) tutti i nostri concetti dioggetti non sensibili, si formano in noi ricorrendo a qualche fantasma sensibile:come appare da un analisi del modo come ad esempio concepiamo il niente, lospirito, Dio, e così via.

3. Questa dipendenza del nostro intelletto dai sensi, può spiegareulteriormente notando che abbiamo una chiara coscienza del fatto che la nostraconoscenza intellettiva si origina dall'esperienza sensibile, in tal modo che,quando manca in noi ogni conoscenza sensibile, manca anche in noi ogniconoscenza intellettiva; come appare dal fatto che, sospendendo ognisensibilità, si sospende anche ogni esercizio dell’intelletto.

4. Da queste constatazioni e deduzioni simili, concluderemoesplicitamente più avanti che l'oggetto formale adeguato del nostro intelletto èl'ente in tutta la sua ampiezza, e che l'oggetto formale proprio e diretto del

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nostro intelletto, nello stato presente di unione dell'anima col corpo, è laquiddità dell'ente sensibile. Noi adesso ricordiamo questa conclusione, permettere in luce che la questione presente sull'esistenza reale del mondosensibile non è diversa della stessa questione sull'esistenza dell'oggetto proprioe diretto del nostro intelletto.

Prova della prima parte della tesi. - La realtà del mondo sensibile si offrecome un postulato spontaneo esplicativo dei dati dell'esperienza.

Per un'analisi dei dati della coscienza soggettivamente considerati.Infatti, anche se dovuto a pregiudizi soggettivistici, tutti i dati della coscienzaobiettiva si prendessero come meri fatti soggettivi, nessuno potrebbe negareche tra questi fatti soggettivi, si devono anche enumerare, per esempio, il sensodi passività che frequentemente sperimentiamo nell'esercizio della nostrasensibilità; la subordinazione delle nostre attività ad alcune condizioni giàconosciute come adatte per ottenere qualche fine; il frequente raggiungimentodel fine preteso, ed la frequente verificazione delle nostre aspettative; e quindila coerenza della nostra vita pratica con la così detta immagine del mondo, danoi formata e stabilmente ritenuta, e così via.

Orbene, questo senso di passività si spiega facilmente e spontaneamentesupponendo che esiste alcuna cosa in sé che in qualche modo agisce sullanostra sensibilità; la subordinazione alle condizioni, la pretesa del fine e laverifica delle aspettative, si spiegano facilmente e spontaneamente, supponendoche la cosa in sé possiede già un certo ordine; e con maggiore ragione lacoerenza della vita pratica con l'immagine del mondo, si spiega facilmente espontaneamente, supponendo che la cosa in sé è fondamentalmente stabile.

Quindi, benché tutti i dati dell'esperienza si prendano come meri fattisoggettivi, bisogna sempre dire che questi fatti soggettivi si spieganofacilmente e spontaneamente, supponendo alcuna cosa in sé fondamentalmentestabile; e che in questo senso, la realtà del mondo sensibile si offre come unpostulato spontaneo esplicativo dei dati dell'esperienza.

Obiezione: La sola considerazione dei dati della coscienza, soggettivamenteconsiderati, non basta per l'affermazione filosofica del mondo come esistente insé.

Risposta. Distinguo: non basta per una definizione filosofico apoditticadel mondo come esistente in sé, concedo; non basta per preparareun'affermazione filosofica, ed anche per confermare un'affermazione filosoficagià fatta, nego. Perché per l'affermazione filosofica del mondo come esistentein sé, bisogna considerare i dati, indipendentemente di qualunque pregiudizio,cioè come essi si offrono, come adesso spiegheremo nel seguente argomento.

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Seconda parte. - Il mondo concreto sensibile si deve dire un fatto reale,conosciuto con evidenza naturale.

Per un'analisi dei dati della coscienza obiettivamente considerati.Innanzitutto conviene distinguere tra quelle rappresentazioni sensibili chesecondo la testimonianza della coscienza dipendono in un certo modo da noi, equei dati sensibili che non dipendono da noi, ma che ci si impongono.Considerando questi dati così come si offrono, procediamo così:

Ciò che si offre a noi con un'evidenza genuina come esistente in sé, e inquanto esistente in sé misurando la nostra attività speculativa e pratica, si devedire un fatto reale, conosciuto con evidenza naturale. È cosicché il mondoconcreto sensibile, ci viene offerto mediante una evidenza genuina comeesistente in sé, e in quanto esistente in sé, come misurante in atto la nostraattività speculativa e pratica. Quindi, il mondo concreto sensibile si deve direun fatto reale conosciuto con evidenza naturale.

La minore si mostra sistematicamente mediante un'analisi dichiarativa, emediante una difesa ulteriore per via di riduzione all'assurdo:

1. Mediante un riconoscimento dichiarativo. Perché sottomettendo allanostra analisi l’esperienza oggettiva, è necessario riconoscere che il mondoconcreto degli uomini e delle cose, si offre solo mediante un'esperienzasensibile e che in questa esperienza sensibile si offre con evidenza: a) come inatto opposto a noi, cioè, non si offre mai come uno stato soggettivo, ma semprecome un termine oggettivo della nostra intenzionalità; e in quanto termineoggettivo, come consistente in sé stesso con un ordine stabile, cioè, esattamentedeterminabile secondo le sue leggi astronomiche, fisiche, chimiche, biologiche,sociali, e così via; e in quanto fondato in sé stesso con un ordine stabile,frequentemente ci resiste non solo moralmente, ma anche naturalmente, cioècome esistente in sé, e precisamente in quanto esistente in sé: b) non solo comeprogressivamente intelligibile per noi, o sempre meglio conoscibile sotto alcuniaspetti prima sconosciuti, ma anche come determinatamente appetibile sottodiversi fini, ed in parte operabile, o come imponendosi per sé stesso sulle nostreelezioni e limitando le nostre azioni su di esso: cioè, come qualcosa che misurain atto la nostra attività tanto speculativa come pratica.

L'autenticità di quest’evidenza con la quale stabilmente ci si offre ilmondo degli uomini e delle cose, può essere ulteriormente mostrata:

2. Mediante una riduzione all'assurdo. Perché è impossibile chel'evidenza stabile con la quale il nostro intelletto giudica sulla realtà del mondosensibile non sia genuina. Perché l'intelletto è una facoltà conoscitivanaturalmente ordinata alla verità dell'ente reale intelligibile, il suo criterionaturale è la stessa evidenza dell'oggetto, ed il suo oggetto proprio e diretto èl'ente in quanto intelligibile nelle cose sensibili. Ora, se il nostro intelletto

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sbagliasse nell'evidenza stabile per la quale giudica della reale esistenza delmondo sensibile, l'errore bisognerebbe imputarlo alla stessa naturadell'intelletto (proprio in quanto stabilmente giudicante sul suo stesso oggettoproprio e diretto), e quindi l'intelletto dovrebbe dirsi fallibile per la sua stessanatura, il che è impossibile.

Obiezione: Le tendenze spontanee devono essere giudicate e corrette peruna riflessione filosofica.

Risposta. Distinguo: le tendenze spontanee devono essere giudicate peruna riflessione filosofica, concedo; devono essere corrette, suddistinguo: inquanto che deviano dalla propria tendenza naturale, concedo; in quanto cheseguono la propria tendenza naturale, nego. Perché appartiene alla riflessionefilosofica riconoscere la tendenza naturale delle nostre facoltà conoscitive ecorreggere le tendenze spontanee riconducendole alla tendenza naturale. Sel'intelletto dovesse correggere la sua tendenza naturale per una riflessionefilosofica, dovrebbe correggere ciò stesso mediate cui corregge, il che èimpossibile.

Gli argomenti anteriori possono confermarsi con molte considerazioni,per esempio, per l'assurdità del Solipsismo: perché tutta la nostra vita umana sifonda sulla comunicazione con gli altri uomini, in quanto che esercitano la loropropria conoscenza, volontà ed attività individuali, e così via. La stessacomunicazione o dialogo filosofico solo si può dare, in questa supposizione.Ora, noi comunichiamo con gli altri uomini solo mediante una esperienzasensibile. Perciò, negata l'oggettività di ogni esperienza sensibile, bisognerebbenegare anche ogni certezza speculativa sull'esistenza degli altri uomini; e datoche noi solo abbiamo coscienza del nostro soggetto individuale, bisognerebbeprofessare la Solipsismo radicale. Ma il Solipsista svuota di senso l'eserciziodella sua vita, tutta la comunicazione umana e filosofica, ed in questo senso lasua stessa comunicazione.

Terza parte. - Le ipotesi contrarie, non diminuiscono la certezza sull'esistenzadel mondo sensibile concreto.

Dopo la presentazione esplicita dell'evidenza naturale per la qualegiudichiamo della reale esistenza del mondo sensibile, possiamo procedere aduna rimozione sistematica delle ipotesi contrarie più importanti.

1. L'ipotesi del genio maligno. Abbiamo gia osservato che nella stessaipotesi del genio maligno, sempre resta vero che se sbagliamo, pensiamo, e sepensiamo, siamo, e se pensiamo qualcosa, pensiamo l’ente; da ciò avevamoconcluso che l'ipotesi del genio maligno non serve per debilitare la certezzanaturale sulla realtà dell'ente (cf. tesi VII, obiezione 4).

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Da questa osservazione possiamo concludere ulteriormente che il geniomaligno non può cambiare la natura conoscitiva del nostro intelletto. Quindipuò influire su qualche nostra conoscenza particolare e non naturale, ma nonsulla conoscenza naturale in quanto è naturale; e a maggior ragione non puòinfluire sulla conoscenza naturale dello stesso oggetto proprio del nostrointelletto.

2. L'ipotesi dell'influsso divino. Dio influisce sulle azioni delle creaturesecondo la natura delle stesse cose da Lui create, e quindi influisce sul nostrointelletto affinché questo giudichi secondo la sua natura visiva sulla realtà delsuo oggetto. Quindi ripugna in Dio che sotto il suo influsso il nostro intellettoveda con evidenza che esiste ciò che non esiste; e a maggior ragione ripugnache sotto suo influsso il nostro intelletto si sbagli nell'evidenza naturale con laquale giudica dell'esistenza del suo oggetto proprio.

3. L'ipotesi dell'attività conoscitiva. Secondo questa ipotesi il soggettoconoscente mediante la sua attività produrrebbe per sé come oggettivamentereale quello stesso mondo degli uomini e delle cose che non è reale.Apertamente si esclude l'ipotesi di un'attività cosciente, perché noi nonabbiamo nessuna coscienza di questa attività. Ma bisogna escludere anchel'ipotesi di un'attività incosciente, perché addurrebbe per concludere che ilnostro intelletto rispetto all'esistenza del suo oggetto proprio, sarebbe incontinuità simultaneamente e sotto lo stesso aspetto visivo e non visivo, il che èimpossibile.

Corollario. – Quindi noi cogliamo naturalmente che appartiene alla natura delnostro dispositivo sensitivo conformarsi, secondo il suo proprio modo, alle cosesensibili.

Ragione del primo asserto. Si deduce da quanto abbiamo detto sullariflessione completa mediante la quale noi cogliamo "exercite" che è dellanatura del nostro intelletto il conformarsi alle cose. Applicando questa dottrinaal giudizio naturale che abbiamo sulla realtà della cosa sensibile, si deve direche noi cogliamo nello stesso esercizio dell'atto (exercite), per riflessionecompleta, che appartiene alla natura del nostro intelletto conformarsi alle cosesensibili; e quindi che simultaneamente cogliamo che appartiene alla natura delnostro dispositivo sensitivo conformarsi alle cose sensibili.

Ragione del secondo asserto. Che i sensi si conformino alle cosesensibili secondo il loro modo proprio, si manifesta considerando la naturadella sensazione e la fallibilità della natura sensitiva. Infatti: a) il senso ricevele cose estese colorate, dure, mobili, e così via, ma solo l'intelletto penetral'essenza della cosa sensibile, e propriamente giudica del loro essere; inoltre, b)il senso è una facoltà organica ed imperfetta, e quindi viene più facilmente

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perturbata, e si abbatte, dando così l'occasione all'intelletto affinché questosbagli sui particolari, come vedremo dopo.

Qui è utile menzionare brevemente, come mediante la riflessionecompleta la conoscenza intellettuale si continua fino ai fantasmi, e per ifantasmi fino alle sensazioni e le cose stesse. “I fantasmi sono per il nostrointelletto come le cose sensibili per il nostro senso..., quindi, come la specie,che si trova nel senso, si astrae [cioè, si prende] delle stesse cose, e mediantequesta la conoscenza dei sensi si prolunga fino alle stesse cose sensibili, così ilnostro intelletto astrae la specie dai fantasmi, e per essa la sua conoscenza siprolunga in qualche modo fino ai fantasmi... Ma la somiglianza che si trovanell'intelletto non si astrae dal fantasma come da un oggetto conoscibile, bensìcome da un mezzo di conoscenza... Quindi il nostro intelletto... non è portato aconoscere i fantasmi, bensì a conoscere la cosa della quale è il fantasma” (DeVerit, q.2, a.6).

Obiezioni. - 1. Se il giudizio stabile sull'esistenza del mondo si fondasull'evidenza naturale, non sbaglieremo mai quando giudichiamo su esso. Ècosicché sbagliamo. Quindi…

Risposta. Distinguo la maggiore: non sbaglieremo mai quandogiudichiamo sull'esistenza dello stesso mondo, concedo; quando giudichiamosulle cose di questo mondo, suddistinguo: non sbaglieremo mai per sé,concedo; non sbaglieremo mai per incidente, nego. E contradistingo la minore.

Così come noi conosciamo naturalmente la verità dell'ente in generale,mentre sbagliamo per incidente sulla verità degli enti particolari, a maggiorragione conosciamo naturalmente la verità del mondo sensibile, e sbagliamoper incidente sulla verità degli enti particolari che fanno parte del mondo:perché la conoscenza sensitiva particolare viene perturbata o bloccata piùfacilmente, e perciò, l'intelletto sbaglia più facilmente giudicando i particolari.

2. Molte constatazioni ci mostrano che l'oggetto sensibile è relativo allenostre condizioni fisiologiche e psicologiche. È cosicché l'oggetto relativo allenostre condizioni fisiologiche e psicologiche è conosciuto comesoggettivamente appare. Quindi…

Risposta. Distinguo la maggiore: ci mostrano che l'oggetto sensibile èrelativo alle nostre condizioni fisiologiche e psicologiche o rispetto al modocome sentiamo, concedo; rispetto a ciò che sentiamo, suddistinguo: qualchevolta e per accidente, cioè in casi anormali o non ordinari, concedo; sempre eper sé, cioè, in casi normali ed ordinari, nego. Contradistingo la minore eulteriormente distinguo il conseguente.

3. Nel sonno percepiamo molte determinazioni sensibili simili alle

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determinazioni percepite nella veglia. È cosicché si concede che ledeterminazioni sensibili percepite nel sonno non si trovano da parte della cosa.Quindi ugualmente deve concedersi che anche le determinazioni sensibilipercepite nella veglia non si trovano da parte della cosa.

Risposta. Distinguo la maggiore: nel sonno percepiamo moltedeterminazioni sensibili simili alle determinazioni percepite nella veglia, senzala stessa chiarezza di coscienza e certezza che abbiamo nella veglia, concedo;con la stessa chiarezza di coscienza e certezza che abbiamo nella veglia, nego.Concedo o lascio passare la minore e nego la parità.

Per spiegare la risposta bisogna notare: a) Nello stato di veglia abbiamola coscienza chiara che i nostri sensi sono impressionati per l'oggetto reale, eche abbiamo un uso spedito del nostro intelletto, la nostra libertà e la nostraresponsabilità. b) Nei momenti precedenti al sonno abbiamo la coscienza di unaprogressiva diminuzione dell'uso spedito dell'intelletto, della libertà, eresponsabilità; nei momenti che seguono al sonno abbiamo la coscienza di unaprogressiva liberazione dei nostri sensi interni ed esterni, e di una progressivaacquisizione dell'uso spedito dell'intelletto, la libertà e la responsabilità. c)Nell'esperienza degli altri uomini, che abbiamo nel tempo di veglia, capiamoche a quelli che incominciano a dormire, ed che incominciano a svegliarlisuccedono le stesse cose che succedono a noi, e inoltre capiamo anche che nelsonno profondo non usano i sensi esterni né hanno un esercizio speditodell'intelletto, la libertà e la responsabilità, né in realtà si trovano nellesituazioni che dicono aver sognato; inoltre, delle testimonianze che essi cidanno nel tempo di veglia deduciamo che le stesse cose che succedono ad essiquando dormono, succedono anche a noi. d) Da tutte queste cose riconosciamolegittimamente che nello stato di sonno non abbiamo quella certezza motivatanell'evidenza obiettiva che abbiamo nello stato di veglia. e) Questa certezzapuò confermarsi notando l'incoerente confusione dei sonni e la coerentechiarezza della veglia; e può difendersi notando che i filosofi solo consideranocome speculativamente valide le considerazioni che fanno durante la veglia, eche precisamente in questa supposizione suscitano il problema sugli stessisonni. Lasciamo passare la minore perché nei sonni usiamo le specie dellaveglia, di tale modo che dobbiamo dire che alcuni determinazioni sognate, inragione della struttura oggettiva dei nostri sensi interni, in realtà si trovanoanche da parte della cosa.

4. Tra il conoscente e la cosa conosciuta deve darsi identità. Quindi: obisogna identificare lo spirito con la materia, o bisogna identificare la materiacon lo spirito. La prima cosa non si può dire perché sarebbe l'annientamentodella conoscenza. Quindi la seconda.

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Risposta. Distinguo l'antecedente: deve darsi identità nell'ordineconoscitivo, concedo; nell'ordine reale, nego. Conseguentemente aggiungo unterzo alla maggiore alternativa: o il conoscente nell'atto del conoscente è loconosciuto nell'atto dello conosciuto, mediante la specie intelligibile della cosa.Infatti, “l’intelligibile è la stessa perfezione dell'intelletto: perciò l'intelletto inatto e l’intelligibile in atto sono uno” (Contra Gent, II c. 5).

5. Le cose che sono eterogenee non possono assimilarsi nellaconoscenza. È cosicché la materia è eterogenea rispetto allo spirito. Quindi nonpuò assimilarsi allo spirito nella conoscenza.

Risposta. Distinguo la maggiore: le cose che sono del tutto eterogenee,concedo; in parte, suddistinguo: non possono assimilarsi nell'ordine reale,concedo; nell'ordine intenzionale, nego. Contradistingo la minore, eulteriormente distinguo il conseguente.

Istanza: La materia che non è prodotta per lo spirito è del tuttoeterogenea rispetto allo spirito.

Risposta. Distinguo l'asserzione: la materia che non è prodotta pernessun spirito, concedo, ma nego l'ipotesi; quella che non è prodotta per lospirito umano, ma è prodotta per lo Spirito divino, nego.

Come spiegazione della risposta possiamo aggiungere ciò che segue. Lamateria, o in questo caso la cosa materiale mondana, se è qualcosa, è ente; edanche lo spirito, o nel nostro caso l'intelletto che conosce, se è qualcosa, è ente.Quindi la materia e lo spirito non sono del tutto eterogenei, ma convengononella ragione analoga di ente.

Con queste premesse per rispondere alla difficoltà aggiungiamo inoltre,come mostreremo più avanti, che la materia e lo spirito precisamente perchésecondo il loro modo convengono nella ragione analoga di ente, devono dirsipartecipazioni dell'Ente Primo, cioè di Dio che ordina il nostro intellettoaffinché intenda le cose sensibili, e le cose sensibili, affinché siano intese dalnostro intelletto. In questo senso, si spiega in definitiva come il nostro intellettopuò, mediante la specie, assomigliarsi alle cose, cioè, identificarsi con le cosenell'ordine intenzionale.

6. Consta per esperienza mediante l'intenzionalità alogica, volontarista,emozionale, attiva, aderiamo con maggiore certezza all'oggetto reale. Quindimediante l'intenzionalità alogica possiamo aderirci con maggiore certezza almondo nella sua totalità.

Risposta. Distinguo l'antecedente: aderiamo con maggiore fermezzaall'oggetto reale sconosciuto, nego; al conosciuto, suddistinguo: in quanto che

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l'intenzionalità alogica ci dispone ad una conoscenza più certa ed evidente,concedo; in quanto che elargire una conoscenza più certa ed evidente, nego. Edugualmente distinguo il conseguente.

ARTICOLO SESTO

Il Realismo mediato

Senso dell'articolo. - Il Realismo sull'esistenza della realtà sensibile, sidistingue in spontaneo o critico, secondo che doni solo una persuasionenaturale sull'esistenza del mondo sensibile (valida per rimuovere indirettamentele difficoltà), o anche riflessa e sistematica (valida anche per rimuoveredirettamente le difficoltà). I filosofi Realistici moderni disputano se Il RealismoCritico afferma l'esistenza dell'ente sensibile mediatamente o immediatamente;distinguendosi così, in Realisti Mediati o Immediati.

La questione critica tra i Realisti mediati ed immediati versaprincipalmente sulla realtà sensibile, che senza dubbio sta all’origine dellanostra conoscenza intellettiva, ed alla quale si orienta direttamente la nostraintenzionalità. Per completare la dottrina della tesi precedente, conviene trattaredi proposito se l'evidenza genuina che abbiamo dell'esistenza del mondosensibile è mediata o immediata, e quindi, se il Realismo mediato è idoneo perstabilire criticamente l'esistenza del mondo sensibile.

TESI XII. - Il giudizio costante dell'uomo sull'esistenza della realtàsensibile è, nel suo senso fondamentale, immediato. Gli argomenti delRealismo Mediato possono impiegarsi a modo di preparazione previa o diconferma susseguente. Prenozioni. - 1. Il Realismo Mediato è la teoria critica della conoscenza cheafferma che noi conosciamo: a) immediatamente, solo l'idea o rappresentazioneinterna, b) e mediatamente, cioè, per una dimostrazione strettamente detta l'entereale sensibile corrispondente all'idea o alla rappresentazione.

Appartiene alla coerenza del Realismo Mediato: a) considerare la speciecome ciò che ("id quod”) conosciamo; b) suscitare il problema come unproblema strettamente detto; c) offrire la soluzione per mezzo del principio dicausalità a modo di dimostrazione strettamente detta.

Il Realismo Mediato è puramente metodico, se nel dare la soluzione usaun processo mediato, ma ritiene che la conoscenza dell'ente sensibile è nellasua spontaneità immediata; è definitivo se usa un processo mediato e ritieneanche che la conoscenza dell'ente sensibile è nella sua spontaneità mediato.

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Le principali ragioni che adduce il Realismo Mediato sono: a) la facileconstatazione in noi dell'esistenza di alcuna rappresentazione interna; b)l'esistenza di alcune rappresentazioni sensibili non oggettive, tanto nel sonnocome fuori del sonno; c) la distinzione o separabilità che esiste nell'ordinespaziale e temporale tra il soggetto conoscente e la realtà conosciuta; d) lamaterialità e instabilità della realtà dell'esperienza in opposizioneall'immaterialità e stabilità delle idee del conoscente. Partendo da queste esimile ragioni i Realisti Mediati stabiliscono il principio generale che “solopossiamo conoscere immediatamente ciò che per sé stesso è presente alsoggetto conoscente”. Quindi passa a suscitare il problema del “ponte”, o delragionamento strettamente detto mediante il quale si fa il transito del conoscereall'essere.

2. Il Realismo Immediato, è la teoria critica della conoscenza che: a)afferma che la conoscenza della realtà sensibile è naturalmente immediata; b)procede affermando la sua esistenza senza un ragionamento propriamente detto.

Appartiene alla coerenza del Realismo Immediato: a) considerare laspecie come ciò per cui (“id quo”) o ciò in cui (“in quo”) si conosce l'ente reale;b) suscitare il problema come un problema ampiamente detto; c) offrire lasoluzione per mezzo di un riconoscimento dichiarativo e di una difesa indiretta.

Il Realismo Immediato si chiama Esagerato, se afferma che l'ente realesensibile è immediatamente manifesto al soggetto che conosce, senza nessunaspecie vicaria dell'oggetto; si chiama Moderato se afferma che l'ente realesensibile è immediatamente presente al soggetto che conosce mediante lespecie vicarie dell'oggetto. Di questo Realismo Moderato trattiamo nella tesi.

3. Ammettiamo che i dati ricevuti nella sensibilità esterna sono unificati,rappresentati e coordinati nella sensibilità interna, anche sotto l'influssodell'intelletto che concepisce e compara, giudica, induce e deduce.

Ciò presupposto ed ammesso, ci domandiamo nella presente tesi sel'evidenza che abbiamo dell'esistenza delle cose sensibili è immediata omediata; e rispondiamo che nel suo senso originario e fondamentale questaevidenza è immediata. Rispetto agli argomenti del Realismo mediato,pensiamo: a) che da soli non offrono una dimostrazione apodittica rigorosa; b)benché possano usarsi utilmente, tanto per preparare l'affermazione filosoficadella realtà del mondo sensibile, come per confermare l'affermazione una voltafatta.

Dividiamo la prova della tesi in due parti: nella prima mostriamo che noioriginariamente e immediatamente giudichiamo sull'esistenza della realtàsensibile; nella seconda consideriamo l'utilità degli argomenti del Realismomediato.

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Nota I. Il Realismo Immediato è la dottrina propria della filosofiaaristotelico-scolastica. Comunemente gli Scolastici distinguono le enunciazioniper se stesse conosciute dalle enunciazioni conosciute per un altro, cioè per unmedio. Le enunciazioni per se stesse conoscente si distinguono in: per se stesse

conosciute a partire dai termini, (per esempio: è per sé conosciuto che il tutto èmaggiore che le sue parti); per se stesse conosciute a partire dall'esperienza

interna (per esempio: è per sé conosciuto che la verità esiste); e per se stesse

conosciute a partire dall'esperienza sensibile (per esempio: è per sé conosciutoche la natura esiste). E comunemente affermano che le cose per se stesseconosciute sono indimostrabili, e che il tentativo di dimostrare una cosaindimostrabile solo può essere illusorio, perché è impossibile mediare ciò che ènecessariamente immediato, come abbiamo visto nello scoglio alla fine delcapitolo I, n. 4.

Nota II. Il Realismo Immediato è anche la dottrina più comune tra gliscolastica moderni. Il Realismo Immediato si illustra soprattutto quando siparla dell'astrazione immediata dei concetti a partire dalle cose sensibili, e dellaformazione immediata dei principi per sé conosciuti a partire dall'esempiosensibile. Non mancano comunque trattati più ampi che consideranoesplicitamente i problemi critici. Si veda, per esempio, G. Mattiusi, Fisica

razionale, parte II: “In verità quel ponte non può trovarsi perché non esiste, enon esiste perché non abbiamo nell'ordine della cognizione due rive tra le qualiesso possa slanciarsi. Le due rive sarebbero la sensazione soggettiva e la realtàoggettiva. Ma la sensazione già include l'oggetto che le conviene, cioè comeappreso o rappresentato: se l'oggetto non fosse inchiuso così, non ne sapremmonulla mai, e sarebbe assurdo il paragone che pur si dice di voler istituire... Inquanto è contenuto nella sensazione [l'oggetto] già si trova sulla stessa riva enon sulla opposta” (p. 147); J. Maritain, Les degrés du savoir, c. III, Choses etobjet: “La tragedia della noetica moderna cominciò quando gli scolastici delladecadenza, con Cartesio al seguito, separarono l'oggetto dalla cosa. Da allora lacosa, nascosta dietro l'oggetto, diventa un doppio problematico" (p. 177); L.Noel, Le Réalisme immédiat, Inmédiatisme ontologique et inmédiatismecritique: “Non solamente il ponte è fragile, è inesistente... Il principio dicausalità non cambierà niente: ad un chiodo dipinto in una parete solo si puòappendere una catena ugualmente dipinta nella parete... La credenza ol'affermazione dogmatica lo cambierà meno ancora: lo sforzo interno non puòfarci uscire dai limiti della nostra prigione. Ma siamo in una prigione? Ci siamoabituati male a parlare di conoscenza e di cose in termini di spazio. Abbiamodimenticato che la conoscenza è immateriale e che, pertanto, non ha spazio”

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(pp. 159-160); F. Van Steenberghen, Epistémologié: “Il Realismo indiretto cheinizia con Cartesio, e che oggi professano ancora alcuni filosofi neoescolasti,solo è più una forma larvata di idealismo. Riscalda il pregiudizio dellacoscienza murata, dissociando l'oggetto (trascendente) dalla suarappresentazione (immanente), unico termine immediato della percezione” (p.235); F. Olgiati, I fondamenti della metafisica classica: “L'idealismoberkeleyano, in fondo, aveva ragione di deridere tutti i tentativi di costruirequesto famosissimo ponte; ed è per l'impossibilità dell'impresa che l'idealismotrascendentale pensò bene di ridurre il reale a puro oggetto pensato... Lafenomenizzazione del reale e la conseguente idealizzazione di esso furono nongià la conclusione di un esame diretto dell'atto di conoscere, ma uno svolgersi -da questa premessa – delle inevitabili conseguenze” (p. 202); C. Giacon, Le

grandi tesi del tomismo, Como 1945: “La filosofia scolastica e S. Tommasofurono indotti allo studio delle condizioni di possibilità di detta cognizione [=immediata] dalla dottrina aristotelica dell'intelletto agente. Tutta questa dottrinae indirizzata a far intendere in che modo si giustifica il realismo immediato” (p.93); V. Miano, Critica del Realismo mediato": “Un conoscere nonimmediatamente aperto sul reale (che è in ultima analisi l'esistente singolareconcreto) non merita più il nome di conoscere... e da una coscienzainizialmente chiusa in sé stessa, finisce per risultare impossibile ogni tentativodi evasione” (Salesianum, 13 (1951) p. 231); L. Bogliolo, Saggio sulla

metafisica del conoscere: “Ogni facoltà conoscitiva rispetto al suo oggettoproprio e naturale ha rapporto di immediatezza intuitiva... Dire che unaconoscenza è naturale, e negare che sia intuitiva, è lo stesso che negare lafacoltà stessa” (Ibid. 18 (1955) pp. 39-40); R. López di Munain,(Salmanticensis (2) 1955): “La riflessione filosofica e l'esperienza storicahanno mostrato di comune accordo che una volta rotti i lacci del contattoimmediato con la realtà esterna, tutti gli sforzi che si facciano partendodall'esperienza interna sono risultati, e per forza devono risultare, inutili” (p.139); R. Verneaux, Epistémologie générale: “Il principio di causalità, applicatoad uno stato di coscienza passivo, come è la sensazione, non permetterà dedurrel'esistenza di una cosa in sé? No; esso conduce solo ad una cosa pensata, comecausa della sensazione. Siamo nell'immanenza e rimaniamo in essa, soprattutto,aggiungeremmo noi, quando il sentimento di passività può spiegarsi bene,come lo sosteneva Fichte, con l'incoscienza dello spirito sulla sua propriaattività: l'oggetto sembra dato, quando è solo posto. Il realismo, o è immediato,o non esiste” (p. 65).

Opinioni. - Si oppongono direttamente alla tesi quelli che pensaronoespressamente ad un mezzo propriamente detto per arrivare alla cosa esterna.

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Cartesio, alla fine del suo dubbio metodico, arrivò da un Cogito chiuso, poisuscitò la questione del ponte, e si avviò alla soluzione poggiando sul principiodella veracità divina. Spesso, molti Realisti Moderni, aderiscono al RealismoMediato, come per esempio Külpe, Orestano.

Mercier propose, nella sua Criteriologia, un Realismo mediato solometodico. Infatti, una volta ammesso il dubbio metodico universale negativo,prima procede a mostrare la certezza immediata di alcune verità ideali; dopo,adoperando il principio di causalità, legittimato solo nell'ordine ideale,conclude che i concetti delle cose sensibili sono oggettivi applicati alla cosa insé, argomentando soprattutto a partire dalla passività della nostra sensibilità.Ma Mercier ammette anche esplicitamente l'intuizione sensibile diretta dellecose, e l'astrazione immediata del concetto universale.

Zamboni, propose un Realismo Mediato definitivo. Nell'esperienzasensitiva sono immediatamente presenti al soggetto conoscente le qualitàsensibili spaziali, la cui realtà si concepisce come a-soggettiva (esserci) ma nonancora come ontologica (essere). Quindi nessuna conoscenza dell'esistenza deicorpi esterni è immediata. Nell'esperienza intellettuale soggettivaimmediatamente autotraspare la stessa realtà una ed ontologica del soggettoconoscente, agente e così via. La nostra elaborazione logico verbale procede inprimo luogo alla quiddità e l'esistenza del soggetto che conosce; e dopo, allaluce del principio di causalità e per analogia con la realtà interna, alla quidditàed esistenza dei corpi esterni.

Tra gli Scolastici Moderni, De Vries sostiene che l'essere reale degli entisensibili non è immediatamente evidente, e procede alla loro affermazionecritica con la luce del principio di causalità e di ragione sufficiente; Veuthey,partendo dell'esperienza della verità assoluta, procede all'esistenza di Dio che,essendone la fonte di ogni realtà e conoscenza, fa intelligibile e legittima laproporzione del nostro intelletto con la cosa esterna; Ancel, benché escluda ilprocesso per ragionamento strettamente detto, si inclina alla spiegazionemediata come la più probabile.

Oltre agli autori già citati, aderiscono al Realismo Immediato, nei lorotrattati latini, Geny, Naber, Boyer, D'Avila, Salcedo, Alejandro, Miano, e moltialtri.

Prova della prima parte della tesi. - Noi giudichiamo originariamente eimmediatamente sull'esistenza della realtà sensibile.

1. Per un'analisi del giudizio di esperienza. Se sottomettiamo a un analisii nostri giudizi di esperienza, coi quali giudichiamo con evidenza sull'esistenzadi alcuna cosa sensibile, è necessario riconoscere che: a) abbiamo la coscienza“exercita” del fatto che la nostra conoscenza corrisponde alla cosa, ma non

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abbiamo nessuna coscienza del fatto che la nostra conoscenza finisca nellarappresentazione interna, e del fatto che da essa proceda adoperando unragionamento fino alla cosa esterna; b) abbiamo, piuttosto, la chiara coscienzadell'evidenza della cosa esterna come esistente in sé e della natura della nostraconoscenza come proporzionata alla cosa stessa. Orbene, se i nostri giudizi diesperienza fossero necessariamente motivati da un ragionamento strettamentedetto, come vogliono i Mediatisti, dovremmo avvertire questa mediazione,almeno quando riflettiamo esplicitamente sul motivo di questi giudizi.

Con queste premesse che servono per fondare gli argomenti successivi,questa parte si può provare, partendo tanto dell'immediatezza dell'oggettoproprio, come dell'impossibilità (ex impossibili).

2. Partendo dell'immediatezza dell'oggetto proprio: Come annotavamonella tesi anteriore, e proveremo sistematicamente più avanti, l'oggetto formaleproprio del nostro intelletto è l'ente così come si trova nelle cose sensibili. Ècosicché l'oggetto formale proprio del nostro intelletto nel suo sensofondamentale, viene da noi concepito immediatamente secondo la sua essenza eviene da noi giudicato immediatamente secondo il suo essere. Quindi, l'entecosì come si trova nelle cose sensibili, nel suo senso fondamentale, viene da noiconcepito immediatamente secondo la sua essenza, e viene da noi giudicatoimmediatamente secondo il suo essere.

La minore. Infatti, l'oggetto formale proprio è quell'oggetto che vieneconosciuto per prima e per sé; e, in ragione del quale, si conoscono tutti glialtri. Quindi è necessario: a) che venga concepito immediatamente, sotto quelsenso fondamentale che è presupposto per tutte le concezioni ulteriori dellostesso; e b) che venga giudicato immediatamente, sotto quel sensofondamentale che è presupposto per tutte le ulteriori affermazioni sullo stesso.

3. Partendo dell'impossibilità (ex impossibili): Se l'intelletto nongiudicasse immediatamente che l'ente sensibile esiste da parte della cosa, cosìcome i sensi lo testimoniano, questo si dovrebbe provare infallibilmentemediante il principio di causalità. È cosicché non si può provare infallibilmentemediante il principio di causalità. Quindi, l'intelletto giudica immediatamenteche l'ente sensibile esiste da parte della cosa, così come i sensi lo testimoniano.

La maggiore consta per il fatto che, in quanta ipotesi, non abbiamo altrimezzi per provare la cosa sconosciuta.

La minore. Perché supposta l'ignoranza del fatto che appartiene allanatura della facoltà sensibile testimoniare la cosa esterna, anche se il principiodi causalità si formasse a partire dei concetti ricavati dai dati interni, l'intellettopotrebbe concludere ad alcuna causa indeterminata, distinta della

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modificazione soggettiva, ma non a quella determinata causa esternatestimoniata dai sensi: perché in questo caso si presentano molte ipotesi.

Così, per esempio, gli Idealisti possono presentare questa ipotesi: Dellanatura dello Spirito è che sia un unico Soggetto che necessariamente siautocontrae in una molteplicità di oggetti empirici. Ma gli oggetti empirici nonpossono essere molti, se prima non vengono separati nello spazio e gli oggettispaziati non possono essere molti se prima non diventano separati nel tempo.Quindi appartiene alla natura dello Spirito autocontrarsi nelle cose empirichesecondo un ordine spazio-temporale. Da ciò concludono gli Idealisti che i datispazio-temporali, non si spiegano necessariamente mediante la supposizionedella cosa in sé.

“Non si stabilirà mai in una maniera rigorosa che il mondo delle mierappresentazioni implichi, oltre le mie rappresentazioni, un mondo corporalepiù o meno somigliante a quello che io percepisco (le mie rappresentazionipotrebbero essere il prodotto di un «Genio maligno», o più semplicemente unaproiezione inconscia del mio io: la via si apre all'idealismo più radicale, ilsolipsismo). Inoltre, perfino supponendo che l'esistenza di un mondo corporalein sé possa essere dimostrata a partire da rappresentazioni, non si potrà maideterminare in che misura queste sono fedeli all'oggetto che rappresentano,poiché il paragone del modello e dell'immagine è impossibile per ipotesi” (F.Van Steenberghen, Epistémologie, pp. 245-246).

Seconda parte. - Gli argomenti del realismo mediato possono impiegarsi amodo di preparazione previa o di conferma susseguente.

Partendo dalla spiegazione spontanea più facile. Gli argomenti delRealismo mediato tendono a mostrare che i dati della coscienza concepitisoggettivamente, richiedono, a modo di spiegazione necessaria l'affermazionedella cosa in sé. Ora, benché questi argomenti non servano per dare unaspiegazione necessaria, non può negarsi che almeno servono per dare laspiegazione spontanea più facile. Perciò possono impiegarsi con utilità perpreparare l'affermazione filosofica, come già facemmo nella prima parte dellatesi anteriore; o per confermare l'affermazione già fatta, come faremo quando dinuovo tratteremo la realtà del mondo sensibile.

La conclusione della tesi è la seguente: a) I Realisti che concedono chel'oggetto formale proprio dell'intelletto è la quiddità della cosa sensibile,logicamente devono arrivare a professare l'Immediatismo. b) Invece, i Realistiche non professano l'immediatismo, per essere conseguenti con sé stessi,devono negare che l'oggetto formale proprio sia la quiddità della cosa sensibile;perciò devono dire che l'oggetto formale proprio del nostro intelletto, o èqualcosa di soprasensibile, o sono i nostri atti interni, o almeno le nostre

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rappresentazioni interne soggettivamente colte. Nel primo caso, sviluppano unagnoseologia che non appartiene più all'intelletto umano. Nel secondo caso,contraddicono l'esperienza interna, perché essa mostra che noi ci innalziamoalle cose insensibili con l'aiuto dei fantasmi sensibili oggettivamente colti.

Obiezioni. - 1. Noi conosciamo immediatamente solo l'oggetto presente nellafacoltà. È cosicché la cosa esterna non è presente nella facoltà. Quindi la cosaesterna non si conosce immediatamente.

Risposta. Distinguo il maggiore: Noi conosciamo immediatamente solol'oggetto presente nella facoltà o per sé stesso o per la specie causata dalla suaazione per il mezzo, concedo; solo per sé stesso, nego. Contradistingo lamaggiore.

Istanza: Un oggetto distinto e distante non può essere presente nel

conoscente, mediante la specie. Risposta. Distinguo: non può essere presente, mediante una specie che si

comporta come ciò che (id quod) si conosce, concedo; come ciò mediante cui oin cui (id quo vel in quo) si conosce, nego.

Alla difficoltà che “niente della cosa conosciuta si trova nell’intellettointelligente in atto, tranne la specie intelligibile astratta; e quindi questa specieè lo intesso in atto" cioè ciò che (id quod) si intende, S. Tommaso risponde: “sideve dire che ciò che si intende si trova nell'intelligente mediante la suasomiglianza. E di questa maniera si dice che lo intesso in atto è l'intelletto inatto, in quanto che la somiglianza della cosa intessa diventa la formadell'intelletto... Quindi non si segue che la specie intelligibile astratta sia ciòche (id quod) si intende”, ma ciò mediante cui (id quo) si intende (I q.85, a.2 ad1).

2. Cogliere le determinazioni sensibili quantitative o qualitative, non ècogliere l'ente reale. È cosicché i nostri sensi colgono le determinazionisensibili quantitative e qualitative. Quindi non colgono l'ente reale.

Risposta. Distinguo la maggiore: cogliere le determinazioni sensibilinello stato straordinario del sonno o della malattia non è cogliere l'ente reale,concedo; nello stato ordinario, suddistinguo: non è cogliere l'ente reale in

quanto ente reale, concedo; non è cogliere ciò che è reale, nego o chiedo laprova. Concedo la minore e ugualmente distinguo il conseguente.

Istanza: Se qualche volta cogliamo determinazioni sensibili che nonsono l'ente reale, deve concludersi che non cogliamo mai immediatamente lostesso ente reale.

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Risposta. Se qualche volta e per sé, concedo; se qualche volta e peraccidente, nego.

Per chiarire queste risposte è utile ricordare che anche il RealismoMediato condivide qualcosa dello Scetticismo. Infatti, non solamente condivideil principio che noi immediatamente cogliamo solo le affezioni soggettive, macondivide anche il modo di argomentare di alcuni casi a tutti (de quibusdam adomnia). Gli Scettici, dal fatto che in alcune cose sbagliamo, concludono chepossiamo errare in tutto; i Mediatisti, dal fatto che qualche volta cogliamo dipercepire immediatamente solo rappresentazioni interne, concludono chesempre cogliamo immediatamente solo rappresentazioni interne. Ma iMediatisti, in polemica contro gli Scettici, ammettono che bisogna distingueretra ciò che succede per accidente, e ciò che succede per sé. I Mediatisti, controgli Scettici, ammettono che per determinare la natura dell'intelletto non bastaprocedere principalmente a partire dai difetti e dai limiti dell'intelletto.Possiamo notare inoltre che i Mediatisti, per rimanere conseguenti, quandopartendo dei dati intesi soggettivamente procedono a dimostrare la realtà in sé,non dovrebbero assumere esempi che hanno eccezione, perché secondo essi gliesempi che ammettono eccezione non possono essere validi.

3. Dalla convergenza dei dati ordinata, stabile, coerente, etc. si postulalegittimamente una realtà distinta e causativa. Quindi il processo del RealismoMediato è legittimo.

Risposta. Distinguo l'antecedente: si postula legittimamente, cioè, sicongettura con probabilità, o si suppone con spiegazione, concedo o lasciopassare; si afferma con certezza, suddistinguo: si afferma alcuna realtà distintae causativa indeterminatamente, concedo o lascio passare; determinatamente,nego.

La stessa cosa deve rispondersi a quelli che cercano di dimostrarel'esistenza reale del mondo a partire dal senso psicologico della passività dellaconoscenza, o del fatto che la conoscenza si trova in potenza, e così via. Questiargomenti da soli non valgono per superare il Realismo Mediato universale,perché nell'ignoranza metodica dell'ente reale, le nozioni di passività e dipotenza possono avere un'interpretazione e una spiegazione soggettivistica oidealistica. Allo stesso modo, questi argomenti non servono per superare ilRealismo Mediato limitato ai corpi, perché nell'ignoranza metodica dell'entereale corporeo, le nozioni di passività e di potenza possono avereun'interpretazione e una spiegazione soggettivistica o idealistica. Se alcontrario, essi si presentano a modo di conferma della certezza naturale giàriconosciuta, possono senza dubbio impiegarsi legittimamente.

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4. Dalla considerazione dei dati interni, possiamo procederelegittimamente a provare l'esistenza di Dio e, dall'esistenza e veracità di Dio giàprovata, possiamo procedere a mostrare l'autenticità della nostra persuasionestabile sull'esistenza del mondo. È cosicché questo processo può chiamarsiRealismo Mediato. Quindi qualche Realismo Mediato è legittimo.

Risposta. Distinguo la maggiore: dalla considerazione dei dati internipossiamo procedere legittimamente a provare l'esistenza di Dio, concedo orimetto a ciò che si espone in un altro trattato; dall'esistenza e veracità di Diogià provata, possiamo legittimamente procedere a mostrare l'autenticità dellanostra persuasione stabile dell'esistenza del mondo, distinguo: suppostal'ignoranza del valore oggettivo dei nostri sensi, e pertanto procedendo al mododi una dimostrazione strettamente detta, nego; supposto il valore oggettivodelle nostre conoscenze validamente riconosciuto, e pertanto procedendo almodo di una conferma riflessa, concedo. E contradistingo la minore. Infatti, seil senso non fosse una natura che attesta l'oggetto come è in sé, niente potrebbeconcludersi mediante la veracità divina, perché Dio ci dà l'intelletto affinchénoi giudichiamo sulla natura vera del senso. Si deve inoltre notare che colui cheprova l'esistenza del mondo mediante l'esistenza di Dio, per essere coerente,non può provare più l'esistenza di Dio per l'esistenza del mondo.

5. Se qualche volta conosciamo con certezza la cosa esterna mediante ilprincipio di causalità ed analogia, non esiste più nessuna difficoltà perammettere che sempre si conosce così. È cosicché qualche volta, senza luogo adubbio, conosciamo la cosa esterna per il principio di causalità ed analogia.Quindi non c'è nessuna difficoltà per ammettere che la conosciamo sempre così.

Risposta. Distinguo la maggiore: se qualche volta conosciamo la cosaesterna per il principio di causalità ed analogia, senza che necessariamentepreceda nessuna conoscenza immediata della cosa esterna, non esiste piùnessuna difficoltà per ammettere che la conosciamo sempre così, concedo;necessariamente precedendo qualche conoscenza immediata della cosa esterna,nego. Ed in questo senso contradistingo la minore.

ESCOLIO

Il metodo fenomenologico

1. La parola «fenomeno» dal greco" faíno" (mostro, manifesto) significa ciò cheappare, o ciò che si manifesta; si impiegò principalmente per significare il datodell'esperienza sensibile, ma più recentemente sì estense anche a significare inqualche modo ogni dato presente alla coscienza. Nella terminologia realistica,

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fenomeno è ciò che appare alla coscienza com’è in sé, cioè, ciò che appare allacoscienza in tal modo che si capisce che è in sé così come appare. Secondoquesta accezione, Aristotele usa frequentemente il nome di “fainómena” (De

Coelo I, c. 3, 270 b 4; De Anima II, cc. 7-12, 417-424), e S. Tommaso usal'espressione "le cose che appaiono: «ea quae apparent»” (Comm. in ll. cc.; De

Unit. Intell. c. IV, n. 39). Nella terminologia relativistica, fenomeno è ciò che appare alla coscienza

non com’è in sé, cioè, ciò che appare alla coscienza in tal modo che questaignora se l’oggetto è in se stesso così come appare. Così nelle antichediscussioni sofistiche e scettiche, nella concezione fondamentale di Hume,nella terminologia critica kantiana, e nelle posteriori teorie fenomeniste.

Il nome di fenomenologia cominciò ad impiegarsi nella filosofia modernanel senso di scienza dei fenomeni sensibili. I. H. Lambert chiamòfenomenologia alla quarta sezione dell'opera Neues Organon (Leipzig) 1764,nella quale sviluppò la dottrina dei fenomeni naturali. Anche E. Kant usò ilnome di fenomenologia in un senso simile (I. Kants Werke, IV, p. 466). Hegel,nella Fenomenologia dello Spirito, delineò il processo per il quale lo Spirito dauna coscienza sensibile infima, mediante fasi successive, si alza fino alla pienacoscienza di se stesso. Tra quelli che usarono il nome di fenomenologiabisogna ricordare a: W. Hamilton, che considera la fenomenologia della mentecome quella parte della filosofia che ha come funzione trattare i fatti mentalicome si danno nell'esperienza interna (Lectures on Metaph. and Logic, Ed.1877 p. 121); E. von Hartmann, che chiamò fenomenologia della coscienzamorale alla descrizione e lo studio dei fatti empirici della coscienza morale(Phänomenologie des sittlichen Bewusstsein, 1 Aufl. Berlino 1879). S. C.Pierce propose la fenomenologia come una disciplina descrittiva “checontempla i fenomeni come sono” (Collected Papers, V. § 37). Normalmenteoggi si impiega il nome di fenomenologia per significare la visione,descrizione, rivelazione e studio dei dati della coscienza.

Secondo questa recente concezione, col nome di metodofenomenologico, si intende normalmente il metodo filosofico che cerca diprocedere mediante un'analisi e descrizione dei dati della coscienza,considerandoli in quanto manifesti o manifestativi. Il metodo fenomenologicosi distingue in iniziale o esclusivo, secondo che il processo filosofico inizi perla descrizione senza limitarsi alla descrizione, o cominci dalla descrizione e silimiti ad essa.

2. La recente fenomenologia fu proposta per E. Husserl, e sotto il suo influssodiretto o indiretto si sviluppò tra molti moderni. Husserl cercò di trovare una“filosofia primordiale” nella quale tutti inizialmente coincidessero. Vedendoche bisogna procedere non dal alto (von oben), ma dal basso (von unten), cioè,

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che bisogna volgersi alle stesse cose (zu den Sarchen sebst) o ai dati immediatied originari della coscienza, stabilì il principio che “tutto quello che si dàoriginariamente nell'intuizione, bisogna prenderlo dentro i limiti nei quali sidà”. Così cominciò a sviluppare la filosofia come una fenomenologia dellanostra coscienza intenzionale. Ora, per ottenere un'adeguata visionefenomenologica della nostra intenzionalità, si deve procedere con una sinceritàradicale, purificando la visione da ogni pregiudizio, soprattutto psicologico enaturalista. In questo senso conviene fare non solo una “riduzione eidetica” cheprescinde dalla concretezza (hic et nunc) dei dati, ma soprattutto una “riduzionetrascendentale” che inizia con una sospensione fenomenologica (o con una“epoché fenomenologica”) d’ogni persuasione naturalista sull'essere reale deidati della coscienza, tanto oggettivi quanto soggettivi. Così si ottiene unavisione disinteressata, fondata su un'evidenza apodittica dell’intenzionalitàdella coscienza trascendentale. Da essa poi, si può procedere a descrivere lastruttura trascendentale di tutti i significati del mondo concreto comune a tuttinoi, cominciando dai dati primordiali della nostra intuizione mondanaoriginaria. Benché esplicitamente si escluda che la coscienza husserliana siaproduttiva dell'oggetto nel senso di Berkeley o dell'Idealismo post-kantiano, ebenché il metodo husserliano implichi alcuni tendenze che esigono unosviluppo in senso realistico, sembra tuttavia che, anche come conseguenza dellasospensione metodologicamente adottata, si mantengano molti elementifondamentali non realisti.

La fenomenologia heideggeriana ha come fine manifestare l'essere per ilquale ogni ente è. Heidegger, accetta il principio husserliano che bisognaandare alle cose. Fenomeno, originariamente, è ciò che si manifesta, benché inparte e nel suo fondamento possa rimanere nascosto. Logos, è la manifestazioneo rivelazione di ciò su cui versa il discorso. Quindi, “il termine difenomenologia può in greco illustrarsi così: «légein tà fainómena»; ma «légein»indica «apofáinesthai». Quindi fenomenologia significa «apofáinesthai tàfainómena»: fare che quello che si manifesta, in quanto che si manifesta da sestesso, si offra da sé stesso alla visione “ (Sein und Zeit, § 7, C). Heidegger usail metodo fenomenologico per determinare, mediante successive fasipreparatorie ancora incomplete, il problema “ontologico” sul senso dello stessoessere. La fenomenologia heideggeriana in un primo periodo si muove piuttostoin un piano esistenziale infra-concettuale, e in un secondo periodo procedepiuttosto di un modo supraconcettuale. L'investigazione heideggeriana escludela questione critica, si limita all'essere temporale e storico come si manifestanella nostra esistenza e, almeno fino ad ora, non sembra risalire fino all'esseretrascendentale ed analogo.

La fenomenologia hartmanniana si ordina a stabilire il Realismo. N.

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Hartmann distingue, nella fondazione del Realismo, il momentofenomenologico, nel quale si descrivono i dati che appartengono alla nostraconoscenza, il momento aporetico nel quale si prende coscienza dell'aspettoproblematico dei dati e dell'impossibilità di spiegare questi dati mediante teorieimmanentiste, ed il momento teoretico che conclude in una teoria realisticadella conoscenza. La fenomenologia hartmanniana considera la correlazione edirriducibilità tra il soggetto e l'oggetto, le parti proprie del soggetto edell'oggetto nella conoscenza, l'aposteriorità dell'oggetto, la sua intelligibilitàinesauribile, e in questo senso la sua irrazionalità, etc., concludendo allarelazione necessaria tra il soggetto conoscente e l'oggetto mondanotrascendente. Hartmann distinse inoltre gli atti emozionali dagli atti conoscitivi,ed affermò che sono gli atti emozionali a renderci definitivamente certidell'esistenza della cosa in sé. La filosofia hartmanniana è realistica. Ma inquanto che ammette la certezza emozionale sulla realtà e aspetti irrazionalidella realtà, bisogna dire che condivide il pregiudizio antiintelectuale. E, inquanto che si chiude nell'ordine umano e mondano, bisogna dire che è unafilosofia non aperta all'ordine dell'ente trascendentale e agnostica rispetto aDio.

3. Con queste premesse a modo d’esempio e osservando che l'uso dellafenomenologia diventa oggi molto diffuso non solo tra gli scienziati, ma anchetra i filosofi, possiamo fare le seguenti osservazioni.

Il nostro processo umano filosofico non consiste solo nella puraconstatazione e descrizione dell'esperienza. Perché, partendo dai principi cheformiamo nell’esperienza, il nostro intelletto non solo procede a conclusioniche spiegano l'esperienza, ma anche a conclusioni che trascendono la stessaesperienza. In questo senso bisogna dire che la filosofia, può usare certamenteil metodo fenomenologico, ma non può limitarsi alla sola fenomenologia oidentificarsi con la sola fenomenologia.

Supposto tutto ciò e considerando l'uso del metodo fenomenologico,bisogna poi distinguere bene tra le varie fenomenologie particolarmenteconsiderate e la fenomenologia in generale.

a) La Fenomenologia considerata in generale è quell'accezione genericae programmatica della fenomenologia nella quale convengono tutti quelli cheusano il metodo fenomenologico, cioè, che bisogna cominciare con sinceritàprescindendo da ogni pregiudizio o teoria prestabilita per constatare edescrivere i dati così come si danno o si manifestano nell'esperienza. Secondoquesto senso generico, l'uso del metodo fenomenologico può essere utile persuscitare i problemi, iniziare le soluzioni, e confermare le soluzioni già date.

b) La Fenomenologia determinatamente considerata è la fenomenologiapresa storicamente così come fu proposta per questo o quel filosofo, cioè, con

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le caratteristiche speciali proprie di questo o di quello filosofo. Poichéfrequentemente le fenomenologie particolari implicano lagune e tendenzenegative, bisogna esaminarle criticamente, integrarle e correggerle, tanto nelleloro posizioni iniziali come nel loro sviluppo e conclusioni.

4. Rispetto alle fenomelogie particolari bisognerebbe fare molte osservazioni,come per esempio si deduce delle seguenti avvertenze. “Le cecità deglianalizzatori sono frequenti; le loro negazioni sono spesso premature; questodipende dal non aver essi scoperto un qualche elemento importante” (G.Zamboni, La persona umana, p.18). “La concezione naturalista dell'essere,rimproverata alla metafisica tradizionale, si trova proprio in chi contrapponel'essere alla coscienza, perché non sa concepire l'essere se non come natura. E ilmodo per superare il naturalismo si trova invece proprio nella dottrina dellaanalogia dell'essere, che ci permette di concepire l'essere senza naturalizzarlo"(S. Vanni-Rovighi, La filosofia di Edmund Husserl, Milano 1939, p.139). “Sesi vede... che l'essere norma il conoscere, il volere, il valutare, e se non sisceglie semplicemente di sopprimere la coscienza, bisogna che si faccia dellacoscienza un certo «modo di essere»” (G. van Riet, Réalisme thomiste et

phénomenologie husserlienne, in Problèmes d'épistémologie, p. 201). “Sidomanda, in effetti, come una filosofia che vuole praticare un metododescrittivo acquisti il diritto di decidere, prima d’ogni descrizione, che ilfondamento dei fenomeni rimanga da principio totalmente nascosto. Neanche sivede come si giustifichi, da un punto di vista fenomenologico puro, ladistinzione tra ciò che è fondamentale e ciò che non lo è. Quale è il criteriodescrittivo di questa distinzione? Come, ammettendo che esista, è possibileriferirsi ad esso prima di ogni analisi fenomenologica? Simili distinzioni –prendiamone atto - dipendono necessariamente da una filosofia già costituita. Equesto, per la sua stessa natura, restringe di modo considerabile la portata realedel metodo" (A. De waelhens, La Philosophie di Martin Heidegger, Lovaina1954 p. 18).

5. Anche tra gli Scolastici moderni si parla di utilizzare il metodofenomenologico o descrittivo, e questa descrizione normalmente precede (masenza staccarla da) la valutazione susseguente. Sul metodo descrittivo in ordinead una fondazione critica del Realismo, bisogna notare sotto l'aspettometodologico:

a) Quando si tratta di quei problemi, chiamati da noi strettamente detti,nei quali ancora la soluzione che si cerca si ignora, e quindi bisogna mostrarliper una dimostrazione strettamente detta, allora il metodo chiede di proporre ladescrizione iniziale prescindendo semplicemente dalla verità da provare.Questa osservazione vale sempre che l'esame critico versa su verità che non si

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conoscono necessariamente e che quindi possono ignorarsi in atto: perché èlecito prescindere metodologicamente dalle cose che ancora si ignorano.

b) Quando al contrario si tratta di quei problemi, chiamati da noiampiamente detti, nei quali la soluzione che si cerca già si conosceimplicitamente e nell'esercizio dell’atto, e che pertanto bisogna mostrarlimediante un riconoscimento declaratorio, allora il metodo chiede di proporre ladescrizione iniziale senza prescindere semplicemente dalla verità da esplicitare.Questa osservazione vale soprattutto quando l'esame critico versa su quelleverità naturali e fondamentali alla cui luce esercitiamo la stessa descrizione:perché non è lecito prescindere metodologicamente da quelle cose chenecessariamente ed infallibilmente si conoscono sempre in atto.

Quindi, il metodo descrittivo ha senso ed applicazione legittima, nellamisura che consta di una serie ordinata di giudizi veri che descrivono i daticome realmente si danno, cioè, come realmente si manifestano e col loro esseremisurano tutti i giudizi che li descrivono.

6. Da tutto ciò si deduce che se il metodo fenomenologico considerasse tutti idati della coscienza in un senso solamente relativistico, non avrebbe nessunautilità, neanche propedeutica. In questa ipotesi si dovrebbe notare che talemetodo risolve la filosofia in una forma di fenomenismo universale che èintrinsecamente contraddittorio e di fatto impossibile. Le modernefenomenologie particolari normalmente non procedono in un senso puramentefenomenistico, ma tentano di presentare i dati come oggettivamente manifesti omanifestativi; ma il senso di questa oggettività varia più o meno in ogni caso.Può succedere così che, nonostante la professione di una radicale sincerità el'intenzione di procedere liberi di pregiudizi, si mantenga ancora qualchepresupposto soggettivistico e antiintelectuale.

Quindi per giudicare di una fenomenologia in particolare è utile tenere inconto:

a) Se la fenomenologia procede coerentemente con la certezza naturale esi ordina rettamente a stabilirla in modo riflesso; e quindi se le idee direttiveche, esplicitamente o almeno implicitamente, dirigono l'inizio e lo sviluppodella fenomenologia sono in coerenza con l'esigenza filosofica e critica cosìcome sorge legittimamente.

b) Se la materia, su cui versa la fenomenologia, si sceglie oggettivamentee adeguatamente; e se alcune caratteristiche speciali vengono troppo esagerateo troppo dimenticate, in modo che le conclusioni dedotte contraddicano altrifatti o non possano comporsi logicamente tra loro.

In generale possiamo dire che l'uso del metodo fenomenologico èlegittimo se, libero di pregiudizi, si orienta coerentemente a giudicare i dati cosìcome realmente sono; e che, proprio sotto questo aspetto, il filosofo deve

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discernere e giudicare i diversi metodi fenomenologici nei loro sviluppiparticolari.

Francesco Morandini, S. J.

«RICERCHE SULLA VERITÀ»

Pug, Roma 1971(Ad uso privato)

PARTE SECONDANATURA DELLA VERITÀ CONOSCIUTA

Avvertenza. - In queste note diamo una sintesi dei punti fondamentali, perfacilitare la comprensione del testo latino di Critica, come viene spiegato nelleprelezioni. Gli studenti di lingua inglese possono anche consultare O'Neill R.F., Theories of Knowledge, chaps. 7-15, 22-24. Senso e divisione della trattazione. - Svolgendo la trattazione sul fatto dellacognizione vera, si ha già occasione di fare accenno alla dottrina della verità danoi conosciuta, perchè spesso le difficoltà che sorgono contro un fatto sisciolgono alla luce della dottrina sul fatto stesso. Conviene quindi fare unatrattazione sistematica sulla natura della verità da noi conosciuta, percompletare la teoria della cognizione e per contribuire alla soluzione delproblema della scienza. Poiché la nostra scienza si svolge come ordinato complesso di raziocini, èevidente che dobbiamo specialmente attendere alla natura del nostro raziocinio.È chiaro che non possiamo adeguatamente trattare della natura del raziocinio senon trattiamo anche della natura del giudizio, perchè i raziocini sono compostidi giudizi; e che non possiamo adeguatamente trattare della natura del giudiziose non trattiamo prima della natura del concetto, perchè i giudizi sono compostida concetti. Dirigeremo quindi la nostra ricerca allo studio della verità dei

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concetti, dei giudizi e dei raziocini; e dopo questa triplice ricerca tratteremoanche alcune questioni concernenti il possesso della verità, nonché lalimitatezza e la deficienza della nostra mente nei riguardi della verità. Il momento della presente trattazione appare dalla sua propriasistematicità. La teoria della conoscenza si inizia con un esplicitoriconoscimento e difesa del fatto della conoscenza vera, e proseguesviluppando lo studio della distinzione e subordinazione dei nostri atticonoscitivi in quanto ordinati alla conclusione vera. Divideremo pertantoquesta nostra trattazione in quattro capitoli. Anzitutto, nel capitolo terzoinizieremo lo studio della esistenza, della oggettività e della natura deglielementi semplici del giudizio, ossia della verità dei concetti. Quindi nelcapitolo quarto esamineremo quale sia la natura propria del giudizio, dellaverità conosciuta, della falsità in quanto opposta alla verità, e così avremomodo di trattare, in ultima analisi, della verità del giudizio in quanto tale.Ulteriormente nel capitolo quinto procederemo alla considerazione della naturadel raziocinio, dei giudizi universali immediati nei quali si fonda il raziocinio,dei giudizi mediati nei quali il raziocinio conclude, e quindi dellaargomentazione deduttiva e della induzione argomentativa. Infine nel capitolosesto completeremo il nostro studio sulla natura della verità conosciuta,considerando in particolare i diversi stati della nostra mente in ordine allaverità.

CAPITOLO TERZOVERITÀ DEI CONCETTI

Senso e divisione del capitolo. - 1. Da quanto è già stato spiegato, si ricava chenoi abbiamo la capacità di formare giudizi veri, ossia oggettivi delle cose. Daciò per mezzo di una riflessione analitica possiamo stabilire che: Noi abbiamo la capacità di formare concetti semplici. Infatti il giudizio è unaspeciale composizione mentale di predicato e soggetto. Poiché ognicomposizione suppone, almeno natura prius, gli ele-menti da cui è composta,possiamo legittimamente concludere che noi formiamo gli elementi semplici dicui il giudizio si compone, cioè i concetti. Noi abbiamo la capacità di formare concetti oggettivi. Infatti il giudizio vero èuna predicazione vera, ossia oggettiva delle cose. Ma la predicazione oggettivaconsta necessariamente di concetti oggettivi. Possiamo quindi legittimamente

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concludere che noi formiamo concetti oggettivi, dalla cui composizione risultail giudizio vero. 2. Con questa generica osservazione si fonda, ma non si esaurisce, la teoria delvalore e della natura dei nostri concetti. Infatti, se si fa attenzione al modo concui la comune scienza umana è significata per mezzo della parola e degli scritti,possiamo facilmente constatare che le affermazioni scientifiche hanno unasignificazione universale. Di qui la questione: che cosa corrisponde, nellanostra mente, ai segni orali? Corrispondono concetti singolari o concettiuniversali? E ulteriormente: quale realtà corrisponde ai nostri concetti? Unarealtà singolare o una realtà universale? 3. L'importanza di questa ricerca (che tratta sotto l'aspetto logico e critico lafondamentale questione filosofica de multiplicitate reducenda ad unitatem)appare anche dalla differenza delle soluzioni proposte. Le principali, chediversificano ogni ulteriore teoria della cognizione e della realtà, si possonoridurre a quattro, cioè al Nominalismo, al Concettualismo, al Realismoesagerato, ed al Realismo moderato (più che ai nomi, è utile badare a ciò checon questi nomi intendiamo significare). In linea di principio: a) Il Nominalismo ammette i nomi universali, ritenendo che tutte le nostre ideesono singolari e che la realtà sensibile debba dirsi omnino singularis; e da ciòconclude che sono universali soltanto i nomi. b) Il Concettualismo ammette i nomi universali e i concetti mentali universali,ritenendo però coi Nominalisti che la realtà è omnino singularis; e da ciòconclude che i nostri concetti universali, anche quoad id quod concipitur, nonsono oggettivi della realtà singolare. c) Il così detto Realismo esagerato ammette che ai nostri nomi universalicorrispondano nella nostra mente concetti universali, ritenendo che la realtà checorrisponde a questi concetti è formaiiter universalis; e da ciò conclude che lenostre idee universali sono oggettive della realtà anche quoad modum quoconcipitur. d) Il Realismo moderato ammette che ai nomi universali corrispondono concettiuniversali, ritenendo che la realtà che corrisponde a questi concetti è similis,cioè formaiiter singularis et fundamentaliter universalis; e da ciò conclude che inostri concetti universali sono oggettivi della realtà quoad id quod concipitur,non autem quoad modum quo concipitur.

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4. In questo capitolo svolgeremo la dottrina del Realismo moderato nella suaorganica sistematicità, come ci sembra che oggi debba essere intesa. Anzitutto,nel primo articolo tratteremo della esistenza e della oggettività dei nostriconcetti universali, tenendo presente il radicale Nominalismo eConcettualismo; nel secondo mostreremo la non esistenza di una realtàformalmente universale, avendo presenti le istanze principali del Realismoesagerato; infine nel terzo e quarto articolo svilupperemo gradualmente lateoria del Realismo moderato.

ARTICOLO PRIMO

Nominalismo e Concettualismo

(p. 141-151) Senso della ricerca. - Abbiamo già accennato nella Logica (p. 49-52) che cosaintendiamo per universale e quali siano le sue cinque divisioni. È facileavvertire che in tanto possiamo parlare di universale in significando e e diuniversale in praedicando, in quanto già supponiamo la legittimitàdell'universale in essendo. Quindi la questione critica e logica sugli universalisi riduce ultimamente a ricercare "se e come sia legittimo l'universale inessendo". Poiché la questione parte dal fatto, ammesso da tutti, che esistononomi universali, essa si è venuta così determinando: se gli universali sonosoltanto nomi, o anche concetti; e se sono concetti, se sono soltanto nelconcetto o anche nella realtà. Questa questione oggi si pone con questaformulazione: "se esistono concetti universali oggettivi delle cose". TESI XIII. - L'intelletto umano forma dall'esperienza concetti universali,che sono oggettivi delle cose secondo ciò che si concepisce, non peròsecondo il modo con cui si concepisce. Prenozioni. - 1. Il nome è detto universale in due sensi: o solo per quantoconcerne la comprensione, e allora è quel termine che significa aliquid unumsenza significare le determinazioni individuali; o anche rispetto all'estensione, eallora è quel termine che significa aliquid unum (senza le determinazioniindividuali) relativamente a più cose particolari. 2. Il concetto è detto similmente universale in due sensi: o solo per quantoconcerne la comprensione, e allora è quel concetto che attinge aliquid unumsenza attingere le sue determinazioni individuali; o anche rispetto

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all'estensione, e allora è quel concetto che significa aliquid unum (senza ledeterminazioni individuali) relativamente a più cose particolari. Il concetto può esser considerato come universale sia in senso lato che in sensostretto. In senso lato è il concetto analogo, che contiene actu, confusamente, lesue differenze, e perciò ha una unità imperfetta (come p. es. la nozione di ente).In senso stretto è il concetto univoco, che contiene solo in potentia le suedifferenze, e perciò ha una unità perfetta (come p.es. il concetto di uomo, chenon attinge la petreità o la paoleità). Un concetto si dice oggettivo delle cose quando secondo la suaintelligibile comprensione è corrispondente alle cose. Il concetto rispondentealle cose è considerato nella tesi sotto un duplice aspetto, ossia per quantoconcerne ciò che si concepisce, e per quanto concerne il modo con cui siconcepisce. Ciò che si concepisce è tutto ciò che l'intelletto concependoapprende (concetto oggettivo). Il modo con cui si concepisce è il modo con cuila cosa conosciuta è accolta nel l'intelletto che si trova nella funzione diconcepire la cosa stessa (p. es. senza le determinazioni individuali). 3. Come già dicemmo, il Nominalismo nega che ai nomi universalipossano corrispondere concetti universali in senso proprio;questa teoria tendead equiparare l'intelletto ai sensi, ed implica almeno virtualmente un certomaterialismo. Il Concettualismo ammette concetti universali, ma nega che essisiano obiettivi delle cose dell'esperienza; pertanto non equipara l'intelletto aisensi, ma virtualmente implica un certo soggettivismo o un certoantiintellettualismo. Li consideriamo insieme, perchè ambedue convengono nelmedesimo presupposto, che cioè la realtà è omnino singularis, comespieghiamo nel testo latino, a p. 142-143. Nella tesi parliamo sia del concetto univoco sia di quello analogo, e asseriamoche la nostra mente forma concetti universali, oggettivi per quanto siconcepisce, non però per il modo con cui si concepisce. Divideremo la prova della tesi in tre parti: nella prima mostreremo cheformiamo concetti universali; nella seconda, che essi sono oggettivi per quantosi concepisce; nella terza, volendo iniziare la dottrina del Realismo moderato,mostreremo che i nostri concetti non sono oggettivi per quanto concerne ilmodo con cui si concepisce. Opinioni. - Si può dire che tra gli antichi filosofi greci, gli Epicurei procedanosecondo un certo presupposto nomincilisiico o meglio un sensismo

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materialistico. Gli Stoici, pur procedendo in un presupposto materialistico edempiristico, ammettevano una interna elaborazione delle nozioni comuni. Nel periodo iniziale della Scolastica si attribuisce dai coevi a ROSCELLINO lasentenza delle voci secondo la quale gli universali sarebbero "flatus vocis"; maoggi si dubita se si debba considerare come l'iniziatore del Nominalismomedievale. Nell'ultimo periodo della Scolastica medievale GUGLIELMO DIOCKHAM ebbe propensione per la conoscenza diretta dei singolari,ammettendo l'inclinazione naturale a formare termini interni universali, chetuttavia non hanno essere se non nell'anima; e in questo senso la sua dottrina èstata interpretata come un Concettualismo fondato nel presupposto empirico.(Vi sono però recenti interpretazioni più mitigate). Gli Occamisti furonochiamati Nominali o Terministi. Nell'età moderna il Nominalismo è proposto da HOBBES in un sensorigidamente materialistico. Quindi con un titolo speciale dagli Empiristi, ossiavirtualmente da LOCKE e formalmente da BERKELEY, HUME, J. STUARTMILL e SPENCER, che pensano che per cogliere il significato del nomeuniversale sia sufficiente o un'idea singola-re assunta a significare gli altrisingolari simili, o una idea collettiva di molti singolari simili. Con gli Empiristiconvengono i Sensisti, come DE CONDILLAC. I presupposti empiristicispesso si trovano presso i Positivisti, e più recentemente sono stati assuntiradicalmente dai primi Neopositivisti. Per ulteriori determinazioni di questeopinioni, si veda a p. 144-145. Nella filosofia moderna KANT introdusse una nuova forma di Concettualismo,fondata nel presupposto aprioristico. I dati della esperienza, o impressionisensibili, si suppongono provenire dalla cosa in sé, amorfa e caotica, cioè senzastabile determinazione e ordine. I dati dell'esperienza sono ricevuti nelle formea priori della sensibilità esterna ed interna, cioè nelle forme dello spazio e deltempo, e così si costituisce il fenomeno sensibile. Questo a sua volta è resointelligibile quando è sussunto sotto una categoria o concetto a prioridell'intelletto, e per tale sussunzione esso acquista ordine necessario euniversale. Quindi i nostri concetti, sia vuoti che riempiti, sono concettiuniversali che non hanno valore oggettivo nei riguardi della cosa in sé. Si può aggiungere che nella filosofia contemporanea si ha una nuova forma diConcettualismo fondata in un presupposto antiintellettualistico. Come siaccenna nella tesi decima, la tendenza antiintellettualistica si evolve sia nelsenso sopralogico, ossia ponendo lo iato fra l'intuizione e laconcettualizzazione; sia nel senso infralogico, ossia ponendo lo iato fra

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l'esperienza estranea all'intelletto e la concettualizzazione. Quindi in ambedue icasi si ha il presupposto dell'insufficienza e dell'invalidità della nostra attivitàconcettuale, e conseguentemente la negazione del valore oggettivo dei concettiessenziali astratti (v. Encicl. Filos., 2 ed. voi. I col. 1 547-1 551). PRIMA PARTE. - 1. Questa parte consta in primo luogo dell'analisi dellanostra esperienza interna. Riflettendo infatti nella nostra interna esperienza, ènecessario che assumiamo la coscienza esplicita che, oltre le immaginisensibili, sempre singolari, ci sono nella nostra mente giudizi universali, cioèformati con concetti universali (ad es. i giudizi definitorii). Spontaneamenteinfatti e sicuramente definiamo il corpo senza la differenza di animato einanimato, e l'animale senza la differenza di razionale e irrazionale, e l'uomosenza la differenza individuale della petreità o paoleità. Ma poiché iNominalisti ammettono i nomi universali e le idee collettive dei simili, sisogliono desumere in questa questione gli argomenti: 1. Dal fatto della predicazione orale vera: Infatti come consta chiaramente dalconsenso comune, possiamo veramente dire con verità che Pietro è uomo, chePaolo è uomo ecc.; non possiamo però affermare con verità che Pietro sia Paoloo che Pietro sia popolo. Ciò premesso, così argomentiamo: Come constadall'uso del linguaggio, col nome orale significhiamo ciò che comprendiamocon il concetto. Da ciò consegue che ai nomi aven-ti significato irriducibile,corrispondono nella nostra mente concetti irriducibili. Ora si danno nomiuniversali che hanno un significato irriducibile al significato singolare ocollettivo. Dunque si danno concetti universali che sono irriducibili al concettosingolare e al concetto collettivo. A conferma dell'argomento è utile osservare che gli stessi Nominalistiammettono la irriducibile significazione del nome singolare (Pietro), del nomecollettivo (popolo) e del nome universale (uomo). 2. Dal fatto delle idee collettive: In effetti gli stessi Empiristi concedono chenoi abbiamo idee intellettuali collettive, con le quali coaduniamo insieme unaclasse di singolari simili. Ora la coadunazione intellettiva di singolari similipresuppone un concetto universale. Dunque esistono nella nostra menteconcetti universali. A chiarificazione dell'argomento è necessario avvertire che la coadunazione deisingolari simili presuppone che comprendiamo quel determinato aspetto in cui isimili convengono: altrimenti non vi sarebbe alcuna ragione di coadunare nelconcetto di popolo soltanto uomini, e non anche, ad es., alberi o cani. Ma

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questo aspetto comune è lo stesso concetto universale di uomo. Dunque lacoadunazione intellettiva di singolari simili presuppone un concetto universale. 3. Da quanto detto possiamo ricavare nei riguardi del Nominalismo anche unariduzione all'assurdo: Infatti il Nominalismo o Empirismo universale: oasserisce che noi non possiamo attingere se non una successione di singolarimeramente contingenti e dissimili; o concede che noi possiamo attingere a unacerta stabile somiglianza tra le cose singolari. Nel primo caso, procedecoerentemente, ma logicamente si risolve in un agnosticismo scettico: poiché sitroverebbe nella impossibilità di elevarsi al disopra di questa esperienza conuna affermazione stabilmente vera. Nel secondo caso, si contraddice: poiché èlo stesso capire una stabile similitudine tra cose singolari e capire un aspettoconveniente a più singolari. SECONDA PARTE. - Dall'analisi della nostra esperienza oggettiva esoggettiva: Infatti, se guardiamo la realtà oggettiva, è facile rilevare: a) che larealtà da noi conosciuta non è del tutto dissimile, né del tutto identica, masimile, cioè costante di individui fra loro simili; b) che siamo in grado diformare di questi individui simili delle nozioni comuni e dei principi non solocomuni, ma comunissimi, alla luce dei quali giudichiamo tutto. Ma poiché iConcettualisti, (in quanto si distinguono dagli Scettici) ammettono la veritàassoluta di alcune affermazioni scientifiche, gli argomenti si soglionosviluppare: 1. Dal fatto della predicazione mentale vera: La pre-dicazione vera è Compostadi concetti oggettivi delle cose secondo ciò che si concepisce: se infatti iconcetti non fossero oggettivi, la predicazione sarebbe falsa. Ma si dà qualchepredicazione vera che è composta di concetti universali. Dunque si dannoconcetti universali che sono oggettivi delle cose secondo ciò che si concepisce. La minore risulta dalla verità dell'affermazioni scientifiche. Infattil'affermazione scientifica vera è formata da un predicato universale applicato aun soggetto universale, così che si può distintamente distribuire ai singoliinferiori. Così per esempio, chiunque rifiuta lo scetticismo perchècontradditorio, ammette l'affermazione universale che ogni scettico sicontraddice, e ammette anche la sua applicazione distributiva questo scettico sicontraddice. 2. È chiaro che possiamo procedere anche nei riguaj di del Concettualismo perriduzione all'assurdo: Il Concettualismo, universale (in quanto precisamente sieleva al di sopra della pura successione empirica): o asserisce; che tutte le

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nostre affermazioni universali sono elaborazioni soggettive, senza veraoggettività; o di fatto, concede che esiste qualche giudizio universaleaffermante l'oggetto come veramente è. Nel primo caso, procedecoerentemente, ma si risolve logicamente in un agnosticismo fenomenistico:perchè non ammette alcuna affermazione scientifica se non relativa al soggettoconoscente Nel secondo caso si contraddice: perchè un giudizio universale cheafferma l'oggetto come veramente è, si deve dire composto di concetti misuratidallo stesso essere dell'oggetto (come avemmo occasione di esplicitare nellatesi sull'idealismo). Dopo aver mostrato che abbiamo concetti universali oggettivi per quantoconcerne ciò che concepiamo, è utile osservare che conveniamo coiConcettualisti nell'ammettere che i nostri concetti universali non sono oggettiviper quanto concerne il modo con cui noi concepiamo. Per ciò che riguarda altripossibili argomenti e l'argomento generale della terza parte, rimandiamo altesto latino.

ARTICOLO SECONDO

Il Realismo Esagerato

Senso della ricerca. - In opposizione al Nominalismo ed al Concettualismo,abbiamo mostrato che si devono ammettere concetti universali oggettivisecondo ciò che concepiamo, avvertendo però inizialmente che essi non sonooggettivi secondo il modo con cui concepiamo. I Realisti Esagerati affermanoche i nostri concetti sono oggettivi anche per quel che concerne il modo con cuiconcepiamo, cioè che le cose sono formalmente universali. A complementoquindi della precedente questione, rimane da ricercare se le cose sianoformalmente universali, ossia, in altre parole, se gli universali siano separati daisingolari o almeno realmente distinti dai principi individuanti. TESI XIV. - Gli universali non sussistono separati dai singolari, né sidistinguono realmente dai principi individuanti. Tra questi esiste solo unadistinzione di ragione, con fondamento nelle cose stesse. Prenozioni. - 1. Qui per universale intendiamo natura senza le determinazioniindividuali (che da noi è concepita come comune a molti). Singolare qui è lostesso che ente reale indiviso in sé e diviso da ogni altro (ossia è la realtà che si

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coglie concretamente nell'esperienza). La singolarità, o note individuanti, oprincipi individuanti, sono le determinazioni che costituiscono la differenzaindividuale. I principi individuanti, sono chiamati da Scoto col nome dihaecceitas. 2. Secondo il modo comune di parlare, sono distinte le cose delle quali l'unanon è l'altra; quindi la distinzione è la negabilità dell'uno rispetto all'altro; e inquesto senso è da considerarsi come assenza di identità. La distinzione è reale odi ragione secondo che è antecedente o conseguente all'operazionedell'intelletto. La distinzione reale è adeguata, se è fra un tutto e un altro tutto, otra una parte e un'altra parte; è inadeguata se è fra un tutto e una sua parte. La distinzione di ragione è detta rationis ratiocinatae o rationis ratiocinantis, seha o non ha il fondamento nelle cose. La distinzione di ragione raziocinata sidistingue ulteriormente in maggiore e minore: la maggiore è quella che vige tradue concetti dei quali nessuno dei due include l'altro, quantunque uno siadeterminato dall'altro; la minore è quella che vige tra due concetti dei quali unoinclude implicitamente l'altro. Il fondamento oggettivo della distinzione è in ultima analisi una distinzione chenella realtà corrisponde alla distinzione dei concetti, rendendo legittima ladistinzione dei concetti. 3. Dal fatto che nel nostro modo di parlare noi di-stinguiamo tra naturauniversale e individui concreti, e tra iiatura universale e principi individuanti, èchiaro che tra questi deve esistere una qualche distinzione. Nella tesi asseriamoche questa distinzione non è reale, ma soltanto di ragione con fondamento nellacosa stessa. Dividiamo la prova della tesi in tre parti: nella prima, mostreremo che non c'èreale distinzione adeguata tra gli individui e la natura universale, ossia che gliuniversali non sussistono separati dai singoli; nella seconda, che non vi è unadistinzione reale inadeguata fra gli individui e la natura universale, ossia che gliuniversali non si distinguono realmente dai principi individuanti; nella terzabrevemente chiarificheremo come vi sia tra la natura universale e i principiindividuanti la distinzione di ragione raziocinata maggiore, ossia confondamento nelle stesse cose delle quali viene predicata la natura specifica. Opinioni. - Per ciò che riguarda la prima parte, PLATONE suppone che oltre alcomplesso delle cose sensibili sussista un complesso di Idee intellegibili, cioèdi perfezioni universali, ad es. Cavallo, Uomo, Bene. Dalla partecipazione reale

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delle Idee si costituisce qualsiasi cosa singolare sensibile, come questo uomo,questo cavallo ecc. Dalla partecipazione logica delle Idee l'anima nostra, primadi unirsi al corpo, ha già intuito immediatamente l'Uomo, il Cavallo ecc. Dallareminiscenza imperfetta delle Idee, eccitata in noi dalla conoscenza sensibile, siha nel presente stato il complesso dei nostri concetti universali con i quali siforma la nostra scienza. Secondo la concezione platonica, la conoscenzaintellettiva scientifica si converte pertanto alle cose singolari sensibili mediantel'idea universale distinta e separata dalle cose singolari. Al realismo esagerato platonico è affine la concezione degli Ontologisti, i qualiritengono che noi immediatamente vediamo le divine idee delle cose, e permezzo di esse le creature sensibili; di questo avviso sono, nella filosofiamoderna, Malebranche e Gioberti, Per ciò che riguarda la seconda parte, alcuni Medievali, all'inizio della filosofiascolastica, asserivano che gli universali esistessero realmente distinti daiprincipi individuanti. Riguardo alla terza parte sono contrari gli Scotisti, i qualiritengono che la natura specifica, antecedentemente alla considerazione dellamente, formaliter ex natura rei si distingua dalla haecceitas. PRIMA PARTE. - 1. Dal fatto della predicazione vera: Come abbiamo vistonella tesi precedente, gli universali si predicano con verità dei soggettisingolari: diciamo infatti che Pietro è uomo, animale, vivente ecc. Ma ciò che sipredica con verità del soggetto, è realmente identificato con lo stesso soggetto.Dunque gli universali sono realmente identificati coi singolari; quindi nonsussistono separati. Per comprendere il senso di questo argomento, occorrerilevare che se il predicato non si identificasse realmente col soggetto, lapredicazione sarebbe falsa: perchè non possiamo mai dire che una cosa è ciòche da essa realmente si distingue. Per una più esatta comprensione di questo argomento, e anche dell'argomentoprimo della seconda parte, rimandiamo alle citazioni latine di alcuni testi di S.Tommaso, a p. 155. 2. Sulla dottrina platonica, anche oggi, si suole proporre un argomentonegativo, ex inconvenientibus, che si può così accennare: L'idea che si dicepartecipata dai singolari sensibili: o pone in essi una perfezione intellegibile, onon ne pone alcuna. Se non pone una perfezione intellegibile, i singolari sonointrinsecamente inintellegibili, e il mondo delle Idee è una duplicazioneINANE (ossia non serve a comprendere le cose sensibili). Se pone unaperfezione intellegibile, i singolari sono intrinsecamente intellegibili, e quindi il

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mondo delle Idee è una duplicazione INUTILE (ossia non è necessaria percomprendere le cose sensibili). Gli argomenti addotti valgono proporzionalmente anche per gli Ontologisti.Infatti per il fatto della predicazione vera, si deve escludere che ciò chepredichiamo delle creature sia reale distintamente dalle creature. Il ricorso poiall'idea divina, o priva le creature di intellegibilità intrinseca, o è unaduplicazione inutile nel nostro ordine conoscitivo. SECONDA PARTE. - L'opinione dei medievali realisti esagerati non haimportanza; ha però importanza l'argomento sistematico con cui si rimuovequesta opinione. Questa parte si prova: 1. Dal fatto della predicazione vera: Abbiamo visto nella parte precedente chegli universali si predicano per identità reale dei singolari. Perchè siano predicatiper identità reale, è chiaro che tutto quello che significa il predicato deverealmente identificarsi con tutto quello che significa il soggetto; ossia, in altreparole, occorre che il predicato sia detto del soggetto ut totum de toto, perchè laparte non è identica al tutto. Possiamo quindi concludere che se gli universali sipredicano con verità dei singolari, essi sono predicati ut totum de toto. Ciòpremesso, così argomentiamo: Gli universali si predicano con verità dei singolari, ossia si predicano deisingolari ut totum de toto. Ora, l'universale che si predica del singolare ut totumde toto, non si può distinguere realmente dai principi individuanti. Dunquel'universale non si distingue realmente dai principi individuanti. Per completare l'argomento occorre chiarificare la minore, osservando che senel singolare Pietro, l'universale uomo e i principi individuanti petreità sidistinguessero realmente, uomo sarebbe parte reale di Pietro, e quindi nonpotrebbe più predicarsi ut totum de toto di Pietro. È proprio in questo senso che abbiamo avvertito con S. Tommaso, nei testisopra citati, che possiamo dire Petrus est homo, e Petrus est albus, ma nonpossiamo dire Petrus est humanitas o Petrus est albedo. 2. L'inconveniente di ogni realismo esagerato, sia platonico che medievale, puòesser messo in evidenza per la sua intrinseca contraddizione. Infatti, dire cheesiste una natura universale, è una contraddizione, perchè in quanto una edesistente, questa natura è ens indivisum in sé e divisum a quolibet alio, cioèsingolare; e in quanto universale, non è singolare.

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TERZA PARTE. - 1. Per esclusione. Se la natura specifica ed i principiindividuanti non si distinguono realmente, devono dirsi distinti soltanto ratione.Questa distinzione di ragione: a) non può dirsi rationis mere ratiocinantis,perchè la natura specifica ed i principi individuanti hanno definizioni diverse;b) non può dirsi rationis ratiocinatae minoris, perchè la natura specifica sipredica univocamente dei suoi individui, e perciò non contiene actu i principi,individuanti. Dunque deve dirsi rationis ratiocinatae maioris. 2. Dalla diversa separazione mentale e reale: Quelle nozioni oggettive che nelmedesimo individuo sono real-mente identificate, ma nella mente sonoconcepite come separate e in diversi individui esistono separate, sono distintedistinctione rationis maiore con fondamento nelle cose stesse. Tali devono dirsi le nozioni oggettive della natura specifica e dei principiindividuanti, perchè: a) nel medesimo individuo sono realmente identificate, giacché la naturaspecifica è predicata dall'individuo per identità reale e come un tutto di untutto; b) nella mente si concepiscono separate, poiché il concetto univoco non includeactu le proprie differenze; c) in diversi individui esistono come separati, perchè gli individui sono simili,tra loro distinti, e quindi l'uomo che è in Pietro non è l'uomo che è in Paolo, e laecceità di Pietro non è la ecceità di Paolo. A complemento della dottrina, avvertiamo che questi argomenti sono daestendersi a tutti i generi, le differenze e le specie predicamentali.

ARTICOLO TERZO

Il Realismo Modrato

(p.161-173) Senso della ricerca. - Dalle due tesi precedenti possiamo concludere allalegittimità dei tre presupposti fondamentali del Realismo moderato, ossia a) chela realtà deve dirsi simile, cioè formalmente singolare e fondamentalmente

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universale; b) che i concetti universali sono oggettivi secondo ciò che siconcepisce e non secondo il modo con cui si concepisce; c) che il modo con cuisi concepisce consiste nel non attingere le note o determinazioni individuali. È proprio del Realismo moderato distinguere un duplice universale, spiegandosia il modo con cui è acquisito da noi, sia il modo con cui si fonda nelle cose.Nel presente articolo ricercheremo se si devono ammettere due universali, e inche modo ambedue sono acquisiti; nel seguente tratteremo del loro fondamento. TESI XV. - Noi concepiamo un duplice universale, cioè il diretto ed ilriflesso; dei quali il primo si forma per astrazione precisiva totale, ed ilsecondo con semplice comparazione. Prenozióni. - Questa tesi è sistematica, e quindi deve essere spiegata conaccurate prenozioni. 1. Nella presente tesi ci limitiamo all'universale univoco, poiché ciò cheriguarda l'universale analogo si suole spiegare in altro trattato; e anzituttoasseriamo che l'universale deve distinguersi in diretto e riflesso. L'universalediretto è la natura delle cose considerata assolutamente, che nella suaintelligibile comprensione non contiene la singolarità né la pluralità, p. es.''uomo". L'universale riflesso è la medesima natura considerata relativamenteagli individui, nei quali è o almeno può essere, p.es. ''uomo in molti individui"o "uomo atto ad essere in molti individui". L'universale diretto è detto reale o metafisico, perchè secondo ciò che siconcepisce è nelle cose (prima intenzione). L'universale riflesso è detto logico,perchè una natura identica a molti, o che può essere identicamente in molti, nonsi trova nelle cose, ma solo nella mente (seconda intenzione). Col concettouniversale diretto consideriamo soltanto la comprensione, mentre col concettouniversale riflesso consideriamo la stessa comprensione rispetto all'estensione. Nota. L'universale diretto si chiama anche potenziale, materiale, negativoperchè, essendo absolutum dalle determinazioni individuali, è in potenza allaforma dell'universalità e né contiene né esclude la nota positiva di universalità.Il riflesso al contrario si chiama attuale, formale, positivo perchè ha già in attola forma di universalità e include la nota positiva di universalità La forma diuniversalità è la relazione di inerenza attuale o attitudinale ai molti. 2. L'astrazione, etimologicamente separazione di uno da un altro, si dice fisicao intenzionale secondo che è separazione nell'ordine reale o solo nell'ordine

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conoscitivo. L'astrazione intenzionale può avvenire per modum efficientiae oper modum considerationis; qui la consideriamo in quanto avviene per modumconsiderationis. Essa anzitutto è da distinguersi in negativa e precisiva: a) lanegativa, o per modum compositionis et divisionis, è quella separazione delpredicato dal soggetto che ha luogo nel giudizio negativo; b) la precisiva, o permodum simplicitatis, è l'intellectio o la consideratio unius, alio non intellectovel non considerato. Sia che si attenda a ciò che è astratto, sia che si attenda al modo con cui siastrae, l'astrazione precisiva viene a distinguersi in due modi: a) Astrazione precisiva parziale è la considerazione di una parte di un tutto, nonconsiderando le altre parti; questa astrazione si chiama formale quando di untutto, comunque composto di soggetto e forma, consideriamo la forma senza ilsoggetto, per es. quando di Pietro consideriamo l'umanità o del bianco labianchezza. b) Astrazione precisiva totale è l'intellezione della forma con il soggetto e nelsoggetto,senza intendere le note individuanti, p. es, quando di Pietroapprendiamo che è "uomo" senza apprendere la sua "petreità". In questo caso: a) si ha vera astrazione, perchè si abbandonano le determinazioni individuali; b) si ha astrazione totale, perchè ciò che si è appreso è totum de toto individuo,cioè contiene indeterminatamente, ossia implicitamente e indistintamente, tuttociò che è nell'individuo. Nota. Per determinare rettamente il senso della tesi è utile avvertire chenell'astrazione parziale: prima si fa l'apprensione confusa del tutto, poil'apprensione distinta delle parti, quindi si procede a considerare una partelasciando di considerare le altre parti; e perciò nell'astrazione parziale ciò chenon si considera, non è ignorato, cioè “remanet seorsum in intellectu nostro”.Quindi l'astrazione parziale è derivata, ossia dissociativa di un tutto giàpreintelletto. Al contrario nell'astrazione totale: a) nessuna precedente conoscenzaintellettiva è prerequisita, ma soltanto la sensitiva: come infatti nella cognizionesensibile visiva si sente spontaneamente il colore di una mela, tralasciando ilsapore; così nella cognizione intellettiva precisiva totale si apprendespontaneamente l'essenza delle cose sensibili tralasciando le determinazioniindividuali; perciò nell'astrazione totale b) ciò che si lascia non solo non è

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considerato, ma è ignorato (cioè ''non remanet seorsum in intellectu nostro").Pertanto questa astrazione è subitanea e originaria, ossia appartiene al modospontaneo con il quale noi concepiamo. 3. La comparazione è la considerazione di uno in ordine ad un altro, e puòaversi con un giudizio, cioè con il modo di composizione e divisione, o con unasemplice apprensione, cioè con il modo di semplicità. Questa semplicecomparazione può esser di due realiter relativi (padre rispetto al figlio) o di dueratione relativi predicato riguardo al soggetto, specie riguardo agli individui). 4. Da quanto abbiamo spiegato in queste prenozioni, si ricava che ilnome di astrazione secondo il senso etimologico significa separazione; masecondo l'uso filosofico nostro significa visione, ossia conoscenza penetrativadell'essenza di una cosa, in un modo un po' precisivo. Ciò supposto, asseriamo nella tesi che con l'astrazione precisiva totale daifantasmi (ossia dalle immagini sensibili interne) formiamo l'universale diretto;e che con la semplice comparazione riflessiva formiamo l'universale riflesso. Econseguentemente asseriamo che l'universale riflesso è lo stesso attualeUNIVERSALE IN ESSENDO (uno in molti o atto ad essere in molti) a cuiconsegue come proprio quell'altro universale riflesso che si chiamaUNIVERSALE IN PRAEDICANDO (uno predicato o predicabile di molti) chepuò essere inteso in cinque modi. Divideremo la prova della tesi in quattro parti. Nella prima mostreremo che sidà l'universale diretto, e nella seconda che si acquista con l'astrazione totale.Nella terza mostreremo che dà l'universale riflesso, e nella quarta che siacquista con la comparazione semplice. Le ulteriori avvertenze relativamentealla natura che da noi si concepisce, le rimandiamo al corollario. Opinioni. - Come si constata dal già detto nelle tesi precedenti, iNOMINALISTI non ammettono l'esistenza dell'universale diretto, iCONCETTUALISTI negano la sua obbiettività per quel che riguarda ciò che siconcepisce, i REALISTI ESAGERATI affermano la sua oggettività anche perquel che concerne il modo con cui si concepisce. La tesi, così come la presentiamo, dal sec. XVI è sostanzialmente comune tragli Scolastici. Solo alcuni Autori pensarono che gli universali diretti fosseroottenuti con una precisione inadeguata (che chiamarono formale) con la qualegli individui concreti sono attualmente trattenuti nel concetto, quantunque inmodo confuso.

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Inoltre occorre avvertire che al di fuori della speculazione scolastica, spessocon la parola astrazione si intende quella che noi abbiamo chiamata astrazioneparziale e dissociativa. In questo senso alcuni Filosofi moderni negano che ilconcetto universale sia acquisito per astrazione. Citiamo due esempi. SecondoROSMINI si ha l'universalizzazione attraverso l'unione dell'idea innatadell'ente alla percezione sensitiva, nello stesso atto della percezione intellettiva,mentre l'astrazione si ha attraverso l'ulteriore riflessione dissociativa. SecondoBERGSON la dottrina dell'astrazione e della generalizzazione implica uncircolo vizioso, perchè una natura non può generalizzarsi senza prima essereastratta e non può astrarsi senza prima essere generalizzata. PRIMA PARTE. - L'argomento è desunto sistematicamente dalla verità dellapredicazione. Come abbiamo sviluppato nelle tesi precedenti, si danno deiconcetti che si predicano: a) con verità delle cose, b) per identità reale di molti, c) come un tutto del tutto dei singoli. Ora è facile osservare che questi concetti sono universali diretti, nel precisosenso che abbiamo spiegato nelle pre-nozioni. Infatti questi concetti: a) perchè sono predicati con verità delle cose, attingono la natura delle cose; b) perchè sono predicati per identità reale di molti, non contengono lasingolarità; c) perchè sono predicati come un tutto del tutto dei singoli, non contengono lapluralità. Dunque sono nature assolutamente considerate, cioè universali diretti. SECONDA PARTE. - Dalla stessa natura dell'universale diretto. Per mostrareche noi acquistiamo gli universali diretti per astrazione precisiva totale, bastainizialmente mostrare che essi a) sono desunti dai fantasmi delle cose sensibilib) tralasciando le note o determinazioni individuanti. Che siano desunti dai fantasmi delle cose sensibili, qui lo si può stabilireriflettendo sulla nostra interna esperienza: siamo infatti coscienti che ogninuovo concetto noi lo ricaviamo da una nuova esperienza sensibile, e che

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sempre noi conosciamo per con-versione ai fantasmi delle cose sensibili. Che siano desunti tralasciando le determinazioni individuali, lo si puòsemplicemente stabilire dal fatto che queste determinazioni non sono contenutenei nostri universali diretti. Che poi gli universali diretti siano acquistati ignorando di tralasciarle, si puòulteriormente illustrare osservando che se noi, acquistando quei concetti,sapessimo già di tralasciare le note individuanti e di apprendere una naturacomune, non formeremmo originariamente concetti di ente reale, ma di ente diragione, ed i concetti così formati non potrebbero esser più predicati delle cose:infatti Pietro reale non è ''uomo senza i principi individuali'' e nemmeno ''unuomo comune''. Dunque l'astrazione degli universali diretti è spontanea edimmediata, cioè appartiene al modo stesso con cui naturalmente concepiamo. TERZA PARTE. - Dall'esperienza interna: Di fatto noi non solo concepiamole nature delle cose in modo assoluto, ma le concepiamo anche relativamenteagli individui nei quali sono o possono essere. Tali nature sono universaliriflessi, ossia in essendo. Dunque si danno universali riflessi ossia in essendo. La prima parte della minore si ricava dalla stessa definizione, spiegata nelleprenozioni, dell'universale riflesso; la seconda così si mostra: A costituirel'universale in essendo si richiede: a) una natura, b) comune a molti. Orbenel'universo riflesso: a) è una natura, perchè ha una unità specifica; b) comune amolti, perchè intesa attualmente come identica a molti individui. Dunquel'universale riflesso è universale in essendo. QUARTA PARTE. - Infatti, l'universale riflesso è lo stesso universale direttoconsiderato secondo la relazione di identità riguardo a molti. Dunque: a) è entedi ragione, perchè l'universale diretto è già considerato in quanto mancante dinote individuanti, ossia in quanto è nella mente; b) è costituito da una relazionedi ragione perchè, nulla essendo nella realtà identico a molti, questa relazionedi identità non può essere se non nella mente. Ciò premesso, cosìargomentiamo: Dalla stessa natura dell'universale riflesso. L'universale riflesso è ente diragione costituito da una relazione di ragione. Ma per costituire un tale ente sirichiede ed è sufficiente la semplice comparazione. Dunque l'universale riflessoè costituito dalla semplice comparazione. Riguardo alla minore: a) si richiede una comparazione, perchè la relazione di

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ragione non esiste se non quando si conosce; b) basta la semplicecomparazione, poiché per comprendere una relazione di ragione, non ènecessario. affermare o negare. Nota. Ciò può essere confermato da questo esempio: il giudizio: "l'uomo ènatura identica a molti": è falso, se uomo suppone per universale diretto o reale;è vero se uomo suppone per universale riflesso o logico. Questo giudizio veropresuppone già acquisite le semplici apprensioni con le quali è stato composto.Dunque prima del giudizio uomo già è stato concepito come universale riflesso. COROLLARIO. - Dunque la natura che da noi si concepìsce esiste in mododuplice ed è considerata in modo triplice. Ragione del primo. Le nature che apprendiamo, esistono oggettivamente o nellecose o. nell'intelletto: infatti non si dà medio tra l'ente reale e l'ente di ragione.Nel primo caso, hanno un modo di essere proprio delle cose, e così sonosingolari. Nel secondo caso hanno un modo di essere proprio dell'intelletto, ecosì sono senza condizioni materiali, cioè universali. Ragione del secondo. Non si può intendere che la stessa natura sia in mododiverso nelle cose e nella mente, senza che si comprenda quell'aspetto identicoche si trova in ambedue i modi. Questo identico è la natura considerata in modoassoluto, che per prima riluce nel concetto universale diretto. Infatti, a) perchèdiventi singolare, basta che sia considerala come reale in questo o in quelloindividuo; b) perchè diventi universale, basta che sia considerata secondo ilmodo di essere che ha nella mente. Dunque la natura che da noi si concepisceesiste in modo duplice, ma è considerata da noi in tre maniere, ossia in modotriplice: come in potenza alla singolarità ed alla pluralità come attuale nellasingolarità e come attuale nella pluralità. Per chiarificare esattamente questo corollario, rimandiamo ai testi latinicitati a p. 170; e a complemento della dottrina rimandiamo a quanto è dettonella Logica, p. 86 Nota, p. 51-52 Note, p. 53-54 Note.

ARTICOLO QUARTO

Fondamento di entrambi gli universali

(p. 174-180)

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Senso della ricerca. Spiegate quelle cose che sono pertinenti alla distinzionedell'universale diretto e riflesso e al diverso modo col quale da noi sonoacquisiti, per completare la dottrina del Realismo moderato rimane daesaminare quale sia il loro reale fondamento. Il senso di questa ricerca ècompletivo, perchè tende a sistematicamente determinare le ragioni necessarie esufficienti dell'universale diretto e riflesso, sia da parte del soggetto conoscentesia da parte della realtà conosciuta. TESI XVI. - IL fondamento soggettivo dell'univer-sale diretto è la forzaastrattiva, dell'universale riflesso la forza comparativa del nostro intelletto. Ilfondamento oggettivo di ambedue gli universali sono le cose simili, in questosenso: che il diretto si fonda in esse in modo prossimo, ed il riflesso in modoremoto. Prenozioni. - 1. Per fondamento si suole intendere qualsiasi cosa che èprerequisita perchè se ne abbia un'altra. Questa parola si applica alle coseintelligibili per similitudine alle cose sensibili. Questa similitudine può esse-reintesa in due modi: rispetto all'ordine, perchè il fondamento precede le altreparti, e rispetto alla virtuosità, perchè il fondamento sostiene tutte le altre parti(p. es. di un edificio). Il fondamento del concetto è ciò che è prerequisito per avere un concetto vero:e se questo prerequisito si trova nel soggetto conoscente, si chiama fondamentosoggettivo; se si trova nella realtà conosciuta, si chiama fondamento oggettivo.Il fondamento oggettivo di un concetto è ciò che nella cosa corrisponde alconcetto; infatti la cosa, misurando il concetto e corrispondendo al concetto, fasr che il concetto sia vero. Perchè la realtà talora immediatamente corrispondeal concetto, e talora solo mediamente, cioè mediante una cosa già primaconcepita, il fondamento oggettivo ulteriormente si distingue in immediato oprossimo, e mediato o remoto. 2. Come spiegammo nella tesi precedente, noi con i concetti diretti cogliamol'universale diretto, che è oggettivo delle cose per quanto concerne ciò che siconcepisce, non però per quanto riguarda il modo con cui si concepisce; e con iconcetti riflessi cogliamo l'univer-sale riflesso che è l'universale diretto intesocome relativo agli inferiori dai quali è stato ricavato. Nella tesi asseriamo che: a) il fondamento soggettivo dell'universale diretto è laforza astrattiva del nostro intelletto umano, e il fondamento soggettivodell'universa-le riflesso è la forza comparativa dello stesso nostro intelletto; b)il fondamento oggettivo dell'universale diretto sono le cose che sono simili tra

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loro; e il fondamento dell'universale riflesso sono le stesse cose comprese comesimili tra loro; c) e che l'universale diretto si fonda in esse in modo prossimo el'universale riflesso in modo remoto. Quindi tre parti nella prova della tesi. Opinioni. - Questa tesi è accettata da tutti quelli che ammettono la tesiprecedente, e logicamente fluisce dalla comune dottrina del Realismomoderato. PRIMA PARTE. - 1. Il fondamento soggettivo dell'universale diretto è la forzaastrattiva dell'intelletto umano. Il nostro intelletto è la facoltà spirituale chericeve il suo oggetto dai sensi. Pertanto, affinchè possa conoscere il suooggetto, deve liberarlo dalle sue condizioni materiali; ora, liberare l'oggettodalle condizioni materiali equivale ad astrarlo dalle sue determinazioniindividuanti. Dunque il nostro intelletto non può conoscere il. suo oggetto senon astraendolo dalle sue determinazioni individuali; e in questo senso ilfondamento soggettivo dell'universale diretto è la forza visivoastrattiva delnostro intelletto umano. 2. Il fondamento soggettivo dell'universale riflesso è la forza comparativadell'intelletto umano. Il nostro intelletto è una facoltà spirituale, e in quantospirituale capace di riflettere sul proprio atto e di cogliere le relazioniintelligibili esistenti fra il proprio atto e le cose. Proprio perchè è tale, puòconsiderare il proprio oggetto secondo l'essere che ha nella sua mente esecondo le relazioni intelligibili che può avere rispetto alle cose. Procedendo intal modo si può stabilire l'universale riflesso. Dunque il fondamento soggettivodell'universale riflesso è la forza riflessivo-comparativa del nostro stessointelletto. Il nostro intelletto è potenza attiva. In quanto attiva concorre allaconoscenza dell'oggetto, e in questo senso occorre cercare il fondamento degliuniversali nella stessa attività conoscitiva. In quanto passiva, dipende nellapropria conoscenza dai sensi ed è misurato dalle stesse cose sensibili; dunque aldi fuori di ogni dubbio si dà anche il fondamento oggettivo dei concettiuniversali. Abbiamo già accennato che i nostri concetti sono fondati sulle cose,in quanto corrispondono alle cose. Occorre pertanto che consideriamoaccuratamente anche in quale senso le cose si debbano dire fondanti. SECONDA PARTE. - 1. Il fondamento oggettivo dell'universale diretto è lacosa che è simile. Poiché l'universale diretto è la natura delle cose qua e estabsoluta, cioè sciolta (liberata) dalle determinazioni materiali, e quae estcommunis, è chiaro che il fondamento oggettivo dell'universale diretto è la cosa

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singolare (perchè ciò che agisce in noi è una cosa concreta) che è simile ad altrecose (poiché ci comunica quella forma comune, nella quale conviene con altrecose singolari). In questo senso occorre dire che il fondamento oggettivodell'universale diretto è la cosa singolare che è simile ad altre cose singolari. 2. Il fondamento oggettivo dell'universale riflesso sono le cose comprese comesimili. L'universale riflesso è la natura compresa come identica a molti. Unanatura può essere compresa come identica a molti, in quante le cose singolarisono comprese come convenienti nella medesima natura, cioè come simili.Dunque ciò che da parte della cosa corrisponde all'universale riflesso già sonole cose singolari comprese come simili. TERZA PARTE. - 1. L'universale diretto si fonda in modo prossimo nellecose. Infatti si fondano in modo prossimo nelle cose quei concetti che sonoimmediatamente veri della stessa cosa. Ma l'universale diretto èimmediatamente vero della stessa cosa: perchè è predicato con verità delle cosestesse. Dunque l'universale diretto si fonda in modo prossimo nelle cose. 2. L'universale riflesso si fonda in modo remoto nelle cose. Infatti sono fondatinelle cose in modo remoto quei concetti che sono immediatamente veri rispettoalla cosa come è nella mente, ma mediante la cosa come è nella mente sono verianche riguardo alle stesse cose. Tale è l'universale riflesso, perchè: a) riguardala natura della cosa come comune, in quanto precisamente mancante di noteindividuanti, ossia come concepita nella mente; dunque è immediatamente verosolo della cosa come è nella mente; b) riferisce questa natura alle stesse cosedalle quali è ricavata: dunque, mediante la cosa come è nella niente, è veroanche delle cose come sono in sé. A complemento della teoria del concetto è utile avere presenti anche leprincipali difficoltà, che nel testo si trovano dopo le singole tesi, sino alla finedel capitolo.

CAPITOLO QUARTOVERITÀ DEL GIUDIZIO

Senso e divisione del capitolo. - Come abbiamo visto nel capitolo precedente,il nostro intelletto comincia astraendo una quiddità o essenza assoluta (cioèabsolute considerata) dai fantasmi (ossia dalle immagini sensibili interne dellecose esterne), e poi procede, sempre per conversione ai fantasmi sensibili, a

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considerare queste quiddità o indirettamente come reali nei singolari, ocomparativamente come comuni a molti. Da ciò ne segue che noi possiamoprocedere a giudicare nei riguardi delle cose sensibili: a) con giudizi singolari, nei quali, facendo attenzione al singolare presente nelfantasma, della cosa significata dal soggetto predichiamo una quiddità assoluta(p. es. hic est homo); b) con giudizi universali assoluti, nei quali, della quiddità o natura significatadal soggetto predichiamo un'altra quiddità assoluta (p. es. homo est animai); c) con giudizi universali distributivi, nei quali, degli inferiori di una essenza onatura, significati indeterminatamente dal soggetto, predichiamo un'altraquiddità o nozione assoluta (p. es. omnis homo est animai). 2. Si suole comunemente avvertire che la parola iudicium nella sua primadenominazione significa l'atto del giudice che dà la sentenza (v. Forcellini); eche nell'uso filosofico si estende a significare l'atto deliamente umana che dà lasua sentenza sulla realtà delle cose, in quanto "dicit esse quod est, vel non essequod non est". Su questo atto giudicativo abbiamo già fatto alcune riflessioniiniziali nella Logica (p.es. p. 72-74); qui le riassumiamo e le completiamo, perdare fondamento a quanto verremo ulteriormente spiegando sulla verità delgiudizio. Volendo fare una breve analisi fondamentale del giudizio, è utile cominciarecol rilevare che l'atto del giudizio ci è sempre chiaramente cosciente come attovisivo, e che in questo senso esso è detto actus mentis formaliter conscius etformaliter visivus. Una ulteriore analisi ci porta ad esplicitare tre suecaratteristiche, tra loro complementari: a) che è sempre una affermazione,positiva o negativa, sull'essere della realtà; b) che è sempre un atto mentalecomplesso, in cui di una cosa, significata dal soggetto, affermiamo una nozioneintelligibile significata dal predicato (I q. 16 n. 2); c) che è una composizioneintellettiva, cioè, secondo il senso della nota espressione aristotelica, unasynthesis duorum termino rum intelligibilium tamquam unum et idem in reexistentium (cfr. De Anima, III, e. 6, 430 a 27-28). Esplicitando ulteriormente,possiamo concludere che con questo atto formaliter conscius et visivus noiconosciamo contemporaneamente: la cosa giudicata, l'atto del giudicare, e ilsoggetto giudicante; ossia, in altre parole, che l'atto del giudizio è actus mentisperfecte reflectens, in quanto a re cognita redit ad ipsum actum, et per actum adipsum subiectum a quo actus procedit (cfr. De Verit., q. 1 a. 9).

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3. Per fare una prima comparazione tra semplice apprensione e giudizio, ènecessario ricordare quanto abbiamo accennato nella Logica (p.es. p. 29-30), equanto è già stato illustrato nel capitolo precedente. Limitandoci per ora allasimplex apprehensio absoluta, possiamo dire che l'atto dell'apprendere èordinato all'atto del giudicare, e, saltem per se, non è separabile dal giudizio.L'apprensione è quindi l'atto con cui il nostro intelletto, che originariamentedipende dai sensi, comincia con l'apprendere la quiddità assoluta delle cosesenza ancora affermare o negare; il giudizio invece è l'atto con cui il nostrointelletto procede all'affermazione o alla negazione. Secondo questa fondamentale comparazione, possiamo ulteriormenteaggiungere: a) che la apprensione attingit unum, il giudizio plura ad modumunius; b) che la apprensione comincia con la conoscenza della quiddità oessenza delle cose, il giudizio si estende anche al loro essere; c) chel'apprensione attinge rem qua e est intellectui opposita, il giudizio rem quatenusintellectui oppositam, nel pieno valore secondo il quale il giudizio è attoperfettamente riflettente. Abbiamo premesso queste tre osservazióni unicamente per concludere in qualesenso si possa legittimamente dire che la semplice apprensione è atto dellamente imperfetto e viale, mentre il giudizio è l'atto della mente perfetto eterminale (il quale, come abbiamo accennato nella Logica, l. c., secondo i suoiaspetti complementari si chiama compositio et divisio, o anche compositio veldivisio, oppure semplicemente compositio o coniunctio). Da queste prime osservazioni prende le mosse la presente investigazione sullaverità del giudizio. Divideremo quindi questo capitolo in quattro articoli: nelprimo studieremo la verità del giudizio; nel secondo faremo un accenno alle sueproprietà; nel terzo tratteremo del suo motivo o criterio ultimo; nel quartocompleteremo la teoria del giudizio parlando della falsità in quanto opposta allaverità.

ARTICOLO PRIMO

La Verità Logica

Senso della ricerca. - È persuasione spontanea e comune che una cognizioneintellettiva è vera quando è conveniente o conforme alla realtà conosciuta; eche quindi la verità consiste nella convenienza o conformità tra l'intelletto e larealtà. Questa persuasione, nel suo senso ovvio, viene riflessamente giustificata

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sin dall'inizio della Critica; quindi noi ora possiamo legittimamente definire laverità come convenienza, o conformità, o adeguazione tra l'intelletto e la realtà,cioè come adaequatio intellectus et rei. Questa ultima formula ci sembra da preferirsi alle altre, purché si spieghi beneche cosa si intende significare con la parola adaequatio, e con l'applicazionedella parola adaequatio ai due termini intellectus e res. Intendiamo la parola adaequatio come convenientia perfecta duorum in aliquouno; avvertendo: a) che non si può dare adaequatio se non sono dati due terminitra loro distinti, che convengano in uno stesso, identico aspetto, b) che questaconvenienza non si può trovare nell'ordine reale materiale, ma soltantonell'ordine intenzionale intellettivo e comparativo, perchè, solo in unacognizione intellettiva comparativa, due termini realmente distinti si colgono esi vivono come convenienti in un unico medesimo aspetto. Applichiamo la parola adaequatio ai due termini intellectus e res, persignificare che l'intelletto non può cogliere questa adaequatio se noncomparando il proprio atto con la cosa, cioè riflettendo sopra il proprio attointerno e vedendolo conveniente alla cosa; e b) comparando la cosa col proprioatto e vedendola conveniente con questo atto. In altre parole con la parolaadaequatio applicata all'intellectus e alla res, intendiamo dire che la conoscenzadella verità non consiste nella sola visione diretta della cosa che si manifesta,né nella sola visione riflessa dell'atto intellettivo che conosce la cosa, ma nellacosciente unione simultanea di queste due visioni. Vogliamo così chiarificareche la verità umana, di cui noi parliamo, è la conscia convenientia intellectus etrei. Avremo occasione di spiegare un po’ più accuratamente questi primiaccenni nello sviluppo della nostra presente ricerca. Essa si può formulare in questa maniera: supposta la legittima definizione diverità, come adaequatio tra l'intelletto e la cosa, che cosa si deve precisamenteintendere per intellectus e per res? È chiaro che questa questione è destinata adeterminare sempre meglio l’essenza della nostra verità intellettiva. TESI XVII. - La verità logica è formalmente conosciuta nell'atto delgiudizio; perciò i due termini della adeguazione sono ciò che l'intellettogiudicando dice, e la realtà della cosa intesa come avente essere in sé. (p.189 - 197) Osservazioni preliminari. La presente questione è posta così come si è svoltadai primi rilievi aristotelici ai successivi ripensamenti e ampliamenti

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aristotelico-scolastici, fino ai nostri giorni. È chiaro quindi che per determinareil senso della questione, occorre anzitutto distinguere ciò che si ritienecomunemente acquisito, e ciò che ulteriormente viene ad esser problematizzato. Si ritiene comunemente acquisito: a) la ovvia distinzione, senza peròesagerarla, tra il momento apprensivo e astrattivo della quiddità e il momentogiudicativo ed assertivo dell'essere, e la qualifica della apprensione quale attoimperfetto e viale, e del giudizio quale atto perfetto e terminale, come giàabbiamo spiegato all'inizio di questo capitolo; b) la legittimità della definizionedella verità come adaequatio, e la necessità di precisare in quale senso sidebbano intendere i termini intellectus et res, come abbiamo già spiegato nelsenso della ricerca; ed infine c) che per arrivare a questa precisazione occorrericercare come si trovi la verità nella semplice apprensione e nel giudizio. Siconviene inoltre in una soluzione iniziale, cioè: che essendo l'apprensione ilmomento imperfetto e il giudizio il momento perfetto, si può genericamentedire che la verità si trovi imperfettamente nella semplice apprensione eperfettamente nel giudizio. Questa prima soluzione ha la sua importanza, e permette di risolvere concomune consenso alcune questioni sulla verità. Lascia però aperta una ulterioreproblematizzazione: i termini intellectus et res debbono esser intesi come sitrovano nella semplice apprensione, o come si trovano nel giudizio?Trattandosi di una precisazione riguardante l'essenza della nostra verità,crediamo di non dover sottrarci a questa domanda. Riconosciamo però che laquestione è ampia e difficile. In questi appunti ci limitiamo ad alcuni accenniindicativi,utili aduno studio più accurato della presentazione latina e dei suoieventuali sviluppi. Prenozioni e prove. - Riteniamo che la precisazione dei due termini debbaesser fatta spiegando come essi sono conosciuti nell'atto del giudizio. Siamoportati a questa conclusione non soltanto perchè il giudizio è l'atto perfetto e laverità è la perfezione propria del nostro intelletto, ma anche perchè crediamoche la verità non è da noi formalmente conosciuta nel momento viale dellasemplice apprensione astrattiva, ma soltanto nel momento terminale delgiudizio assertivo. A. Per giustificare questo riconoscimento occorre anzitutto una chiarificazionedi terminologia. Una perfezione esiste formlmene quando esiste in atto (estactu) secondo il senso proprio della sua defizione. Ciò premesso, avvertiamoche la verità, che definiamo adaequatio intellectus et rei, esiste formalmentequando, secondo il senso proprio della sua definizione, è conscia convenientia

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intellectus et rei, come abbiamo già accennato nel senso della ricerca; cioè, inaltre parole, che la verità esiste formalmente soltanto nell'intelletto in quantoconosciuta. Alla luce di questo principio, procediamo ad esaminare se essaesiste in quanto conosciuta nel momento dell'apprensione, o solo nel momentodel giudizio. E rispondiamo: a) che non è ancora conosciuta nel momento dellaapprensione, perchè in quel momento formiamo il concetto di una quidditàsenza ancora affermare o negare, cioè senza ancora pronunciarci se esiste cosìcome noi l'abbiamo conosciuta, ossia senza fare comparazione tra l'atto delnostro intelletto e la realtà come essa è in sé; b) che è indubbiamente conosciutaall'atto del giudizio, perchè in questo atto, che è perfecte reflectens,compariamo simultaneamente la cosa conosciuta con l'atto con cui laconosciamo, consciamente vedendo la convenienza dell'intelleto e: della cosa, eprecisamente in questo senso affermando o negando. Crediamo quindi di poterlegittimamente concludere che la verità esiste formalmente solo nell'atto delgiudizio. Per un ulteriore complemento di questo argomento, si veda il testo ap. 192-193. B. Se la verità non si trova formalmente se non nell'atto del giudizio, è chiaroche la precisazione dei due termini deve esser fatta nel senso in cui sonoconosciuti nel giudizio. Per illustrare questa precisazione è utile premettere due altre chiarificazioniterminologiche, richiamandoci ad una caratteristica del giudizio a cui abbiamoaccennato fin dall'inizio. L'espressione ciò che l'intelletto giudicando dice nonsi riferisce al giudizio in quanto operatio, ma all'operatum, cioè quel verbointerno complesso che in Logica (p. es. p. 74) abbiamo chiamato enunciazionementale; l'espressione la realtà della cosa come essa è in sé si riferisceall'oggetto del giudizio in quanto indipendente e misurante il giudizio, cioè allarealtà giudicata in quanto esistente in sé, o considerata in quanto avente esserein sé. Ricordiamo che è caratteristica propria del giudizio quella di essereinterna compositio mentalis subiecti et praedicati tamquam unum et idem in reexistentium. Proprio secondo questa caratte-ristica intendiamo ora provare chela parola intellectus significa "ciò che l'intelletto giudicando dice" e che laparola res significa "la cosa intesa come avente essere in sé". Svolgeremo la prova cominciando con una osservazione preliminare. È chiaroche per conoscere una adaequatio, il nostro intelletto deve vedere i due terminidella adeguazione come tra loro distinti, perchè, solo avendoli presenti comedistinti, può crederli in un medesimo aspetto convenienti. Quindi perchè ilnostro intelletto conosca la sua adeguazione alla cosa, deve compararel'intellectus e la res in quanto gli si presentano come distinti. Si presentano

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come distinti quando si conosce ciò che è proprio della cosa e che l'attointellettivo non ha, e ciò che è proprio dell'atto intellettivo e che la cosa non ha.Ciò che è proprio della sola cosa, è il suo essere indipendente e misurante ilgiudizio, perchè questo suo essere la cosa non lo riceve dal giudizio. Ciò che èproprio del solo suo atto intellettivo è la mentale composizione di soggetto epredicato, perchè nella cosa soggetto e predicato non si compongono, ma siidentificano. Dunque nel giudizio i due termini si presentano come distinti inquanto la cosa è intesa come avente essere in sé, e l'atto intellettivo è intesocome interna composizione mentale. È chiaro che questa composizione mentalenon è compresa come adeguata alla cosa secondo che è una operazionesoggettiva, perchè la operazione soggettiva è spirituale mentre la cosa spesso èmateriale. Dunque è compresa come adeguata alla cosa secondo ciò chegiudicando dice, come verbo complesso obbiettivo, cioè in quanto affermanteche la cosa è come realmente è. Possiamo quindi legittimamente concludere cheil termine res è la cosa intesa come avente essere in sé, e che il termineintellectus è l'atto intellettivo inteso secondo ciò che giudicando dice. Per unulteriore complemento di questo argomento, rimandiamo al testo, p. 193-194. Nota. 1. La dottrina che abbiamo svolto è accennata in vari testi aristotelici. S.Tommaso la fa sua non solo nei Commentari ma in tutte le sue principali opere.Gli argomenti sono vari secondo le questioni toccate, come si può vedere a p.191-192; a noi sembra che l'aspetto fondamentale si trovi nei testi della Sommae De Veritate. 2. In questi appunti abbiamo sviluppato la questione della essenza della veritàsecondo una formulazione che ci sembra più semplice; per una formulazio-nepiù ampia, si veda a p. 188-189 e 219-222.

ARTICOLO SECONDO

Proprietà della Verità

(p. 197-202) Senso della ricerca. - Impostando la questione del Relativismo universale, sicomincia col distinguere ciò che noi conosciamo ed il modo con cui noiconosciamo, concedendo che la nostra verità è relativa secondo il modo con cuinoi conosciamo, e impostando la questione solo riguardo a ciò che noiconosciamo. In questo senso impostata, la questione è risolta rilevando che ilRelativismo universale è di fatto impossibile e teoreticamente contradditorio, e

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concludendo che la nostra mente è naturalmente ordinata alla verità assoluta. Ciò premesso e presupposto, è conveniente completare la teoria della veritàricercando, sempre in modo generico, in che senso la nostra verità si debba direassoluta ed immutabile o relativa e mutevole. TESI XVIII. - La verità della nostra mente, oggettivamente intesa, èassoluta ed immutabile; soggettivamente intesa, è relativa e mutevole.Quindi ogni nostra proposizione vera, nella sua determinata significazioneoriginaria, deve dirsi invariabile. (p.197 - 202). Osservazioni preliminari. - Anche in questa tesi, da-ta la sua non facilecomplessità, procederemo come nella tesi precedente, in modo sommario edintegrativo. Per illustrare il suo senso, cominceremo col dire che tra i nostriAutori la questione è proposta sotto diversi aspetti, che però sono tra lorocomplementari. Alcuni cominciano osservando che una proposizione, quando afferma unoggetto come esso è in sé, deve dirsi vera, perchè in questo caso il predicatorealmente conviene al soggetto; ed ulteriormente osservano che ogniproposizione, in quanto applica un predicato intelligibilmente determinato adun soggetto determinatamente esistente, deve dirsi invariabilmente oimmutabilmente vera, perchè come ciò che determinate est, impossibile est nonesse, così ciò che determinate fuit, impossibile est non fuisse. Ciò supposto, pongono la questione se la nostra verità possa ammettere gradi. Eper risolvere esattamente la questione cominciano col distinguere tra veritàformaliter e materialiter spectata. La verità di una proposizione è formalmenteintesa, quando la si intende secondo il suo oggetto formale, cioè secondoquell'aspetto che è considerato nell'attuale affermazione; è materialmenteintesa, quando la si intende secondo il suo oggetto materiale, cioè secondoquegli aspetti che di fatto l'oggetto ha in sé, ma che non sono consideratinell'attuale affermazione. Premessa questa distinzione, concludono a) che la verità formalmente intesanon ammette gradi, per-chè se l'aspetto considerato nell'affermazione non cifosse nell'oggetto, la proposizione sarebbe oggettivamente falsa, se invece c'è,la proposizione è oggettivamente vera, cioè non più vera o meno vera, masemplicemente vera; b) che la verità materialmente intesa ammette gradi,perchè una proposizione vera che considera meno o più aspetti dell'oggetto, sipuò dire meno o più adeguata all'oggetto, e in questo senso meno o più vera. A

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chiarificare questa conclusione si fa questo esempio: se si dice che "Dio èmotore immobile, sommamente semplice, infinito", si ha più verità di quandosoltanto si dice che "Dio è motore immobile". Questa spiegazione è proposta p. es. dal GENY (Critica, th. III-V) e dalNABER (Critica, p. 207 Assertum III e th. 7). Prenozioni e prove. - Nella presente tesi sviluppiamo la questionecominciando col distinguere tra veritas obiective e subiective accepta, emostrando che nel primo caso la nostra verità deve dirsi absoluta et immutabilise nel secondo caso relativa et mutabilis; quindi applichiamo la teoria dellaveritas obiective accepta al problema della invariabilità delle nostreproposizioni in quanto determinatamente vere. Per comprendere la terminologia che usiamo nella tesi, è utile avvertire cheessa si pone nell'ambito della generale teoria della potenza ed atto, in cui laverità è considerata come atto, cioè come forma o perfezione dell'intelletto, el'intelletto come potenza, cioè come soggetto che in sé riceve la verità. Inquesto senso, la verità oggettivamente intesa è la forma della verità intesa nelsuo oggettivo contenuto intelligibile, secondo la sua generica accezioneessenziale; la verità soggettivamente intesa è la forma della verità intesa come èricevuta nel nostro intelletto umano, in quanto specificamente edindividualmente tale. Le due prime asserzioni della tesi si possono provare coiseguenti argomenti: 1. Dalla nozione di forma: La verità oggettivamente intesa è una formaoggettivamente considerata come essenza avente un suo proprio e determinatocontenuto intelligibile, cioè come avente questo contenuto e niente altro diequesto contenuto. Ora una essenza oggettivamente considerata in quanto aventeil suo contenuto e niente altro che il suo contenuto, è oggettivamente assolutaed immutabile. Dunque la verità oggettivamente intesa è assoluta edimmutabile (come ogni quidditas absolute considerata, che è ciò che è, e nientealtro che ciò che è). Nota. A ulteriore chiarimento e sviluppo dell'argomento, è utile rilevare checome ciò che si dice della nozione oggettiva dell'ente, p.es. che è uno, vero ebuono, deve esser detto di ogni ente particolare; così ciò che si dice dellanozione oggettiva di verità, p.es, che è assoluta ed immutabile, deve dirsi diogni verità particolare. 2. Dalla natura del soggetto ricevente: La verità soggettivamente intesa è la

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verità intesa carne è ricevuta nell'intelletto. Essa deve perciò dirsi: a) relativa,perchè quidquid recipitur, per modum recipientis recipitur, e perciò la verità, inquanto ricevuta nell'intelletto nostro, ha il modo umano, e quindi leimperfezioni e limitazioni proprie della nostra umana potenzialità intellettiva(p. es., di esser ricevuta in un atto componente e dividente, il quale è formatocon concetti astratti, che possono essere adeguati alla realtà, ma non possonoessere perfetta-mente comprensivi della realtà, ecc.); b) mutevole,perchèformae mutantur secundum mutationem subiecti, e perciò la verità, in quantoricevuta nell'intelletto umano, subisce la mutabilità del nostro intelletto (ilquale, come ci attesta l'esperienza interna, passa dalla verità alla falsità, o dauna verità ad un'altra verità, o da un grado minore di verità ad un gradomaggiore, ecc.). 3. Applicazione alla proposizione vera. - Quando si parla di proposizionevera, si deve distinguere l'atto interno dei giudizio e ciò che con questo attointerno esprimiamo, che è il determinato significato oggettivo dellaproposizione stessa. Questo determinato significato oggettivo non è altro cheuna verità oggettivamente intesa, la quale è sempre assoluta ed immutabile,cioè invariabile. In questo senso è legittimo concludere che ogni proposizionevera, nella sua determinata originaria significazione, è invariabile. Sono quindi da dirsi invariabili anzitutto le proposizioni in materia necessaria;e poi anche le proposizioni in materia contingente, in quanto significantil'oggetto esistente nel determinato momento in cui è stato affermato. Èprecisamente in questo senso che la proposizione "Socrate siede" si puòlegittimamente dire invariabile (come brevemente accenniamo nel testo, p.201-202),

ARTICOLO TERZO

Criterio della Verità

Senso della ricerca. - 1. Il nome di criterio (che dal greco si traduce in latinoiudicatoriunì o discretorium) secondo la sua prima denominazione significamedium per quod vel secundum quod iudex ad sententiam adducitur. Nell'usofilosofico è ciò che è prerequisito per fare un giudizio certo, e si distingue insoggettivo, o mezzo del quale si serve il soggetto, ed oggettivo, o normasecondo la quale il soggetto giudica. Il criterio oggettivo è a) speculativo o pratico, se serve a discernere il vero dal

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falso o il bene dal male; b) prossimo o ultimo, se suppone un altro criterio onon ne suppone nessuno; c) particolare o universale se vale per qualche verità oper tutte le verità (e in questo senso il criterio ultimo coincide col criteriouniversale). Il problema del criterio si pone successivamente per gradi. Esso cominciaricercando se esiste un criterio valido per conoscere la verità, ed inizialmente sirisolve constatando esplicitamente che conosciamo certamente qualche verità, equindi senza dubbio abbiamo un valido criterio per conoscerla. Ulteriormenteprocedendo, rileviamo che se conosciamo qualche verità, abbiamo senzadubbio un criterio particolare, e quindi anche un criterio prossimo. Per il fattopoi che ogni criterio prossimo suppone un criterio in cui ultimamente si fonda,possiamo concludere che esiste un criterio ultimo, il quale, appunto perchèultimo, è anche generale. 4. Alle singole investigazioni scientifiche compete ricercare quali siano i criteriparticolari e prossimi; alla investigazione filosofica compete ricercare quale siail criterio generale ed ultimo. TESI XIX. - Il criterio ultimo e generale delle verità da noi conosciute è lagenuina evidenza oggettiva; le teorie che si oppongono, o propongono uncriterio inadatto, o in ultima analisi si fondano sulla stessa evidenza. (p.203-213) Prenozioni. - 1. Che cosa si debba intendere per criterio, e quali siano le sueprime divisioni, è già stato spiegato nel senso della ricerca. Qui è utileaggiungere, per evitare confusioni terminologiche, che il criterio ultimo puòesser inteso in sensu stricto ed in sensu lato. Il criterio in senso stretto,appartiene all'ordine del giudizio, ed è la verità alla cui luce giudichiamo delleconclusioni (e questa è la veritas primorum principiorum, come spiegheremopiù avanti). Il criterio in senso più largo appartiene all'ordine della sempliceapprensione comparativa, ed è il motivo oggettivo alla cui luce ci determiniamoal giudizio vero. Di questo criterio noi parliamo nella presente tesi. 2. Il nome di evidenza oggettiva, desunto dalla chiarezza visibile delle cose,nell'uso filosofico si estende a significare la chiarezza intelligibile delle cose; epoiché la chiarezza intelligibile di una cosa da enunciare non può esser altro che laobiettiva necessità dell'enunciabile, noi qui per evidenza intendiamo lanecessità oggettiva dell'enunciabile in quanto manifesta alla mente. Intesa in

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questo senso, l'evidenza principalmente si fonda nell'oggetto (perchè lanecessità dell'enunciabile si fonda nella necessità della cosa); ma implica,anche una relazione al soggetto (perchè se non fosse manifesta alla mente, nonpotrebbe determinare la mente al giudizio certo). 3. L'evidenza oggettiva si suole distinguere in evidenza di verità ed evidenza dicredibilità. L'evidenza di verità è l'evidenza interna allo stesso enunciabile, epuò essere immediata (tra due termini) o mediata (nelle conclusioni).L'evidenza di credibilità è la evidenza estrinseca all'enunciabile, ed è l'evidenzadella scienza e veracità del testificante, come spiegheremo più avanti. 4. Nella tesi asseriamo che l'evidenza oggettiva è l'ultimo e generale criteriodella verità, in questo senso: che il nostro intelletto a) non può dare l'assenso aduna enunciazione testificata, se non dopo aver conosciuto con evidenzaintrìnseca la scienza e la veracità del testificante; b) non dà l'assenso alleconclusioni mediate, se non quando le vede risolte in alcune prime premessefondate in una evidenza immediata; c) che dà l'assenso agli enunciabili fondatinella evidenza immediata, perchè questa evidenza requiritur et sufficit adeliciendum iudicium certum. Conseguentemente a questa affermazione,asseriamo nella tesi che la certezza della evidenza è una certezza naturale. Dividiamo quindi la prova della tesi in due parti: nella prima espliciteremo chel'evidenza è il criterio ultimo della nostra verità; nella seconda mostreremo chele teorie opposte all'evidenza, o propongono un criterio inadatto o si fondanonella stessa evidenza che negano. Opinioni. - Anzitutto è utile ricordare che nella filosofia antica SESTOEMPIRICO, in polemica con gli Stoici e con i Peripatetici, propose e determinòaccuratamente il problema del criterio, concludendo però che non consta che cisia dato un criterio valido. Volendo fare una sintesi delle opinioni, anzitutto ricorderemo che la teoria cheammette il criterio della evidenza oggettiva, è comune nella tradizionefilosofica a tutti quelli che aderiscono al Realismo intellettualistico (non ostanteuna differenziazione terminologica tra criterio strettamente o più largamenteinteso, come abbiamo già detto nelle prenozioni). Le negazioni dell'evidenza intelligibile oggetti-va si possono generalmentedistinguere secondo che propendono per un criterio soggettivo o per un criterionon intellettivo.

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Al criterio soggettivo, cioè all'attività soggettiva concepita come produttivadell'oggetto conosciuto, propendono: a) nella filosofia antica Protagora, checonsiderava l'uomo come misura di tutte le cose, e dopo di lui quegli altriantichi i quali reputavano che la natura delle cose da noi conosciute consistessenel loro sentiri vel opinari (cfr. In IX Metaph., lect. 9 n. 1800); b) nella filosofiamoderna Kant nella Critica della ragion pura, in quanto considera l'oggettocome costruito dalla attività formale a priori, e quegli Idealisti moderni checoncepiscono l'attività trascendentale come integralmente produttrice di ognioggetto. Al criterio non intellettivo propendono gli Antiintellettualisti che asseriscono ilprimato di lucidità di quelle attività che essi sostituiscono all'intelletto, cioè a) ola chiarezza della intuizione sopraconcettuale, e non concettualizzabile, b) o laforza manifestativa dell'esperienza infraconcettuale non subordinataall'intelletto, cioè l'esperienza volitiva, emozionale, puramente pratica, vitale edesistenziale. 3. All'inizio della filosofia moderna la questione del criterio è stata vividamentesuscitata da DESCARTES, il quale, considerando che la certezza del Cogitoergo sum era fondata nel solo fatto che questa affermazione gli apparivachiaramente e distintamente, giudicò di poter prendere come regola generaleche tutto ciò che vedeva ben chiaro e ben distinto, era tutto vero, e così finì conassumere il criterio della idea chiara e distinta. Dopo Descartes altri ripresero il problema, p. es. JACOBI e la sua Scuola, iPRAGMATISTI ecc.; per brevità rimandiamo a quanto è accennato nel testo, p.205-206. PRIMA PARTE. - Questa prima parte si può esplicitare dalla comunepersuasione umana, secondo la quale sempre viviamo; quando infatti vogliamogiustificare le nostre affermazioni immediate, ricorriamo sempre alla loroevidenza. Si può riconfermare questa nostra spontaneità avvertendo: che noinon siamo certi se non quando vediamo che ad un determinato soggetto si deveapplicare un determinato predicato, escludendo il predicato contradditorio;cioè, che noi non siamo certi se non quando giudichiamo alla luce del principiodi non contraddizione, ossia alla luce di una evidenza oggettiva in cui vediamol'oggetto ita et non aliter. In auesto senso qui presentiamo due argomenti, unopreparatorio dell'altro. Il primo si ricava dall'esperienza interna, e si può brevemente presentare così:Quando considerando l'oggetto, esso ci appare ne e esse ita ne e esse aliter,

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rimaniamo nel dubbio; quando ci appare potius ita quanti aliter, siamo inclinatialla opinione; quando lo vediamo ita et non aliter, siamo certi. Ora vederel'oggetto ita et non aliter è lo stesso che vederlo nella sua necessità oggettiva,cioè nella sua evidenza oggettiva. Possiamo quindi concludere: Quando nonvediamo l'evidenza oggettiva, rimaniamo sempre incerti; quando invece lavediamo, siamo sempre certi. Dunque l'ultimo e generale criterio di verità èl'evidenza oggettiva. Il secondo argomento si ricava dalla natura del nostro intelletto umano, e tendea concludere a quel concetto di evidenza che abbiamo definito nelle prenozioni: Ciò che requiritur et sufficit al nostro intelletto per esser portato a fare ungiudizio certo, deve dirsi l'ultimo e generale criterio della nostra verità. Ora ilnostro intelletto a) è una facoltà visiva e necessaria, b) che giudica percomposizione di concetti. Perchè a) è una facoltà visiva e necessaria, si richiedeed è sufficiente la manifesta necessità dell’oggetto; perchè b) è giudicativo percomposizione di concetti, si richiede ed è sufficiente che questa necessitàdell'oggetto si manifesti nella apprensione comparativa di un enunciabile,Dunque l'ultimo e generale criterio della verità è la necessità oggettivadell'enunciabile in quanto manifesta alla mente. Ad ulteriore chiarificazione, è utile ricordare che, nell'ordine conoscitivo, ilcriterio è motivo cioè causa, ed il giudizio è motivato, cioè causato. Ora lacausa deve dirsi, almeno natura prius, precedente il suo effetto. Da ciò ne segueche la necessitas obiectiva enunciabilis deve esser manifesta prius quamiudicium eliciatur. Dunque deve dirsi manifesta nella semplice apprensionecomparativa che precede l'atto del giudizio (cfr. anche il testo, p. 211, 3). SECONDA PARTE. - La certezza di conoscere la verità è una certezzanaturale. Siccome non si può conoscere la verità senza un valido criterio, anchela certezza del criterio deve dirsi certezza naturale. Ora, come il problema dellacertezza della verità si risolve esplicitandola e poi difendendola conargomentazioni indirette, p. es. osservando che chi la nega o nulla dice o sicontraddice: così proporzionalmente il problema della certezza del criterio sirisolve prima esplicitandola e poi difendendola, p. es. osservando che chi lanega o propone un criterio inadatto, o si fonda sullo stesso criterio che dice dinon accettare. Abbiamo già accennato che le negazioni dell'evidenza intelligibile oggettiva sipossono sintetizzare in tendenze che propendono 1) o a un criterio soggettivo,cioè all'attività soggettiva produttrice dell'oggetto, 2) o ad un criterio non

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intellettivo, cioè di ordine sopralogico o infralogico. Riguardo a queste duefondamentali tendenze, qui proponiamo due brevi argomentazioni indirette eduna applicazione. 1. Il criterio dell'attività soggettiva, a) se si propone radicalmente, si deve direinadatto, perchè ripone la misura della verità nel soggetto conoscente, e quindinon dà la possibilità di conoscere la verità assoluta, delle nostre affermazioni;b) se non si propone così radicalmente, e quindi si ammette che lecaratteristiche del soggetto conoscente e dell'oggetto conosciuto si consideranocome si manifestano alla nostra riflessione, cioè come misuranti la nostrariflessione, è necessario concedere che in questi casi si procede alla luce di unaevidenza oggettiva. 2. Il criterio non intellettivo dà il primato o ad una intuizione di ordinesopralogico, o ad una vis manifestativa di ordine infralogico. Il criterio di una intuizione sopralogica, a) se si propone radicalmente, devedirsi inadatto, perchè sarebbe radicalmente estraneo alla concettualizzazione edalla coerente argomentazione che è propria della umana filosofia; b) se non sipropone così radicalmente, e quindi la teoria del criterio si fonda in alcuneconsiderazioni filosofiche preparatorie e determinanti, è necessario concedereche in questi casi la teoria si propone come fondata in qualche evidenzaoggettiva. Il criterio della intenzionalità infralogica, a) se si propone radicalmente, devedirsi inadatto, perchè la sola volontà, o la sola emozione, o la sola azione vitaleecc., non sono sufficienti a distinguere tra vero e falso; b) se non è propostocosì radicalmente, cioè se la teoria del criterio è preceduta da alcune previedeterminazioni intellettive, è necessario concedere che in questi casi la teoria sipropone come fondata in qualche evidenza oggettiva. 3. Supponendo questi argomenti generali, è agevole passare alla critica delleopinioni particolari. Per quanto riguarda il criterio dell'idea chiara e distinta,così possiamo procedere: O la chiarezza e distinzione dell'idea si propone comeantecedente alla cosa reale e prescindente da essa; o si prende insieme alla cosareale e come manifestazione della cosa per mezzo della idea. Nel primo casodobbiamo dire che si propone un criterio non adatto, perchè ciò che antecede larealtà e prescinde da essa non può essere criterio per giudicare la cosa, e perchèla chiarezza e la distinzione della idea che non proviene dalla cosa, si dovrebbedire proveniente dall'attività della mente producente l'idea, e così si dovrebbeconcludere che la misura della verità viene attribuita alla attività soggettiva che

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produce l'idea. Nel secondo caso si propone un criterio che con buonaterminologia si riduce agevolmente alla evidenza oggettiva. Per brevità rimandiamo la considerazione delle altre opinioni al testo, p.209-210.

ARTICOLO QUARTO

La Falsità Logica

Senso della ricerca. - Abbiamo visto che il nostro intelletto è vero quando diceessere ciò che è, o non essere ciò che non è; e che quindi la verità si puòlegittimamente definire come adeguazione o conformità tra l'intelletto e la cosa.Da ciò ne segue che il nostro intelletto è falso quando dice essere ciò che non è,o non essere ciò che è; e che quindi la falsità si può legittimamente definirecome inadeguazione o difformità tra l'intelletto e la cosa. Ciò supposto, è chiaro che per completare la dottri-na sulla verità occorre anchetrattare del suo opposto, cioè della falsità. Come si può ricavare dagli articoliprecedenti, tre domande si presentano spontaneamente nei riguardi della falsità:anzitutto quale sia il senso preciso della sua definizione; poi in che modo siopponga alla verità; ed infine, in quale atto della nostra mente essa si trovi. TESI XX. - La falsità, che è difformità positiva tra l'intelletto e la cosa, sioppone in modo contrario alla verità ed esiste formalmente nell'atto delgiudizio. (p. 214-219) Prenozioni. - 1. La difformità tra l'intelletto e la cosa si può intendere in modonegativo o in modo positivo. La difformità negativa si ha quando l'intellettonon dice tutto ciò che c'è nella cosa, sebbene ciò che dice si trovi nella cosa;cioè quando l'intelletto è adeguato alla cosa, ma non è comprensivamenteadeguato alla cosa. La difformità positiva si ha invece quando ciò chel'intelletto dice della cosa, di fatto nella cosa non c'è. Secondo questo sensointendiamo mostrare nella prima parte che la falsità è positiva difformità tral'intelletto e la cosa. Nella Logica (p. 42-43) abbiamo già accennato che l'opposizione reale èquadruplice, cioè contradditoria, privativa, contraria e relativa; ed abbiamoanche proposto un'accurata definizione di queste quattro opposizioni.Supponendo che la falsità è difformità positiva, nella seconda parte intendiamo

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mostrare che la falsità è contrariamente opposta alla verità. Nella tesi decima settima, in prenozioni e prove, abbiamo già spiegato che unaforma esiste formalmente quando esiste in atto secondo il senso proprio dellasua definizione. È utile rilevare che altro è dire che una forma è per se ordinataad esser ricevuta in un soggetto, ed altro è dire che questo soggetto è per seordinatus a ricevere in sé questa forma. Nella tesi noi semplicementeaffermiamo che la falsità è per sé ordinata ad esser ricevuta nell'intelletto, epropriamente nell'intelletto giudicante; ma in nessun modo intendiamo dire cheil nostro intelletto, e particolarmente l'intelletto giudicante, è per sé ordinato aricevere in sé la falsità. In questo senso nella terza parte asseriamo che la veritàsi trova formalmente nel giudizio; poi passeremo a fare un'ultima conclusionesulla nostra cognizione della falsità. Opinioni. - La tesi si pone nell'ambito del Realismo intellettualistico, e quindiè accettata da quanti ammettono questo Realismo; non è invece accettata daquelli che negano la conoscenza di una verità assoluta, cioè misurata dall'esseredelle cose. In particolare si può dire che a) gli Idealisti che identificano ilprocesso reale col processo ideale, e concepiscono questo processo ideale comesviluppo dialettico, concludono che la falsità è momento negativo necessarioallo sviluppo della verità, e b) i Relativisti che non concepiscono altra veritàassoluta che quella integralmente comprensiva di tutte le cose, concludono chenelle nostre affermazioni umane falsità e verità si trovano mescolate, senzadefinitiva possibilità di discernimento. PRIMA PARTE. - Dalla distinzione tra atto vero ed atto falso. Supponendo,alla luce del principio di non contraddizione, che nell'atto intellettivo vero c'è laverità e nell'atto intellettivo falso c'è la falsità, così possiamo argomentare: Quando un atto intellettivo ha soltanto difformità negativa col suo oggetto, inciò che afferma dell'oggetto è adeguato all'oggetto stesso; e quando è adeguatoall'oggetto, l'atto intellettivo è vero, e quindi in esso c'è la verità e non la falsità.Dunque la falsità non si può dire che sia pura difformità negativa. Quandoinvece l'atto intellettivo ha difformità positiva col suo oggetto, cioè affermadell'oggetto ciò che nell'oggetto non c'è, allora il giudizio è semplicementefalso, e mai vero. Dunque la falsità è positiva difformità tra l'intelletto e la cosa. SECONDA PARTE. - 1. Supposto che l'opposizione sia quadruplice,possiamo anzitutto procedere per esclusione. Infatti, l'opposizione tra verità efalsità: a) non si può dire contradditoria, perchè i contradditori si oppongonocome ente e non ente, nulla lasciando che sia comune: ora la falsità si oppone

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alla verità lasciando in comune il soggetto, cioè l'intelletto; b) non si può direprivativa, perchè i privativi si oppongono in quanto uno ha una forma e l'altroquesta forma non l'ha: ora non si può dire che l'intelletto sia falso unicamente inquanto non ha la forma di verità: perchè l'intelletto che ignora, non ha la formadi verità, ma non per questo si può dire falso; c) non si può dire relativa, perchènoi conosciamo che l'atto intellettivo è vero o falso, comparandolo con la cosa,dalla quale è misurato e condizionato: e non comparandolo con un altro attointellettivo. Dunque l'opposizione tra verità e falsità si deve dire contraria. 2. Dalla nozione di contrari: I contrari sono forme positive, che convengono nelmedesimo genere, ma che si escludono dal loro soggetto proprio. Ora la verità ela falsità: a) sono due forme positive, cioè positiva conformità e positivadifformità; b) convengono nel medesimo genere, cioè nel genere della semplicequalità intellettiva; c) si escludono dal loro proprio soggetto, perchè l'attointellettivo non può simultaneamente essere vero e falso. Dunque la falsità ècontrariamente opposta alla verità. TERZA PARTE. - Dalla identità del soggetto: I contrari sono per se ordinatiad esser ricevuti nello stesso prossimo soggetto. Ora, come abbiamo già detto,la verità esiste formalmente nell'atto del giudizio. Dunque anche la falsità esisteformalmente nell'atto del giudizio. Nota conclusiva. Se verità e falsità sono tra loro contrarie, si deve dire che,supposta la differenza, hanno le medesime caratteristiche generali. Abbiamospiegato che la verità esiste formalmente come conosciuta nell'atto del giudiziovero. Dunque anche la falsità esiste formalmente come conosciuta nell'atto delgiudizio falso. Ma non si può dire che esiste nel giudizio falso evidentementeconosciuta come difformità (perchè in questo caso non proferiremmo ilgiudizio falso, ma sospenderemmo l'assenso). Dunque si deve dire che esistenel giudizio falso illusoriamente conosciuta come conformità (perchè ilgiudizio falso, cioè erroneo, come spiegheremo anche più avanti, è sempre inqualche modo un giudizio illusorio). A complemento della teoria, ricordiamo che per una formulazione più ampiadel problema si può vedere quanto diciamo nel testo, p. 213-214 e 219-222.

CAPITOLO QUINTOVERITÀ DEL RAZIOCINIO

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Senso e divisione del capitolo. - 1. Dopo lo studio sulla verità del concetto, esulla verità del giudizio in quanto composizione mentale di concetti nella qualeconosciamo formalmente la verità, possediamo esplicitamente tutti gli elementinecessari per lo studio sistematico del raziocinio. 2. L'esistenza del raziocinio è ricavata dalla nostra esperienza interna. Infatti,constatando che noi facciamo dei rigorosi raziocini e che con alcuni di questiperveniamo sicuramente a conoscere nuove verità, ci certifichiamoesplicitamente che noi abbiamo la capacità di fare raziocinii rigorosi e veri. Ilfatto del raziocinio non si può dimostrare, perchè ogni tentativo di dimostrare ladimostrazione si risolverebbe in una petizione di principio. Si può però sempredifendere, ogni volta che, chi nega il raziocinio, dà una ragione di questa suanegazione; perchè questa ragione non può essere altro che un raziocinio. 3. Con queste osservazioni si fonda lo studio del raziocinio, e si preparano leulteriori ricerche. Queste ricerche possono riguardare sia la veritasconsequentiae, cioè la rigorosità formale della argomentazione, sia la veritasconsequentis, cioè la legittima verità delle conclusioni. Le ricerche siriferiranno principalmente alla argomentazione deduttiva, ma saranno esteseanche a quell'organico complesso di giudizi che chiamiamo induzioneargomentativa. Divideremo quindi il presente capitolo in quattro articoli. Nelprimo considereremo la nostra argomentazione in quanto tale e in quantodeduttiva, per giustificarla nel suo aspetto formale; nel secondo e nel terzo,supposta questa giustificazione, riercheremo quali siano le verità che fondanole nostre conclusioni vere, e così tratteremo dei primi principi e del loro primofondamento, che è il principio di non contraddizione. Infine nel quarto articolocompleteremo la teoria del raziocinio svolgendo la teoria dell'induzione, sia percompletare la teoria dei principi, sia per spiegare il valore di quella induzioneargomentativa che ha sempre avuto un ruolo decisivo nel progresso dellescienze. Nota introduttoria. La teoria del raziocinio ha per noi speciale importanza, equindi crediamo utile accennare qui in anticipo secondo quali considerazioniessa si svolge, in modo da rendere poi chiare le conclusioni a cui termina. Abbiamo già accennato che noi formiamo i concetti universali liberandoli dallemateriali condizioni individuanti, e che noi formiamo i giudizi nei qualiriflettiamo completamente sopra noi stessi. Da queste ed altre constatazioni, asuo luogo si proverà che l'anime nostra, intellettiva e volitiva, è una formaspirituale attuante una materia corporale. Possiamo quindi anche noi parlaredella spiritualità del nostro intelletto.

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Da ciò si deduce che il nostro intelletto, a) in quanto facoltà di un'animaspirituale, che è al di sopra della materia, e quindi della molteplicità spaziale edella contingenza temporale, spontaneamente astrae dalle cose sensibili il loroaspetto stabile e necessario, cioè l'universale; b) in quanto facoltà di un'animaattuante una materia corporale, segue nel suo conoscere il modo di attuarsisuccessivo, cominciando dalle nozioni più semplici e procedendo alle nozionipiù complesse, cioè dal più generico al sempre meno generico, ossia dal piùfacile al più difficile. Conseguentemente si deduce anche che, quando da una medesima cosaabbiamo desunto più concetti, siamo spontaneamente portati a comporlitamquam unum et idem in eadem re existentes, cioè a giudicare; e quando neinostri giudizi avvertiamo un concetto medio, siamo spontaneamente portati apassare da una prima composizione nota ad una composizione ignota, cioè aragionare. In questo senso alla domanda perchè noi formiamo più concetti di unamedesima cosa, rispondiamo perchè l'intelletto nostro è una facoltà che conoscesuccessivamente e progressivamente. Alla domanda perchè noi giudichiamocomponendo due concetti, rispondiamo perchè non comprendiamo subito unacosa quanto essa è intelligibile, ma progrediamo formando di essa più concetti,che poi spontaneamente componiamo riguardo alla cosa stessa. Ed alladomanda perchè noi ragioniamo, rispondiamo perchè, formando di una cosa piùconcetti, e componendoli poi nei giudizi, quando avvertiamo che due concettigiudicati convengono con un concetto medio, spontaneamente ragioniamo,progredendo in questo modo ad una sempre maggiore cognizione delle cose(cfr. I q. 85 a. 5). Proprio in questo senso all'inizio della Logica (p. 18) dicevamo che la ragioneumana è quell'intelletto che desume i suoi concetti dalle cose sensibili,procedendo poi a comporli prima in giudizi immediati e poi in giudizi mediati;e in questo senso abbiamo proposto la logica aristotelica quale essa si è venutaevolvendo ed ampliando. Proprio perchè il presente capitolo è indirizzato agiustificare e spiegare questa logica, abbiamo creduto utile accennare findall'inizio a quelle considerazioni fondamentali secondo le quali la ricerca sisvolge.

ARTICOLO PRRIMO

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La Dimostrazione Deduttiva

Senso della ricerca. - La logica aristotelica riguarda principalmente ogni tipodi deduzione che può essere compreso sotto la definizione aristotelica disillogismo; ma non esclude dalla sua considerazione l'induzione. Volendocominciare con la giustificazione della deduzione, è necessario prima ricercarequale sia la natura della dimostrazione in genere, poi quale sia la distinzione trala deduzione e l'induzione, ed infine quale sia il senso legittimo della deduzionesillogistica. TESI XXI. - La dimostrazione è processo secondo causalità logica, percomparazione con un termine medio. Ogni dimostrazione non induttiva siriduce al sillogismo, per mezzo del quale si giunge a conoscere in atto ciòche era prima virtualmente conosciuto. (p. 224-234) Prenozioni. - 1. Per dimostrazione qui intendiamo l'argomentazione orale inquanto segno esterno della interna argomentazione mentale vera; e lachiamiamo induttiva secondo che ascende dai singolari all'universale o daimeno universali al più universale, e deduttiva secondo che discende dai piùuniversali ai meno universali o dagli universali ai particolari. Che questoprocesso ascensivo o discensivo sia legittimo, lo si può inizialmente ricavare daquanto abbiamo detto sulla legittimità dell'universale diretto e riflesso. 2. La dimostrazione, intesa nella sua generalità, è senza dubbio un discorso,ossia un processo. Nella tesi cominciamo con l'asserire a) che è un processosecondo causalità logica, ossia nell'ordine conoscitivo, in cui cioè la mente ènecessitata al giudizio ultimo del motivo proposto nei giudizi precedenti; eaggiungiamo b) che in questo processo la mente è necessitata al giudizio ultimodalla comparazione di due termini con un termine medio. Dopo queste chiarificazioni sulla dimostrazione in genere, procediamoulteriormente ad esaminare quante siano le specie dì dimostrazione, edasseriamo che sono due, in questo senso: che ogni argomentazione noninduttiva si riduce sempre a un sillogismo. Per provare questa asserzioneuseremo il nome di forma argomentativa. Con questo nome intendiamo undiscorso orale in cui si pone in risalto un qualunque termine medio. Se la dimostrazione è processo secondo causalità logica per comparazione conun termine medio, e se ogni dimostrazione non induttiva si riduce al sillogismo,è chiaro che nel sillogismo le premesse contengono causalmente, cioè

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virtualmente, la conclusione. Dato però che nei riguardi del sillogismoaristotelico si sono mosse non poche obbiezioni, crediamo conveniente studiareesplicitamente la natura logica del sillogismo. Il problema si può cosìformulare: nelle premesse del sillogismo, si conosce la conclusione in atto,oppure in potenza? e se in potenza, solo potenzialmente, oppure virtualmente?Nelle premesse: si conosce in atto la conclusione se, conoscendo le premesse, siconosce attualmente, almeno implicitamente, la conclusione stessa (cioèimplicite formaliter); si conosce solo potenzialmente la conclusione, seconoscendo le premesse si può conoscere la conclusione, ma non la si deveconoscere; si conosce virtualmente la conclusione, se conoscendo le premesse,sebbene non si conosca in atto la conclusione, si conosce ciò che è prerequisitoa necessitare la mente alla conclusione. Nella tesi asseriamo che nelle premessesi conosce virtualmente la conclusione (cioè implicite virtualiter). Divideremo quindi la prova in quattro parti: nella prima mostreremo che ladimostrazione è processo secondo causalità logica, e nella seconda che è percomparazione con un termine medio; nella terza che ogni argomentazione noninduttiva si riduce al sillogismo, e nella quarta che nel sillogismo laconclusione è virtualmente conosciuta nelle premesse. Opinioni. - 1. Anzitutto si deve dire che SESTO EMPIRICO fece già unavivida critica del sillogismo peripatetico, osservando che esso si riduce o a nondire nulla di nuovo, o ad una petizione di principio. Egli prende in esame ilsillogismo Omnis homo est animai, Socrates est homo, Ergo Socrates estanimai, ed osserva: Se quando si dice Socrates est homo, già si sa che homo estanimai, nella conclusione non si dice nulla di nuovo; se non si sa, si fa unapetizione di principio cominciando con l'asserire che Omnis homo est animai,perchè appunto è questo è ciò che sta in questione. Questa difficoltà scetticariaffiora sia nell'età antica sia nell'età moderna (noi la esaminiamo nel testo, ap. 233, 6). 2. PLATONE ammette il processo scientifico, ma lo riduce a reminiscenzadell'ordine dialettico con cui le idee si relazionano tra loro. Dà anche l'esempiodel servo ignorante, che risponde alle domande scientifiche (come spieghiamonel testo, p. 231, 1). Gli ONTOLOGISTI convengono con Platone nel negareche il processo dimostrativo sia propriamente illativo; p.es. GIOBERTI, cheasserendo l'intuizione originaria dell'Ente che crea l'esistente, conclude che lenostre dimostrazioni sono esplicitazioni fondate in questa primitiva intuizione. 3. Alcuni Filosofi empiristi non negano il processo illativo, ma lo concepisconocome nesso ipotetico tra singolare e singolare. Tra essi ricordiamo J. STUART

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MILL, che parte dal presupposto empiristico che la proposizione universale, p.es. Omnis homo est mortalis, non sia se non una collezione di fatti già avvenuti,e così osserva: Se la minore riguarda un uomo già morto, p. es. Socrates esthomo, essa è già contenuta come fatto nella maggiore collettiva, e quindi laconclusione non dice nulla di nuovo. Se invece la minore sì riferisce ad unuomo ancora vivo, per es. Dux de Wellington est homo, la conclusione deveesser spiegata come una conclusione induttiva, fatta in base alla supposizioneche il futuro sarà simile al passato. 4. Nella filosofia moderna, è da ricordare che F. BACON ritiene il sillogismoinetto al progresso delle scienze perchè assensum constringit, sed non rem.Anche DESCARTES fece una sua critica al sillogismo, dicendo che noiformiamo un sillogismo dopo che abbiamo già trovata una verità, e che quindila dialettica, più che appartenere alla filosofia, appartiene alla retorica. PRIMA PARTE. - Dall'esperienza interna: Se riflettiamo sulla nostraesperienza umana, dobbiamo riconoscere che: a) quando udiamo laformulazione di un teorema o di una tesi, la nostra niente rimane incerta; b)quando abbiamo compresa la dimostrazione del teorema o della tesi, la nostramente è certa, cioè necessitata alla conclusione; c) quando poi, finita ladimostrazione, ci domandiamo perchè siamo certi, ci riferiamo espliertamenteal motivo proposto nelle premesse. Ciò significa che nelle premesse è statoproposto il motivo per necessitare la mente alla conclusione, ossia, in altreparole, che la dimostrazione è processo secondo causalità logica. SECONDA PARTE. - Dalla natura del nostro intelletto: Il nostro intelletto,come abbiamo già spiegato, si determina al giudizio certo quando vede laconvenienza o la disconvenienza dei termini. Ma quando è necessitato allaconclusione, non vede la convenienza o la disconvenienza immediata, deitermini: perchè in questo caso non si sarebbe dovuto premettere un processodimostrativo. Dunque vede una convenienza o disconvenienza mediata, cioèper comparazione con un termine medio (ope cogniti medii). TERZA PARTE. - Per analisi della forma argomentativa: Se la dimostrazioneprocede per comparazione con un termine medio, essa si può legittimamentesignificare con una forma argomentativa: perchè la forma argomentativa si usaappunto a mettere in risalto il termine medio. Se questo termine medio haestensione minore del soggetto della conclusione, si ha sempre una induzione(cioè l'ascenso dal singolare all'universale o dal meno universale al piùuniversale). Se il termine medio è individuale come è individuale il soggettodella conclusione, abbiamo un sillogismo espositorio; se il termine medio è più

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universale del soggetto della conclusione (o anche egualmente universale) si haun discensivo sillogismo comune, come abbiamo già spiegato nella logica. Perulteriori chiarificazioni, rimandiamo al testo p. 228-229. QUARTA PARTE. - 1. Per esclusione: Nelle premesse la conclusione puòessere conosciuta: o attualmente, o solo potenzialmente, o virtualmente. Oranon si può dire che sia conosciuta attualmente, perchè a) conoscendo solo lamaggiore, p. es. ciò che è spirituale è incorruttibile, ed ignorando la minore, p.es. che l'anima umana è spirituale, si ignora anche la conclusione che l'animaumana è incorruttibile; a fortiori b) conoscendo la sola minore, ed ignorando lamaggiore, si ignora anche la conclusione; quindi c) anche nella cognizionemeramente sommata delle due premesse, la cognizione rimane ancora ignorata.Né si può dire che sia conosciuta solo potenzialmente, perchè la conclusionenel sillogismo non può seguire, ma deve seguire. Dunque la conclusione nellepremesse è conosciuta virtualmente. 2. È facile confermare questa conclusione con un argomento positivo: Quando,dopo aver affermate le due premesse, riflettiamo su di esse apprendendolecomparativamente, noi vediamo i due estremi in comparazione col medio, cioèli apprendiamo secondo la loro convenienza o discrepanza, e così siamonecessitati ad affermare questa convenienza o discrepanza nella conclusione.Dunque nelle premesse, prima affermate e poi comparate, si conoscevirtualmente la conclusione. Nota. Da quanto abbiamo mostrato nella tesi, si conclude che sia la maggioreche la minore concorrono a causare la conclusione, sebbene in modo diverso.La maggiore contiene la conclusione virtualmente, in modo indeterminato:perchè essendo distributiva, esige di esser applicata a tutti i suoi inferiori. Laminore determina la virtualità della maggiore ad un caso inferiore, e cosìsubordinatamente alla maggiore, concorre a causare la conclusione, comespieghiamo nel testo a p.230. Si conclude inoltre che il processo deduttivo della nostra scienza si fonda sumaggiori universali che portano a conclusioni meno universali, le quali a lorovolta diventano maggiori che portano a conclusioni sempre meno universali,fino a terminare a conclusioni particolari. Si conclude infine che la inferenza, o illazione, avviene nel momento in cui,fatta la apprensione comparativa delle premesse, la nostra mente è necessitata aprocedere all'affermazione della conclusione. Questo momento è chiamato nellalogica aristotelica resolutio conclusionis in praemissas. In questo senso si suol

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distinguere: la via acquisitionis, cioè il processo in cui prima si conosce lamaggiore, poi la minore, e poi la conclusione; e la via resolutionis in cui, allafine della via acquisitionis, si risolve la conclusione nelle premesse. Questarisoluzione, che avviene in ipso actu exercito iudicii conclusivi, si chiamaresolutio naturalis. È utile però avvertire che talvolta si adopera la parolarisoluzione per significare la resolutio artificialis, che si può fare dal filosofoquando, ottenute alcune conclusioni, riflette su di esse per riconoscereordinatamente ed esplicitamente tutte le premesse da cui sono state ricavate. COROLLARIO. - Dunque le premesse sono causa efficiente dellaconclusione; la quale si fonda in premesse più certe perchè più universali. Questo corollario serve a completare la tesi sotto due aspetti: 1) spiegandoquale sia la determinata causalità logica del sillogismo, e 2) quale sia lagerarchia di certezza tra le premesse e la conclusione. 1. La causalità,come àspiega a suo luogo, è quadruplice, cioè materiale eformale (che sono dette intrinseche all'effetto) ed efficiente e finale (che sonodette estrinseche all'effetto). È chiaro che le premesse non possono dirsi causamateriale o formale della conclusione, perchè la precedono e si distinguonoadeguatamente da essa. Nemmeno possono dirsi causa finale, perchè, essendoordinate alla conclusione, la conclusione è il loro fine. Dunque devono dirsicausa efficiente. Difatti, la causa efficiente è quella influit esse ad aliud a se, ela cognizione delle premesse influisce a far sì che la mente conosca laconclusione che prima non conosceva. 2. Per quello che riguarda la gerarchia di certezza, è chiaro che la conclusionenon può essere più certa delle premesse, perchè l'effetto non può superare lavirtù della sua causa. Ma nemmeno si può dire certa nello stesso grado, perchè,in un medesimo ordine di causalità efficiente, la causa particolare non puòavere la stessa virtù della causa generale. Dunque la conclusione, pur essendocerta, è meno certa delle premesse. Qui viene spontanea la domanda: e come si spiega che le premesse sonopiù certe ed evidenti della conclusione? È chiaro che la domanda riguardaspecialmente la maggiore, perchè nel sillogismo discensivo, è soprattutto lamaggiore che contiene virtualiter la conclusione. La risposta si desume dallanatura progressiva del nostro intelletto, che comincia formando prima concettipiù facili, cioè più semplici e generali, e poi concetti più difficili, cioè piùcomplessi e più determinati. Da ciò ne segue che i giudizi formati con concettipiù universali, per la nostra mente sono più facili ed evidenti che i giudizi

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formati con concetti meno universali. È precisamente in questo senso gerarchico che già Aristotele osservava che ilsillogismo procede ex certioribus quia universalioribus. Questa osservazione hauna sua speciale importanza nella teoria logica della argomentazione, comesuccessivamente vedremo.

ARTICOLO SECONDO

I Primi Principi

Senso della ricerca. - Dopo aver giustificata e spiegata la veritasconsequentiae, cioè la rigorosa struttura del sillogismo, in quanto è oggettodella Logica formale, è necessario prendere in esame anche ciò che riguarda laveritas consequentis, ossia ciò che è prerequisito per avere la conclusione vera,in quanto è oggetto della Logica materiale. È chiaro che per avere conclusionivere è necessario che le minori siano vere; ma è soprattutto necessario che lemaggiori siano vere, perchè, come abbiamo detto nell'articolo precedente, sonole maggiori che contengono virtualmente le conclusioni. Ricercheremo quindiche cosa sia anzitutto prerequisito perchè siano vere le nostre maggiori, nellacui applicazione si sviluppa il processo deduttivo della nostra scienza. TESI XXII. - Perchè la nostra scienza sia possibile, essa deve fondarsi inalcuni principi immediati e per sé noti a tutti gli uomini. (p. 234 - 244) Prenozioni. - 1. Il nome di scienza talvolta si usa per significare una qualunquecognizione certa ed evidente, come p. es. quando diciamo che ognuno di noidella sua capacità al vero ha naturale scienza, o anche quando parliamo discienza e veracità del testificante. Talvolta lo si usa per significare lacognizione delle cose e delle loro cause, p.es. quando dopo aver accertato unfatto storico, cominciamo a determinare quali di fatto sono state le sue cause. Insenso proprio è cognizione certa ed evidente ottenuta per dimostrazione in cuile cause logiche manifestano le cause reali (cfr. Logica, p. 9 e p. 176); in sensoproprio e completo è l'ordinato complesso di queste conclusioni riguardo a unmedesimo oggetto formale (e in questo senso parliamo p. es. di aritmetica comescienza dei numeri, e di geometria come scienza delle figure). Qui è utile avvertire che oltre alla divisione di oggetto materiale, formale quode formale sub quo (cfr. Logica, p. 10), esiste in Aristotele e in molti Autoriaristotelici la distinzione di soggetto materiale e formale, e di oggetto materiale

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e formale (di cui facciamo accenno nel testo, a p. 235). Secondo questaterminologia, la scienza in senso proprio completo è l'ordinato complesso diconclusioni riguardo a un medesimo soggetto formale. Nella presente tesi parliamo di scienza in senso proprio ed in senso completo; easseriamo che questa scienza è necessariamente fondata in principi immediati eper sé noti a tutti. Per spiegare il significato di questa nostra asserzione, sononecessarie alcune ulteriori precisazioni terminologiche. 2. La parola principio, nel suo senso più generale, significa ciò da cuiqualunque cosa prende un qualunque inizio. Il principio reale, è principionell'ordine reale. Il principio logico è principio nell'ordine conoscitivo, eanzitutto si divide in incomplesso e complesso, secondo che è un concetto dalquale partiamo per formare altri concetti, o un giudizio dal quale partiamo performare altri giudizi. I principi complessi si chiamano spesso e senza aggiunteprimi, principi della dimostrazione. Caratteristica di questi principi è a) chesiano universali, perchè altrimenti non conterrebbero virtualmente leconclusioni; e b) che siano immediati, perchè altrimenti non sarebbero primi. 3. I principi immediati, cioè non ottenuti con medio sillogistico, si distinguono:in principi per sé noti (o ex terminis noti), ossia in principi che sono conosciutisenza nessun medio, cioè per semplice originaria comparazione dei loro termini(p. es. il tutto è maggiore di una sua parte); ed in principi noti per esperienza(ex experientia noti), che sono bensì conosciuti senza medio sillogistico, mache richiedono un mezzo impropriamente detto, cioè il mezzo dell’esperienza(p. es. ogni metallo si dilata al calore). 4. I principi per sé noti si devono distinguere, in un senso umanamente vero inper sé noti ai dotti, cioè che sono conosciuti solo da coloro che, o per maggioringegno, o per proprio studio, o per magistero, riescono spontaneamente acapirli subito (p. es. Angeli non sunt circumscriptive in loco); e in per sé noti atutti gli uomini, in quanto i loro termini sono conosciuti da tutti comeevidentemente convenienti o disconvenienti (p. es. il principio di noncontraddizione). Questi principi, in quanto fondanti ogni scienza umana, sonodetti axiomata o dignitates. Dopo queste prenozioni, è chiaro che cosa intendiamo provare nelle tesi.Anzitutto, nella prima parte, cominceremo rilevando che la scienza umana sifonda in principi immediati, nella seconda in principi per sé noti, nella terza inper sé noti a tutti, proponendo così una previa soluzione naturale al problemasulla possibilità della nostra scienza.

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Opinioni. - Le asserzioni fondamentali di queste tesi sono state accettate damolti pensatori, anche se di diverse tendenze filosofiche; ed anche oggi sonocondivise da molti, i quali si richiamano a queste concezioni aristoteliche anchequando nella logica moderna si studiano le posizioni iniziali dellaassiomatizzazione. Si possono considerare direttamente contrari alla tesi quegli Antichi che altempo di Aristotele esigevano che tutto in filosofia fosse dimostrato; e dopo diessi gli Scettici, i quali prendendo a pretesto che la conoscenza della verità nonsi può dimostrare, concludevano alla sospensione di ogni assenso. Si possonodire indirettamente opposti alla tesi coloro che, pur non negando la dottrina deiprimi principi, nel proporre il problema critico esigono una legittimazionedimostrativa dei fondamenti stessi su cui si fonda ogni dimostrazione olegittimazione. Da quanto abbiamo già detto riguardo ai concetti universali, è chiaro che gliEmpiristi negano l’esistenza di principi propriamente universali, nei quali ilpredicato universale sia immediatamente attribuito ad un soggetto universale. IConcettualisti negano il valore oggettivo di questi principi universali, sia che sifondino nel presupposto dell’a priori soggettivistico, sìa che professino lainsufficienza, del nostro intelletto in ciò che riguarda la formazione di concettie principi universali essenziali. Nota. Nella Introduzione alla Critica della ragion pura, Kant distingue i nostrigiudizi in a) a priori ed a posteriori, secondo che il predicato è congiunto alsoggetto indipendentemente o dipendentemente dall’esperienza; e in b) analiticie sintetici, secondo che il predicato è già contenuto nel soggetto, di cui è unaesplicitazione che non apporta nulla di nuovo, o secondo che il predicato non ècontenuto nel soggetto, apportando una nuova nota, che non è contenuta nelsoggetto; e poi distingue giudizi c) sintetici a priori ed a posteriori, secondo chesono proferiti indipendentemente o dipendentemente dall’esperienza.Consequentemente a queste concezioni Kant, ulteriormente, conclude a) che iprincipi analitici sono a priori, ma non servono al progresso della scienza,perchè non fondano nulla di nuovo, b) che i principi sintetici a priori servono alprogresso della scienza, ma dovendo esser spiegati per informazione a priori,hanno applicazione soltanto entro i limiti della nostra esperienza soggettiva. Aquesti principi noi facciamo un accenno nel testo, a p. 241-242, 5, 6, ed unacomparazione al principio dell’articolo quarto. PRIMA PARTE. - Questa prima parte anzitutto consta per analisi della nostra

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esperienza interna. Infatti, se riflettiamo sopra alcuni giudizi mentali, come p.es. circa i principi di non contraddizione, di identità comparata ecc., dobbiamoconstatare che affermiamo la discrepanza o convenienza dei termini perchè levediamo spontaneamente e subito, cioè con evidenza immediata. Si usa però inquesto caso procedere per riduzione all’assurdo (come si può vedere, ad es., InI Post. Anal., lect. 8 e 7): Se la nostra scienza non si fondasse su alcuni principi immediati, nella scienzatutte le nostre affermazio-ni sarebbero mediate: quindi, o mediate per circolo, omediate all’infinito. Ma non si possono dire mediate per circolo, perchè inquesta ipotesi si finirebbe col provare una affermazione incerta per mezzo diun’altra affermazione incerta, e così tutto resterebbe incerto. Nemmeno sipossono dire mediate all’infinito, perchè in questa ipotesi, tra il soggetto e ilpredicato di una conclusione, ci sarebbero infiniti medii in atto, e così non siconcluderebbe mai nulla. Dunque la nostra scienza è fondata su alcuni principiimmediati. SECONDA PARTE. - Questa seconda parte si prova sotto un aspetto perdefinizione, e sotto un altro aspettò per necessaria presupposizione. In questomomento supponiamo quanto è già stato detto, cioè che il nostro, intelletto èuna facoltà conoscitiva della realtà, e che afferma i primi principi in quantonecessitato dalla evidenza oggettiva. Ciò premesso, così procediamo: I principi immediati, o ci sono noti senza alcun medio, per immediatacomparazione dei due termini, o senza medio sillogistico; ma col mezzoimpropriamente detto dell’esperienza. Nel primo caso abbiamo principi per sénoti, secondo la definizione data nelle prenozioni. Nel secondo caso abbiamoprincipi noti per esperienza, che non si acquistano se non alla luce di unprincipio per sé noto. Dunque la nostra scienza si fonda in alcuni principi per sénoti. Ciò che abbiamo accennato riguardo al secondo caso, in questo momento si puòprovare con due rilievi: 1) I principi universali noti per esperienza, non si conoscono con la solaesperienza: perchè la sola esperienza fonda soltanto giudizi singolari. Dunquesi conoscono con un passaggio ascensivo induttivo, da alcuni giudizi singolariad un giudizio universale. 2) Ora questo passaggio induttivo: a) non si può fare se non alla luce di unprincipio universale, perchè altrimenti il passaggio da alcuni singolari a tutti

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sarebbe illegittimo; b) non si può fare se non alla luce di un principio per sénoto: perchè se questo principio fosse un principio per esperienza noto, sirichiederebbe un altro principio, e così continuando, si andrebbe all’infinito. Ritorneremo a chiarificare questo argomento quando tratteremo espressamentedell’induzione. TERZA PARTE. - Per risoluzione: La nostra scienza si fonda inizialmente inquei principi nei quali ultimamente risolve le sue conclusioni. Ora è evidenteche le sue conclusioni ultimamente le risolve in principi universalissimi, ossiacomunissimi: perchè la risoluzione ascende progressivamente da una maggioremeno universale ad una maggiore più universale, e così di seguito. Ma questiprincipi comunissimi, sono i principi dell’ente, cioè sono quei principi alla cuiluce giudichiamo di tutti gli altri enti; e già sappiamo che i principi, alla cuiluce giudichiamo di tutti gli altri enti, sono naturaliter noti: cioènecessariamente infallibilmente conosciuti da tutti, perchè se noi sbagliassimoin questi principi, sbaglieremmo in tutte le loro applicazioni. Dunque la scienzanostra si fonda in principi comunissimi naturalmente noti, ossia per sé noti atutti gli uomini. Da questa conclusione si comprende che alla iniziale domanda se sia possibilela scienza umana, noi sistematicamente rispondiamo che è naturalmentepossibile: perchè naturalmente passiamo da una composizione vera, per untermine medio, ad una conclusione vera, e perchè i principi comunissimi da cuiprendono inizio le conclusioni vere, sono principi naturalmente: noti, cioènecessariamente ed infallibilmente conosciuti da ogni uomo. Per quanto riguarda lo habitus principio rum, rimandiamo a quanto si dice neltesto, p. 243-244.

ARTICOLO TERZO

Il Principio di non Contraddizione

Senso della ricerca. - Abbiamo già spiegato che cosa noi intendiamo perprincipio incomplesso e complesso. Il primo principio incomplesso èevidentemente la nozione comunissima di ente, perchè in questa nozione sirisolvono ultimamente tutte le altre nostre nozioni, le quali non sono altro chedeterminati modi dell’ente stesso. È chiaro allora che ci deve essere anche unprimo principio complesso, in cui si risolvono tutte le altre nostre proposizioni,

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le quali devono essere considerate come determinati modi dello stessoprincipio. Nel presente articolo, continuando lo studio già iniziato sui primi principi,ricercheremo esplicitamente quale sia il primo principio complesso, e quale siail rapporto che con questo principio hanno gli altri principi e tutte le altre nostreproposizioni sia universali che particolari. TESI XXIII. - Il principio di non contraddizione è legge della mente perchèlegge dell’ente, ed è il principio primo, ossia il più noto e più certo.(p.244-252) Prenozioni. - 1. Il principium contradictionis, che nel linguaggio moderno perevitare fraintendimenti si chiama anche principio di non contraddizione, fuproposto da Aristotele con la formula “Idem simul inesse et non inesse eidem,et secundum idem, impossibile est” (Metaph. IV (Gamma) c. 3, 1005 b 19-20).Questo principio si suole considerare nel suo senso reale, secondo la classicaformula Non potest aliquid simul et secundum idem esse et non esse, o nel suosenso logico, cioè Del medesimo soggetto non si può contemporaneamenteaffermare e negare lo stesso predicato. In queste formule i termini sono l’ente e la negazione dell’ente, cioè il non ente;l’avverbio impossibile si prepone per significare esplicitamente l’assolutauniversalità del principio; e le parole contemporaneamente e sotto il medesimoaspetto sono incluse per significare che non si può avere l’infallibile esclusionese non quando i due termini sono opposti sotto il medesimo aspetto, sianell’ordine del tempo, che per noi è il più ovvio, sia in qualunque altro ordine. La verità significata dal principio è l’affermazione dell’identità dell’ente permezzo della rimozione della diversità. Noi ora lo consideriamo comeesprimente questa verità, avvertendo che essa può essere espressa anche conaltre formule equivalenti. 2. È chiaro che il principio di non contraddizione, nel suo senso logico, è leggedella mente, e che nel suo senso reale è legge dell’ente. Nella tesi anzituttoprecisiamo che è legge della mente perchè legge dell’ente. Ciò premesso, passiamo a risolvere la questione del primato, asserendo che ilprincipio di non contraddizione è il primo principio, e in questo senso il piùnoto e certo di tutti gli altri principi.

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Non intendiamo però asserire che il principio di non contraddizione sia la primapremessa da cui logicamente si deducono tutte le conclusioni: perchè essendocomunissimo e fondante ogni altro giudizio, non può da solo portare la mentead una affermazione nuova. Intendiamo semplicemente asserire che con la suaverità illumina ogni altro nostro giudizio, ossia: tutti gli altri primi principi, chenon si possono negare se non negando il principio di non contraddizione che èimplicito in essi; e tutte le nostre proposizioni, sia universali che particolari,nelle quali è sempre proporzionalmente implicito e fondante. Si veda unaulteriore spiegazione della dottrina aritotelica nel testo, p, 245-246. Divideremo la prova della tesi in tre parti: nella prima cominciamo conl’avvertire che il principio di non contraddizione deve dirsi legge della mente;nella seconda che deve dirsi legge della mente perchè legge dell’ente; nellaterza concluderemo che è il principio primo. Opinioni. - Generalmente parlando, si deve dire che il principio di noncontraddizione è negato sia dal radicale Scetticismo e Relativismo, sia dalradicale Nominalismo e Concettualismo. Al di fuori di questa negazione,crediamo di dover dire che il principio non è mai radicalmente rifiutato, masolo in qualche sua applicazione e limitazione. Qui faremo un accenno alle duetendenze più note ed esplicite. 1. Alcuni Filosofi del divenire. Secondo la concezione aristotelica chespieghiamo nella tesi, il principio di non contraddizione si applica ad ogni ente,e quindi anche all’ente che diviene, il quale è non contraddittorio perchè è enon è sotto diverso rispetto. Le difficoltà cominciano a manifestarsi nelle diverse opinioni che inclinano adaffermare il puro divenire della realtà. Tra i Presocratici, ERACLITO è ritenutoassertore del del puro divenire della realtà, come risultante dalla opposizione dicontrari, nel senso che in un medesimo fiume scendiamo e non scendiamo:siamo e non siamo. Aristotele avverte che alcuni pensarono che Eraclito abbiadetto che una medesima realtà è e contemporaneamente non è, aggiungendoperò che questo lo poteva dire, ma non lo poteva realmente pensare. Nella filosofia moderna HEGEL disse di voler riprendere e rinnovare laconcezione eraclitea, nel senso che tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciòche è razionale è reale. La realtà non è statica ed immobile, cioè meramenteidentica, ma mobile ed evolutiva, cioè dialettica, in quanto la contraddizione èintrinseca alla realtà, che si sviluppa superando la contraddizione nella sintesidegli opposti. Da tempo parecchi studiosi interpretano questa contraddizione

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come opposizione contraria o relativa, e la dialettica come superamento dellaopposizione nella coerente sintesi degli opposti; ed in questo senso concludonoche Hegel non nega il principio di non contraddizione, perchè procede alsuperamento coerente degli opposti, cioè proprio alla luce del principio di noncontraddizione. Esiste però anche oggi qualche interpretazione differente. 2. Alcuni moderni MONISTI, tra i quali alcuni contemporanei Idealisti, chenon intendono semplicemente negare la evidente molteplicità della nostraesperienza, per ritenere l’unità fondamentale del Principio di tutte le cosefiniscono con affermare che la realtà è l’identità dei diversi; e con questaaffermazione, non soltanto negano la immediata applicazione del principio dinon contraddizione alla realtà così come da essi è spiegata, ma si mettono inuna posizione che virtualmente nega la oggettiva necessità universale delprincipio stesso. A complemento delle opinioni possiamo ricordare che DESCARTES, purammettendo che la realtà esistente è sotto la legge del principio di noncontraddizione, insinua che ciò non si impone alla mente divina, perchè, se Dioavesse voluto, avrebbe potuto far si che due contradditori esistesserocontemporaneamente. KANT ammette il principio di non contraddizione; loritiene principio generale e sufficiente di ogni conoscenza analitica, e lodetermina in questa formula: A nessuna cosa conviene un predicato che ad essacontraddica, escludendo dalla formula sia la parola simul, cioècontemporaneamente, perchè questa parola lo restringerebbe all’ordinetemporale, sia la parola impossibile, perchè il primo principio deve essereenunciazione categorica e non enunciazione modale. PRIMA PARTE. - Questa parte non può positiva-mente constare se non peresplicitazione, riconoscendo che ogni nostro giudizio è composto da unpredicato determinatamente intelligibile, applicato ad un soggettodeterminatamente intelligibile; il che significa che ogni giudizio verte su di unoggetto determinato, ossia questo e non altro; in altre parole: sotto la legge delprincipio di non contraddizione. Questa constatazione esplicitativa si puòconfermare anche con una argomentazione indiretta: Se il principio di noncontraddizione non fosse legge della nostra mente, sarebbe possibile negare ilprincipio senza cadere in cpntraddizione. Ma questo è impossibile, perchè ogninegazione del principio di contraddizione avrebbe sempre una determinatasignificazione, questa e non altra. Dunque il principio di non contraddizione èlegge della nostra mente. Dall’argomento segue che il contradditorio è per noi impensabile, cioè assurdo.

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SECONDA PARTE. - Anche questa parte consta positivamente peresplicitazione, p.es. avvertendo che ogni nostro giudizio ha un sensodeterminato perchè si riferisce ad un oggetto determinato. E si può anch’essaconfermare con una argomentazione indiretta: Se il principio di noncontraddizione fosse legge dell’ente conosciuto perchè legge della menteconoscente, si dovrebbe dire che sarebbe conosciuto come è determinatamentecostruito dalle nostra mente, e non come esiste determinatamente in sé: ed inquesta ipotesi si dovrebbe concludere all’universale relativismo fenomenistico.Dunque il principio di non contraddizione è legge della mente perchè leggedell’ente. Dall’argomento segue che ciò che per noi è assurdo, è realmente impossibile. TERZA PARTE. - Dalle caratteristiche del primo principio: È chiaro che duesono le caratteristiche del primo principio: che sia presupposto da ogni altraverità, e che non presupponga alcun altra verità. Ora il principio di noncontraddizione a) è presupposto da ogni altra verità, perchè è legge dell’ente edella mente; b) non presuppone alcun altra verità, perchè al di fuori dell’ambitodel principio di non contraddizione non ci potrebbe essere che l’impensabileassurdo, cioè l’impossibile. Nota. Aristotele tra le condizioni proprie del primo principio elenca anche chesia conosciuto naturalmente e immediatamente, perchè altrimenti dovrebbederivarsi da un’altra verità più nota, e quindi non sarebbe notissimo. Che questacondizione si si verifichi nel principio di non contraddizione si può brevementechiarificare come segue, a) Ogni uomo conosce naturalmente l’ente e lapluralità dell’ente: perchè desume i suoi concetti dalla molteplicità empirica.Ora la pluralità non si conosce se non conoscendo l’uno, e l’uno non si conoscese non conoscendo la divisione che deve esser rimossa dall’uno, e la divisionenon si conosce se non conoscendo la negazione. Dunque ogni uomo conoscenaturalmente l’ente e la negazione dell’ente, b) I termini semplicissimi tra loroprimariamente opposti, non hanno medio. Orai termini ente e non ente sonosemplicissimi e tra loro primariamente opposti. Dunque non hanno medio, equindi sono subito appresi come disconvenienti. COROLLARIO. - Dunque il puro divenire è assurdo. La chiarificazione di questo corollario si desume dal fatto che i fautori del purodivenire lo propongono come realtà che totalmente si nega (perchè se sinegasse parzialmente, tra due diversi momenti del divenire resterebbe qualche

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cosa di stabile e comune, e non si avrebbe più il puro divenire, ma l’ente chediviene). Ora la realtà che totalmente si nega, deve dirsi puramenteindeterminata e puramente contingente (perchè si ritenesse qualchedeterminazione e necessità, non sarebbe più una realtà che totalmente nega séstessa). Dunque il puro divenire dovrebbe dirsi una realtà puramenteindeterminata e contingente. Ma, come abbiamo spiegato nelle tesi, la realtàpuramente indeterminata e contingente, è impensabile ed impossibile, ossiaassurda. Dunque il puro divenire è assurdo. Il corollario si conferma rilevando che i fautori del puro divenire, di fatto nonlo pensano realmente, ma illusoriamente; perchè gli attribuiscono moltipredicati stabili, senza i quali non sarebbe possibile proporre una stabile teoriadel puro divenire. Proprio in questo senso fin dall’inizio della tradizionearitotelica avvertendo che i predicati sull’ente reale non possono essere tutti peraccidens, cioè contingenti, si conludeva alla necessità di ammettere qualcheente reale sotanziale; come acceniamo nel testo, p.250.

ARTICULO QUARTO

L’Induzione del Principi

Senso della ricerca. – In questo articolo intendiamo completare la teoria deiprimi principi, inizialmente giustificando e spiegando la logica aristotelica dellainduzione. Per poterlo fare adeguatamente, è utile premettere alcuneconsiderazioni sulla legittima divisione dei principi. 1. Il principio legittimo della divisione dei nostri atti e delle nostre facoltàconoscitive, si fonda sulla trascendentale ordinazione delle potenze conoscitiveal proprio atto e dell’atto al proprio oggetto formale, e si suole esprimere così:potentiae specificantur per actus, et actus per obiecta. In base a questo principio si procede anzitutto alla affermazione di alcunedifferenze specifiche. Avvertendo che a) l’oggetto ens absolute consideratum èoggetto formale specificamente differente dall’oggetto singolare coloratumsonorum, ecc. si procede ad affermare la distinzione specifica tra gli atti con cuiconosciamo questi diversi oggettti formali, e quindi alla distinzione specificatra le facoltà elicitive di questi atti, cioè alla distinzione tra intelletto e senso; eavvertendo che b) il colorato differisce specificamente dal sonoro ecc., siprocede ad affermare la distinzione specifica tra l’atto visivo, auditivo ecc., equindi, entro l’ambito sensibile, alla distinzione specifica tra la facoltà visiva,

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auditiva, ecc. (e così di seguito, per tutto ciò che riguarda le nostre facoltàsensibili esterne ed interne). Sempre alla luce del principio anzidetto, si procede anche ad alcune distinzioniaccidentali, nell’ambito di una medesima facoltà. Così per esempio rilevandoche l’oggetto formale intelligibile è qualche volta una semplice quiddità oessenza, qualche volta un complesso enunciabile, e qualche volta unaconclusione, ed avvertendo che questi tre oggetti intelligibili convengonosempre nel comune aspetto intelligibile di ente, concludiamo che una sola è lafacoltà intellettiva, che si attua progressivamente in modo accidentalmentedifferente, cioè o concependo, o giudicando, o ragionando. 2. Sempre in base a queste considerazioni, nel testo diciamo che una ulterioredivisione (accidentale) dei nostri giudizi si può legittimamente desumere dalla(accidentale) diversità dell’oggetto formale del giudizio, e quindi dalla diversitàdel motivo per cui noi siamo necessitati al giudizio: perchè il motivo appartieneall’oggetto formale del giudizio (ossia, in altre parole, perchè l’oggetto formaledel giudizio vero è l’evidenza con cui l’oggetto manifesta la sua realtà,necessitando la mente al giudizio certo). La divisione dei nostri giudizi si può giustificare come segue. Se si attende almotivo che ci muove a giudicare, ossia a comporre due termini, è chiaro cheesso può esser duplice: o la convenienza dei termini assolutamente considerati,o la convenienza dei termini come ci sono dati nell’esperienza. Se la convenienza dei termini ci appare per comparazione con un terminemedio assolutamente considerato, abbiamo un giudizio conclusivo, come già èstato spiegato nella tesi ventesima prima, parte seconda. Se ci appareimmediatamente, c’è ancora una sfumatura da distinguere: se la nozioneoggettiva del predicato si vede inclusa nella nozione oggettiva del soggetto,abbiamo un principio per sé noto ex terminis in cui il predicato è formalmenteincluso nel soggetto; se si vede necessariamente connessa con la nozione delsoggetto, abbiamo un principio per sé noto ex terminis in cui il predicatoappare virtualmente incluso nel soggetto. Se invece la convenienza dei termini ci appare come ci è data di fattonell’esperienza, i casi sono due: o ci appare come immediatamente fondante ungiudizio di esperienza, ed in questo caso abbiamo giudizi singolari oparticolari; o ci appare come fondante un giudizio universale, per mezzo di unprocesso ascensivo, ed in questo caso abbiamo giudizi universali, cioè principinoti per esperienza, come abbiamo cominciato a spiegare nella tesi ventesima

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seconda, parte seconda. Nota. La divisione dei giudizi che qui proponiamo, si fonda nel principio che inostri giudizi hanno per oggetto formale la evidenza oggettiva realistica. Essaquindi differisce dalla divisione kantiana di giudizi analitici, sintetici a priori esintetici a posteriori (a cui abbiamo accennato nelle prenozioni della tesiventesima seconda), che si fonda sulla pertinenza o non pertinenza delle internenozioni del soggetto e del predicato, e che non ammette che i nostri giudizisiano fondati nella evidenza oggettiva realistica. Aristotele e S. Tommaso usano anche la terminologia di per se notum adintellectum (prima principia sunt per se nota, veritatem esse est per se notum) edi per se notum ad sensum (naturam esse est per se notum). La terminologia usata da Kant è usata anche da alcuni nostri Autori,naturalmente in senso realistico È facile rilevare che ciò è avvenuto in duemaniere differenti, come brevemente accenniamo nel testo, a p. 253, nota 1.Proprio per evitare queste differenze, noi qui abbiamo presentato la divisionedei nostri giudizi con una terminologia in cui ci sembra che tutti possanoconvenire. 3. I principi per sé noti, nei quali il predicato è formalmente o virtualmenteincluso nel soggetto, sono la veritas primorum principiorum al cui lumegiudichiamo di tutte le conclusioni, (ossia sono il lumen rationis a cui abbiamoaccennato nella Logica, p. es. p. 175 nota 1, e p. 10 e). Essi si dividono incomuni a tutte le scienze e propri: delle singole scienze. I principi comuni a tutte le scienze sono i principi fondamentali dellaMetafisica, che riguardano l’ente in quanto ente: in primo luogo il principio dinon contraddizione, ed alcuni altri principi comunissimi, come ad es. ilprincipio di identità comparata “due enti identici ad un terzo, sono tra loroidentici”, ed il principio di ragione sufficiente “ogni ente ha la sua ragionesufficiente” ossia è intelligibile e quindi razionalmente spiegabile; poi i principidi causalità e di finalità, fondati nella luce del principio di ragione sufficiente,dei quali si tratta esplicitamente in altri trattati. I principi proprii delle scienze, sono, ad es. a) nelle scienze matematiche, ilprincipio di divisibilità e di figurabilità “ogni estenso è divisibile e figurabile”,ed il principio di eguaglianza delle quantità “le quantità eguali ad una terza,sono eguali tra di loro”, b) nelle scienze fisiche, il principio di costanza, o distabilità della natura “le nature corporee sono determinate, ed operano sempre

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determinatamente, se non interviene impedimento”, ed il principio dieguaglianza delle intensità “le qualità che nella intensità convengono con unaterza, nella intensità convengono tra di loro”. È chiaro che questi principi per sé noti, appunto perchè ottenuti per immediatacomparazione di due concetti essenziali, sono necessari come sono necessariele essenze, cioè non si possono negare se non contraddicendo alla stessaessenza, e quindi sono assolutamente necessari. 4. I principi per esperienza noti riguardano sia l’ordine fisico, sia l’ordinemorale. Riguardano l’ordine fisico, cioè la relazione tra la natura fisica e le sueoperazioni, alcune speciali leggi fi-siche, come p. es. “i corpi cadono” o “imetalli si dilatano al calore”, ecc. Di questi principi si occupano le Scienzefisiche e naturali. Riguardano l’ordine morale, cioè la relazione tra la nostra libera volontà e gliatti a cui essa è stabilmente inclinata, alcune speciali leggi morali, come ad es.“le madri amano i loro figli”, o “nessun uomo mente gratis, cioè senza alcunaragione”. Di queste leggi si occupa la Storia, in quanto esposizione e studiodello svolgimento della vita umana. È facile avvertire che mentre i principi per sé noti esprimono la relazione tra leessenze, i principi per esperienza noti esprimono la relazione tra la natura e lesue operazioni. Siccome la natura può permanere anche se mancassero alcunesue operazioni, e questo noi lo possiamo chiaramente comprendere, i principiper esperienza noti non si possono dire assolutamente necessari, ma soltantoipoteticamente necessari. 5. Ciò premesso, abbiamo quanto è necessario per determinare esattamente ilsenso della nostra presente ricerca. Quando parlavamo degli universali,abbiamo esaminato come i concetti universali si acquistino e come essi sifondino nella realtà. A complemento della teoria dei principi universalidobbiamo quindi ora esaminare come si acquistino i principi per sé noti ed iprincipi per esperienza noti, e come essi si fondino nella realtà. Siccome perrispondere a queste domande dovremo parlare anche della induzioneargomentativa, completeremo la nostra ricerca sulla verità del raziocinioesaminando quale sia il valore di questa induzione, e quale sia il suo rapportocon la deduzione sillogistica.

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TESI XXIV. - I principi per sé noti si acquistano per induzione astrattiva,quelli per esperienza noti per induzione argomentativa, che è un processolegittimo specificamente differente dal sillogismo. (p. 254 - 263) Prenozioni. - 1. Abbiamo già spiegato che cosa intendiamo per principi per sénoti, e come questi principi debbano dirsi assolutamente necessari; e che cosaintendiamo per principi per esperienza noti, e come questi principi debbanodirsi ipoteticamente necessari. Nella tesi cominciamo con l’esaminare con qualeinduzione noi di fatto acquistiamo questi principi, partendo dall’esperienza. 2. L’esperienza è la cognizione immediata di un fatto concreto, e si diceesterna, se di un fatto sensibile, e interna, se di un fatto di coscienza. La parolaesperimento, nell’uso moderno, è l’esperienza metodicamente provocata, conl’intento di verificare una ipotesi e di stabilire una legge. Nell’uso aristotelicola parola experimentum ha un significato proprio, a cui ora dobbiamo fareattenzione; essa significa un atto collativo fatto nella nostra interna sensibilità(cioè dalla cogitativa, con l’aiuto della memoria e della immaginativa ofantasia), con cui conferiamo più individui simili già sensibilmentesperimentati. Questo atto collativo della nostra sensibilità precede e fondal’operazione intellettiva della induzione. 3. La parola induzione (come avvertiamo nel testo a p. 255 e 264) è stata usataper significare qualunque passaggio dal singolare all’universale (e quindi èusato da Aristotele anche per significare il passaggio dai singolari al concettouniversale, per mezzo dell’astrazione precisiva totale). Noi nella tesi, comeoggi si suole, lo adoperiamo per significare il passaggio dai singolari ad ungiudizio universale. Chiamiamo induzione astrattiva il passaggio dei singolari sensibili al giudiziouniversale, senza dover prima fare un giudizio singolare (passaggio questo, chenon richiede altro che l’astrazione di due concetti dai singolari sensibili e lasemplice visione comparativa di questi due concetti; come p. es. quando, dopoaver ricavato dall’esperienza sensibile il concetto di tutto ed il concetto dellesue parti, spontaneamente e subito giudichiamo che il tutto è maggiore dellesue parti). Chiamiamo invece induzione argomentativa il passaggio dai singolari sensibilial giudizio universale, dovendo però prima fare uno o più giudizi singolari;passaggio questo, che dopo l’astrazione di due concetti, richiede prima alcunigiudizi singolari, dopo i quali diventa possibile il passaggio al giudiziouniversale; come quando, dopo alcuni giudizi singolari d’esperienza, p. es.

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questo corpo cade, e quest’altro corpo cade, ecc., constatando la stabilità diqueste esperienze, passiamo a concludere che ogni corpo cade. Nella tesi anzitutto intendiamo provare che i principi per sé noti si acquistanocon induzione astrattiva, ed i principi per esperienza noti con induzioneargomentativa. 4. A questo punto per noi sorge un problema critico e logico. È chiaro che tantovalgono i principi per esperienza noti, quanto vale il processo induttivo con cuisono acquisiti. Quale è allora la legittimità dell’induzione argomentativa? E seuna legittimità si deve ammettere, quale è il rapporto di questa induzione alsillogismo? Per spiegare il senso esatto di queste domande, sono necessariealcune chiarificazioni. Il processo induttivo si può considerare come interno e come oralmentesignificato. Il processo interno, o mentale, comincia con alcuni giudizisingolari, p. es. questo ferro si dilata al calore, e quest’altro ferro, e quell’altroecc.; poi, quando la stabilità sperimentata in alcuni casi diventa motivosufficiente per capire ciò che è proprio della natura, si passa al giudizioassoluto il ferro, per natura sua, si dilata al calore; quindi il processo siconclude col giudizio distributivo ogni ferro si dilata al calore. Il segno orale, oesterno, di questo processo si può, ad es., riassumere in questa formaargomentativa: “Il ferro abc si dilata al calore, Il ferro abc è ogni ferro. Dunqueogni ferro si dilata al calore”. Questo processo è a suo modo un organico complesso di giudizi, in cui da unaprima verità nota (questo ferro si dilata al calore) si passa ad una verità cheprima era ignota (ogni ferro si dilata al calore) alla luce di un motivo desuntodall’esperienza,, cioè per mezzo dell’esperienza di uno o più singolari. Essoquindi verifica a suo modo la definizione di raziocinio che si suol dare nellaLogica (v. p. 119), ed in questo senso si chiama induzione argomentativa. In quanto argomentativo, questo processo ha il suo medio ed i suoi principi ofondamenti. Il medio è il motivo desunto dalla esperienza, che ci porta acomporre i due termini della conclusione. Questo medio, in comparazione colmedio propriamente detto del sillogismo, si suol dire mezzo impropriamentedetto. Il fondamento reale è il principio di costanza della natura, di cui abbiamogià data la formula nel senso della ricerca. Questo principio si fonda sulla lucedel principio di ragione sufficiente e dei principi di causalità e finalità, e devedirsi per sé noto, perchè la natura corporea, appunto perchè né intelligente nélibera, è determinata così nella sua natura come nelle sue operazioni (e che

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debba dirsi per sé noto lo abbiamo già inizialmente accennato nella tesiventesima seconda, prova della seconda parte). Il fondamento logico, inopposizione al fondamento logico del sillogismo “dictum de omnibus, dictumde singulis”, è il principio “dictum de uno qua tali, dictum de omnibus”, nelsenso che ciò che si dice di un singolare, in quanto avente una tale natura, deveesser detto di tutti gli altri singolari di questa natura. 5. Nella presente tesi parliamo della induzione argomentativa così come laabbiamo chiarificata. Prima asseriamo che essa è un processo legittimo inquanto può portare alla affermazione certa di un principio ipoteticamentenecessario; e poi concludiamo che la si deve dire specificamente differente dalsillogismo. Divideremo quindi la prova in quattro parti. Nella prima mostreremo che iprincipi per sé noti si acquistano con una induzione astrattiva, e nella secondache i principi per esperienza noti si acquistano con una induzioneargomentativa. Nella terza chiarificheremo in quale senso l’induzioneargomentativa si debba dire un processo legittimo, e nella quarta per qualeragione si debba dire specificamente differente dal sillogismo. Opinioni. - Questa tesi si fonda nella teoria del concetto universale così comel’abbiamo proposta, e quindi trova consenzienti tutti quelli che sostanzialmentela ammettono. Essi inoltre ammettono a) che i nostri principi si acquistano perinduzione da un esempio, o da un experimentum, sensibile, e b) che i nostriprincipi si distinguono in assolutamente o ipoteticamente necessari. Esiste solouna piccola differenza nel fatto che alcuni Autori sembrano confondere sotto ilnome di induzione sia quella astrattiva dei principi assolutamente necessari siaquella argomentativa dei principi ipoteticamente necessari, e che qualcheAutore propone la induzione argomentativa come riducibile al sillogismo. Tra i Filosofi che hanno diversa opinione sugli universali, è chiaro che nonconvengono con la tesi coloro che negano la esistenza di concetti e giudizipropriamente universali, cioè gli Empiristi, e coloro che negano la oggettivaverità realistica dei concetti e giudizi universali, cioè i Concettualisti. D. HUME nega il valore universale del principio di causalità, anche perchè loritiene fondato nella con-suetudine di aspettarsi che i casi futuri siano simili aipassati. J. STUART MILL estende questa concezione all’induzione, comeabbiamo già accennato nella tesi ventesima prima, opinioni. Negli sviluppi piùradicali del NEOPOSITIVISMO, si è parlato del problema dell’induzione comedi problema privo di senso, perchè da una proposizione empirica non si passa

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ad una proposizione universale, ma soltanto ad una proposizione indeterminatae convenzionale, che riprende il suo senso quando è determinata ad un casosingolarmente verificabile. Secondo KANT, come abbiamo accennato, i principi analitici hanno sensouniversale e necessario, ma non servono al progresso delle scienze, perchètautologici o quasi tautologici. I principi sintetici a priori, se fossero acquisitiper induzione, sarebbero una totalizzazione delle esperienze, senza valoreuniversale; hanno però valore universale, ma per informazione categoriale, eperciò non hanno applicazione alla cosa in sé, ma soltanto entro i limiti dellasoggettiva esperienza sensibile. A complemento delle opinioni è da ricordare che i Cultori delle Scienzesperimentali, mentre dalla fine del secolo scorso generalmente ammettevano ilvalore necessario ed universale delle leggi della natura, che fondavano sulprincipio di costanza della natura inteso in senso rigidamente meccanicistico,sono poi passati ad affermarne solo il valore approssimativo e probabile, inbase ai presupposti filosofici dell’empirismo (E. Mach), o del contingentismo(E. Boutroux) o del convenzionalismo (E. H. Poincaré). Conseguentemente adalcuni sviluppi di teorie più recenti, è poi avvenuto che le leggi della fisicaclassica si considerassero come leggi statistche, e che la realtà venisseconcepita secondo il principio di indeterminazione proposto da W.Heinsemberg. PRIMA PARTE. - Dalla natura del principio per sé noto: Se i principi che noiaffermiamo consiano di concetti astratti dall’esperienza sensibile, e se il motivoper cui noi li componiamo o dividiamo si trova nella sola comparazione diquesti concetti assolutamente considerati, si devono dire acquisiti con unospontaneo processo che dall’esperienza sensibile passa al giudizio universalesenza prima dover fare un giudizio singolare: cioè si devono dire acquisiti coninduzione astrattiva. Ora è chiaro che i principi per sé noti: a) constano diconcetti astratti dall’esperienza sensibile, perchè questa è l’origine dei nostriconcetti, b) hanno il loro motivo nella sola comparazione di questi concettiassolutamente considerati, perchè noi non vediamo la necessaria relazione tradue essenze se non quando le compariamo nei loro concetti essenziali, cioèassolutamente considerati. Dunque i principi per sé noti li acquistiamo coninduzione astrattiva. Si consulti nel testo la nota a p. 258. SECONDA PARTE. - Dalla natura del principio per esperienza noto: Se iconcetti di cui constano i principi per esperienza noti sono astrattidall’esperienza sensibile, e se il motivo per cui noi li componiamo o dividiamo

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deve esser desunto dall’esperienza, cominciando con alcuni giudizi singolari,per poi passare al giudizio universale, si deve dire che i principi per esperienzanoti si acquistano con induzione argomentativa. Ora a) i concetti dei principiper esperienza noti sono astratti dall’esperienza sensibile, per la stessa ragioneche abbiamo data nella parte precedente, b) il loro motivo deve essere desuntodall’esperienza, appunto perchè, non essendo sufficienti i soli terminiassolutamente considerati, dobbiamo ricorrere al motivo dell’esperienza, c)cominciando con alcuni giudizi singolari, perchè il motivo d’esperienza nonfonda immediatamente se non un giudizio singolare, d) per poi passare algiudizio universale, perchè, solo dopo una sufficiente esperienza di casisingolari, possiamo applicare il principio di costanza della natura, e cosìpassare al giudizio universale. Dunque i principi per esperienza noti siacquistano con induzione argomentativa. Si consulti nel testo la nota a p. 259. TERZA PARTE. - La prova di questa parte si fonda sulla constatazione di unduplice fatto, a) Anzitutto del fatto umano che noi spontaneamente procediamo,attendendo alla nostra esperienza quotidiana, a formarsi molte persuasionisull’ordine stabile del mondo in cui viviamo, b) In secondo luogo del fattoscientifico che i Cultori delle scienze metodicamente procedono, con accuratiesperimenti, a trasformare le ipotesi in leggi, le quali nel loro complesso, entrolimiti esattamente determinabili, senza dubbio esprimono uno stabile ordineesistente nel nostro universo. È chiaro che questo mirabile risultato dellaricerca scientifica ha un suo senso indubbiamente valido. Ciò premesso, cosìargomentiamo: Dalla certezza dell’ordine naturale; È proprio del nostro intelletto conoscere gliaspetti stabili delle cose sensibili, e di giudicare di questi aspetti stabili alla lucedei principi di ragione sufficiente, di causalità e di finalità. Se dunque,possiamo comprendere, con l’aiuto di esperienze sensibili, che la ragionesufficiente della stabilità di queste esperienze si trova nella stessa natura dellecose sensibili, si deve dire che l’induzione argomentativa è un processolegittimo. Ora senza dubbio qualche volta lo possiamo comprendere: perchècon l’aiuto degli esperimenti scientifici arriviamo a conoscere uno stabile edeterminato ordine esistente nel nostro universo. Dunque l’induzioneargomentativa deve dirsi un processo legittimo. A chiarificazione dell’argomento è utile osservare che, conoscendo uno stabilee determinato ordine esistente nel nostro universo, siamo certi di escludere ilpuro caso universale; e che essendo certi di escludere il puro caso universale,siamo certi che la ragione sufficiente della stabilità delle nostre esperienze sitrova nella stessa natura delle cose sensibili. È utile anche ricordare quanto

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abbiamo accennato dopo il corollario della tesi precedente, da cui si ricava che ipredicati stabili sulle cose sensibili portano logicamente alla affermazionedell’ente sostanziale. QUARTA PARTE. - Dalla differenza del medio, e del procedimento: Leargomentazioni che differiscono nel medio e nel processo, debbono dirsispecificamente differenti. Ora è manifesto che l’induzione e il sillogismo: a)differiscono nel medio, perchè il sillogismo, per un medio propriamente detto,cioè di media estensione, mostra che il termine di maggior estensione convieneal termine di minore estensione, mentre l’induzione, per un medioimpropriamente detto, cioè di minore estensione, mostra che il termine dimaggior estensione conviene al termine di media estensione; b) differiscono nelprocesso, perchè il sillogismo dal precognito più universale e più certodiscende al meno universale o al particolare, mentre l’induzione dai precognitisingolari ascende all’universale, o dai meno universali al, più universale.Dunque l’induzione ed il sillogismo devono dirsi specificamente differenti. Achiarimento dell’argomento si veda nel testo la Nota a p. 261. A spiegazione e complemento di quanto abbiamo qui detto sull’induzioneargomentativa, si veda tutto l’art. IV del C. III della Logica, p. 160-171. Nota conclusiva. Al principio di questo capitolo abbiamo premesso una notaintroduttoria per far conoscere quali erano le considerazioni fondamentalisecondo le quali si sarebbe sviluppata la nostra ricerca. Giunti alla fine delcapitolo, è utile riprendere il discorso per dare una breve sintesi delleconsiderazioni a cui la nostra ricerca è pervenuta. È un dato di esperienza interna che noi conosciamo progressivamente,cominciando col desumere dall’esperienza i concetti diretti più semplici e piùfacili, cioè i più generali, per poi procedere a concetti sempre meno semplici epiù difficili. Dopo aver formati i concetti più generali, e quindi piùfondamentali, il nostro intelletto è portato a comporli, in virtù del suo habitusnaturalis primorum principiorum, cioè a formare per spontanea induzioneastrattiva quei primi principi fondamentali per sé noti a tutti, alla luce dei qualigiudichiamo di ogni altra cosa (p. es. il principio di non contraddizione, diragione sufficiente, di causalità e finalità, ecc.). Formati questi principi, lanostra mente è in possesso stabile della fundamentalis veritas primorumprincipiorum. Questa fondamentale verità dei primi principi ha una duplicefunzione riguardo alla possibilità della nostra scienza. Essa anzitutto ci rende possibile la formazione di principi per sé noti meno

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universali, p. es. il principio di costanza della natura corporea, il quale,applicato all’esperienza, rende possibili e legittime le induzioni argomentative,che portano alla acquisizione dei principi per esperienza noti e delle leggi dellanatura. L’esistenza nella nostra mente di principi per sé noti, sia più comuni che menocomuni, sia propri di una scienza o di una sola branca di essa, fa sorgere in noiil processo deduttivo sillogistico, secondo la sua rigorosa forma e secondo ilsuo valore di verità. Infatti, questi principi, essendo enunciazioni distributive,cioè esigendo la loro applicazione ai propri inferiori, possono diventarepremesse maggiori. Lo diventano quando la nostra mente, progredendo aconcetti sempre meno semplici, e quindi ad enunciazioni sempre menouniversali, le sussume sotto i principi, determinando in tal modo la lorovirtualità. Così sorge nella nostra mente il processo da una verità piùuniversale, per comparazione con un termine medio, ad una verità menouniversale, o particolare. In questa maniera si perfeziona sempre più in noil’habitus ratiocinandi, ossia deducendi. Queste conclusioni si possono confermare riflettendo sul modo con cui noispontaneamente parliamo e dialoghiamo. È facile infatti avvertire che ogninostro discorso dialogato consiste nel proporre i nostri punti di vista; e chequesti punti di vista non sono altro che alcune considerazioni generali da noiapplicate al tema particolare che sta in discussione. Proprio in questa naturale tendenza ad applicare i principi generali ai casiparticolari, si fonda il fatto umano della nostra logica naturale; ed è propriodalla consapevolezza di questo fatto, che prende le mosse la ricerca esplicita emetodica della scienza logica formale e materiale.

CAPITOLO SESTOSTATI DELLA MENTE

Senso e divisione del capitolo. - 1. Dopo lo studio sulla verità dei nostriconcetti, giudizi e raziocinii, per completare la trattazione sulla verità da noiconosciuta non resta che esaminare quali siano gli stati della nostra mente inordine alla verità. Scopo di questo esame sarà lo studio del possesso della veritàe della limitatezza e deficienza del nostro intelletto nei riguardi della verità. 2. Per cominciare ordinatamente questo studio, è utile far presente quale sia la

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divisione sistematica di questi stati. Cominceremo col distinguere gli stati incui non c’è adesione alla verità, da tutti quegli altri stati in cui c’è una qualcheadesione; diciamo una qualche adesione, perchè questa adesione si può avere oin potenza o in atto, e se in atto, o in atto imperfetto o in atto perfetto. a) Siamo in atto perfetto quando sicuramente sappiamo di possedere la verità,cioè quando siamo certi. La certezza è quindi lo stato perfetto della nostramente. Essa si distingue spontaneamente: in certezza di visione, quando sifonda sulla evidenza intrinseca immediata dei termini, o in quantoassolutamente comparati, o almeno in quanto dati nell’esperienza; in certezza discienza, quando è fondata in una evidenza intrinseca mediata; ed in certezza difede, quando è fondata sull’evidenza estrinseca, cioè sulla sola scienza everacità dell’attestante. b) Siamo in atto imperfetto, quando non possediamo la verità, ma ci troviamoin una attuale tendenza ad essa. Ciò può avvenire in due modi: o in quanto abbiamo un assenso non fermo (iudicium infirmum) o in quanto tratteniamol’assenso, rimanendo in sospensione (cioè in apprensione comparativa). Nelprimo caso siamo in stato di opinione. Nel secondo caso, o ci sentiamo inclinativerso una parte piuttosto che verso l’altra, e allora ci troviamo in stato disuspicione; o non ci sentiamo inclinati ad una parte piuttosto che all’altra, eallora ci troviamo in uno stato di dubbio. c) Siamo in potenza, quando siamo in stato di disposizione più o menoprossima alla verità. d) Non c’è nessuna adesione alla verità quando siamo in stato di defezionedalla verità. Questa defezio-ne può essere negativa o positiva. La defezionenegativa può essere meramente negativa o privativa: nel primo caso abbiamo lostato di nescienza, cioè di semplice mancanza di scienza (intesa in senso lato);nel secondo caso abbiamo lo stato di ignoranza, cioè di carenza di quellascienza che dovremmo avere. La defezione positiva è lo stato di errore, in cuiassentiamo a ciò che è falso, cioè aderiamo al falso. 3. Non tutti questi stati hanno eguale importanza, e perciò noi in questocapitolo tratteremo esplicitamente solo dei principali. Nel primo articolotratteremo della certezza in genere e della certezza fondata nella evidenzaintrinseca, e nel secondo considereremo a parte la certezza fondata nellaevidenza estrinseca; nel terzo articolo tratteremo dell’opinione in quantoimperfetto assenso o di fatto vero o di fatto falso, e nel quarto considereremo aparte l’errore in quanto imperfetto assenso falso. Degli altri stati faremo un

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breve accenno in una nota.

ARTICOLO PRIMO

Certezza in Genere e Certezza Triplice

Senso della ricerca. - Il problema della certezza deve porsi anzitutto riguardoalla certezza in genere, poi riguardo alla certezza fondata nell’evidenzaintrinseca, ed infine riguardo a quella fondata nella evidenza estrinseca. Nel presente articolo esamineremo quale sia l’essenza della certezza in genere;quindi esamineremo se si devono ammettere diverse certezze fondatenell’evidenza intrinseca, e supposto che si devono ammettere, se si debbanodire tutte incompossibili col falso. TESI XXV. - Motivo essenziale della vera certezza non può essere che unagenuina evidenza; quindi le diverse certezze fondate nell’evidenzaintrinseca devono dirsi, ciascuna a suo modo, incompossibili col falso. (p.268-278) Osservazioni preliminari. - Nella tesi si studiano due problemi: il primo, piùimportante e fondante ogni ulteriore dottrina sulla certezza; il secondo menoimportante, e non sempre facile a determinarsi. Crediamo quindi convenientesvolgerli separatamente. 1. Abbiamo già spiegato che quando facciamo un giudizio certo, ad una realtàsignificata dal soggetto applichiamo un predicato, contemporaneamenteescludendo il predicato contradditorio, cioè affermando che quella realtà esistecosì e non altrimenti (ita et non aliter). Precisamente in questo senso lacertezza, in quanto stato perfetto della nostra mente, si suol definire “adesionedella nostra mente ad una parte della contraddizione, senza alcun timoredell’altra parte”. 2. In questa formula la parola timore, che per sé si riferisce al sentimento, èapplicata per analogia all’intelletto, per significare la esclusione dellapossibilità, o almeno della compossibilità, dell’altra parte. È chiaro che lacertezza, in quanto stato perfetto di una fa-coltà visiva e necessaria:negativamente, implica l’esclusione dell’altra parte (exclusio oppositi); epositivamente implica a) ex parte subiecti, la determinazione della mente aduna parte (determinatio mentis ad unum), e b) ex parte obiecti una evidenza

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oggettiva dell’enunciabile, necessitante la mente al giudizio. Così avviene checon la parola certezza soggettiva, o formale, si intenda comunementesignificare lo stato soggettivo di fermezza della mente, che esclude l’opposto; econ la parola certezza oggettiva, il motivo oggettivo in quanto necessitante. 3. Noi qui anzitutto intendiamo provare che la certezza oggettiva è inseparabiledalla vera certezza soggettiva, ossia, in altre parole, che l’evidenza oggettiva èmotivo essenziale di ogni nostra certezza. La prova si desume dalla natura stessa del nostro intelletto: La certezza è lostato perfetto della nostra mente, cioè l’attuazione perfetta del nostro intellettoin quanto facoltà essenzialmente visiva e necessaria. Ora questa attuazioneperfetta si può avere soltanto quando è presente l’evidenza dell’oggetto, perchèa) se si avesse la perfetta attuazione quando l’evidenza non c’è, intelletto non sipotrebbe più dire facoltà essenzialmente visiva, e b) se non si avesse la perfettaattuazione quando l’evidenza c’è, l’intelletto non si potrebbe più dire facoltàessenzialmente necessaria. Dunque la certezza si può avere soltanto quando èpresente l’evidenza dell’oggetto: ed in questo senso l’evidenza oggettiva devedirsi motivo essenziale di ogni nostra certezza. L’argomento si può proporre anche con altra terminologia, e si può confermaredalla logica rimozione dello Scetticismo, come accenniamo nel testo, p. 273. Dopo questa nostra asserzione preliminare possiamo passare al secondoproblema, per risolvere il quale dobbiamo premettere alcune più determinateprenozioni. Prenozioni e prove. - Quando abbiamo spiegato l’evidenza (che si chiamaanche certezza oggettiva) osservavamo che essa si fonda principalmente nellarealtà dell’oggetto, ma implica anche una relazione al soggetto, perchè se nonfosse manifesta al soggetto non potrebbe determinare la mente al giudizio certo.Adesso che abbiamo cominciato a spiegare la certezza formale, possiamo direche essa è principalmente stato del soggetto, ma implica anche una relazioneall’oggetto, perchè se il nostro intelletto non vedesse la oggettiva necessitàdell’enunciabile, non si determinerebbe al giudizio certo. Secondo questacorrelazione tra evidenza fondante e certezza fondata noi svilupperemo ilnostro esame sulla diversità delle nostre certezze. 1. Cominceremo premettendo una chiarificazione. Se si ritiene la divisionearistotelica della scienza umana in speculativa o pratica; se ulteriormente siritiene che la scienza speculativa può essere o dell’ente reale o dell’ente di

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ragione; e se infine si ritiene che la scienza dell’ente reale si distingue secondoi tre gradi di astrazione: si deve concludere che la scienza umana speculativa èa) o dell’ente di ragione, cioè logica, o dell’ente reale, e allora b) è o dell’entedi prima astrazione, cioè fisica c) o dell’ente di seconda astrazione, cioèmatematica d) o dell’ente di terza astrazione, cioè metafisica; e che la scienzaumana pratica e) è fondalmente etica. In questo senso non neghiamo che ilproblema della certezza possa essere quintuplice, cioè: quale sia la certezzalogica, metafisica, matematica, fisica e morale, Di fatti però il problema è statoposto con una terminologia un po’ differente, ed in questi termini: se oltre allacertezza chiamata metafisica, si debba anche ammettere una certezza chiamatafisica e morale; e in che senso queste due ultime certezze si possano dire verecertezze, incompatibili col falso. In questo senso il problema della certezza èdiventato triplice, e così noi ora lo svilupperemo. 2. Questa questione non è facile, ed è anche oggi soggetta a discussioni. Qui cilimitiamo alle prenozioni necessarie per chiarificare la soluzione che a noisembra da preferirsi. La certezza è specificata dal suo motivo formale, cioè dalla necessità oggettivadell’enunciabile in quanto manifesta alla niente. Nel suo aspetto reale, questanecessità è la determinazione stessa della cosa, in quanto sotto la legge delprincipio di non contraddizione. Nel suo aspetto logico è questa stessa necessitàreale in quanto manifesta in forma di enunciabile movente la mente all’assenso.Questa necessità logica può essere assoluta, quando manifesta la relazione tradue concetti essenziali, o ipotetica quando manifesta l’ordine tra la natura e lesue operazioni. La necessità ipotetica è chiamata fisica o morale, secondo chemanifesta l’ordine tra le cause fisiche ed i loro effetti, o tra le cause libere ed iloro atti. Possiamo quindi concludere che la certezza umana può essere assolutao ipotetica, e se ipotetica o fisica o morale. 3. In base a queste considerazioni, noi così determiniamo queste tre certezze: a) Chiamiamo certezza assoluta, che si dice anche metafisica, quella che ha permotivo la necessità dell’ordine intelligibile che vige tra le essenze, che èoggettivamente assoluto; questo motivo porta la mente ad applicare il predicatoal soggetto in maniera assoluta, così che l’opposto è escluso come impossibile. b) Chiamiamo certezza fisica, quella che ha per motivo la necessità ipoteticache vige tra la natura fisica e le sue operazioni; e nell’ordine di questa certezzadistinguiamo due casi, a) Chiamiamo certezza fisica reduttivamente metafisicail caso in cui è presente alla mente non solo il principio fisico ipoteticamente

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necessario, ma anche un motivo positivo che esclude l’ipotetica eccezione, equindi esclude l’opposto come impossibile; come p. es. quando diciamo: ognifuoco brucia, eccetto l’ipotesi di un miracolo; ma ripugna che il miracoloavvenga costantemente; dunque, in moltissimi casi, il fuoco brucia, b)Chiamiamo invece certezza in senso proprio fisica il caso in cui è presente allamente il principio fisico ipoteticamente necessario ed è assente ogni ragione incontrario, come p. es. quando spontaneamente diciamo: questo corpo cadrà,questo fuoco brucerà ecc. È chiaro che in questo caso non c’è certezzareduttivamente metafisica, e che l’opposto non è escluso come impossibile. c) Chiamiamo similmente certezza morale, quella che ha per motivo lanecessità ipotetica che vige tra le cause libere e gli atti ai quali sono stabilmenteinclinate; ed anche nell’ordine di questa certezza distinguiamo due casi, a)Chiamiamo certezza morale reduttivamente metafisica il caso in cui alla menteè presente non solo il principio morale ipoteticamente necessario, ma anche unmotivo positivo che esclude l’eccezione, e che quindi esclude l’opposto comeimpossibile; come p. es. quando diciamo: ogni madre ama i suoi figli, eccettoun caso di mostruosità; ma ripugna che la mostruosità sia costante; dunque inmoltissimi casi, le madri amano i propri figli, b) Chiamiamo certezza in sensoproprio morale il caso in cui alla mente è presente il principio moraleipoteticamente necessario, ed è assente ogni ragione in contrario, come p. es.quando spontaneamente diciamo: quest’uomo non mente, questa madre ama ilsuo figlio ecc. È chiaro che questa certezza morale ha le stesse caratteristichedella corrispondente certezza fisica. 4. Queste prenozioni ci sembrano sufficienti per rendere chiaro il senso delnostro triplice problema, la prima soluzione sicura che già si può dare, e lapossibile soluzione che rimane ancora da ricercare. È chiaro che si devesenz’altro ammettere come genuina certezza quella assoluta o metafisica, eanche quella fisica e morale reduttivamente metafisiche; purché in tutti questicasi aderiamo aduna parte della contraddizione senza timore dell’opposto, ilquale è escluso come impossibile. 5. Il problema resta aperto per la certezza in senso proprio fisica e morale. Ladifficoltà del problema appare anche dal fatto che sono state proposte trediverse soluzioni. Alcuni, infatti, per restare fedeli al principio fondamentaleche la certezza, fondata nella evidenza, esclude l’opposto, e reputando chel’opposto non si esclude se non quando è impossibile, concludono che quellada noi chiamata certezza in senso proprio fisica e morale non sono verecertezze. Altri ammettono il fatto umano delle certezze fisica e morale, e lespiegano come categoriche, inclinando però a dire che qualche volta possono

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essere connesse col falso (per accidens). Altri infine ammettono questecertezze, spiegandole comeestrinsecamente ipotetiche e formalmentecategoriche, nel senso che l’ipotesi è tacitamente supposta anche se nonformalmente considerata, e che proprio in questo senso, cioè nell’ambitoformale del loro motivo, escludono l’opposto, non come impossibile, ma comeincompossibile. Poiché non possiamo sottrarci alla questione, noi diciamo che,omnibus perpensis, incliniamo a questa terza opinione, anche se essa si ponecon una terminologia più difficile, come accenniamo nel testo a p. 272. 6. Ciò premesso, non ci resta che dare le ragioni in favore della terza opinione.Due cose intendiamo provare: a) che è legittimo ammettere una certezza fisica emorale, e b) che nel senso in cui è ammessa si deve dire incompossibile colfalso. La prima prova si desume dal fatto umano, che nella filosofia non deve essernegato, ma riconosciuto e spiegato: consta infatti che noi viviamo la nostra vita,nel suo senso pratico e speculativo, consciamente aderendo a molteapplicazioni delle leggi fisiche e morali perchè non vediamo alcun motivo perritardare il nostro assenso a queste applicazioni, come p. es. quando diciamo:questo uomo non mente, questo fenomeno deve esser già avvenuto, questofuoco brucerà, ecc. Orbene questa adesione: a) è vera certezza, perchè lacoscienza ci certifica che in questa nostra adesione ci sono ambedue glielementi della certezza, cioè la fermezza della mente e la esclusionedell’opposto, b) non è certezza reduttivamente metafisica, perchè non abbiamoun motivo positivo per escludere l’opposto come impossibile, c) è certezza insenso proprio fisica e morale, perchè, oltre alla legge generale che urge la suaapplicazione per assenza di ragioni in contrario, non abbiamo altro motivo. Inquesto senso si può legittimamente dire che esiste una umana certezza fisica emorale. La seconda prova si desume dalla generale osservazione che ogni negativo sifonda in un positivo, e che nel caso della certezza l’elemento negativo è làesclusione dell’opposto, e l’elemento positivo è l’interna fermezza della mente.Da ciò ne consegue che quando la fermezza della mente è differente, è anchedifferènte la esclusione dell’opposto. Ora altra è la fermezza della certezzafondata nella oggettiva necessità assoluta, ed altra è la fermezza della certezzafondata nella necessità ipotetica. Dunque altra è l’esclusione dell’opposto nellacertezza metafisica (in cui l’opposto è escluso come impossibile) ed altra èl’esclusione nella certezza fisica e morale (in cui l’opposto è semplicementeescluso come incompossibile). Inoltre: altra è la fermezza della certezza fondatanella determinazione della natura fisica, e altra è la certezza fondata nella

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stabile inclinazione della libera volontà. Dunque altra è l’esclusionedell’opposto nella certezza fisica, ed altra nella certezza morale. Nota. Il problema della certezza fa parte del problema della verità e partecipadella sua importanza fondamentale; per questo lo abbiamo trattato. Restanoalcune spiegazioni complementari a cui accenneremo brevemente. La prima èche, secondo la teoria proposta nella tesi, il concetto di certezza deve dirsi unconcetto analogo proporzionale, in quanto non si determina alle diversecertezze per l’aggiunta di una nuova nota differenziale, ma per determinazionedelle stesse note che costituiscono la sua definizione. La seconda, conseguentealla prima, è che le tre certezze non si differenziano come specie, ma comequasi specie. La terza, che è ovvia, è che ciascuna delle tre certezze può averegradi accidentali.

ARTICOLO SECONDO

Certezza Fondata nel Testimonio

Senso della ricerca, - Dopo aver considerata la certezza fondata nell’evidenzaintrinseca, a complemento occorre fare almeno un breve esame sulla certezzafondata nella evidenza estrinseca. Prima però di fare questo, è necessarioesaminare se il testimonio umano, in determinate circostanze, può causare innoi una vera certezza. TESI XXVI. - Il testimonio umano, non solo storico ma anche dottrinale,può causare vera certezza. L’as senso di fede è un atto dell’intelletto, che èposto sotto un qualche influsso diretto della volontà. (p. 278-291) Osservazioni preliminari. - Da questa tesi sino alla fine del capitolo dovremoconsiderare anche l’influsso della volontà sul nostro intelletto. Ci sembraquindi utile dare in sintesi alcune fondamentali considerazioni su questoinflusso, in modo da poterle poi agevolmente applicare ai problemi che sipresenteranno. 1. Che la volontà influisca sul nostro intelletto è anzitutto un dato interno dicoscienza: giacché spesso siamo coscienti di pensare quello che scegliamo evogliamo pensare. La giustificazione teoretica di questo fatto la possiamoricavare dalla natura stessa della volontà, che tende al bene in genere, e quindipuò tendere ad ogni bene (come il nostro intelletto conosce l’ente in genere, equindi può conoscere ogni ente). Non v’è dubbio che tra i beni convenienti

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all’uomo c’è anche il vero, e quindi gli atti con cui possediamo il vero, e lafacoltà elicitiva di questi atti; è chiaro perciò che la volontà può influire sulnostro intelletto affinchè ponga gli atti con cui possa pervenire a possedere ilvero. Per la stessa ragione si deve dire che la volontà può influire sui nostrisensi, che sono i mezzi naturali di cui l’intelletto si serve per conoscere il suooggetto. Qui ci sembra utile fare subito una chiarificazione. La volontà non tende se nonal bene che gli fa conoscere l’intelletto (nihil volitum, nisi praecognitum). Inquesto senso si deve dire che la causalità tra l’intelletto e la volontà è mutua.L’intelletto influisce sulla volontà presentandole un vero come un bene; dopo,la volontà, appetendo questo bene, influisce sull’intelletto perchè possapervenire a possedere questo vero (come spieghiamo nel testo, a p. 288). Per sviluppare una teoria esatta dell’influsso della volontà sull’intelletto, ènecessario conoscere alcune determinate terminologie. Qui ne ricordiamo due. 1. La prima distingue l’influsso della volontà riguardo all’esercizio dell’attointellettivo e riguardo alla specificazione dell’atto stesso. Si ha il primo influssoquando la volontà influisce perchè l’atto si ponga (sia di semplice apprensione,sia di giudizio). Si ha il secondo influsso quando la volontà influisce perchèl’atto sia specificato da un oggetto formale piuttosto che da un’altro oggettoformale (sia per quanto riguarda l’oggetto di una semplice apprensione, sia perquanto riguarda l’oggetto di un giudizio). 2. La seconda terminologia distingue l’influsso della volontà in remoto eprossimo, e suddivide l’influsso prossimo in indiretto e diretto. L’influssoremoto è a fare una semplice apprensione assoluta di una cosa; l’influssoprossimo indiretto è a fare una semplice apprensione comparativa, per trovarein essa un motivo necessitante al giudizio; l’influsso prossimo diretto è a fareun giudizio, che senza l’influsso della volontà non si potrebbe fare. 3. Queste terminologie non sono opposte, si possono integrare a vicenda, esono utili per proporre una prima teoria fondamentale dell’influsso dellavolontà sull’intelletto. Da quanto abbiamo detto sull’astrazione del concetto universale dalle immaginisensibili delle cose esterne, è chiaro che si deve ammettere l’influsso remotodella volontà: però soltanto riguardo all’esercizio dell’atto, e non riguardo allasua specificazione: perchè la volontà non può influire sull’intelletto perchèastragga dalla immagine sensibile, p.es. di un leone, un concetto che non sia di

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leone. Dalla nostra interna esperienza possiamo ricavare che si deve ammettere ancheun influsso prossimo indiretto, perchè spesso, volendo capire una composizioneche ancora non comprendiamo, applichiamo la nostra intelligenza a compararneattentamente i termini, e a confrontarli con un medio. In questo caso l’influssodella volontà è legittimo, perchè è legittimo aspirare a possedere il vero. Questoinflusso della volontà è di fatto prerequisito per lo studio delle verità difficili, especialmente per la comprensione di alcune verità morali e religiose: perchècome la negligente o cattiva volontà può influire a far sì che l’intelletto sidistragga e non attenda ai motivi, così la volontà diligente e virtuosa puòinfluire a far si che l’intelletto si concentri e attenda, e dopo l’attenzionefinalmente veda, il motivo necessitante e decisivo. Anche in questo casol’influsso della volontà riguarda l’esercizio dell’atto, e non la suaspecificazione: perchè una volta visto il motivo, è questo stesso motivo chenecessi ta l’intelletto al giudizio; e quindi in questo momento la volontà nonpuò più avere un peso decisivo. Resta ancora un’ultima domanda: si può dare l’influsso prossimo diretto, che èsempre riguardante la specificazione dell’atto? Da quanto abbiamo or oraaccennato, possiamo legittimamente avvertire che davanti all’evidenzaoggettiva intrinseca dell’enunciabile, sia immediata che mediata, l’influssodella volontà non può avere un peso decisivo: perchè il nostro intelletto, che èfacoltà visiva e necessaria, è necessitato da questa evidenza al giudizio certo,cioè è specificato dalla stessa evidenza. Resta ora da esaminare quale peso possa avere la volontà riguardo agli assensiche non sono fondati nella evidenza intrinseca, cominciando con l’esamedell’atto di fede fondato nella attendibile autorità dell’attestante. Prenozioni e prove. - Due problemi esaminiamo nella tesi. Anzitutto se iltestimonio umano può causare vera certezza. Poi, quale sia la natura dell’atto difede umana fondato nella attendibilità del testificante. 1. Il testificante (o attestante, o testimoniante, o semplicemente teste) èpropriamente colui che, dopo aver conosciuto una verità, con segni esterni lacomunica ad altri, senza però procurare ad essi una evidenza intrinseca; ed inquesto il testificante differisce dal maestro, ed il testimonio dal magistero.Secondo la sua connessione con la cosa conosciuta, il testificante si distingue inimmediato e mediato; secondo il tempo in coevo, quasi coevo, e remoto oposteriore. (Ad evitare fraintendimenti, è utile avvertire che nel linguaggio

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usuale qualche volta il testimoniante è detto anche testimonio). 2. Il testimonio (o testimonianza o testificazione) nel suo senso più ampio èl’atto con cui il testificante manifesta agli altri la cosa che ha conosciuta. Iltestimonio si distingue anzitutto in divino ed umano, secondo che viene da Dioo da un uomo; poi in storico e dottrinale, secondo che fa conoscere un fatto ouna dottrina; e poi in orale, scritto, o in qualunque altro modo significativo. Sidistingue inoltre in formale e materiale o virtuale, secondo che la testificazioneè fatta con l’intenzione di. testificare, o senza questa intenzione. 3. Col nome di autorità qui intendiamo ciò che rende idoneo il testificante a farcredibile ciò che attesta, ossia ad ottenere l’assenso all’enunciabile testificato.L’autorità risulta da una duplice qualità del testificante, cioè dalla sua scienza(o cognizione certa) e dalla sua veracità (o sincerità), in modo che consti cheegli né si è sbagliato, né ha voluto ingannare. Questa autorità del testificantepuò esser intesa a) o in senso stretto, cioè come permanente ed abituale (che inDio è assoluta ed illimitata, nella creatura partecipata e limitata),b) o in sensolato, cioè come contingente ed accidentale, ad es. in un testificante occasionale. 4. Col nome di credibilità intendiamo tutto ciò che è prerequisito per portarciall’assenso sopra un enunciabile testificato. In questo senso l’evidenza dicredibilità è l’evidenza del fatto del testimonio, e della scienza e veracità deltestificante. Qui è opportuno avvertire che la scienza del testificante ci consta per la suaveracità; ma perchè consti è necessario che si comprenda che essa fu,nell’attestante, possibile. La veracità dell’attestante consta nel medesimofondamentale modo con cui consta la sincerità degli uomini, cioè dalledeterminate circostanze di sincerità, comprese alla luce di alcune generali leggimorali (p. es. che l’uomo è socialmente comunicativo, che non mente quandonon ha alcuna ragione per mentire, ecc.). 5. Col nome di fede intendiamo l’atto di assenso che diamo ad un enunciabiletestificato. È chiaro che perchè questo assenso sia certo, si richiede chel’enunciabile sia accettabile come vero, in modo da escludere il timoredell’opposto. Si suol distinguere nella fede l’oggetto materiale, cioèl’enunciabile testificato, e l’oggetto formale, cioè l’autorità dell’attestante, laquale, sebbene estrinseca all’enunciabile testificato, per il fatto stesso dellatestificazione è con questo enunciabile necessariamente connessa. 6. Nella presente tesi anzitutto asseriamo, in opposizione allo scetticismo e

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relativismo storico, che il testimonio storico può, in determinate condizioni,causare vera certezza (prima parte), e che può causare certezza, in qualche caso,anche il testimonio dottrinale (seconda parte). È chiaro che il realismointellettualistico conviene col realismo storico spiegato nella tesi (si cfr. il testo,p. 283-284). Ciò stabilito, faremo un breve accenno alla fede umana fondata nel testimonioumano, limitandoci a considerare l’assenso in quegli enunciabili testificati chea) né sono per sé noti, né sono risolvibili in un principio per sé noto, e che b) sipresentano credibili per la sola attendibilità del testimonio dottrinale o storicodell’attestante. Ed asseriamo, in opposizione all’esagerato volontarismo, chel’assenso di fede è un atto giudicativo dell’intelletto (terza parte); ed inopposizione all’esagerato razionalismo, che questo atto di fede è posto sotto unqualche influsso diretto della volontà (quarta parte). PRIMA PARTE. - Dalla necessaria connessione: Se ci consta il fatto deltestimonio storico, e la scienza e veracità dell’attestante, ci consta chel’enunciabile testificato può esser accettato come vero; e se ci consta che puòesser accettato come vero, lo possiamo afferma re con fermezza e senza timoredell’opposto. Ora è chiaro che qualche volta ci consta il fatto del testimonio, ela scienza e veracità dell’attestante, e quindi ci consta che l’enunciabiletestificato può esser accettato come vero. Dunque lo possiamo affermare confermezza, e senza timore dell’opposto: ed in questo senso si deve dire che iltestimonio storico può causare vera certezza. Per stabilire la conclusione occorre mostrare che qualche volta possiamoconoscere il fatto del testimonio, e la scienza e la veracità dell’attestante. Lofaremo in queste note sinteticamente, dando lo stesso schema sia nei riguardidella vita umana, sia nei riguardi della storia (rimettendo per altri particolari aciò che è detto nel testo, p. 284-285). 1. Riguardo alla vita umana: a) Il fatto del testimonio, può facilmente constareper esperienza sensibile, quando p. es. si conosce la lingua e gli usi, e sipartecipa alla comune mentalità, ecc. b) La scienza possibile dell’attestante,può constare quando p. es. comprendiamo che si tratta di un fatto semplice epubblico, che l’attestante ha le facoltà conoscitive normalmente ben disposte, ela memoria capace di ritenere in modo facile le cose facili, ecc. c) Per laveracità occorre distinguere quando si tratta di un solo testificante o diparecchi. Se si tratta di un solo testificante, la sua veracità può constare dai suoiconcreti segni di sincerità, ecc. specialmente se si tratta di persona benconosciuta per la sua abituale modestia e correttezza, ecc. Se si tratta di

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parecchi testificanti, la loro veracità può constare non solo perchè in ciascunodi essi si possono verificare le condizioni prerequisite per i singoli, ma ancheperchè dalla loro convergenza si ricava un nuovo motivo per escludere unamenzogna collettiva. 2. Riguardo alla storia: a) Il fatto del testimonio può facilmente constarequando lo si legge, o lo si ha sotto gli occhi, e lo si sottopone ad esamestudiando la forma ed il modo suo proprio, tenendo presenti le consuetudinidella vita umana, ecc. b) La scienza possibile dell’attestante, può constarequando il fatto riferito è pubblico, illustre, facilmente divulgatale, e l’attestanteè coevo o quasi coevo, oppure già noto per la erudizione con cui vaglia le;testimonianze del passato, ecc. c) Per la veracità si richiede spesso una accuratainquisizione. Se si tratta di un solo testimonio, la veracità può constare quandop. es. si sottopone la testificazione ad esame accurato, rilevando i concetti segnidi sincerità, considerando che i coevi avrebbero potuto facilmente contraddire,o che la testimonianza non poteva essere interessata, in quanto la si sapevasoggetta a forti difficoltà, ecc. Se si tratta di parecchi testimoni, la veracità puòconstare p. es. quando, oltre alle condizioni prerequisite per i singoli, si verificache si tratta di testificanti tra loro indipendenti, che attestano in modi differentiun fatto sostanzialmente identico: perchè in questi casi, alla luce del principiodi ragione sufficiente, si ricava un nuovo e valido motivo per escludere lamenzogna preordinata. SECONDA PARTE. - Occorre avvertire che altro è prender atto di unadottrina comunicata per dedicarsi ad investigare nel senso di questa dottrina, ealtro è accettare questa dottrina come vera per il fatto che essa è comunicata,cioè per fede umana nell’autorità del dotto che la comunica. Qui intendiamosemplicemente affermare che anche questo caso può talvolta verificarsi.L’argomento è sempre desunto dalla connessione col vero. Se consta che una determinata dottrina è comunica-ta come acquisita, consincerità scientifica, da un competente che può averne la scienza, consta che ladottrina comunicata può esser accettata come vera; e quindi possiamo dare aquesta dottrina il nostro consenso certo. Orbene qualche volta è possibile cheriguardo a qualche determinata dottrina si verifichino queste condizioni.Dunque possiamo dare a questa dottrina il nostro consenso certo: e in questosenso si può dire che il testimonio dottrinale può causare una vera certezza. A chiarimento della conclusione ci limitiamo a rilevare: a) Il fatto dellacomunicazione dottrinale può facilmente constare, perchè spesso bastal’esperienza sensibile, la cognizione della terminologia e la partecipazione della

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mentalità scientifica, b) La sincerità scientifica anche può facilmente constare,specialmente quando si tratta di persona onestamente impegnata, deditaseriamente allo studio, a cui una flagrante menzogna porterebbe graviinconvenienti, ecc. c) La loro scienza possibile non sempre può facilmenteconstare; ma non si può escludere che qualche volta possa constare, p. es. a)quando già si conoscono gli studi precedenti dell’attestante, la sua perizia nellapropria materia, ecc. b) quando si tratta di un esperimento importante perdeterminare una teoria a cui più studiosi già attendono, o di un calcolomatematico sviluppato in maniera nuova, o di una conclusione nonestravagante, ma coerentemente integrante le altre conclusioni già acquisite,ecc. Nota. È stato giustamente osservato che il testimonio dottrinale è piùfacilmente ricevuto dai progrediti e dai dotti, perchè questi sono in grado dicomprendere meglio il valore di una dottrina comunicata; e che senza la fiduciain ciò che comunicano i competenti nelle diverse materie, il progresso umanoscientifico non sarebbe possibile. Per quanto riguarda la terza e quarta parte, ci limitiamo ad alcune spiegazioni. L’argomento della terza parte si desume dall’oggetto della fede: In base alprincipio a suo tempo illustrato, che le potenze conoscitive sono specificatedall’alto e l’atto dall’oggetto, si deve concludere che l’atto di assenso in unenunciabile vero non può esser posto che dalla facoltà la cui perfezione è ilpossesso del vero, cioè dell’intelletto. Ora è chiaro che l’assenso di fede è in unenunciabile comunicato come vero ed accettato come vero. Dunque l’atto difede è posto dall’intelletto. Poiché la verità si conosce perfettamente nel giudizio, l’atto di fede è un attodell’intelletto giudicante. Si veda la chiarificazione che è proposta da S.Tommaso, citato nel testo ap.287. Nota. Qui crediamo sia utile una precisazione terminologica sulle diverseevidenze. Nella tesi sull’evidenza come criterio della verità abbiamo spiegatoche per evidenza intendiamo la chiara intelligibilità dell’enunciabile, ossia lanecessità oggettiva dell’enunciabile, in quanto manifesta alla mente. Questaevidenza è stata da noi distinta in evidenza intrinseca o estrinseca allo stessoenunciabile. L’evidenza intrinseca consiste nella chiara intelligibilità chel’enunciabile ha in sé stesso, ed è stata da noi distinta in immediata o mediata. L’evidenza intrinseca immediata si trova anzitutto negli enunciabili che

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fondano la certa cognizione dei giudizi universali assoluti immediati, perchè inquesti giudizi il motivo è intrinseco alla apprensione comparativa dei terminiassolutamente considerati (principia stricto senso per se nota ad intellectum).Poi si trova anche negli enunciabili che fondano i certi giudizi immediatid’esperienza, perchè in questi giudizi il motivo d’esperienza, sebbeneestrinseco ai termini assolutamente considerati, non può dirsi estrinseco allacomparazione dei termini concretamente considerati, cioè alla evidenzadell’enunciabile che fonda il giudizio di esperienza (iudicium per se notum adsensum). L’evidenza intrinseca mediata si trova nella apprensione comparativa di duepremesse intrinsecamente evidenti che fonda il certo giudizio conclusivo,perchè è all’interno di questa comparazione che gli estremi sono visti comeconvenienti col medio, ossia come necessitanti al giudizio conclusivo. L’evidenza estrinseca si attribuisce a quegli enunciabili che hanno il loromotivo non solo estrinseco ai termini assolutamente considerati, ma anche aitermini concretamente considerati; e proprio in questo senso essi si diconofondati in un motivo estrinseco. Questi sono gli enunciabili credibili per la solaautorità dell’attestante, che è esterna all’enunciabile testificato, sebbene per ilfatto della testificazione sia con essi necessariamente connessa. L’argomento della quarta parte pensiamo sia fondato nel principio che il nostrointelletto, essendo facoltà essenzialmente visiva e necessaria, è per sénecessitato quando vede la convenienza del predicato col soggetto, e non è persé necessitato quando non vede la convenienza del predicato col soggetto. Oraè chiaro che quando è presente una genuina evidenza intrinsecadell’enunciabile, l’intelletto vede la convenienza del predicato col soggetto;quando invece questa evidenza intrinseca dell’enunciabile non è presente,l’intelletto questa convenienza non la vede. Da ciò ne segue: a) che l’intelletto,in quanto visivo e necessario, è per sé determinato all’assenso dalla solaevidenza intrinseca, immediata o mediata; b) che quando è presente la solaevidenza estrinseca, l’intelletto deve esser determinato da un influsso dellavolontà. Che negli assensi di cui ora ci occupiamo non sia presente una evidenzaintrinseca, risulta dal fatto che, come abbiamo detto nelle prenozioni, nonconsideriamo enunciabili immediatamente evidenti o mediatamente risolvibiliin un principio per sé noto. Che in questi assensi sia presente una evidenza estrinseca di credibilità, si può

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chiarificare osservando a) che il motivo per cui crediamo è soltanto laprecognita evidenza del fatto del testimonio, e dell’attendibile scienza everacità del testificante, e b) che questo motivo è sufficiente a farcicomprendere che l’enunciabile testificato è credibile come vero, ed in questosenso presentabile alla volontà in quanto appetibile come bene dell’intelletto. Èsuperfluo aggiungere che in questo caso l’appetibilità di questo bene deve dirsilegittima. Ciò premesso, così possiamo riassumere l’argomento. Dalla mancanza dellaevidenza intrinseca: L’assenso di fede per la sola attendibile autoritàdell’attestante umano, non è fondato nella evidenza intrinseca dell’enunciabile.Dunque è posto per un legittimo influsso diretto dalla volontà. COROLLARIO. - Dunque il consenso moralmente stabile e universale delgenere umano in alcuni enunciabili (che giustamente si dicono appartenere alsenso comune della natura), non solo è valido per fare una argomentazioneindiretta, ma anche per causare in ciascuno di noi, con propria autorità, unavera certezza. In questo corollario facciamo un breve accenno a quei giudizi spontanei, certied uniformi, che sono detti patrimonio del genere umano, perchè stabilmente siritrovano, nel loro ovvio senso, in tutta o quasi la generalità degli uomini, e chesono assunti a fondamento direttivo della vita umana, come p. es.: Esiste unNume superiore. Il bene si deve fare, ed il male si deve evitare. L’animasopravvive al corpo. La vita deve essere sociale. I patti legittimi devono essereosservati, ecc. Non abbiamo difficoltà a concedere che questi giudizi, perchè spontanei, certi,e stabilmente direttivi della vita umana, non hanno ragione sufficiente se nonnella stessa natura dell’intelletto umano; e quindi devono esser accettati comeinfallibili, perchè la natura in ciò che è necessario e fondamentale non puòessere defettibile: come già notava dall’antichità M. T. Cicerone (Omnis autemin re consensio omnium gentium, lex naturae putanda est), e vividamenteTertulliano (Quanto communia, tanto naturalia: quanto naturalia, tanto divina).Concediamo quindi che da questo uniforme consenso si può argomentareindirettamente, avvertendo che la negazione di questi giudizi si rifonderebbenella natura stessa del nostro intelletto. È necessario però determinareaccuratamente questi argomenti. Nel Corollario aggiungiamo che questo consenso moralmente uniforme eduniversale del genere umano, ed in questo senso di tutti gli uomini, può

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causare, anche sotto l’aspetto autoritativo, una sua propria certezza: in quantouno può capire che tutti, collettivamente presi, giudicano meglio che lui solo. La prova si desume dal fatto che il consenso moralmente uniforme eduniversale di tutti gli uomini, oltre la autorità che le individuali testimonianzepossono avere, acquista speciale peso di autorità quando è considerato comeunione della persuasione di tutti, ed in questo senso come testimonianza di tutti.Infatti, come dalla convergenza delle probabilità, alla luce del principio diragione sufficiente, si può ricavare un nuovo motivo che non si può desumeredai singoli separatamente presi: così dalla unione della persuasione di tutti gliuomini, sempre alla luce dello stesso principio, si può ricavare un nuovomotivo di autorità, che non si può desumere dalla sola testimonianzaindividuale dei singoli.

ARTICOLO TERZO

L’Opinione

Senso della ricerca. - Dopo la considerazione dell’assenso certo, è necessariaanche una adeguata considerazione dell’assenso non certo, che si risolvesempre in una opinione, o di fatto vera, o di fatto falsa. Tratteremo quindi primadella opinione in genere, e poi dell’errore. Riguardo alla opinione, non c’èproblema per la sua definizione; ma dobbiamo esaminare che cosa sia il timoredell’opposto che è sempre implicato in ogni opinione. Poi dovremo esaminarequali siano le cause dell’opinione, cioè quale sia il suo motivo, e quale sial’influsso della volontà. Infine faremo anche un breve accenno sulla relazionetra le opinioni più o meno probabili. Dell’assenso erroneo tratteremonell’articolo seguente. TESI XXVII: - L’opinione è un assenso non fermo che implica una qualchecognizione della possibilità dell’opposto; si fonda sulla probabilitàdell’enunziabile, e si pone sotto un influsso diretto della volontà: è perchépuò essere sia del vero che del falso, della più probabile non si puòconcludere alla falsità della meno probabile. (p.292-298). Prenozioni. - 1. Comunemente si ammette che l’opinione è uno statointermedio tra la fermezza propria della certezza e la sospensione propria deldubbio; e che si distingue dal dubbio perchè è uno stato di assenso, e dallacertezza perchè è un assenso non fermo (assensus infirmus), cioè con timoredell’opposto. In questo senso la opinione si suol definire adesione della mente

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ad una parte della contraddizione, ma con timore dell’altra. Mentre dunque lacertezza è un assenso fermo perchè fondata in un motivo necessario, laopinione è assenso non fermo perchè fondata in un motivo contingente, cioènon necessitante. Abbiamo già spiegato nella tesi precedente che la espressione senza timoredell’opposto, in quanto si riferisce all’intelletto certo, significa esclusione dellapossibilità dell’opposto. Quindi la espressione con timore dell’opposto, che quiusiamo per definire l’opinione, significa: con una qualche cognizione dellapossibilità dell’opposto (cogitatio de opposito, o anche preoccupazionedell’opposto). Qui si apre un problema: che cosa si deve intendere per “cognizione dellapossibilità dell’opposto”? Si deve intendere cognizione formale o virtuale? Lacognizione formale è la cognizione attuale della possibilità dell’opposto, cioèattualmente implicata nell’atto stesso dell’assenso opinativo (impliciteformaliter). La cognizione virtuale è la cognizione virtuale della possibilitàdell’opposto, cioè virtualmente implicata nell’atto stesso del giudizio opinativo(implicite virtualiter); ossia è la cognizione di alcuni aspetti oggettivi esoggettivi del nostro giudizio opinativo, che sono requisiti e sufficienti perportarci alla cognizione attuale della possibilità dell’opposto. Nel linguaggio usuale col nome di opinione qualche volta si intende sia ilgiudizio opinativo diretto, sia il giudizio riflesso sulla opinabilità o probabilitàdell’enunciabile. Noi qui per opinione intendiamo il giudizio opinativo diretto.Ed asseriamo che, nel momento in cui poniamo questo giudizio, abbiamo lacognizione virtuale dell’opposto, in questo senso: che non essendo coscienti diun motivo oggettivo necessitante e della fermezza del nostro assenso, cioèavendo una implicita coscienza di un motivo contingente e della non fermezzanel nostro assenso, conosciamo ciò che è requisito e sufficiente per poterriflettere sull’atto opinativo già fatto, e per conoscere attualmente che l’oppostoè possibile. 2. Ciò premesso, cominciamo ad esaminare le cause dell’assenso opinativo,cioè il motivo in cui questo assenso si fonda, e l’influsso della volontà sotto ilquale esso è posto. Riguardo al motivo, asseriamo che esso consiste nella probabilità overosimiglianza dell’enunciabile opinato. Il verisimile non è il vero, ma ciò cheappare simile al vero, ossia ciò che appare forse vero; quindi l’apprensione diun enunciabile verisimile, suppone che si sia già conosciuto qualche vero, ma

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consiste nel vedere l’enunciabile come forse, cioè probabilmente, vero. Mentrequindi l’evidenza è motivo oggettivo, assoluto e necessario, la probabilità èmotivo contingente, relativo e complessivamente soggettivo: contingente,perchè non necessitante, relativo, perchè non assoluto; soggettivo, perchè cosìapparente al soggetto conoscente. La probabilità si suole distinguere: a) in prevalente (detta anche assoluta) e nonprevalente (detta anche relativa), secondo che il motivo dell’assenso vale adinclinare al giudizio tutti o quasi tutti gli uomini prudenti, o solo qualcuno; b)in intrinseca o estrinseca, secondo che il motivo dell’assenso si fonda sullanatura verisimile dell’enunciabile o soltanto sulla proporzionale, autorità di chilo presenta. È utile ricordare che Aristotele chiama probabile ciò che appareapprovabile a tutti o a molti, specialmente se più prudenti, o più dotti, o piùstimati. Nella tesi asseriamo che le cause dell’assenso opinativo sono, ex parte obiecti,una probabilità o verosimiglianza dell’enunciabile; il quale essendocontingente, non è sufficiente a necessitare il nostro intelletto al giudizio. Equindi asseriamo che l’assenso opinativo, ex parte subiecti, non si può porre senon sotto un influsso diretto della volontà. 3. Risolte queste questioni, passeremo ad esaminare altri problemi che sonostati posti circa l’opinione. Si suole considerare l’opinione come un assensoorientato verso la verità, anche se ancora non la raggiunge. Il primo problema èse l’opinione cada su ciò che è vero o su ciò che è falso; il secondo problema,supponendo concesso come ovvio che ci sono gradi nella probabilità, è se dallaopinione più probabile, o addirittura probabilissima, si possa concludere allafalsità della opinione meno probabile. Rispondiamo che l’opinione può cadere sia sul vero che sul falso: cioè chel’opinione è o di fatto vera, o di fatto falsa; e da ciò concludiamo che, suppostoun giudizio riflesso sulla graduale probabilità di alcune opinioni, non èpossibile dalla più probabile concludere alla falsità della meno probabile. Divideremo quindi la prova della tesi in cinque parti. Nella prima diremo chenell’atto opinativo diretto vi è virtuale cognizione dell’opposto; nella secondache il motivo che inclina all’opinione è la probabilità dell’enunciabile; e nellaterza che l’assenso opinativo è posto sotto l’influsso diretto della volontà. Èchiaro che queste tre parti si integrano a vicenda. Quindi nella quarta e quintaparte, dopo aver mostrato che l’opinione può essere sia di ciò che è vero, sia diciò che è falso, concluderemo che dalla più probabile non è possibile inferire la

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falsità della meno probabile. Opinioni. - Per ciò che riguarda la prima parte, non ci sembra che ci sia veradifferenza tra gli Autori, se non fosse nel fatto che alcuni sotto il nome diopinione comprendono anche il giudizio riflesso di opinabilità (in cui ci puòessere la formale cognizione dell’opposto) mentre noi nella tesi ci riferiamo alsolo giudizio opinativo diretto. Per ciò che riguarda la seconda e la terza parte, si oppone l’esageratorazionalismo che risolve l’opinione nel solo atto intellettivo e l’esageratovolontarismo che attribuisce l’opinione soprattutto o esclusivamente allavolontà. Al di fuori di queste tendenze, ci sembra che ci sia il comune consensoper ciò che si spiega nella tesi. Per ciò che riguarda gli ultimi problemi della quarta e quinta parte, nonconveniamo con alcuni Autori che sembrano concepire la probabilità maggiorecome più vicina alla verità, e che sembrano dire che la volontà deve esserespecificata da questa probabilità, come accenniamo nel testo a p. 294. PRIMA PARTE. - Dalla unicità dell’oggetto formale. Abbiamo già accennatoche occorre distinguere il giudizio riflesso sulla probabilità o sulla opinabilitàdi un enunciabile, (che può essere un interno giudizio riflesso certo) dalgiudizio opinativo diretto, che è sempre non fermo. Ogni assenso non fermo implica una qualche cognizione dell’opposto: perchèse non la implicasse, l’assenso sarebbe fermo, cioè certo. Dunque anchel’opinione implica una qualche cognizione dell’opposto. Ora nell’atto direttodella opinione non è implicata una formale cognizione dell’opposto. Dunque èimplicata una cognizione virtuale. Che nell’atto diretto opinativo non sia implicata una formale cognizionedell’opposto, si può giustificare in due modi. Anzitutto, avvertendo che se noiconoscessimo formalmente che l’opposto può esser vero, sospenderemmol’assenso, e resteremmo nello stato di dubbio o di suspicione. In secondo luogo,avvertendo che un atto intellettivo non può essere specificato che da un oggettoformale, cioè da un motivo. Ora se l’atto opinativo implicasse una formalecognizione dell’opposto, esso sarebbe specificato non da un oggetto formale,ma da due, tra loro contradditorii, cioè dal motivo che fa inclinare ad una partedella contraddizione, e contemporaneamente dal motivo che fa inclinareall’altra parte della contraddizione: il che appare manifestamente impossibile.Dunque nell’atto opinativo diretto non è implicata una formale cognizione

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dell’opposto. Questo argomento sarà confermato quando concluderemo l’analisi dell’assensoerroneo. Altre chiarificazioni si possono vedere nel testo, a p. 295. SECONDA PARTE. - Dalla necessità di un motivo: Ogni giudizio intellettivodeve fondarsi su qualche motivo: perchè altrimenti l’intelletto giudicherebbecontro la sua natura. Dunque anche il giudizio opinativo deve fondarsi suqualche motivo. Ora questo motivo, dato che l’opinione è intermedia tra lacertezza e il dubbio, deve essere a) qualche cosa di più che l’eguaglianza oquasi eguaglianza del prò e del contro, che è il motivo specificante lasospensione propria del dubbio o della suspicione, b) deve esser qualche cosadi meno della necessità dell’enunciabile, che è il motivo specificante ladeterminazione propria della certezza; ossia non può essere altro c) che laprobabilità o verosimiglianza dell’enunciabile. TERZA PARTE. - Dalla mancanza dell’evidenza intrinseca: Come abbiamogià spiegato, l’intelletto è determinato all’assenso o dalla evidenza oggettivadell’enunciabile o da un influsso diretto della volontà. Nella opinione non c’èevidenza oggettiva dell’enunciabile. Dunque c’è sempre un influsso direttodella volontà. Nota. Il processo con cui noi di fatto perveniamo all’opinione si può cosìspiegare. a) Prima il nostro intelletto si forma quei concetti che gli sono necessari performare l’apprensione comparativa di un enunciabile, in ordine al futurogiudizio. b) Quando in questa apprensione comparativa vede un enunciabileoggettivamente necessitante, forma il giudizio certo. c) Quando invece apprende un enunciabile verisimile, l’intelletto, dopo averlocomparato col suo opposto, può esser portato ad apprenderlo come convenientead affermarsi. d) Quindi la volontà interviene, influendo sull’intelletto perchè trasformi la suaapprensione del verisimile in assenso al verisimile. e) Così, sotto l’influsso della libera volontà, l’intelletto forma un qualcheassenso, quasi presumendo che esso sia conforme alla realtà.

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Per la quarta e la quinta parte ci limitiamo in queste note ad un breve accennoconclusivo. L’argomento della quarta parte si può desumere dalla natura stessa dell’attoopinativo che, in quanto non fermo e implicante una virtuale cognizionedell’opposto, si deve dire non necessariamente connesso col vero, e quindipossibilmente connesso sia col vero che col falso. In questo senso si deveconeludere che l’opinione può cadere sia sul vero che sul falso. La conclusionesi conferma anche dalla nostra esperienza; ci accade infatti di verificare cheparecchie opinioni da noi avute, di fatto erano vere; e che altre, di fatto eranofalse. L’argomento della quinta parte si desume da quanto ora detto. Se infatti ogniopinione, anche quella più probabile, può esser sia del vero che del falso, anchela opinione probabilissima, in quanto opinione, può esser falsa. Quindi da essanon si può con certezza concludere che la meno probabile sia falsa. Per un’ulteriore chiarificazione di questi argomenti, e di altre piccole questioniriguardanti l’opinióne, rimandiamo a quanto è riferito nel testo. Note. Qui è utile fare un breve accenno agli altri stati della mente di cui nonfacciamo esplicita trattazione. 1. Il dubbio differisce dalla suspicione, in quanto la suspicione, pur essendosenza assenso, è inclinazione più ad una parte della contraddizione che nonall’altra. Il dubbio è definito come fluttuazione della mente tra le due parti dellacontraddizione. Questo stato di fluttuazione si verifica propriamente nel dubbiopositivo, in cui l’intelletto vede motivi prò e motivi contro. Ma poiché il dubbioè detto stato di indeterminazione della mente, si parla anche di dubbio negativo,in cui l’intelletto né vede motivi prò né motivi contro; ed è chiaro che questodubbio negativo è affine all’ignoranza. È utile avvertire che qualche volta,impropriamente, si chiama dubbio la successione alterna di opposte opinioni. Ildubbio si distingue in universale o particolare, reale o fittizio, metodico(quando è assunto come punto di partenza problematico per risolvere unaquestione) o definitivo (quando è ritenuto sino alla fine della questione, ed inesso si rimane). Il dubbio si distingue inoltre in prudente ed imprudente,secondo che è o non è fondato in un motivo ragionevole. È utile anche rilevarea) che possiamo sempre uscire dal dubbio con un giudizio riflesso certo sulladubitabilità di due enunciabili opposti, e b) che è consentaneo al nostrointelletto affermare la verità per motivo di evidenza, o sospendere l’assenso

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quando non c’è l’evidenza, per evitare il pericolo dell’errore. 2. La disposizione può essere naturale e spontanea, o artificialmente acquisita.Sopratutto in questo senso, si distingue in remota e prossima; e secondo questaseconda caratteristica si suole propriamente chiamare disposizione. Ladisposizione acquisita prossima merita speciale considerazione in chi ha fattoprogresso nello studio di una scienza, in quanto è meglio disposto a procedereulteriormente. 3. La ignoranza si distingue dalla semplice nescienza (che è pura assenza discienza) perchè implica privazione della scienza che si dovrebbe avere. È utilequi fare un accenno all’origine dell’ignoranza. Da parte dell’intelletto, laignoranza è originata dal fatto che il nostro intelletto conosce successivamente,dovendo formare molti concetti di una stessa cosa, per arrivare a conoscerlasempre un po’ di più, desumendo questi suoi concetti dalle cose sensibili, chesono materiali, e in questo senso meno intelligibili. Da parte della volontà, laignoranza dipende anche da incombenti preoccupazioni esteriori, masoprattutto dipende da pigrizia, o leggerezza, o presunzione, o superbia. Poichél’origine dell’ignoranza ha affinità con l’origine dell’errore, è utile averlaconsiderata prima di trattare esplicitamente dell’errore.

ARTICOLO QUARTO

L’Errore

Senso della ricerca. - La questione dell’errore sotto diversi aspetti interessa ilfilosofo. Anzitutto per poter esattamente stabilire in che cosa consista, qualisiano le sue origini, e quale possa essere la sua propria spiegazione; poi perprendere esplicita coscienza dei modi con cui può essere evitato; ed infine perpoter ulteriormente concludere quando non sia possibile, e quando e come siapossibile. TESI XXVIII. - L’errore è il giudizio falso, che è originato dalladefettibilità del nostro intelletto e della nostra volontà; la sua naturasembra propriamente spiegabile avvertendo che l’intelletto erra perchèpronuncia una falsa sentenza su ciò che ignora. (p. 289-307) Prenozioni. - 1. Non è difficile stabilire che cosa sia l’errore, perchè già nellacognizione spontanea abbiamo chiara coscienza della conoscenza vera e dellaconoscenza falsa. La difficoltà comincia quando si cerca di spiegare come la

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conoscenza falsa sia possibile. Nella tesi cominciamo con l’asserire che l’erroreè l’adesioine della mente al falso, ossia il giudizio falso. 2. Conseguentemente a questa prima definizione, è facile osservare che l’erroreha per fondamentali caratteristiche che sia un atto positivo di assenso, maiconnesso col vero. Conseguentemente a quanto abbiamo spiegato nella tesiprecedente, l’errore si deve dire: a) assenso, per quanto riguarda l’intelletto,non fermo (assensus infirmus), perchè non necessitato da una evidenzaoggettiva, b) che implica virtuale cognizione dell’opposto, perchè specificatoda un solo oggetto formale, c) fondato in una apparente verosimiglianzadell’enunciabile, perchè, in mancanza di motivo evidente, l’intelletto non puòessere inclinato all’assenso se non dall’apparente verisimile, d) posto sottol’influsso diretto della volontà, perchè l’apparente verisimile non è da solosufficiente a determinare la mente al giudizio. Avremo occasione di confermarequeste osservazioni anche nella conclusione della presente tesi. 3. Stabilita la nozione e le caratteristiche dell’assenso erroneo, passiamo adesaminare quale sia la sua origine; ed avvertendo che essa è affine a quelladella ignoranza, asseriamo nella tesi che l’errore è originato dalla difettibilitàdel nostro intelletto e della nostra volontà. Per quanto riguarda la deficienzadella nostra volontà, è chiaro anzitutto che essa deve dirsi maggiore o minoresecondo che la volontà più o meno pertinacemente vuole e conserva l’assensoerroneo. Aggiungiamo inoltre che l’influsso della volontà deve dirsi più o menoimputabile secondo che l’errore è moralmente vincibile o invincibile; e secondoche non c’è o c’è una causa scusante: sempre però ritenendo che in ogni casoc’è di fatto una qualche almeno minima inordinazione (inordinatio) dellavolontà. 4. Dopo aver spiegato le origini dell’errore, resta aperta la possibilità di iniziareuna qualche propria spiegazione dell’errore. Si sono proposte due formule, checi sembrano fondamentalmente convenienti. La prima è che l’intelletto,errando, estende il suo assenso oltre ciò che ha appreso, nel senso che a ciò cheha appreso della cosa quasi sovrappone qualche altra apprensione che di fattonon ha appreso. La seconda è che l’intelletto, errando, proferisce una sentenzafalsa su ciò che ignora, presuntuosamente dicendo essere ciò che non è, o nonessere ciò che è. Noi preferiamo usare questa seconda formula. Prima diremo che l’errore si può legittimamente definire giudizio falso (primaparte); poi, che è originato dalla difettibilità della volontà e dello stessointelletto (seconda parte); infine, che si può propriamente spiegare come falsasentenza su ciò che si ignora (terza parte).

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Ulteriori spiegazioni sulla natura, sulle caratteristiche e sulle cause dell’erroresaranno accennate nelle Note e nel Corollario. Opinioni. - La tesi è comunemente accettata nel realismo intellettualistico; etrova consenzienti anche Filosofi di altre tendenze. In genere si può dire che gli Scettici negarono la possibilità di distinguere lacertezza dall’errore; ed inclinarono a dire che l’errore è atto del solo intelletto. Tra i razionalisti, SPINOZA affermò che la cognizione intellettiva è sempreintuitiva del vero, e spiegò l’errore come cognizione incompleta. AlcuniIdealisti neohegeliani concepirono l’errore come momento negativo delprocesso dialettico della cognizione. DESCARTES attribuisce l’errore alla sola volontà, in questo senso: chel’intelletto è finito, e la volontà di capacità infinita; quindi la sola volontà puòestendersi oltre a ciò che è stato conosciuto dall’intelletto. Anche CROCE asserisce che l’errore non può esse-re che un abuso dellavolizione: “Se non fosse così, quale garanzia avrebbe mai la verità? Se una solavolta si potesse errare in pura e perfetta buona fede, e la mente potesseconfondere vero e falso, abbracciando il falso come vero, come si potrebbe piùdistinguere l’uno dall’altro? Il pensiero sarebbe radicalmente corrotto, laddoveesso è, radicalmente, incorrotto e incorruttibile” (Filosofia della pratica, 7 ed.Laterza 1957, p. 45). PRIMA PARTE. - Dalle caratteristiche dell’errore: Una buona definizionedell’errore si ottiene indicando ciò in cui l’errore conviene con gli stati dellamente più prossimi, e ciò in cui da essi differisce. Ciò in cui conviene. cui conviene, è che sia stato di assenso, perchè verità e falsità si trovano nelgiudizio, escludendosi però a vicenda. Ciò in cui differisce, è che sia assensonel falso, perchè con questa espressione si indica non solo ciò in cui l’erroredifferisce dall’assenso certo, che è sempre determinato al vero, ma anchedall’assenso opinativo in genere, che può essere del vero e del falso. Dunque sipuò dare una buona definizione dell’errore dicendolo assenso nel falso, cioèsemplicemente giudizio falso. SECONDA PARTE. - Dalle cause che impediscono la cognizione vera.L’errore è un giudizio falso, cioè una falsa composizione di predicato e

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soggetto, fatta dal nostro intelletto, che è facoltà visiva e necessarianaturalmente ordinata al vero. Da ciò ne segue che l’origine dell’errore deveesser ricercata nelle cause che impediscono a questo nostro intelletto diraggiungere la verità. Una causa si trova sicuramente in una deficienza della nostra volontà. Infatti,l’intelletto, in quanto facoltà visiva e necessaria, non può esser determinato senon dall’evidenza oggettiva dell’enunciabile, che nel caso dell’errore non è maipresente. Dunque il nostro intelletto è determinato da un influsso diretto dellavolontà: il quale si deve dire sempre in qualche modo indebito ed inordinato,perchè l’errore è un male per l’intelletto. Un’altra causa deve dirsi una deficienza dello stesso nostro intelletto. Infatti, intanto l’intelletto viene ad un assenso incerto, in quanto apprende un enunciabileapparentemente verisimile, come abbiamo già spiegato. Ora in questaapprensione l’intelletto è sotto due aspetti deficiente: in quanto apprende comesimile al vero ciò che dal vero è difforme; ed in quanto propone alla volontàcome appetibile bene, ciò che invece è da escludersi come male. Possiamo quindi concludere che l’origine dell’errore è da ricercarsi nelladefettibilità della nostra volontà e dello stesso nostro intelletto. TERZA PARTE. - Dall’origine dell’errore. Una propria spiegazionedell’errore si può legittimamente dare con una formula che esprima la naturadell’errore e le cause da cui l’errore è originato. Ora per il fatto che l’errore èdetto falsa sentenza dell’intelletto, si esprime a) la sua natura, che è quella diesser giudizio falso, b) la sua origine da parte della volontà, perchè senzal’influsso della volontà il giudizio falso non si porrebbe. Per il fatto poi chel’errore è detto circa ciò che ignora, si esprime c) la sua origine dallo stessointelletto, che partendo da qualche indizio o segno generale ed oscuro, portapresuntuosamente il suo assenso su ciò che non sa, e che realmente non c’è(recedendo in questo senso dalla sua naturale ordinazione alla verità, secondola quale dovrebbe, o aderire a ciò che è realmente evidente, o sospendere la suaadesione, limitandosi a qualche giudizio riflesso). Note esplicative. Volendo continuare nella spiegazione dell’errore, èconveniente fare un accenno al processo con cui ci si perviene, ad altre suecaratteristiche, alla sua causa prossima, e ad alcune principali cause menoprossime e remote, dalle quali è più ovvio guardarsi. 1. Il processo con cui di fatto si perviene all’errore si può così spiegare.

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a) Il nostro intelletto conosce con certezza spontanea, sia metafisica, siareduttivamente metafisica, sia fisica e morale, sia fondata nell’autorità, molteverità sulle quali si fonda la concreta vita umana, sia in senso speculativo chepratico. b) A somiglianza di queste verità l’intelletto di fatto forma parecchi assensiopinativi. Quando alcuni di questi assensi cadono sul falso, si comincia aincorrere nell’assenso erroneo, che deve sempre dirsi imprudente e sfortunato. c) Siccome però nelle nostre opinioni si trova più frequentemente la verità chela falsità, e non sempre si scopre chiaramente un errore già fatto, può sorgere lainclinazione ad aderire a ciò che è più probabile, o probabilissimo, come sefosse certo. Così può sorgere la non legittima consuetudine di confonderel’evidenza non genuina con l’evidenza genuina. d) Da questa consuetudine si può passare alla formazione dei pregiudizi falsi,ed al sentimento di ritenerli e di applicarli; e così si può arrivare a formarequelli che si chiamano mali habitus errandi, dai quali potrebbe essercondizionata la ulteriore speculazione. 2. Altre caratteristiche dell’errore. Ad alcuni passi assai opportuni di S.Tommaso, citati nel testo a p. 303, crediamo utile aggiungere alcune altreconsiderazioni. Gli Scettici asseriscono che quando erriamo, erriamo senza conoscere di errare,perchè se lo conoscessimo, non cadremmo nell’errore; e da ciò concludono cheforse sempre sbagliamo senza sapere di sbagliare. A questa obiezione si suolerispondere che, nel giudizio erroneo diretto, non conosciamo formalmente dierrare, ma lo conosciamo virtualmente, nel senso che in ogni giudizio nonfermo conosciamo virtualmente la possibilità dell’opposto, come abbiamoaccennato nella tesi sull’opinione, parte prima. In questo stesso senso è da avvertire che l’errore è assenso nel falso, ma non nelfalso conosciuto come falso, e nemmeno nel falso conosciuto come vero., manel falso illusoriamente appreso come verosimile e forse vero; come abbiamogià accennato nella tesi della falsità, nella nota conclusiva dopo la terza parte. 3. Per quanto riguarda la causa prossima dell’errore, si deve dire che, come lacausa prossima dell’assenso vero è la legittima complessità dell’enunciabileoggettivamente appreso come evidente, così la causa prossima dell’assenso

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erroneo è la illegittima complessità dell’enunciabile illusoriamente appresocome verisimile. Questa illegittima complessità si suol chiamare indebitacomposizione (indebita compositio). Quindi la ricerca di ogni altra causa menoprossima o remota dell’errore, deve esser indirizzata alla ricerca di ciò che puòconcorrere a causare la indebita composizione, p. es. principi in parte veri ed inparte falsi, termini medii non congruenti, false complessità di fantasmiaccoppiati o volutamente provocati, e così di seguito. 4. Tra le cause meno prossime e più o meno remote dell’errore, si possonoconsiderare la confusione in quanto porta alla equivocazione; i diversi modicon cui la non ordinata volontà interviene a distrarre ed a perturbare l’intelletto;la trascuratezza di ciò che rende efficace lo studio; la ostentazione e malizia delsofista; la superficialità, la presunzione e la superbia intellettuale. Di questefacciamo qualche esplicita menzione nel testo, p. 303-304. COROLLARIO. - Dunque nessun atto di opinione, e nessun atto di errore, sipuò dire fisicamente necessario sebbene di fatto sia moralmente impossibileastenersi da ogni opinione ed evitare ogni errore. Che nessun atto di opinione e di errore sia fisicamente necessario, si deducedalla natura del nostro intelletto, che è necessitato soltanto dalla evidenzaoggettiva; perciò l’intelletto non può esser mai fisicamente, cioè naturalmente,necessitato dalla sola verosimiglianza. E perchè la enunciabilità di unverisimile non è appresa dal nostro intelletto come semplicemente bene, ma puòesser solo appresa come un bene particolare, la nostra volontà non è mainecessitata ad imporre una opinione o un errore. Che astenersi da ogni opinione sia moralmente impossibile, si può dedurre dallainclinazione al vero ed al bene del nostro intelletto e della nostra volontà, edalla difficoltà che di fatto spesso si prova a sospendere ogni as-senso quandonon c’è la genuina evidenza, ed a limitarsi a qualche giudizio riflesso: tanto piùche non di rado un enunciabile appreso in un primo momento solo comeprobabile, in un secondo momento o si riesce a dimostrarlo, o lo si verificacome vero. Che evitare ogni errore sia moralmente impossibile, lo si può dedurre: a) perparte dell’intelletto, dalla debolezza del nostro lume conoscitivo, dalla oscuritàe complessità del nostro oggetto, dalle esigenze impellenti della vita pratica,ecc.; b) per parte della volontà, dalla difficoltà di sospendere ogni assensoquando non c’è la genuina evidenza, specialmente quando la volontà è inclinataalla precipitazione dalle circostanze o dagli impulsi.

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A ultima conferma di quanto abbiamo detto per spiegare come sia possibile cheil nostro intelletto, naturalmente ordinato alla verità evidente, cada nell’errore,si possono leggere le risposte che diamo alle difficoltà proposte nel testo a p.305-307. Osservazioni conclusive. - Esiste in ogni uomo la certezza spontanea che siconosce la verità quando si giudica essere ciò che è o non essere ciò che non è.Questa certezza spontanea si giustifica sin dall’inizio della riflessione filosoficacome autentica certezza naturale. Su questa certezza naturale del fatto delgiudizio vero (o assenso vero, o composizione vera o predicazione vera)abbiamo fondato le nostre ricerche sulla natura della verità da noi conosciuta. 1. Sul fatto della predicazione vera abbiamo anzi-tutto fondato la nostra ricercasulla verità del concetto, cominciando col riconoscere che formiamo concettioggettivi. Poi dal fatto della predicazione orale e mentale vera abbiamomostrato che abbiamo concetti universali irriducibili ai singolari e collettivi:,che sono oggettivi della realtà. Quindi rilevando che la predicazione vera èpredicazione per identità reale del predicato e del soggetto, in cui il predicato èdetto del soggetto come tutto di un tutto, abbiamo escluso la esistenza di unarealtà universale separata dai singolari o realmente distinta dai principiindividuanti. Infine, sempre sistematicamente fondandoci sulla verità dellapredicazione, abbiamo mostrato che astraiamo l’universale diretto, il quale èoggettivo delle cose simili secondo ciò che si concepisce, e che formiamol’universale riflesso, il quale è fondato remotamente nelle stesse cose in quantosimili. 2. Considerando il giudizio vero come composizione vera, cioè comecomposizione di due concetti oggettivi affermati come identici nella realtà,abbiamo sviluppato la ricerca sulla natura, le caratteristiche e le cause dellaverità da noi conosciuta, mostrando che la sua essenza consiste nell’essereconscia adeguazione dell’intelletto e della cosa; che la sua caratteristicagenerale è di essere oggettivamente assoluta ed immutabile e soggettivamenterelativa e mutevole; e che la sua causa o motivo è la chiara intelligibilitàdell’enunciabile, cioè la necessità oggettiva dell’enunciabile in quantomanifesta alla mente. Quindi abbiamo completato lo studio della verità delgiudizio considerando la falsità secondo la sua definizio-ne e la suaopposizione contraria alla verità. 3. Se la verità a cui tende l’intelletto come a sua perfezione è pienamenteposseduta nell’atto del giudizio, si deve conchiudere che l’atto terminale della

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mente è il giudizio, perchè anche il raziocinio tende come a suo fine ad ungiudizio. Precisamente sotto questo aspetto abbiamo studiato la verità delraziocinio come fondante il giudizio mediato. La nostra ricerca ha cominciatocon lo studio della verità della conseguenza, particolarmente illustrando laverità conseguenziale del sillogismo. Poi siamo passati allo studio di ciò che èprerequisito per ottenere la verità del conseguente, e così abbiamo illustrato laverità dei principi strettamente per sé noti, dei principi per esperienza noti, e delprimo principio per sé notissimo di non contraddizione. Infine, per completarela dottrina dei primi principi, abbiamo chiarito che quelli per sé noti siacquistano per induzione astrattiva, e quelli per esperienza noti per induzioneargomentativa, cogliendo così l’occasione per spiegare la legittima strutturaformale di quella specie di argomentazione che si chiama induzioneargomentativa. Così abbiamo proposte le considerazioni fondamentali per lagiustificazione della logica formale e materiale aristotelica, come essa si èsviluppata ed ampliata. 4. Sempre rimanendo sul piano del giudizio, cioè dell’assenso, abbiamoriassunto ed illustrato le caratteristiche principali del nostro assenso mentale,cominciando dalla spiegazione della certezza in genere, della certezza fondatanella evidenza intrinseca, della certezza causata dal testimonio umano, dellacertezza di fede fondata nella attendibile autorità di un uomo attestante. Poiabbiamo studiato ciò che appartiene all’assenso, per parte dell’intelletto, nonfermo, cioè all’assenso opinativo ed all’assenso erroneo, spiegando inparticolare come sia possibile l’errore, ed indicando i mezzi idonei per poterloevitare. In questo senso, sempre fondandoci sulla verità del giudizio, abbiamo iniziato ecompletato il nostro studio sulla natura della verità.