Rassegna stampa 19 luglio 2016€¦ · tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi,...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 19 luglio 2016 SOMMARIO “Attenti a quei due” è il titolo dell’editoriale di Fulvio Scaglione su Avvenire di oggi: “«Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta», fa dire la cancelliera Merkel ai suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte «significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea». Il dopogolpe della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai si contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano da Occidente. Angela Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato John Kerry, hanno addirittura legato «il mantenimento dei più alti standard di rispetto per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della legge» alla permanenza della Turchia nella Nato. Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello del potere assoluto, dopo il primo del consenso conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il caso Turchia. Certo, la gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben lontano da ciò che, in termini di applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia, si richiede a un Paese dell’Ue. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina. Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai servizi segreti (nei giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla libera espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili. Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri princìpi. Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo, parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli «alti standard » che ora invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che attraversavano il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi, allora la Nato degli «alti standard» si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non mille anni fa. Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia che abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto. Comunque, dopo aver ottenuto un potere quasi assoluto. In questo clamoroso riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che bada bene a non farsi notare, ma potrebbe intascare un ottimo dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia russo nel novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45 miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore dell’energia. Lo zar e il sultano si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo

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RASSEGNA STAMPA di martedì 19 luglio 2016

SOMMARIO

“Attenti a quei due” è il titolo dell’editoriale di Fulvio Scaglione su Avvenire di oggi: “«Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta», fa dire la cancelliera Merkel ai suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte

«significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea». Il dopogolpe della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai

si contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano

da Occidente. Angela Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica

estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato

John Kerry, hanno addirittura legato «il mantenimento dei più alti standard di rispetto per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della legge» alla permanenza della Turchia nella Nato. Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello

del potere assoluto, dopo il primo del consenso conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il caso Turchia. Certo, la

gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben lontano da ciò che, in termini di

applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia, si richiede a un Paese dell’Ue. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina. Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai servizi segreti (nei

giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla libera

espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili. Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri princìpi. Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo, parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli «alti standard » che ora invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza

della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che attraversavano il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi,

allora la Nato degli «alti standard» si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non

mille anni fa. Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia che

abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto. Comunque, dopo aver ottenuto un

potere quasi assoluto. In questo clamoroso riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che bada bene a non farsi notare, ma potrebbe intascare un ottimo

dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia russo nel

novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45 miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore dell’energia. Lo zar e il sultano si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro

confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo

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impegnata. Meglio non staccare gli occhi da quei due” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Moraglia ringrazia la comunità ebraica Il rabbino Bahbout condanna il sacrilegio del Crocifisso a San Geremia LA NUOVA Pag 19 Sfregio, il Patriarca ringrazia il rabbino per la vicinanza 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 19 Madonna Carmine, messa e processione con le autorità di n.d.l. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Ho da lasciare soltanto l’amore Testamento spirituale del cardinale Silvano Piovanelli Pag 7 Più tempo per l’ascolto All’Angelus il Pontefice sottolinea l’importanza dell’ospitalità come opera di misericordia. Si moltiplicano ricoveri e ospizi ma non sempre si pratica l’accoglienza AVVENIRE Pag 2 Chiesa e Sud, il tempo della concretezza di Angelo Scelzo Case donate dalla curia di Napoli, schiaffo che sveglia Pag 23 L’altare è il cuore della chiesa di Raul Gabriel Prosegue il confronto sull’architettura sacra con lo scultore Gabriel LA REPUBBLICA Pagg 42 – 43 Bartholomeos I: “Nonostante i nemici del dialogo possiamo riunire il mondo cristiano” di Alberto Melloni Intervista al Patriarca di Costantinopoli 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Sposarsi, la missione (im)possibile Massimiliano Valerii: la verità, vi prego, sul matrimonio. Luciano Moia: la svolta può arrivare da scelte controcorrente. Leonardo Becchetti: il mal-essere relazionale 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se a Venezia nessuno fa i conti di Cesare De Michelis Oltre l’Unesco LA NUOVA Pag 19 Braccio riattaccato con lo scotch di Nadia De Lazzari Intervento artigianale del parroco di San Geremia e Lucia dopo il vandalismo ai danni del Crocifisso Pag 19 Quadro conteso tra notaio e vescovo di Giorgio Cecchetti Trittico del 1300 acquistato all’asta dal professionista veneziano per 895 mila euro

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8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Le spose del terrore di Andrea Priante Ingannate, sole, senza casa né denaro. Le storie di Lidia, Hirmet e le altre mogli dei veneti accusati di legami con l’Isis IL GAZZETTINO Pag 8 Unioni gay, Spinea prima in Veneto di Melody Fusaro Gino e Lorenzo: il 3 settembre pronti a tagliare il traguardo del “sì” dopo 41 anni di convivenza Pagg 12 – 13 Nordest, prevalgono le vacanze “casalinghe” di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Il 41% ha già deciso la destinazione, ma la maggioranza (55%) non si sposterà LA NUOVA Pag 12 Meno nati, meno giovani. Il Veneto ha i capelli grigi di Silvia Giralucci Calo di 12 mila residenti, non accadeva dal 1960. La demografa Tanturri: “Bisogna aiutare chi vuole essere genitore” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le 4 ore di silenzio sul golpe di Paolo Mieli Ambiguità occidentali Pag 2 La vendetta del comandante che non può essere giustizia di Dacia Maraini Pag 5 Che golpe è stato? di Lorenzo Cremonesi Pagg 10 – 11 The Donald e la malattia d’America di Richard Ford Un grande scrittore scandaglia il fenomeno Trump Pag 27 Ma ora Europa e Usa non devono tollerare il cinismo di Erdogan di Antonio Ferrari LA REPUBBLICA Pag 1 La vendetta e la paura di Ezio Mauro AVVENIRE Pag 1 Attenti a quei due di Fulvio Scaglione L’Occidente, il “Sultano” e lo “Zar” Pag 5 La grande “decapitazione” di Camille Eid Non solo militari: la mannaia si abbatte pure sui dipendenti pubblici IL FOGLIO Pag 1 Dannata Europa senza Vangelo di Camillo Langone Immigrazione, terrorismo e ascesa del clero neopauperista. Il cattochitarrismo non basta. Perché l’Europa rantola da quando ha rinnegato la sua vera religione Pag 2 Guerra (civile) tra gli imam francesi su islam e stragi jihadiste di Matteo Matzuzzi IL GAZZETTINO Pag 1 La nuova strategia dei reclutatori di Carlo Nordio Pag 2 L’ex ambasciatore Scarante: Bruxelles miope, Ankara può essere un

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pericolo di Maurizio Crema Pag 18 L’identità della Turchia mette a rischio l’Europa di Fabio Nicolucci LA NUOVA Pag 1 Aiuto nero al campione dei bianchi di Alberto Flores d’Arcais Pag 9 Emergenze nell’Europa indebolita di Roberto Castaldi

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Moraglia ringrazia la comunità ebraica Il rabbino Bahbout condanna il sacrilegio del Crocifisso a San Geremia Dopo il sacrilegio compiuto ai danni del crocifisso mandato in pezzi nella chiesa di San Geremia, numerose sono stati le condanne e le prese di posizione. Tra le tante anche quella del Rabbino capo della Comunità ebraica, rav Scialom Bahbout che aveva duramente contestato il gesto compiuto da un cittadino marocchino. Ieri, il Patriarca, mons. Francesco Moraglia è intervenuto per ringraziare Bahbout con una nota ufficiale. «Le Sue parole - scrive mons. Moraglia - rivestono particolare valore perché pronunciate da chi appartiene a un popolo che, in un passato non lontano, ha pagato un prezzo indicibile e inaccettabile all’irrazionalità e all’odio disumani che, talvolta, prendono forma nella storia con una violenza inaudita e non degna dell’uomo. Lo stermino del popolo ebraico, perpetrato nel secolo scorso, rimane una pagina oltremodo buia nella storia dell’Europa del XX secolo, un monito costante al nostro presente e futuro. L’oltraggio a simboli pacifici e cari alla tradizione religiosa dei differenti popoli - come è il Crocifisso per i cristiani - addolora e ferisce profondamente tutti gli uomini e le donne di buona volontà. A Lei, stimato rav Scialom Bahbout, e all’intera Comunità ebraica di Venezia l’augurio della pace del Signore”. LA NUOVA Pag 19 Sfregio, il Patriarca ringrazia il rabbino per la vicinanza Il Patriarca Francesco Moraglia ha trasmesso un messaggio di ringraziamento al rabbino capo Scialom Bahbout per la vicinanza e la solidarietà anche pubblicamente rivolte alla Chiesa veneziana riguardo l'episodio dello sfregio ad un crocifisso nella chiesa dei Ss. Geremia e Lucia, avvenuto giovedì scorso. «Le sue parole» scrive Moraglia «rivestono particolare valore perché pronunciate da chi appartiene a un popolo che, in un passato non lontano, ha pagato un prezzo indicibile e inaccettabile all'irrazionalità e all'odio disumani. L'oltraggio a simboli pacifici e cari alla tradizione religiosa dei differenti popoli - come è il Crocifisso per i cristiani - addolora e ferisce tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Il rispetto dei simboli al di là delle legittime e specifiche differenze religiose - sono un patrimonio comune di libertà da difendere». Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 19 Madonna Carmine, messa e processione con le autorità di n.d.l. Venezia, ieri, ha vissuto momenti di intensa devozione in occasione della solennità della Madonna del Monte Carmelo spostata perché in concomitanza con il Redentore. La celebrazione presieduta dal Patriarca Moraglia con la presenza delle Confraternite

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cittadine e della Corale Broccardo è iniziata con la processione dalla Scuola Grande dei Carmini - fondata il primo marzo 1594 è l'ultima delle otto Scuole Grandi esistenti in città - all'omonima chiesa. Durante la processione il parroco don Silvano Brusamento custodiva tra le mani la reliquia della Madonna del Carmelo. Tra i presenti la presidente del Consiglio comunale Ermelinda Damiano, il questore e le autorità militari della Finanza e della Marina. Nell'omelia il presule partendo dalla figura del primo profeta d'Israele Elia ha parlato della solennità mariana. «Ha origine devozionale biblica ed è antichissima». Poi un accenno all'attualità. Il Patriarca ha detto: «Oggi viviamo nell'epoca del pensiero addomesticato. L'umanità perseguendo queste strade prima di andare contro Dio va contro l'uomo». A conclusione della messa una preghiera davanti al simulacro della Madonna, poi tutti si sono riuniti in patronato per la festa. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Ho da lasciare soltanto l’amore Testamento spirituale del cardinale Silvano Piovanelli È firmato «prete fiorentino» il testamento spirituale che il cardinale arcivescovo emerito di Firenze ha dettato dal convitto ecclesiastico del capoluogo toscano nel giorno della memoria liturgica di sant’Antonio da Padova, meno di un mese prima della morte, avvenuta sabato 9 luglio. Ne pubblichiamo integralmente il testo. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Sono in dirittura di arrivo e tutta la mia vita è rivolta verso il Signore, il quale ha riempito la mia esistenza. Lui solo è stato la luce dei miei giorni. Lui solo non ha abbandonato mai per un istante il mio cammino nel tempo. Il Signore ha talmente accompagnato ogni mio passo che non mi sono mai sentito solo ed è proprio Gesù che ora mi apre le braccia. Posso dire che passo dopo passo Lui è stato al mio fianco e ha riempito la mia mente, il mio cuore, tutto di me. Attraverso di Lui ho sentito di essere fratello di tutti gli uomini, particolarmente dei poveri, dei malati e delle persone sole ed abbandonate. Io sono nato povero e nonostante una vita piena di contatti con tante persone, tante situazioni e nonostante il mio percorso nella Chiesa, sono rimasto povero e quindi non ho nulla da lasciare; ho da lasciare soltanto amore; l’amore con cui ho cercato di incontrare gli altri; e ora che sono ai momenti ultimi della mia vita intendo fare, mettendo tutto nelle mani di Dio, il dono di me al Signore. È un dono rinnovato e sento che il Signore sta per accoglierlo. Pensando a quanto il Signore ha sofferto per noi e per me, povero peccatore, devo dire che Lui, abbandonato sulla croce, mi sta risparmiando tanta sofferenza; Lui crocifisso e sanguinante, io curato e assistito da tanta delicatezza e affetto. Devo dire grazie in mille modi, è la mia Eucaristia. Non so se potrò celebrare ancora una messa, ma sento che ora l’offerta della mia vita diventa vera Eucaristia. Desidero, anzi voglio, che la mia esistenza sia Eucaristia: ringraziamento per tutti, a cominciare dai sacerdoti a cui ho sempre voluto bene; a tutti, senza lasciar da parte nessuno. Ai sacerdoti fiorentini vorrei dare un abbraccio, ai singoli, dal caro vescovo Giuseppe mio successore fino all’ultimo ordinato, ringraziandoli per quello che fanno e hanno fatto per il popolo di Dio. Vi dico: crescete nell’amore verso Gesù Cristo e verso i poveri, i malati, i piccoli, gli ultimi. E vogliatevi bene tra di voi. Non dimenticate mai quello che il Signore ha detto attraverso l’apostolo Giovanni: «Amatevi come io vi ho amato». Offro la mia vita perché il sacerdozio ministeriale sia vissuto proprio come un generoso, totale, entusiasta dono di sé al popolo di Dio, il popolo che il Signore ci ha affidato. Alle persone consacrate, le monache e i monaci di clausura, le religiose e i religiosi desidero dire, augurare, pregare perché il Signore sempre più diventi l’unico della loro vita. E allargo le braccia per stringere nell’affetto ognuna e ognuno di voi. Ai laici, al popolo di Dio, in mezzo ai quali ho trovato tante tracce di santità, perlopiù nascosta e anonima, dico di fidarsi sempre di Dio e guardare a Lui solo per far crescere l’edificio, di cui sono pietre vive, ognuna essenziale e complementare per la costruzione del corpo di Cristo che è la Chiesa. Io sono stato soltanto e sempre fiorentino. Il Signore mi ha tenuto soltanto a Firenze, dal

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seminario come alunno prima e come vicerettore poi, alle parrocchie di Rifredi e di Castelfiorentino, fino all’episcopato e allora è chiaro che io voglio offrire la mia vita per questa città e per questa amata cara diocesi. Che Firenze diventi quello che nella storia l’ha fatta città unica di bellezza, immagine così toccante della Gerusalemme celeste. Mi è sempre parso che la città di Firenze esprimesse nel più bello dei modi proprio la Gerusalemme celeste. Giunto a questo momento sono tanti i volti di persone che si affollano nella mia mente, che sono stati per me dono e grazia. Dai miei genitori, da tempo defunti, al mio fratello Paolo, morto alcuni anni fa: sono stati per me esempio di vita, di fede e di onestà. Mi scorrono davanti agli occhi particolarmente i volti di tanti preti che ci hanno lasciato, tanti fratelli e amici coi quali ho condiviso la straordinaria avventura del sacerdozio ministeriale. Non posso non ricordare in questo momento il venerato cardinale Elia Dalla Costa, che mi ha accolto in seminario e mi ha ordinato sacerdote e che è stato per la mia vita un testimone dell’assoluto della fede pura e profonda. Insieme a lui ricordo il caro cardinale Ermenegildo Florit che mi ha fatto fare l’esperienza esaltante della parrocchia che è stata per me la scuola per la Parola di Dio e per l’accoglienza, l’accompagnamento e la condivisione della vita di tanta gente. Non posso poi dimenticare il dono che il Signore ha fatto alla mia vita facendomi incontrare nei 10 anni da vicerettore in seminario monsignor Enrico Bartoletti e poi la grazia di essere stato collaboratore di monsignor Giulio Facibeni. Il cardinale Giovanni Benelli lo porto particolarmente nel mio cuore, lui che mi volle al suo fianco come vicario e come vescovo ausiliare, facendomi fare, al suo fianco, un’altra esperienza esaltante, quella della visita pastorale. E ancora il santo Papa Giovanni Paolo II che mi donò la sua amicizia e il suo fraterno conforto quando, nonostante la mia indegnità e le mie obiezioni, fortemente volle che diventassi vescovo di questa amata diocesi fiorentina e poi mi annoverò nel collegio cardinalizio; quanti fratelli vescovi e cardinali defunti stanno scorrendo nella mia mente in questi momenti, tanti fratelli e amici! Desidero confermare il mio profondo attaccamento alla Sede Apostolica: il caro Papa emerito Benedetto e il caro, amato Papa Francesco, che in diverse occasioni mi ha dimostrato la sua amicizia e che proprio in questi giorni mi ha ribadito personalmente la sua affettuosa vicinanza. I miei successori Ennio e Giuseppe li porto nel cuore e particolarmente al mio vescovo Giuseppe voglio consegnare queste parole, che sto dettando al mio segretario don Luigi, ribadendogli la mia fedeltà e il mio amore per la Chiesa fiorentina a lui affidata. Un ultimo pensiero ai miei familiari: la mia cara cognata Cesarina, che ha speso la sua vita per la mia persona e a cui ho domandato tanta pazienza: che il Signore la rimeriti per il bene che ha fatto alla Chiesa prendendosi cura di questo povero vescovo pieno di imperfezioni; i miei nipoti Antonella e Luca e i loro figlioli: vogliatevi bene e fidatevi sempre del Signore. La maggior parte dei volti che si affollano ora nella mia mente sono già nelle mani di Dio e sto guardando verso di loro, certo che mi vorranno accogliere tra di loro. Ora che sono in dirittura di arrivo però non mi volto indietro se non per ringraziare e corro verso il Signore per lasciarmi abbracciare totalmente da Lui. Miserere. Amen. Alleluia. Pag 7 Più tempo per l’ascolto All’Angelus il Pontefice sottolinea l’importanza dell’ospitalità come opera di misericordia. Si moltiplicano ricoveri e ospizi ma non sempre si pratica l’accoglienza «Oggi siamo talmente presi, con frenesia, da tanti problemi che manchiamo della capacità di ascolto. Vi chiedo di imparare ad ascoltare e di dedicarvi più tempo». Perché «nella capacità di ascolto c’è la radice della pace». Lo ha sottolineato il Papa all’Angelus del 17 luglio recitato con i numerosi fedeli presenti in piazza San Pietro. Commentando il vangelo domenicale incentrato sulle figure di Marta e di Maria, il Pontefice ha parlato dell’importanza dell’ospitalità, come opera di misericordia. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nel Vangelo odierno l’evangelista Luca racconta di Gesù che, mentre è in cammino verso Gerusalemme, entra in un villaggio ed è accolto a casa di due sorelle: Marta e Maria (cfr. Lc 10, 38-42). Entrambe offrono accoglienza al Signore, ma lo fanno in modi diversi. Maria si mette seduta ai piedi di Gesù e ascolta la sua parola (cfr. v. 39), invece Marta è tutta presa dalle cose da preparare; e a un certo punto dice a Gesù: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a

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servire? Dille dunque che mi aiuti» (v. 40). E Gesù le risponde: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (vv. 41-42). Nel suo affaccendarsi e darsi da fare, Marta rischia di dimenticare - e questo è il problema - la cosa più importante, cioè la presenza dell’ospite, che era Gesù in questo caso. Si dimentica della presenza dell’ospite. E l’ospite non va semplicemente servito, nutrito, accudito in ogni maniera. Occorre soprattutto che sia ascoltato. Ricordate bene questa parola: ascoltare! Perché l’ospite va accolto come persona, con la sua storia, il suo cuore ricco di sentimenti e di pensieri, così che possa sentirsi veramente in famiglia. Ma se tu accogli un ospite a casa tua e continui a fare le cose, lo fai sedere lì, muto lui e muto tu, è come se fosse di pietra: l’ospite di pietra. No. L’ospite va ascoltato. Certo, la risposta che Gesù dà a Marta - quando le dice che una sola è la cosa di cui c’è bisogno - trova il suo pieno significato in riferimento all’ascolto della parola di Gesù stesso, quella parola che illumina e sostiene tutto ciò siamo e che facciamo. Se noi andiamo a pregare - per esempio - davanti al Crocifisso, e parliamo, parliamo, parliamo e poi ce ne andiamo, non ascoltiamo Gesù! Non lasciamo parlare Lui al nostro cuore. Ascoltare: questa è la parola-chiave. Non dimenticatevi! E non dobbiamo dimenticare che nella casa di Marta e Maria, Gesù, prima di essere Signore e Maestro, è pellegrino e ospite. Dunque, la sua risposta ha questo primo e più immediato significato: “Marta, Marta, perché ti dai tanto da fare per l’ospite fino a dimenticare la sua presenza? - L’ospite di pietra! - Per accoglierlo non sono necessarie molte cose; anzi, necessaria è una cosa sola: ascoltarlo - ecco la parola: ascoltarlo -, dimostrargli un atteggiamento fraterno, in modo che si accorga di essere in famiglia, e non in un ricovero provvisorio”. Così intesa, l’ospitalità, che è una delle opere di misericordia, appare veramente come una virtù umana e cristiana, una virtù che nel mondo di oggi rischia di essere trascurata. Infatti, si moltiplicano le case di ricovero e gli ospizi, ma non sempre in questi ambienti si pratica una reale ospitalità. Si dà vita a varie istituzioni che provvedono a molte forme di malattia, di solitudine, di emarginazione, ma diminuisce la probabilità per chi è straniero, emarginato, escluso di trovare qualcuno disposto ad ascoltarlo: perché è straniero, profugo, migrante, ascoltare quella dolorosa storia. Persino nella propria casa, tra i propri familiari, può capitare di trovare più facilmente servizi e cure di vario genere che ascolto e accoglienza. Oggi siamo talmente presi, con frenesia, da tanti problemi - alcuni dei quali non importanti - che manchiamo della capacità di ascolto. Siamo indaffarati continuamente e così non abbiamo tempo per ascoltare. E io vorrei domandare a voi, farvi una domanda, ognuno risponda nel proprio cuore: tu, marito, hai tempo per ascoltare tua moglie? E tu, donna, hai tempo per ascoltare tuo marito? Voi genitori, avete tempo, tempo da “perdere”, per ascoltare i vostri figli? o i vostri nonni, gli anziani? - “Ma i nonni dicono sempre le stesse cose, sono noiosi...” -. Ma hanno bisogno di essere ascoltati! Ascoltare. Vi chiedo di imparare ad ascoltare e di dedicarvi più tempo. Nella capacità di ascolto c’è la radice della pace. La Vergine Maria, Madre dell’ascolto e del servizio premuroso, ci insegni ad essere accoglienti e ospitali verso i nostri fratelli e le nostre sorelle. Al termine della preghiera mariana Francesco è tornato con il pensiero alla strage di Nizza e ha salutato i vari gruppi di fedeli presenti. Cari fratelli e sorelle, nei nostri cuori è vivo il dolore per la strage che, la sera di giovedì scorso, a Nizza, ha falciato tante vite innocenti, persino tanti bambini. Sono vicino ad ogni famiglia e all’intera nazione francese in lutto. Dio, Padre buono, accolga tutte le vittime nella sua pace, sostenga i feriti e conforti i familiari; Egli disperda ogni progetto di terrore e di morte, perché nessun uomo osi più versare il sangue del fratello. Un abbraccio paterno e fraterno a tutti gli abitanti di Nizza e a tutta la nazione francese. E adesso, tutti insieme, preghiamo pensando a questa strage, alle vittime, ai familiari. Preghiamo prima in silenzio... [Ave Maria...] Saluto con affetto tutti voi, fedeli di Roma e di vari Paesi. In particolare, dall’Irlanda, saluto i pellegrini delle diocesi di Armagh e Derry, e i candidati al Diaconato Permanente della diocesi di Elphin, con le loro mogli. Saluto il Rettore e gli studenti del secondo anno del Pontificio Seminario Teologico Calabro “San Pio X”; i ragazzi di Spinadesco (diocesi di Cremona); i giovani della Comunità Pastorale dei Santi Apostoli in Milano; i ministranti di Postioma e Porcellengo (diocesi di Treviso). E vedo lì anche i bravi fratelli cinesi: un grande saluto a voi, cinesi!

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A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci. AVVENIRE Pag 2 Chiesa e Sud, il tempo della concretezza di Angelo Scelzo Case donate dalla curia di Napoli, schiaffo che sveglia Napoli non conosce le mezze misure. Nel male ma, ancora più spesso, nel bene. Per queste due vie estreme passa tuttora la sua storia grande e tormentata, intorno alla quale continua ad attorcigliarsi il filo di una cronaca che non dà requie. Non c’è emergenza che qui non abbia messo le tende: Napoli è la patria di tutti gli eccessi. Chi la conosce sa che è difficile sfuggire a una realtà forgiata proprio dal confronto senza respiro, e a colpi bassi, tra i vizi e le virtù. Fu Benedetto Croce, la cui passione era proprio Napoli, a riesumare il dileggio medievale del «paradiso abitato da diavoli», per dar conto della misura del contrasto e della contrapposizione sulle quali, tuttavia, la città ritrova il suo pur precario equilibrio. La normalità passa lontano da orizzonti simili e, non a caso, non è neppure contemplata e tantomeno riconosciuta. Avviene così che quando il male dilaga e sembra invadere tutto il terreno, ecco profilarsi l’ostacolo imprevisto, che manda tutto all’aria. Il baratro è sempre stato a due passi, ma lì è poi rimasto: minaccioso, incombente, ancora a bocca vuota. Conoscere Napoli però non basta. Se alla città si vuol bene (e il bene ancora più forte che si dà a figli irrequieti e scapestrati) occorre anche altro: per esempio, la capacità di non accontentarsi dell’ordinario, di dare un senso forte e virile alla sfida contro i suoi tanti 'mali'. L’amore della Chiesa di Napoli per la sua città è antico e a prova di una vena di santità che mai si è esaurita. Ma il gesto del suo pastore di oggi, il cardinale Crescenzio Sepe che ha deciso di donare gli alloggi di proprietà della curia agli inquilini indigenti, apre un capitolo nuovo: è a suo modo una provocazione, lo schiaffo che anche il bene sa dare quando è messo alle corde, e perciò ricorre a tutte le proprie risorse, una forza di dentro che mai viene a mancare. La Chiesa di Napoli non ha fatto fatica a essere se stessa. E quel gesto non vale solo come via d’uscita, o mezzo di provvisorio contrasto agli innumerevoli problemi della città. Dietro non c’è la strategia di una pur apprezzabile economia virtuosa, bensì una Lettera pastorale, la terza nell’ambito di un «Giubileo per la città» che, qui, dà ora maggior forza al Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco. Vestire gli ignudi. Avvolgerli di tenerezza e dignità è il titolo del documento di Sepe. Che c’entra con la nudità, verrebbe da dire, la donazione degli alloggi di curia? Anche il bene può avere i suoi abissi, nel senso di profondità, ed è questa che aiuta a capire come la nudità non è solo assenza di indumenti, ma carenza dei bisogni primari, come appunto la casa, mancanza di sostegno e protezione sociale soprattutto per gli ultimi della fila. Il bene, sì, ma insieme alla volontà di andarlo a cercare, alla fantasia di poterlo applicare, all’accortezza di non burocratizzare la carità e tenerla pronta per tutti gli usi. Anche sotto il profilo sociale e, per così, dire politico. Nella Lettera c’è una chiamata a raccolta di tutto i vescovi del Mezzogiorno per un’azione comune contro le emergenze che minano i tentativi di riscatto sociale della parte più povera del Paese. L’incontro avverrà in autunno. Non si tratterà, è stato precisato, di una sessione di studi. Le necessità e i bisogni sono sotto gli occhi di tutti. Non è più tempo di analisi, ma di concretezza. E se è Napoli a guidare il nuovo cammino, significa davvero che le opere di misericordia sono diventate i capisaldi della sua storia come 'storia della carità'. C’è la mano (e il cuore) di Francesco in questa Chiesa sempre più in uscita e accanto, ma anche il legame vivo con Benedetto e, ripensando al Grande Giubileo del Duemila, e al ruolo che vi ebbe Sepe, la grande eredità di san Giovanni Paolo II, il Papa della «speranza di Napoli». La speranza è in buone mani. Pag 23 L’altare è il cuore della chiesa di Raul Gabriel Prosegue il confronto sull’architettura sacra con lo scultore Gabriel Il cardine di una chiesa cattolica è l’altare. Sintesi di tutti i significati e motivo stesso di esistenza. Alpha e Omega cronologico, origine di sostanza e struttura. Altare è la genesi stessa di quella carne che incarna l’architettura. Fatto sostanzialmente ignorato. L’altare per una chiesa cattolica è il cuore pulsante. Tutta la sua realizzazione dovrebbe

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espandersi da quel cuore. Invece è trattato come la suppellettile più o meno estrosa di un salotto borghese, noiosa appendice necessaria a soddisfare gli obblighi contrattuali o lo sfogo marginale del creativo di turno. Altare e simboli sono essenziali in una chiesa, e non per una mera ragione compositiva o un equilibrio di volumi. Lo sono per la ragione stessa di essere chiesa. Questo sembra altrettanto scontato almeno quanto è evidente la insignificanza e tristezza della maggior parte dei presbitèri che vengono realizzati. Annichiliti da strutture che dovrebbero essere completamento, non finalità. In una totale indifferenza al significato. Allora a che serve fare chiese? Realizzare omaggi a un assemblaggio di maniera del contemporaneo, non fecondato dal significato? Ripetizione, copia, accademia, estrosità fine a se stessa, testimoniano nella pratica che una cultura non è più in grado di rigenerare, reinventare, rendere attuale e presente la vitalità del suo messaggio. Una chiesa come ogni opera, ogni costruzione, ogni luogo, agisce per osmosi, al di la delle parole. E se è finta, omaggio all’assenza, esercizio di stile, trasferisce immediatamente queste percezioni al suo contenuto. Nei progetti che ho affrontato tutto questo è stato anche provocatoriamente entusiasmante. Venendo dall’arte contemporanea senza essere mai stato a contatto con una realtà che invece molti praticano come mestiere, mi sono chiesto se era possibile trasferire l’energia diretta di un’opera di poesia al pensare una chiesa. Pensare la forma come il meraviglioso accidente che permette di incontrare la intuizione nella sua stessa metodologia. Immaginare un’origine, il seme di ciò che ho trovato già fatto. Pensare quale fulcro potesse essere il punto di espansione di tutta la chiesa già costruita. Altare e simboli, geometrie pavimentali, vetrate e portali, connessi nell’architettura in una unità che è essenziale. Una chiesa non è un museo, non è un luogo di raccolta incidentale di oggetti delle mode o del gusto, o coordinati al tipo di arredamento che hanno i frequentatori e magari finanziatori di quella chiesa. Non è questo che si intende con la parola identità. Una chiesa come ogni opera artistica autentica dovrebbe essere un progetto di gioia, un fiume impetuoso che trova i suoi argini che ne aumentano la potenza. Come si può pensare che squadre di professionisti assemblati in forma amministrativa, spesso solo per vincere un concorso, e che magari leggono come in un “bugiardino” farmaceutico le prescrizioni contrattuali, abbiano la tensione giusta per affrontare un percorso di questo tipo? La metodologia non può essere primariamente normativa. Deve essere primariamente di amore comune. La visione non è un capitolato edilizio. I committenti dovrebbero per primi esserne coscienti. La visione non si accontenta della mediocrità. Deve in- contrare la genialità, la qualità. Ma la genialità che si confronta con un luogo fortemente connotato, deve avere in sé un germe di quel percorso, di quella origine. Perché la genialità, se ha qualità, non viene a patti. Si esprime. E se non ha in sé una qualche appartenenza a quella identità, più è geniale e più esprimerà altro. Arrivando anche a negare il senso stesso di quel luogo. È un dato di fatto fisico, corporeo. Molte chiese sembrano in effetti asettici apparati agnostici e polifunzionali, negazione della corporeità non perché utilizzano una idea vagamente e volgarmente definita astrazione, ma perché sono volutamente negazione di vitalità, confezione pastorizzata di una non ben definita propensione funzionalista e sociologica. Non coinvolgono, permettendo a chi le frequenta quella distratta indifferenza che si vende per superiorità culturale. Tutto a favore del non disturbare. Devastante per il senso corporeo della fede senza cui il cattolicesimo non ha senso. Ma devastante anche per poter ripensare un rinnovato umanesimo in senso puramente laico. Ma una chiesa cattolica dovrebbe essere corpo. Il corpo anticipa la mente nella conoscenza, in una meravigliosa pedagogia che prepara all’incontro. Il corpo è veicolo, ma molto di più: è l’eredità in anticipo del percorso a venire. Corpo non è necessariamente figura e neanche la sua negazione. Corpo è vibrazione vitale. Meravigliosa interstessi ferenza che permette di non essere una linea piatta. L’idea di incorporeità è utopia di inesistenza. Il corpo è imprendibile, sempre in processo, e non è semplice trasferirne l’essenza, fissarla in un oggetto. Non credo vi sia una formula stilistica. Ma ovunque si percepisca freddezza, eccesso di rifinitura, figurinismo da vetrina, la corporeità non passa. E non aiutano le perline colorate degli effetti tecnologici, già cosi obsoleti, con possibilità infinite di creare oleografie caleidoscopiche e copie perfette. La malattia del “contemporaneismo” genera gli danni dell’artigianato seriale, endemico come la povertà di ispirazione genuina. È fondamentale rigenerare il significato dei termini. Su alcune chiese da concorso ho sentito parlare di equilibrio tra emotività e rigore. Per certi versi è

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anche corretto. L’errore sostanziale è che quell’accezione di equilibrio e rigore si avvicina molto più a una stasi da rigor mortis. La vita è flusso, sbilanciamento, costante ridefinizione di esondamenti sempre imprevedibili e sorprendenti. La vita non è il bianco asettico e “minimal chic” di un sudario geometrico, è il colore, la forza e la incontenibilità dei fluidi e dello scorrere a volte impetuoso che ridefinisce le forme e le modella costantemente. Nella chiesa di Olmo, dove ho realizzato il mio intervento, avevo ben presente che il sangue e l’acqua, motivi ispiratori del progetto, non escono controllati in blister monodose ma come un fiotto incontenibile: che giungano dalla esplosione della nascita di un bambino e dalla ferita di un costato. Quel fiotto incontenibile è la garanzia della nostra vita, il dono che abbiamo in eredità, è la forza inarrestabile che comunque agisce. La rigidità formale e accademica è segno di un profonda avversione verso quel provvidenziale sconvolgimento vitale che l’Incontro continua a generare. LA REPUBBLICA Pagg 42 – 43 Bartholomeos I: “Nonostante i nemici del dialogo possiamo riunire il mondo cristiano” di Alberto Melloni Intervista al Patriarca di Costantinopoli Bartholomeos I, ha un titolo lunghissimo: Arcivescovo di Costantinopoli Nuova Roma e Patriarca Ecumenico. È stato uno dei protagonisti del dialogo ecumenico fin dai tempi del Patriarca Athenagoras, l'uomo dell'abbraccio con Paolo VI. Quando ci si rivolge a lui lo si chiama "Panaghiotatos", cioè Ogni-Santità: quando parla di sé, dice "la Nostra Modestia". Siede sul trono di Andrea da 25 anni: eletto sotto le strettissime maglie della legge di Ankara, che chiede che il Patriarca sia di cittadinanza turca, ha vissuto la fase "costantiniana" della presidenza Erdogan, che gli restituì il monaste ro di Sumela e la scuola teologica di Halki; e ora si appresta a vivere la dura stagione antigolpista, le cui conseguenze sulla vita del Patriarcato sono ancora incerte. Il 27 giugno s'è concluso a Creta il "Concilio Grande e Santo" della chiesa ortodossa. Nonostante il forfait di alcune Chiese, un evento epocale, costruito con pazienza e fede, attraverso strumenti antichi e nuovi: qual è la ragione per cui ha voluto questo evento? «Il Concilio Grande e Santo è stato il frutto di una lunga preparazione e la conseguenza di una decisione panortodossa, presa sin dagli inizi del XX secolo. Non è stato qualcosa di nuovo in quanto generazioni di fedeli ortodossi sono cresciute con questo sogno: ovverosia la convocazione del Concilio "Grande e Santo". Ma la effettiva preparazione del Concilio ha avuto inizio nel 1961, con la prima conferenza preconciliare panortodossa di Rodi, che ha gettato le basi organizzative di tutto il processo preconciliare. I passi successivi sono stati la convocazione delle "commissioni" preparatorie preconciliari e delle "conferenze" preparatorie preconciliari: nel 2015 s'è tenuta l'ultima conferenza panortodossa. Vorrei a questo proposito sottolineare che proprio dopo la mia elezione 25 anni fa al soglio dell'Apostolo Andrea, incominciammo le sinassi [cioè i summit, ndr] dei Patriarchi e Primati delle Chiese Ortodosse: un istituto nuovo, che rientra nel contesto della sinodalità. La convocazione dunque, da parte della Nostra Modestia e con il concorde parere degli altri primati delle Chiese Ortodosse, del Grande e Sacro Concilio panortodosso non è stata una decisione personale, ma è stata un' iniziativa, che esprimeva la maturazione e la necessità della convocazione di questo concilio, affinché si realizzasse il sogno di generazioni di fedeli, al fine di affrontare e dare una risposta ad alcune questioni fondamentali della Chiesa Ortodossa. Perciò, come dice il comunicato della Sinassi dello scorso gennaio a Ginevra, "i partecipanti 'facendo la verità nella carità' secondo la parola apostolica, (Ef. 4,15) hanno operato pervasi da uno spirito di concordia e di comprensione. I Primati hanno di conseguenza confermato la loro decisone, perche il Concilio sia convocato da16 al 27 di Giugno del 2016"». Qual è stata e quale sarà la portata del Concilio per la Chiesa Ortodossa e cosa sta a cuore al Pariarca Ecumenico adesso che il Concilio è stato celebrato? «Il Concilio costituisce un mezzo di autodeterminazione della stessa Chiesa e un mezzo per il suo rinnovamento. Come ho ribadito nell'omelia di apertura dei lavori del Concilio, "non si tratta di una semplice tradizione canonica, che abbiamo ricevuto e conservato, ma si tratta di una fondamentale verità teologica e dogmatica, senza la quale non c'è salvezza. Confessando la nostra fede espressa nel sacro Simbolo [il Credo, ndr], nella Chiesa una santa cattolica e apostolica, si dichiara allo stesso tempo fede nella sua

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sinodalità, che incarna nel corso della storia tutte le proprietà del mistero della Chiesa, vale a dire l'unità, la santità, l'universalità e apostolicità di questa". La Chiesa Ortodossa ha trascorso un lungo periodo senza riuscire di convocare un Concilio di tale portata, soprattutto a causa degli sconvolgimenti politici del secolo scorso. Il Concilio Grande e Santo non ha avuto carattere di Concilio Ecumenico e non si è trattato neanche di un Concilio che mirasse ad affrontare questioni dogmatiche o di fede. Per questo motivo le tematiche sono state circoscritte, sono state preparate, elaborate e trasformate durante i lavori preconciliari, e sono state portate innanzi all'assemblea convocata per discuterle. La Chiesa Ortodossa, secondo la prevalente prassi panortodossa, deve nel suo insieme attuare le decisioni che sono state prese, come pure tutte le proposte e i punti di vista che sono contenuti nell'Enciclica Sinodale. Secondo quanto è stato deciso nel corso dell'ultima Sinassi dei primati di Gennaio 2016 a Chambesy, ogni Chiesa Autocefala Ortodossa valorizzerà in modo appropriato i testi approvati e l'Enciclica Sinodale. Il Concilio, attraverso i testi elaborati ed approvati, è riuscito a rispondere con successo alle esigenze del moderno mondo cristiano Ortodosso, procedendo all' analisi e alla soluzione dei quotidiani problemi pastorali, come, per esempio, i matrimoni misti, le relazioni con i cristiani di confessione non Ortodossa e l'importanza del dialogo intercristiano ed interreligioso. La presenza di osservatori di Chiese non Ortodosse e delle organizzazioni cristiane [il Consiglio ecumenico delle Chiese, ndr], è un esempio concreto dell'importanza che attribuisce la Chiesa Ortodossa alla collaborazione con gli altri cristiani. Il Patriarcato Ecumenico, come primo Trono, avendo la responsabilità di coordinare le relazioni e il dialogo intercristiano ed interreligioso, segue con immutato interesse il cammino della testimonianza del Vangelo. Una testimonianza espressa nel corso della storia travagliata del patriarcato ecumenico da figure come i padri della chiesa Giovanni Crisostomo e Gregorio il Teologo, Geremia il Grande (il patriarca che nel XVI secolo rispondendo alle richieste di Melantone disse: "Basta con altri scismi tra i cristiani") e nell'era moderna con Ioakim III a inizio secolo scorso ed Athenagoras negli anni Sessanta». Al Concilio hanno partecipato oltre i due terzi delle Chiese: ma cosa riceveranno le Chiese non Ortodosse dal Concilio di Creta? «In verità la Chiesa Ortodossa attraverso questo Concilio ha acquisito la possibilità di rivolgersi con maggiore autoconvinzione alla società moderna ed esprimersi con un'unica voce su questioni relative alla collaborazione e cooperazione con le altre Chiese cristiane e con le altre religioni. In particolare le Chiese Ortodosse Autocefale, lì dove coesistono con altre Chiese Cristiane e confessioni e le altre religioni, si prestano all'instaurazione di uno spirito di pace e convivenza attraverso il dialogo e il confronto quotidiano, in un mondo oggi flagellato dalle guerre, dal terrorismo e dalla instabilità politica. Come si recita all'Enciclica Sinodale del Concilio Grande e Santo "la Chiesa Ortodossa ha sempre dato grande importanza al dialogo ed in modo particolare a quello con i cristiani di diversa confessione. Attraverso questo dialogo il mondo cristiano non Ortodosso ha preso migliore conoscenza dell'Ortodossia e dell' autenticità della sua tradizione. Noi crediamo che, oltre al prosieguo del dialogo teologico bilaterale con la Chiesa Cattolica di Roma, vi sia uno spazio per comuni azioni e ed iniziative, come l'ultima visita a Lesbo,effettuata insieme al fratello Papa Francesco, espressione minima ma esemplare di solidarietà ai rifugiati"». Nel secolo scorso il movimento ecumenico ha seminato nelle Chiese una attesa di unità: un sogno che ha dei nemici. Fra nove anni si celebrerà il XVIII centenario del primo concilio ecumenico: quali sono i progressi che si aspetta? «Il primo Concilio Ecumenico a Nicea nel 325 costituisce una tappa essenziale dell'espressione della sinodalità della Chiesa. Con questo mezzo la Chiesa ha assicurato la sua identità ed è stata protetta nel corso dei secoli da divergenze dogmatiche e dottrinali. Dopo lo scisma del 1054, la Chiesa non ha cessato di riporre fede in Dio per la piena unità: e per questo ha proseguito il dialogo costruttivo. Purtroppo, due importanti concili - quello di Lione nel 1274 e di Ferrara e Firenze nel 1438-9 - non riuscirono a sanare le divergenze tra la Chiesa di Oriente e di Occidente, con il risultato del persistere, sino ai nostri giorni, di questa divisione. Naturalmente questa è una vergogna per noi cristiani e non si dovrà mai smettere di cercare di ristabilire l' unità "affinché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo" (Ef 4,13). Accontentarsi

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di quanto abbiamo già avuto ci conduce all'apatia e all'oblio, o ancora peggio al rifiuto di dialogare con i nostri fratelli cristiani. Questo costituisce un grande peccato ed esprime la nostra massima disobbedienza alla volontà di Dio per l'unità. Per la grazia dello Spirito Santo, le persone che nel nostro tempo sono state chiamate ad offrire la loro diaconia al servizio della Chiesa, sono pervase dalla necessaria nobiltà e sensibilità spirituale, così da potersi esprimere con maggiore fede e fiducia in favore dell'unità dei cristiani. Questa volontà è stata molto viva e forte all'inizio dei dialoghi teologici bilaterali del secolo scorso, nonostante le voci maligne che hanno cercato di silurare questo sforzo. Finora siamo riusciti a trovare un ritmo costante di comunicazione e un metodo di analisi teologica: essi costituiscono strumenti necessari per la nostra cooperazione pratica in materia di riflessione teologica. Naturalmente, non mancano voci provenienti da tutte le Chiese cristiane che auspicano l’interruzione di questo dialogo: ma non bisogna dimenticare però che questo sarebbe particolarmente gradito al Denigratore [il Diavolo, ndr] il quale desidera la divisione e "denigra" [in greco: "diavola", ndr] ogni opera che mira all'unità e compiere un comune cammino. La Chiesa Ortodossa, da parte sua, ha fede in Dio e con ottimismo continuerà i dialoghi teologici, soprattutto con la sorella Chiesa cattolico-romana. Noi crediamo che nei prossimi anni ci saranno significativi progressi. Non sarebbe saggio mettere limiti di tempo al nostro dialogo, e non si deve lavorare con i criteri e le regole secolari. Crediamo che dobbiamo dialogare con sincerità e senso di carità e continuare a pregare molto, perché con la grazia di Dio, quando Lui lo vorrà, ci si avvii a risolvere le nostre controversie e a raggiungere così la tanto desiderata unità». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Sposarsi, la missione (im)possibile Massimiliano Valerii: la verità, vi prego, sul matrimonio. Luciano Moia: la svolta può arrivare da scelte controcorrente. Leonardo Becchetti: il mal-essere relazionale (Massimiliano Valerii) Siamo davvero destinati a diventare una società a matrimoni zero? Di qui ai prossimi anni, le nozze in Chiesa saranno solo un ricordo e le relazioni sentimentali saranno più fragili perché vissute senza sposarsi? E questa tendenza costituisce una minaccia al ruolo fondamentale che la famiglia ha svolto nello sviluppo sociale del Paese? Parafrasando W.H. Auden: la verità, vi prego, sul matrimonio. Lo studio del Censis diffuso in questi giorni analizza, in effetti, una crisi dell’istituto matrimoniale che appare epocale per gli sposalizi celebrati con rito religioso e in forte accelerazione anche per quelli civili. Nel 1974 nel nostro Paese i matrimoni erano stati 403mila, nel 2014 si sono ridotti a meno di 190mila (53%). I matrimoni religiosi, in particolare, sono stati 108mila nell’ultimo anno, il 54% in meno rispetto a vent’anni fa, il 71% in meno dal 1974. Oggi le nozze in Chiesa costituiscono il 57% di tutti i matrimoni celebrati, vent’anni fa erano l’81%, il 92% quarant’anni fa. Con la crisi, poi, anche gli sposalizi in municipio hanno smesso di aumentare ai ritmi dei decenni passati, quando la laicizzazione del matrimonio aveva svolto una funzione di relativa compensazione, frenando il calo generale. Se il trend registrato negli ultimi vent’anni rimanesse costante in futuro, verosimilmente il 2020 sarebbe l’anno del sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi e il 2031 l’anno in cui non si celebrerebbero più matrimoni in chiesa, ha stimato il Censis sulla base delle proiezioni statistiche. Le previsioni possono suonare come un puro esercizio teorico, ma servono a mettere il dito nella piaga. Perché ogni proiezione dice molto sull’assunto su cui si basa, cioè sui fenomeni sociali che abbiamo alle spalle. Sarebbe limitativo ricondurre la crisi dell’istituto matrimoniale, che viene da molto lontano, alla deresponsabilizzazione affettiva delle giovani generazioni di oggi. Non siamo alla Tinder generation (dal nome del sito di appuntamenti), né all’apologia del dating, degli incontri mordi e fuggi, anche se tra i giovani appare innegabile una erosione della capacità progettuale di lungo periodo che dovrebbe essere associata alla scelta matrimoniale (non a caso, nel tempo aumentano i nuclei familiari unipersonali, cioè i single). La verità è che il matrimonio ha smesso di essere il baricentro delle

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esistenze delle persone e della vita sociale. Coinvolge meno i giovani perché non è più una ragione primaria di uscita dalla famiglia d’origine; precede sempre meno l’esperienza della genitorialità; non funziona più come meccanismo di ascensione sociale per le donne. Rispetto al passato, infatti, ci si sposa sempre di più tra persone della stessa età e dello stesso status socioeconomico. Cenerentola oggi avrebbe poche chance di incontrare il suo Principe azzurro. A un’analisi più avveduta non sfugge che quanto è successo dagli anni 70 in poi testimonia la vittoria del soggettivismo, che ha segnato fortemente la parabola di evoluzione della società italiana negli ultimi decenni. È un lungo corso di affermazione del primato dell’individuo che vuole decidere autonomamente sulle questioni centrali della sua esistenza, in cui si inscrivono anche i risultati dei referendum degli anni 70 sul divorzio e sull’aborto, fino a contemplare la possibilità – l’altra faccia della crisi del matrimonio – di vivere l’autenticità della propria relazione affettiva attraverso un libero patto d’amore al di fuori della cornice formale dell’istituto matrimoniale, religioso o civile. Si invertirà la tendenza? Non saranno certo sufficienti eventuali incentivi economici per riportare il matrimonio al centro della nostra società. Così come non sarà un bonus bebè a fermare la denatalità che affligge il Paese. Perché, nell’epoca della disintermediazione (politica e sociale), la crisi del matrimonio va letta come il riflesso di una più generale tendenza a disconoscere l’autorità che c’è dietro quell’istituto – statuale o sacramentale che sia. Ecco perché la fuga dai matrimoni benedetti dal sacerdote come le stesse culle vuote ci riportano a quella solitudine esistenziale di individui che – protetti sempre meno dai sistemi di welfare pubblici e sempre meno capaci di elaborare il mistero e la fiducia come la fede richiede – non rischiano più, consapevoli che ogni azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle proprie solitarie biografie personali. E questo vale anche, se non soprattutto, quando si tratta di sposarsi e mettere al mondo un figlio. Gli anni venturi ci diranno se sapremo ritrovare una nuova cultura del rischio, che significherà ritrovare un modo diverso di stare insieme. (Luciano Moia) Nel cuore della grande emergenza educativa c’è un problema ancora più vasto e profondo, che la comprende e la ingloba. E che, neppure tanto paradossalmente, ne sarebbe la soluzione radicale. Perché se si vuole davvero invertire il disagio educativo che inquina tanti rapporti pubblici e privati e determina situazioni acute di malessere sociale, non c’è che una strada. Quella di ridare fiato a un’idea di matrimonio come motore pulsante della famiglia, architrave della società, grammatica di virtù che si irradiano dalla realtà domestica e diventano patrimonio civile. L’equazione che dovremmo riproporre con forza, non si presta a equivoci. Ha l’immediatezza di uno slogan e la forza della verità: più matrimonio, più famiglia, più benessere sociale. Quanto più i giovani – e meno giovani – vengono aiutati a comprendere che il matrimonio è la via preferenziale per il raggiungimento della massima felicità possibile, quanto più le famiglie vengono poste nelle condizioni migliori per svolgere al meglio i propri compiti, tanto più si costruisce un futuro migliore per tutti, con comunità più vivibili perché più accoglienti, sorridenti e solidali. Non si tratta di un’utopia, perché laddove, come in alcune aree del Trentino, si è avuto il coraggio di costruire una società quanto più 'family friendly' possibile, si è visto un aumento della natalità e un rallentamento della conflittualità familiare. Ma non solo, sostenere le reti familiari a livello locale, si è tradotto in un beneficio per quelle aziende che hanno adottato protocolli integrati per la promozione del benessere familiare. In questo modo sono diminuite le ore di malattia ed è aumentata la produttività dei dipendenti. Nessuna ricetta magica, ma una serie di buone pratiche come tariffe agevolate per le famiglie numerose, progetti di conciliazione famiglia-lavoro, aiuti per le mamme lavoratrici, redditi di garanzia con prestiti agevolati per le giovani coppie. Per risultare vincenti questi progetti devono però essere costanti nel tempo. Quando la politica ha il coraggio e il buonsenso di abbandonare i conflitti ideologici per mettere al centro la bellezza e la bontà del 'far famiglia', si scopre che gli effetti, dall’Italia alla Germania, dalla Finlandia all’Australia – come dimostrano le ricerche più attente – vanno tutti nelle stessa direzione: alla radice del bene comune si può essere solo la valorizzazione della famiglia come soggetto sociale. E quindi il matrimonio come struttura portante, irrinunciabile e insostituibile della famiglia stessa. La grande rivoluzione culturale per rifondare la verità delle relazioni – che la Chiesa da parte sua ha avviato con l’Esortazione postsinodale

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Amoris laetitia – deve iniziare da qui. Rimettere il matrimonio tra uomo e donna in un circuito virtuoso in cui educazione e scelte politiche riescano a offrire proposte armoniche e non dissonanti. Capaci da un lato di debellare offerte devianti – come le false suggestioni del relativismo affettivo o le teorie del gender – dall’altro di confermare i giovani nel loro desiderio di affetti stabili e duraturi. La svolta è possibile. Non smettiamo di crederci. (Leonardo Becchetti) I mercati, ci ripetiamo istericamente, hanno bisogno di certezze, non vanno 'inquietati' (un po’ come quelli squilibrati che è meglio assecondare). E per dargli queste certezze noi esseri umani siamo costretti alla liquidità e all’iperflessibilità efficiente. Ma noi di cosa avremmo bisogno, cosa desideriamo? Il rapporto Toniolo ci dice che l’80% di un campione di più di 9.800 giovani intervistati tra i 18 e i 33 anni desidera una famiglia con almeno due figli. Se accostiamo questo dato alla recente 'provocazione' del Censis che osserva, estrapolando l’attuale tendenza al declino dei matrimoni religiosi, che nel 2031 nessuno si sposerà più, scopriamo che la società in cui viviamo è drammaticamente incapace di soddisfare una dimensione fondamentale del ben-vivere umano (catturata da uno dei domini del Bes) quella delle relazioni interpersonali. Possiamo disquisire sul fatto che ci sono tanti modelli di famiglia e di unioni, ma anche i trend degli altri modelli sono affetti dallo stesso virus, indicano cioè riduzione dei flussi e declino della stabilità dei rapporti. E anche chi vive la propria vita relazionale in altri modelli di famiglia e unione ha la stessa aspirazione di fondo di ciascun essere umano. Quello che la propria relazione duri per sempre (non ha caso vuole anche lui sposarsi). Deponiamo dunque per un attimo bandiere e appartenenze e proviamo laicamente ad affrontare il problema. Addentrandosi nella questione con molta prudenza, umiltà e generalità, senza cadere in giudizi e moralismi di confronti interpersonali perché, come è proprio di ciascuna relazione, fallimenti/successi vanno equamente divisi tra propri meriti e quelli del partner. Il virus delle relazioni ha caratteristiche molto semplici. Nella nostra cultura il bene relazionale è assimilato ai beni di consumo mentre si tratta in realtà di un tipico bene d’investimento. Ovvero di qualcosa che non ci rende più felici se usiamo le relazioni affettive come album di figurine, rottamiamo le vecchie per sostituirle con le nuove. La relazione affettiva in fondo è una cosa molto semplice, è come un orto. Se ci metti un po’ di lavoro e passione ogni giorno non senti la fatica e ti godi un’opera bellissima che produce sempre nuovi frutti. Chi cerca fumettoni irrealistici si consoli con le pagine dei magazine del gossip. Ma sappia che dietro quell’impalcatura mediatica c’è il nulla. Sono sempre di più quelli che, traviati dal modello del bene d’investimento, si sciolgono alla prima difficoltà e non hanno la saggezza di capire che con un po’ di pazienza un altro momento d’oro (più bello perché contenente la ricchezza dei precedenti) è dietro l’angolo. In una cultura di massa così effimera e liquida nella quale viviamo un matrimonio che si propone di durare per sempre è una provocazione insostenibile alla vera ideologia di massa nella quale la ruota della fortuna è ormai stata sostituita da tempo dalla ruota del criceto. E 'bloccarsi' con un partner a vita vuol dire proprio sottrarsi alla ruota del criceto di un movimento dannato e perenne che è condannato a non approdare mai a nessuna meta. La questione numero uno dunque è come faranno i nostri figli a risolvere l’equazione tra desiderio di continuità e stabilità affettiva e la previsione matrimoni zero. Saranno condannati a essere eterni Peter Pan? E i loro figli senza contesti relazionali stabili saranno parcheggiati per 12 mesi all’anno in centri estivi realizzando l’incubo di alcuni modelli di società totalitarie? O scopriranno i futuri adulti anche loro che, senza un limite che diventa leva e punto d’appoggio della nostra traiettoria vitale (e in cui è dolce naufragare) l’identità umana rischia di non essere definita? Ma soprattutto la società del futuro li aiuterà o li ostacolerà, ovvero sarà abbastanza relation-friendly (amica delle relazioni)? È ora di inserire con decisione questo fondamentale indicatore di benessere tra i criteri di valutazione di amministrazioni e aziende votando per i pionieri nella capacità di conciliare benessere relazionale con i loro tradizionali obiettivi. E sarebbe il caso che qualcuno tornasse a fare un po’ di educazione sentimentale (ai beni relazionali, diremmo oggi). Che è cosa ben diversa dai consigli sulle tecniche per evitare di fare figli indesiderati che sono un po’ come i foglietti delle istruzioni d’uso delle macchine. Siamo persone, e possiamo realizzare cose meravigliose. La sapienza delle relazioni purtroppo non si insegna più e si testimonia poco. Ma la nostalgia di un bene fondamentale sempre

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scarso può fare miracoli. Dobbiamo essere pronti su tutti i fronti (educativo, economico, politico) a saper cogliere questa domanda. Non certo consegnarci alla statistiche, e rassegnarci. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se a Venezia nessuno fa i conti di Cesare De Michelis Oltre l’Unesco È lunga la storia dei rapporti tra l’Unesco e Venezia ed è storia di un conflitto perenne, di un’incomprensione resistente, nella quale si contrappongono due punti di vista opposti, che sono sempre gli stessi: chi vuol conservare la città insulare com’è, sottraendola al confronto con la modernizzazione - e spesso si tratta di personalità estranee alla vita ordinaria di Venezia, innamorate di un ideale, cui dedicano con generosità ogni cura, certe della precaria salute di una città che immaginano fragile vittima di un futuro minaccioso- e chi, invece, a Venezie vive e lavora e, come è sempre accaduto nei secoli, la vorrebbe agibile e normale, in sintonia col mondo contemporaneo, non estranea al moderno, pronta a cambiare. Il primo segnale del distacco fu il Rapporto su Venezia (1969) che l’Unesco redasse e pubblicò dopo l’alta marea eccezionale di cinquant’anni fa (4 novembre 1966) con l’obiettivo di denunciare il terribile pericolo che minacciava Venezia. La questione la pose con chiarezza lo stesso direttore generale dell’Unesco, René Maheu, nella Prefazione: Salvare che cosa?, i monumenti, le opere d’arte, l’atmosfera culturale, oppure i suoi abitanti e la loro vita di ogni giorno; da che cosa?, dall’amica natura, «che l’ha protetta così a lungo» o da «l’uomo moderno»; e, finalmente, come? , scegliendo tra le pietre e la vita, perché forse si faceva ancora a tempo, nonostante tutto. L’Unesco usciva allora vincitore dalla battaglia che aveva salvato i templi di Abu Simbel in Egitto e pretendeva, peraltro senza impegnarsi a reperire le risorse, di stabilire quanto dovevano fare gli Stati, ergendosi a difensore di un bene che si confondeva col bello. Il senso dell’intervento su Venezia fu chiarito dal Rapporto sulla pianificazione urbana a Venezia (giugno 1975), che contrapponeva a quanto era stato fatto in tempi recenti una visione alternativa, intervenendo sul governo locale con “raccomandazioni” sempre più imperative. Non diversa è l’iniziativa di questi giorni, che accompagna i suggerimenti ultimativi con minacce che escludono il confronto e la discussione, come se alle scelte proposte non ci fosse alternativa e se nel resto del mondo si fosse provveduto già a fare come l’Unesco vorrebbe: si pensi al numero programmato dei turisti, sul quale ci si arrovella da anni, ma che nessuna città ha adottato, perché contraddice l’idea stessa di città e ogni etica dell’accoglienza, che per altro oggi appare più necessaria di ieri di fronte alle migrazioni che investono l’intera Europa. Turismo, grandi navi, Mose, e tante altre opere sempre più urgenti e rinviate: Venezia è un problema dal 1962, quando il Comune promosse un convegno così intitolato che affrontò questioni aperte, suggerì soluzioni, lasciando che tutto finisse agli «atti» (1964) senza iniziative concrete. Chi pensa di avere le soluzioni in tasca - Unesco, Italia Nostra, Fai - dovrebbe avere la coscienza di rispondere tenendo conto delle conseguenze che ogni scelta produrrà, altrimenti schierarsi è troppo comodo, basta forse a salvarsi la coscienza scaricando il seguito su chi oggi sarebbe costretto a subire: addio ai servizi di accoglienza e poi al porto crociere, poche difese dalle aggressioni del mare, eccetera: la decadenza veneziana sarebbe inarrestabile. Dopo cinquant’anni e più Venezia resta quel problema del quale ognuno fa una lettura diversa e, quindi, dà una soluzione diversa: non sto a ripetere quanto si è detto sull’uso che si dovrebbe fare del centro storico, perché intanto quel che avanza sono solo i bed and breakfast, gli alberghi e i souvenir; resistono solo porto e aeroporto. Tutti parlano, urlano, minacciano, ma nessuno vuol far di conto: Dio mio! LA NUOVA Pag 19 Braccio riattaccato con lo scotch di Nadia De Lazzari

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Intervento artigianale del parroco di San Geremia e Lucia dopo il vandalismo ai danni del Crocifisso Colla e nastro adesivo per riparare il Cristo del 1700. Non ci ha pensato due volte l'infaticabile don Renzo Scarpa, amministratore parrocchiale della chiesa dei Santi Geremia e Lucia. Quando il sacerdote è entrato nella chiesa - da anni guida la parrocchia di quasi duemila anime - e ha visto quel Cristo con il braccio nel vuoto ha immediatamente preso colla e nastro adesivo bianco ed ha aggiustato lo splendido crocefisso scaraventato a terra la scorsa settimana da un giovane di origini marocchine proveniente dalla Francia. L'opera lignea con parti dorate risale al diciottesimo secolo. Don Renzo Scarpa spiega i motivi della sua riparazione provvisoria. «Quando è successo l'atto vandalico ero partito da poche ore, un paio di giorni in montagna. Al ritorno, entrando in chiesa, ho visto il Cristo con il braccio sinistro spezzato e penzolante dalla croce. Quella scena mi ha addolorato e disturbato. Mi sembra che una settimana esposto così all'adorazione dei fedeli sia già troppo». L'amministratore parrocchiale spiega nei dettagli l'operazione. «L'ho aggiustato in questo modo» spiega don Renzo «Ho avvicinato i due tronchi del braccio rotto. Internamente ho trovato un chiodo così sono riuscito a combaciare le due parti di legno in attesa che l'intero crocifisso venga restaurato. Nel parapiglia il vandalo che è stato bloccato da quattro persone ha danneggiato anche la base che poggia su un mobile di legno massiccio e strappato anche i fili elettrici». Il sacerdote, classe 1938, ordinato nel 1961, sottolinea: «Mi sono fatto raccontare dal sacrestano Sandro Trevisan le farneticazioni del giovane e com'era successo il fatto. Dalla violenta colluttazione il crocifisso poteva frantumarsi, andare in mille pezzi. Direi che è un miracolo se in quello scontro si è spezzato solo un braccio». Aggiunge don Renzo preoccupato per il restauro: «Non ho ricevuto alcuna telefonata. Non so ancora quando e chi lo riparerà, forse il Patriarcato o forse la Soprintendenza». Nel frattempo qualche persona si è già resa disponibile per restaurare l'antico crocifisso. «Tra questi» spiega don Renzo «l'Ordine militare del Collare della Casa reale d'Aragona che mi ha inoltrato un'interessante mail». Dopo l'appello della parrocchia per avere più sorveglianza, ieri mattina, è passata una pattuglia della Polizia di Stato. Don Renzo conclude: «Li ringrazio. Nella chiesa spesso accadono episodi incivili con balordi e prepotenti. Qui è un porto di mare. Viene mezzo mondo. Siamo vicini alla stazione ferroviaria e custodiamo le spoglie della martire siracusana Santa Lucia. Ci vorrebbe però anche la polizia in borghese». Pag 19 Quadro conteso tra notaio e vescovo di Giorgio Cecchetti Trittico del 1300 acquistato all’asta dal professionista veneziano per 895 mila euro Il notaio Alberto Tessiore, casa a Venezia e studi a Mira e a Dolo, ha perso anche il secondo round. Il trittico del XIV secolo che il professionista aveva acquistato in un’asta a Venezia per 895 mila euro resta nel museo della Diocesi di Firenze. Lo ha deciso nei giorni scorsi il Tribunale del riesame del capoluogo toscano al quale era ricorso l’avvocato veneziano Stefano Ferraro, che ne aveva chiesto il dissequestro e la restituzione. Si tratta del dipinto «Madonna con bambino tra i santi Jacopo e Andrea», attribuito al Maestro della Predella dell'Ashmolean (valore stimato poco più di un milione di euro). Il Tribunale toscano aveva già respinto la richiesta del professionista nel 2011: il sequestro era stato disposto nel giugno di sei anni fa scorso dal giudice fiorentino, che aveva riportato il possesso del dipinto nelle mani della Curia fiorentina, assistita dall'avvocato Gianluca Gambogi. La “Madonna con bambino tra i santi Jacopo e Andrea” era custodita fino agli anni '70 nella chiesa San Jacopo a Orticaia a Dicomano (Firenze) da dove però scomparve. Decenni dopo, nel 2005, il trittico finì all'asta: ad acquistarlo regolarmente e al prezzo di 895 mila euro era stato il notaio Tessiore. A inizio 2010 l'intervento dei carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale: individuata l'opera visionando il catalogo dell'asta, ottennero dalla Procura fiorentina un provvedimento di sequestro probatorio. Secondo i militari, chi aveva messo all'incanto l'opera - un ex avvocato fiorentino poi denunciato per ricettazione - avrebbe saputo che il dipinto era stato comunque trafugato. L'avvocato Ferraro per conto del notaio veneziano, però, nel 2010 ricorse al Tribunale del riesame, che gli diede ragione, e così il profesionista ritornò in possesso del trittico. Nuova puntata nel giugno 2011, dopo che a

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muoversi fu la stessa diocesi fiorentina, che rivendicò la proprietà dell'opera, fornendo anche documentazione risalente a prima della Seconda guerra mondiale, spiegò l'avvocato Gambogi. Scattò un secondo sequestro, preventivo, e l'opera tornò a Firenze. Qualche giorno fa il tentativo dell’avvocato Ferraro di far tornare nella casa veneziana di Tessiore il trittico. «Non essendo intervenuta una sentenza di merito definitiva» scrivono ora i giudici fiorentini del riesame, «il quadro deve rimanere in sequestro e deve rimanere custodito dalla diocesi di Firenze», dove l'arcivescovo, il cardinale Giuseppe Betori, spiega l'avvocato Gianluca Gambogi che ha rappresentato nuovamente la diocesi davanti al riesame, «da sempre si sta spendendo per rafforzare la tutela del patrimonio artistico di proprietà della curia». La vicenda giudiziaria del trittico, comunque, non è conclusa, visto che presso la Corte d’appello del capoluogo toscano pende la causa civile sulla proprietà del dipinto del XIV secolo: il notaio sostiene che è suo per averlo pagato all’asta, mentre la Diocesi sostiene che è di proprietà della chiesa, visto che è stato rubato. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Le spose del terrore di Andrea Priante Ingannate, sole, senza casa né denaro. Le storie di Lidia, Hirmet e le altre mogli dei veneti accusati di legami con l’Isis San Zenone (Treviso). Hirmet indossa un abito scuro che le lascia scoperte soltanto le mani, il volto è incorniciato dal hijab, il velo tradizionale islamico. Mentre posa per la foto da pubblicare sul Corriere del Veneto, sembra trovare a stento il sorriso. Adesso questa donna giura che ci ha provato con tutte le sue forze a restare aggrappata - con i suoi cinque bambini - a San Zenone degli Ezzelini. La stessa forza con cui ha sempre difeso suo marito Redzep Lijmani dall’accusa di essere un potenziale terrorista, un fanatico vicino all’Isis. «Lui è buono ma io non ce la facevo più, senza neppure i soldi per l’affitto», assicura. Lunedì scorso si è arresa: ha raccolto quel che restava della sua famiglia, i pochi oggetti del modesto appartamento in cui abitava a due passi dalla moschea del paesino trevigiano, e ha raggiunto il «suo» Redzep a Htlga, un villaggio della Macedonia. HIRMET SFRATTATA - Lijmani era stato espulso il 13 gennaio, con un decreto del ministro Angelino Alfano giunto al termine di un’inchiesta dei carabinieri del Ros che da mesi lo tenevano sotto controllo. «Un profondo conoscitore del jihadismo», l’hanno definito, anche dopo che suo figlio di 9 anni aveva esultato davanti a tutta la classe per gli attentati di Parigi: «Hanno fatto bene! Adesso andiamo a Roma e ammazziamo il Papa! Viva l’Isis». Redzep nega tutto, piange e intanto confida nei suoi avvocati che hanno presentato ricorso ai tribunali di Roma e Venezia. Per sei mesi, Hirmet ha atteso invano il suo ritorno a San Zenone, tentando di tenere unito quel che rimaneva della famiglia. Si è nascosta dagli sguardi diffidenti dei vicini di casa, abbandonata da tutti, anche dai «fratelli» della comunità islamica che inizialmente avevano preso le difese di suo marito. Poi è arrivata la lettera di sfratto e si dovuta arrendere e tornare a Htlga. Per lei, nonostante abbia vissuto gli ultimi vent’anni quasi isolata in quell’appartamento e parli a stento l’italiano, è comunque uno choc. Peggio ancora la stanno affrontando i suoi figli, nati e cresciuti nel Trevigiano e che da un giorno all’altro si ritrovano trapiantati in Macedonia, ospiti dello zio e con un padre che non riesce a trovare lavoro come camionista perché inserito nella lista Schengen delle persone pericolose. «Non so come faremo a tirare avanti», ammette. In fondo, il destino di questa donna non è molto diverso da quello toccato alle altre mogli dei presunti fondamentalisti individuati in Veneto. Perché quando un uomo si avvicina all’Isis, alle spalle lascia solo macerie. Le chiamano «le spose del terrore». Innamorate, spesso succubi del marito, all’improvviso si riscoprono sole, povere, tradite. E quando capiscono che la conversione dei loro compagni ha aperto un baratro profondo, è troppo tardi per non caderci dentro. «La cultura islamica incoraggia l’impegno lavorativo del marito, mentre la donna deve indirizzare i propri sforzi principalmente verso i figli e la casa», spiega l’avvocato Chiara

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Gallina, che con il collega Stefano Azzari difende Redzep Lijmani. «Quando il capofamiglia viene espulso, per di più con accuse così pesanti, per le loro mogli diventa quasi impossibile trovare un’indipendenza, anche economica, che consenta di tirare avanti». AJTENA INGANNATA - Senza soldi né un lavoro, ha ricevuto lo sfratto anche la compagna di Amara El Moustafa, espulso da Thiene con l’accusa di svolgere, assieme al cognato Said Namiq, attività «collegate al terrorismo islamico». La Caritas l’ha aiutata con cibo e vestiti, ma non è bastato. «Questi provvedimenti hanno effetti devastanti sia su chi li subisce che sulle loro famiglie. Da un momento all’altro perdono tutto ciò che hanno costruito», spiegava alcuni mesi fa l’avvocato Igor Brunello, meditando se portare il caso di El Moustafa di fronte alla Corte Europea per i diritti dell’uomo. C’è chi sta peggio. Ajtena ha sposato Munifer Karamaleski e gli ha dato tre bambine quando lui non aveva appena 26 anni. Vivevano a Chies d’Alpago, frequentavano la moschea di Ponte nelle Alpi, poi suo marito ha intrapreso un percorso di radicalizzazione: ha cominciato a seguire i dettami dell’imam wahabita Bilal Bosnic - quello che rilasciava interviste al grido di «conquisteremo il Vaticano» - si ritrovava con gli amici a pregare, si è fatto crescere la barba, la obbligava a indossare il velo. «L’aspirazione di Munifer – ha raccontato il suo datore di lavoro ai carabinieri di Belluno - era diventare un predicatore, in ogni discorso metteva frasi o riferimenti al suo Dio. Non accettava più i modi e i tempi del mondo occidentale…». Forse Ajtena era preoccupata ma non poteva ribellarsi al suo uomo. Di sicuro non avrebbe mai immaginato che la svolta fondamentalista del marito avrebbe trascinato lei e le sue bambine all’inferno. Invece, il 15 dicembre 2013 Karamaleski ha lasciato le Dolomiti per arruolarsi nell’Isis: dopo una tappa in Bosnia per ricevere la «benedizione» dell’imam, si è fatto raggiungere dal resto della famiglia. I carabinieri del Ros di Padova hanno scoperto che la donna era all’oscuro delle sue intenzioni: è caduta in una trappola. In un’intercettazione, un amico bellunese racconta che Ajtena «non sapeva niente. L’hanno presa e portata là e quando sono arrivati in Turchia le hanno detto che entravano in Siria. Se avesse saputo non avrebbe mai accettato, lei con tre figli piccoli…». Da quel giorno, della donna si sono perse le tracce, inghiottita nella terra dei tagliagole. Se non è stata uccisa dalle bombe, vive da qualche parte nei dintorni di Al-Busra, nel cuore del territorio controllato dai soldati di Allah. Intercettato qualche mese fa al telefono con la sorella, Munifer assicurava che «stanno tutti bene» e che «i bambini sono a casa, io in città. Prendo 200 dollari al mese. E ci bastano». LIDIA SENZA FIGLIO - Ajtena non è l’unica ad essere stata ingannata dall’uomo che amava. Il caso più famoso è quello della cubana Lidia Herrera. Lei, cristiana, e Ismar Mesinovic, musulmano, si erano conosciuti nel 2009 in una lavanderia di Ponte nelle Alpi e dopo sei mesi erano andati a vivere insieme. Nel settembre 2011 era nato Ismail e l’anno dopo suo marito aveva intrapreso lo stesso percorso di radicalizzazione del suo amico Karamaleski. Interrogata dal Ros, Lidia racconta: «A casa stava collegato quasi sempre al computer e mi faceva pesare i miei comportamenti non consoni ai precetti islamici. Ha cambiato anche il suo aspetto, si è fatto crescere la barba, mi obbligava a uscire indossando il velo islamico e, soprattutto, ha cominciato a essere molto più aggressivo con me, picchiandomi quando gli rispondevo». Nel luglio del 2012, arrivò a proporle di trasferirsi «in un villaggio dove le donne indossavano il burqa, vivevano separate dagli uomini e dove non c’è la tv e tutto ciò che è riconducibile allo stile di vita occidentale». Lei rifiutò e l’anno successivo i due si separarono. «Ho tentato di portare con me nostro figlio ma me lo ha strappato dalle braccia». L’incubo era soltanto all’inizio. Il 15 dicembre 2013 lui le telefonò per dirle che avrebbe portato Ismail qualche giorno in Bosnia, a trovare i nonni. Quando Lidia capì che era solo l’ennesima bugia, il suo bambino era già nell’Isis assieme al padre, che presto venne ucciso in battaglia. Da allora non ha più visto il figlio, che cresce accudito dalle mogli dei mujaheddin siriani. Oggi Lidia tira avanti lavorando in una casa di riposo per anziani nel Bellunese, schiacciata dai sensi di colpa per non aver capito che il suo bambino era in pericolo. «Aspetto Ismail tutti i giorni – racconta - prima o poi lo riabbraccerò». IL GAZZETTINO Pag 8 Unioni gay, Spinea prima in Veneto di Melody Fusaro

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Gino e Lorenzo: il 3 settembre pronti a tagliare il traguardo del “sì” dopo 41 anni di convivenza Non ci sono ancora i documenti ufficiali ma se non altro ora una bozza delle direttive ministeriali «sblocca» la possibilità di celebrare le prime Unioni civili. Una notizia che rasserena Gino Tagliapietra, 65 anni, e Lorenzo Bagato, 70, di Spinea, che ieri, dopo un nuovo incontro in municipio, hanno ufficialmente annunciato ad amici e parenti la data del loro matrimonio: il prossimo 3 settembre. La coppia, che sta insieme da 41 anni, era impaziente e temeva che l'attesa dei decreti attuativi e delle indicazioni del governo, necessari al Comune per procedere senza intoppi a un atto regolare, li avrebbe costretti a rinviare la data che, sulla scia dell'entusiasmo per il "sì" alla Cirinnà, avevano immediatamente fermato, prenotando ristorante e invitando gli amici. Ma nei municipi, in tutta Italia, non si potevano avere certezze sull'arrivo dei decreti, che possono richiedere anche sei mesi, e quindi si era creato un clima di incertezza sulla possibilità di celebrare realmente l'unione. «Gli uffici si stanno attrezzando - spiega l'assessore di Spinea Gianpier Chinellato, che celebrerà le nozze - non c'è nulla di ufficiale dal governo però ora almeno ci sono delle bozze di direttive che ci permettono di lavorare ai vari atti. Quindi ora ci siamo sentiti pronti a dare garanzie a Lorenzo e Gino per settembre: per quella data non ci saranno problemi». In effetti in municipio c'è ancora da lavorarci su, per capire come modificare il regolamento interno del Comune (che attualmente prevede solo matrimoni civili e non Unioni) e per produrre gli altri atti obbligatori. Dal governo servono infatti indicazioni sull'eventuale cambio del cognome, sui diritti patrimoniali (le unioni e le separazioni dei beni) e sulla separazione. Tutte indicazioni che dovranno essere inserite nel contratto dell'Unione che le coppie omosessuali sottoscriveranno con il loro "sì". «La settimana scorsa si è riunita la giunta - aggiunge Chinellato - e il sindaco ha firmato le deleghe, perché fino a quel momento risultava che solo lui potesse celebrare le Unioni. E con l'autorizzazione del prefetto anch'io sarò autorizzato a unirli». Qualche altra coppia gay si è fatta avanti nei giorni scorsi, semplicemente per avere informazioni e quindi senza l'urgenza di arrivare in fretta a una data di celebrazione. Da molti comuni veneti però stanno piovendo richieste di chiarimenti sul municipio veneziano - che in qualche modo è diventato capofila sul tema, alla luce della determinazione della coppia a "sfruttare" subito le possibilità aperte dalla Cirinnà - per capire le modalità su come accogliere le richieste di coppie omosessuali intenzionate a unirsi civilmente. In ogni caso da settembre, almeno a Spinea, il "sì" sarà veramente per tutti. Pagg 12 – 13 Nordest, prevalgono le vacanze “casalinghe” di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Il 41% ha già deciso la destinazione, ma la maggioranza (55%) non si sposterà C’è chi parte e c’è (soprattutto) chi resta: le decisioni in merito alle prossime vacanze estive sono ormai prese. Secondo i dati raccolti da Demos per l’Osservatorio sul Nordest del Gazzettino, la maggioranza dei nordestini (55%) quest’anno passerà le proprie vacanze estive a casa mentre il 41% dei nordestini ha le valigie ormai pronte. Molto limitata (4%) la quota di chi non ha ancora deciso cosa fare. Chi non partirà, lo fa soprattutto per ragioni economiche (53%) e passerà le sue serate estive semplicemente restando a casa (30%) o andando a sagre e feste popolari (23%). L’estate 2016 è ormai nel suo pieno e anche nel Nordest si stanno facendo i grandi preparativi per le partenze di luglio e agosto. Per chi resta, però, il programma è, come da tradizione, molto ricco e vario. C’è il “Mittelfest” di Cividale del Friuli, giunto alla 25° edizione, che ha preso il via proprio lo scorso fine settimana. È già partito il 36° OperaEstate Festival Veneto, che chiuderà a settembre avendo realizzato oltre 200 eventi di danza, teatro, musica e cinema tra Bassano del Grappa e altri 34 Comuni della Pedemontana (arrivando anche in Trentino e Friuli). Già iniziato anche il Festival “I Suoni delle Dolomiti”, che riunisce musica e panorami mozzafiato (22° edizione). Imminente, invece, è l’inizio a Treviso del Festival musicale “Suoni di Marca”, arrivato a tagliare il traguardo della 26° edizione. Queste sono solo alcune delle proposte che mirano sia ad attirare turisti sul territorio che ad offrire un’alterativa di qualità a chi in estate non potrà muoversi. E non sono pochi: il 41% come detto dei nordestini ha dichiarato che andrà in vacanza quest’estate, ma la

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maggioranza assoluta (55%) ha già deciso che quest’anno non partirà. Guardando al recente passato, assistiamo a una diminuzione dei “casalinghi estivi” (rispetto al 2015, meno 4 punti percentuali; guardando al 2014, meno 7 punti percentuali). Sembra ancora lontano però quanto osservato nella seconda parte degli anni 2000, quando la quota tendeva stare sotto la soglia del 50%. Chi resta? Sono soprattutto adulti (63%) o anziani con oltre 65 anni di età (76%) a dichiarare che non si muoveranno di casa. Se guardiamo al livello di istruzione, osserviamo una maggiore presenza di persone con un basso titolo di studio (82%). Consideriamo, poi, la categoria socio-professionale: sono soprattutto pensionati (74%), oltre a casalinghe e disoccupati (69%) ad essere costretti a passare a casa tutta l’estate. Tuttavia, rileviamo come anche la maggioranza dei liberi professionisti e degli operai (entrambi 55%) abbiamo preso la stessa decisione. La quota di chi resta a casa, pur mantenendosi su livelli tutt’altro che trascurabili, tende ad abbassarsi tra imprenditori (46%), studenti (35%) e soprattutto impiegati (28%). Chi non andrà in vacanza ha preso questa decisione soprattutto perché ha problemi di natura economica (53%): rispetto al 2005, l’aumento è di 10 punti percentuali. Come preferiscono passare le serate estive i vacanzieri-casalinghi? Il 30% non fa niente di speciale, mentre il 23% ama andare alle sagre. Il 15% cerca concerti musicali e l’11% sceglie di assistere ad un film delle rassegne estive. Sono soprattutto gli over-55 a stare in casa, mentre gli intervistati tra i 25 e i 55 anni mostrano una preferenza per i concerti musicali. Gli under-25, infine, hanno uno spiccato interesse per il cinema estivo (come le persone tra i 25 e i 34 anni) e le sagre (passione condivisa quanti hanno tra i 35 e i 44 anni). «Il peggio per il settore turistico sembrerebbe essere passato. Almeno stando ai dati del sondaggio. Veneti, friulani e trentini hanno ripreso ad andare in vacanza. Le variazioni non sono così incisive, ma rimangono comunque significative, soprattutto rispetto al 2014 quando a restare a casa durante l’estate erano 6 persone su 10. Uno scenario che reca in sé la promessa di tempi migliori, ma che agli occhi di chi, nel settore turistico ed alberghiero vive e lavora con grande passione da più di qualche decennio, pare abbia bisogno “di nuovi investimenti e finanziamenti per spingere gli imprenditori a crescere ulteriormente». Ne è convinto Alessandro Rizzante, il nuovo Presidente dell’Aja (Associazione jesolana albergatori) che aggiunge: «nonostante il nostro litorale sia sempre leader a livello nazionale ed internazionale, ora abbiamo la necessità di contare su nuove risorse per diventare ancor più competitivi. E la fidelizzazione del cliente deve diventare il nostro punto di forza». Le statistiche raccontano finalmente un andamento confortante, almeno sul fronte degli spostamenti del Nordest. Una narrazione che aderisce alla realtà dei nostri litorali? «Per quanto riguarda Jesolo, mi sembra di rilevare un buon trend per il mese di luglio. Rimane, invece, qualche ritardo sulle prenotazioni per agosto, complice anche il desiderio della ricerca dell’occasione, il cosiddetto "last minute"; o magari il non sapere ancora con sicurezza quando ci si potrà prendere l’agognato periodo di ferie. E poi ancora c’è chi prende tempo per esplorare online tutte le proposte del territorio». C’era una volta il telefono per fissare l’albergo o l’appartamento. Ora, invece, tutto viaggia sulla rete. E, magari, anche il dialogo con il cliente si smarrisce nel video di un pc o di uno smartphone. «Vero. Un tempo le prenotazioni arrivavano all’inizio dell’anno o, comunque, entro il principio della primavera attraverso la cornetta. E le previsioni sulle presenze potevano essere effettuate con largo anticipo. Ma, è altrettanto vero che gli imprenditori del settore turistico alberghiero di Jesolo non sono dei nostalgici e, così, si sono adeguati alle nuove richieste e alle nuove relazioni anche virtuali con i nuovi e con i vecchi clienti. Per questo al bureau di un hotel, ora, non si vede più solo il portiere, ma c’è chi si occupa delle richieste degli ospiti presenti, chi si occupa di gestire i potenziali clienti online, chi dell’amministrazione e della segreteria». La parola d’ordine, quindi, è guardare avanti. Nessuna nostalgia per Jesolo di trenta o quarant’anni fa? «Di quei tempi si può avere nostalgia soltanto di una cosa: della certezza di una crescita continua del settore turistico. Oggi non è esattamente così. Per questo dobbiamo impegnarci molto più che in passato; e questo è anche il percorso già intrapreso con successo dalle nuove generazioni di albergatori».

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La destagionalizzazione è da anni un obiettivo degli imprenditori del litorale. Come sta andando? «E’ mancato il sostegno di una politica che è stata poco lungimirante e scarsamente attenta nel sostenere con investimenti concreti e defiscalizzazioni gli attori del settore turistico. Aspettiamo fiduciosi, però, che si possano vedere delle evoluzioni a breve. Perché, in effetti, abbiamo tutte le carte da giocare per prolungare i flussi turistici nel nostro territorio oltre l’estate. Jesolo, del resto, è un punto privilegiato e strategico per il mare, per la vicinanza a Venezia, alle valli e tutte le città d’arte del Nordest. E, poi, non dimentichiamo la proposta enogastronomica delle nostre strutture ricettive, con menù ormai di alta ristorazione che mettono nel cassetto dei ricordi i pasti (ora desueti) della vecchia “pensione completa”. Si guarda avanti con entusiasmo e anche qui con nuove professionalità d’eccellenza». LA NUOVA Pag 12 Meno nati, meno giovani. Il Veneto ha i capelli grigi di Silvia Giralucci Calo di 12 mila residenti, non accadeva dal 1960. La demografa Tanturri: “Bisogna aiutare chi vuole essere genitore” Padova. Il Veneto perde abitanti, 12 mila in meno solo tra il 2014 e il 2015, e quelli che rimano hanno sempre più i capelli grigi, le donne fanno figli sempre più tardi (quando non sempre ci riescono) e i giovani migliori vanno all’estero per trovare opportunità lavorative qualificate che in regione non trovano. È questo il quadro che emerge dal Rapporto Statistico 2016 appena pubblicato dal Sistema statistico della Regione Veneto. Il rapporto segnala che nel 2015, per la prima volta dal 1960 nel Veneto sono diminuiti gli abitanti. Con 12 mila i residenti in meno, la popolazione del Veneto è di 4.915.123. «È come se si fossero “persi”- fa notare Maria Teresa Coronella, direttrice del Sistema statistico regionale - tre comuni di circa 4.000 abitanti l’uno». La diminuzione delle popolazione si spiega con una serie di concause: la scarsità di nascite per la prima volta non è compensata dai flussi migratori, l’elevata mortalità del 2015 (nel Veneto ma anche a livello nazionale) e, infine, l’aumento dei ragazzi laureati che se ne vanno. Il calo della natalità è piuttosto drastico: dai 9,8 nati per mille abitanti del 2008 il Veneto scende agli 8 del 2015. I 38.961 bambini nati nel 2015 sono quasi il 20% in meno rispetto al 2008 (in Italia il calo è stato del 16%). Inoltre, per la prima volta, le “culle vuote” non sono più compensate dai flussi migratorii. L’apporto della popolazione immigrata, che conta oltre mezzo milione di nuovi residenti, pari al 10,4 per cento della popolazione regionale, risulta in flessione. Per quanto riguarda il picco di mortalità del 2015, secondo l’Istat le cause sono state l’epidemia influenzale e le temperature estive particolarmente elevate, ma tra gli studiosi c’è chi ipotizza che questo possa essere ricollegato anche a una minore possibilità di accedere a cure mediche a causa della crisi. Di certo va considerato l’aumento “fisiologico” dei decessi che ci si può aspettare da una popolazione che invecchia. Oggi il 22 per cento della popolazione ha più di 65 anni, nel 2060 in Veneto tre su dieci saranno anziani. Sorprendente anche il dato sul saldo migratorio: mentre si riducono le iscrizioni in anagrafe dall’estero (e molti migranti arrivati più di 10 anni fa chiedono la cittadinanza diventando italiani), aumenta il numero dei veneti che se ne vanno: dal 2012 al 2014 sono 11mila i giovani veneti che si son trasferiti all’estero. Negli ultimi sei anni il numero degli under 34 che hanno deciso di lasciare il Veneto è salito del 44 per cento. A questa perdita di giovani che abbiamo formato e lasciato andare si aggiunge il noto problema della sostenibilità del welfare per una popolazione che invecchia. Se in Veneto il sistema pensionistico appare più sostenibile che altrove, con 63 pensionati ogni 100 occupati (dati 2013) rispetto ai 72 della media nazionale e con una spesa pensionistica pari al 14,6% del Pil (in questo il Veneto è terzultimo tra le regioni), tuttavia metà degli assegni pensionistici non arriva ai mille euro al mese. Padova. La nostra Regione perde pezzi: 12.000 abitanti in meno nell’ultimo anno. Dai 9,8 nati per mille abitanti del 2008 il Veneto scende agli 8 del 2015. A che cosa è dovuto il calo della natalità? «Diciamo che ci sono meno donne, che fanno anche meno figli», risponde Maria Letizia Tanturri, professore associato di Demografia all’Università di Padova. «Sono diminuite le donne in età fertile: quelle del baby boom sono ormai cinquantenni, mentre le ragazze che ora entrano nell’età riproduttiva fanno già parte di

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un periodo in cui la natalità era diminuita. A questo si aggiunge che, complice la crisi economica, è anche diminuito anche il tasso di fecondità. La crisi fa sì che si posticipi sempre di più l’età della maternità. L’età media delle italiane residenti in Veneto che fanno figli è di 33 anni, molto elevata e più elevata rispetto alla media nazionale. Questo spostamento della maternità verso età più avanzata della vita produce anche l’effetto collaterale che più facile rimanere senza figli, perché quando ci sono le condizioni per farli è più difficile che arrivino». Quali indicazioni vengono per la politica da questo rapporto? «Sicuramente anche il Veneto, che pur è una Regione che si distingue per tante ragioni positive, dovrebbe fare uno sforzo maggiore per il sostegno alla genitorialità. I figli sono una scelta delle coppie, ma oggi questa scelta è diventata molto più rischiosa, perché è una definitiva in una società in cui non c’è nulla di definitivo. Spesso il lavoro è precario, le condizioni cambiano molto rapidamente mentre un figlio rimane. Questo rischio che i genitori decidono di correre andrebbe sostenuto dalle istituzioni perché ha anche un impatto sociale nella riduzione dell’invecchiamento». Un investimento sulle famiglie sarebbe utile anche per la sostenibilità delle pensioni? «Non solo, anche per il mercato del lavoro. Un aspetto che fa riflettere del rapporto è l’indice di ricambio degli occupati che esprime il rapporto tra coloro che andranno in pensione tra 10 anni e quelli che potenzialmente entreranno. Se nel 2005 su 100 che andavano in pensione, circa 100 giovani che entravano nel mercato del lavoro, adesso su 277 che escono solo 100 entrano. Questo squilibrio rischi di diventare molto forte. La popolazione attiva diventa sempre più anziana e non ci saranno più giovani in grado di rimpiazzare i pensionati. Un investimento sulle famiglie, un aiuto ai giovani che desiderano formare una famiglia, avrebbe un senso anche sociale». Per quanto riguarda l’immigrazione, è di questi giorni il grido di allarme di diversi amministratori locali, secondo cui capacità di accoglienza di immigrati del Veneto sarebbe ormai satura. È così? «Anche sull’immigrazione che tanto fa paura è opportuno fare un ragionamento in prospettiva. Innanzi tutto i dati per quanto riguarda l’integrazione nel Veneto sono sempre stati positivi. Inoltre se la popolazione non è fino ad ora invecchiata troppo, lo dobbiamo anche alle “iniezioni di giovinezza” della popolazione straniera. Se le scelte saranno di chiusura, questo avrà un ulteriore effetto negativo sull’invecchiamento della nostra popolazione». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le 4 ore di silenzio sul golpe di Paolo Mieli Ambiguità occidentali Quattro, cinque ore di troppo. Quattro, cinque ore, la notte di venerdì scorso, nel corso delle quali le cancellerie europee hanno evitato di prendere energicamente le distanze dal colpo di Stato che era in atto in Turchia. Un tempo lunghissimo nel quale quelle cancellerie sono rimaste inerti a valutare «l’evolversi dell’iniziativa militare». Lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura, dieci anni fa) ha raccontato di aver seguito gli eventi alla televisione e di aver atteso invano quella presa di posizione. Pamuk ha ricordato di essere da tempo un irriducibile avversario «per moltissime ragioni» del governo turco ma di aver immediatamente messo a fuoco il concetto che «i colpi di Stato militari non saranno mai la soluzione ai problemi della Turchia». Nella sua vita, ha raccontato, di putsch ne ha visti tre andati «a buon fine» e tre no. Ma tutti «hanno creato alla Turchia problemi maggiori e reso le persone meno felici». Pamuk non considera irrilevante il fatto che Recep Tayyip Erdogan il potere lo ha conquistato con libere elezioni e, per quanto possa essere biasimevole questo o quell’atto della sua politica (moltissimi, a dire il vero), dovremmo essere abituati a pensare che solo una tornata elettorale altrettanto regolare potrà un giorno detronizzarlo. Se poi Erdogan abolirà il ricorso alle urne, allora e solo allora potrà essere contemplato il ricorso alla forza. Ma fino a quel momento - come ha ricordato,sia pur tardivamente,Obama al termine di quella notte arroventata - il «governo democraticamente eletto» deve essere difeso. Sempre e comunque. Dopo che il presidente degli Stati Uniti si è deciso a dire

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queste cose di elementare buon senso (sia pur molto tardivamente, ripetiamo), i capi di Stato europei hanno iniziato a balbettare qualcosa di analogo, raccomandando per giunta a Erdogan di «dimostrare moderazione» nei confronti di coloro che avevano ordito l’intento. Forse ritenevano così di aver risolto ogni cosa e di essersi messi a posto la coscienza. Ma, ad ogni evidenza, il caso non è chiuso. Nel senso che quelle quattro, cinque ore di troppo - «vergognose» le ha definite Can Dündar, direttore del quotidiano Cuhmuriyet, altro grande nemico di Erdogan - richiedono adesso una valutazione supplementare. Detto che, come ricordava ieri su queste pagine Luigi Ferrarella, le elezioni non sono l’ingrediente unico di una democrazia (altrettanto fondamentale è l’attenzione alle regole che garantiscono lo Stato di diritto), è doveroso però mettere in risalto che la libertà nell’esercizio del voto è la fonte battesimale di ogni regime democratico. Ne discende che la presa d’atto di quel che si è deciso nelle urne è un dovere di ogni persona o entità statuale che si ispiri ai principi della liberaldemocrazia. E nel caso vengano conculcati gli altri diritti? Si deve aver fiducia nei popoli, i quali popoli alla successiva tornata elettorale saranno liberi di sconfiggere nel voto chi, in modo più o meno grave, ha intaccato le loro libertà. Solo la compressione del diritto di voto, ripetiamo, può giustificare una ribellione in armi. Purtroppo, però, noi da tempo siamo abituati ad usare - quando si tratta di musulmani che hanno vinto le elezioni - uno standard diverso da quello a cui ricorreremmo per un qualsiasi altro Paese. Lo abbiamo fatto per l’Algeria nel 1992 e per l’Egitto nel 2013. In entrambi i casi il suffragio a favore di formazioni islamiche è stato sovvertito da un colpo di Stato e noi, regolarmente, abbiamo salutato con un applauso quei sovvertimenti. Nel gennaio del 1992, tra il primo e il secondo turno delle elezioni algerine, constatata la pressoché certa vittoria del Fronte islamico di salvezza, i militari presero il potere e insediarono alla guida del Paese un anziano leader della resistenza ai francesi, Mohamed Boudiaf, che sarebbe stato ucciso sei mesi dopo lasciando in eredità al Paese un decennio e più di scontri sanguinosi. Ai primi di luglio del 2013 il presidente egiziano Mohamed Morsi, regolarmente scelto dagli elettori, fu deposto dai militari di Abdel Fattah al Sisi che si è poi insediato sul trono da cui a tutt’oggi regna. Ed è irrilevante che, come ha fatto osservare lo scrittore egiziano dissidente Alaa al Aswani, i soldati del suo Paese approfittarono della circostanza che, a fine giugno, contro Morsi erano scesi in piazza molti manifestanti e che perciò l’iniziativa di al Sisi ebbe un sostegno popolare mancato ai golpisti turchi di venerdì scorso. Non è questo che conta, ha ammonito al Aswani. Conta il fatto che l’Europa si stia abituando a considerare le elezioni come qualcosa di non decisivo. Qualcosa che non ha un valore in sé ma che, in qualche caso, si può rimettere in discussione nei modi più diversi. Solo nei Paesi a maggioranza musulmana? Chissà. Ieri è accaduto in Turchia, domani potrebbe ripetersi in Ungheria o in Polonia. Se non ci piace chi ha vinto le elezioni, venga pure un colpo di Stato. E qui giungono al pettine alcuni nodi che si potevano individuare già un mese fa ai tempi della Brexit o di qualche voto come quello presidenziale in Austria o amministrativo in Francia e in Italia. In un articolo sul Sole 24 Ore, Luca Ricolfi ha riferito di alcuni commenti ascoltati a casa di amici dopo il referendum in Gran Bretagna e l’elezione di Chiara Appendino a sindaco di Torino. Gli parve di cogliere una qualche «animosità contro il suffragio universale», o meglio contro il popolo tout court da parte di una «élite che lo rispetta (il popolo) quando “fa la cosa giusta” ne prende commiato quando fa quella sbagliata». Gli elettori sono diventati un insieme di essere umani che «benpensanti e governanti illuminati» considerano, sotto sotto, «cieco e abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri interessi». Sicché il loro voto vale sì, ma fino a un certo punto. Queste acute notazioni di Ricolfi ci inducono a riflettere meglio sui sentimenti di «attesa» che nella notte di venerdì scorso hanno paralizzato le cancellerie europee e quella statunitense. Gli eletti da un popolo che, secondo i «governanti illuminati» dell’Occidente, ha fatto la «scelta sbagliata» sono considerati dal consesso internazionale rimuovibili per via putschista. Quello stesso consesso che in tempi normali con essi stringe patti, li impegna in alleanze militari, cerca sponde per far fronte a grandi emergenze, al presentarsi sulla scena del primo golpista di passaggio è pronto ad abbandonarli al loro destino. Non è un buon modo per essere percepiti come affidabili nelle intese che saremo costretti a stipulare. E rende un po’ ridicole le nostre raccomandazioni a che si comportino virtuosamente nel dopo golpe.

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Pag 2 La vendetta del comandante che non può essere giustizia di Dacia Maraini Soldati che si coprono la testa con le braccia mentre un uomo, che sembra uscito dall’Inferno di Dante, li picchia con un lungo bastone, giudici che camminano a testa bassa, mentre la folla urla e sputa, ragazzi seminudi dalle mani legate dietro la schiena che aspettano il colpo, corpi accartocciati per terra che vengono frustati senza pietà. L’enorme purga è cominciata. La vendetta sacra si erge a giustiziera. Ma la vendetta può chiamarsi giustizia? È questo che vorremmo chiedere al grande comandante Erdogan. Crede davvero che la vendetta purifichi il Paese, rimetta a posto la sua autorità calpestata, e costituisca un atto nobile di esemplare punizione? Non si rende conto che i suoi metodi assomigliano molto a quelli dell’Isis, che fanno spettacolo di una violenza che si dichiara voluta da un dio feroce e sanguinario? Un dio che non conosce pietà, non conosce comprensione, non conosce pudore e non ha neanche un poco di rispetto per gli esseri che ha creato? Sta tutto in quel sottile confine la differenza fra storia antica e storia moderna: nell’avere imparato a separare la giustizia dalla vendetta. La vendetta è gratificante, lo sappiamo, la vendetta è dolce, la vendetta fa bene al cuore e al sangue che scorre piu rapido nelle vene. Tutti siamo affascinati dalla vendetta: il modo più rapido di rivalersi sull’altro, il modo più bruciante per ricostruire il nostro «onore» offeso. La Bibbia e il Corano offrono la stessa arma a chi si considera tradito e oltraggiato. Ma per l’appunto, sia il Corano che la Bibbia ci raccontano, come in una bellissima epopea, i sentimenti più nobili del momento. Sentimenti che oggi risultano intollerabili, come ci risulta intollerabile la crocifissione, l’impalamento, il rogo, la lapidazione. Non so se possiamo chiamarlo, con presunzione, progresso, ma certo evoluzione sì: le tante troppe guerre fatte in nome di vendette nazionali, l’avere riconosciuto l’insensatezza del razzismo ideologico e religioso, il rifiuto e la condanna della schiavitù, l’avere separato lo Stato dalla Chiesa, l’avere stabilito i diritti dell’uomo, ci hanno portati a un punto in cui la giustizia si è dovuta separare dalla vendetta, e prendere una strada piu vicina alla legge, al codice, all’umana presunzione che un colpevole possa avere le sue ragioni, abbia il diritto di difendersi e chiedere giudici imparziali che non sono lì per vendicarsi ma per applicare la legge. E invece sento parlare del ripristino della pena di morte. È questo il suo pensiero, comandante Erdogan? Il suo segreto, sensualissimo desiderio di vendetta? Una cosa che colpisce guardando le fotografie che mettono in evidenza l’umiliazione dei soldati e dei giudici è l’assenza totale di figure femminili. Immagino che la vendetta sia, per il comandante Erdogan, una questione squisitamente maschile, che riguarda chi combatte, chi protesta, chi congiura e chi tradisce. Ma dove sono le donne turche in tutto questo? Io sono stata di recente in Turchia: Ankara e Istanbul sono città moderne, dove le donne studiano, si laureano, lavorano, guidano la macchina, prendono la parola. Possibile che siano state messe tutte a tacere? Non ne ho vista una nella folla che inveiva contro i soldati fedifraghi presi a bastonate, quei giovani figli e fratelli che probabilmente ubbidivano a degli ordini, oppure avevano in mente un progetto di libertà dalla tirannia. C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico in queste punizioni plateali che debbono servire da esempio. Per quanto si condanni il «diabolico mondo moderno» con la sua libertà di critica, la sua libertà sessuale, la sua libertà di religione, quando si tratta di diffondere la propria parola e raccogliere consensi, non ci si fa scrupolo di usare ciò che prima si è disapprovato. Il massimo della spregiudicatezza tecnologica si sposa con il massimo dell’arcaismo storico. Sono proprio le contraddizioni che l’Isis ci propone tutti i giorni quasi fosse una grande conquista. Per chi crede nei diritti dell’essere umano sono forme di schizofrenia storica. Una malattia della fede e della memoria, una peste della ragione. Ma allora, che fare? Mi sembra chiaro che il solo modo di combatterla questa peste consista nel difendere e proteggere e tutelare quelle conquiste che tanto sono costate. Smettere le risse e unirsi contro chi si è innamorato della morte e vuole uccidere la vita. Pagg 10 – 11 The Donald e la malattia d’America di Richard Ford Un grande scrittore scandaglia il fenomeno Trump Ho riflettuto - o cercato di riflettere - su Donald Trump. Avrete notato che, a meno che Trump stia inveendo contro di noi da una selva di microfoni, in uno dei suoi abiti fuori taglia, pavoneggiandosi e facendo smorfie e boccacce alla Mussolini, agitando il suo dito

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corto o a volte puntandolo a forma di pistola contro la sua stessa zucca arancione, o scagliandosi contro qualcuno che, tra il pubblico ormai in diminuzione, lo fischia - o a meno che ci troviamo esattamente di fronte alla sua iridescenza - è veramente difficile pensare a lui. Cosa strana, per un individuo di taglia grande che sembra voler vincere le elezioni presidenziali con l’argomento «quello che ottieni è quello che vedi» - il cliché che spera rappresenti la sua autenticità. In effetti, Trump - che, credo, sia un vero essere umano - sembra stranamente inconsistente. Qui, devo dire, sto mettendo da parte tutta la sua cortina di fumo e il suo gioco di specchi, le sue «prese di posizione» e «politiche» menagrame e i suoi roboanti, poco plausibili «propositi» su quello che farebbe se fosse eletto a quella che Andrew Jackson una volta definì «la carica più importante del mondo» (oggi potrebbe non esserla più). Sto solo commentando il suo atteggiamento. Guardare Donald Trump, con tutti quei capelli appariscenti, la cera da becchino, la sua rumorosità e l’aria minacciosa, mi fa pensare a quando si guarda in un caleidoscopio scadente in cui si può vedere una successione di mandala, non abbastanza strani, interessanti, memorabili, particolari. Pensare a Trump cercando di fissare il punto che è presumibilmente lì dove si vede, è come volere immaginare quale disegno fondamentale il caleidoscopio contenga davvero, in fondo a quel tubo di carta vuoto. Non ce n’è alcuno. Potrebbe sembrare ingiusto (potrebbe esserlo, dato che non ho mai conosciuto Trump) giudicarlo in questo modo. Certo, la maggior parte degli indici che utilizziamo per valutare e scegliere i nostri presidenti negli Stati Uniti sono terribilmente impressionistici e labili. Non sceglieremmo una persona per tosare l’erba dietro la nostra casa in base a una tale pietosa quantità di crude prove corroboranti. Innanzitutto, insisteremmo sulle referenze. Dopodiché, avremmo bisogno di sapere che il candidato possa sicuramente riconoscere un tosaerba, e che dimostri di essere portato per usarlo. I presidenti ne sono dispensati più facilmente. Per inquadrare meglio Trump e misurare il suo «essere reale», ho provato a pensare a delle attività di routine quotidiane che avrei potuto cercare di condividere con lui - in sostanza, per confrontarlo con me, dato che sono ancora abbastanza reale. Tanto per cominciare, sono sicuro che non potrei cenare da solo con Trump nel mio ristorante preferito di Parigi. Rovinerebbe la cena. Sono anche sicuro che non potrei andare a pesca con lui presso un lago fuori mano, nel Maine. Per lo stesso motivo. Sono certo che non potrei spiegargli e interessarlo ai risvolti preoccupanti dell’operazione alla mia ghiandola salivaria (o al mio divorzio - se mai l’avessi avuto). Sono certo che non potrei discutere con lui di un grande romanzo appena letto. Lui avrebbe letto qualcosa di meglio, probabilmente qualcosa che «ha scritto». Sono sicuro che non potrei andare a vedere con lui la maggior parte dei film: parlerebbe senza sosta. Durante tutte queste attività - cose che farei tranquillamente con qualunque estraneo - Trump e io non avremmo niente da dirci. Niente in comune. E il risultato mi ferirebbe spiritualmente. Non so perché sembri importante, ma lo è. Per essere equo, potrei eventualmente andare a un incontro di pugilato con Trump, o meglio a un evento di arti marziali miste tenuto in una gabbia d’acciaio (avrebbe già degli ottimi posti). Con lui potrei anche andare a un concerto di Bruce Springsteen in qualche arena che possedeva (lì, vedremmo il governatore Christie, che gli piacerebbe), sebbene preferirebbe probabilmente vedere Ted Nugent. Potrei condividere con lui un drink al vecchio Oak Bar nella Plaza (se guardassi in giro per imbattermi in lui. Potrebbe possedere anche quello). Potrei andare con lui a comprare un’automobile molto costosa. Potrei andare con lui a comprare delle scarpe estremamente economiche. Potrei anche andare con lui (sulla sua barca) a pescare pesci vela o squali bianchi o altri pesci mostruosi. Non è che vorrei fare qualunque di queste attività con Donald Trump. Ma potrei provare, mentre non potrei fare le altre, quelle più regolari. Non che pensi che, per appoggiare qualcuno come presidente, lo si debba immaginare nelle vesti di amico. Non ho nessuna ansia di incontrare, conoscere o essere amico di Barack Obama - sebbene lo ritenga un ottimo presidente e vorrei poterlo votare ancora. Penso solo che, se decidessi di dire qualcosa al presidente Obama - sulla mia operazione, o l’ordinare il merluzzo da Sur le Fil, la prossima volta che è a Parigi, o su quale tipo di filo colorato Mylar è adatto per pescare al lago Wappanooky - mi ascolterebbe e quanto meno cercherebbe di ricordare. Il che ci porta a considerare quale caratteristica di una persona la fa sembrare reale o autentica, presente, invece di sembrare assente ed evanescente come Trump. Non mi riferisco alla genuina densità e profondità emersoniana, ma ancora su come sembrano le persone, cosa fanno per farci credere che sono presenti. Ascoltare

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sarebbe una di quelle cose. Donald Trump non sembra ascoltare la gente, specialmente quella che non corrobora le sue convinzioni (sebbene sembri sentire gli insulti e ami ridicolizzare, minacciare e persino ferire quelli da cui ritiene di essere insultato). Essere in grado di distinguere i nostri bisogni dai suoi sarebbe un altro segno di realtà, invece di credere (come Trump sembra) che i nostri bisogni dovrebbero corrispondere ai suoi. È la seconda cosa. Un altro segno di realtà potrebbe essere che chi investe molto tempo e impegno per convincerci che vuole fortemente qualcosa, deve dimostrarci di sapere un minimo di ciò che dice di volere. Terza cosa. La quarta sarebbe che una persona superficiale è fuorviante quando la verità è facilmente disponibile altrove. La quinta sarebbe che una persona non sparli di chiunque non sia d’accordo con lui virtualmente su ogni cosa, tirando in ballo la sua moralità, etica, religione, matrimonio, razza, il nome del cane. La sesta sarebbe (e qui concludo) che una persona possa associarsi a coloro che sembrano loro stessi reali o autentici, consentendo a noi osservatori di concludere che è come loro. L’assenza di queste qualità è ciò che ci allontana dalle persone. Non è ciò che ci porta ad eleggerli come presidenti. Ho una teoria. Magari non è nuova. Ma dato che riguarda Donald Trump e la presidenza americana, è discutibilmente interessante. L’altra mattina mentre salivo le scale, la signora che vende cucce per gatti ricamate a mano sotto la finestra del mio ufficio nel Maine mi ha detto che Donald Trump presto si sarebbe ritirato dalla corsa. Non le piace, per cui era una buona notizia per lei. Non aveva appreso perché si sarebbe ritirato. L’aveva sentito alla televisione poco prima di entrare in doccia e si era persa il resto della notizia. Sentire ciò mi ha fatto comunque riflettere sul perché potrebbe effettivamente abbandonare la corsa presidenziale. Cosa che mi ha portato a considerare che potrebbe non volere davvero essere il presidente degli Stati Uniti. Solo perché dice di fare e agire in quel modo... perché dovrebbe avere importanza? Dice qualunque cosa gli venga in mente - non importa quanto stupida o non plausibile - e obietta sempre di non aver detto le cose che sappiamo che ha detto. È come se pensasse che siamo noi a essere inconsistenti. E cosa peggiore - che siamo stupidi, e che le ha inventate solo per divertimento. Posso dire che il signor Trump mette in mostra alcune tradizionali qualità quasi-presidenziali che potrebbero rafforzare la sua volontà di rimanere in corsa. Ad esempio, finge di odiare la stampa, ma in realtà vive e muore grazie ad essa. Finge un’avversione per Washington, ma non vede l’ora di arrivarci. Fa finta di ammirare la politica bipartisan e la separazione dei poteri, ma in realtà odia entrambi. Finge di essere un outsider della politica, ma in realtà è un consumato e ben inserito oligarca che non rispetta alcuna autorità, se non la sua. Le sue convinzioni morali sono sempre allineate ai suoi interessi privati, e accusa tutti i suoi avversari di essere nemici dell’America. Inoltre è un maschio. Da un punto di vista filosofico, Trump, come molti dei nostri presidenti, crede che la pace debba essere assicurata dalle armi. Ritiene che l’America sia sempre fraintesa e offesa all’estero, come anche dai suoi oppositori in casa. Crede che la storia americana sia una lotta costante per ristabilire il nostro carattere americano e che quel che serve a tutti noi sia essere più americani. Ritiene che il potere del «popolo» (i suoi sostenitori) venga costantemente viziato da una élite, che diffida di quel «popolo» e vuole rubarne i voti. E, naturalmente, è totalmente a favore di Israele. In più Trump, non avendo alcuna esperienza di governo e mostrando di non aver mai pensato a ciò che realmente fa un presidente, sfrutta la vecchia idea anti-intellettuale americana che ricoprire una carica pubblica sia - come scrisse Andrew Jackson nel 1829 - una faccenda tutto sommato «banale e semplice». O, nel caso di Trump, «una cosa bella». Gli americani, anche i vecchi federalisti del New England, sono sempre stati diffidenti nei confronti del governo - tranne quando potrebbero trarne benefici personali. Allo stesso tempo, la maggior parte degli americani ha scarsa pazienza o apprezzamento per la complessità del governare, e spesso si lascia cullare da sciocche semplificazioni. Preferiamo credere alla falsa idea del dilettante di talento e siamo spesso vagamente offesi da chi è, o promette di essere, un presidente esperto. Barack Obama, ad esempio. È un po’ come noi ex puritani ci sentiamo nei confronti di qualcuno che ha fama di essere veramente bravo a fare sesso. Ma guardando la presidenza unicamente nella prospettiva che ha dinanzi Trump, e dimenticando per un momento la nostra, come elettori, è difficile pensare che essere presidente renda Trump molto felice. Certo, per un po’ gli piacerà quel successo. Ma Trump è un bugiardo per natura, non per talento. Ricordate tutte quelle «migliaia e migliaia» di musulmani che si suppone abbia visto festeggiare l’11 settembre a Jersey

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City? E sotto il costante controllo pubblico e del Congresso, sarebbe presto colto a mentire, rendendosi penoso e inefficace (come era successo a Bill Clinton). Potrebbe essere bloccato dalla stessa macchina governativa, di cui non sa nulla. Odia anche essere chiamato a rispondere per le cose che non funzionano, e ne dà continuamente la colpa agli altri, perciò il motto di Harry Truman «the buck stops here» [qui ci si prende la responsabilità, non si passa la mano] non sarà il suo - ciò che farà la gioia dei suoi critici. Peraltro è notoriamente molto suscettibile, tanto che il costante scontro con avversari a cui non può sparare, come una stampa libera e irrispettosa, lo farà quasi certamente impazzire e provocherà sfoghi ancor più stupidi di quelli che abbiamo già sentito, facendolo sembrare ed essere patetico. Inoltre, quasi tutti gli altri capi di Stato saranno più svegli e più giovani di lui, e dovrà sentirselo dire ogni giorno. E alla sua età (lo so, lo so non si dovrebbe parlare di questo, ma sarebbe il presidente più anziano a iniziare il suo mandato), la curva della minima competenza potrebbe essere irrimediabilmente ripida per il presidente Trump. Potremmo finire con Ivanka come nostra «first female», badante del presidente. Mi rendo conto che non c’è limite al narcisismo, e che la voglia di vincere di Trump potrebbe distrarlo, nel corso di una lunghissima luna di miele, dal rendersi conto che non è poi così bravo a fare il presidente e che in realtà detesta esserlo. Ma a differenza di Ronald Reagan - che Trump ama evocare - la gente di solito più lo conosce, meno lo ama, e la luna di miele non durerà a lungo. Non è un uomo del popolo, né un vero populista. È un sacco di vento ricco e sconsiderato che ama insultare la gente meno potente di lui. Il suo voler essere il messia dei bianchi delusi della classe operaia è, a mio avviso, una messinscena, un’invenzione scaturita dalla sua ambizione e dal disprezzo che quegli uomini provano per il governo, dalla loro paura di perdere potere economico e spirituale in un mondo che sta rapidamente cambiando e diventando non-bianco. In quanto a eroismo, il signor Trump non si distingue particolarmente. Come altri presidenti che abbiamo avuto, potrebbe finire per diventare uno sfortunato prigioniero della presidenza, e noi elettori le sue colpevoli vittime. Potrebbe anche decidere di lasciare. L’ha fatto per tutta la vita. Oh, certo, se Donald Trump improvvisamente uscisse di scena o facilitasse per il suo partito il compito di scaricarlo durante la Convention repubblicana, potremmo dire che ha dimostrato il suo punto. Ha mostrato che il sistema politico americano è quella farsa che tutti immaginavamo - un campo di battaglia finto dove un buffone come lui può avere successo. Un meta-candidato. Questo gli darebbe quel tipo di vittoria che ha assaporato tutta la vita come magnate della stampa. La vittoria di un bluffer. Se solo potessimo credere che è intelligente fino a questo punto. E no, non è questo il modo in cui il sistema politico americano dovrebbe funzionare. Quando una persona aspira alla nostra presidenza, lui o lei dovrebbe crederci. Ma questa meta-candidatura inventata - se è davvero così - fa venir voglia all’osservatore interessato di chiedere ancora: cosa diamine facciamo in America? Non si tratta veramente della trascurata porzione di maschi bianchi incazzati. Non si tratta veramente dell’impotenza dei repubblicani a mettere in campo un candidato migliore. Non è la nostra stanchezza nei confronti di un governo che non funziona. In fondo non si tratta tanto del governo e neppure di Donald Trump presidente. Questo è solo uno scherzo. Ci sintonizziamo sul signor Trump per le stesse ragioni per cui ci rassegniamo a subire la pubblicità, quando siamo mezzi addormentati la sera tardi, per guardare un film che forse ci piace ma forse no, mentre dovremmo solo andare a dormire e risvegliarci più lucidi. Se quando vediamo Trump pensiamo di provare una sensazione di irrealtà, siamo noi, in realtà, ad essere minacciati di non esistere veramente. Siamo noi a essere colpevoli di non avere in mente qualcosa di meglio. È il nostro malessere nazionale nei confronti della vita a essere diventato il problema. Donald Trump? Vero o no, è solo un sintomo vistoso e scolorito della nostra malattia americana - un’altra delle cose a cui non vogliamo pensare più di tanto. Pag 27 Ma ora Europa e Usa non devono tollerare il cinismo di Erdogan di Antonio Ferrari Quel che vediamo in Turchia è inquietante. Dopo il golpe inventato probabilmente dai circoli vicini al presidente-sultano, come ormai spiegano le evidenze non inquinate dal pregiudizio ideologico, è cominciata una campagna persecutoria del regime contro tutti gli oppositori di Recep Tayyip Erdogan. È come se l’incendio avesse costretto gli

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avversari a uscire allo scoperto. Erdogan è un duro, con livelli di cinismo e di ferocia inimmaginabili. Ora che ha in pugno il Paese è pronto ad osare quello che qualche settimana fa avrebbe esitato a compiere. Sarà pronto persino a mostrarsi tollerante con i nemici. Il ripristino della pena di morte forse è solo una minaccia, e con la stampa e i social si potrebbe persino immaginare una tregua fredda. Il sultano è capace di tutto. Tuttavia per ora la scure repressiva è spietata: arresti di massa, trasferimenti, licenziamenti, ferie abolite, ci mancano solo i campi di rieducazione. Che cosa fa l’Unione Europea? Come ci comporteremo con il dittatore? La realpolitik della cancelliera tedesca Angela Merkel si era manifestata con la generosa offerta di riprendere in fretta le trattative per l’ingresso di Ankara nella Ue per risolvere il problema-migranti. Ho però un’impressione: non soltanto l’Europa è restia a riaprire il dossier, ma neppure i turchi lo desiderano ardentemente, come invece accadeva anni fa. Con la Turchia, è bene confessarlo, la Ue ha giocato sporco, alzando l’asticella delle condizioni a gara in corso. Scorretta e offensiva, per un Paese orgoglioso e soprattutto nazionalista. Un Paese che, a un certo punto, si è avvitato su se stesso, orgogliosamente: «Se non ci volete, percorreremo altre strade». La nomina di Ahmet Davutoglu a ministro degli esteri e poi a capo del governo, dopo il sacrificio dell’europeista Egemen Bagis (coinvolto in scandali finanziari, chissà quanto veri o presunti) ha segnato la svolta: da zero problemi con tutti i vicini al poco allettante traguardo di problemi con tutti i vicini. Erdogan, amico di Assad, Mubarak e Gheddafi, diventa nemico mortale di Assad, amico di Morsi e nemico di Al Sisi, complice degli estremisti che impedivano una recuperata stabilità alla Libia. Qualche settimana fa, svolta di 180 gradi: via Davutoglu, nomina a primo ministro del fedele Yildirim e cambio radicale in politica estera: pace con Israele e soprattutto con la Russia di Putin dopo l’abbattimento del caccia di Mosca; mano tesa al regime siriano (quindi ad Assad); e infine conferma del legame con gli Usa e con la Nato, impegnandosi a lottare contro il terrorismo, quindi anche contro l’Isis e Al Nusra, gruppi terroristi che la Turchia armava e con cui faceva affari (petrolio di contrabbando). Ankara si ritrova con un presidente più forte, con un’immagine più debole, ma pronta a riprendere il ruolo che il megalomane presidente aveva sminuito. E l’Unione Europea? La concatenazione degli eventi rivela un ampio disegno geostrategico che la Ue, per adesso, può solo osservare. Certo, Bruxelles non può tollerare che un Paese, formalmente ancora candidato al club, continui ed accentui la politica repressiva, minacciando il ripristino della pena di morte, cancellata al processo contro quello che la Turchia riteneva il più pericoloso terrorista al mondo, il capo del Pkk Abdullah Ocalan, che sconta l’ergastolo. L’unico dossier che impone prudenza è sempre quello degli immigrati. Se la situazione in Siria si componesse, almeno parzialmente come gli ultimi mesi hanno dimostrato, la generosità europea con la Turchia, sostenuta per ragioni interne dalla Merkel, si attenuerebbe. Come ha detto il sottosegretario italiano Mario Giro, dei sei miliardi promessi, finora sono stati versati poco meno di 400 milioni di euro. Certo, l’Ue non può accettare che la repressione in Turchia si intensifichi. Deve alzare una voce alta e forte, esattamente come hanno fatto gli Stati Uniti e persino il più grande partito dell’opposizione turca, il Repubblicano del popolo, cioè i laici che si richiamano a Kemal Ataturk, che ne fu il fondatore. La notte di venerdì i primi e i secondi hanno dichiarato subito d’essere con il governo democraticamente eletto dal popolo. Gli Usa per calcolo geostrategico (meglio Erdogan che avventure al buio), il partito turco di opposizione perché forse aveva odorato i subdoli piani del sultano. Dall’Europa, invece, silenzio. Fino alla positiva soluzione della crisi, quando tutto è diventato più facile. LA REPUBBLICA Pag 1 La vendetta e la paura di Ezio Mauro L'unico segno di riconoscimento sono i capelli scuri dei vent'anni, con la sfumatura alta dei soldati. Nient'altro. Centinaia di uomini ammassati sulla sabbia a torso nudo, piegati in avanti perché le manette tengono le braccia imprigionate dietro la schiena, costretti a stare in mutande e a capo chino come bestie prigioniere, in una palestra militare dalle finestre sbarrate. Non c'erano i social network a Tienanmen quando dopo aver oscurato l'antenna della Cnn il regime fece scattare la repressione selvaggia contro i ragazzi che avevano occupato la piazza, e il lavoro sporco poté compiersi nel buio. C'era solo il terrore quando Stalin ordinò le deportazioni e le uccisioni di massa della grande purga

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sovietica. Non c'era né Internet né una pubblica opinione quando Franco ordinava la garrota per i dissidenti «per liberarli dal peso della loro stessa malvagità purificando la Spagna». Oggi quella foto postata su Twitter dalle caserme di Erdogan documenta lo stesso meccanismo, in circostanze diverse e in mezzo al XXI secolo. Il potere che dopo essersi difeso si vendica selvaggiamente demonizzando intere categorie sociali e cancellando fino all'annientamento le persone che stanno sotto le toghe giudiziarie, le grisaglie dei prefetti o le divise militari, scelte come simbolo del nuovo nemico del popolo. Torna, invocato dal potere, il concetto di "popolo", normalmente evocato là dove non esiste il "cittadino", soggetto autonomo, libero, titolare di doveri e diritti. Torna la purga, la vecchia cistka sovietica, un'operazione che per definizione è senza giustizia e fuori misura perché mescola paura e vendetta, e mentre dovrebbe re-insediare con la forza un potere minacciato, in realtà rivela il terrore del Palazzo per il nemico nascosto, l'insicurezza di un regime che non sa trovare la sua legittimità se non nel pugno di ferro universale, la violenza che certifica l'instabilità permanente mentre vorrebbe sconfiggerla. Torna soprattutto l' umiliazione fisica e morale dei prigionieri trasformati nell' immagine materiale e pedagogica della sconfitta e come tali "esposti" perché il popolo veda, impari e capisca: la foto dei prigionieri è la documentazione perfetta della distanza incommensurabile che può correre tra i vincitori e i vinti anche nella modernità in cui viviamo, quando si è fuori dallo stato di diritto. Il vincitore è puro potere che perpetua se stesso, proteggendosi anche contro le ombre e con qualunque mezzo, perché ha prevalso e perché avrà sempre più paura. Il vinto è ridotto a puro corpo, da legare, ammassare e colpire, pur di controllarlo, in attesa di poterlo magari giustiziare domani, perché l'ossessione della purificazione non ha limiti, come l'angoscia. D'altra parte il presidente Erdogan ha parlato di una necessaria «pulizia» all'interno di tutte le istituzioni dello Stato, per liberarle dal «virus» della rivolta. Ritorna, con la pretesa di sterilizzare la società infetta, l'incubo contabile con cui il potere prova a rassicurare se stesso spaventando i sudditi. Non c'è altro, quando la politica viene consegnata in caserma, come in Turchia. Con Istanbul presidiata da 2 mila uomini dei reparti speciali, i caccia che pattugliano lo spazio aereo delle capitali, gli elicotteri militari che non possono decollare senza permesso, il premier annuncia che gli arrestati sono 7.543, tra cui 100 poliziotti, più di 6 mila soldati, 650 civili, 755 giudici e procuratori, 103 ammiragli e generali, due giudici della Corte Costituzionale. Ma intanto 1.500 funzionari delle Finanze sono stati sollevati dal loro incarico, insieme con 30 prefetti e 8.777 dipendenti degli Interni, tra cui 7.899 poliziotti che hanno dovuto riconsegnare pistola, manganello e distintivo. È la somma del ritorno all'ordine sventolata dal Palazzo, una somma parziale visto che il ministro della Giustizia Bozdag promette che ci saranno altri 6 mila arresti, «perché continueremo a fare pulizia». Ed è la misura dell'arbitrio e della sproporzione, perché nessuno è in grado di controllare il regime a cui sono sottoposti gli arrestati, le condizioni in cui si svolgono gli interrogatori, la misura della reazione del potere all'offesa subita col tentativo di golpe, le reali possibilità di difendersi e discolparsi degli incarcerati in massa. Ciò che è chiaro è il richiamo di fedeltà assoluta al Sultano che arriva da queste operazioni. Non c'è spazio per distinzioni, l'emergenza continua, il pericolo è in agguato, lo Stato dev'essere un blocco unico compatto nella difesa del potere sfregiato ma superstite, dunque autorizzato a colpire. La decimazione dell'esercito cancella ogni eredità laica riducendolo a guardia reale. L'epurazione della polizia - da tempo inquieta - suona come l' ultimo richiamo all'ordine. Soprattutto, l'accanimento carcerario nei confronti dei giudici e dei Capi delle procure riscrive nei fatti codici e costituzione, imponendo fedeltà prima che giustizia, guardando alla salvezza del regime più che a quella del diritto. A questo punto, con la pistola puntata alla tempia della magistratura, chi giudicherà i golpisti e in nome di quale legalità? Torna l'ombra dei processi politici, tipica dei regimi autoritari e totalitari. Se salta di fatto la divisione dei poteri, chi controllerà il presidente e l'esecutivo? Con quale legge, al riparo di quale Costituzione? Con quale opinione pubblica, dopo che i giornali liberi sono stati annientati e le televisioni occupate e controllate? Mentre i tribunali certamente chiederanno conto ai colonnelli dei carrarmati portati in strada nella notte dell'intentona, chi chiederà conto ad Erdogan e al suo governo di quella lista già pronta, fulminea, di magistrati da arrestare, prefetti da destituire, ammiragli da ammanettare, funzionari da epurare? Non è nemmeno necessario arrivare alle conclusioni interessate del grande nemico del Sultano, il predicatore Fethullah Gülen, che dall' America accusa Erdogan di essersi

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confezionato il golpe per poter annientare i suoi avversari interni: basta osservare la reazione del potere per capire che un vero e proprio "controgolpe" è in atto in Turchia. Per poi aggiungere, necessariamente, che quel "controgolpe" è fuori da qualsiasi canone delle democrazie occidentali, che anche quando sono sotto attacco sanno di avere il diritto di difendersi, ma insieme con il dovere di rimanere fedeli a se stesse, e ai loro principii. E qui, sta tutta l'ambiguità dell'Europa. La Ue e i suoi governi hanno aspettato alla finestra la notte del golpe, per capire se i militari erano in grado di spazzare l'equivoco e la grandeur di Erdogan, senza scegliere tra le urne che gli avevano dato il potere un anno fa e i carrarmati che volevano toglierglielo. Oggi l'Europa, condizionata dal negoziato appena firmato con Ankara per il contenimento dei due milioni di profughi siriani, balbetta davanti alla minaccia turca di reintrodurre la pena di morte e di fronte alla vendetta del Sultano, che si sta dispiegando sotto i nostri occhi, fuori da ogni codice. È ora di dire che noi viviamo in democrazie deboli e malandate: ma una "democratura" autoritaria, finché rimane tale e lega le sue vittime nude come animali in gabbia, non può entrare in Europa. AVVENIRE Pag 1 Attenti a quei due di Fulvio Scaglione L’Occidente, il “Sultano” e lo “Zar” «Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta», fa dire la cancelliera Merkel ai suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte «significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea». Il dopogolpe della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai si contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano da Occidente. Angela Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato John Kerry, hanno addirittura legato «il mantenimento dei più alti standard di rispetto per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della legge» alla permanenza della Turchia nella Nato. Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello del potere assoluto, dopo il primo del consenso conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il caso Turchia. Certo, la gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben lontano da ciò che, in termini di applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia, si richiede a un Paese dell’Ue. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina. Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai servizi segreti (nei giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla libera espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili. Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri princìpi. Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo, parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli «alti standard » che ora invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che attraversavano il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi, allora la Nato degli «alti standard» si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non mille anni fa. Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia che abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto. Comunque, dopo aver ottenuto un potere quasi assoluto. In questo clamoroso

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riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che bada bene a non farsi notare, ma potrebbe intascare un ottimo dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia russo nel novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45 miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore dell’energia. Lo zar e il sultano si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo impegnata. Meglio non staccare gli occhi da quei due. Pag 5 La grande “decapitazione” di Camille Eid Non solo militari: la mannaia si abbatte pure sui dipendenti pubblici Non sono servite a nulla gli appelli dei leader europei alla moderazione. La repressione prontamente lanciata da Erdogan contro i responsabili presunti del golpe sta assumendo le proporzioni di una vera e propria purga che si abbatte contro diversi settori, militari e non. Stando ai numeri forniti dalle stesse autorità di Ankara, si parla già di «migliaia di arresti e rimozioni». A mo’ di paragone, nella repressione contro Ergenekon, il gruppo ultranazionalista segreto accusato nel 2007 di tramare contro lo stesso Erdogan (allora premier) e il suo partito, erano state arrestate non più di 300 persone, di cui 194 successivamente condannati a diverso titolo dopo un lungo iter processuale. Oggi, invece, in poche ore la scure delle purghe ha decapitato buona parte dei vertici militari, con ben 103 generali e ammiragli finiti in arresto. Un numero, questo, che corrisponde al 29 per cento dei 358 generali censiti nelle diverse branche delle Forze armate turche alla fine del 2015, compresi quelli che servono nella Gendarmeria e la Guardia costiera. Di loro l’agenzia ufficiale Anadoluha stilato un elenco dettagliato. Provengono da tutte le armate (forze di terra, aeree e Marina militare) e da tutta la Turchia: Ankara, Smirne, Edirne, Adana, Denizli, Samsun, Bitlis, Antalya, Kastamonu, Tunceli e altre basi ancora. Tra di loro si leggono i nomi di alti comandanti dei II e III Corpi d’Armata, della guarnigione di Ma-latya, di comandanti del Mar Egeo, della base di Incirlik utilizzata dagli americani per bombardare le postazioni del Daesh in Siria, e addirittura dell’assistente capo militare di Erdogan. Epurazioni anche nella fila dei dipendenti pubblici, il 5 per cento della popolazione, impediti da ieri di espatrio senza previa approvazione del loro ufficio. Il ministero dell’Interno parla – ma i numero sono ancora provvisori – di 8.777 dipendenti licenziati o arrestati, tra cui 7.899 membri della polizia (nonostante la relativa lealtà dimostrata durante il golpe), 398 ufficiali della gendarmeria (su circa 5.500 che conta il corpo), 215 sottufficiali, e 18 capi delle guardie costiere. Tra i governatori (“vali) delle 81 province uno solo è stato rimosso ma insieme con altri 29 “vali centrali” in servizio presso il ministero. Poi ancora: 16 consiglieri legali, un vice direttore generale, due capi dipartimento, 92 vice-vali e 47 sottoprefetti (caimacam, sui 923 che conta il Paese). Sospesi anche 1.500 dipendenti del ministero delle Finanze. Insieme al settore dell’istruzione, quello economico è sospettato di essere quello «maggiormente infiltrato» dai fedeli di Fethullah Gülen, il presunto ispiratore del golpe fallito e dello “Stato parallelo”. Ieri, le autorità turche hanno ordinato la sospensione delle attività della banca Asya, legata al predicatore esiliato. Pugno di ferro anche contro la magistratura, con centinaia di giudici e procuratori allontanati dalla funzione. Tra questi, due giudici della Corte Suprema, Alparslan Altan e Erdal Tercan, arrestati in base a una «azione disciplinare» promossa dalla stessa Corte per presunti legami con Gülen. La Corte è composta da un presidente, due vicepresidenti e 14 giudici. Un difetto di circa il 10 per cento. Le proporzioni di queste purghe ricordano da vicino quelle operate in un passato vicino dai vertici militari contro chiunque venisse sospettato di simpatie verso i partiti islamici. Si calcola, infatti, che circa 1.350 ufficiali e sottufficiali furono allontanati tra il 1996 e il 2002, anno di arrivo dell’Akp al potere. E il numero sale a 4mila se si considerano coloro che furono costretti a interrompere gli studi nelle accademie militari o che si ritirarono spontaneamente. Molti semplicemente perché osservavano la preghiera islamica o avevano la moglie velata. La vittima di quei soprusi sembra scatenare oggi una tremenda vendetta.

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IL FOGLIO Pag 1 Dannata Europa senza Vangelo di Camillo Langone Immigrazione, terrorismo e ascesa del clero neopauperista. Il cattochitarrismo non basta. Perché l’Europa rantola da quando ha rinnegato la sua vera religione Europa che sembri alla fine della decadenza e che guardi passare piccoli e grandi barbari neri, o ambrati dal sole feroce del deserto, mentre componi editoria li pensosi, tweet ironici, post commossi, tutti ugualmente inutili, ti scrivo. Europa che hai lasciato circondare il castello di Bouillon, in Belgio, da gruppi di donne fazzolettate: me lo racconta, turbato, un amico che lavora in Lussemburgo e che nel tempo libero visita le senescenti province di Fiandre e Vallonia. Come e quando tante maomettane sono arrivate nel pittoresco, verdeggiante paese? Goffredo di Buglione, "il capitano / che il gran sepolcro liberò di Cristo", scese da quelle mura per scalare quelle di Gerusalemme: ma tu Europa non leggi più Torquato Tasso e la nemesi ti punisce. Europa decrepita che dimostri valida la tesi di Todd Buchholz, l'economista di "The price of prosperity": "Con l'aumento della ricchezza, la natalità crolla e l'età media della popolazione cresce. Questo richiede un flusso di nuovi operai e comporta l'apertura delle frontiere agli immigrati che hanno il potenziale per frantumare la cultura prevalente". Io venni internettianamente lapidato quando scrissi che una delle cause del crollo demografico è l'istruzione universitaria femminile: Buchholz lo conferma, non è con l'aumento della povertà che aumentano le iscrizioni delle ragazze alla Bocconi, alla Sorbona o alla London School of Economics. Ed Erasmus, vista la sua efficacia nel ritardare, ostacolare, impedire la maternità di migliaia di giovani europee, potrebbe essere il nome di una marca di preservativi. Ma la causa principale della tua astenia è la tua apostasia, Europa. Da quando hai rinnegato la tua religione, la vera religione, non fai che rantolare. La religione che ti creò (nascesti con la battaglia di Poitiers, prendesti forma col Sacro Romano Impero), la religione che ti fece grande nonostante le tue dimensioni, la religione che ti diede i monasteri, le cattedrali, gli ospedali e, siccome derivante da ragione e non superstizione, i laboratori scientifici. Il primo a rinnegare Cristo fu san Pietro, quindi non mi avventuro a parlare di un fenomeno nuovo, sono nuove semmai le dimensioni. "Il più grande avvenimento recente - che "Dio è morto", che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile - comincia già a gettare le sue prime ombre sull' Europa", scrive Nietzsche alla fine dell' Ottocento. Prima la fede l'hanno persa i filosofi, com'è ovvio: purus philosophus, purus asinus. Poi gli scrittori, gli artisti, i musicisti: il passo successivo al nicciano "Gott ist tot" è il lennoniano "Imagine there' s no countries / it isn' t hard to do / nothing to kill or die for / and no religion too". Lennon era il più stolido dei Beatles (il più perspicace era ed è McCartney, non a caso uno dei pochissimi vip a mantenersi neutrale fra Brexit e Remain) e ogni volta che applaudi "Imagine" tu, Europa, diventi un poco più stupida e quindi un poco meno europea (tua caratteristica precipua era la qualità: la quantità è asiatica). Nel 1996 la celeberrima canzoncina anticristiana venne cantata davanti a Papa Giovanni Paolo II e non mi stanco di ricordarlo a chi pensa che la crisi dottrinale della chiesa cominci con l'ascesa al soglio di Papa Francesco. Nel 2016 è stata criticata via Facebook da Susanna Ceccardi, fresco sindaco leghista di Cascina, che ne ha sviscerato la natura comunista (e perciò, anche in questo, più asiatica che europea), evidente nel verso "Imagine no possessions". Evidente a chiunque non sia assordato dall' ideologia e per nulla evidente al clero pauperista che oggi ha sequestrato il cristianesimo, dimentico o ignaro di quanto il capitalismo debba alla teologia francescana medievale di Pietro di Giovanni Olivi e Giovanni Duns Scoto, a san Bernardino da Siena, a sant'Antonino da Firenze, ai domenicani della scuola di Salamanca. Sembra che la fede l'abbiano persa anche i tuoi preti, Europa. Quanti cardinali credono nell'esistenza del diavolo, nell'incarnazione, nella presenza reale di Gesù Cristo nell'eucaristia, a parte l'africano Sarah? Quanti fra i cardinali tedeschi, ad esempio? E in Austria? Europa debosciata dove accade che il cardinale Schönborn faccia entrare un giovane omosessuale, unito civilmente con un altro omosessuale, nel consiglio pastorale di una sua parrocchia. Dio è davvero molto misericordioso se dopo simili episodi non affoga la diocesi di Vienna nel pozzo del suo tradimento, e si limita a dissanguarla lentamente, dandole il tempo di un ravvedimento che però non si intravede. E intanto nelle scuole della capitale austriaca gli studenti musulmani hanno già superato gli studenti cristiani: come se nel 1683, davanti alle sue

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mura, avesse vinto il Gran Visir anziché Giovanni III di Polonia. Come se Marco d'Aviano non avesse meritato il titolo di Beato col sermone che entusiasmò i soldati poco prima della battaglia, Europa dannata che non sei altro. Europa calcolatrice che sbagli i calcoli, Europa di Angela Merkel che ha aperto le porte agli invasori per raddrizzare la curva demografica e continuare a pagare le pensioni: col risultato che nel medio periodo non ci sarà più la Germania e non verranno comunque pagate le pensioni. Europa collaborazionista che come sindaci delle tue metropoli eleggi islamofili o direttamente islamici, vedi Londra, amministratori autorizzanti moschee sulle quali si innalzeranno minareti dai quali si affacceranno muezzin: non hai appena visto, Europa, il tentato golpe turco, il ruolo dei muezzin nell'eccitare i tagliagole di Allah? Cambia occhiali, Europa. E già che ci sei cambia pure protesi acustiche: sei talmente sorda da affollare i concerti di Elton John, il ladro di bambini, di David Gilmour, grande chitarrista dell'epoca di Nilde Iotti, e di Bruce Springsteen, che già al tempo in cui aprii le orecchie al mondo, mille anni fa, mi faceva tenerezza per quanto era musicalmente grossolano e superato. Palestrina è più moderno, anche se dubito possa piacerti, Europa smemorata, un compositore così esemplarmente cattolico romano. Non piace nemmeno ai preti, così come il gregoriano e l'organo a canne: migliaia di parroci appartengono a un'altra religione, il cattochitarrismo, senza schitarrata la messa non sembra loro valida. Forse anche per questo "piccoli atei crescono", come scrive il sociologo Franco Garelli: mette tristezza, respinge, non attrae, un culto con una colonna sonora così programmaticamente di serie B. Europa che sembri alla fine della decadenza e probabilmente lo sei davvero, non per risollevarti, missione impossibile a viste umane, bensì per salvare il meglio del tuo patrimonio, per trasmettere il tuo lascito alle generazioni e ai popoli che verranno, certamente dobbiamo valutare l'Opzione Benedetto, la creazione di oasi di civiltà nel caos di un continente insanguinato dal nichilismo come in un romanzo di Cormac McCarthy. All'uopo ci vorrebbe un nuovo ordine benedettino (chi conosce i benedettini odierni dubita che possano salvare se stessi, altro che il continente). Sarebbe utile anche un movimento popolare e giovanile di educazione alla fede, tipo quello fondato nel 1970 dal sacerdote lombardo don Luigi Giussani. Si chiamava Comunione e Liberazione, qualcuno se lo ricorda ancora. Poiché a Roma ci sono due Papi e questo anche per i bendisposti è un fattore di confusione e strabismo, e tu, Europa, bendisposta non lo sei di sicuro, sappi che c'è un vescovo a Ferrara. "Questo sistema sociale si sta disfacendo", afferma monsignor Negri col pessimismo profetico che lo contraddistingue e lo innalza sul piatto paesaggio di talpe ottimiste. "In questo mondo dove tutto si dissolve e la solitudine domina la vita dei singoli e della società bisogna decidersi a non puntellare l'impero. I primi cristiani non puntellarono l'impero ma fecero semplicemente un'altra cosa: fecero il cristianesimo. Affermarono che Cristo era l'unica vera risposta sulla vita dell'uomo e del mondo. Ricostruiamo dunque le nostre comunità attorno a Gesù Cristo". L'islam che ti seduce tanto, Europa baldracca, è un fungo velenoso che cresce sulla tua decomposizione, un parassita sociale oltre che teologico (Maometto per scrivere il Corano ha sfruttato sia l'Antico che il Nuovo Testamento). Cos'è infatti la tua presente decadenza se non la fase putrefattiva della civilizzazione? Europa che tutto hai mangiato e tutto hai bevuto, come scrive Verlaine, e ancora ti gingilli con le guide dei ristoranti, con i programmi dei cuochi, perché la tavola è il talamo di chi non fotte più, non ti sto chiedendo niente perché niente mi aspetto da te. Io insieme a Rimbaud rimpiango la vecchia Europa dei parapetti antichi, ma è una cartolina ingiallita, un sospiro, non un fondamento. Non chiedo niente nemmeno alla tua cultura dato che, lo ha rimarcato Gabriel Matzneff, "il Café de Flore si inginocchia davanti ai barbuti fanatici di Libia, di Siria, così come una volta si inginocchiava davanti a Stalin". Ti ho scritto per dirti che vogliamo smettere di puntellarti, traballante Europa. Non possiamo rischiare che il Vangelo finisca sotto le tue macerie: se e quando ti ricorderai della tua giovinezza, e vorrai non rimpiangerla bensì riviverla, lo ritroverai intatto. Pag 2 Guerra (civile) tra gli imam francesi su islam e stragi jihadiste di Matteo Matzuzzi Roma. A quattro giorni di distanza dalla strage di Nizza, la spaccatura nella comunità musulmana francese si fa più profonda. La Conferenza degli imam presieduta da Hassen

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Chalghoumi (rettore della moschea di Drancy, immensa banlieue parigina non distante da Saint Denis) ha deciso di rompere ogni rapporto con il Consiglio francese del culto musulmano, organo ufficiale riconosciuto dalla République che ha voce in capitolo sull'edificazione di nuove moschee, sull'allestimento di mercati halal e che - soprattutto - è il primo interlocutore del governo su tutto ciò che abbia a che fare con la religione islamica sul suolo francese. L'accusa mossa dalla Conferenza degli imam al Consiglio del culto musulmano - il cui primo presidente è stato Dalil Boubakeur, passato alle cronache per essersi opposto alla visita in Francia di Salman Rushdie nel 1996 e, più recentemente, per aver proposto di convertire in moschee le chiese senza più fedeli a frequentarle, scatenando l'ira di diversi vescovi cattolici transalpini - è di non aver fatto nulla per prendere le distanze da chi, in nome dell' islam, s'è dato alla mattanza dell' occidentale infedele. Hocine Drouiche, imam di Nîmes e vicepresidente della Conferenza - che ha ritirato le dimissioni annunciate venerdì in cambio della rottura delle relazioni con l'organismo islamico ufficiale - nel suo tour compiuto nel fine settimana tra Nizza e Tolone ha parlato del "disgusto di tanti cittadini musulmani, praticanti e non praticanti, davanti all'immobilità e alla non reazione di questi (gli imam del Consiglio del culto, ndr) che danno l'impressione di chiara incompetenza e totale incoscienza circa la gravità della situazione". E questo, aggiunge Drouiche, "nonostante tutti i mezzi che lo stato offre loro ogni anno". Venerdì, con le vittime ancora stese sulla Promenade des Anglais, l'imam di Nîmes aveva chiesto ancora una volta che i responsabili musulmani francesi prendessero atto di quanto accaduto, parlando della strage nei sermoni del venerdì, accettando di intraprendere un percorso di autocritica e ammettendo che il problema fondamentale s'annida nell' interpretazione che viene data ai testi islamici, nelle moschee e nelle scuole coraniche. Messaggio non recepito. anzi. Dalle parti del Consiglio del culto musulmano sono piovute critiche ai referenti del fronte opposto, con l'accusa di "non rappresentare nessuno a parte loro stessi" e di essere solo alla ricerca di visibilità criticando l'islam con la scusa della scia terroristica che sta insanguinando il paese. L'imam di Nizza, Tawfik Bouhlel (solo omonimo dell' attentatore che a bordo di un tir ha causato la morte di 84 persone e il ferimento di altre decine) ha subito detto che il massacro dello scorso 14 luglio "non ha nulla a che fare con l'islam. Questo uomo (l'attentatore, ndr) non rappresenta l'islam. Temo che ci siano fanatici ovunque, in ogni quartiere. Possiamo sconfiggerli solo stando insieme". Una linea, quella di dire che l'elemento islamico nulla c'entra con la macelleria nizzarda o la fusillade al Bataclan, che rappresenta l'opposto di quanto la Conferenza degli imam va dicendo da tempo. Proprio in una conversazione con il Foglio, Hassen Chalghoumi - sulla cui testa pende una fatwa dello stato islamico da quando condannò la strage nella redazione parigina del settimanale Charlie Hebdo ("sei poliziotti vegliano su di me e la mia famiglia ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette") - disse qualche mese fa che "l' ascesa dell' islam politico è un enorme pericolo, qualunque forma esso assuma". Anche per questo, oltre che per il dialogo intrapreso con la comunità ebraica francese e le visite a Gerusalemme (Yad Vashem compreso), è stato in modo sprezzante definito "l'imam degli ebrei" dai più ostili correligionari della banlieue dove abita e lavora. Una posizione condivisa dal suo vice: "Il jihadismo vuole rompere la fiducia tra l'islam e l'occidente. Dobbiamo correggere i nostri errori, che hanno portato all'estremismo", ha detto Drouiche all'indomani dell'attentato di Nizza. "Non possiamo accettare l'importazione di un islam dai paesi arabi. Abbiamo bisogno di un islam europeo. Vivere un islam al modo dei sauditi, dei marocchini o degli afghani non potrà che creare conflitti nella nostra società francese". L'islam, aggiungeva, "è innocente, ma necessita di uomini coraggiosi per provare ciò. Perché oggi è molto difficile distinguere l'islam inteso come religione dall' islamismo considerato alla stregua d'una ideologia". IL GAZZETTINO Pag 1 La nuova strategia dei reclutatori di Carlo Nordio La rivendicazione, da parte dell’Isis, della paternità dell’attentato di Nizza, ha sollevato alcune perplessità, connesse essenzialmente alle caratteristiche del suo autore: uomo, si è detto, disordinato e dissoluto, ben diverso dai disciplinati e austeri martiri islamici votati al suicidio. Questi dubbi, solo apparentemente giustificati, riflettono in realtà il solito wishing thinking che si manifesta quando il nostro raziocinio stenta a spiegare

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certe atrocità, e si rifiuta anche di ammetterle. Perché, se le ammettessimo, dovremmo trarne conclusioni ben più allarmanti di quelle già dolorose finora raggiunte: non solo che siamo in guerra – concetto per molti già duro da digerire – ma che essa viene combattuta con armi sempre più fantasiose e micidiali, che riducono o annullano le nostre già scarse difese Ci spieghiamo. Il terrorismo, nelle sue dimensioni nazionali e internazionali, ha avuto un’evoluzione operativa: negli anni 70 e 80 esso esprimeva – si trattasse dell’Olp o delle Br – un’energia ideologica che a sua volta consentiva il reclutamento di agenti estremamente motivati e addestrati. La sua forza è stata anche la ragione della sua sconfitta: il tramonto del marxismo (per le Br) e una saggia combinazione di repressione militare e di accordi internazionali ( per l’estremismo palestinese) ne hanno quasi del tutto svuotato la ragion d’essere. E infatti, a parte episodi isolati, dovuti all’eterno conflitto arabo israeliano, l’Europa e il mondo occidentale sono vissuti abbastanza a lungo in pace. Con l’attacco del 2001 alle due torri, e la nascita del terrorismo religioso, è mutata la motivazione, ma è rimasta la tattica operativa tradizionale: i dirottatori di New York erano persone istruite e addestrate, inserite in un’organizzazione diretta da un personaggio ricco e intelligente come Bin Laden. Questo terrorismo aveva un nome e un volto, anche quando colpiva, apparentemente a casaccio, vittime innocenti. Era, in definitiva, un esercito di ombre, ma di ombre identificabili. E infatti, sia pure con fatica e tra mille sconfitte, l’attività di intelligence ha a lungo funzionato. Quando ha fallito, come a Parigi e a Bruxelles, i servizi di informazione sono stati accusati di scarsa vigilanza, perché gli autori erano noti alla polizia. Era vero, ma era anche comodo. Perché si pensava che, evitando quegli errori, si sarebbero evitati anche i prossimi attentati. E invece Nizza ha dimostrato esattamente il contrario. Mohamed Bouhlel, infatti, aveva ben poco in comune con gli altri suoi confratelli assassini: era manesco, vizioso e forse mezzo alcolizzato; e soprattutto era ignoto alla polizia, se non per marachelle di lieve entità. Da questo, come dicevamo, qualcuno ha concluso che l’Isis non c’entrasse nulla. E invece è arrivata la rivendicazione. Che significa questo? Significa che l’organizzazione – pur non difettando di martiri ansiosi di attivarsi – sta arruolando adepti anche tra gli insospettabili sbandati, estranei alla sua struttura operativa, per servirsene solo come strumento finale. Questo ha due conseguenze, entrambe drammatiche. La prima, che questi individui agiranno nel modo non solo più sinistro ma anche più imprevedibile: ieri un camion sul lungomare, domani una carrozzina dentro un asilo, e avanti così secondo la loro fantasia. La seconda, che l’attività di intelligence, l’unica veramente utile in questa battaglia, è resa ancor più difficile dalla stessa personalità di questi neofiti stragisti, scelti a caso da uno spregiudicato reclutatore. E così l’occidente, che già faticava ad affrontare una forma di guerra cui non era preparato, è ora minacciato da una tattica ancora più inattesa, resa più funesta, perché più insidiosa, dall’ impossibilità di delineare e persino di immaginare, il volto del nemico. Pag 2 L’ex ambasciatore Scarante: Bruxelles miope, Ankara può essere un pericolo di Maurizio Crema «È un golpe che sembra arrivare da un altro secolo, hanno pensato a occupare la Tv senza bloccare Internet. La verità è che oggi la Turchia non è più quella di mezzo secolo fa e che anche il mondo è cambiato: gli equilibri e i confini usciti dalla Prima guerra mondiale non sono più validi. L’Europa e l’Occidente sembrano non essersi ancora resi conto di questa rivoluzione». Gianpaolo Scarante, 66 anni, veneziano del Lido, ambasciatore italiano in Turchia fino al 2015 e docente di teoria e tecnica della Negoziazione Internazionale all’università di Padova, non sembra sorpreso dal putsch fallito ad Ankara: «Erdogan è al potere dal 2002 e ha sempre avuto come nemico l’esercito. Non dobbiamo poi dimenticare che solo una piccola parte dei militari si è schierata con i golpisti». Ora che accadrà in Turchia? «Non siamo più negli anni ’60 e ’70, la Turchia oggi è la sesta economia d’Europa, la 16. nel mondo. Un golpe avrebbe portato all’isolamento internazionale del Paese, l’establishment economico e politico non avrebbe mai tollerato una cosa del genere. Però non credo che sia stato un auto-golpe come molti sostengono, sarà solo un golpe che

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farà gli interessi di Erdogan e gli permetterà di regolare i conti definitivamente con i gulinisti, con quello che lui identifica come uno stato parallelo». Sarà per questo che l’Occidente ha reagito così timidamente al golpe? «Aver atteso 2 o 3 ore per una reazione ufficiale fa parte della prassi istituzionale. La verità è che ormai tutte le cancellerie occidentali hanno capito che la politica estera turca può essere un pericolo. Il Paese è più radicalizzato con un Erdogan che ha sempre più potere. Ma la Turchia non è la Libia: è sempre una nazione al centro dei grandi movimenti della Storia. Il problema è che non è detto che il suo sviluppo futuro sarà nell’interesse dell’Europa e dell’Occidente». La Turchia di Erdogan è un pericolo? «La sua politica estera neottomana in chiave islamica in Siria e nel Medio Oriente si è rivelata un fallimento. Erdogan oggi sta correggendo la sua rotta, ha riaperto le relazioni con Israele, dialoga con Mosca. Ma la verità è che si stanno sgretolando tutti gli equilibri costruiti dopo la Prima Guerra Mondiale e confermati dalla Seconda: niente sarà più come prima. Il Mediterraneo, contrariamente a quello che pensavano in molti in Europa, è tornato al centro del mondo per questioni economiche, di sicurezza, energetiche. L’Europa sta pagando la sua miopia e rischia di uscire da questi conflitti destabilizzata». Europa minacciata? «I conflitti del XXI secolo non hanno più un recinto dell’orrore. Quando è crollato il muro di Berlino si è aperto il vaso di Pandora, l’Europa non era preparata a questo. Ancora adesso trattiamo questi terroristi come degli squilibrati, non capiamo l’Isis e quello che sta accadendo in Medio Oriente. È fuori dai nostri schemi mentali. E le nostre democrazie appaiono deboli, disorientate. Il problema è proprio questo: come le possiamo ravvivare? Pag 18 L’identità della Turchia mette a rischio l’Europa di Fabio Nicolucci A tre giorni dalla Notte degli Stretti sul Bosforo, il modo con cui Erdogan sta chiudendo i conti con i golpisti sta aprendo una vera e propria battaglia sull’identità della Turchia. Sulla natura del suo Stato e sulla sua collocazione internazionale. Di fronte alla sua vera prima crisi statuale Erdogan sta infatti scegliendo di guardare a Putin più che a Togliatti. Di restringere il perimetro della legittimità nazionale e non di allargarlo verso una pacificazione, come invece fece il Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti con l’amnistia per i collaboratori del regime fascista del 22 giugno 1946, appena un anno dopo la fine di una terribile Guerra mondiale e di una drammatica guerra civile. E mentre Togliatti fece quel provvedimento a discapito delle pur comprensibili volontà di rivalsa della base del Pci e dei partigiani, tanto da essere velatamente accusato da Pietro Secchia di tradimento o ignavia, Erdogan pare invece volersi creare un nucleo duro di feroci sostenitori e entusiasti sodali. A quale scopo? Perché il dubbio è che, voluto o meno, il golpe possa essere l’occasione per Erdogan di ottenere quella “Presidenza assoluta” che egli non è riuscito sinora a raggiungere per via elettorale. Proprio perché la democrazia turca ha un suo spessore, pur con tutti i suoi limiti. Anche se proprio i golpisti gli hanno dato un bel colpo di piccone, aprendo la strada a reazioni fuori dal suo perimetro. Vanno in questo senso non tanto le pur spietate purghe all’interno dell’esercito, così come le macabre uccisioni di oramai inermi soldatini golpisti da parte di paramilitari dell’Akp (partito di Erdogan) e dell’estrema destra, con scene di decapitazioni e mutilazioni apparse per ora solo sui social network. E nemmeno la subitanea applicazione di liste di proscrizione per quasi 3mila giudici, un potere dello Stato composto di attempati signori che certo non hanno imbracciato il fucile venerdì notte. Con una fretta e precisione tanto sospetta da far dire al commissario Ue che ha in mano il dossier sull’adesione della Turchia all’Ue, Johannes Hahn, che esse “erano già pronte”. Il segno più preoccupante della possibile intenzione di Erdogan di finire il lavoro che non era riuscito a completare con le due ultime elezioni politiche, è piuttosto nella sua dichiarazione di “non poter ignorare la voce del popolo”, cioè le invocazioni dei suoi sostenitori ieri nelle strade per il ritorno alla pena di morte, abolita nel 2004 proprio per “europeizzare” il paese. Una dichiarazione emblematica, che ha infatti alzare la voce anche alla Cancelliere tedesca Angela Merkel. Soprattutto se la si mette accanto a quella rivolta con toni scomposti all’Amministrazione Usa – come se gli Usa fossero la Russia di Putin e non un paese dove vige la separazione dei poteri - di “estradare” il clerico diventato suo nemico,

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Fethullah Gulen, in autoesilio negli Usa dal 1999. Una richiesta la cui strumentalità ha fatto imbizzarrire pure quegli Usa che si erano schierati contro il golpe, soprattutto perché esso avrebbe cacciato la Turchia in un vicolo cieco e la regione ancor più nelle pesti. Se dunque questo sarà effettivamente il percorso di Erdogan, ciò metterebbe la comunità internazionale di fronte non ad una scelta, perché essa è stata già fatta ed in modo concorde nella notte di venerdì. Quanto piuttosto al fatto che la Turchia da possibile parte della soluzione delle crisi regionali diverrebbe del tutto – più degli effetti già nefasti della sua ultima e autarchica politica estera – parte del problema. Tali crisi infatti sono generate dall’incapacità della diplomazia europea e mondiale di fronteggiare l’interdipendenza che le sottende. Una Turchia che scelga l’autarchia e l’isolamento, e dunque escluda l’Ue come suo orizzonte, in questo terribile scenario regionale di ferro e fuoco potrebbe essere l’ultima pagliuzza che – come dicono gli inglesi - “spacca la schiena del cammello”. Perché se pure l’Ue va reinventata, non è certo il ritorno al concerto degli stati nazionali come monadi tra di loro la chiave per la pacificazione regionale e la stabilizzazione del Mediterraneo. LA NUOVA Pag 1 Aiuto nero al campione dei bianchi di Alberto Flores d’Arcais Cortei contrapposti, polizia ad ogni angolo, critiche feroci, polemiche e lo spettro di troppi morti recenti. È un’America divisa come non si vedeva da quasi mezzo secolo, quella che si ritrova (idealmente) a Cleveland per la Convention del Grand Old Party, il partito repubblicano che fu di Lincoln e Reagan e il cui futuro è adesso affidato alle mani di Donald Trump. Era dalla guerra dei Vietnam e dalle marce per i diritti civili che negli Stati Uniti la questione razziale non esplodeva con la sua scia di sangue e di vendette, ideologicamente ancora più marcata per la presenza del primo presidente afroamericano, che sembra assistere impotente dalle finestre della Casa Bianca. Cleveland oggi (e Philadelphia con la Convention democratica la settimana prossima) sono i luoghi simbolo di un paese - la prima superpotenza del pianeta Terra - che fatica a fare i conti col suo passato più recente. Pochi giorni fa, a Dallas, Barack Obama e George W. Bush si sono ritrovati uno accanto all’altro per onorare cinque poliziotti uccisi e denunciare la violenza di ogni parte. I due ultimi presidenti, sedici anni di storia recente d’America, che tra attacchi del terrorismo, guerre (Afghanistan e Iraq), divisioni ideologiche e conflitti razziali ha portato alle scelte di oggi: un candidato alla presidenza populista e fuori da ogni schema politico, una candidata la cui grande novità (sarebbe la prima donna ad entrare alla Casa Bianca dalla porta principale) è offuscata dall’appartenenza al vecchio establishment politico-finanziario, un quasi-candidato (Bernie Sanders) che si definisce socialista ed ha mobilitato una generazione di giovani (i millennials) le cui scelte e i cui comportamenti non sono facili da analizzare. Tutto ciò condito dal terrorismo interno (vedi i fatti di San Bernardino e Orlando) e dall’imporsi di un movimento di protesta radicale come BlackLivesMatter (le vite dei neri contano). A due-tre anni dalla sua nascita, dopo quanto accaduto a Dallas (cinque poliziotti morti) e a Baton Rouge (altri tre uccisi), si trova a fare i conti con una violenza a cui il movimento è stato finora estraneo ma di cui rischia di subire pesanti conseguenze. Con una conseguenza impossibile da immaginare fino a poco fa: che siano i neri (sia pure in modo involontario) a spianare a Trump, il campione dei maschi bianchi, la strada verso una presidenza che pochi mesi fa tutti ritenevano impossibile. Da Cleveland, dove ieri si è aperta la Convention repubblicana in un clima di grande tensione, The Donald rilancia il suo messaggio law&order, arrivando a farsi portavoce “ufficioso” di quella petizione - che in pochi giorni ha raggiunto 150mila firme - per mettere fuori legge BlackLivesMatter definendola una “organizzazione di terrorismo interno”. Come ha fatto fin dall’inizio della sua campagna elettorale, prima contro i suoi avversari all’interno del Grand Old Party e adesso contro Hillary Clinton, Trump con pochi e semplici slogan, che arrivano diretti alla cosiddetta "pancia" d'America, si erge a paladino di legge e ordine e risale nei sondaggi che (sia pure presi con le dovute cautele) indicano come sia oggi praticamente alla pari con l’ex First Lady e in alcuni Stati-chiave (la Pennsylvania) addirittura in vantaggio. Quanto accaduto nelle ultime settimane rende più debole la posizione di Obama - che deve destreggiarsi tra violenze contro i poliziotti e violenze della polizia contro gli afroamericani - a pochi giorni dal suo ingresso in campo a fianco di Hillary. Dopo le

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scelte ambigue sulla politica estera (Siria in primo luogo), il presidente vede volgere a termine il suo secondo mandato in un clima di divisione che è l’opposto di quanto aveva promesso in quella campagna elettorale del 2008 all’insegna della speranza e del “yes, we can”. Pag 9 Emergenze nell’Europa indebolita di Roberto Castaldi Le vicende e le emergenze delle ultime settimane indicano la straordinaria debolezza delle leadership politiche europee. La presunta egemonia tedesca si manifesta solo in un attendismo estenuante e paralizzante. Poiché la responsabilità politica ultima rimane negli Stati nazionali, la crisi degli stessi porta alla crisi della politica e all’assenza di leadership e di responsabilità politica. Dopo il referendum sulla Brexit, la classe politica britannica a capo del fronte per l’uscita si è data alla fuga. Alla fine la leadership tory è andata a Theresa May - che era schierata con Cameron per rimanere nell’UE - perché tutti i contendenti si sono ritirati. E lei ha rimesso i capofila dell’uscita nei posti chiave della negoziazione della Brexit, pronta a scaricare su di loro il costo politico di un eventuale accordo sfavorevole al Regno Unito. Il referendum ha mostrato che nessuno dei governi nazionali aveva un Piano per l’emergenza. Coloro che istituzionalmente dovrebbero esser chiamati ad avere un piano per lo scenario peggiore avevano preferito metter la testa sotto la sabbia, e si sono affrettati a cercare di prendere tempo. Solo le tanto vituperate e presunte burocratiche istituzioni europee hanno risposto subito: la Commissione e il Parlamento europeo con una plenaria straordinaria hanno detto che la democrazia è una cosa seria e il verdetto delle urne andava rispettato ed eseguito rapidamente. E che gli altri avrebbero dovuto rilanciare il processo di integrazione per mettere l’Ue nelle condizioni di affrontare i problemi che angustiano i cittadini per poterne recuperare il consenso. Sperare - come fanno i governi - che si possano cambiare le politiche in assenza di strumenti e poteri nuovi, e con il principio dell’unanimità per cui basta un solo governo nazionale a bloccare tutto, è irrealistico. La Francia è stata colpita da un ennesimo attentato terroristico durante la sua Festa Nazionale. Sono seguiti gli ormai usuali discorsi di circostanza e le lacrime di coccodrillo delle elites politiche europee sui morti di Nizza. Probabilmente con qualunque altro presidente francese precedente, questa serie di attentati avrebbe portato ad un’iniziativa politica per la creazione di un’intelligence europea e di una procura anti-terrorismo europea, il corrispettivo del Department of Homeland Security (Dipartimento per la sicurezza interna) creato dagli USA dopo l’11 settembre. Ma Hollande ha paura della propria ombra e in tutta la sua presidenza non ha preso un’iniziativa politica lungimirante, spianando la strada alla vittoria della destra, e allo scontro tra Valls e Macron per la candidatura presidenziale socialista nel 2017. In Turchia c’è stato un tentativo fallito di colpo di stato, che deve far riflettere sull’esplosività e contraddittorietà della situazione turca, tra involuzione autoritaria di Erdogan, attaccamento allo stato di diritto mostrato dai cittadini, indebolimento del tradizionale ruolo di custodi dello Stato laico e filo-occidentale dell’esercito. La Turchia poteva essere il modello per l’Islam moderato: ancorata all’Occidente attraverso la partecipazione alla Nato, con una sistema democratico, con riforme avviate a garantire stato di diritto e minoranze per poter eventualmente entrare nell’Unione Europea. Ora è nel pieno di una svolta autoritaria, favorita da una politica europea che l’ha respinta, incapace di comprendere che l’ingresso della Turchia nell’Ue era insieme la condizione del consolidamento della linea riformista occidentale da un lato e la carta per disinnescare la lotta di civiltà dall’altro. Naturalmente l’adesione della Turchia avrebbe richiesto prima un approfondimento dell’integrazione politica, perché avrebbe spostato i confini dell’Ue a diretto contatto con le aree di crisi. Comunque ci siamo arrivati, e in condizioni ben peggiori, poiché l’incapacità europea di unirsi dal punto di vista politico, e quindi della politica estera e di difesa, per colmare il vuoto di potere creato ai suoi confini dallo spostamento del focus strategico americano verso il Pacifico, ha portato a crisi gravissime in Ucraina, Siria, Libia, Egitto, oltre alla fragile situazione in Tunisia. Torna al sommario