Crescere all’estero: una strada possibile per le...

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1 Crescere all’estero: una strada possibile per le PMI Markus Venzin (Professore Associato, Università Bocconi) Gabriella Lojacono (Professore Associato, Università Bocconi) Federica Foce Massa Saluzzo (Research Assistant, Università Bocconi) La crescente integrazione dell’economia mondiale è stata favorita da alcuni fattori: l’ICT ha indubbiamente facilitato le relazioni commerciali internazionali e la gestione delle aziende con unità geograficamente distaccate; le barriere istituzionali si sono ridotte con conseguente apertura dei mercati; la logistica è stata interessata da enormi progressi (i costi si sono notevolmente ridotti, sono emersi imprese logistiche che servono in modo adeguato ed efficiente tutto il mondo, sono sorti centri logistici avanzati e l’informatizzazione ha consentito di gestire i processi logistici in modo rapido e senza errori) . Di conseguenza, si sono affermati colossi multinazionali con più di 500 mila dipendenti che si approvvigionano laddove è più conveniente per servire consumatori sempre più esigenti ed informati. Le “regole del gioco” sono mutate così come gli attori di riferimento nell’arena competitiva. La più grande banca al mondo non è più l’americana Citigroup con una capitalizzazione di oltre 176 miliardi di euro, ma la Industrial & Commercial Bank of China la cui capitalizzazione è di oltre 200 miliardi di euro. Le indiane Tata Group e ArcelorMittal sono le nuove protagoniste di un’ondata di acquisizioni con il baricentro in Paesi in via di sviluppo. L’area dei “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina) diventa, nel contempo, un interessante mercato di sbocco ma anche un pericoloso concorrente. Questi ed altri fenomeni costringono le imprese italiane a ripensare il proprio posizionamento strategico. Soprattutto per le piccole e medie imprese (PMI), questi cambiamenti rappresentano una sfida importante. Mentre le grandi aziende dispongono più facilmente di risorse manageriali e finanziarie per rispondere alla concorrenza internazionale, le PMI spesso affrontano l’internazionalizzazione in un modo destrutturato ed opportunistico. Il presente articolo ha dunque l’obiettivo di illustrare come le PMI, nonostante la loro dimensione, possano investire consapevolmente in un processo di internazionalizzazione. Per la stragrande maggioranza delle PMI questa è una strada obbligata per assicurare continuità ed autonomia. Dopo una breve sintesi della effettiva performance delle aziende Italiane

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Crescere all’estero: una strada possibile per le PMI

Markus Venzin (Professore Associato, Università Bocconi)

Gabriella Lojacono (Professore Associato, Università Bocconi)

Federica Foce Massa Saluzzo (Research Assistant, Università Bocconi)

La crescente integrazione dell’economia mondiale è stata favorita da alcuni fattori: l’ICT ha

indubbiamente facilitato le relazioni commerciali internazionali e la gestione delle aziende

con unità geograficamente distaccate; le barriere istituzionali si sono ridotte con conseguente

apertura dei mercati; la logistica è stata interessata da enormi progressi (i costi si sono

notevolmente ridotti, sono emersi imprese logistiche che servono in modo adeguato ed

efficiente tutto il mondo, sono sorti centri logistici avanzati e l’informatizzazione ha

consentito di gestire i processi logistici in modo rapido e senza errori) . Di conseguenza, si

sono affermati colossi multinazionali con più di 500 mila dipendenti che si approvvigionano

laddove è più conveniente per servire consumatori sempre più esigenti ed informati. Le

“regole del gioco” sono mutate così come gli attori di riferimento nell’arena competitiva. La

più grande banca al mondo non è più l’americana Citigroup con una capitalizzazione di oltre

176 miliardi di euro, ma la Industrial & Commercial Bank of China la cui capitalizzazione è

di oltre 200 miliardi di euro. Le indiane Tata Group e ArcelorMittal sono le nuove

protagoniste di un’ondata di acquisizioni con il baricentro in Paesi in via di sviluppo. L’area

dei “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina) diventa, nel contempo, un interessante mercato di

sbocco ma anche un pericoloso concorrente.

Questi ed altri fenomeni costringono le imprese italiane a ripensare il proprio

posizionamento strategico. Soprattutto per le piccole e medie imprese (PMI), questi

cambiamenti rappresentano una sfida importante. Mentre le grandi aziende dispongono più

facilmente di risorse manageriali e finanziarie per rispondere alla concorrenza internazionale,

le PMI spesso affrontano l’internazionalizzazione in un modo destrutturato ed opportunistico.

Il presente articolo ha dunque l’obiettivo di illustrare come le PMI, nonostante la loro

dimensione, possano investire consapevolmente in un processo di internazionalizzazione. Per

la stragrande maggioranza delle PMI questa è una strada obbligata per assicurare continuità ed

autonomia. Dopo una breve sintesi della effettiva performance delle aziende Italiane

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all’estero, viene presentato un modello a dieci fasi che supporta gli imprenditori nel loro

processo decisionale durante un percorso di internazionalizzazione.

Panorama economico internazionale: i cambiamenti in corso

Osservando le statistiche relative ai flussi commerciali internazionali si nota come se è

modificato il paniere dei mercati di approvvigionamento così come i settori in crescita. Da

tempo, i mercati di approvvigionamento si sono spostati verso l’estremo Oriente, la Russia e i

nuovi membri della UE. Gradualmente, questi mercati sono diventati anche interessanti

mercati di sbocco. I settori in Italia che avanzano più rapidamente nel contesto internazionale

non sono più il tessile e l’alimentare bensì quello degli apparecchi meccanici, dei mezzi di

trasporto, dei metalli, dei prodotti chimici, delle fibre sintetiche e artificiali, degli apparecchi

per uso domestico e di vetro e ceramica.

Ad incrementare il peso delle esportazioni di questi settori non sono le PMI, entità

caratterizzanti il contesto italiano bensì aziende di dimensioni medio/grandi che hanno

registrato un aumento delle esportazioni del 10% tra il 2000 ed il 2005 grazie ad

un’organizzazione strutturata e capacità di investimento superiori. Le aziende fino a 9

dipendenti hanno visto diminuire le esportazioni in modo piuttosto consistente nello stesso

periodo in esame (fonte: Ice 2006, Imprese).

Questi dati confermano che la competitività internazionale delle PMI in settori

tradizionalmente primari come quello del cuoio, dei mobili e dei prodotti tessili, sta

gradualmente riducendosi. A convalidare il dato della perdita di competitività internazionale

delle PMI Italiane sono anche studi condotti sul ruolo della struttura aziendale nel processo di

internazionalizzazione delle aziende familiari.1 Esse evidenziano come le limitazioni

strutturali in termini di disponibilità di risorse, di assetto proprietario, indipendenza della

gestione rispetto alla proprietà e stili manageriali,2 possono portare le aziende a controllo

familiare a scelte strategiche molto differenti, rispetto alle grandi imprese a controllo

manageriale, durante i processi di espansione internazionale.3

Alla luce di quanto detto, sembra delinearsi una scarsa propensione delle PMI ad

entrare in mercati esteri in modo strutturato. In particolare manca l’intenzione di impegnarsi

strategicamente nella attività di internazionalizzazione e perseguire profitti attraverso una

gestione occasionale dei rapporti con gli altri paesi, in modo opportunistico, cogliendo cioè le

opportunità di vendita/acquisto all’estero nel momento in cui esse si presentano.

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Per avere un ulteriore punto di vista su queste dinamiche e definire più chiaramente le

linee guida per la gestione del processo di internazionalizzazione illustriamo di seguito alcuni

dei risultati più significativi emersi dalle risposte al questionario somministrato alle aziende

appartenenti alla Camera di Commercio di Como in occasione dell’evento “Laboratorio

Como” tenutosi il 19 Giugno 2007. L’obiettivo del questionario era quello di individuare,

qualora esistesse, un archetipo del comportamento delle PMI nella gestione delle scelte di

internazionalizzazione. Il questionario online è stato inviato a più di 900 aziende e, sebbene

soltanto 20 di queste abbiano risposto, sono emersi alcuni utili spunti di riflessione: tutte le

aziende che hanno risposto esportano da più di dieci anni attraverso agenti diretti o

indipendenti; il 40% dei rispondenti afferma che le strategie di investimento nei Paesi esteri

non sono specifiche, ma possono essere utilizzate in altri mercati; per il 60% delle aziende il

fatturato estero ricopre una quota superiore al 50% del fatturato totale; l’80% delle aziende ha

visto aumentare il proprio fatturato estero negli ultimi 3 anni, ma la soddisfazione

complessiva sulla strategia di vendita all’estero non è soddisfacente.

Le aziende che hanno risposto, nonostante l’importanza relativa delle loro vendite all’estero,

non hanno ritenuto necessario modificare il tipo di esportazione né modificare le strategie di

investimento a seconda dei paesi. Questo comportamento sottende un’attitudine a “subire”

l’internazionalizzazione piuttosto che guidarla. Un cambiamento organizzativo organico, che

garantisca la sopravvivenza e favorisca la crescita delle PMI è un’esigenza ormai

imprescindibile. L’apertura verso nuovi paesi, non è più solo una opzione da cogliere in caso

di contingenze favorevoli ma una scelta obbligata, da coordinare in ottica di lungo periodo.

Si cerca ora di comprendere quindi quali sono le variabili da prendere in considerazione per

affrontare in modo strutturato il processo di internazionalizzazione e come gestirle.

Un approccio strategico all’internazionalizzazione

Nel contesto internazionale, i mercati dei singoli Paesi diventano sempre più integrati. Ciò

porta alla creazione di entità organizzative sempre più grandi, sistemi ICT sempre più

efficienti e all’esigenza, per le PMI, di interagire con interlocutori sempre più potenti

contrattualmente. Dati questi presupposti, a lungo termine, sarà difficile per molte PMI

sostenere una posizione competitiva con un modello di business puramente nazionale. Gli

imprenditori Italiani dovranno quindi considerare la leva internazionale prima che il mercato

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nazionale sia troppo saturo. Ciò non significa automaticamente che tutte le aziende siano

obbligate ad essere presenti all’estero cosi come non è detto che ne abbiano le capacità e

risorse.

L’internazionalizzazione, infatti, è in molti casi una strategia di crescita premiante, che

va condotta con attenzione, commitment e con metodologie specifiche a seconda del contesto

in cui si opera. Per avere successo all’estero bisogna necessariamente essere aziende del

calibro di Tod’s, Prada o Brembo? No. L’espansione internazionale è una opzione strategica

che tutte le aziende possono perseguire con buoni risultati indipendentemente dalla loro

dimensione. Ovviamente, le modalità cambiano a seconda dei settori e delle dimensioni

aziendali. La Geox di Mario Moretti Polegato, per esempio, nel 1992 presentava un fatturato

di 4,6 mio Euro. Con una crescita media annuale del 42%, l’azienda ha raggiunto nel 2006 un

valore del fatturato di 612,3 mio Euro.

Negli anni Novanta il gruppo Geox operava nel settore della calzatura e in quello

dell’abbigliamento portando avanti la propria missione di innovazione, in particolare orientata

ad individuare soluzioni tecnologiche in grado di garantire traspirabilità e impermeabilità.

Oggi Geox crea, produce, promuove e distribuisce prodotti innovativi protetti da brevetti in

tutto il mondo ed opera nel settore delle moda classic, casual, sport e fashion per uomo,

donna e bambino. Negli ultimi anni il gruppo Geox ha registrato una rapida crescita

internazionale e oggi è presente in 68 Paesi del mondo. Il 59% del fatturato è realizzato

all'estero, principalmente in Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti.

La vera crescita di Geox (circa 25% ogni anno) si è registrata a partire dal 2000, primo

anno in cui l’azienda ha deciso di aprirsi ai mercati internazionali. Il momento di apertura ai

mercati internazionali non è arrivato improvvisamente bensì quando l’azienda fatturava già 70

milioni di Euro. Questo non significa che per aprirsi ai mercati internazionali siano necessarie

dimensioni molto grandi, quanto piuttosto una profonda conoscenza del mercato interno e la

capacità di saper cogliere il momento adatto all’internazionalizzazione, prima che il mercato

interno sia saturo. Da quella fondamentale decisione, Geox ha esteso la sua presenza in 68

Paesi attraverso 10.000 punti vendita multimarca e 500 negozi monomarca. Nel caso Geox,

una azienda dove l’importanza di progettazione e innovazione sono elevate e dove il design

ed il made in Italy costituiscono un fattore critico di successo, tra le scelte cruciali sono state

effettuate:

Centralizzazione della funzione R&D;

Dislocazione di centri produttivi posizionati in Paesi a basso costo di manodopera;

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Riporto diretto dei responsabili di funzione estere ai responsabili di funzione italiani;

Accurata selezione dei Paesi in cui internazionalizzarsi (per capacità di controllo

dell’immagine, della marca, della qualità e accessibilità del prodotto);

Protezione dei brevetti a livello internazionale;

Adattamento del prodotto a seconda dei paesi.

Affrontare il processo di internazionalizzazione: un modello a 10 fasi

Per gestire processi di internazionalizzazione come quello di Geox, non esistono ricette

generalizzabili. Tuttavia è possibile delineare un percorso metodologico che aiuti il

management a interrogarsi, di volta in volta, in merito agli snodi critici della crescita

internazionale. Tale percorso prevede dieci aree decisionali che prendono le mosse da alcune

domande strategiche.

Figura 1: Gestire il processo d’internazionalizzazione

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1. Dobbiamo crescere?

La domanda non ha necessariamente risposta affermativa. Gli imprenditori italiani sono soliti

accontentarsi dello status quo perché preferiscono una redditività alta a breve termine

rispetto alla crescita dimensionale che può comportare perdita di autonomia a causa delle

risorse finanziarie necessarie. Nondimeno, esistono circostanze in cui crescere è la scelta più

adeguata. Ad esempio quando le risorse a disposizione dell’azienda aumentano

costantemente e non si è ancora scelta una allocazione nel lungo periodo di tali risorse o

quando il tipo di mercato impone economie di scala tali da dover competere solo su grandi

dimensioni o su nicchie di mercato.

2. La crescita attraverso l’internazionalizzazione è il modo più opportuno?

Le imprese dispongono di diverse opzioni di crescita: 1) la penetrazione del mercato; 2) la

diversificazione di prodotto; 3) la diversificazione geografica; 4) la vendita di nuovi prodotti

in nuovi mercati geografici. Le aziende sono stimolate a crescere internazionalmente quando

i clienti e/o i concorrenti si spostano verso i mercati internazionali, quando si desidera avere

accesso alle stesse risorse dei concorrenti (costo del lavoro, delle materie prime…), quando

si vogliono attrarre talenti internazionali, quando si dispone di un vantaggio di unicità che

permette di superare gli svantaggi di non essere una azienda locale. Per comprendere se

esistono delle opportunità insite nell’internazionalizzazione, occorre raccogliere

informazioni sui mercati esteri attraverso la partecipazione a manifestazioni fieristiche,

l’analisi di ricerche di mercato, il test di prodotto, le interviste ad opinion leader ed

intermediari commerciali.

3. Se si, quando è il momento opportuno per iniziare questo processo?

Un’azienda che valuta l’esigenza di espandersi verso nuovi mercati deve comprendere che

questa decisione ha un orizzonte temporale di medio periodo e che esistono fattori interni ed

esterni all’azienda che possono rallentare o accelerare tale scelta. Per nominarne alcuni: tra i

fattori interni riscontriamo le competenze specifiche per gestire l’internazionalizzazione (so

dove andare, con che business model..), la eventuale protezione dei brevetti, la capacità di

investimento e/o il supporto del management; tra i fattori esterni, il livello di saturazione del

mercato, l’esistenza o meno di fornitori già identificati, l’esistenza di un network capace di

innescare il processo di crescita internazionale e l’esistenza di pressioni competitive.

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Natuzzi, ad esempio, ha scelto ha scelto di entrare nel Far East per la necessità di competere

con prezzi più contenuti. Nel 1999 Natuzzi realizzava l’88% dei ricavi all’estero, ma con

alcune minacce all’orizzonte. Ormai, si stavano diffondendo prodotti realizzati in Cina

giudicati soddisfacenti dai distributori americani. I prezzi bassi rispetto alla stessa

produzione di Natuzzi erano legati al costo dei materiali e, soprattutto, del lavoro, tipico dei

Paesi in via di sviluppo. Gli stessi produttori americani avevano delocalizzato alcune fasi in

Cina o avevano fatto delle joint venture con aziende cinesi. Per sfruttare tali vantaggi, un

imprenditore italiano aveva fondato un’azienda in Cina, DeCoro per servire la fascia bassa

del mercato americano con prodotti di “Italian Design” a prezzi bassi. Natuzzi capì che era il

momento di fare degli investimenti diretti all’estero per affrontare la concorrenza sul prezzo

dei produttori del Far East sui principali mercati di sbocco. Nel 2001, vengono inaugurate le

fabbriche in Cina, Brasile e Romania la cui produzione (progettata in Italia) è

commercializzata in 85 Paesi con marchio Italsofa (40% della produzione del gruppo).

4. Quali sono i mercati più attrattivi?

Gli imprenditori italiani non sono soliti assegnare delle priorità ai vari mercati esteri e, di

conseguenza, allocare in ordine di importanza il budget disponibile per

l’internazionalizzazione. L’attrattività dei mercati target dipende da alcuni fattori tra cui la

rischiosità del Paese, la vicinanza/distanza culturale, l’adattabilità del proprio

prodotto/servizio, la propria forza competitiva, la dimensione della domanda e la redditività

media. Esistono strumenti istituzionali che aiutano l’imprenditore nella scelta dei Paesi più

sicuri; il sito SACE,4 ad esempio, offre una panoramica sulla rischiosità dei diversi paesi,

attraverso una mappa globale specifica e molto dettagliata e rappresenta un valido aiuto nella

raccolta di informazioni propedeutiche all’ingresso in un nuovo Paese.

5. Qual è la modalità di ingresso più opportuna?

Le modalità operative con cui l’azienda fa ingresso ed è presente all’estero possono essere

l’export indiretto, il licensing, investimenti diretti (produttivi) e filiali commerciali (export

diretto) ed il franchising. Le PMI frequentemente preferiscono l’export rispetto

all’effettuazione di investimenti diretti (acquisizioni, joint venture, crescita organica). La

scelta di come entrare in un Paese non risponde ad una regola generale; non è necessario

iniziare con le esportazioni dirette per poi seguire obbligatoriamente un flusso di

intensificazione di investimenti e scambi. Come nelle altre circostanze, la decisione dipende

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dalla struttura aziendale, dal tipo di prodotto/servizio offerto e dal mercato di sbocco. Spesso

però si può notare che le PMI hanno un atteggiamento opportunistico e non pianificano una

presenza strutturata nel territorio. Di conseguenza, la strategia di internazionalizzazione

dominante in tanti settori è l’export con un basso impegno: presenza in troppi mercati, con

una limitata conoscenza della struttura di ciascuno di essi, senza adattare il sistema di offerta,

con una presenza locale debole e una centralizzazione delle attività in Italia.

6. Quali sono i modelli di business e le strategie funzionali locali appropriati?

Un business model descrive le scelte relative al mercato di riferimento, al sistema di prodotto

e ai processi operativi. Con specifico riferimento alle strategie di internazionalizzazione,

queste scelte vengono declinate in termini delle aree in cui operare all’interno dei Paesi

prescelti, di clientela da servire (ad esempio, business vs retail), grado di adattamento del

sistema di prodotto e delle strategie funzionali (ad esempio, branding, packaging,

approvvigionamento, gestione del personale ecc.).

Valga l’esempio di Poltrona Frau oggi considerata un’azienda leader nell’allestimento di

teatri, showroom, hotel e aeroporti, anche grazie alla cura con cui vengono effettuate le

attività di prototipazione ed il post-vendita. Il suo business model è offrire sedute comode e di

design a clienti di fascia medio-alta. Tale modello all’estero è stato adattato alle peculiarità

del canale di riferimento (ossia le grandi “commesse chiavi in mano”), tenendo conto che

l’azienda non disponeva di una notorietà del marchio analoga a quella in Italia. Per tale

motivo, Poltrona Frau ha creato un rapporto di fiducia con alcuni tra i più grandi architetti a

livello internazionale (Calatrava, Foster, Meier), grazie al quale viene coinvolta in importanti

progetti dove la comodità e la linea delle sedute è fondamentale. Nel 2007, nel Middle East,

Poltrona Frau ha definito una joint-venture paritetica chiamata PFEmirates con Mubadala,

società di Real Estate posseduta al 100% dal Governo dell’Emirato di Abu Dahbi.

7. A quale velocità è opportuno penetrare il mercato?

Stabilita una presenza nel mercato, l’azienda può seguire diversi modelli evolutivi in termini di

quote di mercato e, di conseguenza, di modello di presidio e di commitment. Un’azienda può

porsi come obiettivo quello di raggiungere una quota di mercato del 20% entro tre anni in certi

Paesi; mentre altre aziende possono accontentarsi del 10% in cinque anni, ma entrare in più

mercati simultaneamente. Esiste una filosofia sottostante la prima scelta: l’importanza

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attribuita a first mover advantage, alle economie di scala, all’esistenza di risorse disponibili

all’interno dell’azienda e la disponibilità di modalità di crescita (ad esempio, acquisizione) che

permettono di acquisire velocemente quota di mercato.

Natuzzi e Snaidero hanno scelto di investire molti anni fa in modo deciso in alcuni mercati

come gli Stati Uniti e questo gli ha permesso di creare rapporti duraturi con gli intermediari

commerciali e la distribuzione americana e di costruire un’immagine di marca migliore a

quella di cui le aziende vantano nel mercato italiano. Quindi, non solo sono entrate

rapidamente in un mercato enorme, ma hanno dimostrato subito elevato commitment con

l’obiettivo di raggiungere velocemente un’elevata quota di mercato.

8. Quando è opportuno affrontare il mercato estero successivo?

Come per la scelta del primo Paese in cui andare ad operare, le scelte incrementali dipendono

da un’analisi ponderata di variabili quali il livello di saturazione dei mercati in cui già si

opera, il livello di conoscenza del nuovo mercato e la possibilità strutturale dell’azienda di

affrontare una nuova arena competitiva. Poiché difficilmente esistono due mercati

completamente uguali tra loro, per ogni nuovo mercato che si intende penetrare l’azienda

deve effettuare un nuovo business plan. Tuttavia, un’azienda che opera all’estero ha acquisito

delle competenze generali nel processo di internazionalizzazione che possono essere utilizzate

indipendentemente da specifici contesti geografici. Per molte aziende, quindi, la decisione di

entrare in un altro mercato dipende dalla disponibilità dei top manager di seguire un altro

progetto di espansione. Spesso, un approccio più prudente è più fruttuoso. All’estremo, è il

caso di Le Fablier nel settore del mobile, che ha deciso di puntare su un solo mercato (la

Spagna) dove raggiungere una quota di mercato simile a quella italiana prima di rivolgere

l’attenzione altrove.

9. Qual è l’architettura organizzativa più adatta?

L’aumentare della esposizione internazionale obbliga le aziende a modificare gradualmente

la propria struttura organizzativa. E’ dunque probabile che all’inizio del processo di

internazionalizzazione sia sufficiente che le relazioni con l’estero siano intrattenute dalle

stesse persone che gestiscono il mercato italiano. Quando il fatturato estero comincia ad

essere significativo si rende però necessario creare delle unità organizzative ad hoc: per

esempio la direzione commerciale estero oppure il servizio post vendita estero, fino ad

arrivare alla divisione per area geografica. Questa evoluzione può (e spesso deve) essere

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accelerata attraverso investimenti in strutture estere in ottica prospettica. Se l’imprenditore

italiano aspetta che il suo capo vendite italiano cominci a vendere anche all’estero senza le

risorse ed un forte incentivo per farlo, non favorirà l’internazionalizzazione della propria

azienda. In una fase più evoluta l’azienda deve anche affrontare il problema del tipo di

relazione che le unità locali devono avere con la sede centrale.

Molteni è un esempio di una struttura organizzata sulle basi di una buona adattabilità

ai Paesi esteri e una solida rete di vendita. L’azienda presidia le varie aree geografiche

attraverso una divisione export dipendente dal direttore commerciale così strutturata: 5 area

manager (2 per l’Europa occidentale, 1 per l’Europa orientale, 1 per Asia e Far East e 1 per il

Nord America) controllano 15 agenti; la divisione dispone di 6 corrispondenti interni divisi

per mercati che hanno il compito di coordinare le operazioni con gli agenti esteri. Inoltre la

direzione marketing dispone di una persona dedicata alla clientela estera per quanto riguarda

gli allestimenti e destìna una parte consistente delle sue attività a supporto delle operazioni di

export realizzando anche progetti ad hoc per i mercati di esportazione.

10. Qual è il grado ottimale di internazionalizzazione?

È vero che le imprese che esportano di più sono anche quelle che conseguono i migliori

risultati? La relazione tra il grado d’internazionalizzazione e la performance aziendale è un

argomento chiave della letteratura sulle strategie di internazionalizzazione. Tuttavia gli studi

di International Business, in quarant’anni, non hanno dato una risposta univoca a questo

quesito. Una recente indagine su 193 aziende del settore del mobile conferma che non esiste

alcuna correlazione tra livello di export e redditività (figura 2).

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Figura 2 – Livello di Export e ROE delle aziende del campione (2005)

Esistono però alcuni fattori che possono rendere la gestione della azienda internazionale

particolarmente costosa e limitarne un ulteriore sviluppo. Tra questi si rammentano i costi

associati al controllo delle filiali estere e alla complessità organizzativa. Inoltre, sono da

considerare i limiti derivanti dalla struttura del mercato, quali la regolamentazione nazionale

oppure la difficoltà nell’implementazione di strategie di crescita.

Conclusioni

I mercati nazionali diventano sempre più integrati e a lungo termine sarà difficile per molte

aziende sostenere una posizione competitiva con un modello di business puramente nazionale.

Per questo motivo, gli imprenditori Italiani devono considerare la leva internazionale prima

che il mercato nazionale sia troppo saturo e la loro competitività a livello nazionale ed

internazionale diminuisca. L’internazionalizzazione è una strategia di diversificazione

premiante, che va condotta con attenzione, commitment e con metodologie specifiche a

seconda del contesto in cui si opera. Una presenza più consistente all’estero non garantisce

una profittabilità più alta, ma tanti casi aziendali dimostrano che la leva internazionale è ormai

un fattore che deve essere parte integrante della strategia aziendale. La sfida che oggi le

imprese Italiane devono intraprendere per sfruttare con successo le possibilità offerte dai

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mercati internazionali risiede nel comprendere i driver di profitto peculiari della propria realtà

e di implementare queste strategie con determinazione.

1 (Entrepreneurial Entry Into Foreign Markets: A Transaction Cost Perspective - Zacharakis, Andrew L., Entrepreneurship: Theory & Practice, 1997, Vol. 21 Issue 3, p23-39, 17p.) 2 (Internationalisation and the Smaller Firm: A Review of Contemporary Empirical Research - Coviello, Nicole E., McAuley, Andrew. Management International Review (MIR), 1999, Vol. 39 Issue 3, p223-256) 3 (Specificità e linee guida della crescita internazionale delle aziende familiari - Carlo Alberto Carnevale Maffè, Markus Venzin, Imparare a crescere, EGEA, 2005) 4 http://www.sace.it/eng/rischi/index.aspx?TRS_ID=1558000, aggiornato al 5 Settembre 2007