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9 771594 123000 50015 25 APRILE 2015 | NUMERO 15 | SETTIMANALE 2,50 | 92 PAGINE CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ Colpevoli Europa e governo italiano. Hanno tagliato Mare Nostrum e difeso Triton. Lasciando morire 2.000 persone in cinque mesi di Giulio Cavalli, Umberto De Giovannangeli, Michela Iaccarino, Raffaele Lupoli, Simona Maggiorelli, Luca Sappino, Fulvio Vassallo Paleologo

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9771594

123000

50015

25 APRILE 2015 | NUMERO 15 | SETTIMANALE € 2,50 | 92 PAGINE

CRIMINICONTRO

L’UMANITÀ

Colpevoli Europa e governo italiano.Hanno tagliato Mare Nostrum e difeso Triton.

Lasciando morire 2.000 persone in cinque mesi

di Giulio Cavalli, Umberto De Giovannangeli, Michela Iaccarino, Raffaele Lupoli,Simona Maggiorelli, Luca Sappino, Fulvio Vassallo Paleologo

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525 aprile 2015

IN FONDO A SINISTRAdi FABIO MAGNASCIUTTI

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25 aprile 20156

SOMMARIO NUMERO 15

STORIA DI COPERTINA

24 Quando Mare Nostrum salvava vite umane

di Raffaele Lupoli

29 La vita delle persone non è questione di soldidi Fulvio Vassallo Paleologo

30 Disperati della Terradi Umberto De Giovannageli

32 Campioni di retoricadi Luca Sappino

34 Il vocabolario del doloredi Giulio Cavalli

36 Giuseppe Catozzella:«Non chiamatela fatale tragedia»

di Simona Maggiorelli

38 Dalla Libia alla Norvegia, scatti di una fuga lunga due anni

di Michela A.G. Iaccarino - foto di Ahmed

LIBERAZIONE42 Muri ribelli al Quadraro

di Giorgia Furlan - foto di Francesca Fago

POLITICA46 Hillary e le altredi Stefano Santachiara

PODEMOS52 Ada, la candidata di Barcellona

di Angelo Attanasio

INCHIESTA54 Luci e ombre di un carcere

a 5 stelledi Tiziana Barillà e Giacomo Zandonini

TURCHIA62 Erdogan, l’epuratore

di Umberto De Giovannageli

INGHILTERRA66 La cavalcata di Miliband

di Massimo Paradiso

RETE68 L’abuso di Google

di Claudia Vago

SCIENZA72 La natura segreta della Luna

di Pietro Greco

LETTERATURA76 Kostas, il nuovo personaggio

di Bruno Morchiodi Checchino Antonini

LEONARDO78 L’arte di dipingere

i moti dell’animo di Simona Maggiorelli

CINEMA80 L’amore non perdona,

il film di Stefano Consigliodi Alessandra Grimaldi

05 IN FONDO A SINISTRA di Fabio Magnasciutti

07 EDITORIALE di Ilaria Bonaccorsi

08 LETTERE09 BREVI10 #INUTILMENTEFIGA di Elda Alvigini e Natascia Di Vito

10 IL BUON VIGNAIOLO di Fulvio Fontana

11 EPICA FILATELICA di Saro “Poppy” Lanucaro e Pronostico

12 PICCOLE RIVOLUZIONI di Paolo Cacciari

13 #ITALIAVIVA14 FOTONOTIZIE 18 IL TACCUINO di Adriano Prosperi

19 IL COMMENTO di Filippo Miraglia

20 IL COMMENTO di Marco Craviolatti

21 ECONOMIA E FINANZA di Ernesto Longobardi

22 IL MONOLOGO di Edda Pando

60 SCUOLA di Giuseppe Benedetti

61 CALCIO MANCINO di Emanuele Santi

82 LIBRI di Filippo La Porta

82 TEATRO di Massimo Marino

83 ARTE di Simona Maggiorelli

84 BUONVIVERE di Francesco Maria Borrelli

84 TENDENZE di Sara Fanelli

85 TELEDICO di Giorgia Furlan

85 MY LEFT di Alessandra Grimaldi

88 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli

90 UN’ALTRA STORIA di Monica Catalano

a sinistra senza inganni

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725 aprile 2015

l’operazione di salvataggio avrebbe attirato ul-teriori sbarchi. Ha rinunciato a fare la «sua parte di umanità» volontariamente. Che modo di pensare è questo? Si può dire, come fanno i bambini, “schifo”? Sì. È uno schifo di modo di pensare. Non trovo altre parole oggi. Non ha pensato così la Tunisia che ne ha accolti un milione, né la Giordania che ne ha 600.000 o il Libano che ha dato asilo a più di un milio-ne di profughi. Noi sì. Anzi, loro sì. Governo ed Europa. Si difendono dagli invasori, blaterano di droni e blocchi navali (morte a domicilio, questa volta), hanno il coraggio di dire che con Mare nostrum era la stessa cosa (Alfano, mini-stro degli Interni del governo Renzi). Parlano a tv e giornali, pensano persino alla benzina degli scafisti. Il loro modo di pensare è un or-rore. Produce forni liquidi. Ha ragione Emma. Desaparición, aggiunge Calamai. Allora noi, lo ribadiamo, questa Europa che manda a morte chi non ce la fa, che sia greco o africano o altro, non la vogliamo più. E non vogliamo più nean-che quest’Italia finta. Quella che va in America a portare il vino e a scherzare di calcio e bellez-za. E quando torna va a Pompei, che crolla da anni, e continua a parlare di bellezza. Il mondo ha bisogno della nostra bellezza, ha detto il pre-mier. Quale bellezza? Il mondo ha fame d’Italia, ha detto il premier. Avranno avuto fame d’Italia anche quelli che arrivavano dalla guerra? Ci siamo interrogati se come giornale poteva-mo fare un passo in più oltre alla cronaca. Ci siamo chiesti se avessimo potuto fare un ricor-so alla Corte europea dei diritti umani, maga-ri anche solo per concorso morale in strage. Contro questa Europa. Abbiamo parlato con avvocati e associazioni tutto il giorno. Ma a noi, come giornale, non è consentito, non es-sendo parte giuridicamente lesa. Possono farlo i migranti stessi o i loro parenti se aiutati. Allo-ra noi ci siamo, noi li sosterremo se vorranno procedere con azioni legali. Oggi siamo neri per scelta. La nostra condanna non scade. La nostra “parte di umanità” è irrinunciabile. Per noi. Non è vita senza.

tanotte mi è tornato in mente Ahmed, l’ho conosciuto a Lam-pedusa due anni fa. Ti mando la sua storia...» mi ha scritto Michela

all’alba di lunedì. Domenica è stata infinita-mente dura. L’immagine di quei corpi che gal-leggiavano era assurda, atroce. Troppi, troppo ancora. Ci siamo sentiti tra noi giornalisti. Poi hanno iniziato a chiamarci tutti. Collaborato-ri, fotografi, editore, amici. Adriano Prosperi, Giulio Cavalli, Fulvio Vassallo, Filippo Miraglia. È uno sterminio dicevano. Sì, è uno sterminio. Di massa. Non ci siamo più fermati. Non ci riu-scivamo. Abbiamo cominciato a chiederci come fare, che fare. Abbiamo imprecato ancora contro quest’Europa orribile che “risparmia” nel nome di una Fortezza. La loro. Left ha dedicato decine e decine di copertine ai migranti e ai morti. Ave-vamo previsto tutto. Tutti avevano previsto tut-to, questa è la cosa peggiore. Ci siamo sgolati a urlare che era una follia mettere fine a Mare No-strum. Ci siamo disperati nel dire che Triton non aveva senso. Anzi, che ne aveva uno bruttissimo. «C’è un’Europa che, vista così, fa veramente or-rore. Questa Europa è stata artefice di due guer-re mondiali e un genocidio. Abbiamo detto mai più! Il mai più non va riferito soltanto ai forni crematori. Mai più anche ai forni liquidi!». Lo ha detto Emma Bonino e il riferimento a certi “me-todi” di eliminazione di vite umane non è vela-to. È chiaro. «Forni liquidi». «Hanno cancellato Mare Nostrum con una motivazione che fa ver-gogna. Perché costava 9 milioni di euro al mese. Triton ne costa 3. Siamo il Continente più ricco del mondo, secondo tutti gli standard, e stiamo costruendo nella psiche di milioni di africani il concetto di Fortezza Europa», ha aggiunto.Due caffè al giorno. Gli italiani avrebbero dovu-to rinunciare a due caffè al giorno per finanziare Mare nostrum. Ma «il nostro Paese ha rinunciato a fare la sua parte di umanità». Perché il governo Renzi ha cancellato l’operazione Mare Nostrum accettando non solo la motivazione economica - il risparmio - ma anche la motivazione dei col-leghi europei che sostenevano e sostengono che

FORNI LIQUIDI E DESAPARICIÓN.QUELL’ORRIBILE MODO DI PENSAREdi Ilaria Bonaccorsi

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EDITORIALE

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25 aprile 20158

mi piacerebbe che Left approfondisse ancora di più le tematiche ambientali. Innegabile che la parola giusta adesso sia sostenibilità come scrive Filippo Treiani nella sua rubrica. Quel che si va profilando con il nuovo Titolo V, con il tipo di Senato che va prendendo corpo e che non somiglia neppure con la ceretta ad una Camera delle autonomie, il patrimonio am-bientale e paesaggistico è sempre più a rischio. Mentre lo Stato si va riprendendo competenze dove Regioni e enti locali non potranno metter becco e mentre lo Stato potrà farlo a suo comodo, quelle competenze, già fortemente ridimensio-nate delle Regioni, non arrivano certo a configurare uno stato ‘quasi federalista’ come si disse a suo tempo. Il ministro Graziano Delrio dice che farà programmazione (termine scomparso dalle cronache) coinvolgendo i territori e dice anche che farà pure la lotta al dissesto idrogeologico anche se non si sono ancora introdotti i distretti come dovevamo fare da tempo in base alle disposizioni comunitarie. Non parliamo di paesaggio e di aree protette di cui si sono perse le tracce. Insomma, su alcune delle più dram-matiche questioni ambientali le uniche voci che si fanno sentire non sono delle istituzioni e delle forze politiche ma dell’associazionismo. Queste voci non a caso accomunano indistintamente nella stessa critica isti-tuzioni e partiti per la persistente lati-tanza iniziata alla grande con il governo Monti-Clini e che continua fino a oggi.

Renzo MoschiniGruppo San Rossore

Quegli esseri umani che spariscono nel Mediterraneo. È solo razzismo?

Gentili redazione e direttore, vi scrivo questa lettera di getto, mentre ascolto le terribili notizie della ennesi-ma, prevedibile, tragedia nel Mediterra-neo. C’è da restare atterriti di fronte al livello di disumanità e all’ ipocrisia delle farfuglianti dichiarazioni dei politici della nostra “civile” Europa. Non riesco sinceramente a fermare la domanda: è il caso di parlare ancora di razzismo? A me questa parola non sembra più suf-ficiente per definire quello che accade. La polemica e la denuncia del pensie-ro di Heidegger di questi ultimi mesi, ci mette di fronte ad alcune terribili assonanze con la pratica nazista di far sparire con i forni crematori i corpi sen-za vita di “enti” senza identità umana. Adesso altri esseri umani evidentemen-te anche loro considerati semplici “enti”, spariscono invece da soli, inghiottiti dal mare. O peggio, vengono lasciati sparire profittando della natura. Non ci sono corpi senza vita così che possano turbare la cena serale, si evita il fastidio di vederseli girare intorno.

PierPaolo Iacopini

Con la riforma del Titolo V e del Senato il patrimonio paesaggistico è a rischio

Caro direttore, l’articolo sul piano del paesaggio toscano mi era sembrato un buon inizio. Devo dire che con quello che bolle in pentola sul piano nazionale

DIRETTORE EDITORIALEMatteo FagoDIRETTORE RESPONSABILEIlaria [email protected] Barillà[email protected] [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] Ruta (responsabile web)[email protected] [email protected]

GRAFICAProgetto graficoCatoniAssociativia Metastasio 50124 FirenzeDirettore creativo Francesco Leonini Art director Alessio MelandriMarco MicheliniGrafica/IllustrazioniAntonio SileoPhotoeditorMonica Di [email protected]

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Registrazione al Tribunale di Roman. 357/88 del 13/6/88Iscrizione al Roc n. 25400QUESTA TESTATA NON FRUISCEDI CONTRIBUTI STATALI

Copertina: Silvio Giordano

Chiuso in tipografia il 21 aprile 2015

Lettere

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925 aprile 2015

Il premier in persona scrive-rà a tutti i docenti italiani in vista dello sciopero generale del 5 maggio. Spiegherà la riforma del governo, il ddl 2994, e cercherà di dissua-derli dall’astenersi dal lavoro. «Noi non lasceremo la scuola ai sindacati, la scuola è del-le famiglie e degli studenti», ha detto. Ma a quanto pare la scuola è anche degli inse-gnanti, visto che per la prima volta dopo sette anni è stato deciso uno sciopero unita-rio. Dopo Gelmini, ora tocca a Giannini. A parte Unicobas e Usb che anticipano la pro-testa al 24 aprile, il 5 maggio scenderanno in piazza Cgil, Cisl, Uil, Gilda e Snals. La Buona scuola non convince per niente. La stabilizzazio-ne riguarderebbe 100.000 precari delle graduatorie a esaurimento (Gae) lascian-do fuori però altri 50.000 che pure insegnano a vario titolo nella scuola da decenni. E tra i punti contestati, c’è il presi-de-capo assoluto che sceglie i docenti e la didattica, mor-tificando la libertà d’insegna-mento. Poi la privatizzazione sempre più evidente e i soliti benefici alle paritarie private.

«Sui cadaveri non si costruisce niente», quando si arrenderan-no, gli Stati, a questa evidenza? Lo chiede Emma Bonino, in quella che più che un’intervista è un j’accuse molto preciso. De-stinataria è l’Europa «latitante e svogliata», che ha tradito la sua storia dimenticando «che questo è stato», come ricordava Primo Levi, vittima di uno degli orrori del Vecchio Continente. «Stiamo commettendo un altro genocidio», in quest’Europa che «ha cancellato Mare Nostrum con una motivazione che fa ver-gogna: per risparmiare». Chissà che a forza di morti, anche il nostro governo non si prenda le proprie responsabilità.

Una politica al condiziona-le, quella del premier Matteo Renzi. L’ultima sparata all’in-segna di condzioni che non ci sono, è il “tesoretto”: 1,6 mi-liardi di euro fatti di fantasia e immaginazione. A certificarlo sono Corte dei Conti, Banki-talia e Ufficio parlamentare di bilancio, che ritengono le risorse fuoriuscite non si sa bene da quale parte del Def, del tutto virtuali. Nella loro valutazione, gli ingredienti dei provvedimenti governativi sono una manciata di «fattori incerti», quantità «sovradi-mensionate» e, ciliegina sulla torta, il dolce «potrebbe man-care di concretizzarsi».

Sono 232 milioni i migranti nel mondo, alla fine del 2013, su 7 miliardi e 124 milioni di persone: il 3,3 per cento del-la popolazione mondiale, riportano le Nazioni Unite. Tra essi ci sono 175 milioni di lavoratori (il 5 per cento dell’intera forza lavoro del pianeta). Il loro aumento è avvenuto al ritmo annuale di 2 milioni di persone negli anni Novanta, di 4,6 milioni nella prima decade del 2000 e di 3,6 milioni di unità a partire dal 2010.La disuguale distribuzione della ricchezza esercita il suo impatto sulla mobilità inter-nazionale, contribuendo a determinare gli spostamenti verso i Paesi più ricchi. È sta-to stimato che se la ricchezza mondiale fosse equamente ripartita, ciascuno dispor-rebbe di un reddito medio annuo di circa 14.000 dollari statunitensi, a parità di pote-re d’acquisto. Ma, in realtà, 2,7 miliardi di persone so-pravvivono con appena 2,5 dollari giornalieri. Di questi, oltre mezzo miliardo si trova in Africa.

Silenzio

Tacciano coloro che han-no accettato di dare un prezzo alle vite umane, coloro che per un po’ di spudorata visibilità gio-cano col fuoco, gettando fango vergognoso su una tragedia che sempre più assume i caratteri del ge-nocidio. Taccia (anzi, con-tinui a farlo) chi fino a oggi ha chiuso gli occhi, chi ha pensato di potersi girare dall’altra parte. Resti in silenzio chi ha rinunciato a combattere una batta-glia di dignità nel nome di qualche voto. Restino in si-lenzio i burocrati europei, sempre solerti e incisivi se si parla di debiti pubblici e così ignavi quando si tratta di disperazione.Sia un silenzio di riflessio-ne, non quello d’indiffe-renza che fino a oggi ab-biamo ascoltato. Silenzio di rispetto e di autocritica, necessario per compren-dere che i diritti umani hanno un senso se appar-tengono a tutti. Un silen-zio che serva a risparmiare le parole per quando ser-viranno davvero. Un silen-zio utile a ricostruire nel cuore di questa civiltà quel briciolo di umanità oggi disperatamente smarrito.

Filippo Treiani

5 MAGGIO2015

la data IL NUMERO

232

Emma nostra

Il tesoretto che non c’è

UP

DOWN

LA PAROLAGIUSTA

BREVI

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25 aprile 201510

(detto popolare romanesco). L’uomo di destra è galante, il tuo portafoglio si smaterializza per incanto, ti apre qualunque portiera, la mano destra ti si atrofizza per sempre. Inoltre, è un amante virile e potente, tipico dello schizoide: non fa l’amore ma le flessioni!! L’uomo di de-stra ti fa i regali giusti da uomo vero, con l’uo-mo di destra ti diverti sempre: ti porta a feste fantastiche in quelle terrazze meravigliose con catering perfetti, champagne, i filippini in livrea sempre pettinati… ma quanto so’ pettinati sti filippini??? dove sono tutti abbronzati, magri, pippatissimi e soprattutto evasori fiscali! Tut-ti hanno la barca e ti invitano a Ponza, Capri, Panarea: il Triangolo delle Bermuda di Roma Nord. Se cedi all’invito vieni risucchiata da un

vortice di spritz, extensions, addominali e sili-cone… uscirne è durissima: per disintossicarti devi fare un mese in un campo di Medici Senza Frontiere nel Darfour, nell’iPod ti devi portare Guccini, De Gregori e la prima Mannoia. In-somma, l’uomo di destra ti tromba, , ti fa vive-re in un film, dei Vanzina, ma sempre un film, però piano piano ti distrugge. Perché l’uomo di destra è fondamentalmente prepotente, è una cosa che all’inizio sembra figa, una prova d’i-dentità maschile e invece è solo una prova di forza: comanda lui e basta! L’uomo di destra è uno che quando gli chiedi: “Ma tu, cosa sognavi di fare da grande? “Io? Er dittatore!“...” Infatti eri portato, peccato…”Ma vaffanculo! Te e Bokassa!

#INUTILMENTEFIGA

IL BUON VIGNAIOLO

L’uomo di destra:#cazzofascionuntelascio

di FULVIO FONTANA

di ELDA ALVIGINI e NATASCIA DI VITO

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1125 aprile 2015

ggi è 25 aprile, oggi è festa di aprile, la festa della Resi-stenza, della Liberazione dai soprusi perpetrati nel cor-so di un ventennio dal regime fascista che, tra “le cose buone che ha fatto”, ha reso il nostro Stato complice

della blasfemia politica, sociale e antropologica perpetrata dal nazismo contro l’umanità. Oggi è la 70esima volta che ricorre il 25 aprile. L’Italia veniva liberata grazie alla carsica e impavi-da resistenza dei Partigiani. Manipoli autocostituiti di donne e uomini, di ragazze e ragazzi, di padri e madri, di sorelle e fra-telli. Banditi, soldati, semplici idealisti che hanno creduto in un sogno come bambini. Pirati della libertà, anticorpi sociali accumunati dalla incontenibile necessità di vivere e di lottare per e con la speranza di poter ripristinare le libertà, valore su-premo su cui fondare e ricostruire un mondo nuovo, libero e democratico. Oggi, nel ribadire l’importanza della memoria, dedichiamo l’effige del nostro francobollo a Pietro Ingrao, partigiano, padre fondatore della sinistra italiana, giornalista,

comunista a oltranza. Abbiamo scelto Ingrao per il suo caratte-re sanguigno, per i suoi 100 anni vissuti da uomo libero, per la sua impronta indelebile nell’evolu-zione del pensiero della nostra sinistra democratica, repubblica-na e anti-fascista. Ingrao è stato un leader, la sua voce tuonante caratterizzava i contenuti del suo pensiero rafforzandone la convinzione. I suoi discorsi nelle piazze restano un raro esempio di empatia politica con il popo-lo, con la massa, magistralmente ricercata anche attraverso piccoli silenzi. Un leader, un comunica-tore d’altri tempi, che è riuscito a far convivere gli ideali e la realtà. Un partigiano che voleva la luna, un cittadino, un amico di famiglia

che ha sempre avuto piena consapevolezza dei propri ideali. Un marito, un padre, un nonno sia in famiglia sia nell’attività politica. Un uomo saggio che riconosce anche nella sconfit-ta l’epicità dell’avventura vissuta. Un sognatore che, nei suoi 100 anni, ha vissuto, raccontato e fatto la storia di un popolo. Questo francobollo è un omaggio implicito a tutti i Partigiani che, come Pietro Ingrao, hanno combattuto e resistito per la nostra libertà con il loro impegno e la loro forza di volontà, con il sacrificio degli affetti e della vita. Ci piacerebbe citarli tutti, conoscere ogni singolo uomo, ogni singolo nome. E ci piace immaginare di poter regalare loro un sorriso affettuoso, un gesto simbolico di ringraziamento devoto e dovuto per aver donato a tutti noi il bene più grande immaginabile: la Libertà.

O25 aprile con Pietro Ingrao

Bebo Storti - “La sindone è una bufala. È quel che resta quando Sallusti suda merda nell’asciugmano dopo la sauna”

Maurizio Crozza @CrozzaTweet - “#Renzi: “Obama ha realizzato il sogno americano: incontrare me #crozzameraviglie”

Dio - “Per spiegare la riforma della scuola, Renzi scriverà ai professori. In inglese”

Alessandro Gassmann @GassmanGassmann - “La Mussolini mi ha twittato... ma la mia famiglia non comunica con la sua dall’epoca delle leggi razziali...non intendo cambiare #liberazione”

Lia Celi - “#Letta lascia il Parlamento, dirigerà una scuola di politica. Vuol continuare a rendersi inutile”

Davide Gastaldo @davidegastaldo - “Non ci sono più i tempi della destra e della sinistra. Torna l’ #unità , forse però è Cioè . @donnadimezzo”

Luca Rovito - “Buongiorno popolo del web, oggi chi offendiamo? Torniamo a Tea Falco o avete nuovi obiettivi?”

#SATIRAINRETE EPICA FILATELICA

testi di SARO “POPPY” LANUCARAillustrazioni di PRONOSTICO

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25 aprile 201512

e grandi opere servono solo a chi le fa. Come avevano già ampiamente dimostrato i co-mitati contro l’autostrada Orte-Mestre, che dopo tredici anni di lotte, documenti, ricorsi

e denunce finalmente possono festeggiare una pri-ma vittoria, a Cesena il 9 maggio (www.stoporme.it). A seguito dell’inchiesta della procura di Firenze

sull’ennesimo intreccio di interes-si tra alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, mondo della politica e imprenditori del cemento e dell’asfalto, il governo ha dovuto cedere. Ed è stata stralciata dal bi-lancio dello stato 2015 il più grande progetto autostradale già inserito

nei programmi del Cipe: 396 Km, 64 in galleria, 140 in viadotti, 250 cavalcavia, 380 milioni di metri qua-drati di suolo agricolo occupati per una spesa pre-vista di 10 miliardi di euro. Un’opera paradigmati-ca del «sistema criminogeno» (parole di Cantone, presidente dell’autorità anti-corruzione) avviato con la legge Obbiettivo di Lunardi e Berlusconi nel 2001 e confermato da tutti i governi succedutisi, compreso l’attuale. Un sistema però ampiamente

svelato dai “comitatini” (la definizione è del pre-mier Renzi) e dalle associazioni che si battono non solo contro questa o quella grande opera devastan-te dell’ambiente, ma anche per un corretto uso del denaro pubblico. Un diabolico intreccio tra project financing e contraente unico. Se lo Stato non ha i soldi per realizzare opere di “interesse pubblico” ecco il generoso soccorso delle banche che anti-cipano il denaro in cambio dell’affidamento della realizzazione e della gestione dell’opera ad una cordata di imprese a loro associate. Niente per-dite di tempo, procedure semplificate. Se poi le previsioni di entrate (attraverso tariffe, ticket, bi-glietti) non dovessero bastare a ripagare i capitali e gli interessi, ecco le clausole di salvaguardia che aprono le casse dello Stato. Nella Orte-Mestre, In-calza (supermanager del ministero), Bonsignore (imprenditore promotore dell’opera) e Lupi (mi-nistro) avevano scritto, inserito ed approvato un articolo del decreto “Sblocca Italia” che concedeva alle imprese uno sgravio fiscale (Ires, Iva, Irpev) di 1,87 miliardi di euro. Quanto un “tesoretto”. E poi, dicono, mancano i soldi per mettere in sicurezza le strade che già ci sono.

ben guardare, anche la bici elettrica può avere un impatto ambientale elevato se l’energia che l’alimenta viene da derivati dal petrolio o, peggio, carbone. Si può fare

di meglio, deve aver pensato l’ingegnere danese Jesper Frausig, che ha messo a punto un model-lo con l’alimentazione a energia solare, fugando ogni dubbio sulla provenienza 100% fossil free del “carburante”. Sono integrati nelle ruote i pannelli solari che alimentano la Solar bike, così si chiama il veicolo: quindi niente spine da collegare, né cavi da avvolgere. Basta parcheggiare al sole e la ricari-ca è fatta, ma anche con il cielo velato il risultato arriva. E pure con un discreto risparmio economi-co. Se avete dubbi sull’autonomia, vi basti sapere che con un “pieno” di sole la Solar bike percorre 70 chilometri. I pannelli solari integrati nei raggi forniscono energia sufficiente a coprire dai 2 ai 25

chilometri e pedalando si aggiunge energia pu-lita al motore. Per adesso si tratta soltanto di un prototipo, mentre è già sul mercato la Leaos solar e-bike, due ruote italiana alimentata con pannelli solari integrati recentemente vincitrice di un im-portante premio di design. Oltre alle linee ricer-cate e alla presenza di pannelli solari che ne ali-mentano la pedalata assistita, la Leaos dispone di un corpo centrale in carbonio, di un impianto di illuminazione integrato e di un “display multifun-zione” che consente di conoscere in tempo reale la quantità di energia generata e lo stato di cari-ca della batteria. In caso di necessità questa bici solare si ricarica anche con la presa elettrica do-mestica. Dal momento che si tratta di tecnologie ancora poco mature, meglio non rischiare. Unico neo il prezzo, troppo elevato per consentire a tutti di pedalare a emissioni zero.

L

A

Una grande opera in meno

Raggi di sole per la bici elettrica

È stato stralciato dal bilancio 2015

il progetto autostradale Orte-Mestre. Una vittoria

dei comitati Stop OrMe che lottano da tredici anni

di RAFFAELE LUPOLI

PICCOLE RIVOLUZIONI

BUONA IDEA

di PAOLO CACCIAR

I

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1325 aprile 2015

Queste paginedi Left ospitanole proposte dei lettori dai territori.

Segnalateci vertenze, iniziative, foto e soprattutto buone notizie a [email protected] condividetele sui social network con l’hashtag #italiaviva.

TOSCANALa casa fai da te

Costruire una casa insieme agli amici o ai parenti? D’ora in poi sarà perfetta-mente legale in Toscana, la prima re-gione a riconoscere l’autocostruzione e l’autorecupero familiare. Una pratica molto diffusa negli altri Paesi europei, ma che in Italia era possibile solo sot-to forma di associazioni o cooperati-ve edilizie. La Toscana ha recepito le esperienze e le conoscenze di una rete di associazioni (Aria) che da anni pro-muove un tipo di costruzione rispettosa dell’ambiente e con materiali pregiati, fornendo anche un supporto tecnico agli autocostruttori. Intanto sono già in cantiere 12 progetti, di cui 8 finanziati dalla Regione.

CASTEL VOLTURNOGiù i cancelli sul lungomare

Il sindaco di Castel Volturno (Caserta) Dimitri Russo ha disposto la rimozione dei cancelli che ingabbia-vano il mare e la spiaggia limitando il libero accesso alla balneazione e impedendo l’ingresso soprattut-to nelle ore serali o durante l’inverno. I cancelli e le lunghe inferriate che camminano per chilometri parallele alla spiaggia erano stati installati dal Co-mune nel 2002 per impedire atti vandalici. «Con la rimozione dei cancelli abbiamo solo ripristinato la legalità - ha detto il sindaco - ma adesso dobbiamo, tutti assieme, riqualificare, controllare e progettare un nuovo lungomare».

SIENAOcchio all’arte

Da anni infermieri e medici del reparto di Oculistica del Policlinico di Siena si recano in Africa. Missioni di quindici giorni in Burundi, Burkina Faso, Congo per interventi di cataratta o di altre malattie degli occhi. Tutte le volte ad attenderli trovano centinaia e cen-tinaia di persone, tra cui molti bambini che arrivano da villaggi lontani. Il progetto Luce, promosso da Chi-mena Filippetti, riguarda la Repubblica democratica del Congo. Per raccogliere fondi e sostenere le cure ha dato vita all’iniziativa Occhio all’arte: trenta artisti hanno messo all’asta le proprie opere e una delle con-trade di Siena, la Lupa, ha offerto i locali per la mostra.

ROMASalvate il circo romano

Ci sono ancora i carceres, i box di par-tenza dei cavalli. Il circo romano della città di Bovillae (sulla via Appia tra il XII e XIII miglio) è uno dei siti archeo-logici più importanti al mondo. Ma quel luogo nel comune di Marino (Roma) è a rischio. L’area è oggetto di «un abuso edilizio da parte del proprietario attra-verso la costruzione di una villetta che ha violato i numerosi vincoli imposti nell’area: archeologico, monumentale e paesaggistico», si legge nella petizione su Change.org lanciata da Legambiente Appia Sud. Al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini si chiede di interve-nire e di salvare il circo di Bovillae dall’a-busivismo.

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Scavi di Pompei, la mar-cia di Renzi è tra le rovine blindate per pubblicizzare l’Expo milanese nel cuore dei tesori del Sud. Mattina presto: il sindaco de Magi-stris ha un breve incontro per chiarire la questione commissariamento Ba-gnoli con il premier. Evi-ta la passerella, dichiara: «Renzi è sempre più berlu-sconiano» e va via. Mezzo-giorno di fuoco: Renzi en-tra nell’arena pompeiana supersorvegliata, uomini e binocoli su mura anti-che duemila anni e più. È one man show del gladia-tore con l’I-phone bian-co. Lo precede sul palco il ministro Franceschini: l’Expo servirà a rilanciare «le capitali artistiche ita-liane: Milano, Roma, Fi-renze». Dimentica Napoli.Per il premier la platea è di sedie vuote, simbolo del partito fantasma parteno-peo. Un’assenza presente. Sono pochi, zitti e sorri-denti: in prima fila il gover-natore forzista Caldoro, in seconda De Luca, detto lo sceriffo, indagato per abu-so d’ufficio. Il vero sedut-tore lo giudichi dal numero di nemici conquistati. Tut-to fa gioco in Campania: la faida a destra e la sinistra spaccata, con sindaci Pd indagati da Giugliano a Ischia. Il solito appetito di

applausi e non c’è spazio per le domande. Continua la propaganda Expo tra le rovine: sarà «un’escalation di bellezza, il mondo ha fame di Italia», dice Renzi. «No, è l’Italia che ha fame»: l’unica fronda in sordina è quella dei fotografi re-legati a sinistra del palco. Non si sente quella fuori dalle mura antiche degli operai in sciopero, licen-ziati da Whirpool-Indesit. Pompei, Bagnoli, Centro Storico. La sinistra a sud, nord e centro sulla busso-la di una città che è alme-no tre città in un giorno solo, dove niente scom-pare, niente si dimenti-ca e tutto si trasforma. Ore tre: il centro è in mar-cia per Davide, nessu-na autorità presente. Via Roma è chiusa: «La Napoli bene non deve vedere, non deve sapere. Lo Stato a Da-vide non ha dato niente e gli ha tolto l’unica cosa che poteva avere un ragazzo di 16 anni cresciuto in un rione popolare napoleta-no: la vita». Ci sono i suoi amici in corteo, maglie e lenzuola bianche da strin-gere e due parole: “Verità e giustizia” per Davide Bi-folco, colpito a morte alle spalle da un carabiniere quando lo scorso settem-bre non si fermò a un po-sto di blocco delle divise.

LE ROVINE DI POMPEIONE MAN SHOW

Foto e testo di Michela A.G. Iaccarino

FOTO NOTIZIA

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È tempo di elezioni, all’Ava-na. Alle 7 in punto di matti-na del 18 aprile, 12.589 seg-gi hanno aperto i battenti portando al voto i cubani, per scegliere i propri dele-gati municipali (consiglie-ri) fra i 27.379 candidati. Tra questi, per la prima volta, due noti dissiden-ti: Hildebrando Chaviano, 65 anni, e Yuniel Lopez, 26. A Cuba, possono essere eletti nei Consigli comunali e provinciali tutti i cittadini che abbiano compiuto 16 anni, età dalla quale inizia l’esercizio del voto. Per es-sere eletti deputati la soglia d’età si alza a 18 e si richie-de almeno una precedente candidatura alle provinciali. «Il voto è stato pulito e così il conteggio. Il popolo non vuole cambiare. Vuole anco-ra la rivoluzione», ha com-mentato Chaviano. Nella Repubblica popolare, il voto universale, diretto, libero e segreto è stato introdotto per la prima volta nel 1976. La partecipazione democra-tica nell’era castrista, nono-stante tutto ancora vigente, va in scena ogni due anni e mezzo, ma senza partiti po-litici o campagne elettorali. L’unico soggetto riconosciu-to è il partito di governo: il Partito comunista cubano. Anche il lider maximo, Fidel Castro, si è recato alle urne.

CUBAELEZIONI MONOCROMO

Foto di Alejandro Ernesto/Ansa/Epa

FOTO NOTIZIA

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25 aprile 201518

perché non hanno altra scelta. “Vivere li-beri o morire” fu il motto delle rivoluzioni politiche nello spazio europeo e atlantico; “vivere di lavoro o morire combattendo” fu quello delle rivoluzioni sociali. Oggi liber-tà e lavoro sono negati ai dannati della ter-ra e l’Europa li rigetta nel nulla: corpi sen-za nome, censiti ogni giorno a centinaia nei verbali degli obitori. E intanto il mare inghiotte quantità incontrollabili di anne-gati. Sono i caduti di una guerra mondiale di tipo nuovo, in cui tutti siamo coinvolti, ma con ruoli assai diversi. Stiamo ricordando nelle feste nazionali i giorni della Liberazione: che fu liberazio-ne da uno stato di guerra mai visto prima, un conflitto senza frontiere che non ri-sparmiava nessuno.

Quella che oggi è in atto è la figlia dell’età della globalizzazione - una guerra globa-le. Ma è anche una guerra dove gli schie-ramenti sono paurosamente disuguali. Da una parte ci sono i Paesi ricchi, dove i citta-dini godono diritti di libertà e abbondanza di beni di consumo e sono spaventati dal rischio di doverli condividere con altri. E i capi di Stato obbediscono a questi istin-ti, da Obama, premio Nobel della pace, a tutti gli altri. Dall’altra c’è un’umanità disperata, lacerata da mille divisioni, che affronta il pericolo e la realtà della mor-te perché non ha alternative. L’esito del conflitto è scritto in anticipo. A meno che, questa volta almeno, il vedere tutti i giorni l’inferno che ignoreremmo volentieri non ci tolga l’alibi che funzionò al tempo della Shoah. Il senso di colpa grava su tutti noi e non saranno sofismi come quello della Faz a cancellarlo. Ci sarà una istituzione mondiale capace di reagire? Davanti al fallimento dell’Europa la domanda passa all’Onu.

n commento dell’autorevole Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung) di lunedì 20 aprile alla strage dei 950 (ma lì il numero era 700) po-

neva il problema della colpa e rispondeva: la colpa non è dei Paesi europei ma dei go-vernanti africani. È uno dei tanti casi in cui chi segue le notizie e i commenti sulle stra-gi in atto nel Mediterraneo è colpito dalla dismisura tra gli accadimenti e la coscienza che se ne ha in Europa. E non è solo perché l’Europa, chiusa negli egoismi nazionali, è «spaventosamente indietro nella creazio-ne di uno spazio pubblico europeo», come scrive Andrea Zannini al termine della sua Storia minima d’Europa dal neolitico a oggi (Il Mulino). Il bilancio di questa storia mil-lenaria rischia di essere un rendiconto no-tarile in una causa per fallimento. L’Europa che era risorta dicendo “mai più” al genoci-dio dei lager oggi chiude gli occhi davanti al genocidio per annegamento.

Sono lontani i tempi in cui si dibatte-va sull’identità europea e sul preambolo che doveva definirne i caratteri: il cristia-nesimo? L’Illuminismo? Non troviamo né solidarietà cristiana né un barlume di quell’idea dei diritti e della dignità umana che animò la migliore cultura europea del ’700 e mise in moto le rivoluzioni dell’e-tà contemporanea. Siamo spettatori di una strage sempre più grande e ne siamo in qualche modo tutti responsabili. Il co-mandante generale della guardia costie-ra italiana Felicio Angrisano, intervistato da Repubblica, ha parlato di “un esodo epocale”, quello di “una nuova nazione di migranti e rifugiati”. I poveri del mon-do, le vittime di sistemi creati dal neoco-lonialismo e dalla lotta per l’egemonia mondiale nello sfruttamento delle risorse, affrontano il pericolo di morire annegati

Davanti al fallimento dell’Europa, la domanda passa all’Onu

IL TACCUINO

di Adriano Prosperi

Oggi, lavoroe libertà sono negati ai dannati della Terra. La Ue li rigetta nel nulla. Ci sarà un’istituzione mondiale capacedi reagire?

COMMENTI

U

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1925 aprile 2015

quella di garantire la salvezza delle persone, consentendogli di rivolgersi agli Stati e non agli scafisti.Ma sembra che nemmeno i 400 morti pri-ma e i 950 dell’altra notte riescano a scalfire quel muro che separa i governi dal genere umano. È come se appartenessero a pianeti diversi.Finché l’Italia e l’Europa non organizzeranno una via d’accesso sicura i morti aumenteran-no. L’esperienza di questi anni ci insegna che aumentare i controlli produce soltanto un au-mento delle tariffe, fa lievitare i guadagni dei trafficanti, e il numero dei morti.Questo dimostra la cruda realtà.Eppure si sprecano incontri e parole per pro-porre soluzioni i che proprio quei morti di-mostrano essere improponibili.A questo si aggiungono il razzismo e il cini-smo di chi blatera di affondare i barconi per il bene di chi fugge.Che vergogna!Oggi c’è una sola strada possibile: creare ca-nali d’accesso sicuri e legali. Andare a pren-dere i profughi laddove sono e assumersi la responsabilità di accoglierli.Considerando che più del 90% dei profughi e dei rifugiati sono accolti nei Paesi vicini alle aree di crisi (i siriani sono soprattutto in Li-bano, Turchia e Giordania, i somali in Kenia, gli eritrei in Sudan), l’Italia e l’Europa sono ben lontani dal fare la loro parte. Non è ac-cettabile che si tenti in ogni modo di scarica-re sui governi del Nord Africa, che come tutti sanno vivono un periodo di grande difficol-tà, il peso delle crisi intorno al mediterraneo. L’Europa batta finalmente un colpo.Intanto, in attesa che i governi dell’Ue si de-cidano a fare il loro dovere, è urgente fermare l’ecatombe ripristinando l’operazione Mare Nostrum. Adesso. Subito.Questo devono fare il governo italiano e l’Eu-ropa.

i fronte a centinaia di cadaveri, uo-mini, donne, bambini e bambine, la politica italiana ed europea si interroga su come fermare le par-

tenze, combattere i mercanti di esseri umani e sigillare ulteriormente le frontiere.Su questo, anche se con accenti diversi, c’è una qualche convergenza tra destra e sinistra, tra forze democratiche (non di tutte per fortu-na, ma di buona parte di quelle governative) e destra xenofoba.A Matteo Renzi facciamo una domanda: come può oggi, non fra un mese o un anno, una famiglia di siriani che vuole mettere in salvo i propri figli, o un giovane eritreo che si oppone al dittatore del proprio Paese, o un ni-geriano che fugge dalla persecuzione di Boko Haram arrivare in sicurezza e legalmente in Europa o in Italia?La risposta è che non si può, e che nei die-ci punti proposti dai governi dell’Ue, di cui tanto si inorgoglisce il nostro Presidente del Consiglio, ancora una volta prevale la preoc-cupazione di proteggere le frontiere, non le persone.Come è possibile, di fronte ad una tragedia enorme, all’ennesima strage di esseri umani, parlare esclusivamente di lotta agli scafisti e di rafforzare i controlli, di usare più aerei e più mezzi per il contrasto? È veramente insoppor-tabile, espressione di un cinismo che pone la politica e il Palazzo, in Italia e in Europa, fuori dal consesso civile.Tanti morti non fermano le partenze, come dimostra la dinamica delle due tragedie di questi ultimi giorni. Le persone partono dalla Libia perché non hanno altro luogo e altro modo per partire. La Libia è l’unico Paese da cui in questo momento si è certi di poter partire alla volta dell’Europa per cercare di assicurare a sé e ai propri figli un futuro. Ci saremmo aspettati che la priori-tà dell’Italia e dell’Europa fosse finalmente

Almeno ripristinate Mare Nostrum.E poi canali d’accesso legali

IL COMMENTO

di Filippo Miraglia*

A Renzi faccio una domanda: come può una famiglia di siriani che vuole salvare i propri figli arrivare legalmentein Italia? La risposta è che non può.Anche oggi prevale la preoccupazione di proteggerele frontieree non le persone

D

*vicepresidente nazionale Arci

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25 aprile 201520

È incomprensibile l’entusiasmo dei sinda-cati maggioritari, che vengono scavalcati nel metodo e nel merito: l’Ad annuncia le cifre e deciderà i criteri, a loro non rima-ne che limare qualche dettaglio. È un po’ pochino per proclamare nuove “relazioni” industriali, no? Ma il modello sociale di Marchionne è lo stesso di Renzi: sovrani che si rivolgono di-rettamente ai sudditi tagliando fuori i fa-stidiosi corpi intermedi, sindacati e partiti, questi sì strumenti di reale partecipazio-ne, se non abdicano al proprio ruolo. Al-trimenti dai diritti si passa ai bonus. E dai contratti agli editti. Intendiamoci: nessu-no teorizza un sindacato solo conflittuale: ben venga la responsabilità, e la capacità di mettere le mani nella pasta dell’orga-nizzazione del lavoro. Avviene già in molte imprese, dove si integrano i contratti na-zionali e si condividono quote degli utili. Come in Ducati: dove l’aumento dei turni per saturare gli impianti è in cambio di una riduzione dell’orario (30 ore settimanali pagate 40), premio per le squadre efficien-ti e assunzioni. E nessun grosso titolo sui giornali.Attendiamo ora il gioco di sponda del go-verno. Nel 2011 Sacconi aveva aperto le danze con il famigerato articolo 8, che per-mette ai contratti di II livello di derogare in peggio a quelli nazionali. Oggi il grimaldel-lo può essere mascherato da nobili intenti, la legge sul salario minimo: un inquadra-mento legale molto più economico dei mi-nimi contrattuali nazionali e il colpo è in canna. Dice Marchionne che sono finite le «sterili contrapposizioni tra capitale e la-voro». Una formula elegante per intimare: «Arrendetevi, abbiamo vinto noi!». Non si illuda. E rifletta: se davvero, come vanta, lavora tredici ore al giorno, è schiavo di quel capitale più dei suoi operai.

econdo round. Archiviato l’articolo 18, si procede con lo svuotamento dei contratti nazionali, che garan-tiscono la stabilità dei salari e delle

condizioni di lavoro.A fare da apripista è ancora Fiat-Fca, che già nel 2011 ha imposto il proprio con-tratto specifico, dopo i drammatici refe-rendum di Pomigliano e Mirafiori. Allora brandiva il bastone del ricatto - o accettate o chiudiamo - oggi sventola la carota del bonus economico, subordinato ai propri obiettivi produttivi e di bilancio. Intanto la paga base, l’unica certa, rimane inferiore agli altri metalmeccanici. Fumi di incenso dalla grande stampa, che per promuovere urbi et orbi i contratti aziendali, straparla di partecipazione dei lavoratori all’impre-sa. Si evoca addirittura la cogestione tede-sca, laddove però i lavoratori siedono negli organi aziendali e condividono obiettivi e strategie.

Nel concreto, non c’è nessuna “rivoluzione” sotto il sole: come in molti premi di produ-zione, si finge che il dipendente possa con-tribuire ai risultati aziendali più di quanto già faccia, volente o nolente. Vai a spiegare a Cipputi che dovrà incrementare gli utili dell’area Emea (Europe, Middle East and Africa) o l’efficienza del Wcm (World Class Manufactoring), il sistema produttivo che in catena di montaggio gli può già imporre 58 secondi di prestazione effettiva ogni 60, come neanche Charlie Chaplin... I criteri di assegnazione individuale del bonus serviranno inoltre ad abbattere le assenze. Tutte. Il premio Fiat del 2012 escludeva perfino la maternità obbligato-ria e i permessi per allattamento; possiamo ben prevedere che ne sarà di infortuni, ma-lattie, congedi parentali. Che tu abbia un neonato o un tumore, scordati il bonus.

Ma quale “partecipazione agli utili”Si tratta di lavorare di più e peggio

IL COMMENTO

di Marco Craviolatti

«Arrendetevi, abbiamo vinto noi!» intende Marchionne quando dice che è finita la contrapposizione tra capitale e lavoro. Dai diritti si passa ai bonus e dai contratti agli editti

COMMENTI

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2125 aprile 2015

di versare le proprie disponibilità liquide alla Banca centrale. Per ora va bene, ma cosa si farà la prossima volta? Quando si sarà dato fondo anche a questa riserva, non rimarrà, si dice, che pagare gli stipendi con delle cambiali, gli Iou (I owe you money). Si tratterebbe, nella sostanza, della creazione di una moneta interna, con circolazione parallela all’euro, moneta che certamente si svaluterebbe immediatamente rispetto all’euro: con ogni probabilità il primo pas-so verso il ritorno della dracma.

Non è più chiaro chi voglia che cosa. Un al-tro piano di austerity il governo greco non può accettarlo, non solo perché, come ge-neralmente si dice, sarebbe un tradimento verso i propri elettori, ma anche perché di austerity la Grecia sta morendo, si è toc-cato il fondo del barile, non c’è più nien-te da raschiare. E la controparte non può non saperlo, sia essa la Merkel o Schäuble, Draghi o la Lagarde, o chi per loro. D’altra parte, sembra credibile la volontà politica del governo greco di porre mano a un serio programma di modernizzazione del Paese, oggi distrutto dal dilagare della corruzio-ne, dell’evasione, dei privilegi ecc. Un pro-gramma che avrebbe bisogno di tempo e di fiducia. Perché non riconoscerglieli? Perché sarebbe necessaria un’altra visio-ne del mondo, dei cervelli diversi nella te-sta dei leader europei. Il pensiero corre al Keynes che nel 1919 scriveva Le conseguen-ze economiche della pace, dimostrando la follia dei pagamenti imposti alla Germa-nia e all’Austria a riparazione dei danni di guerra. O anche al 5 giugno 1947, quando il segretario di Stato George Marshall annun-ciò al mondo, dall’Università di Harvard, la decisione degli Stati Uniti di un piano di aiuti economico-finanziari per l’Europa, che avrebbe cambiato la storia.

impressione è che si stia andan-do a larghi passi verso il baratro. Si era detto che per la questione greca sarebbe stata decisiva la

riunione dell’Eurogruppo del 24 aprile a Riga. Ora tutto slitta al vertice dell’11 mag-gio. Il giorno dopo, il 12 maggio, la Grecia dovrà restituire 780 milioni al Fondo mo-netario internazionale. Solo un assaggio di quanto l’attende entro agosto: un totale oltre 10 miliardi da rimborsare, tra Fondo e Bce. Intanto il governo greco deve pagare 1,5 miliardi al mese di stipendi e pensio-ni, gli interessi su un debito pubblico che è al 173% del Pil a tassi che sono andati alle stelle (quello sui titoli a medio termine è al 28%!). Un accordo s’ha da fare, ma quando e come? Le verità ufficiali sono sempre quelle: la Grecia non uscirà dall’euro; non ci sono piani B; l’unica via d’uscita è un nuovo pro-gramma di austerity. Così come si continua a sbandierare che il quantative easing della Bce ha creato un impenetrabile cordone sanitario attorno ai Paesi in passato espo-sti al contagio, a cominciare da Spagna e Italia. È una verità che si deve sostenere ad ogni costo, perché indebolisce la Grecia nella trattativa. Ma ora l’impressione è che nessuno ci creda: e i segnali che vengono dai “mercati”, per quanto, come al solito, ondivaghi e di incerta interpretazione, in qualche misura confermano: il rischio di contagio c’è. Se non altro, per il fatto che il cordone sanitario poggia sulla credibilità della Bce e questa crollerebbe se la Grecia dovesse uscire dall’euro. Di piani B ormai peraltro si parla aperta-mente: default del debito, ma permanenza nell’euro; uscita temporanea dall’euro ma permanenza nella Ue e via discorrendo. In-tanto il governo greco, per pagare stipendi e pensioni, impone a tutti gli enti pubblici

A larghi passi verso il baratro.Non c’è più niente da raschiare

ECONOMIA E FINANZA

di Ernesto Longobardi

Un altro piano di austerity la Grecia non può accettarlo. Un accordo s’ha da fare. Ma quando e come?Non è più chiaro chi voglia cosa

L’

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25 aprile 201522

Come se la guerra fosse niente

IL MONOLOGO

di Edda Pando*

ivo in un Paese strano, in un continente strano. Vivo in un continente che non è il mio e che ha costruito il proprio benessere sul malessere del sud del mondo. Qui la fortuna di chi nasce da questa parte del mondo sta sulle spalle di chi è nato dalla parte sbagliata.

Prima lo chiamavano colonialismo. Poi hanno detto conquista.Oggi si chiama “politiche sull’immigrazione”.Parole diverse per dire di un mondo che non cambia e che non è cambiato.Chiamano il naufragio tragedia e invece è un omicidio.Dicono che la vita di un migrante oggi vale meno e invece è sempre stato così. Cambiano le parole: Renzi dice che l’Europa deve fare qualcosa con-tro chi sfrutta questa tragedia, contro gli scafisti, dice lui, i trafficanti di morte, scrivono i giornali e nemmeno più a sinistra colgono questo la-varsene le mani. Le politiche dell’Europa non funzionano. La chiamano Europa dei popoli ma lì in Europa, dove si decide la sorte dei popoli, nei palazzi che contano, mancano i popoli che vivono in Europa pur non essendo europei. Ci avete mai pensato?Milioni di persone preoccupate soltanto di perdere i propri privilegi e tutti i canali chiusi. Vivo in un Paese in cui anche la sinistra dice “aiu-tiamoli a casa loro” e non sanno, non dicono, non vogliono sapere che “casa loro” è la guerra, la fame, senza speranza.

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2325 aprile 2015

Vivo in un Paese strano: organizzano seminari sull’austerity e non sanno che noi l’abbiamo provata già, in Sudamerica, quindici anni fa. Orga-nizzano convegni e non ascoltano noi che ne siamo il risultato. In Sud america negli anni Novanta gli aggiustamenti del fondo monetario in-ternazionale hanno devastato il continente dove sono nata. Ma qui, in questo Paese strano, non hanno mica capito che i migranti sono la testi-monianza fatta persona del nemico che temono.Vivo in un Paese strano: muoiono in 700 e ne piangono 700. Sono pro-fessionisti del dolore circoscritto. Non pensano che i genitori sono 1.400. I fratelli almeno 700. Gli zii i pa-renti. Questo dolore sta nel cuore di diecimila, ventimila persone. Ma qui non se ne accorge nessuno.Vivo in un continente strano, un’Europa che non ha mai avuto canali d’in-gresso regolari. Io sono italiana sanata, come se fosse una malattia da guarire.Vivo in un Paese strano in cui ci si dimentica che negli anni delle frontiere aperte non c’è stata nessuna invasione e che non si accorge di avere fatto del “viaggio” un’ossessione per quelli dalla parte sfortunata del mondo.E poi noi, anche noi migranti, abbiamo finito per raccontare una favola che non esiste, quando torniamo a casa con le valigie piene di regali e per vergogna non diciamo di vivere nell’immondizia. Per vergogna. Anche mio padre si vergognava che io fossi una “domestica”. Ma io no. Io anzi vo-glio che i migranti di questo Paese si facciano carico dei morti, si prenda-no la responsabilità delle leggi ingiuste, voglio che la smettano di pensare che la transitorietà dia il diritto di disinteressarsi al luogo in cui viviamo.Vivo in un Paese strano in cui nessuno si prende la briga di raccontare perché partono sui barconi. Nessuno. Come se la guerra fosse niente, come se la povertà fosse niente o come se la curiosità almeno quella non fosse un sacrosanto diritto.Io quando ero già in Italia, alcuni anni fa, e mi parlarono dei tunisini di-spersi dissi che non avevo le energie per fare tutto, per occuparmi di tutti. E sbagliai. Nel 2012 ho incontrato le madri, quelle donne, a Monastir che rivendicavano almeno un corpo su cui piangere, che rivendicavano il di-ritto e il dovere di esercitare un lutto. Forse perché sono sudamericana mi hanno riportato con il cuore a una mamma di Plaza de Mayo che mi disse: «Io ho partorito fisicamente mio figlio poi quando mio figlio è desapareci-do lui ha partorito me come attivista politica». Io voglio nascere attivista da questi morti. Voglio esserne protagonista. Anche in un continente strano. Che non è mio.

*coordinatrice Rete sportelli immigrazione - Arci Milano

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25 aprile 201524

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2525 aprile 2015

«Prepararsi alle operazioni di recupero». La sirena interrompe la cena e chiama a raccolta i militari. Due natanti carichi di persone sono entrati nel raggio d’azione della nave San Giu-sto della Marina militare. Scattano le regole d’ingaggio di Mare Nostrum: “search and re-scue”, ricerca e soccorso. Indossiamo tute e mascherine protettive e arriviamo sul ponte garage al seguito di militari, polizia e perso-nale sanitario. Pochi minuti e parte l’ordine di aprire il portellone posteriore. Caricati a bor-do i sacchi con i giubbotti di salvataggio, due imbarcazioni accendono i motori ed escono: sono un gommone nero che chiamano Mazin-ga e la Gis, un natante più capiente sul quale sarà imbarcato il grosso dei migranti. Perché due? «Per evitare che il gommone si sbilanci da una parte - spiega l’ufficiale che ci accom-pagna -: quando ci vedono si ammassano tutti sul lato dal quale ci avviciniamo».

È il 13 ottobre 2014. Mancano due settimane al passaggio di consegne da Mare Nostrum a Triton. Dopo un anno di recuperi in mare - 160.000 persone tratte in salvo - procedure e accorgimenti per operare in sicurezza sono

più che rodati. «State giù! Sit down!» urlano dai megafoni i militari e i mediatori linguisti-ci, mentre affiancano lentamente il gommo-ne. Devono evitare che le onde alte mettano in pericolo i passeggeri. «Sono imbarcazioni vecchie e malandate - dice il nostro accom-pagnatore -. Se li raggiungessimo con il San Giusto li travolgeremmo in un attimo, ben pri-ma di poterli abbordare». Una nave di grandi dimensioni non può avvicinarsi troppo a un peschereccio, men che meno a un gommone: lo ribalterebbe. Così come basta che poche decine di persone si spostino da una par-te all’altra per far colare a picco una carretta del mare traboccante di migranti. È avvenuto tante volte in passato. E probabilmente è av-venuto qualcosa di analogo anche domenica 19 aprile.

Un fatto strutturale e non una fatalità. Lo sa-pevano già sei mesi fa, su quella nave che pat-tugliava il Mediterraneo. Lo sapevano tutti. A sera, sul ponte di poppa immerso nel buio, mi-litari e civili chiacchierano del più e del meno. Calcio, politica, lavoro. Arrivati al confine del-le acque libiche, le fiamme delle piattaforme

Da novembre 2014 il governo di Renzi e Alfano ha varato l’operazione Triton. Obiettivo, il controllo delle frontiere. E non il salvataggio dei migranti. Così in 5 mesi i morti sono già 2.000

QUANDO MARE NOSTRUM SALVAVA VITE UMANE

di Raffaele Lupoli

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petrolifere rischiarano la notte. «È un’ammaz-zata fare avanti e indietro dall’Italia all’Africa e non toccare terra per mesi - racconta un marinaio - ma siamo fieri che il nostro Paese ce lo chieda. Ora che arriva Triton non sarà lo stesso», confida. Nei colloqui ufficiali nessuno si sbottona, ma con una bibita in mano e la sigaretta accesa nell’altra, assieme alla fatica viene fuori la consapevolezza del «grande ge-sto di umanità» che l’Italia ha compiuto met-tendo in campo Mare Nostrum a partire dal 18 ottobre 2013, sotto il governo Letta e due settimane dopo la strage di Lampedusa che è costata la vita a 366 migranti.

Poi, però, è arrivata la spending review di Fortezza Europa e la gestione Renzi-Alfano: 9 milioni e mezzo al mese sono troppi, riducia-mo il budget a 2,9. Dal primo novembre 2014 Mare Nostrum viene rimpiazzata da Triton, a finanziarla è Frontex (l’agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne) e l’Italia - rivendica fiero il ministro dell’Interno - passa

«da 114 milioni di euro a zero». Sembra di sen-tire ancora quelle parole scandite tra un sorso e l’altro di birra: «Certo, 9 milioni sono tanti, ma ridimensionare il pattugliamento soltan-to per risparmiare è un altro discorso: stiamo galleggiando su un cimitero che rischia di di-ventare immenso».

Evidentemente, al risparmio economico non ha corrisposto il risparmio di vite umane. « Al di là degli annunci in pompa magna («Abbia-mo centrato un gradissimo obiettivo: l’Europa che scende in mare, con il passaggio da Mare Nostrum a Triton», aveva detto Alfano), Triton prevede il pattugliamento delle acque inter-nazionali fino a 30 miglia dalle coste italiane, ben lontano dal confine delle acque libiche. Se l’allarme scatta oltre la linea, deve intervenire l’imbarcazione più vicina, civile o militare che sia, come impongono le regole internazionali di soccorso. E in ogni caso le persone recupe-

rate sono affidate al sistema di accoglienza italiano. Il soccorso dei migranti è soltanto un corollario della missione principale, quella del controllo della frontiera. «Lasciamo da parte le differenze quantitative in termini di mezzi e forze in campo. Triton opera in un’area troppo limitata e con una missione altrettanto ina-deguata, questo è un dato di fatto. Con Mare Nostrum era sotto controllo quasi tutto il Me-diterraneo», commenta Roberto Zaccaria, ex presidente della Rai, che da febbraio 2014 ha sostituito Savino Pezzotta alla guida del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati.

Ma come funzionava prima del passaggio di consegne a Triton? Torniamo all’ottobre 2014, sulla nave della Marina italiana. I radar hanno appena localizzato due possibili imbarcazioni cariche di persone. Dagli altoparlanti ci avver-tono che da questo momento scatta il divieto di accesso al ponte di volo, fino a nuovo ordi-ne. Un elicottero deve andare a verificare se si tratti davvero di migranti alla deriva. In altri casi, a partire sono dei piccoli droni, più di-screti e silenziosi, dotati di telecamere: servo-no ad avvicinare i barconi senza farsi notare, sempre con l’obiettivo di evitare che nella foga di cercare aiuto i passeggeri delle carrette del mare facciano capovolgere lo scafo. «Una cosa è un salvataggio fatto da personale altamen-te qualificato e costantemente mobilitato e un’altra è l’intervento di un mercantile di pas-saggio» riprende Zaccaria. Le modalità opera-tive di Triton, obiettivamente, non hanno né la dotazione né il livello di attenzione di Mare Nostrum. Vorrà dire qualcosa se in questi cin-que mesi i morti sono circa 2.000 contro i 20 dello stesso periodo dell’anno scorso. Parlan-do del peschereccio affondato il 19 aprile con 950 persone stipate a bordo, Matteo Renzi ha dichiarato: «Chi dice che con Mare Nostrum si sarebbe evitata la tragedia non sa di cosa par-la: i soccorsi c’erano al momento dell’inciden-te. Diciotto navi impegnate da subito di cui 7 militari italiane».

Eppure qualcosa non quadra. Secondo le prime ricostruzioni, l’allarme lanciato da un telefono satellitare a bordo del peschereccio

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Zaccaria (Cir): «Una cosa è il salvataggio fattoda personale qualificato e costantemente mobilitato, un’altra è l’intervento di un mercantile di passaggio»

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e raccolto dalla Guardia costiera non era par-ticolarmente concitato. Ad arrivare per primo è stato il mercantile portoghese King Jacob, ma mentre si avvicinava all’imbarcazione i migranti si sono ammassati tutti su un lato causando il ribaltamento. «Dire che c’era una barca riferendosi a un mercantile che pro-babilmente non aveva mai fatto salvataggio è una mistificazione», confida un’operatrice con lunga esperienza nel campo del soccor-so ai migranti. «Quando c’era Mare Nostrum andavano due piccole barche e si affiancava-no ai natanti in modo che le persone fossero contenute dai due lati. Quelle persone sape-vano come operare: il know how in tema di salvataggio e ricerca delle nostre forze ma-rittime è elevatissimo. Che quanto sta succe-dendo adesso non sia neanche lontanamente paragonabile a quello che accadeva fino allo scorso ottobre, è un dato di fatto che non può essere messo in discussione».

Fermare gli scafisti, quelli che il presidente del Consiglio definisce «i nuovi schiavisti»: anche su questo fronte la situazione è radical-mente cambiata. Con Mare Nostrum già nelle

fasi di recupero, sui Mazinga e sulle Gis, per-sonale della polizia partecipava al primo ab-bordaggio scattando foto e facendo domande. Una volta a bordo, partiva la schedatura con foto e raccolta delle impronte. Ha sottolineato le differenze sotto il profilo dell’inchiesta giu-diziaria anche Giovanni Salvi, il procuratore della Repubblica di Catania, dove sono arriva-ti i primi cadaveri recuperati dal naufragio del peschereccio. Triton non consente di avviare le indagini sulle navi militari al momento in cui vengono fatti salire i naufraghi. Per Salvi, le modalità con le quali operano «le Marine militari, compresa la nostra, mediante Fron-tex e Triton, sono meno efficaci dal punto di vista delle indagini di polizia giudiziaria ri-spetto a Mare Nostrum». Quest’ultima con-sentiva «un’immediata attivazione delle inda-gini, cosa che ha permesso a questa procura di catturare i più pericolosi trafficanti con la collaborazione della Marina». Anche Zaccaria insiste su questo punto: «Noi dobbiamo salva-

Fermare gli scafisti, «nuovi schiavisti», è l’obiettivo del nostro presidente del Consiglio. Peccato che Triton non consenta di avviare le indagini a bordo

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re più vite possibile, ma anche identificare chi viene salvato».

Vedremo che cosa cambierà, anche in que-sto senso, con l’iniziativa messa in campo da Federica Mogherini. L’Alto rappresentante Ue per la Politica estera e di Sicurezza, assieme al commissario agli Affari Interni Dimitris Avra-mopoulos, ha ottenuto il via libera dei ministri europei a un decalogo di azioni che l’Europa dovrebbe adottare immediatamente con l’o-biettivo di «rafforzare» Triton e lanciare uno «sforzo sistematico per catturare e distruggere le imbarcazioni usate dai trafficati». Sono po-che le novità rispetto al piano messo a punto dopo la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre. «Quello che ci preoccupa dei dieci punti ve-nuti fuori dalla riunione congiunta è che l’u-nica iniziativa concreta annunciata finora è il raddoppio dei fondi» riprende il presidente del Cir Zaccaria. «Non si parla, o forse se n’è fatto solo un cenno, né di ampliarne il man-dato né di estendere il controllo oltre le 30 mi-

glia. Spesso i migranti si trovano in difficoltà al limite delle loro acque territoriali. Se non si attribuisce a Triton il mandato di fare in ma-niera estesa la ricerca e il soccorso in mare, a breve ci ritroveremo qui a fronteggiare di nuo-vo emergenze e tragedie del mare. O si torna all’obiettivo primario di salvare quante più vite possibile nelle acque del Mediterraneo o è facile prevedere che accadrà ancora e ancora».

Di corridoi umanitari per ora parlano quasi solo le Ong, così come di una Mare Nostrum europea che estenda il “save and rescue” all’intero bacino del Mediterraneo con l’in-tervento di tutti gli Stati membri. Per questo c’è chi si organizza in autonomia. «Dal mese di maggio effettueremo noi stessi operazioni di salvataggio in collaborazione con capita-nerie di porto e Guardia costiera» annuncia Loris De Filippi presidente di Medici senza frontiere. Msf aderisce al progetto di Migrant

offshore aid station (Moas), prima missione finanziata da privati per soccorrere di chi si avventura nel Mediterraneo. «Oltre a parteci-pare alle loro operazioni avremo anche un’im-barcazione nostra, che consentirà di ospitare a bordo dalle 200 alle 300 persone. Ora stiamo formando il personale» chiarisce De Filippi.

La cosa certa è che, mentre l’Europa “studia”, il collo di bottiglia creato dai restringimenti alle frontiere rischia di esplodere, alimentato da chi strumentalizza le masse di disperati e approfitta del caos per lucrare sul traffico di esseri umani. Se il 91% dei migranti parte dalla Libia, è proprio da qui che sarebbe «pronto a partire» verso il Vecchio continente un milio-ne di persone. «È un’operazione premeditata quella di creare queste situazioni drammati-che. Ora abbiamo la prova che non era Mare Nostrum a incentivare le partenze» riprende il presidente del Cir. «L’Europa deve farsi ca-rico della questione umanitaria che sta alla base di questo fenomeno. È un problema che si collega alla partecipazione congiunta all’ac-coglienza: se stabiliamo che questi soggetti hanno diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico, poi dobbiamo farci carico tutti insieme di offrirgli riparo».

Le cosiddette regole di Dublino, però, impe-discono a chi viene identificato in un Paese Ue di richiedere asilo in un altro. «La vecchia logica di questo sistema porta poco lontano - conclude Zaccaria -. Non possono farsi carico dell’accoglienza soltanto i Paesi frontalieri. Va comunque detto, senza con questo sottova-lutare il fenomeno, che non si tratta di flussi spropositati. Quindi l’Europa può e deve af-frontare questo problema come un problema ordinario dell’epoca contemporanea, sapen-do che bisogna muovere una tastiera fatta di diversi tipi d’intervento». In attesa che la tastiera emetta qualche suono, bisogna però evitare nuove tragedie “record”. Anche per-ché, come ha detto un vecchio signore siria-no appena arrivato sulla nave San Giusto, «si trattava di scegliere tra la morte certa nel mio Paese e il rischio di affogare nel Mediterraneo. Al mio posto cosa avresti fatto?».

Di corridoi umanitari e di una Mare Nostrum europea ne parlano solo le Ong. Per questo c’è che si organizza in autonomia, come Medici senza frontiere

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LA VITA DELLE PERSONE NON È QUESTIONE DI SOLDI

Con la serie di stragi di questi ultimi giorni, il numero delle vittime nel Canale di Sicilia, nei primi quattro mesi di quest’anno (fino al 20 aprile), è aumentato da 50 a 1.650 e più. Uomini, donne, bambini uccisi, oltre che dai trafficanti, dalla mancanza di canali di ingres-so protetto in Europa. I ministri degli Esteri e dell’Interno dei Paesi dell’Unione europea, riuniti a Lussemburgo, hanno proposto una strategia che apparentemente tende a colpi-re gli scafisti - con la distruzione dei barconi e “azioni mirate” nei Paesi di transito - ma che, in assenza di altre misure di salvataggio, divente-rà soltanto una nuova guerra contro i migranti. Per loro si prevedono respingimenti sommari con il supporto di Frontex e nuovi rapporti con i Paesi di origine che non garantiscono il rispet-to dei diritti umani. È alto il rischio che, col pre-testo di impedire le stragi, si attuino forme di blocco navale e di interventi “mirati” di polizia internazionale nei Paesi di transito. La propo-sta di Renzi e Alfano si inquadra nel Processo di Khartoum, che intende instaurare nuove rela-zioni politiche e commerciali con i Paesi africa-ni, seppur governati da dittature spietate.

In realtà, queste proposte sono state ripescate tutte - una per una - dalle peggiori proposte dei partiti di destra, al governo nella maggior par-te degli Stati europei e che ne condizionano la politica estera e migratoria anche quando sono dentro maggioranze di “larghe intese”. Scaden-ze elettorali, populismi e nazionalismi vincen-

ti ovunque, stanno suggerendo ai governanti europei scelte che hanno già mostrato la loro totale inefficacia e l’altissimo costo in termini di vite umane. Anche il governo italiano, con Delrio, avanza ipotesi devastanti come i campi di raccolta in Libia e la esternalizzazione delle procedure di asilo. Nulla a che vedere con la ri-chiesta di apertura di canali umanitari, che non richiedono la creazione di campi di raccolta nei Paesi di transito. Allarmano le dichiarazioni di Renzi, che intende affidare le missioni di ri-cerca e salvataggio a navi commerciali, inadat-te a svolgere efficacemente queste attività. Così come allarma, ribadiamo, l’improvvisazione dimostrata nel prefigurare interventi di polizia in Paesi di transito nei quali non si riconoscono i diritti fondamentali della persona.

Si gioca anche con la verità. Prima si afferma che il peschereccio italiano fermato a 35 miglia dalla costa libica si trovava in acque interna-zionali, e si scatena un contenzioso diploma-tico con le autorità libiche. Poi, lo stesso Renzi sostiene che il naufragio più grande del Me-diterraneo sarebbe avvenuto 70 miglia a nord della stessa costa, ma questa volta sarebbero acque libiche. Forse per eludere responsa-bilità di soccorso che il nostro Paese fatica a soddisfare dopo il ritiro della missione Mare Nostrum. Occorre far ripartire subito una mis-sione di salvataggio internazionale più effica-ce di Mare Nostrum, con fondi provenienti da tutta l’Ue. Se non arriveranno i mezzi, l’Italia dovrà adottare le misure straordinarie previste dall’art.20 del T.U. 286 del 1998 per l’afflusso massiccio di profughi. Velocizzare le procedu-re per il riconoscimento della protezione com-porterà un grande risparmio nel sistema di accoglienza e una emancipazione più rapida dei profughi. Mentre le risorse così risparmiate potrebbero essere trasferite al rifinanziamento della missione Mare Nostrum. Non si può re-stare ancora una volta ad attendere l’Unione europea che non decide. La vita delle persone non può ridursi a una questione di soldi.

*Avvocato, docente di Diritto di asiloe statuto costituzionale dello straniero,

Università di Palermo

Dalla guerra agli scafisti al blocco delle partenze. I migranti sono condannati a mortedal proibizionismo delle frontiere

di Fulvio Vassallo Paleologo*

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Processo all’Europa. Alla ipocrita diploma-zia delle lacrime, ai vertici “straordinari” che di “straordinario” non producono mai nulla. Processo alla retorica inconcludente dell’“ora è troppo”, “ora bisogna passare ai fatti”, “queste tragedie non devono più accadere”. Processo alle false autocritiche, alle frasi roboanti buone per un titolo di giornata, amplificate da un’in-formazione “smemorata” quanto ossequiante, che non fa nemmeno la fatica di ricordare che le stesse frasi, gli stessi riti, gli stessi impegni (mai mantenuti) erano stati reiterati dopo ogni strage di innocenti consumatasi nel “mar della morte”, il Mediterraneo. Si aggiornano le sta-tistiche mortuarie, ma a quei numeri non si abbinano mai volti, nomi, storie. La tragedia fa notizia per le sue dimensioni, l’“ecatombe senza precedenti”, non per le responsabilità politiche che sottendono a queste stragi an-nunciate. I morti non sono tutti uguali. Nel giorno in cui si consumava a Parigi il sangui-noso attacco contro Charlie Hebdo, in Nige-ria i jihadisti di Boko Haram massacravano centinaia di persone, tra cui molti bambini, rapivano ragazze per fini di stupro, per darle in premio ai mujihaddin distintisi nelle azio-ni terroristiche. Quei morti non hanno “fatto notizia”, e quando riescono a ottenere udienza sulle pagine dei giornali della civile Europa, e della “tollerante” Italia, è solo perché le vittime hanno una coloritura religiosa a noi più affine.

Così è. E lo è ancor di più da noi, nella “Repub-blica delle chiacchiere”. L’Italia che rifiuta per Costituzione la guerra, salvo poi accodarsi alla Francia di Sarkozy nel portare la guerra in Li-bia, una guerra che nulla aveva a che fare con l’ingerenza umanitaria, e tanto, tutto, con l’ac-caparramento delle risorse petrolifere. Quella guerra ha trasformato la Libia in uno “Stato fal-lito” alle porte dell’Italia, una terra di nessuno dove imperversano trafficanti di uomini che moltiplicano a dismisura il proprio fatturato (34miliardi di dollari all’anno), salvo poi spa-rare addosso a migranti che non rispettano or-dini e pagamenti, o che diventano di intralcio per altre operazioni via mare. La mappa della disperazione parte dalla Libia, dove agiscono circa 300 gruppi armati: filiali locali di al-Qa-eda passate sotto il vessillo nero dello Stato islamico, gruppi jihadisti salafiti, compagnie di ventura, ex ufficiali del fu Colonnello (Ghed-dafi), messisi in proprio, 150 tribù che tessono alleanze con l’Is o con qualche “signore della guerra”. In questa “terra di nessuno”, nelle aree controllate dalle milizie dell’Is, si è stretto un patto d’azione tra gli uomini di al-Baghdadi e i capi delle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani, per spartirsi la tor-ta miliardaria delle carrette del mare stipate di un’umanità sofferente, che per quei viaggi disperati paga sino a 80.000 euro. I morti del-l’“ecatombe più grande dal dopoguerra”, non

Processo all’Europa. All’ipocrita diplomazia delle lacrime. Vengono da Libia, Nigeria, Siria, Zambia, Eritrea, Mali, Somalia.In fuga dalla guerra, trovano la morte nel nostro Mediterraneo

DISPERATI DELLA TERRA

di Umberto De Giovannangeli

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avranno nome e sepoltura. Ma, grazie ai pochi sopravvissuti, sappiamo da dove provenivano. E da cosa fuggivano: da guerre “dimenticate”, da pulizie etniche, da una miseria disumana, da stupri di massa, da carceri in cui le donne vengono violentate e gli uomini sottoposti alle più indicibili torture, da Paesi in cui si è imprigionati solo per essere un blogger in-dipendente che mette a nudo la violenza di regimi che l’Occidente continua a sostenere. Fuggivano dal Corno d’Africa: dalla Soma-lia, dove gli al-Shaabab hanno imposto la più brutale “dittatura della sharia”, e sono passati all’attacco anche in Kenya, come testimoniato dalla carneficina consumata lo scorso 2 aprile nel campus universitario di Garissa. La Soma-lia, dove se non sono i jihadisti di al-Shabaab a portare la morte, ci pensa la carestia e la malnutrizione a mietere vittime, decine di mi-gliaia. Fuggivano dal Mali, dove recentemente due formazioni jihadiste legate ad al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) le Brigate al Furqan e i Soldati del Sahel, hanno diffuso un comu-nicato per “appoggiare” il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Fuggivano dalla Nigeria, teatro di stragi continue, di azioni brutali firmate Boko Haram: almeno 10.000 morti solo lo scorso anno (secondo il Council of foreign relations), 1,5 milioni di sfollati entro i confini della Nige-ria, centinaia di abitanti fuggiti verso il Chad e il Camerun. Fuggivano dall’Egitto del “Pi-

nochet” mediorientale: il presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi, che ha riempito le carceri del più popoloso Paese arabo non solo di diri-genti e militanti della Fratellanza musulmana, ma anche di blogger indipendenti, tra i prota-gonisti della Primavera di Piazza Tahrir. Fuggi-vano dalla Siria, che un dittatore sanguinario e un “califfo” barbaro hanno trasformato in un cumulo di macerie (più del 25% dei villag-gi distrutti, oltre 200.000 morti in oltre quattro anni di guerra), dove il popolo siriano è stato ridotto a un popolo di profughi: oltre 5 milio-ni. In questa fuga disperata, in molti trovano la morte. In mare, ma anche nel deserto: quello del Sinai, altra rotta della disperazione, altro territorio nelle mani di jihadisti e trafficanti di esseri umani. Fuggivano dal Bangladesh, Paese in cui il 52% della popolazione vive in uno stato di povertà assoluta e circa il 25% in quello di povertà estrema, e l’incidenza della malnutrizione infantile raggiunge addirittura il 70%. Donne, uomini e bambini che fuggiva-no anche dallo Zambia, diventato uno dei Pa-esi più poveri della regione. Secondo la Banca mondiale, l’80% delle famiglie zambiane vive al di sotto della soglia di povertà. In Zambia, la speranza di vita è attorno ai 37 anni (era 42 ai tempi dell’indipendenza nel 1964, era 54 negli anni 80). L’Organizzazione mondiale della sa-nità stima che la speranza di vita della genera-zione nata nel 2000 sarà di 30,3 anni: la quarta più bassa al mondo. Malaria, malnutrizione e Aids sono le principali cause di questo crollo. Gli ultimi tra gli ultimi, i “dimenticati della Ter-ra” fuggivano dall’Eritrea: un Paese considera-to una prigione a cielo aperto, dove i giovani vengono reclutati a forza nell’esercito già a 16 o 17 anni e poi costretti a restarci praticamen-te tutta la vita. Dove migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici continuano a essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. Un Paese retto da uno dei regimi più sanguinari e dispotici al mondo, quello di Isaias Afewerki. Nel 2013 gli ispettori dell’Onu hanno accusato l’Italia di aver favorito il re-gime eritreo, dotandolo di elicotteri e veicoli utilizzati dalle forze armate di quel Paese, sot-toposto all’embargo internazionale. Una ver-gogna che continua. Una vergogna italiana.

Sappiamo da dove provenivano e da cosa fuggivano:da guerre dimenticate, da pulizie etniche, dalla miseria disumana, da carceri,da stupri di massa

MALINIGERIA

LIBIAEGITTO

ERITREASOMALIA

KENYAZAMBIA

BANGLADESH

I PAESIDI PROVENIENZADELLE VITTIME

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Retorico e contro la retorica, demagogico e contro la demagogia. «Niente demagogia al-meno oggi» ha scritto Matteo Renzi poche ore dopo la strage di domenica 19 aprile. «La bat-taglia di tutti deve essere contro i trafficanti di esseri umani. Sono i nuovi schiavisti», è il twe-et che non tiene conto del fatto che Renzi è al governo, e che Renzi, pur con altri e il prezioso aiuto di Angelino Alfano, porta la responsabilità della chiusura di Mare Nostrum, il programma di recupero in mare avviato dal «lento» Enri-co Letta e chiuso nel novembre 2014, in pie-no governo Renzi e semestre europeo. Come scrive il giornalista Stefano Liberti, autore del documentario Mare chiuso, Renzi sembra non rendersi conto che i cattivissimi scafisti con Triton ci sguazzano: «Gli scafisti, gli “schiavisti

moderni”, sono il sottoprodotto della politica di chiusura dell’Unione Europea. Il cui princi-pale obiettivo, ribadito ieri dallo stesso Renzi, è “bloccare le partenze”, anziché offrire rifugio a chi ne ha bisogno e diritto».È contro gli scafisti però che Renzi ha promesso mano pesantissima. E pazienza che lo dices-se, tale e quale, già il 3 ottobre 2013, nei gior-ni delle 366 bare allineate a Lampedusa. «A chi oggi mi ha detto “Vai a Lampedusa”» scriveva profondissimo nella sua consueta enews, «ri-spondo dicendo che lì oggi servono le bare non le lacrime del giorno dopo. La vera sfida non è solo piangere oggi, la vera sfida è non dimen-ticarsene domani. E allora siamo seri. Bene ha fatto il governo a proclamare il lutto nazionale. Si cancelli la Legge Bossi-Fini sull’immigrazio-

Difendono Triton, ma dicono che l’Europa deve fare di più. Applaudono il santo padre e pensano a risparmiare pochi milioni. Ogni tragedia in mare è un trionfo di retorica. E di contraddizioni

FRASI FATTE E DISCHI ROTTILE PAROLE DI RENZI&CO

di Luca Sappino

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Matteo Renzi a palazzo Chigi con il capo di Stato maggiore della Difesa Danilo Errico, nel corso della conferenza stampa sul naufragio del 19 aprile

ne clandestina. Si assicurino alle patrie gale-re gli scafisti di morte. Si spieghi ai tecnocrati di Bruxelles che Lampedusa è Europa». Eh. Si cancelli. Si assicurino. Si spieghi. Nel frattem-po è stato più di un anno al governo ma la fra-se la deve ripetere, più o meno uguale. Il disco dev’essersi rotto. «Gli sciacalli tornino a casa: la demagogia non serve, è il tempo della politica», scrive su facebook. «Esattamente», verrebbe da dire. Ma dov’è stata la politica? Senza appello è il giudizio di Emma Bonino, una che - ministro degli Esteri - Matteo Renzi ha rottamato insie-me a Letta: «L’Europa che ha innalzato il suo “mai più” dopo aver sopportato l’orrore dei for-ni crematori, finora non ha fatto nulla per im-pedire l’orrore dei forni liquidi». Nulla, oltre le parole, si intende. Lo dice anche Romano Pro-di: «Piangiamo giustamente quando abbiamo alcuni morti vicino a noi, ma la classe politica commette un errore: si emoziona un attimo e poi non insiste per risolvere la questione nel lungo periodo». Nota, Prodi, come nessuno, neanche per retorica, dica che «se non agiamo per lo sviluppo dei Paesi sub-saharaiani e del Corno d’Africa il flusso migratorio è destinato a incrementare» e che - a proposito del blocco navale di Lega e forzisti, e del «non farli parti-re» di Renzi - «c’è una bomba demografica in piena esplosione, che non possiamo fermare sparando». «Di grazia» twitta Gad Lerner, che è anche membro dell’assemblea nazionale del Pd, «dopo che avete finito di urlare e sparare agli scafisti in quale modo intendete rispondere al dramma dei profughi?».Urla e sparate, questo è quanto. E non serve scomodare Matteo Salvini e Daniela Santanché (l’ultima: «Tutta questa gente dove trova i soldi per pagare gli scafisti? Io ho un sospetto: molte di queste persone sono pagate perché vogliono farle venire in Italia per conquistarci»). Quelli fanno solo confusione e consentono alla poli-tica che si vuole buona di condannare lo scia-callaggio, come se anche la retorica a cui non segue l’azione non fosse da sciacalli. «Mentre i nostri uomini raccolgono i cadaveri e salva-no vite nel Mediterraneo, gli sciacalli specula-no in diretta tv», twitta il Pd Lorenzo Guerini, beccando una comparsata del leghista: «Nau-seante», precisa. Certo il Giornale della fami-glia Berlusconi ha titolato «Settecento morti

di buonismo», ma è Sallusti, lo sapete e poi la retorica è sempre stucchevole. Anche quando riprende quella del papa, citato da molti: «Sono uomini e donne come noi, che cercano una vita migliore. La comunità internazionale agisca in fretta». Una frase buona ma generica, in realtà, se anche Renzi l’ha ripresa, offrendo un assist perfetto a Nichi Vendola: «È paradossale cita-re il papa e poi non essere coerenti. Il governo abbia il coraggio di sbattere i pugni a Bruxel-les, di aprire corridoi umanitari per le salvare persone, e di ripristinare l’operazione Mare Nostrum». «È una gara all’ipocrita retorica» ha detto il senatore 5 stelle Andrea Cioffi: «C’è chi ha pure proposto una giornata per la memoria dei migranti». «Retorica» per Cioffi, «è anche dire, “li dobbiamo fare entrare tutti”».E ripren-de un post di Grillo che merita la citazione: «Da un po’ di tempo» scrive Grillo e non sul Gior-nale, «chiunque entri in Italia con un barcone è un definito “migrante”, ma le parole giuste sono solo “rifugiato” (circa un decimo di chi sbarca) o “clandestino”. Migrante non vuol dire nulla. È un eufemismo. Serve ad aumentare i voti ai “buonisti” di sinistra con il culo degli altri, e ai razzisti che alimentano la paura del “diverso”».Retorica batte retorica. Ed meglio tornare a Mare Nostrum, perché è finita che aveva ragio-

ne che diceva che l’avremmo rimpianto. An-gelino Alfano negherà fino alla morte, e ripete oggi quando disse a novembre 2014: «L’unica differenza sarà che Triton non graverà sui con-tribuenti italiani». Ma anche Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri dice ormai «Triton non è sufficiente» mentre il 13 novembre 2014 diceva «nel passaggio da Mare nostrum a Triton cam-bia il nome, ma non l’indirizzo: e il nostro im-pegno anzi si moltiplica». È il tempo della poli-tica, no? La stessa che avrebbe potuto ascoltare le parole “tecniche” dell’executive director di Frontex, Gil Arias Fernandez, che mise in chia-ro da subito che le due missioni non erano equivalenti: «Triton ha, come scopo principale, il controllo della frontiera e non la “ricerca e il soccorso”. Non è Mare Nostrum».

«Di grazia» dice Gad Lerner, «dopo che avete finito di urlare e sparare agli scafisti in quale modo intendete rispondere al dramma dei profughi?»

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IL VOCABOLARIO DEL DOLOREQUELLO VERO

di Giulio Cavalli - illustrazione di Alessandro Ferraro

Io mi vergogno di scrivere questo pezzo. Provo vergogna. Di me, del mio tempo e del mio Paese e di questo mio lavorare con le pa-role come se davvero potessero disinfettare il mondo. Davanti ai morti di questi titanic infarciti di centinaia di nessuno, di fronte a questo Mediterraneo che è la latrina salata dei nostri avanzi, di quelli che anche da morti si pesano un tot al chilo, di quelli che non ri-usciamo, non siamo mai riusciti a strappare dalle bocche dei politici necrofili e dalla loro predilezione per l’essere forti con i deboli, sempre chiassosi e fieri.Sono morti in settecento, dicono forse otto-cento, qualcun altro dice quasi mille: non ci interessa nemmeno contarli, i morti che non contano. E non abbiamo nemmeno le paro-le. Cosa sono questi scomparsi sotto al mare, questi annegati come da verbale e migranti nell’intenzione, cosa sono?Scappati, mi diceva un eritreo qualche mese fa mentre si discuteva di razzismi, mari morti e profughi, «nessuno di voi giornalisti o scrit-tori ha mai usato del tempo per raccontare da cosa scappiamo e così sarebbe più facile capirci». Sarebbe più facile capirli. Da vivi. E poi morti. Eppure questi ultimi morti mi han-no lasciato la sensazione di stare in posto in cui tutti avessero perso il vocabolario vero del dolore. Quello vero, mica quello da editoriale oppure il dolore sempre buono da pregare o peggio il dolore da dosare nel pomeriggio te-levisivo: il dolore che riporta gli uomini tra gli uomini l’abbiamo perso e non ne abbiamo le parole, quello senza retorica che ci mostrereb-be l’odore della guerra, la polvere di una vita a spaccare pietre o il callo delle mani dei cava-tori. Io mi vergogno di scrivere questo pezzo perché non ne ho le parole, non ho studiato abbastanza per capire, ho il cuore atrofizzato per solidarizzare così lontano. Mi diceva l’a-mico eritreo che noi i profughi li descriviamo

morti ma non sapremmo raccontarli vivi. Ha ragione: noi che siamo un popolo di emigran-ti non abbiamo più il vocabolario del viaggio, induriti da un “federalismo della responsabi-lità” che negli anni ci ha convinto di essere padroni (e quindi responsabili) solo di uno spazio che è diventato sempre più ristretto, puntinato dalle nostre consuete e vicine pic-cole cose mentre il resto no; ci hanno detto che il resto è troppo vasto per occuparsi (figu-rarsi preoccuparsi, poi) del mondo che non è il nostro. E così abbiamo perso le parole, cion-doliamo con il nostro vocabolario affettivo buono per il nostro pianerottolo, con un’etica da condominio e la responsabilità al massimo per il nostro quartiere. Ed è normale, forse, che l’Europa poi in fondo ci assomigli: questa Europa così miope come sono miopi gli occhi di chi non vuole sforzarsi lontano, come sono i miopi culturali per scelta e per fastidio. La narrazione europea delle “carrette del mare” (ve lo ricordate? Fino a poco tempo fa li chia-mavano così) ha finito per passarci l’imma-gine del nostro Paese stritolato dalle braccia che si appendono lì in Sicilia, vicino all’Africa, ci hanno consegnato la foto di un Paese che barcolla per gli spintoni delle braccia nere che vorrebbero salire, che rischiano di capovol-gere l’Italia se tirano ancora un po’. Abbiamo finito per sentirci claustrofobici a casa nostra per condonarci con serenità la comprensione delle fobie degli altri e anche in questi giorni, con i cadaveri ancora freschi in fondo al mare, è tutto un pullulare di quello che avrebbe po-tuto accaderci, che abbiamo rischiato noi, mentre a quelli gli si riempivano d’acqua gli occhi, la bocca e i polmoni. Io non so quando è successo che abbiamo deciso di scambiare lo stragismo lessicale dei nostri politici come provocazioni da campa-gna elettorale; non so quando è successo che abbiamo disegnato sulla cartina d’Europa i

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cerchi concentrici per mappare il punteggio inferiore dei morti diluiti ai bordi; non so quando è successo che ci siamo fatti convin-cere che l’anaffettività sia un forza mentre la comprensione una faticosa debolezza; non so quando abbiamo deciso che non valesse la pena di resistere alla cattiveria sventolata come un trofeo, di non resistere al furore raz-zista che ha scavato questa democrazia così giovane, così debole e così carsica. Leggo le notizie dei morti nel Mediterraneo e mi ver-gogno di avere contribuito anch’io, troppo pavido e distratto, a costruire un Paese in cui un annegamento di massa è buono per un’eccitazione passeggera di chi l’ha scam-

pata bella. Cosa sono questi morti che non sono nemmeno morti? Forse, ho pensato mentre studiavo con la mia paura di non es-sere alla bassezza di questi giorni, forse non sono nemmeno morti: sono desaparecidos, come li ha chiamati Enrico Calamai, ex vice-console in Argentina ai tempi della dittatura che ha detto «il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale per-ché la desaparición è una modalità di stermi-nio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere». I nuovi desaparecidos in fondo al mare. E noi con la testa sott’acqua.

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«Vergogna e responsabilità. Sono le sole due parole con cui posso commentare questo ennesimo naufragio di migranti», dice Giu-seppe Catozzella, che nel libro Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, Premio Strega) ha rac-contato la storia di Samìa, l’atleta somala che partecipò alle olimpiadi di Pechino del 2008 e che sognava di raggiungere Lampedusa per andare in Finlandia. «Provo vergogna, in quanto italiano e europeo. E mi sento respon-sabile per queste morti», aggiunge lo scrittore e ambasciatore dell’Agenzia Onu per i rifugia-ti (Unhcr). «Spero che un giorno le generazio-ni future si chiedano come sia stato possibile che noi restassimo solo a guardare. Come noi ce lo siamo chiesto dei nostri nonni di fronte all’Olocausto. Tutti sapevano. Tutta Europa sapeva. Eppure è accaduto lo stesso. La no-stra è una doppia responsabilità. Nostra e dei governanti a cui abbiamo demandato il com-pito di prendere decisioni». Come quelle che hanno generato chiusure e politiche razziste. «Dobbiamo essere onesti e dire che le guerre in Africa le abbiamo sempre cercate e alimen-tate noi. Così come i vari fondamentalismi, da cui è nato l’Isis. Che è oggi una delle ragioni per cui così tanti ragazzi e ragazze scappano dall’Africa e dal Medio Oriente. Generiamo

e alimentiamo conflitti e quando chi fugge dalle bombe viene da noi, lo respingiamo e lo facciamo morire».Tragedia è la parola che si legge più spesso. Come se queste morti fossero ineluttabili, un destino, dovuto al fato. E non una strage che ha cause e responsabilità. Il linguaggio usato dai media è perlopiù bana-lizzante e semplificatorio. Rientra nella logi-ca giornalistica puntare tutto sulla notizia. Gli approfondimenti sono rari. Dello stillicidio di morti quotidiane di migranti non si parla. Bi-sogna aspettare che anneghino almeno centi-naia di persone. Oggi come nell’ottobre 2013. Il linguaggio usato da giornali e tv è del tutto auto assolutorio. Si parla di tragedia, appunto. E questi ragazzi vengono comunemente defi-niti clandestini, illegali. Invece sono giovani co-stretti a scappare da distruzioni, carestie, perse-cuzioni. Non si riesce a vivere in un Paese che è in guerra da quando sei nato. Perché la guerra ti toglie ogni futuro. Se vuoi guardare avanti devi partire. Sai che con questi barconi potresti non arrivare mai. Ma sei forzato a farlo lo stesso.Queste stragi di migranti sono il fallimento dell’Europa, rivelano ignoranza e mancanza di una visione dei rapporti fra nord e sud del mondo?

La strage dei migranti non è frutto del destino. Rivela il fallimento dell’Europa. Responsabile di aver alimentato guerre peril proprio tornaconto. Denuncia lo scrittore Giuseppe Catozzella

NON CHIAMATELA FATALE TRAGEDIA

di Simona Maggiorelli - illustrazione di Fabio Magnasciutti

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Sono il segno del fallimento dei valori a cui l’Europa dice di ispirarsi. Noi saremmo quelli che portano la democrazia nel mondo meno civilizzato. Qual è il vero volto della nostra democrazia? Quello di chi alimenta conflitti per il proprio tornaconto e poi non accoglie chi tenta di salvarsi? Se la nostra civiltà è que-sta, che valore ha? La verità, purtroppo, è che l’Europa crede che la morte sia il miglior de-terrente possibile. Pensa che facendo morire questi ragazzi si sparga la voce e smettano di

partire. Questa è una visione assolutamente miope e stupida. Nella storia ci siamo sempre spostati. Le migrazioni sono più forti della morte. E nessuno è mai riuscito a fermarle.Parlare di accoglienza, come carità, non ri-schia di essere un altro modo per negare l’i-dentità di queste persone che vengono per lavorare, che pagano le tasse, portando una ricchezza anche e soprattutto culturale?Tutto questo viene assolutamente negato. Ciò che prevale è una visione miope, senza prospettiva. Manca uno sguardo a lungo ter-mine. Come accade in alcune piccole azien-de. Quando c’è crisi e gli affari vanno male, tendono a tagliare, per conservare un piccolo spazio. Può funzionare nell’immediato, ma lentamente porta al tracollo. La possibilità di circolare, di fare incontri, di avviare nuo-ve iniziative è un fattore di crescita. Non solo dal punto di vista del capitale umano. Que-sti ragazzi sono disponibili a fare lavori che noi non facciamo più. Ma non è solo questo. Fanno anche nascere interessanti scambi fra Stati. La comunità somala o congolese, quel-la tunisina o egiziana, per esempio, stimola-no rapporti fra il nostro e il loro Paese che al-trimenti non esisterebbero. Sono potenziali scambi economici. Ma viene sottovalutato. Questi rapporti sono elementi di crescita cul-turale. Ma tutto questo viene cancellato.Con il suo libro, 100mila copie vendute in Italia e tradotto in 22 Paesi, continua a viag-giare la storia di Samìa?Sì, sono tantissime le persone che hanno ri-sposto; è veramente incredibile come la sto-ria silenziosa di una migrante sia riuscita ad arrivare a così tanta gente. Generando pic-coli miracoli come la corsa annuale, in suo nome, promossa dall’Onu a Mogadiscio. La prima edizione si è tenuta lo scorso agosto. Abbiamo corso mentre si sentivano le gra-nate e i colpi di kalashnikov. Abbiamo corso per la libertà e il sogno dei migranti. E per la prima volta Samìa è stata ricordata pubbli-camente nel suo Paese da rappresentanti del governo.

«Questi ragazzi sognano una vita senza guerre. Sono disposti a fare lavori che noi non facciamo. Portano ricchezza culturale. Ma l’Europa è cieca»

La copertina del libro di Catozzella dedicato all’atleta somala Samìa

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Sbarcato a Lampedusa, Ahmed sognava solo tre cose: la Siria, la Palestina e la matematica. E quel tavolo da ping pong. Dalla Libia alla Norvegia, scatti di una fuga lunga due anni

«FOTOGRAFAVO PER NON SENTIRMI PERDUTO»

di Michela A. G. Iaccarino - foto di Ahmed

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«FOTOGRAFAVO PER NON SENTIRMI PERDUTO»

Dietro si era lasciato molto sangue, molte trincee, ma anche molta vita. La tortura, che era la terra vista dal mare, era diventata il mare visto dalla terra. La sua primavera araba era finita sui sassi dell’isola di Lampedusa: così era per Ahmed, palestinese siriano, vent’anni scarsi, bruno dagli occhi pece, silenzioso pri-gioniero di quello scoglio di terra in mezzo alla tomba d’acqua salata del Mediterraneo. Nato fratello di un geometra e figlio di un ingegne-re, era cresciuto mangiando datteri e numeri. Allora, sull’isola aveva lo sguardo fisso su un orizzonte dove i pescatori siciliani cercavano ancora cadaveri della catastrofe: «Non c’è un tavolo da ping pong qui?», la prima domanda. Né alla disperazione, né al lamento, né allo strazio: Ahmed non voleva cedere neppure un minuto al dolore in quei giorni che seguirono la strage del 3 ottobre 2013. Lui era sbarcato mezza giornata dopo, ma il suo viaggio era co-minciato due anni prima. E nel frattempo, ave-va cominciato a scattare foto. Ahmed scatta da quando, ricercato dalle truppe di Assad, aveva lasciato la Siria, ridisegnando la sua persona-le cartografia dello strazio in Medio Oriente, dopo due anni di fughe verso Egitto, Libia, Tur-chia, Giordania. Era il 2011.Per ricordarsi ogni passo dei suoi tentativi di scoperta dell’altrove fotografava tutto, anche al campo rifugiati dell’isola, dove si dormiva e si mangiava a terra. «Dall’inizio della fuga ho cominciato a scattare foto perché ero sicuro che passo dopo passo, mi era facile ricordare questa storia come volevo, non come scorre-va. Le fotografie non ti fanno sentire perduto, anche quando le vedi dopo anni, da lontano, le fotografie non inventano storie». Il cellulare era la sua unica valigia, l’unico posto che aveva trovato ai suoi ricordi quando se li era messi in tasca verso il nuovo mondo. Da ogni traguardo raggiunto cercava un nuovo punto di partenza per arrivare più lontano.Era una vita felice prima delle bombe: giocava

a ping pong, si preparava per l’università, vi-veva con i genitori. Poi, come per suo nonno palestinese, con i carri armati di Bashar nel 2011, era arrivata anche per lui la nakba, la ca-tastrofe che gli spettava. «Nel 1948 Israele ha detto a mio nonno: “trovala in Siria la tua Pale-stina”. Latachia è stata la sua Lampedusa, sono nato lì per colpa di una guerra non mia. In ogni campo rifugiati del mondo scommetto che c’è un palestinese. Io ho la Palestina nel sangue ma non l’ho mai avuta negli occhi, se riesco ad avere il passaporto dell’Unione potrò andare per la prima volta ad Haifa». La Palestina era un buco nel suo album delle frontiere. Invece schegge di morte e urla di vendetta dell’esercito libero siriano. Erano pixel sullo schermo del suo cellulare, i ricordi dei suoi

compagni sulle montagne. «Mi manca la mia patria e la mia rivoluzione. Mangiavamo pane e datteri, dormivamo a turno, non eravamo mai stanchi perché ci sembrava giusto. Prega-vamo insieme. Ci tagliavamo i capelli a vicen-da, ridevamo anche. Io non combattevo ma riprendevo tutto. Ora loro sono rimasti sotto terra: tutta quella kaptiva della rivoluzione è morta. Non so quante volte ho corso nel-la direzione sbagliata da quel giorno. Ho due mani, due occhi e due bandiere nel cuore. Ma ho una faccia sola, l’esercito di Assad ormai la conosceva. Ho stracciato il passaporto con il mio nome vero. Mia madre al telefono ha co-minciato a piangere. Disse solo: scappa». Ora, quando parla di Siria, Ahmed commenta pie-trificato una situazione irreversibile: «IS non è Corano, IS è inferno sulla terra».Dalla prima fuga nel 2011 per Ahmed è come salire su un treno in corsa che per due anni non smette di deragliare. Scappa in Turchia:

«Ho due mani, due occhi e due bandiere nel cuore. Ma ho una faccia sola e l’esercito di Assad, oramai,la conosceva. Mia madre piangendo disse solo: scappa»

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«Era quasi Europa, sono arrivato ad Antachia. Dalla Turchia ammassati in 30, dopo sette ore in auto, siamo arrivati al confine con la Grecia. Il contrabbandiere ci disse di camminare die-ci minuti per trovare la frontiera». Trovò solo polizia. Per la prima di molte volte l’esercito turco gli stringe le manette ai polsi. Quando esce di prigione, decide di comprare un passa-porto falso del suo vero Paese. Un passaporto siriano costa 500 dollari al mercato nero. Dopo tre mesi raggiunge Hamman, Giordania, per cercare solidarietà tra i palestinesi locali. Viene fermato, arrestato, rimane per dieci giorni in carcere, solo con il Corano. Quando si rifiuta di mangiare viene pestato. Quando si rifiuta di firmare un documento che non gli fanno legge-re, viene pestato. Gli radono la barba e lo rispe-discono in Turchia. «Li ho comprato un nuovo

passaporto, di nuovo siriano, datato 2007. So-pra c’è la faccia di uno che mi sembra un bam-bino. All’aeroporto dico “questa è la mia faccia prima della guerra”. Passo il primo, il secondo controllo. Mi siedo in attesa, sto per arrivare in Belgio. Belgio è Europa, mi dico, e sorrido. Al terzo controllo mi fermano. Avevo buttato mille dollari in fumo. Mi scoprono, finisco di nuovo in prigione. Dopo una settimana sono di nuovo fuori». Cerca un altro contrabban-diere, paga e, insieme ad altri, viene illuso ed abbandonato di nuovo nel nulla: intorno solo boschi, orizzonte coperto da montagne troppo alte da far perdere la bussola del sole. «Siamo morti, abbiamo detto. Finché uno di noi vede

un’antenna. Non credevo di poter piangere di felicità per un ripetitore telefonico. Antenna dopo antenna, le abbiamo seguite tutte, come tracce verso la presenza dell’umano. Pensava-mo di essere arrivati in Grecia. Ci siamo accorti che non avevamo mai lasciato la Turchia».Dopo aver girato a vuoto su se stesso come una trottola ruotata da altri, decide di andare al Cairo e poi in autobus raggiunge lo zio in Libia, dove insegna matematica di giorno e lavora in una fabbrica di notte. Servono soldi per partire via mare. La Libia era già allora ter-ra di abusi e faide e lui evita di uscire di casa. Mappa le frontiere mentre si muove e mentre le frontiere stesse si muovono. «Quando me ne sono andato dopo tre mesi, i miei bambini mi hanno fatto il segno della vittoria con le dita. Quale vittoria e su che, mi sono chiesto, e gli ho scattato una foto, un giorno qualcuno do-vrà dargli una risposta». Un giorno ha deciso di pagare il prezzo della salvezza agli scafisti, 1.600 dollari, e partire sulla carretta del mare da Tripoli. Prendere la barca è come giocare alla roulette, vivi o muori, ma la speranza se ne frega delle statistiche.Lampedusa è una direzione, un punto fermo nel caos. Se la raggiungeva, era la terraferma del suo esordio. Era la linea di partenza della corsa verso la Scandinavia. Un uscio, anche se troppo lontano dalla porta del miraggio Eu-ropa. «Dall’inizio del viaggio nulla è rimasto uguale, solo le mie vecchie scarpe e le fotogra-fie»: guardava lo schermo, i ricordi incastrati nella gabbia digitale e poi si guardava intor-no, verso il campo. Cercava un tavolo da ping pong quando scappava dai buchi del recinto del campo rifugiati. Si inginocchiava tra i ce-spugli sempre con la stessa tuta addosso e tro-

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Lampedusa è una direzione, un punto fermo nel caos. Era la terraferma del suo esordio. Era la linea

di partenza della sua corsa verso la Scandinavia

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Il cellulare la sua unica valigia. Alcuni scatti a ritroso nel tempo di Ahmed: da sinistra, la partita di ping pong (in Scandinavia) che lo ha incoronato campione. Verso destra: centro di accoglienza a Lampedusa; l’autoscatto del gommone sul quale è arrivato in Italia; Ahmed in Siria e in Libia. In chiusura, la classe dove insegnava matematica e Ahmed in uno scatto da bambino

vava conforto alle contraddizioni disperate del destino solo nel Corano. Pregava e sorrideva il resto del giorno. Tutto quello che gli rimane-va era in un marsupio e una busta di plastica che si portava sempre dietro. L’unico ignoto insopportabile erano i giorni in attesa del tra-sferimento da un centro accoglienza all’altro. Aveva detto che la sua primavera araba finiva a Lampedusa, invece era lì che cominciava. So-gnava solo tre cose al campo la sera: la Siria, la Palestina e la matematica. E forse anche quel tavolo da ping pong. Lo studente con la pas-sione dei numeri non aveva fiato da sprecare se non quello per raggiungere il grande gelido Nord, il Nord Europa, sognato da quel neo di terra italiana in mare africano. Aveva una meta come risposta, la nostalgia di casa che gli dava determinazione per il futuro. Le fughe, una sal-vezza, un solo destino: appena fu trasferito in Sicilia, scappò in treno verso il confine italia-no, poi in autobus fino a Oslo. Anche quando è arrivato lì nel centro d’accoglienza migranti norvegese, deve aver fatto evidentemente la stessa domanda che fece a Lampedusa: «Non c’è mica un tavolo da ping pong qui?». C’è.«Guarda, ho vinto». Dalla fisarmonica della memoria prende quello che vuole e ora dall’al-bum dei ricordi sfila un nuovo fotogramma, dove scintillano un podio e i suoi occhi neri tra i capelli biondi dei compagni di squadra. La coppa la stringe tra le mani Ahmed, campione arabo non dalle due ma tre vite: dalla polve-re siriana ai barconi libici al campionato tra le racchette scandinave. «Questa foto la devo conservare insieme alle altre, le fotografie non ti fanno sentire perduto. Anche quando le vedi dopo anni, da lontano, le fotografie non inven-tano storie».

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i sono dei luoghi a Roma in cui il tempo sembra essersi piegato su se stesso, in cui le epoche si mescola-no e la memoria si respira nell’aria. Il Quadraro è uno di questi. Lonta-

no dalla storia dei grandi monumenti dell’Im-pero romano, che sopravvivono solo qua e là in qualche scheletro del vecchio acquedotto, e dai palazzi rinascimentali dei Barberini, dei Colonna o dei Borghese, qui le case popolari del primo Novecento, con i glicini piantati in giardino, si mescolano ai palazzoni grigi anni 60. Profuma di fiori, cresciuti nonostante il cemento. E si respira memoria. Quella scritta sui muri “Quadraro antifascista” “fino all’ulti-mo respiro” “Quadraro ner core”, e quella delle storie raccontate dai suoi abitanti. Come Gino Scarano, 77 anni, famoso per essere il barbiere del quartiere. Nella sua bottega in via dei Quin-tili - tra foto di attori dei tempi in cui la Capitale

era la Hollywood sul Tevere, e souvenir dei suoi viaggi intorno al mondo per «imparare meglio il mestiere» - passano in molti: persone comu-ni, turisti, troupe televisive, giornalisti, perfino il sindaco Marino. Ma soprattutto writers e ar-tisti internazionali che hanno recentemente riqualificato la zona trasformandola, con una serie di murales, in un vero e proprio museo a cielo aperto. Passano perché il negozio di Gino è uno scrigno di storie e racconti. Un luogo in cui la memoria resiste. Quadraro, memoria e resistenza sono parole che vanno di pari passo. Oggi a 70 anni dalla Liberazione, mentre in tut-to il quartiere si svolgono le varie celebrazioni, nella bottega di Gino c’è anche Mario, 79 anni e un volto che sembra essere uscito da un film neorealista. I due, amici di una vita, parlano del 17 aprile 1944, quando 1.000 abitanti del-la borgata vennero fatti prigionieri e deportati nei campi di concentramento. Qualcuno riuscì

C In alto il murales realizzato da Gio Pistone in via dei Lentuli

A 70 anni dalla Liberazione nello storico quartiere romano del Quadraro si festeggia. E si respira quel senso di libertà che fa sentire a casa chiunque si batta per un ideale

Muri di ribellione

di Giorgia Furlan - foto di Francesca Fago

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a fuggire: «Avevano preso mio fratello - spiega Mario - riuscì a saltare giù da un vagone che erano già arrivati al Nord, fuori dall’Italia»,.Qualcuno si nascose: «Un mio amico, Olindo, si nascose dentro un cassettone della creden-za», racconta Gino. Della guerra due ricordi

sembrano essere nitidi: la Fame, quella con la F maiuscola perché era una presenza costan-te, e il senso di unione tra la gente del quartiere dove partigiani erano quasi tutti. «Il Quadraro lo chiamavano il nido di vespe - continua a rac-

contare il barbiere - si resisteva e si lottava. Per riprendersi la libertà. Eravamo una comunità, la vita girava attorno a questo. Oggi si respira lo stesso spirito, se passeggi in via dei Ciceri è pieno di fiori, quel profumo ti fa sentire libero e a noi sembra di essere a Parigi. Questo è quello per cui si lotta. Dopo la guerra è arrivato il cine-ma e qui si viveva di cinema, anche quello per noi profumava di libertà. In moltissimi faceva-no le comparse. De Sica, Alberto Sordi, Fellini venivano a ingaggiarle tra queste vie. Andava di moda il Neorealismo, ogni persona era un ca-ratterista e loro avevano capito lo spirito libero del Quadraro». Anche i graffiti che popolano i muri del quartiere sono sinonimo di lotta, re-sistenza memoria e libertà. I writers accorsi da tutto il mondo, da Baseman e Ron English, da Diavù a Jim Avignon, hanno in comune con la gente del Quadraro quel senso di libertà che fa sentire a casa chiunque si batta per un ideale.

Della guerra Gino e Mario ricordano due cose: la Fame, con la F maiuscola, perché era una presenza costante, e il senso di unione tra la gente

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4525 aprile 2015

In alto: il barbiere Gino Scarano nella sua bottega insieme alll’amico Mario.

A destra: un’opera di Veks Van Hillik

In basso da sinistra i murales realizzati da Gary Baseman,

Lucamaleonte e Maupal

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18 aprile 201546

illary Clinton corre per la suc-cessione a Barack Obama. E tut-ti a salutare quella che potrebbe essere (ma forse no, finendo per consegnare il governo alla de-

stra americana) la prima donna alla guida de-gli Usa. È quasi una panacea per la questione femminile, Hillary, e poco importa se ciò av-venga sulla scia del marito Bill e col sostegno delle lobby di Wall Street. Il valore è simboli-co. Per le classi dominanti sono da celebrare le donne che acquisiscono, in perfetta conti-nuità politica, ruoli storicamente appannag-gio degli uomini. Fu su Margaret Thatcher che i conservatori puntarono per piegare le Unions e prosciugare il welfare state inglese, la cancelliera Angela Merkel è la depositaria del SuperEs dell’area Euro, per non parlare di Christine Lagarde, direttrice del Fondo mo-netario internazionale.Anche in Italia, con Matteo Renzi, è così. Quante volte ha sventolato, il premier, le sue

otto ministre, «l’altra metà del Consiglio dei ministri».Le italiane non hanno mai avuto accesso alla presidenza della Repubblica e del Consiglio, al ministero dell’Economia, alla guida della Corte costituzionale, ma vuoi mettere il passo in avanti? Le governatrici oggi sono Debora Serracchiani e Catiuscia Marini, questa rican-didata in Umbria nella tornata amministrativa che vede in pista altre due renziane: in Vene-to l’europarlamentare Alessandra “ladylike” Moretti e in Liguria l’assessore alla Protezione civile Raffaella Paita, vincitrice delle contesta-te primarie contro Sergio Cofferati e indagata per la mancata allerta dell’alluvione di Geno-va. E così la presenza femminile distrae anche dai problemi etici, su cui il partito di Renzi non ha certo “cambiato verso” candidando in Campania Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. E chissà poi perché, nonostante governatri-ci e ministre, il Belpaese è al 69esimo posto

Perché parliamo tanto di quante sono e poco di cosa fanno le donne quando sono al potere? Breve storia della strumentalizzazione (anche a sinistra) della questione di genere

Hillary e le altre

di Stefano Santachiara

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4718 aprile 2015

nel Global gender gap report, la classifica del World economic forum che intreccia quattro parametri: politica, economia, salute e scuo-la. Per l’aspettativa di vita e l’istruzione la si-tuazione è quasi in equilibrio, ma il divario resta netto nel mondo del lavoro: gli uomini sono il 71 per cento dei dirigenti contro il 29 delle donne e, in media, guadagnano 2.000 euro in più all’anno.

Scatena spesso il sarcasmo di avversarsi ed ex alleati di coalizione, la presidente della Ca-mera Laura Boldrini quando si impegna per la diffusione del linguaggio sessuato e denun-cia le pubblicità che mercificano il corpo o insistono con gli stereotipi di genere. Pensa-te che gli attacchi anche violenti che subisce la terza carica dello Stato dipendano dal suo supposto carattere ieratico? E se invece con-tassero qualcosa i meccanismi con cui le élite finanziarie selezionano lo streaming di infor-mazioni per l’Homo consumens - per usare

l’espressione coniata da Zygmunt Bauman? Se Hollywood spesso riproduce in forme edulcorate l’archetipo patriarcale, la televi-sione, qui appesantita dalla degenerazione berlusconiana, si conferma formidabile vet-tore di modelli diseducativi.

La subcultura sessista si nutre poi di feno-meni nazionalpopolari come il calcio: basti pensare alla ghettizzazione del football fem-minile e alla notiziabilità delle atlete che fini-scono nelle fotogallery dei più grandi siti di informazione quasi esclusivamente per fatto-ri estetici.

Laura Boldrini, terza carica dello Stato, scatena il sarcasmo degli avversari e degli ex alleati di coalizione quando denuncia pubblicità offensive

Hillary Clinton il 12 aprile ha annunciato che tenterà la corsa per la Casa Bianca. Si vota nel 2016

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18 aprile 201548

Le statistiche danno invece ragione a Laura Boldrini. Secondo un’indagine Ocse (Pro-gramme for international student Asses-sment, 2015) ancora oggi le italiane in media svolgono lavori casalinghi per 6,7 ore al gior-no contro le 3 degli uomini. La ricerca sotto-linea quanto le ragazze di 15 anni ottengano già risultati migliori dei coetanei in abilità di lettura (con un punteggio di 510 contro 464) e scientifica (490 a 488), ma di questo capitale si può fare a meno, se la legge Fornero, ad esem-pio, applicata e non modificata, cementa (tra le altre cose) lo squilibrio nelle responsabilità familiari. Il ministro del governo Monti (una donna, ma al solito non progressista) ha in-trodotto, per il padre il congedo parentale ob-bligatorio. Ma è di un giorno nei primi cinque mesi dalla nascita del figlio, allungabile fino a tre, sottraendoli però al monte-giorni della madre. In Norvegia - per dire - Paese pioniere vent’anni fa, il congedo parentale è di qua-rantasei settimane a stipendio pieno, di cui

dodici riservate al padre. Siamo in ritardo an-che nel potenziamento di asili nido pubblici, nella deducibilità dei costi per baby sitter e badanti. E certo non aiuta la parità, la preca-rizzazione permanente del Jobs act.

C’è poi il mondo delle imprese. In Europa, secondo i dati della Commissione, la presen-za femminile nei consigli di amministrazione delle Spa in cinque anni è aumentata dall’11,9 al 20,2 per cento. Ad alzare la media sono la Norvegia, che ha raggiunto il 40, la Francia e la Finlandia che sono al 25. Spagna e Porto-gallo, invece, la abbassano, restando sotto il 10 per cento. L’Italia fa registrare un dignitoso 23 per cento, e lo fa grazie alla legge firmata dalle deputate Lella Golfo (Pdl) e Alessia Mo-sca (Pd) che stabilisce l’obbligo del minimo di un quinto di donne nei cda al primo rinno-vo, un terzo per i due seguenti. Si sono anche dimezzate (al 7,9 per cento contro il 16,2 del 2010) le consigliere legate da rapporti di pa-

La presidente della Camera Laura Boldrini. Eletta come indipendente nella lista di Sinistra Ecologia Libertà è spesso al centro del mirino dei 5 stelle

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4918 aprile 2015

rentela con uomini di potere: figlie di, mogli di, cugine di.

Le donne in politica sono di più ma la riduzio-ne del gap di genere si è realizzata per mezzo delle quote. Il Pd, ad esempio, ha introdotto il doppio voto di genere alle primarie, portando in Parlamento il 37,9 per cento di deputate e senatrici. Il sistema però consta di una gab-bia che perpetua nomine correntocratiche e capilista bloccati nelle liste elettorali, le don-ne (come gli uomini) vengono cooptate solo se aderenti a un preciso schema in grado di assorbirle e, ove possibile, strumentalizzarle.I piccoli avanzamenti sono rivendicati da un marketing padronale che vuole significare la concessione dall’alto di un diritto naturale sancito in Costituzione. Matteo Renzi, sin da quando amministrava Firenze, compie scel-te simboliche che il presenzialismo mediati-co gli permette di capitalizzare. Prima di lui però la sinistra non ha certo fatto meglio, per-ché ha conosciuto una sola leader di partito, Grazia Francescato dei Verdi. Già fondatrice di Effe, presidente del Wwf e animatrice del movimento new global, Francescato ereditò una base elettorale minima. In Germania - tanto per fare un paragone - gli ambientali-sti e la Die Linke, guidati da Claudia Roth e Katja Kipping in coabitazione con pari grado uomini, superano entrambi l’8 per cento. In Francia, la socialista Ségolène Royal nel 2007 contese l’Eliseo a Sarkozy e l’anno seguente sfiorò la segreteria del partito per una man-ciata di voti. Nel Regno Unito, in vista delle politiche del 7 maggio, si è saldata una nuova alleanza tra donne: Natalie Bennett, leader dei Verdi, Ni-cola Sturgeon, premier scozzese a capo dello Scottish national party, e la gallese Leanne Wood del Plaid Cymru. Al termine del con-fronto televisivo dedicato alle opposizioni, le tre candidate si sono abbracciate sul podio della Bbc. La scena, tra l’isolamento di Ni-gel Farage dell’Ukip, all’estrema destra, e lo stupore del laburista Ed Miliband, è emble-

matica quanto il significato politico. Si tratta infatti di progressiste under 50 che hanno vincolato l’eventuale sostegno a Miliband ad una mutazione della linea del Labour dopo un ventennio di Terza via blairiana: il ritorno a sinistra. In Italia, a contendere una leader-ship, sono state Rosy Bindi nel 2007 contro il ‘creatore’ del Pd Walter Veltroni, e Laura Pup-pato, altra moderata cattolica, con chances di vittoria perfino minori, stretta nel 2012 tra Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani, Nichi Ven-dola e Bruno Tabacci.Di Maria Elena Boschi si dice che governi ogni riunione ma è perché «quando parla lei tut-ti sanno che a parlare è Renzi» confida a Left un membro dello staff di palazzo Chigi. Le donne - soprattutto se portatrici di valori pro-gressisti - faticano non poco, nelle stanze dei bottoni. Almeno secondo la scrittrice e depu-tata del Pd Michela Marzano, direttrice del Dipartimento di Scienze sociali alla Sorbona e insegnante alla Descartes, che si è scontrata con un muro trasversale, quando ha proposto i diritti delle coppie omosessuali e la legge sul doppio cognome dei figli. L’esperienza parla-mentare ha traumatizzato Marzano, che ha deciso di non ricandidarsi: «Non ci si ascolta in aula e nemmeno durante le riunioni di par-tito. Ogni tipo di investitura risente dell’obbli-

go della fedeltà, di avere truppe nel contado, armi di scambio a disposizione».

Cerchiamo però di andare alla radice del pro-blema. La “governamentalità neoliberale”, prendendo in prestito la formula di Pierre Dardot e Christian Laval, autori de La nuova ragione del mondo, presuppone il controllo di

Il doppio voto di genere ha portato a sinistra più donne in Parlamento. Ma la leadership è ancora lontana. Grazia Francescato dei Verdi rimane un unicum

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tre blocchi distinti e interdipendenti: l’eco-nomia, la politica e i centri di diffusione del sapere. Dal momento che l’egemonia cultu-rale è la pre-condizione, occorre interrogarsi sul meccanismo che regola le discrimina-zioni di genere così come si sono indagati le ingiustizie sociali e il razzismo. Non molti, ad esempio, sono consapevoli dell’esistenza di antiche società matriarcali.

L’epica classica è ricca di venerazioni poli-teiste varianti della “Dea Madre” e numerosi reperti testimoniano la centralità delle donne nelle pacifiche comunità che vivevano di or-ticoltura e piccola cacciagione. Eppure è stato contrabbandato lo schema totalizzante che relega la femmina all’altruismo della cura e attribuisce al maschio le grandi imprese. Sul cacciatore che erige polis e fortezze per di-fendersi e conquistare, Rousseau diceva che la genesi dell’oppressione umana risale alla fase primordiale della divisione delle terre e del lavoro. Il sistema patriarcale, supportato dalle religioni monoteiste del “Dio Padre”, ha consolidato usi e linguaggio in codici e isti-tuzioni che privarono le donne delle libertà sessuali, economiche e sociali. Non è difficile comprendere come tale contesto abbia favo-rito feroci persecuzioni in nome di religioni e

superstizioni, in particolare nel Medioevo, e pratiche che affliggono ancora milioni di cit-tadine: mutilazioni genitali nell’Africa subsa-hariana, in condizioni aggravate da malnutri-zione e malattie; lapidazioni delle adultere in Paesi governati da fondamentalisti islamici; in India spose-bambine e abusi sulle donne appartenenti a sottocaste.

Alla base delle sopraffazioni, più dell’indi-genza economica, vi è l’oscurantismo. Lo si evince anche scorrendo gli occidentalissimi verbali di stupri, molestie e maltrattamenti domestici, o dall’ascolto di processi per fem-minicidio: il più delle volte lui reagisce all’e-mancipazione, quando lei si ribella o reclama semplicemente la propria indipendenza. Il fil rouge della violenza, dunque, riporta sempre all’egemonia che nei millenni ha garantito i rapporti di potere. Ben sapendo che il diritto del più forte diventa legge duratura se associa al controllo degli eserciti quello delle cono-scenze. Biologi e genetisti, preservando il mito di Ada-mo ed Eva, hanno ignorato la primigenia del cromosoma X rispetto al maschile Y; scien-ziati si sono coperti di ridicolo affermando l’inferiorità dell’intelligenza femminile per via della minor ampiezza cranica; psicanalisti come Sigmund Freud hanno teorizzato l’invi-dia del pene. Ma la Storia diffonde il punto di vista dei vincitori. E, in ogni parte del globo, sono stati sviliti gli importanti contributi che le donne, malgrado le costrizioni, hanno do-nato al progresso umano e ambientale. Il so-cialista inglese William Thompson, nel 1825, pagò con l’ostracismo l’invito alla ribellione femminile: «La vostra schiavitù ha incatenato l’uomo all’ignoranza e ai vizi del dispotismo, così la vostra liberazione lo ricompenserà con il sapere, la libertà e la felicità».

Non è un caso che le riforme progressiste si si-ano ottenute in peculiari dimensioni di vuoti di potere provocati da guerre o rivolgimenti economici. Durante la Rivoluzione francese la girondina Olympe De Gouges, poi uccisa dai giacobini, diede alle stampe la Dichiara-zione dei diritti della donna. Un’altra breccia fu aperta nel Risorgimento, mentre si faceva l’Italia a dispetto del potere temporale della Chiesa. Nel 1861, prima che John Stuart Mill avanzasse la proposta del diritto di voto, il de-putato mazziniano Salvatore Morelli scrisse La donna e la scienza considerate come soli

Rivoluzione francese e socialismo ottocentesco predicarono diritti mai attuati. Fu durante la Resistenza che le donne irruppero nella Storia

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mezzi atti a risolvere il problema dell’avveni-re. Democrazia reale, scuole normali per stu-dentesse, divorzio, doppio cognome dei figli, tutela della prole illegittima: un sasso nello stagno, anche se i disegni di legge di Morelli vennero tutti bocciati, salvo la norma che ri-conosce alle donne la facoltà di testimoniare nei procedimenti civili. Il diritto di voto, anzi-ché il suffragio universale maschile del gover-no Giolitti - ridicolo ossimoro elevato a illu-minato liberalismo - fu imposto soltanto con la Liberazione. Durante la Resistenza le parti-giane, 30.000 tra staffette e guerrigliere, rup-pero l’abituale esclusione dalla vita pubblica partecipando alla fase costituente. Le energie sono andate via via sprigionandosi quando la contaminazione tra movimento femminista e sessantottino, sospingendo sindacati e partiti di sinistra, ha contribuito al “trentennio glo-rioso”: il servizio sanitario nazionale, l’obbli-go scolastico a quattordici anni, lo Statuto dei lavoratori che prevede il divieto di licenziare

le dipendenti incinte. La lotta per la parità ha permesso la diffusione della contraccezione, l’accesso alle funzioni pubbliche, le leggi su divorzio e aborto, la cancellazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore normati dal codice fascista. L’interazione si fondava sul comune convin-cimento che la libertà socio-economica fosse legata al percorso di emancipazione sessuale. E da qui dovrebbe ripartire la sinistra, coin-volgendo le donne che oggi forniscono visio-ni alternative in tanti campi della società. Il meccanismo dovrebbe essere opposto a quello della comunicazione mainstream che, alternando generici allarmi e impennate d’ot-timismo, confina la questione femminile a mero calcolo di quote rosa. Il timore è sempre lo stesso: che donne e uomini si affranchino costruendo nuovi rapporti di spazio e tempo liberati, secondo i bisogni naturali di salute, consumo consapevole, conoscenza e creati-vità votate al benessere collettivo.

Maria Elena Boschi è il ministro delle Riforme e dei

Rapporti con il Parlamento. È l’alfiere della linea di Renzi:

«Niente modifiche» a Italicum e riforme

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í se puede!, ¡Sí se puede!». Il grido risuona forte nella platea dell’au-ditorio Francesca Bonnemaison di Barcellona durante la presentazione della lista Barcelona en Comú per le

elezioni municipali del prossimo 24 maggio. Né il luogo né la data sono casuali. È il 14 apri-le, anniversario della Seconda Repubblica Spa-gnola, abbattuta nel ’39 dal colpo di Stato di Franco. Francesca Bonnemaison, invece, fu la scrittrice che creò la prima biblioteca popola-re delle donne. Sul palco c’è Ada Colau, e quel grido è il suo «Yes, we can» con cui si appresta a ribaltare più di 30 anni di dominio socialista e nazionalista al Comune di Barcellona.

Il 2015 è un anno politicamente decisivo per la Spagna. Dopo le elezioni regionali andalu-se dello scorso marzo, il calendario elettorale proseguirà con le comunali e poi con le elezio-ni per le autonomie. La tornata elettorale sarà la cartina di tornasole per il governo di Ma-riano Rajoy, in un paese impoverito da sette anni di crisi economica e di austerity. Quattro anni dopo le manifestazioni degli Indignados di Madrid, Barcellona e delle altre grandi città, il movimento del 15M ha ora la possibilità di esprimersi nelle urne. In Spagna la piattafor-ma che propugna il rinnovamento politico e istituzionale è il movimento Podemos di Pablo Iglesias, il movimento guidato da molti giova-ni ricercatori di cui spesso abbiamo scritto su Left, e che a Barcellona ha il volto di Ada Colau.

Colau è nata il 3 marzo del 1974. Poche ore prima, il regime franchista giustiziava l’anar-chico Salvador Puig Antich: «Mia madre non ha mai smesso di ricordarmelo», dice Ada, come se quello fosso un segnale del suo desti-no politico. Un destino che si è materializzato nel 2009 con la fondazione della Pah, l’asso-ciazione contro gli sfratti che è riuscita a fer-mare migliaia di pignoramenti nella Spagna flagellata dalla speculazione immobiliare. Ora c’è il salto elettorale: «Se dimostriamo di

avere la capacità di immaginare una città di-versa, avremo il potere di trasformare la Bar-cellona di pochi in una Barcelona in Comú». Gli ultimi sondaggi danno discrete possibilità di vittoria alla formazione formata da quattro sigle diverse: gli ecosocialisti di Icv le piatta-forme Equo e Procés Constituent, e appunto Podem, la filiale di Podemos in Catalogna. Molto quotato è un testa a testa con il sindaco uscente, Xavier Trias, dei nazionalisti di cen-trodestra di Ciu.Una vittoria al Comune di Barcellona signifi-cherebbe il consolidamento della proposta di “rottamazione” politica portata avanti da Po-demos su scala nazionale e metterebbe ancora di più in evidenza la crisi del sistema bipartiti-co consolidatosi in Spagna dopo la caduta del franchismo. «Siamo davanti a una crisi politi-ca, sociale e istituzionale. La classe politica in tutti questi anni ha favorito i propri interessi e quelli delle grandi imprese economiche a dano del bene comune», spiega a Left Gemma Uba-sart, segretaria generale di Podem: «In queste elezioni si materializzerà il cambiamento in

SLa leader anti-sfratti è candidata sindaco.Con Podemos si oppone alla Spagna della speculazione immobiliare e del turismo selvaggio

Ada e la sfida di Barcellona

di Angelo Attanasio da Barcellona

Potrebbe essere il primo sindaco donna e potrebbe riportare a sinistra la città che dopo trent’anni di socialisti si è affidata alla destra di Trias

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atto e sarà evidente il desiderio della società di sbarazzarsi della casta che c’ha governato per più di 35 anni». Per Barcelona en Comú il cambiamento passa anche per la questione femminile. Che la lista sia composta al 50 per cento da donne è qua-si una banalità: «È necessario femminizzare le politiche pubbliche, per esempio potenziando la rete di asili nido e i servizi sociali», specifi-ca Laia Ortiz, rappresentante del partito Icv nella lista elettorale, che si è da poco dimessa dal parlamento spagnolo per dedicarsi com-pletamente all’impresa di Barcellona. «Noi vogliamo rimettere al centro le persone. Inve-ce negli ultimi anni il modello neoliberale di Trias ha privileggiato le imprese, soprattutto quelle dedicate al turismo, e Barcellona è sta-ta messa in vendita al miglior offerente». Già. Perché uno dei nodi cruciali attorno a cui verte la campagna elettorale è proprio il modello tu-ristico della città. I numeri sono inequivocabili e farebbero pensare a un successo senza om-bre. Più di 27 milioni di visitatori nel 2014; 7,5

milioni di turisti ospitati in hotel, per un totale di 16,5 milioni di pernottazioni all’anno. Primo posto in Europa e quarto nel mondo per nu-mero di crocieristi. Sesta città nel ranking del turismo congressuale. Tuttavia, qualcosa ini-zia a scricchiolare nell’oliato meccanismo che ha permesso a Barcellona di quintuplicare in poco più di 20 anni il numero di visitatori. L’estate scorsa, gli abitanti del quartiere della Barceloneta, che soffrono le conseguenze del sovraffollamento turistico, hanno deciso di protestare e di chiedere all’Ajuntament una nuova regolamentazione del settore. «Basta guardare lo skyline della città», spiega a Left Daniele Porretta, architetto e attivista roma-no, collaboratore dell’associazione AltraItalia e uno dei relatori del programma sul turismo di Barcelona en Comú: «Le torri più alte sono quelle degli hotel. La loro lobby in questi anni ha avuto carta bianca da parte del Comune, diventando protagonista di un brutale stravol-gimento urbanistico. Noi proponiamo che il turismo venga ripreso in mano dalla politica», conclude Porretta, «e che la ricchezza che ne deriva venga redistribuita a tutta la città». Molti commentatori si chiedono però se il de-siderio di mettere mano al modello turistico, che ha rappresentato la vera boa di salvataggio dell’economia negli anni della crisi, non pos-sa diventare un boomerang. «Barcellona ha comunque un’immagine di città di successo e Trias avrà gioco facile a maneggiare lo spettro della paura», illustra Rafa Tapounet, analista politico de El Periódico de Catalunya, uno dei quotidiani più importanti del Paese. La man-canza di esperienza nell’ambito amministrati-vo e una certa personalizzazione nelle decisio-ni e nell’immagine (sulla scheda elettorale di Barcelona en Comú apparirà il volto di Colau al posto del simbolo) sono gli altri punti deboli messi in risalto dai suoi detrattori. «Tuttavia, Ada Colau rappresenta l’unica alternativa pos-sibile e, in un panorama di estrema incertezza politica, non mi sorprenderebbe che vinces-se», chiosa Tapounet. Lei, invece, ne è sicura, come lo era quando negoziava con le banche lo stop agli sfratti. Vincendo.

Ada Colau è l’animatrice del movimento contro sfratti

e pignoramenti negli anni della crisi immobiliare.

Ora è candidata sindaco

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e ne parla poco o niente del nuo-vo carcere di Bolzano. Eppure sarà la prima casa circondariale d’Italia realizzata con il sistema del parte-nariato pubblico-privato (Ppp): il

pubblico detta linee guida e obiettivi, il pri-vato esegue. Una novità, tra le Dolomiti, per altre due ra-gioni: la prima, è che il soggetto pubblico in questione è la Provincia autonoma (per conto dello Stato). La seconda, è che oltre alla co-struzione della struttura, il privato si occupe-rà di gestire anche diversi servizi. Ovviamente non quelli di sicurezza, in capo al Diparti-mento dell’amministrazione penitenziaria, e sanitari, affidati all’Asl.

Un esperimento importante, con l’ambizio-ne - come scrive l’avvocato Massimo Ricchi, consulente della Provincia di Bolzano - di diventare un «modello giuridico, tecnico ed economico finanziario ripetibile». Il nuovo

carcere sorgerà nella periferia della città, ac-canto all’aeroporto. Per la sua realizzazione la Provincia ha già espropriato quasi 42.000 metri quadri di frutteti, sborsando 15,8 milio-ni di euro. Avrà più piani, per una cubatura di circa 85.000 metri cubi, una palestra, un capannone lavorazioni, un teatro e un campo da calcio a 7 con dimensioni regolamentari. Una struttura innovativa, assicurano i part-ner del progetto, un’opportunità. Un po’ per-ché il vecchio carcere «è una vergogna», un po’ perché da queste parti nessuno mette in dubbio che «la Provincia autonoma sia mol-to più affidabile dello Stato». Eppure i dubbi non mancano, soprattutto sull’ampliamento delle responsabilità del privato. Per capirne di più, Left è andata in Alto Adige. Ma al nostro arrivo, l’impressione è stata di cogliere tutti di sorpresa. Tra i «non ne so nulla» e non poca diffidenza, valicare le mura di un carcere ri-mane difficilissimo, anche quando non è an-cora stato costruito.

La Provincia di Bolzano realizza il primo penitenziario in partnership con un privato: 220 posti per 87 detenuti, vetrate per il sole, ampi spazi di socialità e uno stadio

Luci e ombredi un carcere a 5 stelle

di Tiziana Barillà e Giacomo Zandonini da Bolzano

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Galera a 5 stelle? «Questo progetto diventerà il fiore all’occhiello della nostra Provincia», dice soddisfatto il presidente Arno Kompatscher. Che, per rendere l’idea, scomoda persino l’autore di Dei delitti e delle pene: «Alla fine la struttura dovrà raggiungere l’obiettivo po-sto da Cesare Beccaria: la funzione educativa della pena». Kompatscher, 44 anni e piglio deciso, esponente del Südtiroler Volkspartei, eredita la guida della Provincia autonoma da Luis Durnwalder, che da queste parti chia-mano il König (il re). Durnwalder, 25 anni di governo ininterrotto, nel 2014 lascia il suo im-pero con l’ultima scommessa: il nuovo carce-re di Bolzano. L’affare passa a Kompatscher, che non ne va meno fiero: «Oltre alla costru-zione della struttura, la procedura di appalto prevede l’impegno dell’assegnatario a miglio-rare il progetto, trovando soluzioni moderne, per un penitenziario degno di questo nome», spiega. Due mesi dopo la comunicazione del vincitore dell’appalto - la cordata guidata da Condotte spa, storica società capitolina delle costruzioni civili - il presidente non entra nei dettagli di quella che ritiene «un’impostazio-ne della gestione molto innovativa a livello internazionale». E non lo fanno nemmeno i costruttori romani, perché «il progetto è sog-getto a particolari condizioni di segretezza», spiegano a Left. Chi, nonostante la segretez-za, sembra saperne di più, è Alessandro Pe-drotti, direttore di Odós, progetto per ex car-cerati della Caritas provinciale, in gran parte finanziato dalla Provincia. «Non abbiamo un ruolo diretto - precisa - ma ci siamo affiancati alla Provincia e al Dap perché siamo convinti che il carcere nuovo, essendoci delle risorse, dovesse avere determinate caratteristiche». Pedrotti ci mostra un plico: “Dentro le mura, fuori dal carcere”, 60 pagine di pubblicazione che illustrano una ricerca finanziata proprio dalla Provincia con fondi europei. «Abbiamo studiato alcune best practices anche con vi-site di studio organizzate dalla Provincia, in particolare in Austria», racconta. Le buone pratiche segnalate dalla ricerca riguardano strutture francesi, norvegesi e austriache. Un esempio? Il carcere di Leoben, in Austria, dove la sala della biblioteca è circondata da

2006 - Due imprenditori alto-atesini, Podini e Rauch, presentano diversi progetti per un nuovo carcere. La Provincia plaude, ma demanda tutto allo Stato.

2008 - Podini e Rauch, prima con-correnti, creano una società che per 10 milioni di euro acquisisce i terreni adiacenti all’aeroporto di Bolzano. Li venderanno alla Provin-cia per 15.8 milioni.

2009 - Accordo di Milano. Firmato dai presidenti delle Province di Trento e Bolzano e dai ministri Tremonti e Calderoli. Le province mantengono il 90% del gettito fiscale, contribuendo di contro al risanamento pubblico, anche «tra-mite l’assunzione di oneri relativi all’esercizio di funzioni statali». Invece di versare contributi allo Stato possono pagare servizi e opere rientranti nella competenza statale.

13 gennaio 2010 - Dichiarazione dello stato di emergenza carceri, per eccessivo affollamento degli istituti penitenziari.

19 marzo 2010 - Intesa istitu-zionale tra Dap e Provincia, che assume per conto dello Stato il finanziamento dell’intera infrastrut-tura, incluse le indennità di espro-prio (15,8 milioni di euro), i costi di progettazione e costruzione (30-40 milioni di euro). In cambio, lo Stato cede il vecchio carcere, in

pieno centro città, alla Provincia.

24 marzo 2012 - Con il decreto Salva Italia (governo Monti) il project financing include anche il carcere: i privati impegnati in lavo-ri per aumentare la capienza degli istituti potranno ottenere dallo Stato, «a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell’infrastruttura e per i servizi connessi, a esclusio-ne della custodia».

15 luglio 2013 - La Provincia pubblica il bando di gara telema-tica per il nuovo carcere. Oggetto: finanziamento, progettazione e costruzione della nuova casa circondariale con sezione di re-clusione, comprese la fornitura di tutti gli arredi e lo svolgimento dei servizi di: manutenzione ordina-ria e straordinaria dell’immobile e degli impianti; gestione delle utenze; servizio mensa detenuti e gestione dello spaccio; servizio mensa e bar interno al persona-le; servizio lavanderia e pulizia; gestione attività sportive; gestione attività formative e ricreative». To-tale inclusa la costruzione: 20 anni.

26 febbraio 2015 - La Provincia comunica l’esito della gara: Con-dotte Spa vince l’appalto.

Oggi – In attesa dell’accordo definitivo per la progettazione de-finitiva ed esecutiva. L’inizio delle attività lavorative avverrà - secondo Condotte - entro la fine del 2015.

LE TAPPE DEL CAMBIAMENTO NORMATIVODALL’AUTONOMIA ALLA CONCESSIONE

In apertura, i prospetti dell’esterno del nuovo carcere di Bolzano,

concessi da Condotte spa. Qui accanto, due immagini tratte

dal Progetto tipo Dap, concordato da Provincia autonoma di Bolzano e

ministero della Giustizia: prospettiva lato nord e interno cella

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ampie vetrate per permettere l’ingresso della luce. «Bisogna riconoscere la luce a una per-sona detenuta?», si chiede Pedrotti. «Io vi dico cosa succede quando una persona sta diversi mesi o anni in un carcere: quando esce rischia di finire sotto una macchina, perché non ha più un orizzonte di luce, ma il suo orizzonte è a tre metri. Queste vetrate non costano più del cemento armato». Lo studio è articolato, parla di umanizzazione, spazi di socialità e interazione con l’esterno. Ma i costruttori ne terranno conto? «Immagino di sì», spera Pe-drotti. E Condotte precisa che «ha al suo in-terno anche le competenze necessarie» e che «ai fini del reinserimento sociale dei detenuti, saranno coinvolti quanto più possibile i dete-nuti stessi, attraverso le cooperative sociali, soprattutto quelle presenti sul territorio».

I dubbi. «Quando mai si è potuto interloquire con l’amministrazione penitenziaria sul tema della costruzione di un carcere?», si chiede il responsabile della Caritas. «Il fatto che si sia aperto uno spiraglio è positivo». Quello spi-raglio, però, qualcuno non lo intravede, come Franco Corleone, coordinatore nazionale dei Garanti per i diritti dei detenuti. Corleone fa parlare i numeri: a marzo 2015 a Bolzano ci sono 87 detenuti su 91 posti, e il nuovo car-cere prevede 220 posti. «È un dato enorme», commenta il Garante. «A Bolzano ne baste-rebbe uno molto più piccolo. E poi l’altro car-cere regionale, quello di Trento, su 418 posti ne occupa appena 211, non si capisce per-ché tenere mezzo vuoto Trento. La distanza è poca, i detenuti sono per la maggior parte stranieri e hanno pochi legami sul territorio». La nuova struttura, insomma, per Corleone è sovradimensionata rispetto alle esigenze del territorio. Nessun problema di sovrappopo-lamento, quindi. E le condizioni umanitarie? Chi sostiene il nuovo progetto alto-atesino parla dell’attuale istituto come di una struttu-ra indecente. Una visione che Florian Kronbi-

chler, deputato di Sel e visitatore regolare del vecchio carcere, condivide solo in parte: «Che sia fatiscente è in parte voluto», accusa il deputato che denuncia l’assenza prolunga-ta di manutenzione. «La verità è che l’attuale carcere di Bolzano si trova in una zona resi-denziale, la migliore della città, la più cara», taglia corto. E dunque, tanto di guadagnato per la Provincia, che con l’intesa istituzionale del 19 marzo 2010, ha acquisito dallo Stato il vecchio carcere, che essendo situato in pieno centro si presta a ottimi investimenti, e co-struendo invece il nuovo edificio penitenzia-rio in periferia.

Chi è il privato? Ad aggiudicarsi il bando, con un ribasso di quasi 10 milioni di euro che ha staccato gli altri cinque concorrenti, è Con-dotte spa. Nata nel 1880, la società romana è fortemente legata alla storia d’Italia, tanto

che nel 2000 lo Stato ne celebra i 120 anni con un francobollo ad hoc. Nel 1970 Miche-le Sindona la rileva dalla Santa Sede, per poi rivenderla all’Iri, da cui diventa indipenden-te nel 1997, dopo la privatizzazione dell’isti-tuto. All’attivo ha acquedotti e ponti sospesi in mezzo mondo, il tunnel del Monte Bianco, buona parte della metropolitana milanese, il Tav in Toscana. Tra una grande opera e l’altra, i costruttori romani si imbattono un paio di volte in imbarazzanti vicende giudiziarie: nel 2012 tre dirigenti locali di Condotte vengono arrestati durante l’operazione “Bellu lavuru”, sui lavori di ammodernamento della statale 106 Jonica. Condotte aveva subappaltato a

Il Garante per i diritti dei detenuti: «La struttura è sovradimensionata rispetto alle esigenzedel territorio». E c’è già chi denuncia l’“affare”

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due società, considerate dalla Procura distret-tuale antimafia “creature” della potente cosca di Africo Nuovo (quella di Giuseppe Mora-bito, il Tiradritto), ma i vertici della società sono ritenuti estranei ai fatti dall’allora pro-curatore di Reggio Calabria Giuseppe Pigna-tone, perché «non coinvolti direttamente». Poi, nel 2014, quando salta fuori lo scandalo sul Mose di Venezia, Condotte è tra le azien-

de del raggruppamento “Consorzio Venezia Nuova” che stava realizzando l’opera, tanto che un suo dirigente patteggia due anni, pena poi sospesa, e una multa di 700.000 euro. A Bolzano l’impresa romana si è presentata con Inso, una sua controllata, già leader nell’e-dilizia ospedaliera e abituata al partenariato pubblico-privato. La cordata si è avvalsa della collaborazione di diversi studi di progettazio-ne, fra cui i locali Pasquali Rausa Engineering, Bwb Ingenierbüro e Jesacher Geologiebüro. La commissione tecnica composta da Dap, Provincia e consulenti economico-finanziari - e guidata dal funzionario e già segretario ge-nerale della Provincia Hermann Berger - ha impiegato più di un anno prima di approvare l’offerta di Condotte, che fissa a 31,8 milio-ni il costo della costruzione. Dati economici più precisi, spiega Condotte, per il momento non è possibile averne, perché la procedu-ra di aggiudicazione non è ancora conclusa. Quello che si sa è che la Provincia restituirà a Condotte il 45% dell’investimento in conto capitale e il resto tramite un canone, da defi-nire se annuale o semestrale. Un sistema che, per Berger, garantisce un controllo in itinere: «Chiaramente non pagheremo il canone se non saremo soddisfatti. Se, nel nostro caso, la direttrice non sarà contenta potrà applicare le penali o rifiutarsi di staccare l’assegno nei confronti della ditta». Con il Ppp, sottolinea Berger, «se io devo realizzare una cosa della

quale rispondo in termini di gestione per un determinato lasso di tempo, piuttosto che in-casinarmi tra qualche anno preferisco costru-ire bene».

I rischi. Franco Corleone teme che l’esperi-mento bolzanino possa essere un passo avan-ti dei privati fin dentro il cuore del mondo pe-nitenziario. A preoccuparlo per esempio è la gestione dei servizi sociali: se nel Gruppo os-servazione trattamento (che valuta il percor-so del detenuto, decidendo i permessi premio e le misure di semi-libertà) accanto agli agen-ti del Dap, ai medici e agli psicologi dell’Asl entreranno i dipendenti di una società pri-vata, il peso del privato sulla vita dei detenu-ti sarà significativo. Secondo Mauro Palma, consigliere del ministro Andrea Orlando per la tematiche sociali e della devianza, il rischio non dovrebbe esserci. Ma la questione rima-ne aperta. E Corleone bacchetta il Dap: «È garantito dal fatto che l’edificio rispetta i pa-rametri di sicurezza, poi quello che c’è dentro importa poco». Davvero al ministero basta che siano garantiti i parametri di sicurezza? Il consigliere Palma prova a rassicurare: «Da parte del ministero c’è una vigilanza sul pro-getto e attenzione al modello di detenzione». Ma allo stesso tempo ammette: «Mi sono ri-promesso d’informarmi meglio, per capire se è il caso o meno di sollevare un campanello d’allarme». Se il consigliere Palma ha una certezza è che «oggi in Italia non ci sia nes-suna intenzione di andare verso una privatiz-zazione di questo settore. Pensare che questo progetto sia emblematico di qualcos’altro mi sembra paranoico». Quello di Bolzano non sarà il primo carcere privato d’Italia, ma lo spettro della privatizzazione continua ad ag-girarsi sul sistema penitenziario. Franco Cor-leone, tira fuori l’argomento senza giri di pa-role: «Nessuno osa dire che vuole affidare la sicurezza al privato, perché le esperienze in-ternazionali sono devastanti: negli Stati Uniti si è creato un business per cui il numero dei detenuti non può diminuire per questioni di profitto. L’obiettivo è che i detenuti in Italia, che adesso sono passati da 62.000 a 54.000, si-ano al massimo 20.000. Meno detenuti e non carceri più grandi».

Le esperienze internazionali sono devastanti: negli Usa si è creato un business per cui il numero dei detenuti non può diminuire per questioni di profitto

DA SAPERE Il termine “carcere” viene utilizzato per indicare genericamen-te gli istituti peniten-ziari. Tra le diverse tipologie, vi è la casa circondariale (come quella di Bolzano), in cui sono detenute le persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai 5 anni. Presenti in ogni città in cui è presente un tribunale, si diffe-renziano dalle case di reclusione, finalizzate invece all’espiazione della pena. Tuttavia, in molte case circonda-riali c’è una “sezione penale”, così come in alcune case di reclu-sione c’è una “sezione giudiziaria” destinata alle persone in attesa di giudizio. Esistono poi le carceri spe-ciali o “supercarceri”, costruite all’epoca del terrorismo, poi desti-nati anche ai detenuti in regime di 41 bis.

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na città, due dittature». A 70 anni dalla Liberazione, un anello con la scritta luminosa fissato recente-

mente sul monumento alla Vittoria nel cuo-re di Bolzano, non smette mai di ricordare ai sudtirolesi che la loro non è una provincia ita-liana qualsiasi. Lo conferma l’autonomia spe-ciale del 1946, riconosciuta dalla Costituzione e da due Statuti, quelli del 1948 e del 1972. E lo ribadiscono le diverse comunità che condi-vidono la stessa terra: quella tedesca e quella ladina da una parte, quella italiana dall’altra. Una coesistenza pacifica, ma pur sempre una coesistenza: asili separati, scuole separate, persino una “quota etnica” nei servizi pub-blici per impedire che una comunità possa prevalere sull’altra. Una peculiarità che rima-ne forte e attraversa i 109 Comuni altoatesini chiamati al voto del 10 maggio, incluso il ca-poluogo.Divisioni linguistiche che si riflettono nella vita istituzionale e politica. Nelle valli, a mag-gioranza di lingua tedesca, la Svp (Süditiroler Volkspartei) è un blocco monolitico, pres-soché inattacabile. Nata all’indomani della Liberazione per rappresentare la minoranza tedesca e ladina, è una formazione politica di estrazione cristiano-sociale, ma capace di in-globare orientamenti diversi. Un vero e pro-prio partito di raccolta che governa la Provin-cia dal 1948 senza interruzioni e con consensi “bulgari”. Dopo il lungo “impero” del König (il re) Luis Durnwalder - presidente per 25 anni - nel 2014 le redini del Consiglio provin-

ciale passano ad Arno Kompatscher. Con lui il partito, uscito da uno scandalo pre-elettorale sulla concessioni idroelettriche, è sceso per la prima volta sotto il 50 per cento dei con-sensi. Nel capoluogo, invece, a maggioranza italiana, il sindaco è un italiano del Pd, Luigi Spagnolli. I rapporti di forza sono però im-pari e vedono un’amministrazione comuna-le frustrata dai superpoteri della Provincia autonoma. La frammentazione non aiuta: la comunità italiana presenta ben 19 liste, con 9 aspiranti sindaco, tra cui lo stesso Spagnolli, in lizza per il terzo mandato con il sostegno proprio dell’Svp. Alle prossime elezioni co-munali ci saranno dunque poche palpitazio-ni. I colpi di scena sono assai remoti, qualche novità arriva da destra, la destra dell’Svp, con piccole formazioni che chiedono l’indipen-denza dell’Alto Adige o, addirittura, l’annes-sione all’Austria. Un altro fenomeno, di colo-re più che politico, è quello che vede alcuni italiani - in verità pochi - orientarsi verso gli affidabili tedeschi.Per un “semplice italiano”, perdere l’orienta-mento in Südtirol è facile. Inutile rifarsi alle classiche contrapposizioni destra-sinistra o pubblico-privato. Come spiega il consigliere provinciale dei Verdi Riccardo dello Sbarba, toscano trapiantato fra le Dolomiti, «questa terra vive in un dorato isolamento. Quan-do succede qualcosa a Verona, qui si dice “draußen” (fuori). L’ordine geografico fuori-dentro condiziona tutto. E per fuori si intende sia l’Austria che l’Italia».

Bozen, provincia d’Italia

«U

Il 10 maggio andranno al voto 109 Comuni della Provincia autonoma, tra cui il capoluogo. Viaggio nella politica alto-atesina

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di GIUSEPPE BENEDETTI

Lingua più poveracon l’itanglese

LA SCUOLA

i sa che la manipolazione politica della lingua oggi passa soprattutto attraver-so l’abuso degli anglicismi.

Un esempio recente l’ha fornito il ministro dell’Istruzione Gianni-ni, che ha aggirato le critiche sui superpoteri del preside-sindaco previsti dal ddl sulla scuola, di-cendo che crescerà la leadership ma non il potere dirigenziale. Lo scorso febbraio, Annamaria Testa, pubblicitaria ed esperta di comu-nicazione, ha rivolto un appello all’Accademia della Crusca per so-stenere una campagna di sensibi-lizzazione per un uso più respon-sabile della lingua da parte di chi ha incarichi pubblici. La lingua è un bene comune ed è compito prima di tutto di chi amministra i beni pubblici averne cura. Non si tratta di una battaglia di retro-guardia contro l’inglese. Si chiede di usare nei discorsi politici, nelle comunicazioni dell’amministra-zione pubblica e delle imprese, ol-tre che negli articoli di giornale, al posto degli anglicismi, le espres-sioni italiane corrispondenti, per consentire a tutti di comprende-re il messaggio. Come si spiega nell’appello, è un fatto di traspa-renza e di democrazia. La Crusca ha subito aderito all’iniziativa e il presidente, Claudio Marazzini, ha previsto un sito dove trovare le al-ternative possibili ai forestierismi, l’organizzazione di un osservato-rio sui neologismi e la ricerca dei modi opportuni per sollecitare le istituzioni ad un uso più consa-pevole della lingua italiana. Die-tro l’abuso dell’“itanglese” della nostra classe dirigente c’è l’idea che occorra sintonizzarsi con la lingua della tecnocrazia globa-le se non altro per seguire l’onda della modernità. Anche le rifor-me della scuola sono state sem-pre precedute da un’invasione di anglicismi, che hanno veicolato l’imitazione dello squilibrato mo-dello educativo anglosassone. Il documento della Buona scuola non fa eccezione. La riforma, in-

L’abuso di anglicismi nei documenti pubblici rende più oscura la comunicazione. Anche l’Accademia della Crusca si mobilita

S

Il primo vocabolario della

lingua italiana dell’Accademia

della Crusca che risale al 1612

fatti, dovrebbe far uscire la scuola dalla comfort zone, i concorsi ini-zieranno con una prova selettiva computer based, gli studenti af-fronteranno verifiche di problem solving e decision making e la for-mazione dei docenti sarà blended. Le scuole saranno rivitalizzate da design challenge, digital makers, living labs, agribusiness, gamifica-tion e hackathon. Tutti potranno giovarsi di Data school e Opening up education. Un’attenzione par-ticolare alla policy, alla governance e al format, ma ancor di più, per-ché si tratta di soldi e di privatiz-zazione, a spending review, School bonus, School garantee, crowdfun-ding e voucher. Inoltre, un’avven-tata imposizione dell’inglese sta disarticolando l’mpianto discipli-nare con il Content and language integrated learning (Clil), ovvero l’insegnamento in inglese di una materia curricolare. Anche chi,

come Tullio De Mauro, auspica che l’inglese diventi la lingua co-munitaria, sostiene però che il Clil vada introdotto con parsimonia e dopo una formazione dei docen-ti (che non è prevista adesso). E, come ha osservato Luca Serianni (“Salviamo la lingua italiana”, Il Messaggero, 31 marzo), il risultato

paradossale di un passaggio in-discriminato all’inglese di alcune discipline sarà la perdita del lessi-co di quella materia. Chi studierà la matematica in inglese perderà, ad esempio, parole come teorema o isoscele. Più in generale, con l’e-sclusione di alcuni ambiti cultu-rali e del lessico corrispondente, l’italiano diventerà un dialetto.

L’insegnamento di una materia in inglese va introdotto con parsimonia e dopo la formazione dei docenti. Il rischio, però, è quello di perdere parole

© Ansa/www.beniculturali.it

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di EMANUELE SANTI

Comandante Neri, presente!

CALCIO MANCINO

Faenza, sul muro di una casa, una lapide recita: «Qui ebbe i natali Bruno Neri, comandante parti-

giano caduto in combattimento a Gamogna il 10 luglio 1944». Bruno Neri, studente in agraria, cresce nella squadra del Faen-za, in Seconda Divisione Nord e capace di salire di categoria nel campionato ’27-’28. Più terzino che mediano, il ragazzo si ritrova al Livorno, militante nel massi-mo campionato nazionale anco-ra articolato su due gironi, ma il tecnico ungherese Vilmos Rady gli concede una sola partita. La stagione seguente, per 10.000 lire, il diciottenne finisce in serie B alla Fiorentina del Marchese Ridolfi, gerarca fascista, e allena-ta da un altro ungherese: Gyula Feldmann abile nel proporre il neoacquisto nel ruolo di media-no. Il quarto posto purtroppo

non vale ancora la promozione, raggiunta invece l’anno dopo quando gli uomini con più pre-senze saranno proprio il venten-ne faentino ed il portiere Bruno Ballante da Tivoli, detto “il gatto magico”. Per affrontare la serie A, ormai a girone unico, serve lo stadio nuovo. Nella gara d’inau-gurazione del Giovanni Berta, Bruno Neri è il solo tra tutti i gio-

catori schierati in fila a non alza-re il braccio per il saluto alle au-torità fasciste presenti nell’unica tribuna agibile. In sette stagioni a Firenze, il centrocampista ro-magnolo segna un solo gol, da-tato novembre ’31. È il vantaggio viola in casa dell’Internazionale ribattezzata Ambrosiana pri-ma del pari firmato da Meazza. Nell’estate del ’36, mentre l’Italia di Vittorio Pozzo, campione del mondo in carica, vince anche le Olimpiadi di Berlino, Neri passa a Lucca agli ordini dell’ennesimo stratega magiaro, Ernest Erbstein la cui vita meriterebbe un libro a parte. E proprio come calciatore della Lucchese, disputa le prime due gare in Nazionale: contro la Svizzera a San Siro e contro la Cecoslovacchia a Genova. Gio-ca il terzo ed ultimo match in azzurro a Ginevra nell’autunno del ’37 quando ormai veste la maglia granata. A Torino, Neri frequenta artisti e scrittori, molti dei quali lo stimano come esem-pio di lealtà e coraggio. Continua a giocare regolarmente e trova il tempo di iscriversi all’Università degli Studi orientali di Napoli. Dopo l’entrata in guerra, decide

di smettere e rientra nella sua Romagna. Investe i risparmi in un’officina di Milano nella qua-le assumerà alcuni amici e tra-scorre la stagione ’40-’41 come allenatore del Faenza. Quando gli eventi precipitano e il regi-me vacilla, sceglie di tornare sul campo per un’altra carriera. Prima l’armistizio di Cassibile e poi l’8 settembre rivelano il vol-to dell’ex alleato nazista. Bruno Neri sogna un Paese migliore e si arruola nel Battaglione Ra-venna: partigiani attivissimi alle spalle della Linea Gotica. Il suo nome di battaglia è Berni, grado Comandante. Il 10 luglio ’44, in-sieme a Vittorio Bellenghi, nome di battaglia Nico ed ex giocatore di basket, si imbatte in un drap-pello tedesco nei pressi dell’ere-mo di Gamogna. Nel conflitto a fuoco che ne segue, rimangono uccisi entrambi. La lapide sulla casa di Faenza prosegue: «Dopo aver primeggiato come atleta nelle sportive competizioni rive-lò nell’azione clandestina prima e nella guerra guerreggiata poi magnifiche virtù di combattente e di guida. Esempio e monito alle generazioni future».

Il 10 luglio del ’44 insieme a Vittorio Bellenghi, ex giocatore di basket, nome

di battaglia Nico, incappò in una pattuglia tedesca. Entrambi rimasero uccisi

Romagnolo di Faenza, Bruno Neri giocò nel Livorno, nella Fiorentina e nella Lucchese. Scoppiata la guerra, entrò nella Resistenza

Bruno Neri, per tre volte

in Nazionale e partigianoA

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l “sultano” di Ankara voleva prendersi la Turchia. C’è riuscito. Ma quella conquista è stata pagata a caro prezzo. La fine di un sogno: fare dell’Islam politico un vettore di modernizzazione, capace di coniuga-

re moschea e twitter, libertà di espressione e osservanza religiosa. Il sultano ha perso que-sta sfida e ora si ritrova forte ma isolato, e per nascondere il suo invecchiamento - culturale e ideale prim’ancora che politico - prova a ve-stire i panni di un “nuovo Saladino” che inten-de rinverdire i fasti dell’impero ottomano. Così tramonta il mito di Recep Tayyp Erdogan, presidente della Turchia, l’uomo che avrebbe dovuto portare a compimento la secolarizza-zione dell’Islam che si fa partito, l’Akp, e che invece si ritrova a ricoprire il ruolo del “grande censore”. Erdogan infatti ha dichiarato guerra alla rete, ha oscurato twitter, facebook e you-tube, prendendo a pretesto la pubblicazione sui social media della foto di Mehmet Selim Kiraz, il giudice preso in ostaggio da militanti

del gruppo marxista Dhkp-c, e ferito mortal-mente dalle teste di cuoio turche nel blitz per liberarlo. Parlava di libertà, il sultano di Ankara, e al tempo stesso, nel 2013 si scagliava contro i social network bollandoli come una delle «più grandi sciagure dell’umanità». Voleva essere il pontiere tra una Europa che final-mente guardava a Sud e il vicino Oriente. Alla fine, ha scelto di giocare solo su un tavolo, quello del grande Medio Oriente in fiamme, impegnandosi in diverse guerre per “procu-ra”, e contendendo all’Iran sciita il ruolo di nazione-guida nella definizione dei nuovi equilibri di potere regionali. Una lotta senza quartiere, che delinea nuove alleanze e desta-bilizza vecchi rapporti. Soprattutto sul fronte siriano. Qui il sultano di Ankara ha attuato una politica spregiudicata, fondata sull’as-sunto secondo cui “il nemico del mio nemico è un potenziale alleato”. E non c’è dubbio che il grande nemico di Erdogan su quel fronte

di Umberto De Giovannangeli

I

Voleva modernizzare la Turchia e portare a compimento la secolarizzazione dell’Islam che si fa partito. Oggi censura giornali e Internet. Inizia la parabola discendente del presidente Erdogan

IL SULTANO EPURATORE

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6325 aprile 2015

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strategico, non sia il “califfo Ibrahim”, al se-colo Abu Bakr al-Baghdadi, bensì il raìs di Damasco, il presidente Bashar al-Assad. Ed è sulle rovine della Siria, che appare più evi-dente, e gravida di conseguenze, l’inconcilia-bilità tra l’interesse geopolitico di Erdogan e quello dell’Occidente. Rimarca in proposito Marco Ansaldo sull’ultimo numero di Limes: «Il suo (di Erdogan) obiettivo primario non è affatto l’abbattimento del “califfato”, quanto la caduta del regime di al-Assad, con lo sco-po di ergersi a difensore dei sunniti nella re-gione, colmando in futuro anche il vuoto che potrebbe crearsi nel territorio siriano». Ma i dubbi dell’Occidente verso la politica del pre-sidente non riguardano solo il fronte siriano, ma anche un altro, e non meno strategico: quello curdo. Non è un caso, annota ancora Ansaldo, che Erdogan non abbia mai voluto aiutare né militarmente né dal punto di vista umanitario la città siriana di Kobane, proprio di fronte alla frontiera turca, quando pochi mesi fa stava per cadere nelle mani dei mili-ziani dello Stato Islamico. La politica di potenza non ammette resisten-ze interne. Ecco allora il sultano trasformarsi nel “grande epuratore”, censore spietato di giornalisti e blogger scomodi. Un pesante colpo alla già carente libertà di stampa, Er-

dogan lo inferse il 23 dicembre dello scor-so anno, quando la polizia turca, in assetto anti-terrorismo, fece irruzione in alcune re-dazioni di media d’opposizione, considerati vicini all’acerrimo nemico di Erdogan, Fetul-lah Gulen (da anni in esilio volontario negli Usa), arrestando 24 giornalisti. Tra questi, Ekrem Dumanli, direttore del quotidiano Zaman, uno dei più importanti nel Paese e di proprietà proprio di Gulen. La maxi-reta-ta rientrava nell’ambito di una vasta opera-zione lanciata, in almeno 13 città - inclusa Istanbul - dalla polizia turca per soffoca-re voci critiche nei confronti del governo. I mandati di cattura spiccati sono 32, e per tutti, giornalisti inclusi, l’accusa è niente di meno che di aver «formato un gruppo ter-rorista». Il pugno duro di Erdogan contro la stampa ha come primo obiettivo quello di colpire proprio l’Imam Fetullah Gulen, fon-datore e guida del movimento islamico mo-derato Hizmet, in passato alleato al partito dell’attuale presidente, l’Akp. In quei giorni, a lanciare un grido d’allarme per l’attacco ad un’informazione libera fu anche il premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk: «La cosa peggiore - affermò Pamuk in una in-tervista al quotidiano Hurriyet - è che c’è un clima di paura. Trovo che tutti abbiano

Aspirava ad essere

il pontiere con l’Occidente. Ma l’attacco

alla libertà di stampa

e la polemica sul genocidio degli armeni

rivelano un altro Erdogan

La polizia turca attacca i manifestanti a piazza

Taksim, 1 maggio 2014

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Eletto trionfalmente nel 2014,il protagonista del “paradosso turco” sta franando nei consensi.E le elezioni politiche di giugno saranno un test decisivo

paura, questo non è normale. La libertà di espressione è giunta a un livello molto bas-so». La stretta contro i media legati al predi-catore esiliato giunge quasi a quasi un anno di distanza dall’avvio della cosiddetta “tan-gentopoli turca” che mise a rischio lo stesso governo. In gioco, nella Turchia di un sultano invec-chiato e incattivito, non c’è solo la libertà di espressione ma anche gli spazi e i diritti delle minoranze etniche e religiose. Spazi e diritti sempre più ristretti, conculcati, piegati ad una retorica nazionalista che non ammette ripensamenti anche nella lettura del passa-to. Come nel caso del genocidio degli arme-ni. Erdogan non transige e condanna senza mezzi termini la risoluzione votata dall’Eu-roparlamento. «Gli oltre 100.000 armeni che lavorano in Turchia non sono cittadini tur-chi, li potremmo espellere anche se ancora non lo abbiamo fatto», avverte il presidente turco e questa non è la prima minaccia di espulsione, sottolinea il quotidiano Zaman: Erdogan l’aveva paventata già nel 2010. «Le posizioni della comunità internazionale nei confronti della Turchia, sul tema del geno-cidio degli armeni non sono accettabili per un Paese che ha offerto tutti questi servizi», ribadisce il sultano.

Ma quello di Erdogan è anche l’irrisolto pa-radosso della Turchia moderna. A eviden-ziarlo è John C. Hulsman, tra i più autorevoli analisti internazionali, membro permanente del Council on Foreign Relations: «Dopo le proteste di piazza Taksim dell’estate 2013 - annota lo studioso in un recente numero di Limes - e in linea con l’impressione trasmes-sa di voler rifuggire qualsiasi responsabilità per i mali che affliggono il Paese, l’allora pre-mier (Erdogan, ndr) è riuscito a convincere la base conservatrice e moderatamente isla-mista del suo elettorato che i disordini era-no stati fomentati dai media occidentali ed ebraici in giro per il mondo. La sua reazione immediata a queste manifestazioni squisita-mente autoctone è stata l’invio della polizia antisommossa, che ha fatto generoso uso

di gas lacrimogeni. Purtroppo la teoria del complotto è sembrata funzionare in casa». Ma questo è solo l’ennesimo esempio di una crescente deriva autoritaria del sultano. «In tutti questi casi - spiega Hulsman - la rispo-sta di Erdogan è stata tentare di imbavagliare la stampa, riempire magistratura e servizi di sicurezza di uomini fidati e cambiare le leggi per reprimere gli sforzi investigativi». Nono-stante questo, Erdogan nel 2014 ha stravinto le prime elezioni dirette presidenziali. Cer-care di comprendere il “paradosso turco” con le sole categorie dell’islamismo impe-rante o di una repressione schiacciante, vuol dire cogliere un elemento, certo importante ma non esaustivo, del fenomeno-Erdogan. A individuarne l’essenza ci aiuta ancora Hulsman: «Data la sequela di apparenti ten-tativi di suicidio politico, come diavolo è sta-ta possibile questa vittoria? La risposta - è la tesi, condivisibile, dello studioso - sta nel fatto che accanto a palesi e sempre più allar-manti fallimenti, il nostro può vantare nu-merosi e tangibili successi. Negli ultimi dieci anni milioni di turchi sono stati strappati alla povertà; le liberalizzazioni portate avanti nel segno di Erdogan hanno triplicato il reddito pro capite. Da quando l’Akp è giunto al pote-re, nel 2002, la crescita del prodotto interno lordo si è mantenuta su una impressionante media del 5% annuo, mentre l’inflazione è stata tenuta a freno. Mentre l’Europa geme-va sotto i colpi della recessione, la Turchia continuava a prosperare, crescendo di un astronomico 9% nel 2010». Ma negli ultimi tempi, proprio quando Erdogan è arrivato all’apice del suo potere, l’economia turca ha cominciato a perdere colpi: l’inflazione au-menta e la crescita rallenta, attestandosi ora al 4% annuo, mentre le esportazioni si sono ridotte a causa delle carneficine in Siria e Iraq. A ciò si aggiunge, in politica estera, che, per dirla sempre con Huslman «la catastrofe siriana si è rivelata la tomba delle ambizioni turche». Gli effetti elettorali potrebbero ri-verberarsi nelle elezioni politiche di giugno. Per il sultano di Ankara inizierà la parabola discendente?

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iù tasse, siete troppo ricchi. Il leader dei laburisti inglesi, Ed Miliband, mira al sodo. E, con un welfare state che rischia la privatizzazione, il can-didato in corsa per il numero 10 di

Downing street punta il dito verso quell’un per cento - i super ricchi - per conquistare, o forse riconquistare, l’elettorato di centro sinistra britannico. A una settimana e mezza dalle elezioni, la-buristi e conservatori tentano di darsi batta-glia sul terreno, minato, dell’economia: se il premier uscente David Cameron cerca di far pesare il ruolo centrale che i Tories hanno avuto nel risollevare le sorti del Paese dopo il terremoto economico-finanziario del 2008, i Labour mostrano l’altra faccia della medaglia e spostano l’attenzione sulle evi-denti discrepanze socio-economiche create da continue liberalizzazioni e tagli ai servizi.E Miliband, partito da sondaggi pessimi e un’opinione pubblica non favorevole per-ché giudicato “unfit”, inadatto per il ruolo di premier, sta risalendo la china: da qualche settimana sta staccando di una manciata di punti percentuali i conservatori.La svolta è arrivata con l’inaspettato attacco frontale alla City e la proposta di fare a pez-zi lo status di non-dom, i non domiciliati in

Gran Bretagna che grazie a una legge di epo-ca colonialista e che non ha pari in altri parti del mondo, permette di non pagare le tasse a chi è nato, vive e lavora nel Regno Unito se dimostra di avere un padre o un nonno di origine straniera. E i 113.000 beneficiari di questo status sono tutti, manco a dirlo, super-rich.La retorica dei conservatori, che dopo l’an-nuncio di Miliband hanno duramente cri-ticato i laburisti tacciandoli di essere “ne-mici del business”, non ha però attecchito nel centro finanziario londinese che invece sembra guardare con favore alla proposta di eliminare, solo in senso giuridico, i non-dom. Durante un incontro del Financial Ti-mes City Newtork, un gruppo che raccoglie 60 tra i più influenti businessmen della City, è infatti emerso che il giudizio di banchieri e top manager è unanime: lo status di non-dom «non ha senso di esistere nel ventune-simo secolo».Un’apertura di credito di non poco conto, quella del centro finanziario piuù importan-te d’Europa al candidato laburista, ma che ancora non basta per dipanare i nodi cen-trali di questa competizione elettorale.«È chiaro che da sempre i conservatori sono guardati come un partito che sa ammini-

di Massimo Paradiso

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Il leader dei laburisti tenta la scalata alla conquista dei super ricchi per riprendersi l’elettorato di centrosinistra. E per la prima volta, la Gran Bretagna rischia un governo di minoranza

LA CAVALCATA DI MILIBAND

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strare il denaro e i laburisti come più vicini alle istanze della gente - confida a Left Peter Kellner, presidente del centro di statistica YouGov - ma, a dispetto di chi vincerà, rima-ne un problema centrale: il prossimo primo ministro rischia di avere un governo di mi-noranza».Nei fatti, nessuno dei due principali partiti sembra avere i voti necessari per una solida maggioranza parlamentare e la Gran Breta-gna, per la prima volta, si potrebbe trovare a fare i conti con una maggioranza di senso opposto rispetto al governo. «Per voi in Italia questo non rappresenterebbe una novità - continua Kellner - ma qui ci si potrebbe tro-vare nel pieno di una crisi istituzionale che non ha precedenti nella nostra storia perché ad avere più peso potrebbero essere partiti come lo Ukip di Nigel Farage o l’Snp degli indipendentisti scozzesi». L’ipotesi di un governo di minoranza po-trebbe nella sostanza impedire al prossimo primo ministro di affrontare in maniera chiara argomenti cruciali che vanno dalla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea alla graduale privatizzazione del-l’Nhs, il servizio sanitario pubblico.«Io non credo che la Gran Bretagna possa uscire dall’Ue anche se i conservatori vin-

cessero le elezioni - prosegue il presiden-te di YouGov - ma il terreno diventa più accidentato se da qui alle prossime quat-tro settimane la situazione greca dovesse esplodere: un Grexit, o un aggravarsi della situazione economica ellenica, potrebbe aprire scenari inaspettati e servire il Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, su un piatto d’argento».Il rompicapo del governo di minoranza è quindi solo un assaggio per la vera partita a poker che laburisti e conservatori dovranno giocare per creare alleanze che garantisca-no la governabilità. Cameron, che finisce ora il mandato dopo un governo di coalizio-ne con i Lib-Dem, potrebbe avere a dispo-sizione una larga maggioranza parlamen-tare ma non i voti per governare e i falchi del partito conservatore sembrerebbero più propensi all’appoggio esterno dei populisti di Ukip che non a ripetere l’esperienza con i Lib-Dem.Miliband invece, «con sondaggi personali che sono passati dal catastrofico al sempli-cemente negativo», riferisce Kellner, potreb-be avere sì le carte in regola per formare il governo con un appoggio esterno Lib-Dem ma per una, seppur risicatissima, mag-gioranza parlamentare dovrebbe mettere d’accordo anche l’Snp degli indipendentisti scozzesi.Insomma «la carne al fuoco è tanta e il pros-simo premier dovrà prendere decisioni im-portantissime - rileva Kellner - ma in questa campagna elettorale i partiti stanno giocan-do a distrarci delegittimandosi a vicenda e senza parlare di cose serie perché temono di perdere troppi voti nel parlare di Europa, welfare state e immigrazione».E anche se Miliband riesce a galleggiare nei sondaggi e i bookmaker lo danno come fa-vorito, i principali commentatori e analisti politici inglesi avvertono: non sottovalutare l’elettorato dormiente, per lo più middle-class, che il 7 maggio potrebbe regalare a Cameron le chiavi per un secondo mandato a Downing street.

Mentre i boomaker lo danno per favorito, i commentatori avvertono: attenti all’elettorato dormiente, per lo più middle-class, che potrebbe far rivincere Cameron

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25 aprile 201568

l motore di ricerca perfetto deve comprendere esattamente che cosa l’utente intende, e restituire esattamente ciò che desidera». Così diceva, una decina di anni

fa, Larry Page, fondatore e Ceo (chief executive officer) di Google, “il” motore di ricerca da ol-tre un decennio. E non si può dire che Google non sia riuscito ad avvicinarsi all’obiettivo che si poneva il suo fondatore: il motore di ricerca di Google è sempre più preciso ed è in grado di suggerirci i risultati più conformi ai nostri de-sideri. Nel minor tempo possibile. Nel luogo in cui ci troviamo, perché da quando la dispo-nibilità di connessione mobile è alla portata di tutti è diventato fondamentale rispondere alle richieste tenendo conto della localizzazione di chi compie la ricerca. In oltre dieci anni Go-ogle Inc. è diventata molto più di un motore di ricerca, offrendo prodotti di ogni tipo: da Gmail per la posta elettronica a Google dri-ve, per la gestione condivisa di file; da Google maps a Street view e Google earth; Hangouts e Voice per la messaggistica e le telefonate onli-ne; Google traduttore; AdSense e AdWords per la pubblicità online; la community Google+; e ancora decine di altri servizi che rispondono ai bisogni più disparati offrendo il vantaggio dell’essere basati sul cloud, la nuvola, renden-

do quindi accessibili le proprie informazioni ovunque vi sia connessione a internet.«L’obiettivo di tutte le nostre tecnologie, dal servizio di ricerca a Chrome e Gmail» recita il sito dell’azienda, «è semplificare il più possi-bile la ricerca delle informazioni che servono agli utenti e consentire agli utenti di portare a termine ciò che desiderano».Rendere il servizio di ricerca più veloce e intel-ligente in modo che capisca che se si digita la parola “jaguar” si sta cercando l’auto e non l’a-nimale. E pazienza se, per raffinare questa in-telligenza, occorre scavare nelle abitudini degli utenti, nel contenuto delle conversazioni mail e chat, tra le persone contattate più frequente-mente e gli amici di Google+, nella cronologia di navigazione e nelle ricerche che si effettua-no. Pazienza se nell’offrire risultati - i migliori risultati che rispondono con maggiore pre-cisione ai desideri degli utenti - si finisce per privilegiare i propri contenuti, quelli prodotti e ospitati in una delle decine di servizi dell’a-zienda. Avete mai cercato un video su Google? Quante volte vi è stato suggerito un risultato ospitato su una delle numerose piattaforme, da YouTube, proprietà Google dal 2006.Finché però la Commissione Europea, nel-la persona del commissario alla concorren-za, Margrethe Vestager, ha presentato alcuni

«Idi Claudia Vago

L’Europa accusa il motore di ricerca fondato da Larry Pagedi violare tutte le norme antitrust della Ue. Loro negano e rispondono: «Vogliamo solo che gli utenti portino a termine ciò che desiderano»

L’ABUSO DI GOOGLE

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giorni fa una serie di accuse per aver violato le leggi antitrust dell’Unione Europea. Nel mirino della Commissione si trova, in par-ticolare, Google shopping che, secondo le indagini delle autorità, almeno dal 2008, è messo in rilievo tra i risultati di ricerca a pre-scindere dalla coerenza con i termini inseriti e a discapito di servizi analoghi. Un abuso di posizione dominante che impedirebbe agli utenti di accedere ai risultati effettivamente più rilevanti e ai competitor di investire in in-novazione, data l’impossibilità di competere con il colosso americano. Un mercato, quel-lo delle Ict, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, asfissiato da pochi colossi e tutti americani. Motori di ricerca, sistemi operativi, social network sono quasi tutti prodotti statunitensi, espressione di un modello culturale ben preciso, anarcocapita-lista, portatori in loro stessi dei valori di quella cultura. Il Commissario agli affari digitali della Commissione europea, Gunther Oettinger, ha messo in guardia, con decenni di ritardo, dal pericolo che corre l’economia europea, forte-mente dipendente da un oligopolio di giganti americani arrivando a chiedere una nuova re-golamentazione delle piattaforme di Internet che limiti lo strapotere Usa. Un’accusa fuori tempo massimo e fuori bersaglio, perché oggi la priorità è capire come tassare il profitto di queste aziende nei Paesi in cui il profitto vie-ne generato, non impedire loro di operare a favore di immaginarie piattaforme che, ma-gicamente, dovrebbero attrarre centinaia di milioni di utenti. Di fronte al proprio ritardo e alla propria ina-deguatezza, le autorità europee attaccano l’obiettivo più visibile e facilmente sanziona-bile, lasciandoci però soli ad affrontare il pro-blema che il perseguimento della perfezione nei risultati delle ricerche pone alla nostra vita quotidiana, alla nostra possibilità di arricchir-ci di conoscenze e, non è esagerato dire, alla democrazia: il problema di vivere all’interno di una bolla costruita dai filtri prodotti dagli

algoritmi che regolano il funzionamento dei servizi che usiamo quotidianamente. Filtri che ci semplificano la vita, aiutandoci a non affogare nell’oceano di informazioni che sono prodotte ogni minuto nel mondo, ma che ci costruiscono intorno una piccola frazione di mondo semplificato che non siamo più capaci di vedere per quella che è e finiamo per scam-biare per il mondo nel suo complesso e nella sua complessità. La ricerca su Google rispon-

de ai nostri dubbi sulla pianta che abbiamo in giardino, ci racconta la trama del film che stiamo per andare a vedere, dopo averci det-to dove si trova il cinema, ci dice quali sono le migliori offerte per quel prodotto che vo-gliamo acquistare, ci guida nel ristorante più vicino al luogo in cui ci troviamo, ci fa pensare che la nostra opinione su quel fatto sia mag-gioritaria e condivisa da molti e ci rinchiude nel recinto dorato delle nostre certezze.

Ti offrono filtri che ti semplificano la vita. Peccato che finiamo per scambiare quella piccola frazione di mondo per il suo complesso e la sua complessità

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Esclusivo: le analisi di laboratorio che rivelano il rischio nanotecnologie

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7118 aprile 2015

Istituito dal giornalista e magnate della stampa americana Johosep Pu-litzer è il premio più ambito nel mon-do dell’informazione. Per la sezione “Giornalismo internazionale” il Pu-litzer è andato al New York Times e al fotoreporter Daniel Berehualak che,

per la stessa testata, ha immortalato l’epidemia di ebola nell’Africa Occi-dentale. Il riconoscimento per la “Pub-blica utilità” è stato assegnato a The Post and Courier di Charleston, quoti-diano locale del South Carolina autore di una serie di articoli sulle violenze

subite da più di 300 donne. Migliore giornalista per la sezione “Inchieste” è invece Eric Lipton, anche lui in forza al New York Times. Lipton si è occupato delle attività dei lobbisti in Usa e della loro influenza sui giudici per tutelare gli interessi dei più ricchi. g.f.

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25 aprile 201572

«È della stessa specie della Terra». Lo sosteneva Giordano Bruno e oggi lo dimostra

un esperimento di tre astrofisici. All’origine, l’impatto con il pianeta gemello Theia

La natura segretadella luna

di Pietro Greco

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tura varia nei diversi corpi dell’universo e dello stesso sistema solare. Marte e Venere e Mercurio e tutti gli altri pianeti hanno una composizio-ne isotopica diversa dalla Terra. Perché diversa è la storia della loro origine e della loro vita. La composizione isotopica degli elementi chimici presenti sulla Luna è, invece, la medesima di quella degli elementi chimici qualsiasi presen-ti sulla Terra. Davvero dunque la Luna è fatta «della stessa specie della Terra». Il che crea un problema mica da poco. In genere i corpi pre-senti nel nostro sistema solare hanno una diver-sa composizione isotopica. In altri termini non sono esattamente «della stessa specie» perché tutti e ciascuno hanno avuto una storia diversa. Com’è, allora, che Giordano Bruno aveva ragio-ne alla lettera? Com’è che Luna e Terra sono così simili, anzi identiche? La risposta è evidente. O, almeno, è evidente al nostro computer, sosten-gono Mastrobuono-Battisti e i suoi due colle-ghi astrofisici: la Terra e la Luna hanno la stessa storia, ovvero hanno la medesima origine. Una risposta logicamente scontata (o quasi), ma fi-sicamente piuttosto scomoda. Perché capace di modificare non poco le nostre idee sulla forma-zione della Luna. E sulla storia della Terra. Tutto rimanda a una delle grandi ipotesi scien-tifiche sull’origine della Luna: quella del-l’“impatto gigante”, la teoria oggi considerata la più accreditata. Secondo questa ricostruzione, le cose - 4,5 miliardi di anni fa o giù di lì - sareb-bero andate, più o meno, in questo modo. Il Sole neonato stava ancora organizzando, a quel tem-po, il suo sistema ordinando le polveri e i gas residui dell’esplosione di una supernova, una grande stella che aveva concluso con un’imma-ne esplosione il suo ciclo di vita. Nello spazio intorno alla nuova stella, il Sole, si andavano formando i corpi principali: i pianeti con i loro satelliti. Tre le modalità, non necessariamente alternative: per lento accrescimento, per cattu-ra e mediante catastrofici impatti. Nel caso del satellite della Terra, per molti motivi, sono state progressivamente scartate le prime due ipotesi. La Luna non si è formata né per accrescimento accanto alla Terra né era un pianetino errante catturato dalla Terra. È ormai certo, la Luna è nata mediante la terza modalità: un gigantesco impatto tra la giovane Terra in formazione e un vero e proprio pianeta errante: un astro con le

veva dunque filosofato bene Giordano Bruno quando, sul finire del XVI secolo, andava soste-nendo che la Luna è «della stessa specie della Terra». Non solo perché, come dimostrerà Ga-lileo qualche anno dopo con «sensata esperien-za», sul nostro satellite naturale valgono le me-desime leggi fisiche che sul nostro pianeta. Ma anche perché, come ricordano oggi Alessandra Mastrobuono-Battisti, Hagai B. Perets e Sean N. Raymond, protagonisti di un esperimento simulato al computer i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature, la Luna è fatta della stessa, identica materia della Terra. Ha non solo gli stessi atomi, ma anche gli stessi isotopi.La Luna è, letteralmente, fatta «della stessa specie della Terra». Diciamolo in maniera più rigorosa. Gli isotopi altro non sono che forme diverse di un medesimo atomo. Anche l’atomo più semplice, l’idrogeno, è costituito da tre di-versi isotopi. Uno, l’idrogeno propriamente det-to, ha un nucleo privo di neutroni ed è dunque costituito da un solo protone; un altro, chiama-to deuterio, ha un nucleo in cui oltre al protone c’è anche un neutrone; un terzo, chiamato tri-tio, ha un nucleo costituito da un protone e due neutroni. Le proprietà chimiche dei tre isotopi sono identiche, la differenza è costituita solo e unicamente (o quasi) dalla massa. Tutti gli ele-menti chimici hanno i loro isotopi. L’uranio, per esempio, ha tre isotopi presenti in natura ma ne ha altri otto ottenuti in laboratorio.La composizione isotopica dell’idrogeno, dell’e-lio e di tutti i 92 elementi che si trovano in na-

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dimensioni di Marte, che gli astrofisici hanno battezzato Theia, dal nome della titanide che, nella mitologia greca, era madre di Selene (dea, appunto, della Luna), oltre che di Elio (dio del Sole) e di Eos (dea dell’aurora). Dal titanico scontro avvenuto 4,5 miliardi di anni fa la Terra esce squassata, le sue giovani rocce vengono fuse, le sue viscere rimescolate. Ma dallo scontro Theia esce letteralmente a pez-zi. Una parte penetra nelle viscere più profonde della Terra: oggi nel nucleo del nostro pianeta dovrebbero esserci resti non marginali del fra-tello parzialmente inghiottito. Una buona metà di Theia schizza via in frammenti nello spazio. Mentre una parte minore (il 2%, decimale in più o decimale in meno) è polverizzata. I frammen-ti e la polvere in pochissimo tempo, in appena un secolo a quanto pare, si riaggregarono in un nuovo corpo celeste, la Luna, che è catturata per gravità dalla Terra per formare il fortunato siste-ma binario.Fortunato soprattutto per noi, figli parlanti del pianeta sopravvissuto e ingrassato dallo scon-tro con Theia. Perché pare proprio che la Luna sia un elemento stabilizzante, capace di impe-dire troppo ampie oscillazioni dell’asse della Terra rispetto al piano dell’orbita che descrive intorno al Sole e, dunque, bruschi e dramma-tici e insostenibili cambiamenti del clima. È questa l’ipotesi dell’“impatto gigante”, propo-sta per la prima volta nel 1975 da William Hart-mann e Donald Davis e successivamente affi-nata. Una narrazione drammatica e fortunata, perché la teoria sembra “salvare” tutti i feno-meni noti e, dunque, fornire la spiegazione più economica - che nel gergo scientifico significa più accreditata - sull’origine del sistema Terra-Luna. Questo, almeno, fino a un recente passa-to. Ovvero fino a quando gli studiosi di Selene non hanno analizzato in dettaglio la compo-sizione isotopica della materia lunare. Con la sorpresa che abbiamo già annunciato: la Luna è fatta della medesima, identica pasta isotopi-ca della Terra. E questo è un bel problema. Per-ché tutti i corpi del sistema solare hanno una composizione isotopica diversa e specifica, come diversa e specifica è la loro storia. Nell’i-potesi dell’“impatto gigante”, Theia, pianeta errante, ha necessariamente avuto una storia diversa e specifica rispetto a quella del nostro

pianeta. E allora com’è possibile che i due astri protagonisti dello scontro avessero la medesi-ma composizione? La probabilità che sia stato il caso a determinarla, quella medesima mi-scela di isotopi, è molto bassa. Dunque, ci sono due sole possibilità: o la teoria dell’“impatto gigante” è sbagliata o la sua storia deve essere, almeno in parte, riscritta. Le due opzioni sono state offerte alla “scienza simulante” di molti computer sparsi nei centri di ricerca astrofisica di tutto il mondo. E la risposta di Mastrobuo-no-Battisti, Perets e Raymond è stata tutta a vantaggio della seconda: occorre riscrivere la storia di Theia, per ricostruire quella dell’origi-ne della Luna. La madre di Selene non era un pianeta errante, ma un pianeta gemello della Terra. I due frequentavano la medesima orbita e, dunque, hanno avuto una storia quasi omologa. Theia in realtà era un corpo molto più piccolo del-la Terra. Il pianetino si è venuto formando in un punto specifico, detto di Lagrange: un punto di equilibrio tra le forze gravitaziona-li del sistema Terra-Sole. Si è pro-gressivamente sviluppato intorno a un piccolo nucleo centrale per accrescimento. Ovvero catturando e inglobando polveri e meteoriti. Poiché in quel periodo, poco più di 4,5 miliardi di anni fa, lo spazio intorno al Sole era ancora pieno di polvere e spazzato da miriadi di meteoriti e asteroidi, in pochissimo tempo - meno di 35 milioni di anni - Theia ha catturato materia sufficiente ad assumere le di-mensioni attuali di Marte. Insomma, è diventa-to un pianeta. Un pianeta del tutto simile alla Terra, perché le polveri e i meteoriti di cui si è cibato sono le medesime di cui si è alimentato il nostro pia-neta. Theia vive la medesima storia cosmica e, dunque, è della medesima specie isotopica del-la sua gemella, la Terra. Quando la sua massa è stata sufficiente a rompere l’equilibrio del cam-po gravitazionale, Theia è stato spinto a gran velocità verso la Terra. Un’attrazione fatale. L’impatto, tremendo. Ma fecondo: Theia, mo-rendo, partorisce la Luna. Che non è solo della “stessa specie” di sua zia, la Terra, ma anche di sua madre, Theia.

La massa di Theia, della stessa materia della sua gemella, va a gran velocità contro la Terra. L’impatto è tremendo. Ma fecondo: Theia morendo partorisce la Luna

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Ama Miles Davis e la letteratura sudamericana e vuole scoprirela verità. Dopo Bacci Pagano arriva Kostas, il nuovo personaggio di Bruno

Morchio. Un noir tra guerra per bande, politica, finanza e mafie

Quanti segretitra i caruggi di Genova

di Checchino Antonini - illustrazione di Alessio Spataro

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Quanti segretitra i caruggi di Genova

hissà se mai si incon-treranno Bacci Pagano e Alessandro Kostas. Ultimamente si sono

sfiorati senza saperlo, girando per Genova, uno da sempre, l’altro tornandoci dopo un esilio lunghissimo. Entrambi frequentano il Carmine, a mezza costa tra i caruggi e Ca-stelletto, ma Bacci è un reduce degli anni 70 che campa facendo l’investigatore privato, l’altro è più giovane. Bacci, figlio di partigia-ni, ascolta Mozart e legge grandi narratori russi. Kostas, è figlio di una “barba finta”, uno spione del Sid, evidenti le origini gre-che, sente Miles Davis, ha sul comodino Il segretario di Simenon in lingua originale ma dal padre, oltre all’addestramento militare, ha ereditato la passione per la letteratura su-damericana. Fuentes, Cortàzar, Scorza, Ga-leano e, al di sopra di tutti, Garcia Marquez di cui recita a memoria brani da Cent’anni di solitudine. Dall’America Latina ci arriva, anche attraver-so gli scrittori, il messaggio più significativo contro il pensiero unico, questa globalizza-zione di classe», racconta lo scrittore Bruno Morchio, “anello di congiunzione” tra i due personaggi. Classe ’55, autore prolifico per Garzanti e ora per Rizzoli, Morchio ha ven-duto 200mila copie da quando è apparso nelle librerie, era il 2002, col primo episodio della saga di Bacci (che continuerà). Kostas, invece, debutta proprio in questi giorni con Il testamento del Greco per dare il via a una saga parallela in cui la città di Genova, anche stavolta, è tutt’altro che un fondale ma sem-pre coprotagonista della storia narrata. Se Bacci ne ha vissuto la metamorfosi dopo la deindustrializzazione, la grande migrazione e il cambio di pelle dovuto alle grandi opere per le Colombiane del ’92 e poi al G8, Kostas la riscopre con una nostalgia sgomenta e vi scova le tracce della propria infanzia e dell’e-tà dell’oro della città. È anche a questo che serve la letteratura. «A trentasei anni suonati, Alessandro Kostas - si legge nel libro - si sen-tiva intrappolato in un’esistenza che gli era stata regalata come un gioiello troppo pre-zioso per essere indossato in pubblico; così se ne stava rintanato nel casale che il vecchio

aveva acquistato oltre vent’anni prima, subi-to dopo l’incidente d’auto in cui era morta la moglie». «Ho sentito la necessità di presenta-re un personaggio di una generazione diversa dalla mia - continua Morchio - e di raccon-tare la città con una prospettiva diversa». Se Bacci ha un passato ingombrante, compreso un soggiorno nelle patrie galere per un errore giudiziario legato alle leggi emergenziali de-gli anni cosiddetti di piombo, Kostas «manca totalmente di esperienza», essendo stato co-stretto a lasciare la città a dodici anni dopo la morte della madre. Il testamento di suo pa-dre, appunto il Greco, gli rivelerà che fu un omicidio. Così Kostas torna dalla campagna della Val d’Orcia per vendicarla.

Doveva essere dedicato a Jean-Patrick Manchette, maestro del romanzo d’azione francese, ma sul frontespizio c’è la dedica a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Perché per Morchio dobbiamo ai due giornalisti as-sassinati in Somalia quello che sappiamo dell’«uso che il mondo ricco fa dell’Africa» e questa storia è una metafora di quello che è accaduto dopo la caduta del Muro anche rispetto all’alleanza criminale che traffica in scorie nucleari. Di quel mondo non esi-stono più le regole ma ne sopravvivono pro-tagonisti e comprimari. «Non siamo in un film americano e quello che senti non è uno scontro tra forze del bene e del male. Si trat-ta di bande armate al servizio di trafficanti senza scrupoli. Per fare soldi non si preoc-cupano di uccidere uomini, donne e bambi-ni africani», scrive ancora Morchio ne Il te-stamento del Greco. Dalla guerra fredda alla guerra per bande, tutti contro tutti, fino alla contaminazione di politica, finanza e mafie che nelle strutture dell’intelligence trova da sempre un punto di raccordo ma poi si ri-verbera nelle vite di tutti. Il lato oscuro del mondo non è nell’animo, non solo, ma nei rapporti di forza tra le classi. Non è a svelare tutto questo che serve il noir? Ed è meglio quando tutto ciò si snoda in crescendo con un ritmo che aumenta proporzionalmente alla complessità dell’intrigo fino al forsen-nato finale. Fino alla prossima storia di Ko-stas, o di Bacci.

Bacci Pagano, personaggio “storico” di Bruno Morchio

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Leonardo autore di ritratti “che parlano”. Maestro dello sfumatoe di geniali schizzi. Lo racconta la grande mostra milanese

L’arte di dipingere i moti dell’animo

di Simona Maggiorelli

cui una giovane Maria, tutt’altro che piatta ico-na sacra, gioca con il figlio. Ma la mente corre anche all’Ultima cena, affrescata in Santa Ma-ria Maggiore, ricordando l’ondata di reazioni emotive che suscita nei discepoli la frase di un umanissimo Gesù, senza aureola. Una straor-dinaria serie di disegni e di schizzi autografi, provenienti dai maggiori musei del mondo e in particolare dalla Royal Collection inglese, rac-contano lungo il percorso la ricerca continua di Leonardo sull’espressività dei volti e dei gesti, il suo attento studio del corpo in movimento. Un interesse verso la natura e l’essere umano nel suo complesso basato sull’intuizione e sulla «sperienza» più che sui libri canonici rifiutan-do la ripetizione acritica imposta dalla Chiesa e da conventicole intellettuali. Con ciò questa vasta e rigorosa esposizione, frutto di 5 anni di studio sotto la guida di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, non alimenta il mito ottocentesco di un inarrivabile Leonardo nato dal vuoto più assoluto. Grazie al contributo di esperti come il direttore del Museo della scienza di Firenze, Paolo Galluzzi, e di altri studiosi di rango inter-nazionale, nelle 12 sale della mostra, collegate da nessi e rimandi tematici, i due curatori han-no ricostruito filologicamente le fonti leonar-diane: non solo quelle artistiche e liberamente

hi è quella misteriosa donna dal-lo sguardo vivo, che non si fissa sullo spettatore, ma guarda oltre? Volgendosi d’un tratto, come fosse comparso qualcuno che attrae la sua attenzione o per un accadimen-to improvviso. Nota come la Belle Ferronière,(1490-’96) potrebbe es-sere l’amante di Ludovico il Moro, Cecilia Gallerani, Isabella d’Este o piuttosto Isabella d’Aragona, donna

bellissima e fiera che - si narra - seppe reagire anche all’esilio. Nei secoli si sono inseguite mol-te ipotesi che, però, sono sempre rimaste tali. Ciò su cui gli studiosi invece concordano è che questo magnetico ritratto del Louvre e ora al centro della mostra milanese Leonardo da Vinci 1452-1519, rappresenta un’autentica rivoluzio-ne nella storia della pittura. Non solo per le va-lenze plastiche e volumetriche della figura, rese ancor più evidenti qui, in Palazzo Reale, dall’ac-costamento alla Dama col mazzolino scolpita dal Verrocchio. Ma per il movimento segreto che anima il dipinto e per il genio leonardiano nel rappresentare i moti della mente e l’invisibile dinamica degli affetti. Come traspare già, nelle prime sale, dalla Madonna Dreyfuss (1469) della National Gallery di Washington, per il modo in

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reinterpretate (la scultura antica, Paolo Uccello, il Verrocchio, il Pollaiolo, la pittura fiamminga ecc.). Ma anche quelle scientifiche, legate alle scoperte del proprio tempo da cui trasse spunto per le proprie originali invenzioni. Permettendo così al visitatore di comprendere meglio la vera identità di Leonardo e il suo poliedrico talento di pittore, architetto, ingegnere. Seguendo l’e-voluzione del suo pensiero, attraverso gli scritti e nel disegno inteso come libera espressione, come strumento di conoscenza e poi di proget-tazione di macchine, edifici, scenografie teatrali, automi, ali per volare e strumenti musicali per la vita di corte. A cui prendeva parte suonando la lira e proponendo raffinati e arditi giochi lette-rari. Ricchi di citazioni dai testi antichi, benché si definisse «omo sanza lettere». Sfoggiando fi-gure letterarie come l’uccello che batté la coda sulle labbra di lui bambino. L’artista la presentò come una delle sue prime memorie d’infanzia. E Freud la interpretò in chiave omosessuale «scambiando quello che era con tutta probabi-lità un prestito letterario per un sogno a sfondo sessuale», come rivela lo storico dell’arte Edoar-do Villata, autore del saggio Il sogno di Leonardo, pubblicato nel ricco catalogo edito da Skira (che ha prodotto la mostra con 4,5 milioni di euro).

L’unità della conoscenza e l’osmosi continua fra i diversi campi del sapere, che Leonardo col-legava con sorprendenti nessi analogici, costi-tuiscono il vero filo rosso che percorre gli oltre seimila testi autografi giunti fino a noi, insieme a un esiguo numero di dipinti e una grande messe di disegni, a penna, stilo e gesso. Un vero e pro-prio tesoro che permette di cogliere il processo inventivo leonardiano, di vedere all’opera la sua immaginazione creativa nell’esecuzione di ra-pidi schizzi, realizzati liberamente, lasciandosi prendere la mano, senza filtri razionali. Fin dalla giovanile Veduta del Valdarno del 5 agosto del 1473, proveniente dagli Uffizi, in cui tratteggia-va l’incessante trasformazione degli elementi naturali, anticipando lo sfumato, per arrivare poi, a fine mostra, alle tempestose visioni degli ultimi anni, in cui il tratto non è più rettilineo ma fatto da avvolgenti e vorticose linee curve. Le misure auree dell’uomo vitruviano a poco a poco, lasciano il posto al dinamismo e alla fresca immediatezza dei modernissimi schizzi per la Madonna con il gatto, per arrivare a realizzazio-

ni come il vibrante profilo di cavallo bianco che appare in un guizzo di luce, in pochi suggestivi accenni, da un fondo di carta azzurra. Questa è una delle tante perle offerte, fino al 19 luglio, da questa mostra. Come il dialogo fra Leonardo, Giovanni Bellini e Antonello da Messina che na-sce dal confronto fra il Ritratto di musico (1485) dell’Ambrosiana, il Poeta laureato (1432) del pit-tore veneziano e il Ritratto di uomo (1465-70) dal sorriso malizioso e dallo sguardo indagatore che arriva da Cefalù. Un tris di opere in cui giunge a compimento quella trasformazione radicale della ritrattistica quattrocentesca raccontata da Enrico Castelnuovo nel saggio Ritratto e socie-tà in Italia (ripubblicato ora da Einaudi): «Nel XV secolo l’immagine dipinta o scolpita assun-se un ruolo di celebrazione del potere e di una civiltà come in poche altre epoche», scriveva il grande storico dell’arte scomparso un anno fa. Un aspetto anche propagandistico che toccò il vertice nella Firenze medicea. Proprio in quel-la koinè in cui si formò Leonardo. Che diversa-mente da tanti artisti a lui coevi, abbandonò il valore celebrativo, solenne ed eroico, del ritratto (generalmente di profilo esemplato sulla mone-tazione antica) per rappresentare soggetti “ano-nimi”, straordinariamente vitali, innervati di movimento, in ritratti che ancora ci parlano.

Fino al 19 luglio in Palazzo Reale a Milano, la mostra Leonardo 1452-1519, il disegno del mondo presenta duecento opere del maestro di Vinci e di artisti del suo tempo

Leonardo da Vinci Belle Ferronière (1490-’96)

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18 aprile 201580

In una Bari assopita la storia tra Adriana e Mohammed. Nelle sale in questi giorni L’amore non perdona

il nuovo film di Stefano Consiglio

Per il resto è amore

di Alessandra Grimaldi

e l’altro, che a quest’ultimo si era ispirato, che è Fassbinder, così ho cominciato a pensare. Ma all’origine, anche del cinema documentario che io faccio, c’era anche un’altra idea, che na-sceva dalla lettura di Grace Paley, una grande scrittrice americana, molto impegnata politi-camente, femminista, che ha lottato contro la guerra, contro il nucleare. Uno dei suoi libri, Enormi cambiamenti all’ultimo momento, è la rotta che io seguo. Viviamo in un mondo di cambiamenti così enormi, e così all’ultimo momento, che, per il mio film, mi hanno por-tato a pensare in primis all’immagine della donna. Fino a pochi anni fa, una donna di ses-sant’anni era alla fine della sua vita, non biolo-gica ma riguardante la sessualità, oggi, invece, è nel pieno della sua vita, anche sentimentale. Così è nata l’idea del film, che ho scritto, ci ten-go a dirlo, con Mimmo Rafele. Chi sono i protagonisti? Due esseri umani che cercano disperatamente di essere felici. Un tema, quello dell’amore, o della felicità, oggi messo da parte perché ci sono tante difficoltà della vita materiale, che si tende a dimenticare, a reprimere, quelle che sono le emozioni forti, che spesso mettono timore. Il film regala una speranza? Posso dire che è una gran bella storia. Mi piace dire che dà fiducia nelle persone, fiducia che la vita possa essere vissuta appieno e poi dà un desiderio di felicità. La storia del film è quella di due persone prima di tutto. Entrambi: lei, per ragioni di età, lui, per razza e religione, sono due subordinati nel mondo in cui viviamo. Tut-

elle sale in questi giorni il film L’amore non perdona di Stefa-no Consiglio. Un autore che da sempre si occupa di cine-

ma, raccontandolo spesso in forma di docu-mentario, e che, stavolta, si dedica a una storia, parlando delle molteplici differenze umane: anagrafiche, razziali, religiose, culturali. Quel-le tra Adriana e Mohamed, ambientate in una Bari assopita: lei sta per compiere sessant’anni, lui ne ha trenta e non ha la pelle bianca; non hanno nulla in comune, sono avversati da chi li circonda, per il resto è amore. Ne parliamo con il regista, pronto, ancora una volta, a raccontar-ci la verità e stavolta, più che mai, a rivendicare sentimenti ed emozioni.Da dove nasce l’esigenza di parlare di tutte queste differenze? Io vengo dal cinema del documentario, della realtà. Ho notato che, da parte del pubblico, negli anni, soprattutto nei dibattiti, è emersa la richiesta di capire quali siano le storie d’amo-re maggiormente contrastate, nel mondo rea-le, e quali i motivi reali. Da subito, si è capito che quelle che hanno maggiori difficoltà sono le storie tra culture di razza e religione diver-se. Questo è stato il primo barlume per il film. Come può confluire tutto ciò in una storia d’amore? Sono un appassionato di cinema, ho comincia-to a pensare che le storie d’amore contrastate, nel cinema appunto, si chiamano melodram-mi. Tra gli autori che se ne erano occupati, ve ne sono due tutelari: uno è stato Douglas Sirk

Un’immagine del film e del regista Stefano Consiglio

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8118 aprile 2015

il diritto delle emozioni, i diritti essenziali del-le persone per stare bene al mondo. Prima di questo, io ho girato un film dal titolo Il Centro, ambientato in un centro commerciale, luogo che ormai è diventato un po’ la piazza della nostra Italia: le persone ci vanno a passeggia-re, a mangiare, c’è il cinema, si va ad acquistare quando si può. Noi, però, non volevamo solo capire quali erano le usanze delle persone che frequentano questi luoghi, ma gli chiedevamo anche se erano contenti della vita, cosa pensa-vano della loro vita, andavamo a stimolare un pensiero, le emozioni di chi avevamo davanti. Quindi, non intendevamo occuparci del fatto che esistono solo i disagi materiali, argomenti sui quali spesso si interrogano le persone. Ne veniva fuori, anche da alcune recensioni fat-te al film, che l’amore è diventato un lusso. In questo senso il mio film attuale parla di senti-menti e li rivendica. C’è un autore in particolare a cui ti ispiri? Ho citato Sirk, Fassbinder, per parlare di un cer-to filone, ma il mio regista di riferimento, per il quale stravedo, è Cassavetes, che con questo film non c’entra nel soggetto, ma nel modo di affrontare le cose. Mentre giravo, pensavo al suo modo di stare attaccato ai personaggi, al filmarli in un certo modo. Il film che avresti voluto girare? È quello che ho girato. Il film che girerai? Non lo so, adesso c’è un “bambino piccolo” di cui occuparmi, però vorrei realizzare un altro bel progetto di cinema documentario.

tavia, il loro incontrarsi e amarsi li proietta in una dimensione di vita. Qual è l’ostacolo più grande che questa coppia deve superare? Gli ostacoli sono pregiudizi e quando c’è un atteggiamento pregiudiziale, un qualcosa che si diffonde dapper-tutto, gli ostacoli stanno ovunque. La differenza sta nel fatto che una batta-glia del genere, ai pregiudizi appunto, qualche anno fa sarebbe stata duris-sima, oggi si può affrontare e i due protagonisti lo fanno, con difficoltà,

ma trovano i mezzi per affrontarla. Quando giravi, cosa hai chiesto ai due inter-preti? Nulla perché loro hanno amato il film per come era scritto, il copione era molto comunicativo. Ariane Ascaride è una grande attrice, in Francia è una diva vera; lui era un giovane attore ma-rocchino sconosciuto, Helmi Dridi. Loro han-no capito subito, per questo la realizzazione del film è stata molto facile. Io volevo comunicare sempre qualcosa di vero, che il film destasse sempre emozioni, ho voluto lavorare sul senti-mento di verità, ma anche sul come vorremmo che fossero le cose. Come si possono superare le differenze?Continuando a vivere, a raccontare con since-rità, contrastando i pregiudizi nella vita quoti-diana, con un atteggiamento personale o con le battaglie politiche. Credo che questo sia un film molto politico, non nel senso della politica che intendiamo, ma è politico perché rivendica

Questo film è molto politico. Rivendica il diritto alle emozioni. Essenziale per stare bene al mondo

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25 aprile 201582

di Wu Ming, mentre in Rete prevalgono logiche autopromozionali, dove nessuno intende “ascolta-re” (lo sguardo dell’autri-ce, sempre rigoroso, qui si fa un po’ acritico). E poi: discorrendo di scrittori-viaggiatori stende l’elogio di Celati perché azzera tutti i clichè. Va bene, però siamo fatti anche dei no-stri cliché (non esiste un punto di vista asettico), e proprio Moravia in Africa prende le mosse da stere-otipi e apparenti ovvietà per poi darci alcune verità abbaglianti su quei paesi. Particolarmente felice il ritratto di Amelia Rossel-li, che ha voluto coltiva-re l’“irregolare” (lapsus, calembour, sgrammati-cature), sempre un po’ straniera anche nella sua lingua madre (qui si ac-costa a Sanguineti, eppu-re lei ha solo costeggiato la neoavanguardia e alla falsa comunicazione ha sempre contrapposto una comunicazione più inten-sa). Ma forse le pagine più interessanti del saggio, da infliggere per punizione a leghisti e cultori delle ra-dici, sono quelle dedica-te a Pavese, per il quale la centralità della condizione umana è la non apparte-nenza.

a un titolo bellissimo il saggio di Noa Moll L’infinito sotto casa

(Patròn), su letteratura e transculturalità nell’Italia contemporanea, che rian-noda la recente narrativa migrante ai Marinetti e Ungaretti nati in Egitto e ai libri di viaggio di Gozza-no e De Amicis. Ridisegna la storiografia letteraria del secolo scorso, sapen-do che oggi più che mai abbiamo il mondo sotto (e dentro) casa, anche se non ne siamo pienamente consapevoli. Le mie obie-zioni riguardano invece alcuni aspetti specifici. Anzitutto: si dichiara en-faticamente una poetica dialogica e della diaspora e si propone una idea di letteratura italiana come laboratorio transmediale. Bene ma non si rischia qui un po’ di nobile retorica del Dialogo e dell’Ascol-to? La nostra letteratura mi sembra caratterizzata da prodotti molto autore-ferenziali, prona al genere unico del noir, pochissimo transculturale, ipnotizzata da formule di marketing come il New Italian Epic

Teatro è tutte le voci, un’or-chestra che incarna quel «canto balzante, che ora scoppia in strilli imprevisti e or s’abbandona in scivo-li rischiosi» che suggerisce Pirandello nella lunga dida-scalia iniziale del suo ulti-mo, incompiuto, misterio-so lavoro, un «mito», come lo definisce. va in scena l’incontro e lo scontro tra una comuni-tà di autoemarginati dalla vita, gli «Scalognati», e un gruppo di attori che prova a portare la poesia tra incom-benti giganti di una società brutalmente prosaica. Lati-ni lo fa con microfoni che ne moltiplicano la voce, la riecheggiano, la raddop-piano; allontanandosene, poi, per trovare timbri più asciutti, fino a quello na-turale, quasi disarmato. Un’orchestra: non di vir-tuosismi; di profondità, in-tenzioni, suggestioni. Su un

i precipita subito den-tro un vortice, I gigan-ti della montagna di

Roberto Latini. Come in un vecchio film muto, con la proiezione in didascalie di una voce che arriva da re-gioni nascoste (Paura. PAU-RA. SUONI. LAMPI. AIUTO. I LAMPI…). Dentro/fuori, dentro/fuori. Rifugio/Ap-parenza. Isolamento dagli uomini / arte che può re-alizzarsi solo tra essi. Un solo attore, lui, Latini, nello spettacolo di Fortebraccio

L I B R I T E A T R O

Ungaretti autore migrante?

POETICI E FORTI GIGANTI

Moll tenta la difficile impresa di leggere in chiave intercultur-ale classici del ’900

Roberto Latini ricrea il capolavoro di Luigi Pirandello

di Filippo La Porta di Massimo Marino

H S

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8325 aprile 2015

campo di grano tagliato, in una notte lunare, dietro un velatino che smorza la vi-sione, con quell’andamen-to da film fuori tempo, con una paura che incombe, con la minaccia di diventa-re solo spaventapasseri in un mondo dove gracidano troppi misteriosi feroci cor-vi. Tra le apparizioni, in teso dialogo con la vera e propria altra voce dei suoni di Gian-luca Misiti e con gli incanti luministici di Max Mugnai, gli Scalognati e gli attori lot-tano contro il disincanto, in cerca della verità delle favo-le, degli incantamenti. Lo spettacolo è un susseguirsi di invenzioni di intensa, lacerante suggestione, uno scavo che dimostra come tra gli attori-autori, quelli che attraversano i testi e li indossano profondamente fino a reinventarli, è da cer-care il meglio della nostra esangue scena.

ontana usava il neon per creare ambienti spaziali che alludono

a una quarta dimensione. Picasso con la luce tracciava improvvise e fugaci forme sul vetro. Poi l’Arte pove-ra usò il neon per scrivere messaggi politici come il Che fare? di Lenin che, iro-nicamente, campeggia nella pentola vuota di Merz. Che usò il neon anche per illu-minare un poetico modo di abitare in igloo trasparenti. A questo filone appartie-ne anche il lavoro del gre-co Nakis Panayotidis che esordì nella Torino anni 60 sviluppando un linguag-gio che mette insieme foto

A R T E

IMMAGINIDI LUCEDa Lucio Fontana e Picasso, fino alle nuove generazioni: protagonista il neon

di Simona Maggiorelli

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in bianco e nero e pitture retroilluminate. Sue opere sono esposte al Macro fino al 13 settembre nella mostra Guardando l’invisibile. Fra queste Lo sguardo fuggitivo del poeta in cui, da spettato-ri ci si trova a guardare la li-nea luminosa dell’ orizzonte che, sul mare, accende la fantasia di mondi lontani. Allude al gesto di Prometeo, invece, Ladro di luce; qui è l’artista a “rubare” la luce al divino, per conoscere, so-gnare, creare immagini. Più giovane di una ventina di anni, anche Grazia Toderi (Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel ’99) è da sem-pre affascinata dal tema del-la luce. La usa per proiettare atlanti immaginari, pianeti che si eclissano e orbite che si aprono come diafram-mi. La sua ricerca incontra l’astronomia, la fisica, “in-daga” le reazioni chimiche, ma soprattutto si interessa all’umano in relazione al cosmo e nelle cangianti me-tropoli di oggi. Come le sue Orbite Rosse (in foto), ora nei nuovi spazi della Galleria Giò Marconi a Milano: una doppia proiezione video fa comparire luci in trasparen-

za come “città invisibili” che danzano nel buio. Appena quarantenne, l’ar-tista multimediale Alessio Ancillai (a cui la Galleria Pio Monti di Roma dedica una personale) usa il Led in opere di pittura astratta per tracciare linee luminose che sembrano penetrare nella tela evocando profondità. Raffinati giochi di luce sul-le pieghe di un drappeggio che attraversa un quadro schiudono paesaggi sco-nosciuti. Fanno comparire geografie mobili, come se la stoffa fosse pelle umana e sensibile. Più in là un mo-vimento di forme morbide, rosse e bianche, accende lo schermo scuro nell’installa-zione Luce e sangue che dà il titolo alla mostra aperta fino al 18 maggio. Forme in mo-vimento che pulsano di vita, per evocare la bellezza della nascita umana, della men-te che emerge dalla realtà biologica. Si lega alla ricerca scientifica più avanzata il la-voro di Ancillai cercando di trasmettere con il linguag-gio specifico dell’arte il sen-so profondo e umanissimo di rivoluzionarie scoperte psichiatriche.

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25 aprile 201584

tagliato fino e una volta im-biondito aggiungete le car-ni macinate. Lasciate an-dare sul fuoco per qualche minuto in modo da asciu-gare gli ingredienti; salate. Adesso versate il vino bian-co e fatelo sfumare, poi il rosso e fatelo evaporate. A questo punto aggiungete qualche mestolo di brodo di carne, abbassate la fiam-ma al minimo e lasciate cuocere finché la salsa non si sarà addensata pur rima-nendo fluida. Non vi resta che condire le tagliatelle e spolverare col pepe. Nota: per la pasta fatta in casa se-tacciate la farina, dispone-tela a vulcano, aggiungete le uova una alla volta e un pizzico di sale. Mescolate fino ad ottenere un impa-sto che lascerete riposare avvolto da pellicola almeno mezz’ora in frigo.Vino consigliato: Gewürztraminer Doc, can-tina Produttori Bolzano (Bozen). «Il Traminer aro-matico è un vino altoate-sino dai profumi fruttati e floreali intensi», commenta Stefano Filippi l’enologo dell’azienda. «Parliamo di un vino antico - XIII seco-lo - tipico della zona dalla quale prende origine il suo nome: la città di Termeno (Tramin, Bz)».

se non avete la barca. Usate pure le polo Lacoste blu per tutti i match quotidiani, o i Dr Martins come anfibi da battaglia. I Ray ban Wayfa-rer per coprire gli occhi dal sole. Vans quelle “autentic”, optical e non solo. Per Su-perga scegliete le classiche in tela. Un altro must è il foulard: colorato, in tinta unita, in seta o in qualun-que altro tessuto, al collo, come cintura, come fascia per capelli o come acces-sorio da allegare alla bor-sa. Il pullover a V, oversize, blu o bianco in cotone da indossare con jeans o pan-taloni kino. Tutte le felpe di Champions, Puma, Fila e Robe di Kappa sono perfet-te per qualche corsa in riva al mare. Con il trench altro ritorno al passato, beige o blu, ti salvi sia nelle giorna-te di sole che nelle uggiosità autunnali. Come accessori tenetevi stretti: lo zaino di Invicta in tela leggera, l’ela-stico ferma carte e gli scuba della Swatch, i cappellini baseball per tifare american style. Se non siete appassio-nate di vintage rimediate procurandovi almeno una spilla in bachelite da appli-care dove più vi piace.

ellissima nobildonna e figura enigmati-ca del Rinascimen-

to it aliano, Lucrezia aveva un cognome importante quanto controverso per la storia dello Stivale: Borgia. Trascorse buona parte del-la sua vita assoggettata al difficile rapporto che aveva con il padre Rodrigo (poi Papa Alessandro VI) e il fra-tello Cesare. Si dice che i suoi capelli fossero così belli da aver ispirato un cuoco a dedicarle la ricetta delle “ta-gliatelle alla Lucrezia Borgia” preparate in occasione delle nozze della nobildonna con Alfonso d’Este, primogenito del duca di Ferrara. In una storia di un amore costrui-to a tavolino, la ricetta a lei dedicata quantomeno è una nota di sapore che rinfranca il palato.Ingredienti per 4. Salsa: manzo macinato 200 gr; maiale macinato 200 gr; guanciale 80 gr; 1 cipolla; 1 carota; mezzo gambo di sedano; brodo di carne per sfumare; mezzo bicchiere di vino bianco e 1 di rosso; olio extravergine d’oliva; sale e pepe. Tagliatelle: farina 400 gr; 4 uova; sale.Tritate le verdure e rosola-tele in padella con dell’olio Evo. Appena iniziano ad ap-passire mettete il guanciale

i sono dei grandi classici del passato che sono tornati ad

essere di moda anche oggi, quindi, se li avete originali non esitate ad indossarli. Per il jeans il must have è il 501 della Levi’s, preziosis-simo se ancora lo avete il Barbour verde o blu con in-terno check. Indispensabili le tre righe per eccellenza Adidas, per scarpe, felpe e t-shirt, anche “le blazer” di Nike sono belle in tut-ti i colori dell’arcobaleno. Di nuovo in voga la t-shirt bianca Calvin Klein con logo anni 90, le Converse, inutile dirlo, sono sempre “giuste” per grandi e picci-ni. Per coprirsi dalla brez-za del mattino resta Kway. Allacciate pure ai piedi il mocassino Tiberland anche

BUON VIVERE TENDENZE

Tagliatelle alla Lucrezia Borgia

Francesco Maria Borrelli Sara Fanelli

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OMAGGIO AGLI ANNI 90. TORNANO I GRANDI CLASSICILevi’s 501, t-shirt bian-ca con logo Calvin Klein, polo Lacoste e scarpe Adidas

La ricetta del piatto ispirato dai lunghi capelli biondi della nobildonna

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8525 aprile 2015

oing Clear: Sciento-logy, Hollywood, and the Prison of Belief è

un documentario di Alex Gibney tratto dall’omoni-mo libro del premio Pulitzer Lawrence Wright, presen-tato a fine gennaio al Sun-dance Film Festival e recen-temente messo in onda dal canale Hbo che ha svolto anche il ruolo di produttore. Per vederlo in Italia però do-vremmo però aspettare il 25 giugno. Al centro del docufilm c’è quella che è stata definita “la religione più costosa al mondo” - è stato stimato che praticare Scientology costi dai 25.000 ai 250.000 dollari, il prezzo ovviamente varia a seconda del livello di Clear (Conoscenza/Purez-za) raggiunto. Going Clear promette di svelare molti misteri sul culto più famo-so di Hollywood attraverso filmati di archivio e intervi-ste agli ex membri, Gibney ci racconta i retroscena e i dogmi della religione fon-data da Ron Hubbard.Dai metodi di reclutamento, alla vita quotidiana dei fedeli,

T E L E D I C O

Going Clear, il docufilm su Scientology

Giorgia Furlan di Alessandra Grimaldi

G ato a Taranto, ro-mano di adozio-ne, magistrato, poi

scrittore: Giancarlo De Catal-do è attento alla società che lo circonda, compresa quella delle aule di tribunale. Quando è nata la passione di scrivere? A otto anni, prestissimo, guar-davo i film di avventura, leg-gevo Salgari, sa, non ero bra-vo a giocare a calcio. I suoi romanzi di formazione? Quelli dell’Ottocento, Dosto-evskij in particolare. Perché Giurisprudenza?I miei erano professori, mi impedirono di fare Lettere! Che cosa le piace di più rac-contare, in un romanzo? I caratteri umani e i perso-naggi cattivi mi vengono bene. Si sente più giudice o scrit-tore? Sono tutte e due le cose, ma sono diverse: il giudice è un servitore dello Stato, lo scrit-tore è servitore di se stesso, anche se i lettori pretendono di essere loro a governare. Come, quando e dove scrive? Con il pc, quando posso, non ho mai molto tempo, nella mia stanza. Il suo ultimo romanzo? Un giallo storico, Nell’om-bra e nella luce, ambienta-to durante il Risorgimento, scritto in occasione dei cen-

MY LEFT

NON ERO BRAVO A GIOCARE A CALCIOIl magistrato e scrittore De Cataldo: «A otto anni leggevo Salgari»

Tratto dal libro del premio Pulitzer Lawrence Wright, in Italia il 25 giugno

to anni dell’Arma dei Cara-binieri. In questo momento sta scri-vendo? Sì, ma per scaramanzia non ne parlo, in questo sono un po’ meridionale e supersti-zioso. Si aspettava il successo di Romanzo Criminale? Non avevo la più pallida idea delle dimensioni che avreb-be assunto il fenomeno, non avevo mai scritto una cosa così impegnativa, torrenzia-le, anche di un certo valore. Se le dico Liberté? Non può esistere senza giu-stizia sociale, altrimenti è un valore neutro. Égalité? Il valore più in crisi, mi ac-contenterei che fosse real-mente pari opportunità: dare a tutti le stesse possibilità. Fraternité? È un valore laico, ma è diffi-cile applicarlo nel concreto. Si può anche parlare di fra-tellanza, ma essere capaci di viverla con il tuo vicino arabo non gode di popolarità.Trasformazione? In assoluto, la caratteristica di ogni essere umano: l’esi-stenza è trasformazione; è segno di progresso e arric-chimento. Mi fa un esempio di roman-zo che lo ha trasformato? Illusioni perdute di Balzac.

passando per la mitologia sacra che vede gli esseri umani come corpi abitati da anime di alieni vissuti circa 75 milioni di anni fa, fino ad arrivare alla propaganda e al ruolo delle celebrità che ne fanno parte. In particolare Tom Cruise, da anni volto del culto.Il documentario, come ci si poteva aspettare, non è stato gradito dall’organizza-zione che ha assoldato circa 160 legali e acquistato inte-re pagine pubblicitarie sul New York Times e sul Los An-geles Times per contestare la veridicità della pellicola. Dato il clamore per il re-cente scandalo che ha coinvolto la rivista Rolling Stone Usa, rea di aver pub-blicato uno scoop fasullo su uno stupro avvenuto du-rante la festa di una confra-ternita dell’Università della Virginia, Scientology non si è fatta sfuggire l’occasione per sfruttare a proprio fa-vore la retorica del cattivo giornalismo, approssimati-vo e sempre a caccia della notizia da sbattere in pri-ma pagina. Sulle pagine dei due quotidiani infatti l’in-serzione pubblicitaria - alla quale nell’era della crisi dell’editoria nessuno può permettersi di rinunciare -recitava: «Is Alex Gibney’s upcoming Hbo documen-tary a Rolling Stone/UVA redux?», ovvero «il docu-mentario di Alex Gibney che sta per uscire su Hbo sarà una bufala come quel-la di Rolling Stone?».

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25 aprile 201586

IL TEATRO CIVILE DI CASSINO OFF

NUEVA OLA SPAGNOLA

UNA, CENTO, MILLE“BELLA

CIAO”.

Medicina. Una festa da Nobel

LO STILE DI JOE

Cassino - Debutta l’Euro-pa vecchia madre, la guerra vista dalle bambine della Compagnia di danza Excur-sus. il 25 aprile, alle 18.30 nell’ Ex Campo Boario, nel-la rassegna diretta da F. De Sanctis. Che prosegue il 15 maggio con Ottavia Piccolo in lo Donna non rieducabile dedicato alla Politkovkaja.

Bologna - Quattro giorni di incontri, conferenze, per approfondire i nuovi oriz-zonti della ricerca biome-dica, la storia delle grandi malattie, le scelte dell’eco-nomia e della politica. Dal 7 al 10 maggio a Bologna si tiene il Festival della scienza medica, con quattro pre-mi Nobel: Luc Montagnier, Andrew Fire, Erwin Neher e Kary Mullis. Fra gli appun-tamenti da non perdere il 10 maggio la conferenza di Elena Cattaneo sulle ma-lattie neuro degenerative e la prevenzione, ma anche l’ incontro con lo storico della medicina Giorgio Co-smacini che presenta il libro Medicina e rivoluzione edito da Raffaello Cortina e quel-lo con Dario Bressanini che racconta il cibo del futuro a partire dal suo nuovo libro edito da Rizzoli. www.bolognamedicina.it

Roma - Il maestro del cine-ma Carlos Saura apre il Fe-stival del cinema spagnolo al cinema Farnese Roma dal 7 al 12 maggio e poi a Mi-lano dal 14 al 17. La Nueva Ola, sezione principale del festival presenta i migliori film iberici della stagione.

Torino-Roma-Firenze - An-teprima di jazz a Torino il 25 aprile con Equipage Ambas-sadors Dixie e street parade in un percorso di musica dal vivo nei luoghi storici della Liberazione. Se ne festeggia-no i 70 anni anche a Radio3 con il concerto Bella ciao e una giornata che coinvolge tutte le trasmissioni. Dalle 21 in diretta da via Asiago a Roma una speciale serata di musica e parole che ripro-pone lo storico spettaco-lo di 50 anni fa con le voci di Lucilla Galeazzi, Elena Ledda, Ginevra Di Marco, i chitarristi Lega e Salvadori, le percussioni di Biolcati, guidati dall’ organetto di Riccardo Tesi. Nella serata Maurizio Donadoni legge il diario dell’intellettuale an-tifascist adi Mario Tutino. Il 28 aprile, lo spettacolo Bella Ciao sarà al Teatro Puccini di Firenze.

Roma - Cuore a nudo era il titolo del suo esordio da so-lista nel 2007 a cui nel 2011 è seguito Ho sognato troppo l’altra notte? Ora Mauro Er-manno Giovanardi ( in arte Joe), fondatore dei La Crus e del gruppo underground Carnival of Fools, torna con un nuovo, seducente, album di inediti prodotto da Produzioni Fuorivia e distribuito da Egea. Il titolo dell’album, Il mio stile, è un omaggio a Leo Ferré . Que-sto nuovo affascinante la-voro si dispiega fra gospel, jazz, cantautorato, raffi-nate incursioni nel punk rock e , ovviamente, nella new wave. Joe presenta il suo nuovo disco il 28 aprile alla Feltrinelli di via Appia Nuova, a Roma e il 29 apri-le alla Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano. Per co-minciare. Maggiori info su: www.lafeltrinelli.it

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8725 aprile 2015

UN GIOCO DA BAMBINI PER DANIEL BUREN

Nuove luci sul teatro romano di Ostia antica

Energiae emozione, alla Irvine Welsh

DANZE COREANE A FABBRICA

EUROPA

PRIMO MAGGIO DI NOTE

Napoli - Il grande artista francese Daniel Buren da sempre crea spazi e imma-gini giocando con forme ge-ometriche e colori. Ma l’in-stallazione creata ad hoc per il Madre è una vera e propria esplosione gioiosa. S’intitola Come un gioco da bambini ed è la prima delle opere che realizzerà per il museo na-poletano nel 2015, celebran-do il rapporto fra il museo e la sua comunità. L’evento, curato da Andrea Viliani ed Eugenio Viola, sarà seguito l’1 maggio dalla prima re-trospettiva italiana di Stur-tevant, artista che nel 1964 iniziò a “ripetere” le opere di altri artisti, a cominciare da alcune personalità tra le più iconiche del suo tempo: Du-champ, Beuys, Warhol, fino a protagonisti di oggi come McCarthy, Kiefer e Gonzalez Torres, per citare solo alcuni esempi. Questa doppia festa organizzata da Electa fa del Madre una vera agorà delle arti. www.madrenapoli.it

Ostia - Su il sipario il 29 aprile sulla nuova stagione di Ostia antica teatro, con la commedia menandrea La donna di Samo, (in replica il7 maggio) per la regia di Silvio Giordani. Mercoledì 6 e il 27 maggio, invece,sarà la volta de I Fratelli (Adelphoe) di Terenzio con Pietro Lon-ghi e Felice Della Corte. Il programma su: www.ostianticateatro.it.

Roma e Taranto - Dal rock al folk, dal pop al rap, dall’in-die al reggae, dal metal all’e-lettronica. Come sempre sarà festa a Roma, al con-certone del primo maggio in piazza San Giovanni, or-ganizzato dalla Cgil con Cisl e Uil. Quest’anno ritmo ed energia con gli Almamegret-ta e vecchie e rimpiante glo-rie come la Pfm, con il jazz- blues partenopeo di Enzo Avitabile. E ancora: Alpha Blondy, Bluvertigo, Brego-vic, Britti, De Sio, e molti altri. A Taranto, invece, sul palco di Michele Riondino e Roy Paci: Subsonica, Mar-lene Kuntz, Caparezza, Nina Zilli, Officina Zoè, Velvet, lo stesso direttore artistico Roy Paci e molti altri. Presenta-no Andrea Rivera e la taran-tina Mietta.

Firenze - Una prima euro-pea apre il festival Fabbrica Europa il 7 e 8 maggio alla Leopolda. Si tratta di Zap della Lee Hee-moon Com-pany (Corea),composta da cantanti, musicisti e dan-zatori provenienti da di-versi ambiti performativi e che unisce suono, vocalità, musica strumentale, danza e tradizione in un percor-so di raffinata contempo-raneità che sa dare nuova forma a storie antiche gra-zie alla messa in scena di An Eun-mi, figura di spicco della danza coreana, che firma regia e coreografia. Un’opera ibrida che propo-ne un viaggio nell’incanto. Il coreografo Sang Jijia fir-ma una nuova creazione per i danzatori della Pao-lo Grassi di Milano e per Spellbound Contemporary Ballet di Roma, sarà dall’8 al 10 maggio, al Teatro Era di Pontedera (Pisa).www.fabbricaeuropa.net

Torino -Torna il fenomeno Irvine Welsh, esploso nel 1993 con Trainspotting. Il suo nuovo libro, Godetevi la corsa, uscito 23 aprile per Guanda promette energia, emozione e una scrittura che colpisce allo stomaco. L’incontro è al Salone off365 il 29 aprile. Meglio prenotar-si: [email protected].

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25 aprile 201588

Agennaio era comparso left nuovo. Dissi imme-diatamente che non era miglioramento, non era ristrutturazione, era una realtà che, prima, non c’era. Ora la memoria tentenna di fronte al ter-

mine verbale: creazione. Il sole di primavera volgeva verso l’alto e venne left. Irrazionale, pensai, dopo tre mesi. Ma non vennero le parole ricreazione o creazione, nuove nel-la loro certezza.

La memoria dipingeva un orizzonte vago e nebbioso come fosse una nuvola rossa. Nel silenzio, suona nella mente il nome di un capo pellerossa che, insieme ad al-tri simili a lui con le penne di tacchino numerose, lunghe e belle, viveva la vita senza razionalità. Guardo di nuovo la lunga massa di capelli di una donna che sono soltanto colore rosso.

Senza ricordi immagino i tempi lontanissimi quan-do l’uomo era cacciatore e guerriero, la donna era nella grotta a fare ed allevare bambini. Nel loro rapporto con la natura selvaggia non costruivano cattedrali per adorare il dio unico. Non avevano papiri per scrivere e racconta-re la loro storia. La donna in silenzio, alla luce del fuoco, dipingeva le pareti rocciose. Non avevano trasformato il mugolio che emetteva la laringe in parole. Non avevano trasformato il suono delle parole dette nei segni silenziosi della scrittura.

Giunse, certamente, il linguaggio articolato che si asso-ciò con la forza fisica del corpo dell’uomo che costruiva con le pietre le mura e gli archi. Si odono i colpi della testa di un martello e soltanto l’ultimo eco del rumore aspro e forte del contatto del ferro con il ferro, sembra che sia più leggero e sottile e fa pensare al sospiro di una donna che sta morendo. La donna restò nella caverna piena di fumo del fuoco che impediva all’ugola di pronunciare pa-role ma faceva la luce evanescente che lasciava libera la fantasia senza ragione che non era ricordo cosciente della mente sveglia.

Torna il pensiero verbale e lascio che vengano ricordi che... ma il suono grosso del martello di Vulcano che, nel fondo della terra fabbrica le armi di Marte ed Achille, colpi-sce e cancella l’ultimo lamento del fiume colore del sangue. Sono le terribili parole: “ritorno al prerazionale” in cui non esistono le consonanti né le vocali per pensare la parola: donna. Si voleva fabbricare l’uomo nuovo con il corpo non umano, senza memoria-fantasia della sensazione avuta.

Ora vengono ricordi che salutano le parole che hanno la verità dell’essere umano che non è coscienza e com-portamento, ma capacità di immaginare. I termini verbali che descrivono immagini sembra somiglino alle pitture rupestri silenziose. Figure di cervi e di tori, che sembrano ricordi di ciò che è stato visto, in verità sono immagini. E viene la parola ricreazione ed una parola sembra appa-rentemente uguale è, in verità, diversa. Metamorfosi e due nomi: Ovidio e Kafka.

Suonano i nomi: Gregorio Samsa, Narciso e Eco. Vedo l’immagine di un uomo che esce dal sonno in cui gli occhi non vedevano il mondo ma non era buio perché la perce-zione del proprio corpo, insetto immondo, non era un so-gno ricordato al risveglio. Vedo lo stagno ed il ragazzo, che fuggiva dalle fanciulle, tenta di abbracciare la figura che sta nell’acqua limpida, cade e affoga. Vengono le parole che seminano angoscia: non riconosceva, allo specchio, l’immagine di se stesso.

Anche left, rinato dopo tre mesi come se fosse una se-conda nascita, tiene con sé l’ultima pagina in cui una bel-la donna è sempre presente. La ninfa Eco ora non ripete più le ultime parole udite. Ella dice: la certezza del volto visto allo specchio dalla coscienza dopo il risveglio, non è la verità. Il neonato diventato grande si guarda allo spec-chio, vede e riconosce se stesso, ride ed ancora non parla. Non ha il ricordo cosciente del proprio volto perché è la prima volta che lo vede.

Si riconosce. Non è coscienza della realtà del corpo percepita nel volto visto. Sa, senza pensiero verbale, che è se stesso. Il volto è una sapienza che è certezza della propria identità, che non è coscienza e ragione. Non è l’immagine di un altro essere umano. Ora pensa e vede, vede e pensa la realtà fuori di sé con la percezione co-sciente. Sembra che non ci sia più la “certezza che esi-ste un seno” che realizzò alla nascita con la capacità di immaginare che è memoria-fantasia della sensazione avuta.

Un tempo lontano scrissi i due termini: percezione deli-rante. Poi dissi: percezione “delirante” del poeta. Poi per-cezione-fantasia. Vennero le parole: significato nella per-cezione. Non era interpretazione, pensiero che, separato dalla percezione, prendeva rapporto con essa. Il senso è nella percezione stessa. La realizzazione del sapere della nascita è, poi, percezione cosciente.

TRASFORMAZIONE

scomparso e il volto perdutoIl corpo

La ricreazione della nascita dà la conoscenza di se stessi

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8925 aprile 2015

Massimo Fagioli psichiatra

Era il

tempo di 2000

anni fa. Ovidio parlò

della perdita del proprio volto. Era il

1915. Dopo l’ipnosi, la ricerca sulla mente senza

coscienza si estendeva. Ma era stato detto che era inco-

noscibile. Narciso non vede se stesso allo specchio. Il linguaggio

di Kafka racconta quanto può acca-dere nella mente umana. Gregorio, al

risveglio, vede se stesso come un insetto immondo. Non era un sogno ma la coscienza

del proprio corpo e, con essa, la perdita della realtà umana. Dice che il sonno era inquieto, ma

era nella veglia che la coscienza non vedeva più la verità umana del proprio corpo. La percezione della

realtà materiale del mondo, fuori da se stesso, era esatta.

Zineb. Guardai la copertina di left e vidi la metà del-lo splendido volto della donna marocchina. Vidi anche, nell’ultima pagina, la linea morbida che disegna il corpo di una donna sconosciuta e so che non è la riproduzione del “percepito” della macchina fotografica. È immagine creata dalla mano di una donna.

Lo sguardo si posa di nuovo sul volto di Zineb, la donna sconosciuta e si ferma sulla metà visibile in cui un occhio luminoso, con la certezza dell’identità, ti guarda... con rimprovero e la bocca è dolce e sembra innamorata. Ha la piega del labbro segnata come le onde del mare e, insie-me alla gota, il naso e l’occhio accusano l’uomo che non ha raggiunto la libertà della mente che non crede ma ama l’essere umano diverso da sé.

La mano si volge verso di lei e le dita fanno scorrere ve-locemente le pagine e, giunte all’ultimo, le aprono e com-pare il disegno di una donna dritta che poggia i piedi su un libro, l’ultimo grande di una scala che scende dall’al-to. Lo stilo che ha fatto la linea disegnando il corpo per-fetto di una donna, scrive “vecchie sfingi... vi sgretolate di fronte al pensiero senza scissioni”. Leggo una forza dell’essere che è pensiero, sempre vietato alla donna.

Immobile, eretta sul grande libro con l’impossibile chioma rossa, dice una sfida che non è più protesta. Non è soltanto il volto, è il corpo che la coscienza, cieca nel rapporto con la donna, non sente che parla. Torna l’at-mosfera rossa come se il sole del tramonto si diffondesse nell’aria. Giunge alla mente sveglia la parola movimento. Ha lasciato alla ragione il termine spazio per dire che la vita del corpo umano è tempo, legato alla parola trasfor-mazione. Non è modificazione della realtà biologica, è continua ricreazione, nel rapporto interumano, delle re-altà non materiali del primo anno di vita, andate perdute.

Gregorio Samsa pensa: Was ist mir geschehen? Cosa mi è acca-duto? Vedeva il corpo come enorme insetto e non lo riconosceva più come proprio. Aveva perduto l’immagine di essere umano, al risveglio dal sonno. E l’afferma-zione è precisa: non era un sogno. Pertanto è necessario pensare che era la coscien-za che vedeva, nella veglia, ciò che non era esistente nella realtà fuori di lui. E lo psichiatra è in difficoltà nel pensare la parola che definisca la malattia mentale. Allucinazione? Depersonalizzazione? Percezione delirante del proprio corpo?

Ricordo il dott. Jekill e Mister Hyde ma so che Stevenson vuole dire che sotto la coscienza e la ragione dell’uomo c’è una bestialità violenta e crudele soprattutto verso la donna. Gregorio Samsa non fa un sogno perché la coscienza, che compare al risveglio, ha alterato il rapporto con il proprio corpo. Non è la mente, che non è coscienza, che invade il pensiero.

Narciso non riconosce se stesso e crede che la sua immagi-ne, sulla superficie dell’acqua, sia un altro essere umano. Diverso quindi da Samsa che “vede” di non essere più un essere umano. Forse pensa, e sarebbe percezione delirante. Narciso ha perduto il volto e crede che, abbracciando un altro uomo, possa ricreare se stesso che, un tempo lontano, aveva riconosciu-to allo specchio. Vede, nella propria imma-gine, un uguale a se stesso che è ricordo cosciente. È riproduzione del percepito dalla coscienza nella veglia, ed è senza fisionomia che è immagine interiore che distingue un essere umano da un altro.

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25 aprile 201590

UN’ALTRA STORIA di MONICA CATALANO

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FAI VINCERE LA TUA SCUOLA CON SANTHÉ E SANFRUIT!Ogni mese da marzo a giugno saranno estratti 5.000 Euro in materiale didattico per le scuole d’infanzia, le primarie e le medie, oltre che per i Comitati Genitori. Partecipare non è di� cile come segnare un gol a Gigi, anzi! Da oggi sino al 31 maggio prossimo basta acquistare almeno un bicchierino da 200 ml di SanThé Sant’Anna o di SanFruit Sant’Anna: per ogni prova d’acquisto spedita, unitamente alla scheda compilata con i propri dati, si potrà indicare la scuola o il Comitato Genitori a cui assegnare il proprio voto. Più prove d’acquisto mandi, più possibilità hai di far vincere chi scegli tu! In più, le scuole e i Comitati Genitori che ricevono più voti nella propria categoria vinceranno 1.500 Euro in materiale didattico e parteciperanno a settembre alla “partitona” con Gigi Bu� on sul campo della Carrarese!

Nome Cognome

Indirizzo N. Città CAP Prov.

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Scuola d’infanzia Scuola primaria Scuola media Comitato Genitori

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Denominazione completa

Regolamento completo e aggiornamento classifiche sul sito www.santanna.it

Manifestazione a favore di Enti o Istituzioni a carattere pubblico con fi nalità sociali/benefi che svolto in applicazione all’art. 6 DPR 430/2001 punto 1 comma e) - Esclusioni da Manifestazioni a premio.

Vota la tua scuola del cuore e vinci la “partitona” finale a settembre con Gigi Buffon sul campo della Carrarese Calcio!

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